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uesta settimana
il menù è
DA NON SALTARE
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Il principe
500 anni dopo
La maratona rappresenta l’esistenza: ha punti bassissimi, che
devi superare, e momenti d’estasi, che ti sforzi di prolungare.
È un’esperienza spirituale attraverso la quale entri più profondamente in contatto con te stessa, trovando le risposte che cercavi
Paula Radcliffe
Campionessa mondiale di maratona nel 2005
Bausi a pagina 2
VUOTI&PIENI
Michelucci e Detti
a confronto
A pagina 7
REBUS
Miccini
e la poesia visiva
Mondaldi a pagina 6
SCENA&RETROSCENA
La magia
di un flauto
RIUNIONE
DI FAMIGLIA
a pagina 4
Di orologi,
di tempo
e altre facezie
Lodevoli
iniziative
Siliani a pagina 7
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DA NON SALTARE
di Francesco Bausi*
[email protected]
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are la storia con i se non è corretto, ma può essere divertente e
a volte anche utile. Se Dante non
fosse stato esiliato nel 1302
senza più fare ritorno in patria, non
avrebbe mai scritto la Commedia. Se
Petrarca non avesse dovuto emigrare
in Francia da bambino al seguito del
padre, non avrebbe mai scritto il Canzoniere. Se Machiavelli nel 1512 non
fosse stato rimosso dai suoi incarichi
in cancelleria a causa del ritorno dei
Medici al potere, non avrebbe scritto
il Principe. Non si tratta di frasi a effetto: alla radice di tutte queste opere
– tre fra i massimi capolavori della nostra letteratura e della cultura di ogni
tempo – stanno infatti situazioni personali di lontananza, di isolamento, di
solitudine. Solo un uomo ormai privo
di legami con la realtà municipale
della sua città e avulso dalle lotte di
parte poteva conquistare la prospettiva universale che muove la Commedia; solo un uomo costretto a passare
la giovinezza in una città straniera e
cosmopolita come Avignone, dove le
lingue della cultura e della comunicazione erano il francese e il latino, poteva approdare alla suprema
astrazione linguistica e concettuale
della poesia del Canzoniere; solo un
uomo che non aveva più niente da
perdere, e le cui uniche carte erano la
conoscenza storica e l’esperienza politica, poteva comporre un asciutto libretto in cui l’ex esponente di punta di
un regime repubblicano delinea con
crudo realismo compiti e comportamenti del principe.
Competenza vera, maturata in anni di
politica, interna ed estera, fatta “sul
campo”: questo mise sul piatto Machiavelli, nel 1513, per convincere i
sospettosi Medici a servirsi di lui. Scrivere uno dei soliti trattati retorici in
cui si idealizzava la figura del principe
“virtuoso” e “giusto” non gli sarebbe
servito a niente, perché, con i suoi precedenti, nessuno lo avrebbe preso sul
serio. E poi non ne sarebbe stato capace: Machiavelli non era un brillante
umanista o un fine dicitore, né, fino ad
allora, si era mai misurato con la vera
e propria trattatistica politica. Prima
del 1513, nei rari intervalli concessigli
dal suo lavoro, si era dedicato quasi
soltanto alla poesia, limitandosi, per il
resto, a stendere relazioni di ambascerie o brevi scritti ufficiali legati a situazioni contingenti. E poi, soprattutto,
era abituato ad aggredire i problemi
senza girarci intorno con le parole:
un’abitudine che gli veniva dal suo carattere spigoloso, ma anche dalla
lunga pratica come cancelliere e inviato della repubblica, incaricato di
delicate missioni in cui gli era richiesto di comprendere rapidamente le situazioni, informando i suoi superiori
con precisione e agendo con risolutezza.
Non era nuovo, Machiavelli, alle scelte
difficili. Fin dal 1503, inimicandosi
larga parte dell’aristocrazia fiorentina,
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aveva promosso un progetto di ricostituzione delle milizie cittadine, ottenendo l’appoggio del capo della
repubblica, il gonfaloniere Piero Soderini. In seguito, del Soderini sarebbe
divenuto uomo di fiducia, al punto da
legare a lui tutte le sue fortune: basti
Il Principe
anni
500dopo
dire che quando la repubblica crollò
e, nel settembre 1512, i Medici fecero
ritorno a Firenze, in cancelleria Machiavelli fu il solo, insieme al suo collaboratore
e
amico
Biagio
Buonaccorsi, ad essere licenziato.
Ogni volta, egli metteva in gioco tutto
sé stesso, senza calcoli e cautele (il che
può sembrare strano, visto il significato poi assunto dal termine “machiavellismo”): così fece anche dal 1512
in poi, diventando, da repubblicano,
sostenitore dei Medici, perché in loro
vedeva l’unico possibile argine contro
lo strapotere e il conservatorismo
delle vecchie famiglie nobiliari fiorentine. Ma solo nel 1520 la famiglia egemone lo riabiliterà: grazie ai Medici gli
verranno affidate missioni politiche
via via più importanti, una delle sue
opere maggiori (il dialogo militare
L’arte della guerra) sarà stampata a Firenze nel 1521, nel 1520 si rappresenterà a Roma la Mandragola al cospetto
di papa Leone X (Giovanni de’ Medici) e tramite il cardinale Giulio de’
Medici gli verrà conferito l’incarico
ufficiale di comporre le Istorie fiorentine.
Ma il suo destino è paradossale:
quando nel 1527 Firenze torna a costituirsi come repubblica, cacciando
nuovamente i Medici, nel ruolo di
cancelliere che dal 1494 al 1512 era
stato suo gli viene preferito l’oscuro
Francesco Tarugi. Per i repubblicani,
molti dei quali erano stati fra i suoi
amici più stretti, Machiavelli, che morirà pochi giorni dopo, è ormai da
tempo un mediceo, perché ai Medici
ha votato fedelmente da anni la sua attività politica e letteraria. Infatti, fra
1531 e 1532, sarà il secondo papa mediceo, Clemente VII, a promuovere la
pubblicazione, tra Roma e Firenze
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DA NON SALTARE
(una Firenze ormai definitivamente
tornata ai Medici e ormai chiaramente
indirizzata verso il principato), delle
sue opere maggiori, compreso il Principe. Gli amici di un tempo gli voltano
le spalle: Luigi Alamanni, uno dei due
letterati cui Machiavelli aveva dedicato la sua Vita di Castruccio Castracani, compone prima del 1528 una
satira in cui il Principe è aspramente
condannato come un libro immorale,
responsabile della politica scellerata
dei regnanti che hanno ridotto l’Italia
in schiavitù.
Non meno paradossale, del resto, fu
anche il destino del Principe. Scritto
con l’idea di dimostrare ai Medici la
propria competenza politica allo
scopo di essere da loro “adoperato”, il
libro pagò lo scotto della propria arditezza politca e morale, e si rivelò ben
presto inservibile: lo stato principesco
“nuovo” che papa Leone, fra 1513 e
1515, sembrava intenzionato a concedere a Giuliano (e in vista del quale il
trattato era stato inizialmente concepito, tanto che Giuliano avrebbe dovuto esserne il dedicatario) non vide
mai la luce, mentre la situazione di Firenze – dove i Medici non disponevano di un potere assoluto –
richiedeva la massima prudenza e non
poteva certo essere affrontata con gli
strumenti suggeriti nell’opuscolo.
L’attualità di Machiavelli
a mezzo millennio
dalla sua opera più politica
Qualcosa parve poter cambiare
quando, fra 1515 e 1516, il giovane
Lorenzo, nipote del pontefice e di
Giuliano, assunse in città una maggiore autorità politica e militare, ottenendo anche il titolo di Duca
d’Urbino e quello di capitano dell’esercito pontificio; per questo, Machiavelli decise di dedicargli il trattato,
che però o non gli fu mai effettivamente consegnato, o in ogni caso non
gli risultò gradito. Quando poi, nel
1519, Lorenzo morì, il Principe perse
qualunque attualità: a capo della famiglia Medici restavano solo due alti prelati (papa Leone e il cardinale Giulio),
nessuno dei quali ovviamente avrebbe
potuto diventare “principe”, e che pertanto avevano tutto l’interesse a dar
prova di moderazione nel governo cit-
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tadino. In tale contesto, l’apparizione
di un libro come il Principe, dedicato
a un Medici da parte di un uomo al
loro servizio, sarebbe stata controproducente, cosicché Machiavelli dovette
accontentarsi di veder pubblicate la
meno “compromettente” Arte della
guerra e una commedia come la Mandragola.
A dire il vero, nel 1523 il Principe approda in qualche modo alle stampe, a
Napoli, ma in forma davvero inconsueta: larghe parti dell’opuscolo, infatti, vengono riprese e “plagiate” nel
trattato latino De regnandi peritia del
filosofo aristotelico Agostino Nifo,
che, dedicato a Carlo V, propone la
consueta immagine “idealizzata” del
regnante. Nifo, che era protetto da
Leone X e che entrò in possesso del
Principe tramite gli ambienti medicei
fiorentini, normalizza, neutralizza o
elimina molte delle parti più ardite
dell’opuscolo machiavelliano; e se da
esso ha talora ricavato la descrizione
di certi comportamenti tirannici, afferma di averlo fatto solo affinché chi
legge impari a conoscerli e ad evitarli.
Una chiave di lettura, questa, che sarà
recuperata nella dedica della seconda
stampa del Principe (Firenze 1532),
dove per la prima volta troviamo formulata quell’interpretazione “obliqua”
del trattatello che tanta fortuna avrà
nei secoli successivi, fino a Foscolo,
secondo cui Machiavelli non ha voluto ammaestrare il tiranno, ma solo
rivelare ai popoli i crudeli strumenti
del suo potere. E sarà il prezzo che il
Principe dovrà a lungo pagare per
poter essere pubblicato e letto nell’Europa moderna.
Uomo dei paradossi, dunque, Niccolò
Machiavelli, sempre in prima linea nel
sostenere le sue idee, soprattutto
quelle più “scomode”, tanto che
l’amico Francesco Guicciardini lo definì ingegno “stravagante”, lontano
dalle opinioni comuni e “inventore di
cose nuove ed insolite”. Ma ciò che più
colpisce in lui è altro: la disponibilità
a mutare le proprie opinioni e le proprie posizioni nel corso degli anni,
passando da strenuo repubblicano a
sostenitore di Piero Soderini, diventando quindi fautore di un potere mediceo prima “costituzionale” (o civile,
come egli lo definisce) e poi principesco, per concludere la sua parabola
come teorizzatore di uno stato “misto”
in cui convivessero elementi democratici, oligarchici e monarchici. Considerato per molto tempo, in passato,
esponente di una visione rigidamente
repubblicana, Machiavelli è in realtà
esempio – utile e attuale anche oggi –
di un approccio anti-ideologico che sa
realisticamente adattare il proprio
punto di vista, e le soluzioni politiche
proposte, al mutare dei tempi e delle
circostanze, anche a costo di risultare,
in tal modo, sgradito ai vecchi amici e
sospetto ai nuovi.
*Docente universitario di Filologia italiana e membro dell'edizione nazionale
opere di Machiavelli e Direttore della rivista di studi quattrocenteschi "Interpres"
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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LA RECHERCHE DELLE SORELLE MARX
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I CUGINI ENGELS
Diamo tempo
al tempo
La vuota dimensione
del tempo
Lodevoli
iniziative
Il Bianconiglio è ossessionato dal tempo,
che manca e che fugge (e non s’arresta
un’ora direbbe il poeta, ma non c’è tempo
per leggere le poesie ed è passato troppo
tempo dal tempo del liceo) e quindi un
orologio che non indica più il passare del
tempo lo fa solo arrabbiare. "Presto, presto" grida alle piccole Alici che gli stanno
intorno, non c’è tempo da perdere, bisogna far scorrere nuovamente il tempo, altrimenti non verrà mai il mio tempo. E
ora che finalmente
il tempo (intenso
come fenomeno
meteorologico)
volge al bello non
bisogna soffermarsi
a guardare un orologio che è così da
tempo immemore.
Bisogna essere ricordati, il tempo allenta i ricordi (anche qui come canta il
chansonnier, ma non c’è tempo per ascoltare le canzoni ed è passato troppo
tempo dall’ultima serenata alla Bianconiglia) e bisogna fare qualcosa. Non
posso mica passare per un temporeggiatore. Ma se non so che ore sono come faccio ad avere il tempo per fare. Quindi
non è più tempo del analogico, largo al
digitale: affidabile, preciso, chiaro e non
perde un secondo che sia uno. Poi una
volta che il tempo è sistemato, se rimane
un po’ tempo, cambieremo anche il
mondo. Ogni cosa a suo tempo.
Caroline Marx
Il nostro fichissimo e modernissimo sindaco ha aperto un nuovo fronte nella sua
furia iconoclasta: si chiama rottama l’orologio. E’ andata così: passeggiando in
piazza della Signoria, gli si è avvicinato
un turista giapponese che gli ha chiesto:
“excuse me, sir, what time is it?”. E lui si è
trovato smarrito perché aveva lasciato a
casa l’orologio e, si sa, il Nostro non ama
trovarsi in ambasce. Alzando lo sguardo
al cielo, ha incontrato l’orologio sulla torre
di Arnolfo, ma… si è accorto che
aveva una sola lancetta. Piantato
in asso il turista giapponese, si è
precipitato nel palazzo e ha interrogato i tecnici sul perché tenevano
esposto al pubblico un orologio
rotto. La risposta non lo ha soddisfatto e, all’incontro sui “100 luoghi” (ormai ridottisi a una
decina), ha tuonato: “Ora basta
con queste anticaglie! Nel XXI secolo non si può tollerare un orologio che
certi turisti internazionali non sanno leggere e pensano che non funzioni! La solu-
In un tripudio di alabardieri,
tamburini, donzelle
in costume rinascimentale, chiarine e
gonfalone, con alla
testa l’immancabile
e imprescindibile presidente del Consiglio Comunale di Firenze, messer
Eugenio di ser Giani, il 16 aprile
scorso si è mosso dal Palagio di Parte
Guelfa un variopinto ed eccentrico
corteo verso il Battistero per commemorare la morte di Filippo Brunelleschi avvenuta 464 anni fa. Un evento
memorabile (soprattutto per i turisti
cino-nipponico-coreani e le loro fluorescenti macchine fotografiche). Si
sono celebrate le glorie italiche e florentine fra ali di folla festante e lagrime di autentica commozione, in
particolare nel momento alto e aulico
della deposizione di ben due corone
di mirto e alloro sulla tomba del Brunelleschi ad opera del suo frontespazioso epigono, messer Eugenio di ser
Giani, che ha commentato con aulica
favella la “lodevole iniziativa”. Messer Eugenio ha, in così radiosa circostanza, annunciato che qualora egli
fosse eletto al più alto scranno di Palazzo Vecchio, il suo primo editto
sarà quello di obbligare consiglieri
eletti e dipendenti comunali ad indossare la calzamaglia rinascimentale
per l’ingresso nel palazzo.
Ma più di tutto, grande è stato il sussulto popolare nell’apprendere dalla
magistrale lezione del presidente
dell’associazione “Filippo di ser Brunellesco”, messer Massimo di ser
Ricci, che senza il genio di Brunelleschi la volta di S.Maria del Fiore sarebbe rimasta ancor oggi opera
incompiuta. Egli ha edotto tutti gli
astanti sul fatto che “personaggi come
Brunelleschi, anche se nel passato,
sono una lezione per il futuro” e che
“nell’imbecillità ci può essere solo la
fine”. Giusto, plaudiamo anche noi
alla lodevole (nonché profonda e originale) lezione.
Registrazione del Tribunale di Firenze
n. 5894 del 2/10/2012
direttore
simone siliani
redazione
sara chiarello
aldo frangioni
rosaclelia ganzerli
michele morrocchi
progetto grafico
emiliano bacci
editore
Nem Nuovi Eventi Musicali
Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
contatti
www.culturacommestibile.com
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cultura.commestibile
“
“
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
zione è semplice: o si mette una lancetta
dei minuti, oppure si leva tutto e si mette
un orologio moderno!” Timidamente il
funzionario cerca di spiegare che essendo
un complesso meccanismo settecentesco,
non si può chiamare un tecnico della
Swatch per mettere una lancetta dei minuti. Anche il colto assessore Givone ha
tentato di spiegargli che le cose non sono
così semplici. Ma, niente, il Nostro non si
dà per vinto: figurarsi se un intelligentone
come lui si fa mettere nel sacco da qualche
cacadubbio intellettuale e, siccome è il più
ganzo di tutti, l’ha buttata in politica:
“facciamo una bella riflessione filosofica:
vi sto dicendo di mettere un orologio bello
e che funziona, ma discutiamone pure.
Ma, facciamo presto; non perdiamo
tempo!”. Si mormora che Renzi stia pensando ad un bell’orologio a cristalli liquidi
che spari nel cielo di Firenze l’ora esatta al
laser. E così, il sindaco se l’è cavata alla
grande, aggiungendo il 101° luogo al
vuoto spinto degli altri cento.
Henriette Marx
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
Siamo profondamente sconcertati e scandalizzati dal fatto che uno scrittore di fama internazionale scriva una schifezza come questa. Come fa l’autore del “Il pomeriggio della
zanzara”, libro di denuncia delle condizioni della donna africana e che, tradotto in Swahili, ha venduto quasi tre milioni di copie in tutto il Centro Africa, a scrivere “Il ballo delle
ributtanti”? Un orribile pamphlet intriso di vomitevole misoginia. L’autore, a noi caro
per il capolavoro “Vi sconsiglio l’Egitto”, narra di una serata di ri-debutto delle donne
sopravvissute fra le debuttanti al ballo del 1961, signore che “avranno 70 anni nel 2013”.
Leonardo Di Lascio si lascia andare (è proprio il caso di dirlo) a descrivere nei minimi
particolari, anche i più intimi, gli interventi di chirurgia plastica che tutte le presenti alla
serata hanno affrontato con l’intento, legittimo se si vuole, di dimostrare qualche mese di
meno. Che vergogna! Brutto sfogo di un vecchio maschio che invece di accettare in serenità
la pace dei sensi, dichiara guerra a quelle donne che grazie a qualche chilo di silicone e
etto di botulino si rendono capaci di attrarre ancora gli uomini e soprattutto molto, ma
molto, più giovani di lui.
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di Corrado Marcetti
E
doardo Detti si laureò con Giovanni Michelucci nel 1940 e divenne suo assistente alla Facoltà
di architettura di Firenze. Collaborò ad alcuni suoi progetti tra cui
quello del Centro Didattico Nazionale in via Buonarroti con Giuseppe
Gori ed Edoardo Ricci. Detti con Michelucci fece parte della Commissione interna della Facoltà
d’architettura che pubblicò su “La na-
Michelucci e Detti
due visioni
della città
zione del popolo” del 4-5 settembre1944 il manifesto L’architettura e
il nuovo stato. Insieme li ritroviamo
nella Commissione macerie, nel progetto a concorso per il Ponte alla Vittoria, nel dibattito sulla ricostruzione
del centro distrutto di Firenze, nel
rinnovamento della Facoltà d’architettura e nella formazione di una cultura urbanistica attenta alle esigenze
degli abitanti. Poi maturarono le ragioni della differenza. La diversità
delle posizioni sul nuovo quartiere di
Sorgane, il confronto tra la città del
Piano, incarnata da Detti, e la città variabile proposta da Michelucci fu
quanto mai lacerante. Detti era una
persona pragmatica che ritenne ad un
certo punto della sua vita di svolgere
anche un’azione politica e amministrativa come assessore all’urbanistica. In quest’ambito varò il nuovo
Piano Regolatore di Firenze, un piano
ritenuto esemplare poi mille volte tradito. Michelucci contrastava la concezione demiurgica dell’urbanistica e la
separatezza tra architettura e urbanistica, aveva un modo di pensare la
città ricco di trame aperte senza determinazioni disciplinari immodificabili.
Il confronto tra le due visioni della
città, che si delinearono ancor più
lungo il tragitto dell’impegno professionale di ciascuno, può dare elementi utili al dibattito sulla città
contemporanea? E’ questo uno dei
versanti più interessanti dell’incontro
a più voci sul confronto tra Michelucci e Detti organizzato dalla Fondazione Michelucci e dal Comune di
Pistoia nell’ambito delle iniziative
“Leggerbe la città”. Al convegno, promosso dall’INU e dalla Fondazione
Michelucci che coordina la discussione interverranno Giancarlo Paba,
Raimondo Innocenti, Gabriele Cor-
di Gianluca Giovannelli
L’
esperienza italiana degli
urban center, o delle “case
della città”, è più che decennale. In molti casi sono
state privilegiate le prerogative di
comunicazione, in altri di informa-
Per una
nuova
cultura
urbana
zione e conoscenza, quando anche
di strumento partecipativo aperto al
confronto. Alcune esperienze hanno
avuto vita breve, perché legate solo a
fasi decisionali particolari (piani urbanistici o strategici, grandi trasfor-
sani, Paola Ricco.
Un incontro senza rievocazioni ma
teso a ricavare da quel confronto,
pieno di intelligenza e di passione,
elementi per le macerie dell’oggi, a
partire dalla coniugazione di etica e
progetto senza dicotomie tra aspetto
teorico e prassi.
mazioni urbane) o perché se ne era
persa la motivazione generativa, per
scelta politica o mutamento del contesto di riferimento.
Diverse sono state le declinazioni in
ragione delle differenti missioni e
dei soggetti promotori. Le esperienze sono state tuttavia utili ad evidenziare le opportunità, unitamente
alle criticità, dello strumento. E’
oggi possibile una verifica delle traiettorie evolutive, al fine di verificarne le potenzialità di futuro
sviluppo. Si tratta di ridefinirne il
ruolo, la missione e le funzioni in relazione alle mutate esigenze attuali
ed al non secondario problema della
riduzione delle risorse disponibili.
In questa prospettiva l’urban center,
inteso come luogo strutturato e durevole di conoscenza e di confronto
sulle dinamiche urbane (luogo fisico, ma anche virtuale attraverso
l’utilizzo del web), deve trovare
nuovi significati e nuove relazioni,
più aderenti alle esigenze della città
e del cittadino contemporaneo, assumendo la configurazione di uno
spazio aperto alla contaminazione
dei saperi e delle esperienze, in un
fertile confronto creativo.
Torino, Milano, Bologna sono alcune grandi città che hanno da
tempo intrapreso questa modalità di
confronto in forme diverse e con
esperienze diverse, mentre Rovereto
e Ferrara portano una dimensione
operativa più misurata sul territorio
pistoiese: le loro testimonianze, insieme a quella fiorentina in fase di
avvio, potranno contribuire ad aggiornare un quadro sempre più in
evoluzione pesato sulle esigenze
reali dei territori,
L’appuntamento pistoiese intende
inoltre aprire un primo confronto
con la città sul tema, propedeutico
all’avvio di un fecondo processo di
rigenerazione di un comparto strategico della città, come quello che si
presenterà con il trasferimento
dell’Ospedale del Ceppo “liberando” la sede storica, la cui rilevanza richiede una costruzione
partecipata e consapevole.
Una iniziativa a cura del Comune di
Pistoia e della Fondazione Michelucci nell'ambito della manifestazione "Leggere la città" - Info su
www.michelucci.it
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sabato 20 aprile 2013
di Laura Monaldi
[email protected]
È
necessario prendere coscienza del
fatto che lungo le linee espressive
dell’Arte contemporanea è difficile
prendere posizione, né tanto meno
ci possono essere teorie e ricerche disgiunte secondo approcci e metodologie
diverse. In tal senso la Poesia Visiva nata
proprio negli anni del caos filosofico, esistenzialistico e teorico, necessita di un’indagine analitica e fenomenologica,
capace di rifarsi al principio eclettico del
reale, ma soprattutto che sappia cogliere
le sfumature gnoseologiche e ontologiche degli artisti, scrittori e intellettuali,
negli anni in cui emerge la questione
della morte dell’Arte, della necessità di
una rottura con il passato, della consapevolezza che il canone si sia dilatato al
punto tale da non riuscire più a gestire la
totalità delle impostazioni ideologiche.
Nel momento in cui la cultura ha messo
in luce le proprie aporie e contraddizioni,
la Poesia Visiva è affiorata qualificandosi
come un fare artistico esoletterario, inserito in un presente giudicato ontologico
e astorico, denso di complessità e in cui è
impossibile distinguere i confini disciplinari. Di fatto la compenetrazione tra referente visuale e linguaggio, fra
significante e significato – propria del fenomeno – fa dell’opera letteraria un oggetto estetico, grazie ai rapporti reciproci
esistenti fra i vari elementi. Le relazioni,
createsi fra parola e immagine, hanno
posto in stretta connessione le istanze
della cultura con le premesse sul discorso
artistico–letterario e con la conseguente
sovversione sia dell’idea di struttura e
dell’ideologia neocapitalistica propria
degli anni Sessanta, sia della neutralità
ideologica della società di massa e di consumo avvertita dagli intellet- In alto Miccini, Il cuore chiama
tuali, memori della grande ancora(1965 ), in basso a sinistra
tradizione romantica e simboli- Miccini, Hommage a Cage
sta. L’attenzione promossa dagli (1964) e a destra Miccini, Il
intellettuali verso i nascenti poeta e la sua musa (1963)
mezzi di comunicazione e il tec- Courtesy Galleria Carlo Palli
nicismo diffuso ha posto le basi
per una critica alla società di massa, condotta attraverso l’individuazione dei sottocodici immessi nel sistema linguistico,
l’eversione e la mistificazione dei linguaggi tecnici e settoriali. Lo scopo è
quello di sollecitare e approfondire i rapporti fra le diverse arti, contribuendo all’affermazione di una terza cultura. Primo
fra tutti Eugenio Miccini era convinto
che la letteratura dovesse operare il riscatto estetico dei simboli della società
contemporanea, puntando a un uso comunicativo dei linguaggi tecnologici
della nuova società. Fin dalle prime opere
– datate 1962 – l’artista esprime tale necessità attraverso cancellature, interventi
e manipolazioni, in cui la sintassi verbo–
visiva emerge con tutta la sua carica contestativa, grazie a un metalinguaggio che
si pone in equilibrio dinamico fra la parte
verbale e quello iconica. Una prassi artistica che diviene ricerca poetica dell’estetica in continua parodia e
contrapposizione al mondo: un oggetto
culturale di ricerca teso all’analisi delle distanze drammatiche che separano la vita
dai segni del mondo.
Ilsignificante
il
e
significato
della Poesia Visiva
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sabato 20 aprile 2013
Foto di Alicia Peres
di Simone Siliani
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S
aggezza, lavoro e arti: questo è il
luogo degli dèi. Il tempio di Sarastro
è il regno della saggezza. Liberato
dagli orpelli scenici, dagli effetti
speciali, da leziosità di maniera, barocchismi posticci, piume e paillettes, “Il flauto
magico” di Peter Brook andato in scena –
evento inaugurale della XX edizione di
Fabbrica Europa – al teatro Era di Pontedera il 16 e 17 aprile, ha ritrovato Mozart.
Come Tamino e Pamina, i due si sono
presi per mano e hanno varcato insieme
le Porte del Terrore e, liberati dalla musica, sono entrati nel Paradiso mozartiano. E’ una nuova iniziazione che ci
restituisce, purificata in aria terra acqua e
fuoco, l’essenza del “Flauto magico”.
Se il santuario di Sarastro è il tempio della
saggezza, allora tutto è ipocrisia. Non una
edificante favola d’amore, bensì il disvelamento della contraddizione del nostro
mondo: niente è quello che sembra, tutto
è finzione. Nella notte in cui tutto si confonde e cambia di senso e il mago Sarastro avvolge tutto e tutti in una bolla
opaca di tenebra e ipocrisia, che solo la
musica saprà squarciare il velo dell’ipocrisia. Tutto è tenebra e anche chi cerca
amore, amicizia e saggezza (Tamino, Antonio Figueroa) è impietrito dalla paura
ed è ossessionato dalla vendetta (la talentuosa Regina della Notte, Malia Bendimerad). Ma la
musica disvela l’arcano, rovescia la ferrea realtà e infrange
l’ipocrisia dei bei
tempi andati dove
regnano dovere e
ordine. La musica è
elemento sovversivo e rende plausibile l’impossibile
(Perché uno che ha
l’anima nera dovrebbe rinunciare
all’amore? Sarastro,
Vincent Pavesi).
Nel tempio di Sarastro purificato è
bandita la vendetta,
non per un afflato
da lieto fine o di buonismo, ma perché la
musica cambia di segno al Potere immenso dell’Ordine Antico; rivela la verità
nascosta dalla pesante coltre di ipocrisia
che avvolge il mondo. E’ questo lo spirito
di saggezza: la follia dell’impensabile che
ci guida, conclude l’opera, verso un paese
migliore, dove anche il nemico trova il
perdono. Chiudendo il cerchio, la chiusa
torna al prologo: il Principe si prepara a
governare, valicando le montagne, con
costanza e pazienza.
La regia di Peter Brook, essenziale fino ad
essere scarna, distilla il capolavoro mozartiano e lo restituisce integro nella sua essenzialità. Il livello non omogeneamente
eccelso delle voci passa necessariamente
in secondo piano. E’ questo il senso dell’operazione culturale del regista: permettere a noi uomini e donne del XXI secolo
di leggere, non in filigrana ma in primo
piano, il messaggio eversivo e liberatorio
del Flauto.
Torna a suonare
Foto di Renato Velasco
forte
il flauto
magico
Peter Brook
a Pontedera
per Fabbrica Europa
Foto di Renato Velasco
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ANTIQUARIUM
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di Cristina Pucci
[email protected]
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uriosità e bizzarrie
nelle Cacce incise
dallo Stradano” titola
la mostra in corso alla
Villa Medicea di Cerreto Guidi (fino
al 16 Giugno). Quale luogo
migliore per incisioni aventi
per oggetto scene di caccia,
pesca e attività per la cattura
di animali a fine di diletto
dei divin Signori? La Villa
di Cerreto fu voluta da Cosimo I in quel luogo allora
ricco di boschi e selvaggina
proprio per soggiornarvi
con la sua corte e spassarsela cacciando. Donata al figlio Giovanni, fu teatro
della morte di Isabella, figlia prediletta di Cosimo,
uccisa da sicari prezzolati
dal marito per lavare l’onta
di un presunto tradimento.
Così almeno si “romanza”.
Vari passaggi di proprietà
nel corso dei secoli la conducono nelle mani dello
Stato grazie alla donazione
dell’Ingegner Boldrini, suo
ultimo proprietario. Ben restaurata, ospita dal 2002 il Museo Storico della Caccia e del territorio forte di
una bella collezione di armi, oltre 500
pezzi, dal medioevo all’età moderna,
per lo più provenienti dalla collezione
Bardini. Una quadreria proveniente
dalle raccolte medicee addobba e arricchisce le stanze, all’esterno, sotto le
logge, una serie di antiche statue. Le
antistanti “scalere” di mattoni rossi,
imponenti ed inconsuete, sono del
Buontalenti. Vale la pena di una visita
anche senza mostre. Jan Van Der
Straet, che italianizzò il suo nome in
Giovanni Stradano, nacque a Bruges
e si formò ad Anversa dove
apprese,fra l’altro, l’arte di disegnar
cartoni per arazzi. Fu poi in Italia fra
Firenze e Roma. Le opere in mostra
appartengono ad una serie di Cacce
disegnate da Stradano ed ispirate ai
cartoni per arazzi di argomento venatorio preparati da Vasari per arredare
la villa di Poggio a Caiano. Stradano
e un artista di Anversa, Philip Galle,
dedito alla incisione e all’editoria, intuirono il successo per il Tema Cacce
e ne stamparono una prima serie,
vista l’immediata fortuna l’editore
commissionò a Stradano altri disegni.
La serie da cui sono tratte le opere
esposte ne comprendeva 104 e si intitolata Venationes Ferarum, Avium, Piscium. Pugnae. Strapiene di persone,
animali, scorci paesaggistici, alberi ed
elementi naturalistici, figure mitologiche come dei e dee, animali di fantasia e motivi decorativi, possono
essere ritenute appartenenti sia al filone dei naturalia ,di gran moda a fine
‘500, sia a quello delle vedute paesaggistiche in quanto vi si integrano questi due elementi figurativi. Alcune
sembrano ritrarre il momento clou di
una situazione, l’uccisione o la cattura
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n 26 PAG.
sabato 20 aprile 2013
Scene di caccia e pesca
di Stradano a Cerreto Guidi
di un animale, altre invece relegano la
battuta di caccia sullo sfondo e dedicano il primo piano a uomini che si
preparano ad essa, ad esempio caricando la propria arma. La fantasia è
elemento dominante e da un tocco di
giocosa ironia, ci sono api fra i volatili
e lontre fra i pesci, si cacciano struzzi,
orsi ,con l’armatura però, si catturano
rondini, si pesca di notte alla presenza
del Dio Arno e della Luna, si possono
usare dei fuochi per catturare... farfalle e falene. Da vedere.
SPIRITI DI MATERIA
Dino Campana
oltre il Mugello
di Franco Manescalchi
[email protected]
Soffermarsi in piazza Tanucci, a Stia,
è come stare nelle mura di un castello. Non a caso Dino Campana
definisce la piazza “vegliata dal castello antico”.
E penso proprio a Dino. Seduto fra
la trattoria Filetto e un negozio di
stoffe Casentinesi, lo sguardo volge
a nord, all’ingresso da cui il poeta vi
si introdusse con passo alpestre,
mentre più in basso una lapide ne riporta i versi dai Canti orfici dedicati
al paese.
“e al fine Stia, bianca elegante tra il
verde, melodiosa di castelli sereni: il
primo saluto della vita felice del
paese nuovo: la poesia toscana ancor
viva nella piazza sonante di voci
tranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balconi poggiate il
puro profilo languidamente nella
sera: l’ora di grazia della giornata, di
riposo e di oblio.
Stia, 1972, nel 40° anniversario della
morte.”
Queste “signore ai balconi, poggiate
il puro profilo nella sera” hanno infatti un non so che di dame medie-
vali “di Stia, melodiosa di castelli sereni”.
E penso anche alle Fiabe Casentinesi
di Emma Perodi, ai fatti d’arme del
Castello di Porciano dove si distinse il
giovane condottiero Gentile de’Cerchi, oggetto di una serie di leggende.
Quanto medioevo vive ancora in
quelle terre, nella loro microstoria
non ancora dimenticata, con i suoi
miti e le sue beffe.
Padre Antonio Bartolini (1820 –
1905) personaggio notabile di Stia,
autore di molte pubblicazioni, in una
di queste, “Cecchino e Nunzia”, Tipografia del vocabolario, Firenze, 1872,
ci offre una panoramica dei castelli di
Stia, così, a colpo d’occhio, come se li
avesse sul palmo della mano:
“...Ecco un altro nido di avvoltoi s’io
non mi inganno, -disse il signor Leopoldo, -vedendosi in faccia una torre
che dominava alcuni miserabili casolari.”
“Quello è Porciano -prese a dire il dottore -di tali castelli, reputati con esagerazione da alcuni moderni come già
nascondigli di belve feroci, ella quindi
innanzi potrà vederne a sazietà. Alla
destra di Porciano dalla parte opposta
dell’Arno vedrà i resti di una bicocca.
Egli è Castel Castagnaio. Tra quei
monti - e volse l’indice a greco -rimangono tuttora vestigia di mura adeguate al suolo: gli indigeni chiamano
quelle rovine il Castellaccio di Montemezzano. Quella collina, che abbiamo
dirimpetto, seminata di case, e nella
parte più bassa coperta di bei vigneti è
la contea di Urbech.
Fino sulle rive dello Staggia poco
sopra alla confluenza di questo torrente con l’ Arno e quasi a contatto
della più moderna terra di Stia, ella
vedrà tra poco qualche rimasuglio di
un fortilizio. Era questo l’antico Palagio, e quivi e ad Urbech ebbero dominio due rami distaccatisi dalla stirpe di
un Tegrimo de’ conti Guidi, signori di
Porciano.”
Chi sappia ascoltare questo fascino remoto, avrà anche occhi per ammirare
l’antica bellezza di tale paesaggio.
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di Duccio Ricciardelli
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allo scorso 11 aprile su Rtv38
finalmente sarà possibile vedere bellissimi documentari
italiani in prima serata. Linea 8
l’esperimento di trasmissione televisiva
che i Documentaristi Anonimi - Associazione Documentaristi Toscani, lanciano nel mondo dell’etere. Questo
progetto di diffusione di “cinema del
reale” nasce da una felice collaborazione tra FST – Mediateca Regionale
Toscana, Quelli della Compagnia e
Festival dei Popoli ed è sostenuto dalla
Regione Toscana. La trasmissione è
giunta al suo secondo anno di vita
dopo il successo di pubblico dello
scorso anno, grazie anche al pool di
professionisti dei Documentaristi
Anonimi che insieme alla trasmissione
hanno dato vita ad una community on
line dedicata alla critica e all’approfondimento dei film messi in onda. Sul
blog di Linea 8 sarà possibile infatti vedere i trailers dei film, commentare le
puntate ed interagire con la redazione
attraverso facebook. Scopo della trasmissione è soprattutto quello di diffondere la cultura del documentario e
di raggiungere una vasta audience in
un mercato distributivo italiano che in
questo momento non gode certo di
buona salute. I cosiddetti “documentari di creazione” non ricevono infatti
un’adeguata visibilità a confronto degli
altri prodotti televisivi, come fictions,
reality o trasmissioni di intrattenimento. In Italia esiste da anni una generazione di cineasti che grazie all’uso
del digitale e all’abbassamento dei costi
di produzione ha potuto cimentarsi in
un nuovo cinema fatto di idee, contenuti ed impegno politico e sociale.
L’Associazione Documentaristi Anonimi è una realtà che si impegna a
fondo propio per la diffusione della
KINO&VIDEO
Linea 8
La realtà
d’autore
in tv
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n 26 PAG.
sabato 20 aprile 2013
cultura di questo nuovo tipo di autori,
lavorando da qualche anno anche sulla
formazione del pubblico con i “Cantieri del Documentario”, dei veri e propri momenti di scambio tra il pubblico
e il regista che mostra davanti ad un audience il proprio percorso creativo. Il
format di Linea 8 prende anche
spunto da questo tipo di operazione.
In studio il regista commenta il suo
film e mostra spezzoni di film o scene
che non sono state inserite nel montaggio finale. A casa il pubblico può intervenire sul blog e inserirsi in una
discussione tra critici, appassionati e
semplici spettatori o curiosi. Tra i prossimi appuntamenti di Linea 8 segnaliamo il film di Simona Risi “Le White,
sulle famiglie delle case popolari di Rogoredo a Milano, vissute per anni in
strutture interamente rivestite di pannelli di amianto e che si sono ammalate
progressivamente di tumori e leucemie. Il 2 maggio sarà il turno del vulcanico “Cinema Universale D’Essai” del
fiorentino Federico Micali, documentario dedicato alla famosa sala del centro di Firenze, dove le proiezioni dei
film si trasformavano in degli happenings memorabili con una straordinaria e coloratissima partecipazione del
pubblico. Il 9 maggio “My Marlboro
City” di Valentina Pedicini, giovane
regista formatasi alla Zelig di Bolzano,
con un lavoro molto personale sulla
città di Brindisi, tra ricordi, carcere e
storie di marginalità. La programmazione degli altri film prosegue ogni
Giovedì alle 21.10 su Rtv38, fino al 13
giugno, con repliche il martedì alle
00.40 circa. La trasmissione è anche visibile in streaming sul player messo a
disposizione gratuitamente dal sito di
Rtv38. Per partecipare al network di
documentari collegato alla trasmissione consultare gli indirizzi:
www.linea8.com/
www.facebook.com/linea8
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LUCE CATTURATA
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sabato 20 aprile 2013
I confini della città
di Sandro Bini
www.deaphoto.it
Un racconto per immagini
dalla periferia fiorentina (2001-2013)
Sandro Bini - I Confini della Città - Badia a Ripoli, il Bandino, S. Marcellino - Firenze 2012
LUCE CATTURATA
Si apre giovedì 18 aprile alle ore
15, e rimarrà aperta fino al 5 maggio 2013, presso le Scuderie Granducali di Seravezza (Lu), Viale
Leonetto Amadei 358 ( già via del
Palazzo), la mostra fotografica di
Silvia Amodio ( Milano 1968) dal
titolo “Il ritratto sociale”. Un
evento espositivo che rientra nel
programma della X edizione di
Seravezza Fotografia la rassegna
curata dal direttore artistico Ivo
Balderi, che fino al 9 giugno propone mostre, incontri di cultura
fotografica, workshop, corsi organizzata dalla Fondazione Terre
Medicee, dall’A ssessorato alla Cultura del Comune di Seravezza e i
patrocini della FIAF (Federazione
Italiana Associazioni Fotografiche), del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, Regione Toscana, Provincia di Lucca e dell’Ambasciata del Belgio in Italia.
Silvia Amodio è una fotografa
professionista che da tempo si è
specializzata sul tema del ritratto
come mezzo di denuncia sociale.
Questo perché legata alla visione
Le foto sociali
di Silvia Amodio
classica dei grandi autori che si
sono misurati con questo genere,
privilegiando l’essenzialità che è
diventato un tratto distintivo del
suo stile.
Nello scegliere i fondali, nel calibrare le luci, nel comporre le
scene, Silvia Amodio mette un’attenzione e una cura che sono
tanto più accurate quanto meno
eclatanti: in tal modo anche le riprese che hanno richiesto le maggiori difficoltà appaiono a chi le
osserva semplici ed immediate. La
mostra raccoglie opere che fanno
parte delle sue differenti ricerche
su questo tema dove coniuga etica
ed estetica affrontando, attraverso
ritratti realizzati con rara sensibilità, temi complessi come la diffusione dell’Aids in Sudafrica, la
sofferenza delle vittime dei preti
pedofili, la dignità delle persone
affette da albinismo. Con queste
opere Silvia Amodio si è anche affermata nel mondo della fotografia d’autore mostrando i suoi
lavori in Italia, Stati Uniti, Francia,
Inghilterra, Olanda. Ha pubblicato i volumi “Volti positivi”
(2007), “Tutti i colori del bianco”
(2012) “Nessun uomo è un’isola”
(2012), “L’Aquila riflessa” (2012).
Nel 2008 un’opera tratta dal progetto “Volti Positivi” è stata selezionata, unica italiana, al Taylor
Wessing Photographic Prize indetto dalla National Portrait Gallery di Londra. Nel 2012 le sono
stati assegnati il Premio Creatività-Nettuno Photo Festival e il
Premio Città di Benevento per la
fotografia. La mostra si può visitare fino al 5 maggio nei seguenti
orari: dal giovedì al sabato dalle
ore 15 alle 20 e la domenica ore
10 – 12; e ore 15 - 20. Il biglietto
d’ingresso è di 6 euro intero e 4 ridotto. Informazioni: Fondazione
Terre Medicee, tel.0584.757443,
info: www.seravezzafotografia.it
Seravezza Fotografia è anche su
Twitter: @SeravezzaPhoto e Facebook: Seravezza Fotografia
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a cura di Aldo Frangioni
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Alla
scoperta
[email protected]
A
lla fine degli anni ‘50 molti giovani artisti si ritrovano in una
posizione di radicale contrapposizione verso l’arte informale
sperimentando la necessità di un azzeramento del linguaggio artistico per cercare una nuova modalità espressiva.
Questa rilettura porta gli artisti a muoversi all’interno della “linea analitica
dell’arte” in più direzioni: da una parte
l’”arte programmata” e le sue declinazioni cinetico-visuali, da un’altra la “pittura analitica”.
In quest’ottica, come scrive Filiberto
Menna “l’artista assume un atteggiamento analitico, sposta i procedimenti
dal piano immediatamente espressivo o
rappresentativo a un piano riflessivo, impegnandosi in un discorso sull’arte nel
momento stesso in cui fa concretamente
dell’arte.” L’opera d’arte non deve rappresentare nello spazio, ma piuttosto accadere nel tempo. Questi presupposti
teorici vengono applicati da alcuni artisti (tra cui i protagonisti di questa mostra) tramite un deciso ritorno alla
pittura nello stesso momento in cui da
più parti se ne teorizza l’ineludibile
scomparsa, ritorno accompagnato da
un’approfondita riflessione sul processo
pittorico in se stesso. Queste esigenze
vengono sentite non solo in Italia ma
anche in Francia e nel resto dell’Europa
(Inghilterra, Germania, Olanda) e negli
anni ‘70 sfociano appunto in un ritorno
alla pittura, chiamata anche “pittura-pittura” o “nuova pittura”: definizioni che
ne sottolineano la messa in discussione
e la volontà di rifondazione dei suoi presupposti. La pittura analitica quindi
esprime la sua tensione al rinnovamento
attraverso un atto di autoriflessione che
porta alla rivisitazione dei fondamenti e,
negando qualsiasi velleità di rappresentazione o espressione soggettiva, persegue una ricerca operativa sugli strumenti
linguistici della pittura stessa.
Paolo Cotani (Roma 1940-2011) con le
sue bende elastiche esprime l’idea dell’assenza di spazio pittorico tra i livelli di
colore su una tela ribadendo l’azzeramento linguistico e degli strumenti tradizionali della pittura.
Riccardo Guarneri (Firenze 1933) usa
il suo bianco-luce con lievi oscillazioni
di colore assoggettato ad una geometria
per una ricerca strutturale del campo
percettivo. Approfondisce il suo lavoro
quale incontro programmato del colore
con la geometria e la luce.
Elio Marchegiani (Siracusa 1929) nella
sua logica ricerca in un eclettismo formale, ma non sostanziale, affiancato da
ironia e dal motto “fare per far pensare”,
negli anni ‘70 entra a far parte della pittura analitica con le sue “grammature di
colore” con le quali cerca una sintesi
astrattogeometrica dell’affresco italiano
con particolare attenzione al supporto
(intonaco, lavagna).
Claudio Verna (Guardiagrele -CH1937) considera il colore, con le sue infinite possibilità, come il vero catalizzatore della visione, in uno spazio che non
deve essere rappresentato, ma evocato.
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sabato 20 aprile 2013
della
pittura
analitica
Sotto Paolo Cotani, Bende, 1976, acrilico su bende
elastiche, 60 x 120 cm (dittico). A sinistra Claudio
Verna, Olio 68, 1968, olio su tela, 120 x 100 cm
Per Verna la pratica della pittura è un
processo di costruzione-decostruzione
che scompagina i sintattici.
Gianfranco Zappettini (Genova 1939)
sviluppa con rigore estremo un’analisi
del linguaggio pittorico che esclude
qualsiasi contenuto. Con i suoi lavori
bianchi degli anni ‘70 e con i suoi scritti
ha contribuito a dare una base teorica
alla pittura analitica.
Valmore Studio d’Arte, Vicenza Contrà
Porta S. Croce, 14 -Dal 19 aprile 2013 al
14 giugno 2013
PUÒ ACCADERE
Le mille e una via
di Susanna Stigler
[email protected]
Italia, Aprile 2013
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a cura di Aldo Frangioni
[email protected]
Nicola Martini con il suo “Nervo
vago” fuoriesce dalla medulla oblungata, passando dal forame giugulare,
passando dal torace alla cavità gastrointestinale; decimo delle dodici
paia di nervi intracranici, è responsabile della frequenza cardiaca passando
dalla
peristalsi
gastrointestinale, dalla sudorazione
dei muscoli sfruttati dal parlato e
dalla apertura della laringe durante
l’inspirazione. Riceve inoltre sensazioni dall’orecchio esterno, e parte
delle meningi. La sua materia, di cui
la matrice è unitaria, si specifica a seconda delle regioni che interessa.Il
progetto di Nicola Martini per il
Museo Marino Marini entra direttamente nel sistema nervoso del
museo, va a inserirsi nell’architettura
entrando nelle nervature, negli spazi
di connessione tra esterno e interno,
tra materie differenti, tra penetrazione e compenetrazione di luce e
buio. Martini, come sempre nella sua
pratica, innesca frizioni nella natura
degli elementi che costituiscono la
sua scultura, stabilisce un rapporto
diretto con la materia sia essa quella
delle opere da lui realizzate sia essa
quella degli elementi strutturali e costruttivi, in questo caso l’architettura
del museo
12
Un giallo da risolvere
e nervi da scoprire
al Museo Marini
A
l Museo Marini il 19 aprile si
è inaugurata la mostra Department store at night (Five impossible Films, 1) progetto
inedito prodotto dal Museo, di Matthew Brannon (St. Maries, Idaho,
1971) insieme Nervo vago del fiorentino Nicola Martini (1984), tra i
migliori giovani presenti nel panorama italiano.
Matthew Brannon negli ultimi dieci
anni di lavoro ha creato opere nelle
quali la tensione tra testo e immagine
è presente come vero e proprio elemento di costruzione del lavoro,
anche se mai questo rapporto è stato
pensato come elemento narrativo tra
le due parti. L’elemento di fiction attinge da suggestioni che l’artista ha
avuto durante i sopralluoghi al
Museo Marini e dalla città di Firenze,
nella quale il department store è oggi
l’elemento caratterizzante l’aspetto
del centro cittadino, dove ogni luogo
è destinato al commercio, qualunque
sia la sua natura, e dove una vivace
vita diurna si alterna ad una tenue,
quasi spenta, vita notturna, animata
da fatti di ordinaria cronaca di provincia, nella quale tutto può apparire
eccezionale.
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sabato 20 aprile 2013
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Le storie di Pam
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NUVOLETTE
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sabato 20 aprile 2013
www.martinistudio.eu
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PARIGI VAL BENE UNA FOTO
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di Danilo Cecchi
[email protected]
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uesta è una storia che mi
hanno raccontata un giorno
a Parigi, davanti a due bicchieri di pastis, e che ripeto
senza aggiungere o togliere niente.
Parigi, 1918 – Un giovane capitano di Artiglieria, di nome Antoine Pol, poeta dilettante, torna
dalla Grande Guerra, e prima di ripartire per l’Alsazia, come ingegnere minerario, pubblica un suo
breve poema “Les Passantes”,
scritto dieci anni prima, quando
aveva solo vent’anni, ed ispirato vagamente alla “bella passante” di
Baudelaire. Il poema viene stampato in una edizione mai messa in
commercio e tirata in soli 125
esemplari.
Parigi, 1942 – Un ventenne aspirante poeta, di nome Georges
Brassens, trova al mercato delle
pulci della Porte de Vanves una
copia del libretto, si incuriosisce, e
la acquista per pochi soldi.
Parigi, fine anni Sessanta – L’ormai
affermato poeta e cantautore Georges Brassens decide di musicare
il poema di Pol, ed incarica il suo
segretario di rintracciare l’autore,
ma nonostante le assidue ricerche,
Antoine Pol non viene trovato.
Parigi, 1970 - Il segretario di Brassens riceve per telefono una richiesta di autorizzazione per la
pubblicazione dei testi di una decina di canzoni. Non ci sono problemi, a nome di chi deve essere
intestata l’autorizzazione? Ad Antoine Pol. Quell’Antoine Pol che
ha scritto “Les Passantes”? Sì, ma
come fate a saperlo? Georges Brassens ha musicato il vostro poema,
e vorrebbe effettuare la registrazione. D’accordo, parliamone.
Poco tempo dopo Brassens richiama, ma la moglie Yvonne lo informa che nel frattempo Antoine è
morto. Georges ed Yvonne si incontrano alla fine del 1971, e la
canzone viene incisa e pubblicata
nell’ottobre del 1972.
Come sappiamo, la storia non finisce qui, perché anche De André
nel 1974 traduce liberamente ed
incide “Le passanti”.
Ma Brassens non utilizza l’intero
testo di Antoine Pol (e non lo fa
neppure De André). Dei nove
gruppi di sei versi ciascuno, Brassens ne mette in musica solo sette.
Quelli mancanti sono i seguenti:
Alla ballerina sottile e sinuosa /
Che sembrò così triste e nervosa
In una notte di carnevale / Ma
volle restare sconosciuta
E che non è mai più ritornata / A
volteggiare in un altro ballo.
A quelle timide amorose / Che rimasero silenziose
E portano ancora il vostro lutto /
A quelle che se ne sono andate
Lontano, tristi ed abbandonate /
Vittime di uno stupido orgoglio.
Questo il testo originale:
Antoine e Georges
Due poeti
che non si
incontrarono mai
BIZZARRIA DEGLI OGGETTI
Dalla Collezione
di Rossano
a cura di Cristina Pucci
Una
Pompa di benzina mignon, da negozio,
sosta
anni ‘60. Anche se di piccole dimensioni, è alta una ventina di
centimetri, è in tutto e per necessaria
tutto simile a una vera
pompa di benzina di quelle
per
che si trovavano per strada in quegli
anni, serviva per ricaricare
gli accendini.
E come per le automobili si continuare
inseriva la pompa nel serbatoio dell’accendino, un
a fumare
clic, una dose di benzina, 5 lire e voilà!
[email protected]
Pronto per accendere decine di sigarette!
Andare dal tabaccaio a ricaricare l’accendino del babbo era un giochino
molto divertente!
Oggetto, questo, piuttosto raro, beccato
sul banco di un qualche mercatino
amatoriale.
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A’ la fine et souple alseuse, / Qui
vous sembla triste et nerveuse
Par une nuit de carnaval, / Mais
voulu rester inconnue,
Et qui n’est jamais revenue / Tournoyer dans un autre bal.
A’ ces timides amoureuses / Qui
restèrent silenciesuses
Et portent encore votre deuil, / A’
celles qui s’en sont allées
Loin de vous, tristes, esseulées, /
Victimes d’un stupide orgueil.
(Antoine Pol)
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ANGOLO PROUSTIANO
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di Marco Pacioni
[email protected]
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er arrivare ad essere quel titanico
processo che è, la Rechercheè stata
preceduta da prove di scrittura
che nel metodo e nel merito possono essere considerate come una disciplina. Molte delle prose che nel 1896
escono sotto il titolo Les plaisirs et les jours
rientrano a pieno titolo sotto questa etichetta. Soprattutto quelle ora proposte
sotto il titolo Snob (trad. it. di Mariolina
Bongiovanni Bertini, Nuova Editrice
Berti, pp. 93, 9 euro). Il primo racconto,
Violante o la mondanità porta in esergo un
passo dell’Imitazione di Cristo. Benché votate all’affinamento della scrittura e dunque metodologicamente disciplinari,
queste prose lo sono anche nel merito
cioè nel contenuto suggerito dal titolo.
Dal cortigiano al gentlemen, dalla cortigiana alla nobildonna, dal dandy al punk,
dall’esteta alla diva si passa da una disciplina della forma di vita, qual era quella
del monaco e della monaca, alla disciplina
della vita di forma che anziché lavorare a
togliere, a spogliarsi di sé deve continuamente rivestirsi d’altro e d’altri per darsi
appunto una forma. Tale protendere della
vita continuamente fuori di sé per garantirsi il sé, il continuo bisogno di assumere
una propria fisionomia solo se questa è
scorta sullo sguardo degli altri comportano un continuo rischio di dispersione
cui nessuna vigilanza, pur strenua, può
garantire sicurezza. Lo snobismo è l’atteggiamento che cerca di allertare sempre
tale vigilanza.
Nonostante l’aura di condanna che queste prose sembrano a tratti avere verso lo
snob, più che a considerazioni moralistiche Proust è interessato alla descrizione
del processo che caratterizza questo tipo
umano. Un processo che si svolge nei rituali della vita mondana, ma che ha come
vero paradigma l’opera d’arte, l’oggetto di
lusso e già anche il luccichio della merce.
In altre parole, ciò che è in gioco nello
snob è quello che Benjamin, sulla scorta
di Baudelaire, avrebbe chiamato valore
espositivo dell’arte. Ed è in tal senso che
le note disciplinari che Proust prende attraverso queste prose portano dritte a ciò
che gli sta più a cuore e cioè la scrittura, la
letteratura. Ma prima della Recherche lo
scrittore snob è colui che non si è ancora
risolto ad essere personaggio interno alla
propria opera. Sta con un piede dentro
l’opera e uno fuori rischiando così di dissipare la letteratura stessa fuori dalla scrittura e cioè appunto nella mondanità
come fanno i personaggi di Flaubert,
Bouvard e Pécuchet in un’altra prosa di
questo volumetto. “Ora che abbiamo una
posizione, disse Bouvard, perché non
darci alla vita mondana? Pécuchet era
d’accordo, ma bisognava poter brillare in
società e a questo scopo studiare gli argomenti dei quali si discorre nei salotti. La
letteratura contemporanea è di primaria
importanza. Bouvard e Pécuchet si abbonarono alle diverse riviste che la diffondono e le lessero ad alta voce, sforzandosi
di scrivere qualche pagina di critica e ricercando soprattutto la disinvoltura e la
leggerezza dello stile, in vista dello scopo
che si prefiggevano”.
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sabato 20 aprile 2013
Prima della Recherche
Proust era
Snob
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ODORE DI LIBRI
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di Marco Pacioni
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finizione identitaria e dunque con categorie diverse che vanno oltre la logica
binaria nemico / amico, verso le ben
più capillari, totalitarie dicotomie e
simbiosi della bio-politica.
[email protected]
E
ccetto un testo già pubblicato in
appendice a Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941 – 45 (Edizioni di Comunità, 2002), sono
stati da poco tradotti gli altri Jewish
Writings di Hannah Arendt, alcuni dei
quali precedenti e contemporanei ed
altri successivi a quelli della raccolta
‘41 – ‘45, sotto il titolo Politica ebraica
(trad. it. di R. Benvenuto, F. Conte, A.
Moscati, Cronopio, pp. 306, 26 euro).
La scelta del titolo da parte dei curatori
italiani offre un preciso suggerimento
di lettura. Come conferma anche la Postfazione di Clemens-Carl Härle e Antonella Moscati, tale suggerimento
consiste nel dare rilievo alle dimensioni dell’identità e del politico. Negli
scritti qui raccolti si designano due fasi
di interpretazione di queste due dimensioni presenti nel titolo. La prima
fase è quella in cui Arendt evidenzia
come non sia e non debba essere la definizione di un’identità la base dell’azione politica, ma al contrario è il
politico che scaturisce dell’opposizione amico / nemico a determinare
un’identità che, se minacciata, occorre
difendere. In tal senso Politica ebraica è
un atto in negativo, eccezionale, una risposta a chi attacca gli individui costringendoli dentro un gruppo per
difendersi. Li spinge a trasformare il
dato di fatto di essere ebrei entro una
forma politica che strutturalmente è la
stessa del nemico. È per questo che il
dato di appartenenza alla nazione
ebraica per Arendt non può essere assunto positivamente. La nazione non
dovrebbe diventare stato. Ciò obbligherebbe a trasformare altri gruppi in
nazioni nemiche. È nel momento della
necessità, dell’eccezione dunque che
emerge il lato negativo del politico, dell’identità. Tutti questi elementi fanno
capire quanto, le categorie di Arendt risentano del dibattito sulla sovranità e
la natura del politico che ha in Benjamin, Sholem, Schmitt e Kelsen alcuni
fra i protagonisti.
La Shoah cambia tutto. Gli scritti successivi al 1943, quando Arendt inizia a
sapere dello sterminio, determinano la
seconda fase di interpretazione della
relazione fra identità ebraica e politico.
I vari tipi di antisemitismo che pure
Arendt ha cura e acume di elencare e
differenziare, con la Shoah risultano insufficienti. Con il nazismo, l’antisemitismo diventa funzionale allo
sterminio e quest’ultimo funzionale
all’istaurazione di un potere totalitario.
Tale nuova dimensione dell’odio verso
gli ebrei è la ragione principale per la
quale Arendt rinuncia alla pubblicazione indipendente dello scritto Antisemitismo, presente in questa raccolta,
e ne fa confluire la materia, in Le origini
del totalitarismo. Negli scritti che risentono della inusitata nuova materia etica
che esce dai campi di sterminio, nel già
citato libro sul totalitarismo e anche in
Vita activa, Arendt esprime l’esigenza
di capire l’enormità e la specificità del
genocidio ebraico oltre la sua stessa de-
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sabato 20 aprile 2013
L’antisemitismo
prima e dopo la Shoa
ODORE DI LIBRI
Diario amaro del sessantotto
di Leandro Piantini
[email protected]
Franco Petroni, studioso di italianistica
di lungo corso, da parecchi anni si è
messo a scrivere romanzi per i quali
mostra di possedere un genuino talento. Di recente ha ripubblicato quello
dedicato al sessantotto, uscito per la
prima volta nel 1995 e ora riproposto
con notevoli modifiche. E’ una narrazione aspra e dissacrante, svolta attraverso il diario di una studentessa
universitaria che partecipa alle lotte di
quell’anno lontano che vide la rivolta
studentesca dilagare in tutto il mondo.
La ragazza protagonista è un tipo
strano. Viene da una famiglia benestante ma non crede in niente e non ha
fiducia in sé. Racconta quello che succede nella sua città, che non viene mai
nominata. Vede e registra i fatti: lotte
sempre più aspre e un narcisismo imperante tra gli studenti. I capetti in lizza
si scontrano per il potere e all’acume
della ragazza non sfugge una cosa importante: “I giovani..si sono trovati
d’accordo nel volere per sé una parte
del potere”. In quell’ambiente emerge
come leader indiscusso “Il fighetta”, soprannominato così dagli operai tra i
quali predica il suo verbo rivoluzionario: “E’ una forza della natura. Non sta
fermo un momento. Picchettaggi e comizi volanti la mattina all’alba davanti
alle fabbriche, corse da una fabbrica
all’altra…col compagno di turno che
gli fa da autista. Assemblee il pomeriggio e la sera”. Riconoscibilissimo in
questo ben azzeccato ritratto un personaggio destinato a diventare famoso e
tuttora sulla breccia dopo più di quarant’anni vissuti da protagonista.
La lotta raccontata da Petroni è un happening collettivo, che si svolge in un
clima allucinato ed irreale. E il racconto
appare la parabola della cattiva coscienza di una generazione che gioca
alla rivoluzione mettendo in campo
nevrosi personali e conflitti non risolti,
più psicologici che politici. Alla fine ritorna inesorabile la “normalizzazione”
come un copione scontato .Le vecchie
regole sociali riprendono il sopravvento. Macché rivoluzione. Il Pci ha ri-
preso il controllo e i gruppuscoli troveranno tuttavia anch’essi il loro spazio.
I sogni muoiono all’alba. La ragazza si
sposa con un uomo che non ama, un
borghese ricco e privo di passioni ma
che le assicura il benessere e uno status
sociale di tutto rispetto. E questa è la
sua raggelante conclusione: “!o sto
qua, sola col mio morto, e mi sento penetrare dal gelo”.
La sostanza del romanzo è un diffuso
senso di irrealtà, in una visione fondamentalmente nichilista che pervade
tutta la narrazione. Come una cappa di
piombo esso pesa sugli eventi narrati,
che sembrano dominati da una invincibile aspirazione al Nulla.
Il ’68 risulta così l’apparizione di un
momento di felicità collettiva durato
l’èspace d’un matin. Poi riprendono il
sopravvento il vecchio mondo e il ritorno alla normalità borghese, sia pure
ricomparsa sotto mentite spoglie, una
volta tramontate le illusioni della palingenesi e dell’”immaginazione al potere”.
Trovo questo romanzo affascinante e
suggestivo, condotto senza enfasi né
sbavature, sempre equilibrato tra narrazione e cronaca in presa diretta, dove il
disegno dei personaggi si fonde senza
stridori con una convincente interpretazione degli eventi storici.
C
U
O
.com
L’ULTIMA IMMAGINE
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sabato 20 aprile 2013
Sic transit gloria mundi, San Jose 1974
[email protected]
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Bene. Mettiamo un
punto fermo e per il
momento arrestiamoci
qui con la storia della
California e delle sue
automobili. Non
avendo alcuna pratica
come sfasciacarrozze, di
fronte a una specie di
gigantesco TIR con il
rimorchio e una trentina di supercars compresse l’una sull’altra
senza misericordia,
sono rimasto decisamente sconvolto e attratto al tempo stesso.
Ricordo di aver trascorso più di mezz’ora
girando e rigirando attorno all’incredibile visione, mentre i passanti
stupiti si fermavano incuriositi a guardare me
che guardavo e riprendevo! Ho scelto questo
dettaglio perché mi è
parso decisamente il
più eloquente di tutti.
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