Q 26 uesta settimana il menù è DA NON SALTARE “ Il principe 500 anni dopo La maratona rappresenta l’esistenza: ha punti bassissimi, che devi superare, e momenti d’estasi, che ti sforzi di prolungare. È un’esperienza spirituale attraverso la quale entri più profondamente in contatto con te stessa, trovando le risposte che cercavi Paula Radcliffe Campionessa mondiale di maratona nel 2005 Bausi a pagina 2 VUOTI&PIENI Michelucci e Detti a confronto A pagina 7 REBUS Miccini e la poesia visiva Mondaldi a pagina 6 SCENA&RETROSCENA La magia di un flauto RIUNIONE DI FAMIGLIA a pagina 4 Di orologi, di tempo e altre facezie Lodevoli iniziative Siliani a pagina 7 C U O .com DA NON SALTARE di Francesco Bausi* [email protected] F are la storia con i se non è corretto, ma può essere divertente e a volte anche utile. Se Dante non fosse stato esiliato nel 1302 senza più fare ritorno in patria, non avrebbe mai scritto la Commedia. Se Petrarca non avesse dovuto emigrare in Francia da bambino al seguito del padre, non avrebbe mai scritto il Canzoniere. Se Machiavelli nel 1512 non fosse stato rimosso dai suoi incarichi in cancelleria a causa del ritorno dei Medici al potere, non avrebbe scritto il Principe. Non si tratta di frasi a effetto: alla radice di tutte queste opere – tre fra i massimi capolavori della nostra letteratura e della cultura di ogni tempo – stanno infatti situazioni personali di lontananza, di isolamento, di solitudine. Solo un uomo ormai privo di legami con la realtà municipale della sua città e avulso dalle lotte di parte poteva conquistare la prospettiva universale che muove la Commedia; solo un uomo costretto a passare la giovinezza in una città straniera e cosmopolita come Avignone, dove le lingue della cultura e della comunicazione erano il francese e il latino, poteva approdare alla suprema astrazione linguistica e concettuale della poesia del Canzoniere; solo un uomo che non aveva più niente da perdere, e le cui uniche carte erano la conoscenza storica e l’esperienza politica, poteva comporre un asciutto libretto in cui l’ex esponente di punta di un regime repubblicano delinea con crudo realismo compiti e comportamenti del principe. Competenza vera, maturata in anni di politica, interna ed estera, fatta “sul campo”: questo mise sul piatto Machiavelli, nel 1513, per convincere i sospettosi Medici a servirsi di lui. Scrivere uno dei soliti trattati retorici in cui si idealizzava la figura del principe “virtuoso” e “giusto” non gli sarebbe servito a niente, perché, con i suoi precedenti, nessuno lo avrebbe preso sul serio. E poi non ne sarebbe stato capace: Machiavelli non era un brillante umanista o un fine dicitore, né, fino ad allora, si era mai misurato con la vera e propria trattatistica politica. Prima del 1513, nei rari intervalli concessigli dal suo lavoro, si era dedicato quasi soltanto alla poesia, limitandosi, per il resto, a stendere relazioni di ambascerie o brevi scritti ufficiali legati a situazioni contingenti. E poi, soprattutto, era abituato ad aggredire i problemi senza girarci intorno con le parole: un’abitudine che gli veniva dal suo carattere spigoloso, ma anche dalla lunga pratica come cancelliere e inviato della repubblica, incaricato di delicate missioni in cui gli era richiesto di comprendere rapidamente le situazioni, informando i suoi superiori con precisione e agendo con risolutezza. Non era nuovo, Machiavelli, alle scelte difficili. Fin dal 1503, inimicandosi larga parte dell’aristocrazia fiorentina, o 2 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 aveva promosso un progetto di ricostituzione delle milizie cittadine, ottenendo l’appoggio del capo della repubblica, il gonfaloniere Piero Soderini. In seguito, del Soderini sarebbe divenuto uomo di fiducia, al punto da legare a lui tutte le sue fortune: basti Il Principe anni 500dopo dire che quando la repubblica crollò e, nel settembre 1512, i Medici fecero ritorno a Firenze, in cancelleria Machiavelli fu il solo, insieme al suo collaboratore e amico Biagio Buonaccorsi, ad essere licenziato. Ogni volta, egli metteva in gioco tutto sé stesso, senza calcoli e cautele (il che può sembrare strano, visto il significato poi assunto dal termine “machiavellismo”): così fece anche dal 1512 in poi, diventando, da repubblicano, sostenitore dei Medici, perché in loro vedeva l’unico possibile argine contro lo strapotere e il conservatorismo delle vecchie famiglie nobiliari fiorentine. Ma solo nel 1520 la famiglia egemone lo riabiliterà: grazie ai Medici gli verranno affidate missioni politiche via via più importanti, una delle sue opere maggiori (il dialogo militare L’arte della guerra) sarà stampata a Firenze nel 1521, nel 1520 si rappresenterà a Roma la Mandragola al cospetto di papa Leone X (Giovanni de’ Medici) e tramite il cardinale Giulio de’ Medici gli verrà conferito l’incarico ufficiale di comporre le Istorie fiorentine. Ma il suo destino è paradossale: quando nel 1527 Firenze torna a costituirsi come repubblica, cacciando nuovamente i Medici, nel ruolo di cancelliere che dal 1494 al 1512 era stato suo gli viene preferito l’oscuro Francesco Tarugi. Per i repubblicani, molti dei quali erano stati fra i suoi amici più stretti, Machiavelli, che morirà pochi giorni dopo, è ormai da tempo un mediceo, perché ai Medici ha votato fedelmente da anni la sua attività politica e letteraria. Infatti, fra 1531 e 1532, sarà il secondo papa mediceo, Clemente VII, a promuovere la pubblicazione, tra Roma e Firenze C U O .com DA NON SALTARE (una Firenze ormai definitivamente tornata ai Medici e ormai chiaramente indirizzata verso il principato), delle sue opere maggiori, compreso il Principe. Gli amici di un tempo gli voltano le spalle: Luigi Alamanni, uno dei due letterati cui Machiavelli aveva dedicato la sua Vita di Castruccio Castracani, compone prima del 1528 una satira in cui il Principe è aspramente condannato come un libro immorale, responsabile della politica scellerata dei regnanti che hanno ridotto l’Italia in schiavitù. Non meno paradossale, del resto, fu anche il destino del Principe. Scritto con l’idea di dimostrare ai Medici la propria competenza politica allo scopo di essere da loro “adoperato”, il libro pagò lo scotto della propria arditezza politca e morale, e si rivelò ben presto inservibile: lo stato principesco “nuovo” che papa Leone, fra 1513 e 1515, sembrava intenzionato a concedere a Giuliano (e in vista del quale il trattato era stato inizialmente concepito, tanto che Giuliano avrebbe dovuto esserne il dedicatario) non vide mai la luce, mentre la situazione di Firenze – dove i Medici non disponevano di un potere assoluto – richiedeva la massima prudenza e non poteva certo essere affrontata con gli strumenti suggeriti nell’opuscolo. L’attualità di Machiavelli a mezzo millennio dalla sua opera più politica Qualcosa parve poter cambiare quando, fra 1515 e 1516, il giovane Lorenzo, nipote del pontefice e di Giuliano, assunse in città una maggiore autorità politica e militare, ottenendo anche il titolo di Duca d’Urbino e quello di capitano dell’esercito pontificio; per questo, Machiavelli decise di dedicargli il trattato, che però o non gli fu mai effettivamente consegnato, o in ogni caso non gli risultò gradito. Quando poi, nel 1519, Lorenzo morì, il Principe perse qualunque attualità: a capo della famiglia Medici restavano solo due alti prelati (papa Leone e il cardinale Giulio), nessuno dei quali ovviamente avrebbe potuto diventare “principe”, e che pertanto avevano tutto l’interesse a dar prova di moderazione nel governo cit- o 3 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 tadino. In tale contesto, l’apparizione di un libro come il Principe, dedicato a un Medici da parte di un uomo al loro servizio, sarebbe stata controproducente, cosicché Machiavelli dovette accontentarsi di veder pubblicate la meno “compromettente” Arte della guerra e una commedia come la Mandragola. A dire il vero, nel 1523 il Principe approda in qualche modo alle stampe, a Napoli, ma in forma davvero inconsueta: larghe parti dell’opuscolo, infatti, vengono riprese e “plagiate” nel trattato latino De regnandi peritia del filosofo aristotelico Agostino Nifo, che, dedicato a Carlo V, propone la consueta immagine “idealizzata” del regnante. Nifo, che era protetto da Leone X e che entrò in possesso del Principe tramite gli ambienti medicei fiorentini, normalizza, neutralizza o elimina molte delle parti più ardite dell’opuscolo machiavelliano; e se da esso ha talora ricavato la descrizione di certi comportamenti tirannici, afferma di averlo fatto solo affinché chi legge impari a conoscerli e ad evitarli. Una chiave di lettura, questa, che sarà recuperata nella dedica della seconda stampa del Principe (Firenze 1532), dove per la prima volta troviamo formulata quell’interpretazione “obliqua” del trattatello che tanta fortuna avrà nei secoli successivi, fino a Foscolo, secondo cui Machiavelli non ha voluto ammaestrare il tiranno, ma solo rivelare ai popoli i crudeli strumenti del suo potere. E sarà il prezzo che il Principe dovrà a lungo pagare per poter essere pubblicato e letto nell’Europa moderna. Uomo dei paradossi, dunque, Niccolò Machiavelli, sempre in prima linea nel sostenere le sue idee, soprattutto quelle più “scomode”, tanto che l’amico Francesco Guicciardini lo definì ingegno “stravagante”, lontano dalle opinioni comuni e “inventore di cose nuove ed insolite”. Ma ciò che più colpisce in lui è altro: la disponibilità a mutare le proprie opinioni e le proprie posizioni nel corso degli anni, passando da strenuo repubblicano a sostenitore di Piero Soderini, diventando quindi fautore di un potere mediceo prima “costituzionale” (o civile, come egli lo definisce) e poi principesco, per concludere la sua parabola come teorizzatore di uno stato “misto” in cui convivessero elementi democratici, oligarchici e monarchici. Considerato per molto tempo, in passato, esponente di una visione rigidamente repubblicana, Machiavelli è in realtà esempio – utile e attuale anche oggi – di un approccio anti-ideologico che sa realisticamente adattare il proprio punto di vista, e le soluzioni politiche proposte, al mutare dei tempi e delle circostanze, anche a costo di risultare, in tal modo, sgradito ai vecchi amici e sospetto ai nuovi. *Docente universitario di Filologia italiana e membro dell'edizione nazionale opere di Machiavelli e Direttore della rivista di studi quattrocenteschi "Interpres" C RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com LA RECHERCHE DELLE SORELLE MARX o 4 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 I CUGINI ENGELS Diamo tempo al tempo La vuota dimensione del tempo Lodevoli iniziative Il Bianconiglio è ossessionato dal tempo, che manca e che fugge (e non s’arresta un’ora direbbe il poeta, ma non c’è tempo per leggere le poesie ed è passato troppo tempo dal tempo del liceo) e quindi un orologio che non indica più il passare del tempo lo fa solo arrabbiare. "Presto, presto" grida alle piccole Alici che gli stanno intorno, non c’è tempo da perdere, bisogna far scorrere nuovamente il tempo, altrimenti non verrà mai il mio tempo. E ora che finalmente il tempo (intenso come fenomeno meteorologico) volge al bello non bisogna soffermarsi a guardare un orologio che è così da tempo immemore. Bisogna essere ricordati, il tempo allenta i ricordi (anche qui come canta il chansonnier, ma non c’è tempo per ascoltare le canzoni ed è passato troppo tempo dall’ultima serenata alla Bianconiglia) e bisogna fare qualcosa. Non posso mica passare per un temporeggiatore. Ma se non so che ore sono come faccio ad avere il tempo per fare. Quindi non è più tempo del analogico, largo al digitale: affidabile, preciso, chiaro e non perde un secondo che sia uno. Poi una volta che il tempo è sistemato, se rimane un po’ tempo, cambieremo anche il mondo. Ogni cosa a suo tempo. Caroline Marx Il nostro fichissimo e modernissimo sindaco ha aperto un nuovo fronte nella sua furia iconoclasta: si chiama rottama l’orologio. E’ andata così: passeggiando in piazza della Signoria, gli si è avvicinato un turista giapponese che gli ha chiesto: “excuse me, sir, what time is it?”. E lui si è trovato smarrito perché aveva lasciato a casa l’orologio e, si sa, il Nostro non ama trovarsi in ambasce. Alzando lo sguardo al cielo, ha incontrato l’orologio sulla torre di Arnolfo, ma… si è accorto che aveva una sola lancetta. Piantato in asso il turista giapponese, si è precipitato nel palazzo e ha interrogato i tecnici sul perché tenevano esposto al pubblico un orologio rotto. La risposta non lo ha soddisfatto e, all’incontro sui “100 luoghi” (ormai ridottisi a una decina), ha tuonato: “Ora basta con queste anticaglie! Nel XXI secolo non si può tollerare un orologio che certi turisti internazionali non sanno leggere e pensano che non funzioni! La solu- In un tripudio di alabardieri, tamburini, donzelle in costume rinascimentale, chiarine e gonfalone, con alla testa l’immancabile e imprescindibile presidente del Consiglio Comunale di Firenze, messer Eugenio di ser Giani, il 16 aprile scorso si è mosso dal Palagio di Parte Guelfa un variopinto ed eccentrico corteo verso il Battistero per commemorare la morte di Filippo Brunelleschi avvenuta 464 anni fa. Un evento memorabile (soprattutto per i turisti cino-nipponico-coreani e le loro fluorescenti macchine fotografiche). Si sono celebrate le glorie italiche e florentine fra ali di folla festante e lagrime di autentica commozione, in particolare nel momento alto e aulico della deposizione di ben due corone di mirto e alloro sulla tomba del Brunelleschi ad opera del suo frontespazioso epigono, messer Eugenio di ser Giani, che ha commentato con aulica favella la “lodevole iniziativa”. Messer Eugenio ha, in così radiosa circostanza, annunciato che qualora egli fosse eletto al più alto scranno di Palazzo Vecchio, il suo primo editto sarà quello di obbligare consiglieri eletti e dipendenti comunali ad indossare la calzamaglia rinascimentale per l’ingresso nel palazzo. Ma più di tutto, grande è stato il sussulto popolare nell’apprendere dalla magistrale lezione del presidente dell’associazione “Filippo di ser Brunellesco”, messer Massimo di ser Ricci, che senza il genio di Brunelleschi la volta di S.Maria del Fiore sarebbe rimasta ancor oggi opera incompiuta. Egli ha edotto tutti gli astanti sul fatto che “personaggi come Brunelleschi, anche se nel passato, sono una lezione per il futuro” e che “nell’imbecillità ci può essere solo la fine”. Giusto, plaudiamo anche noi alla lodevole (nonché profonda e originale) lezione. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti www.culturacommestibile.com [email protected] [email protected] www.facebook.com/ cultura.commestibile “ “ Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti zione è semplice: o si mette una lancetta dei minuti, oppure si leva tutto e si mette un orologio moderno!” Timidamente il funzionario cerca di spiegare che essendo un complesso meccanismo settecentesco, non si può chiamare un tecnico della Swatch per mettere una lancetta dei minuti. Anche il colto assessore Givone ha tentato di spiegargli che le cose non sono così semplici. Ma, niente, il Nostro non si dà per vinto: figurarsi se un intelligentone come lui si fa mettere nel sacco da qualche cacadubbio intellettuale e, siccome è il più ganzo di tutti, l’ha buttata in politica: “facciamo una bella riflessione filosofica: vi sto dicendo di mettere un orologio bello e che funziona, ma discutiamone pure. Ma, facciamo presto; non perdiamo tempo!”. Si mormora che Renzi stia pensando ad un bell’orologio a cristalli liquidi che spari nel cielo di Firenze l’ora esatta al laser. E così, il sindaco se l’è cavata alla grande, aggiungendo il 101° luogo al vuoto spinto degli altri cento. Henriette Marx Finzionario di Paolo della Bella e Aldo Frangioni Siamo profondamente sconcertati e scandalizzati dal fatto che uno scrittore di fama internazionale scriva una schifezza come questa. Come fa l’autore del “Il pomeriggio della zanzara”, libro di denuncia delle condizioni della donna africana e che, tradotto in Swahili, ha venduto quasi tre milioni di copie in tutto il Centro Africa, a scrivere “Il ballo delle ributtanti”? Un orribile pamphlet intriso di vomitevole misoginia. L’autore, a noi caro per il capolavoro “Vi sconsiglio l’Egitto”, narra di una serata di ri-debutto delle donne sopravvissute fra le debuttanti al ballo del 1961, signore che “avranno 70 anni nel 2013”. Leonardo Di Lascio si lascia andare (è proprio il caso di dirlo) a descrivere nei minimi particolari, anche i più intimi, gli interventi di chirurgia plastica che tutte le presenti alla serata hanno affrontato con l’intento, legittimo se si vuole, di dimostrare qualche mese di meno. Che vergogna! Brutto sfogo di un vecchio maschio che invece di accettare in serenità la pace dei sensi, dichiara guerra a quelle donne che grazie a qualche chilo di silicone e etto di botulino si rendono capaci di attrarre ancora gli uomini e soprattutto molto, ma molto, più giovani di lui. C VUOTI&PIENI U O .com o 5 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 di Corrado Marcetti E doardo Detti si laureò con Giovanni Michelucci nel 1940 e divenne suo assistente alla Facoltà di architettura di Firenze. Collaborò ad alcuni suoi progetti tra cui quello del Centro Didattico Nazionale in via Buonarroti con Giuseppe Gori ed Edoardo Ricci. Detti con Michelucci fece parte della Commissione interna della Facoltà d’architettura che pubblicò su “La na- Michelucci e Detti due visioni della città zione del popolo” del 4-5 settembre1944 il manifesto L’architettura e il nuovo stato. Insieme li ritroviamo nella Commissione macerie, nel progetto a concorso per il Ponte alla Vittoria, nel dibattito sulla ricostruzione del centro distrutto di Firenze, nel rinnovamento della Facoltà d’architettura e nella formazione di una cultura urbanistica attenta alle esigenze degli abitanti. Poi maturarono le ragioni della differenza. La diversità delle posizioni sul nuovo quartiere di Sorgane, il confronto tra la città del Piano, incarnata da Detti, e la città variabile proposta da Michelucci fu quanto mai lacerante. Detti era una persona pragmatica che ritenne ad un certo punto della sua vita di svolgere anche un’azione politica e amministrativa come assessore all’urbanistica. In quest’ambito varò il nuovo Piano Regolatore di Firenze, un piano ritenuto esemplare poi mille volte tradito. Michelucci contrastava la concezione demiurgica dell’urbanistica e la separatezza tra architettura e urbanistica, aveva un modo di pensare la città ricco di trame aperte senza determinazioni disciplinari immodificabili. Il confronto tra le due visioni della città, che si delinearono ancor più lungo il tragitto dell’impegno professionale di ciascuno, può dare elementi utili al dibattito sulla città contemporanea? E’ questo uno dei versanti più interessanti dell’incontro a più voci sul confronto tra Michelucci e Detti organizzato dalla Fondazione Michelucci e dal Comune di Pistoia nell’ambito delle iniziative “Leggerbe la città”. Al convegno, promosso dall’INU e dalla Fondazione Michelucci che coordina la discussione interverranno Giancarlo Paba, Raimondo Innocenti, Gabriele Cor- di Gianluca Giovannelli L’ esperienza italiana degli urban center, o delle “case della città”, è più che decennale. In molti casi sono state privilegiate le prerogative di comunicazione, in altri di informa- Per una nuova cultura urbana zione e conoscenza, quando anche di strumento partecipativo aperto al confronto. Alcune esperienze hanno avuto vita breve, perché legate solo a fasi decisionali particolari (piani urbanistici o strategici, grandi trasfor- sani, Paola Ricco. Un incontro senza rievocazioni ma teso a ricavare da quel confronto, pieno di intelligenza e di passione, elementi per le macerie dell’oggi, a partire dalla coniugazione di etica e progetto senza dicotomie tra aspetto teorico e prassi. mazioni urbane) o perché se ne era persa la motivazione generativa, per scelta politica o mutamento del contesto di riferimento. Diverse sono state le declinazioni in ragione delle differenti missioni e dei soggetti promotori. Le esperienze sono state tuttavia utili ad evidenziare le opportunità, unitamente alle criticità, dello strumento. E’ oggi possibile una verifica delle traiettorie evolutive, al fine di verificarne le potenzialità di futuro sviluppo. Si tratta di ridefinirne il ruolo, la missione e le funzioni in relazione alle mutate esigenze attuali ed al non secondario problema della riduzione delle risorse disponibili. In questa prospettiva l’urban center, inteso come luogo strutturato e durevole di conoscenza e di confronto sulle dinamiche urbane (luogo fisico, ma anche virtuale attraverso l’utilizzo del web), deve trovare nuovi significati e nuove relazioni, più aderenti alle esigenze della città e del cittadino contemporaneo, assumendo la configurazione di uno spazio aperto alla contaminazione dei saperi e delle esperienze, in un fertile confronto creativo. Torino, Milano, Bologna sono alcune grandi città che hanno da tempo intrapreso questa modalità di confronto in forme diverse e con esperienze diverse, mentre Rovereto e Ferrara portano una dimensione operativa più misurata sul territorio pistoiese: le loro testimonianze, insieme a quella fiorentina in fase di avvio, potranno contribuire ad aggiornare un quadro sempre più in evoluzione pesato sulle esigenze reali dei territori, L’appuntamento pistoiese intende inoltre aprire un primo confronto con la città sul tema, propedeutico all’avvio di un fecondo processo di rigenerazione di un comparto strategico della città, come quello che si presenterà con il trasferimento dell’Ospedale del Ceppo “liberando” la sede storica, la cui rilevanza richiede una costruzione partecipata e consapevole. Una iniziativa a cura del Comune di Pistoia e della Fondazione Michelucci nell'ambito della manifestazione "Leggere la città" - Info su www.michelucci.it C REBUS U O .com o 6 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 di Laura Monaldi [email protected] È necessario prendere coscienza del fatto che lungo le linee espressive dell’Arte contemporanea è difficile prendere posizione, né tanto meno ci possono essere teorie e ricerche disgiunte secondo approcci e metodologie diverse. In tal senso la Poesia Visiva nata proprio negli anni del caos filosofico, esistenzialistico e teorico, necessita di un’indagine analitica e fenomenologica, capace di rifarsi al principio eclettico del reale, ma soprattutto che sappia cogliere le sfumature gnoseologiche e ontologiche degli artisti, scrittori e intellettuali, negli anni in cui emerge la questione della morte dell’Arte, della necessità di una rottura con il passato, della consapevolezza che il canone si sia dilatato al punto tale da non riuscire più a gestire la totalità delle impostazioni ideologiche. Nel momento in cui la cultura ha messo in luce le proprie aporie e contraddizioni, la Poesia Visiva è affiorata qualificandosi come un fare artistico esoletterario, inserito in un presente giudicato ontologico e astorico, denso di complessità e in cui è impossibile distinguere i confini disciplinari. Di fatto la compenetrazione tra referente visuale e linguaggio, fra significante e significato – propria del fenomeno – fa dell’opera letteraria un oggetto estetico, grazie ai rapporti reciproci esistenti fra i vari elementi. Le relazioni, createsi fra parola e immagine, hanno posto in stretta connessione le istanze della cultura con le premesse sul discorso artistico–letterario e con la conseguente sovversione sia dell’idea di struttura e dell’ideologia neocapitalistica propria degli anni Sessanta, sia della neutralità ideologica della società di massa e di consumo avvertita dagli intellet- In alto Miccini, Il cuore chiama tuali, memori della grande ancora(1965 ), in basso a sinistra tradizione romantica e simboli- Miccini, Hommage a Cage sta. L’attenzione promossa dagli (1964) e a destra Miccini, Il intellettuali verso i nascenti poeta e la sua musa (1963) mezzi di comunicazione e il tec- Courtesy Galleria Carlo Palli nicismo diffuso ha posto le basi per una critica alla società di massa, condotta attraverso l’individuazione dei sottocodici immessi nel sistema linguistico, l’eversione e la mistificazione dei linguaggi tecnici e settoriali. Lo scopo è quello di sollecitare e approfondire i rapporti fra le diverse arti, contribuendo all’affermazione di una terza cultura. Primo fra tutti Eugenio Miccini era convinto che la letteratura dovesse operare il riscatto estetico dei simboli della società contemporanea, puntando a un uso comunicativo dei linguaggi tecnologici della nuova società. Fin dalle prime opere – datate 1962 – l’artista esprime tale necessità attraverso cancellature, interventi e manipolazioni, in cui la sintassi verbo– visiva emerge con tutta la sua carica contestativa, grazie a un metalinguaggio che si pone in equilibrio dinamico fra la parte verbale e quello iconica. Una prassi artistica che diviene ricerca poetica dell’estetica in continua parodia e contrapposizione al mondo: un oggetto culturale di ricerca teso all’analisi delle distanze drammatiche che separano la vita dai segni del mondo. Ilsignificante il e significato della Poesia Visiva C SCENA&RETROSCENA U O .com o 7 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 Foto di Alicia Peres di Simone Siliani [email protected] S aggezza, lavoro e arti: questo è il luogo degli dèi. Il tempio di Sarastro è il regno della saggezza. Liberato dagli orpelli scenici, dagli effetti speciali, da leziosità di maniera, barocchismi posticci, piume e paillettes, “Il flauto magico” di Peter Brook andato in scena – evento inaugurale della XX edizione di Fabbrica Europa – al teatro Era di Pontedera il 16 e 17 aprile, ha ritrovato Mozart. Come Tamino e Pamina, i due si sono presi per mano e hanno varcato insieme le Porte del Terrore e, liberati dalla musica, sono entrati nel Paradiso mozartiano. E’ una nuova iniziazione che ci restituisce, purificata in aria terra acqua e fuoco, l’essenza del “Flauto magico”. Se il santuario di Sarastro è il tempio della saggezza, allora tutto è ipocrisia. Non una edificante favola d’amore, bensì il disvelamento della contraddizione del nostro mondo: niente è quello che sembra, tutto è finzione. Nella notte in cui tutto si confonde e cambia di senso e il mago Sarastro avvolge tutto e tutti in una bolla opaca di tenebra e ipocrisia, che solo la musica saprà squarciare il velo dell’ipocrisia. Tutto è tenebra e anche chi cerca amore, amicizia e saggezza (Tamino, Antonio Figueroa) è impietrito dalla paura ed è ossessionato dalla vendetta (la talentuosa Regina della Notte, Malia Bendimerad). Ma la musica disvela l’arcano, rovescia la ferrea realtà e infrange l’ipocrisia dei bei tempi andati dove regnano dovere e ordine. La musica è elemento sovversivo e rende plausibile l’impossibile (Perché uno che ha l’anima nera dovrebbe rinunciare all’amore? Sarastro, Vincent Pavesi). Nel tempio di Sarastro purificato è bandita la vendetta, non per un afflato da lieto fine o di buonismo, ma perché la musica cambia di segno al Potere immenso dell’Ordine Antico; rivela la verità nascosta dalla pesante coltre di ipocrisia che avvolge il mondo. E’ questo lo spirito di saggezza: la follia dell’impensabile che ci guida, conclude l’opera, verso un paese migliore, dove anche il nemico trova il perdono. Chiudendo il cerchio, la chiusa torna al prologo: il Principe si prepara a governare, valicando le montagne, con costanza e pazienza. La regia di Peter Brook, essenziale fino ad essere scarna, distilla il capolavoro mozartiano e lo restituisce integro nella sua essenzialità. Il livello non omogeneamente eccelso delle voci passa necessariamente in secondo piano. E’ questo il senso dell’operazione culturale del regista: permettere a noi uomini e donne del XXI secolo di leggere, non in filigrana ma in primo piano, il messaggio eversivo e liberatorio del Flauto. Torna a suonare Foto di Renato Velasco forte il flauto magico Peter Brook a Pontedera per Fabbrica Europa Foto di Renato Velasco C ANTIQUARIUM U O .com di Cristina Pucci [email protected] “C uriosità e bizzarrie nelle Cacce incise dallo Stradano” titola la mostra in corso alla Villa Medicea di Cerreto Guidi (fino al 16 Giugno). Quale luogo migliore per incisioni aventi per oggetto scene di caccia, pesca e attività per la cattura di animali a fine di diletto dei divin Signori? La Villa di Cerreto fu voluta da Cosimo I in quel luogo allora ricco di boschi e selvaggina proprio per soggiornarvi con la sua corte e spassarsela cacciando. Donata al figlio Giovanni, fu teatro della morte di Isabella, figlia prediletta di Cosimo, uccisa da sicari prezzolati dal marito per lavare l’onta di un presunto tradimento. Così almeno si “romanza”. Vari passaggi di proprietà nel corso dei secoli la conducono nelle mani dello Stato grazie alla donazione dell’Ingegner Boldrini, suo ultimo proprietario. Ben restaurata, ospita dal 2002 il Museo Storico della Caccia e del territorio forte di una bella collezione di armi, oltre 500 pezzi, dal medioevo all’età moderna, per lo più provenienti dalla collezione Bardini. Una quadreria proveniente dalle raccolte medicee addobba e arricchisce le stanze, all’esterno, sotto le logge, una serie di antiche statue. Le antistanti “scalere” di mattoni rossi, imponenti ed inconsuete, sono del Buontalenti. Vale la pena di una visita anche senza mostre. Jan Van Der Straet, che italianizzò il suo nome in Giovanni Stradano, nacque a Bruges e si formò ad Anversa dove apprese,fra l’altro, l’arte di disegnar cartoni per arazzi. Fu poi in Italia fra Firenze e Roma. Le opere in mostra appartengono ad una serie di Cacce disegnate da Stradano ed ispirate ai cartoni per arazzi di argomento venatorio preparati da Vasari per arredare la villa di Poggio a Caiano. Stradano e un artista di Anversa, Philip Galle, dedito alla incisione e all’editoria, intuirono il successo per il Tema Cacce e ne stamparono una prima serie, vista l’immediata fortuna l’editore commissionò a Stradano altri disegni. La serie da cui sono tratte le opere esposte ne comprendeva 104 e si intitolata Venationes Ferarum, Avium, Piscium. Pugnae. Strapiene di persone, animali, scorci paesaggistici, alberi ed elementi naturalistici, figure mitologiche come dei e dee, animali di fantasia e motivi decorativi, possono essere ritenute appartenenti sia al filone dei naturalia ,di gran moda a fine ‘500, sia a quello delle vedute paesaggistiche in quanto vi si integrano questi due elementi figurativi. Alcune sembrano ritrarre il momento clou di una situazione, l’uccisione o la cattura o 8 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 Scene di caccia e pesca di Stradano a Cerreto Guidi di un animale, altre invece relegano la battuta di caccia sullo sfondo e dedicano il primo piano a uomini che si preparano ad essa, ad esempio caricando la propria arma. La fantasia è elemento dominante e da un tocco di giocosa ironia, ci sono api fra i volatili e lontre fra i pesci, si cacciano struzzi, orsi ,con l’armatura però, si catturano rondini, si pesca di notte alla presenza del Dio Arno e della Luna, si possono usare dei fuochi per catturare... farfalle e falene. Da vedere. SPIRITI DI MATERIA Dino Campana oltre il Mugello di Franco Manescalchi [email protected] Soffermarsi in piazza Tanucci, a Stia, è come stare nelle mura di un castello. Non a caso Dino Campana definisce la piazza “vegliata dal castello antico”. E penso proprio a Dino. Seduto fra la trattoria Filetto e un negozio di stoffe Casentinesi, lo sguardo volge a nord, all’ingresso da cui il poeta vi si introdusse con passo alpestre, mentre più in basso una lapide ne riporta i versi dai Canti orfici dedicati al paese. “e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Stia, 1972, nel 40° anniversario della morte.” Queste “signore ai balconi, poggiate il puro profilo nella sera” hanno infatti un non so che di dame medie- vali “di Stia, melodiosa di castelli sereni”. E penso anche alle Fiabe Casentinesi di Emma Perodi, ai fatti d’arme del Castello di Porciano dove si distinse il giovane condottiero Gentile de’Cerchi, oggetto di una serie di leggende. Quanto medioevo vive ancora in quelle terre, nella loro microstoria non ancora dimenticata, con i suoi miti e le sue beffe. Padre Antonio Bartolini (1820 – 1905) personaggio notabile di Stia, autore di molte pubblicazioni, in una di queste, “Cecchino e Nunzia”, Tipografia del vocabolario, Firenze, 1872, ci offre una panoramica dei castelli di Stia, così, a colpo d’occhio, come se li avesse sul palmo della mano: “...Ecco un altro nido di avvoltoi s’io non mi inganno, -disse il signor Leopoldo, -vedendosi in faccia una torre che dominava alcuni miserabili casolari.” “Quello è Porciano -prese a dire il dottore -di tali castelli, reputati con esagerazione da alcuni moderni come già nascondigli di belve feroci, ella quindi innanzi potrà vederne a sazietà. Alla destra di Porciano dalla parte opposta dell’Arno vedrà i resti di una bicocca. Egli è Castel Castagnaio. Tra quei monti - e volse l’indice a greco -rimangono tuttora vestigia di mura adeguate al suolo: gli indigeni chiamano quelle rovine il Castellaccio di Montemezzano. Quella collina, che abbiamo dirimpetto, seminata di case, e nella parte più bassa coperta di bei vigneti è la contea di Urbech. Fino sulle rive dello Staggia poco sopra alla confluenza di questo torrente con l’ Arno e quasi a contatto della più moderna terra di Stia, ella vedrà tra poco qualche rimasuglio di un fortilizio. Era questo l’antico Palagio, e quivi e ad Urbech ebbero dominio due rami distaccatisi dalla stirpe di un Tegrimo de’ conti Guidi, signori di Porciano.” Chi sappia ascoltare questo fascino remoto, avrà anche occhi per ammirare l’antica bellezza di tale paesaggio. C U O .com di Duccio Ricciardelli D allo scorso 11 aprile su Rtv38 finalmente sarà possibile vedere bellissimi documentari italiani in prima serata. Linea 8 l’esperimento di trasmissione televisiva che i Documentaristi Anonimi - Associazione Documentaristi Toscani, lanciano nel mondo dell’etere. Questo progetto di diffusione di “cinema del reale” nasce da una felice collaborazione tra FST – Mediateca Regionale Toscana, Quelli della Compagnia e Festival dei Popoli ed è sostenuto dalla Regione Toscana. La trasmissione è giunta al suo secondo anno di vita dopo il successo di pubblico dello scorso anno, grazie anche al pool di professionisti dei Documentaristi Anonimi che insieme alla trasmissione hanno dato vita ad una community on line dedicata alla critica e all’approfondimento dei film messi in onda. Sul blog di Linea 8 sarà possibile infatti vedere i trailers dei film, commentare le puntate ed interagire con la redazione attraverso facebook. Scopo della trasmissione è soprattutto quello di diffondere la cultura del documentario e di raggiungere una vasta audience in un mercato distributivo italiano che in questo momento non gode certo di buona salute. I cosiddetti “documentari di creazione” non ricevono infatti un’adeguata visibilità a confronto degli altri prodotti televisivi, come fictions, reality o trasmissioni di intrattenimento. In Italia esiste da anni una generazione di cineasti che grazie all’uso del digitale e all’abbassamento dei costi di produzione ha potuto cimentarsi in un nuovo cinema fatto di idee, contenuti ed impegno politico e sociale. L’Associazione Documentaristi Anonimi è una realtà che si impegna a fondo propio per la diffusione della KINO&VIDEO Linea 8 La realtà d’autore in tv o 9 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 cultura di questo nuovo tipo di autori, lavorando da qualche anno anche sulla formazione del pubblico con i “Cantieri del Documentario”, dei veri e propri momenti di scambio tra il pubblico e il regista che mostra davanti ad un audience il proprio percorso creativo. Il format di Linea 8 prende anche spunto da questo tipo di operazione. In studio il regista commenta il suo film e mostra spezzoni di film o scene che non sono state inserite nel montaggio finale. A casa il pubblico può intervenire sul blog e inserirsi in una discussione tra critici, appassionati e semplici spettatori o curiosi. Tra i prossimi appuntamenti di Linea 8 segnaliamo il film di Simona Risi “Le White, sulle famiglie delle case popolari di Rogoredo a Milano, vissute per anni in strutture interamente rivestite di pannelli di amianto e che si sono ammalate progressivamente di tumori e leucemie. Il 2 maggio sarà il turno del vulcanico “Cinema Universale D’Essai” del fiorentino Federico Micali, documentario dedicato alla famosa sala del centro di Firenze, dove le proiezioni dei film si trasformavano in degli happenings memorabili con una straordinaria e coloratissima partecipazione del pubblico. Il 9 maggio “My Marlboro City” di Valentina Pedicini, giovane regista formatasi alla Zelig di Bolzano, con un lavoro molto personale sulla città di Brindisi, tra ricordi, carcere e storie di marginalità. La programmazione degli altri film prosegue ogni Giovedì alle 21.10 su Rtv38, fino al 13 giugno, con repliche il martedì alle 00.40 circa. La trasmissione è anche visibile in streaming sul player messo a disposizione gratuitamente dal sito di Rtv38. Per partecipare al network di documentari collegato alla trasmissione consultare gli indirizzi: www.linea8.com/ www.facebook.com/linea8 C LUCE CATTURATA U O .com o 10 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 I confini della città di Sandro Bini www.deaphoto.it Un racconto per immagini dalla periferia fiorentina (2001-2013) Sandro Bini - I Confini della Città - Badia a Ripoli, il Bandino, S. Marcellino - Firenze 2012 LUCE CATTURATA Si apre giovedì 18 aprile alle ore 15, e rimarrà aperta fino al 5 maggio 2013, presso le Scuderie Granducali di Seravezza (Lu), Viale Leonetto Amadei 358 ( già via del Palazzo), la mostra fotografica di Silvia Amodio ( Milano 1968) dal titolo “Il ritratto sociale”. Un evento espositivo che rientra nel programma della X edizione di Seravezza Fotografia la rassegna curata dal direttore artistico Ivo Balderi, che fino al 9 giugno propone mostre, incontri di cultura fotografica, workshop, corsi organizzata dalla Fondazione Terre Medicee, dall’A ssessorato alla Cultura del Comune di Seravezza e i patrocini della FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Toscana, Provincia di Lucca e dell’Ambasciata del Belgio in Italia. Silvia Amodio è una fotografa professionista che da tempo si è specializzata sul tema del ritratto come mezzo di denuncia sociale. Questo perché legata alla visione Le foto sociali di Silvia Amodio classica dei grandi autori che si sono misurati con questo genere, privilegiando l’essenzialità che è diventato un tratto distintivo del suo stile. Nello scegliere i fondali, nel calibrare le luci, nel comporre le scene, Silvia Amodio mette un’attenzione e una cura che sono tanto più accurate quanto meno eclatanti: in tal modo anche le riprese che hanno richiesto le maggiori difficoltà appaiono a chi le osserva semplici ed immediate. La mostra raccoglie opere che fanno parte delle sue differenti ricerche su questo tema dove coniuga etica ed estetica affrontando, attraverso ritratti realizzati con rara sensibilità, temi complessi come la diffusione dell’Aids in Sudafrica, la sofferenza delle vittime dei preti pedofili, la dignità delle persone affette da albinismo. Con queste opere Silvia Amodio si è anche affermata nel mondo della fotografia d’autore mostrando i suoi lavori in Italia, Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Olanda. Ha pubblicato i volumi “Volti positivi” (2007), “Tutti i colori del bianco” (2012) “Nessun uomo è un’isola” (2012), “L’Aquila riflessa” (2012). Nel 2008 un’opera tratta dal progetto “Volti Positivi” è stata selezionata, unica italiana, al Taylor Wessing Photographic Prize indetto dalla National Portrait Gallery di Londra. Nel 2012 le sono stati assegnati il Premio Creatività-Nettuno Photo Festival e il Premio Città di Benevento per la fotografia. La mostra si può visitare fino al 5 maggio nei seguenti orari: dal giovedì al sabato dalle ore 15 alle 20 e la domenica ore 10 – 12; e ore 15 - 20. Il biglietto d’ingresso è di 6 euro intero e 4 ridotto. Informazioni: Fondazione Terre Medicee, tel.0584.757443, info: www.seravezzafotografia.it Seravezza Fotografia è anche su Twitter: @SeravezzaPhoto e Facebook: Seravezza Fotografia C ICON U O .com a cura di Aldo Frangioni 11 Alla scoperta [email protected] A lla fine degli anni ‘50 molti giovani artisti si ritrovano in una posizione di radicale contrapposizione verso l’arte informale sperimentando la necessità di un azzeramento del linguaggio artistico per cercare una nuova modalità espressiva. Questa rilettura porta gli artisti a muoversi all’interno della “linea analitica dell’arte” in più direzioni: da una parte l’”arte programmata” e le sue declinazioni cinetico-visuali, da un’altra la “pittura analitica”. In quest’ottica, come scrive Filiberto Menna “l’artista assume un atteggiamento analitico, sposta i procedimenti dal piano immediatamente espressivo o rappresentativo a un piano riflessivo, impegnandosi in un discorso sull’arte nel momento stesso in cui fa concretamente dell’arte.” L’opera d’arte non deve rappresentare nello spazio, ma piuttosto accadere nel tempo. Questi presupposti teorici vengono applicati da alcuni artisti (tra cui i protagonisti di questa mostra) tramite un deciso ritorno alla pittura nello stesso momento in cui da più parti se ne teorizza l’ineludibile scomparsa, ritorno accompagnato da un’approfondita riflessione sul processo pittorico in se stesso. Queste esigenze vengono sentite non solo in Italia ma anche in Francia e nel resto dell’Europa (Inghilterra, Germania, Olanda) e negli anni ‘70 sfociano appunto in un ritorno alla pittura, chiamata anche “pittura-pittura” o “nuova pittura”: definizioni che ne sottolineano la messa in discussione e la volontà di rifondazione dei suoi presupposti. La pittura analitica quindi esprime la sua tensione al rinnovamento attraverso un atto di autoriflessione che porta alla rivisitazione dei fondamenti e, negando qualsiasi velleità di rappresentazione o espressione soggettiva, persegue una ricerca operativa sugli strumenti linguistici della pittura stessa. Paolo Cotani (Roma 1940-2011) con le sue bende elastiche esprime l’idea dell’assenza di spazio pittorico tra i livelli di colore su una tela ribadendo l’azzeramento linguistico e degli strumenti tradizionali della pittura. Riccardo Guarneri (Firenze 1933) usa il suo bianco-luce con lievi oscillazioni di colore assoggettato ad una geometria per una ricerca strutturale del campo percettivo. Approfondisce il suo lavoro quale incontro programmato del colore con la geometria e la luce. Elio Marchegiani (Siracusa 1929) nella sua logica ricerca in un eclettismo formale, ma non sostanziale, affiancato da ironia e dal motto “fare per far pensare”, negli anni ‘70 entra a far parte della pittura analitica con le sue “grammature di colore” con le quali cerca una sintesi astrattogeometrica dell’affresco italiano con particolare attenzione al supporto (intonaco, lavagna). Claudio Verna (Guardiagrele -CH1937) considera il colore, con le sue infinite possibilità, come il vero catalizzatore della visione, in uno spazio che non deve essere rappresentato, ma evocato. o n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 della pittura analitica Sotto Paolo Cotani, Bende, 1976, acrilico su bende elastiche, 60 x 120 cm (dittico). A sinistra Claudio Verna, Olio 68, 1968, olio su tela, 120 x 100 cm Per Verna la pratica della pittura è un processo di costruzione-decostruzione che scompagina i sintattici. Gianfranco Zappettini (Genova 1939) sviluppa con rigore estremo un’analisi del linguaggio pittorico che esclude qualsiasi contenuto. Con i suoi lavori bianchi degli anni ‘70 e con i suoi scritti ha contribuito a dare una base teorica alla pittura analitica. Valmore Studio d’Arte, Vicenza Contrà Porta S. Croce, 14 -Dal 19 aprile 2013 al 14 giugno 2013 PUÒ ACCADERE Le mille e una via di Susanna Stigler [email protected] Italia, Aprile 2013 C ICON U O .com a cura di Aldo Frangioni [email protected] Nicola Martini con il suo “Nervo vago” fuoriesce dalla medulla oblungata, passando dal forame giugulare, passando dal torace alla cavità gastrointestinale; decimo delle dodici paia di nervi intracranici, è responsabile della frequenza cardiaca passando dalla peristalsi gastrointestinale, dalla sudorazione dei muscoli sfruttati dal parlato e dalla apertura della laringe durante l’inspirazione. Riceve inoltre sensazioni dall’orecchio esterno, e parte delle meningi. La sua materia, di cui la matrice è unitaria, si specifica a seconda delle regioni che interessa.Il progetto di Nicola Martini per il Museo Marino Marini entra direttamente nel sistema nervoso del museo, va a inserirsi nell’architettura entrando nelle nervature, negli spazi di connessione tra esterno e interno, tra materie differenti, tra penetrazione e compenetrazione di luce e buio. Martini, come sempre nella sua pratica, innesca frizioni nella natura degli elementi che costituiscono la sua scultura, stabilisce un rapporto diretto con la materia sia essa quella delle opere da lui realizzate sia essa quella degli elementi strutturali e costruttivi, in questo caso l’architettura del museo 12 Un giallo da risolvere e nervi da scoprire al Museo Marini A l Museo Marini il 19 aprile si è inaugurata la mostra Department store at night (Five impossible Films, 1) progetto inedito prodotto dal Museo, di Matthew Brannon (St. Maries, Idaho, 1971) insieme Nervo vago del fiorentino Nicola Martini (1984), tra i migliori giovani presenti nel panorama italiano. Matthew Brannon negli ultimi dieci anni di lavoro ha creato opere nelle quali la tensione tra testo e immagine è presente come vero e proprio elemento di costruzione del lavoro, anche se mai questo rapporto è stato pensato come elemento narrativo tra le due parti. L’elemento di fiction attinge da suggestioni che l’artista ha avuto durante i sopralluoghi al Museo Marini e dalla città di Firenze, nella quale il department store è oggi l’elemento caratterizzante l’aspetto del centro cittadino, dove ogni luogo è destinato al commercio, qualunque sia la sua natura, e dove una vivace vita diurna si alterna ad una tenue, quasi spenta, vita notturna, animata da fatti di ordinaria cronaca di provincia, nella quale tutto può apparire eccezionale. o n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 C Le storie di Pam U O .com NUVOLETTE o 13 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 www.martinistudio.eu C PARIGI VAL BENE UNA FOTO U O .com di Danilo Cecchi [email protected] Q uesta è una storia che mi hanno raccontata un giorno a Parigi, davanti a due bicchieri di pastis, e che ripeto senza aggiungere o togliere niente. Parigi, 1918 – Un giovane capitano di Artiglieria, di nome Antoine Pol, poeta dilettante, torna dalla Grande Guerra, e prima di ripartire per l’Alsazia, come ingegnere minerario, pubblica un suo breve poema “Les Passantes”, scritto dieci anni prima, quando aveva solo vent’anni, ed ispirato vagamente alla “bella passante” di Baudelaire. Il poema viene stampato in una edizione mai messa in commercio e tirata in soli 125 esemplari. Parigi, 1942 – Un ventenne aspirante poeta, di nome Georges Brassens, trova al mercato delle pulci della Porte de Vanves una copia del libretto, si incuriosisce, e la acquista per pochi soldi. Parigi, fine anni Sessanta – L’ormai affermato poeta e cantautore Georges Brassens decide di musicare il poema di Pol, ed incarica il suo segretario di rintracciare l’autore, ma nonostante le assidue ricerche, Antoine Pol non viene trovato. Parigi, 1970 - Il segretario di Brassens riceve per telefono una richiesta di autorizzazione per la pubblicazione dei testi di una decina di canzoni. Non ci sono problemi, a nome di chi deve essere intestata l’autorizzazione? Ad Antoine Pol. Quell’Antoine Pol che ha scritto “Les Passantes”? Sì, ma come fate a saperlo? Georges Brassens ha musicato il vostro poema, e vorrebbe effettuare la registrazione. D’accordo, parliamone. Poco tempo dopo Brassens richiama, ma la moglie Yvonne lo informa che nel frattempo Antoine è morto. Georges ed Yvonne si incontrano alla fine del 1971, e la canzone viene incisa e pubblicata nell’ottobre del 1972. Come sappiamo, la storia non finisce qui, perché anche De André nel 1974 traduce liberamente ed incide “Le passanti”. Ma Brassens non utilizza l’intero testo di Antoine Pol (e non lo fa neppure De André). Dei nove gruppi di sei versi ciascuno, Brassens ne mette in musica solo sette. Quelli mancanti sono i seguenti: Alla ballerina sottile e sinuosa / Che sembrò così triste e nervosa In una notte di carnevale / Ma volle restare sconosciuta E che non è mai più ritornata / A volteggiare in un altro ballo. A quelle timide amorose / Che rimasero silenziose E portano ancora il vostro lutto / A quelle che se ne sono andate Lontano, tristi ed abbandonate / Vittime di uno stupido orgoglio. Questo il testo originale: Antoine e Georges Due poeti che non si incontrarono mai BIZZARRIA DEGLI OGGETTI Dalla Collezione di Rossano a cura di Cristina Pucci Una Pompa di benzina mignon, da negozio, sosta anni ‘60. Anche se di piccole dimensioni, è alta una ventina di centimetri, è in tutto e per necessaria tutto simile a una vera pompa di benzina di quelle per che si trovavano per strada in quegli anni, serviva per ricaricare gli accendini. E come per le automobili si continuare inseriva la pompa nel serbatoio dell’accendino, un a fumare clic, una dose di benzina, 5 lire e voilà! [email protected] Pronto per accendere decine di sigarette! Andare dal tabaccaio a ricaricare l’accendino del babbo era un giochino molto divertente! Oggetto, questo, piuttosto raro, beccato sul banco di un qualche mercatino amatoriale. o 14 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 A’ la fine et souple alseuse, / Qui vous sembla triste et nerveuse Par une nuit de carnaval, / Mais voulu rester inconnue, Et qui n’est jamais revenue / Tournoyer dans un autre bal. A’ ces timides amoureuses / Qui restèrent silenciesuses Et portent encore votre deuil, / A’ celles qui s’en sont allées Loin de vous, tristes, esseulées, / Victimes d’un stupide orgueil. (Antoine Pol) C ANGOLO PROUSTIANO U O .com o di Marco Pacioni [email protected] P er arrivare ad essere quel titanico processo che è, la Rechercheè stata preceduta da prove di scrittura che nel metodo e nel merito possono essere considerate come una disciplina. Molte delle prose che nel 1896 escono sotto il titolo Les plaisirs et les jours rientrano a pieno titolo sotto questa etichetta. Soprattutto quelle ora proposte sotto il titolo Snob (trad. it. di Mariolina Bongiovanni Bertini, Nuova Editrice Berti, pp. 93, 9 euro). Il primo racconto, Violante o la mondanità porta in esergo un passo dell’Imitazione di Cristo. Benché votate all’affinamento della scrittura e dunque metodologicamente disciplinari, queste prose lo sono anche nel merito cioè nel contenuto suggerito dal titolo. Dal cortigiano al gentlemen, dalla cortigiana alla nobildonna, dal dandy al punk, dall’esteta alla diva si passa da una disciplina della forma di vita, qual era quella del monaco e della monaca, alla disciplina della vita di forma che anziché lavorare a togliere, a spogliarsi di sé deve continuamente rivestirsi d’altro e d’altri per darsi appunto una forma. Tale protendere della vita continuamente fuori di sé per garantirsi il sé, il continuo bisogno di assumere una propria fisionomia solo se questa è scorta sullo sguardo degli altri comportano un continuo rischio di dispersione cui nessuna vigilanza, pur strenua, può garantire sicurezza. Lo snobismo è l’atteggiamento che cerca di allertare sempre tale vigilanza. Nonostante l’aura di condanna che queste prose sembrano a tratti avere verso lo snob, più che a considerazioni moralistiche Proust è interessato alla descrizione del processo che caratterizza questo tipo umano. Un processo che si svolge nei rituali della vita mondana, ma che ha come vero paradigma l’opera d’arte, l’oggetto di lusso e già anche il luccichio della merce. In altre parole, ciò che è in gioco nello snob è quello che Benjamin, sulla scorta di Baudelaire, avrebbe chiamato valore espositivo dell’arte. Ed è in tal senso che le note disciplinari che Proust prende attraverso queste prose portano dritte a ciò che gli sta più a cuore e cioè la scrittura, la letteratura. Ma prima della Recherche lo scrittore snob è colui che non si è ancora risolto ad essere personaggio interno alla propria opera. Sta con un piede dentro l’opera e uno fuori rischiando così di dissipare la letteratura stessa fuori dalla scrittura e cioè appunto nella mondanità come fanno i personaggi di Flaubert, Bouvard e Pécuchet in un’altra prosa di questo volumetto. “Ora che abbiamo una posizione, disse Bouvard, perché non darci alla vita mondana? Pécuchet era d’accordo, ma bisognava poter brillare in società e a questo scopo studiare gli argomenti dei quali si discorre nei salotti. La letteratura contemporanea è di primaria importanza. Bouvard e Pécuchet si abbonarono alle diverse riviste che la diffondono e le lessero ad alta voce, sforzandosi di scrivere qualche pagina di critica e ricercando soprattutto la disinvoltura e la leggerezza dello stile, in vista dello scopo che si prefiggevano”. 15 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 Prima della Recherche Proust era Snob C ODORE DI LIBRI U O .com di Marco Pacioni 16 finizione identitaria e dunque con categorie diverse che vanno oltre la logica binaria nemico / amico, verso le ben più capillari, totalitarie dicotomie e simbiosi della bio-politica. [email protected] E ccetto un testo già pubblicato in appendice a Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941 – 45 (Edizioni di Comunità, 2002), sono stati da poco tradotti gli altri Jewish Writings di Hannah Arendt, alcuni dei quali precedenti e contemporanei ed altri successivi a quelli della raccolta ‘41 – ‘45, sotto il titolo Politica ebraica (trad. it. di R. Benvenuto, F. Conte, A. Moscati, Cronopio, pp. 306, 26 euro). La scelta del titolo da parte dei curatori italiani offre un preciso suggerimento di lettura. Come conferma anche la Postfazione di Clemens-Carl Härle e Antonella Moscati, tale suggerimento consiste nel dare rilievo alle dimensioni dell’identità e del politico. Negli scritti qui raccolti si designano due fasi di interpretazione di queste due dimensioni presenti nel titolo. La prima fase è quella in cui Arendt evidenzia come non sia e non debba essere la definizione di un’identità la base dell’azione politica, ma al contrario è il politico che scaturisce dell’opposizione amico / nemico a determinare un’identità che, se minacciata, occorre difendere. In tal senso Politica ebraica è un atto in negativo, eccezionale, una risposta a chi attacca gli individui costringendoli dentro un gruppo per difendersi. Li spinge a trasformare il dato di fatto di essere ebrei entro una forma politica che strutturalmente è la stessa del nemico. È per questo che il dato di appartenenza alla nazione ebraica per Arendt non può essere assunto positivamente. La nazione non dovrebbe diventare stato. Ciò obbligherebbe a trasformare altri gruppi in nazioni nemiche. È nel momento della necessità, dell’eccezione dunque che emerge il lato negativo del politico, dell’identità. Tutti questi elementi fanno capire quanto, le categorie di Arendt risentano del dibattito sulla sovranità e la natura del politico che ha in Benjamin, Sholem, Schmitt e Kelsen alcuni fra i protagonisti. La Shoah cambia tutto. Gli scritti successivi al 1943, quando Arendt inizia a sapere dello sterminio, determinano la seconda fase di interpretazione della relazione fra identità ebraica e politico. I vari tipi di antisemitismo che pure Arendt ha cura e acume di elencare e differenziare, con la Shoah risultano insufficienti. Con il nazismo, l’antisemitismo diventa funzionale allo sterminio e quest’ultimo funzionale all’istaurazione di un potere totalitario. Tale nuova dimensione dell’odio verso gli ebrei è la ragione principale per la quale Arendt rinuncia alla pubblicazione indipendente dello scritto Antisemitismo, presente in questa raccolta, e ne fa confluire la materia, in Le origini del totalitarismo. Negli scritti che risentono della inusitata nuova materia etica che esce dai campi di sterminio, nel già citato libro sul totalitarismo e anche in Vita activa, Arendt esprime l’esigenza di capire l’enormità e la specificità del genocidio ebraico oltre la sua stessa de- o n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 L’antisemitismo prima e dopo la Shoa ODORE DI LIBRI Diario amaro del sessantotto di Leandro Piantini [email protected] Franco Petroni, studioso di italianistica di lungo corso, da parecchi anni si è messo a scrivere romanzi per i quali mostra di possedere un genuino talento. Di recente ha ripubblicato quello dedicato al sessantotto, uscito per la prima volta nel 1995 e ora riproposto con notevoli modifiche. E’ una narrazione aspra e dissacrante, svolta attraverso il diario di una studentessa universitaria che partecipa alle lotte di quell’anno lontano che vide la rivolta studentesca dilagare in tutto il mondo. La ragazza protagonista è un tipo strano. Viene da una famiglia benestante ma non crede in niente e non ha fiducia in sé. Racconta quello che succede nella sua città, che non viene mai nominata. Vede e registra i fatti: lotte sempre più aspre e un narcisismo imperante tra gli studenti. I capetti in lizza si scontrano per il potere e all’acume della ragazza non sfugge una cosa importante: “I giovani..si sono trovati d’accordo nel volere per sé una parte del potere”. In quell’ambiente emerge come leader indiscusso “Il fighetta”, soprannominato così dagli operai tra i quali predica il suo verbo rivoluzionario: “E’ una forza della natura. Non sta fermo un momento. Picchettaggi e comizi volanti la mattina all’alba davanti alle fabbriche, corse da una fabbrica all’altra…col compagno di turno che gli fa da autista. Assemblee il pomeriggio e la sera”. Riconoscibilissimo in questo ben azzeccato ritratto un personaggio destinato a diventare famoso e tuttora sulla breccia dopo più di quarant’anni vissuti da protagonista. La lotta raccontata da Petroni è un happening collettivo, che si svolge in un clima allucinato ed irreale. E il racconto appare la parabola della cattiva coscienza di una generazione che gioca alla rivoluzione mettendo in campo nevrosi personali e conflitti non risolti, più psicologici che politici. Alla fine ritorna inesorabile la “normalizzazione” come un copione scontato .Le vecchie regole sociali riprendono il sopravvento. Macché rivoluzione. Il Pci ha ri- preso il controllo e i gruppuscoli troveranno tuttavia anch’essi il loro spazio. I sogni muoiono all’alba. La ragazza si sposa con un uomo che non ama, un borghese ricco e privo di passioni ma che le assicura il benessere e uno status sociale di tutto rispetto. E questa è la sua raggelante conclusione: “!o sto qua, sola col mio morto, e mi sento penetrare dal gelo”. La sostanza del romanzo è un diffuso senso di irrealtà, in una visione fondamentalmente nichilista che pervade tutta la narrazione. Come una cappa di piombo esso pesa sugli eventi narrati, che sembrano dominati da una invincibile aspirazione al Nulla. Il ’68 risulta così l’apparizione di un momento di felicità collettiva durato l’èspace d’un matin. Poi riprendono il sopravvento il vecchio mondo e il ritorno alla normalità borghese, sia pure ricomparsa sotto mentite spoglie, una volta tramontate le illusioni della palingenesi e dell’”immaginazione al potere”. Trovo questo romanzo affascinante e suggestivo, condotto senza enfasi né sbavature, sempre equilibrato tra narrazione e cronaca in presa diretta, dove il disegno dei personaggi si fonde senza stridori con una convincente interpretazione degli eventi storici. C U O .com L’ULTIMA IMMAGINE o 17 n 26 PAG. sabato 20 aprile 2013 Sic transit gloria mundi, San Jose 1974 [email protected] Dall’archivio di Maurizio Berlincioni Bene. Mettiamo un punto fermo e per il momento arrestiamoci qui con la storia della California e delle sue automobili. Non avendo alcuna pratica come sfasciacarrozze, di fronte a una specie di gigantesco TIR con il rimorchio e una trentina di supercars compresse l’una sull’altra senza misericordia, sono rimasto decisamente sconvolto e attratto al tempo stesso. Ricordo di aver trascorso più di mezz’ora girando e rigirando attorno all’incredibile visione, mentre i passanti stupiti si fermavano incuriositi a guardare me che guardavo e riprendevo! Ho scelto questo dettaglio perché mi è parso decisamente il più eloquente di tutti.