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Renzo ha venti anni ed è un pellegrino sulla strada verso
Santiago. Attraverso fatiche, rifugi affollati, difficoltà, problemi fisici,
paesaggi di estrema bellezza e incontri straordinari riuscirà a
giungere alla cattedrale dove riposano le spoglie mortali del Santo.
Al suo fianco c'è Tanatos, enigmatico e anziano compagno,
intriso di saggezza e di mistero. Chilometro dopo chilometro il
cammino saprà insegnare attraverso il dolore e il sudore, mostrando
a Renzo un mondo di emozioni sconosciute. Tappa dopo tappa fino
allo sconvolgente finale, in cui Tanatos mostrerà la sua vera natura e
rivelerà a Renzo il vero significato del cammino.
Basato sull'esperienza dell'autore, che ha percorso interamente
il pellegrinaggio nell’Aprile del 2010, "Il silenzio di un milione di
passi" è un romantico inno al cammino di Santiago e alla sua
capacità d'insegnare e di far scoprire realmente chi si è e cosa si
vuole dalla propria vita.
Formato Romanzo (15x23mm)
Copertina morbida
183 pagine
Prezzo 9€ + spese di spedizione
Leggi i primi due capitoli in ANTEPRIMA
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Prologo
Gentili lettori, mi presento. Mi chiamo Renzo e dopo tante
peregrinazioni e spostamenti, ora vivo a RioMaggiore, una delle
“Cinque terre”, incastonate tra cielo e mare. Qui mi godo il sole, il
silenzio, il mare che brilla nelle giornate d'Agosto, il freddo che è
sempre mitigato dal vento e il tempo trascorre lento, come mai ha
fatto in vita mia. Sono vecchio, abbastanza da considerarmi saggio ma
non tanto da essere reputato un rottame. Continuo a dire la mia e
quando lo faccio, c'è ancora qualcuno che sta ad ascoltare. Sulla mia
carta d'identità c'è scritto "pensionato" ed è la dicitura che preferisco,
anche se qualcuno si ostina a volermi definire scrittore.
Di libri, nella mia vita, ne ho scritti parecchi, alcuni hanno
avuto successo, altri meno, qualcuno è stato un vero e proprio
fallimento. Erano sempre storie d'avventura, amore e passioni, finzioni
frutto della mia immaginazione. Non so perché ma l'avventura più
bella e intensa, quella vera, non l'ho mai voluta scrivere. Ho sempre
preferito raccontarla attraverso la mia voce, fissando negli occhi le
persone che mi stavano ascoltando, senza sentire il bisogno di
trasformarla in frasi e paragrafi. Credo che derivi da una specie di
gelosia, il voler tenere una cosa tutta per sé, affinché sia
esclusivamente nostra, come un diamante che si custodisce nel
cassetto chiuso a chiave di un comodino, per paura che lo rubino.
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Quello che è venuto dopo, la scrittura, quella specie di successo
che ha impresso per sempre il mio nome su un foglio di carta e lo ha
reso pasto di critiche e lamentele, la mia vita, l'amore, tutto quanto, è
figlio di quella grande esperienza, vissuta in quei miei giorni così
acerbi.
Intrapresi il cammino che avevo solo vent'anni e poche idee,
vivendo quegli istanti con la vanità dei giovani, che si credono già
adulti anche se sprovvisti d'esperienza e di capacità di intendere la
vita. Volevo provare tutto, in fretta, in quel tempo che scorreva
veloce, troppo veloce, assaporandone rapidamente tutti i piaceri, come
un bicchiere di vino di cui si beve solo un sorso e il resto si
abbandona, forse per qualcun altro, non interessa.
Dopo il cammino tutto è cambiato, perché è il cammino stesso
che ti cambia, evolve, ti trasforma. E’ la metafora della vita. Voglio
inserire in queste pagine tutte quelle semplici ma importantissime
lezioni che il cammino mi ha insegnato e che ho avuto la fortuna ed il
coraggio d’imparare. Perché per imparare bisogna anche essere
disposti a farlo.
Il romanzo parla di avvenimenti reali, non è stato trasformato
nulla per seguire fini narrativi. Leggerete di quello che ho vissuto e
nulla più. Sono uno scrittore, è il mio compito e ve ne faccio regalo.
Alla fine non si tratta altro che di ricordi, ma si sa, i ricordi sono
il pane dei vecchi.
Soprattutto quando si tratta di vecchi scrittori come me.
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I
Sono passati molti anni da quel giorno in cui risalii le scale che
mi portarono alla città vecchia di Saint-Jean Pied-de-Port. Molti
avvenimenti ed esperienze si sono accumulate sopra quei ricordi,
immagini che la mia memoria fa fatica a decifrare e collocare nei vari
momenti che compongono la vita, come pennellate sbiadite di una tela
lasciata per troppo tempo esposta alla luce solare. Eppure ricordo
benissimo quel giorno e tutti quelli venuti dopo, fino a Santiago, come
se li stessi ancora vivendo in questo momento, mentre finalmente ho
deciso di mettere su carta questa storia. A volte basta un'immagine,
anche solo un frammento, per ritornare a quei giorni, per riscoprire la
malinconia di una giovinezza ormai passata, quell'incoscienza e quella
voglia di vita che mi fecero partire. Altre volte è sufficiente un rumore
o anche un semplice profumo, così simile a qualche essenza incontrata
lungo il cammino, affinché la macchina dei ricordi si rimetta in moto,
senza che possa fare alcunché per fermarla. In un istante mi ritrovo
nuovamente giovane e forte, ad affrontare quegli scalini senza
nemmeno avere idea di dove conducessero. Ricordo inoltre gli
abbracci degli amici, dei genitori, le lacrime della mia fidanzata di
allora, diventata moglie e compagna per tutta questa vita, le loro
esortazioni e gli incoraggiamenti al momento della partenza, i loro
sorrisi. Erano tutti lì, la sera precedente, in una grande e bella sorpresa
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che mi costrinse a scendere in cortile già in pigiama e mezzo
addormentato. Sapevo che non sarei mai stato completamente solo
lungo mio cammino, la loro presenza mi avrebbe aiutato.
Feci il mio ingresso nell’esperienza del cammino nel tardo
pomeriggio, con il sole che cominciava a calare sull'orizzonte sporcato
dai monti e il cielo che s’andava colorando di tinte violacee. Risalii la
città vecchia di Saint-Jean, luogo di partenza del cammino in terra
francese, con le sue case di pietra e le tortuose viuzze d'acciottolato,
fino a ritrovarmi davanti a una vecchia porta intarsiata. Lì, in un
angolo, bastoni, qualche scarpone vecchio, delle conchiglie e la scritta
"Chemin de Saint Jacques" incisa su una piastrella in ceramica. Bussai
utilizzando il vecchio battente arrugginito, non c'era segno di
campanello, mentre mi sembrava di vivere un sogno, come se quello
che stessi facendo non fosse stato reale. Ero arrivato davanti a quella
porta attraverso un'odissea di tempi e mezzi, tra aerei, treni e autobus
da Milano a Parigi per terminare nei paesi baschi francesi. Ancor
prima di quel viaggio c'erano stati otto mesi di preparazione, studio,
letture e d'illusione.
Non sapevo nulla del cammino, del suo significato, del perché
migliaia di persone lo affrontassero anno dopo anno. Sinceramente,
non m’interessava. Avevo voglia di vivere un’avventura intensa e
nuova, di compiere un gesto differente che mi avrebbe reso diverso da
tutti. In quegli anni giovanili avevo sete di conoscere e affrontare le
sfide della vita, bruciavo del desiderio di scoprire quale fosse la verità,
semmai ne esista una. Sentivo come una necessità d’esperienze
uniche, che fossero solo mie, che mi facessero crescere. Ero affamato
di vita. Non avvertivo alcun bisogno di seguire un percorso, non
m’importava del lato mistico e trascendentale del cammino. Ambivo
soltanto ad accumulare un’esperienza in più, che si sommasse alle
tante già vissute. Queste furono le ragioni che mi spinsero a progettare
il cammino, a informarmi e comprare volumi diversi, a sudare giorno
dopo giorno in estenuanti allenamenti di trekking una volta terminata
la giornata lavorativa. Non ci fu nessuna bramosia di scoprire un lato
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spirituale o d’incontrare me stesso dietro la richiesta di un mese di
ferie, fatta implorando il mio capo. Il denaro speso per l’acquisto dei
biglietti e dell’attrezzatura era stato precedentemente destinato a
un’eventuale vacanza, aggettivo con il quale classificavo il cammino.
In sostanza, intrapresi il pellegrinaggio alla tomba del santo Giacomo
senza nemmeno sapere perché lo stessi facendo.
Venne ad aprire un tizio alto e magro, con una folta barba nera
e i capelli spettinati. Sembrava assomigliare a quelle immagini
d’alpinisti sperduti durante le loro ascensioni sulle vette himalayane.
Parlava un francese stentato, sporcato da un pesante accento
dell’Europa settentrionale e molto spesso doveva fermarsi, lasciando
in sospeso la frase come panni lasciati stesi ad asciugare al sole, per
trovare la corretta traduzione di ciò che voleva dirmi. Io rispondevo
con quello che ricordavo dai tempi delle noiose e lunghe ore di studio
scolastico, che era ben poco ma in ogni modo più che sufficiente per
garantirsi una notte al caldo e un po' di pane. Mi fece posare il bastone
in un angolo e mi chiese la credenziale. Si trattava di un opuscolo
pieghevole che indicava le generalità del pellegrino e la destinazione
del pellegrinaggio. Sulla mia figurava la scritta in corsivo “Ad limina
sancti Jacobi”. Era dotata di innumerevoli caselle bianche dove si
sarebbe dovuto apporre il timbro di ogni ostello in cui si trascorreva la
notte. Gliela porsi con il timore di chi fa qualcosa per la prima volta e
ha paura di commettere un errore. L’afferrò con un sorriso bonario, da
persona che crede nell'armonia del mondo, e impresse il primo timbro
in una casella fino a quel momento vergine e bianca.
Pagai e lo seguii al piano di sopra, dove mi mostrò il
dormitorio. Annunciò che avevo cinque minuti prima che iniziassero a
servire la cena. Quando mi ritrovai solo, nel silenzio della camerata
deserta, con i segni degli altri pellegrini sparsi sui vari letti, mi sembrò
di provare una strana felicità. Come una gioia frenata dalla paura e
dalla malinconia. Il cammino di Santiago, per mesi sognato,
desiderato, studiato, finalmente stava per diventare realtà, vita da
vivere, oppure già lo era e non ero ancora in grado di capacitarmene.
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Disfeci il sacco a pelo e lo posai sull'unico letto libero. Poi lavai la
faccia e mi cambiai in fretta i vestiti sudati.
Sistemai lo zaino, sforzandomi di comprimerlo per farlo entrare nel
vano, cercando di non fare troppa confusione. I miei impegni furono
interrotti dal suono di un campanello. Era pronta la cena.
Scesi le antiche scale di legno che odoravano di lucido e
polvere e m'infilai in un cortiletto riparato da un tetto in vetro che
lasciava filtrare le luci del tramonto. Le panche, disposte ai due angoli
opposti, erano già interamente occupate. Mancavo solo io. Presi posto
al fianco di due signori francesi sui settant'anni, che conversavano
amabilmente sulla qualità del vino servito. L'hospitalero, che con
addosso quella felpa così stropicciata sembrava ancora di più un
sopravvissuto sull'Everest, cominciò a elencare in un fluido inglese le
regole dell'ostello, gli orari e quant'altro. Poi invitò i presenti ad
alzarsi in piedi, a presentarsi e spiegare quale fosse la motivazione del
proprio pellegrinaggio a Santiago. Cominciò un andaluso barbuto che
balbettava dall'emozione. Quando venne il mio turno raccontai nel
mio inglese scolastico che non sapevo perché stessi per cominciare il
pellegrinaggio e speravo che sarebbe stato proprio lo stesso cammino
a mostrarmelo. Un pellegrino alto e anziano, con dei lunghi capelli
argentati e una barba bianchissima, m'impressionò notevolmente.
Parlava un inglese perfetto, senza intoppi né accento, disse di
chiamarsi Tanatos e di voler fare il cammino per scoprire il segreto
dell'animo umano. Ancora adesso, dopo tutti questi anni, non riesco a
comprendere a fondo quali furono le ragioni della mia attrazione,
forse quel suo sguardo altero, i suoi capelli argentati, la sua voce
profonda, il suo inglese fluente. Non saprei dare una spiegazone
accettabile, nemmeno ora che so benissimo chi fosse quell’uomo e
cosa rappresentasse in quel momento, eppure qualcosa mi spinse a
passare tutto il tempo della cena con l'impressione di avere i suoi
occhi addosso, come se mi stesse spiando. Quando però trovavo il
coraggio e alzavo la testa per osservarlo e magari incrociare il suo
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sguardo, lo scoprivo sempre chino sul suo piatto, lontano dalle
conversazioni.
L'hospitalero ci servì una zuppa di farro, del risotto e un dessert
composto da albicocche immerse nello yogurt, il tutto annaffiato da
vino rosso francese. La mia prima cena da pellegrino sul cammino di
Santiago. Ricordo ancora i sapori nuovi e l’incertezza che colorava
ogni mia parola. Ho dimenticato i temi su cui verterono le
conversazioni ma sono convinto che rappresentino la parte meno
importante di quella prima e irripetibile serata.
Dopo la cena mi precipitai in stanza, come se avessi paura di
ritrovarmi sulle scale quello strano personaggio dai capelli bianchi. Mi
lavai i piedi alla bell'e meglio e poi passai ai denti. Durante il
cammino avrei imparato a razionalizzare il tempo e lo spazio per la
lavanda quotidiana ma in quel momento ero ancora uno sprovveduto
pellegrino che cercava di raccapezzarsi, come un viaggiatore che
abbia sbagliato treno e si sforzi di capire in che stazione sia finito.
M'infilai nel sacco a pelo mentre gli altri pellegrini ancora
stavano ultimando la preparazione prima di andare a dormire.
L’attività era febbrile: c’era chi preparava i vestiti che avrebbe
indossato il giorno seguente, chi sistemava l’attrezzatura all’interno
dello zaino e chi si concentrava sulla toilette quotidiana. Pochi
parlavano, assorti nei propri pensieri e gli sguardi erano tenuti bassi,
come se ci si stesse vergognando di essere lì. La fratellanza e
l’immediata simpatia tra pellegrini che nasceva spontanea lungo le
tappe del cammino era ancora lontana da venire.
Steso nel sacco a pelo, mi stancai presto di osservare il vespaio
sottostante e mi sdraiai su un fianco con l’obiettivo di prendere sonno.
Sentii come un calore strano partire dai piedi, risalire lungo la colonna
vertebrale ed esplodermi, rosso, nelle guance. Non faticai a
comprendere di cosa si trattava: era paura. Paura del fatto che dal
giorno seguente avrei dovuto fare affidamento esclusivamente sulle
mie forze e questo mi destabilizzava, perché non sapevo fino a che
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punto avrei potuto contare su me stesso, sulla mia motivazione e sul
mio allenamento.
Quando l'ultimo pellegrino spense la luce, mi addormentai di
colpo, provato dal viaggio e dalle emozioni di quella giornata.
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Alcune frasi tratte dal romanzo
Mi stesi nel sacco a pelo quando la maggior parte dei pellegrini
stava ancora preparando il tutto per la giornata seguente. Ero
attorniato da sbadigli, rumori di sacchetti di plastica, di zaini aperti e
di cerniere richiuse. L'hospitalera, alle dieci in punto spense e riaccese
per tre volte la luce ed i pellegrini ritardatari schizzarono nei sacchi a
pelo come gatti sorpresi dal padrone a dormicchiare sul divano buono.
Mi addormentai quasi subito, fiaccato dalla fatica di quella prima
tappa.
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Trinidad rappresentò per me la prima vittoria delle tante sfide
che il cammino mi lanciò, quella della solitudine, della malinconia.
Quella della voglia di gettare tutto alle spalle e tornare a casa, perché
continuare sarebbe solo da stupidi. Realizzai, in quel dormitorio dai
copri materasso in plastica a disegni scozzesi, che non era così, che
avrei continuato, che sarei andato avanti, fin dove non lo immaginavo
ancora, magari fino a Santiago, oppure no. In quel momento non
contava la meta ma il fatto di rimettersi in marcia il giorno seguente.
A Trinidad compresi che è molto più facile dirsi “non ce la farò mai"
piuttosto che "ce la posso fare".
----------------------Non riesco ancora, dopo tutto il tempo che è passato, a
comprendere perché ma giusto prima di cedere al sonno, capii
d’essere felice. Per tanti anni mi sono scervellato a rincorrere una
spiegazione ma ora ormai ho accettato il fatto che a volte, nella vita, si
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è felici senza avere un motivo specifico per esserlo. Quelli sono
momenti che non si dimenticano più.
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I nomi di quei luoghi si confondono nella mia memoria e per
quanto mi sforzi non riesco a ricordare altro che immagini sfuocate,
ricordi vaghi mescolati a una sensazione di noia e fastidio. Fromista,
Carrion de los Condes, San Nicolas de puente Fitero, Sahagun, El
Burgo ranero, Mansilla de las mulas, questi sono i nomi dei vari paesi
in cui sostai, solo parole scolpite nella memoria, suoni o immagini che
hanno perso tutta la loro carica emozionale. L'unico ricordo ben
definito di quelle tappe è che furono di una noia incredibile.
----------------------In realtà quella non era altro che l'ennesima lezione del
cammino, perché bisogna sempre andare avanti, anche quando sembra
la cosa più stupida da fare, anche quando tutto sembra remare contro
di noi. Andare avanti, solo così si raggiungeranno dei risultati, non
bisogna mai fermarsi al primo ostacolo. I problemi si risolvono man
mano che arrivano. In quel momento il mio era una brutta dissenteria
accompagnata dalla febbre.Questo però lo capii solo più tardi, mesi o
anni dopo quel giorno. In quell’attimo, mentre mi rimettevo in marcia,
pensai se davvero tutto quello avesse un valore.
Purtroppo non seppi scoprire quale avrebbe mai potuto essere.
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Osservando quello panorama unico, mi resi conto che avevo
dovuto sudare ottocento chilometri per giungere davanti a quello
spettacolo. Attraverso sentieri, montagne, paesini sconosciuti fuori dal
mondo e grandi città, sudore, lacrime, incontri straordinari.
Compresi che ero venuto al mondo per godere del momento in cui il
vento s’acquietava e il rumore del mare si placava e scompariva nel
nulla. Un secondo infinito di silenzio denso, da bere, da vivere, da
toccare e baciare. Passo dopo passo solo per arrivare all’appuntamento
con il silenzio più splendido della mia vita, in cui il tempo e l’armonia
del mondo si erano rinchiusi in un incredibile mutismo.
Il silenzio di un milione di passi.
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Gentile lettore,
Ho percorso l’intero cammino di Santiago nell’Aprile del 2010. Sono
partito da Saint-Jean una fresca mattina di primavera e ho raggiunto
Santiago de Compostela trenta giorni dopo, in una cornice quasi
estiva sotto un cielo color diamante. Nel mezzo ci sono stati 813 km di
sentieri, strade, incontri, problemi e sofferenza. Lo zaino, le vesciche,
la tendinite, la diarrea, il cammino non è certo stato benevolo con me.
Se da una parte però ho sofferto e posso affermare che sia stata dura,
davvero dura, riuscire a completarlo, dall’altra ricorderò per sempre
i nomi, i visi e le parole delle persone incontrate lungo il cammino,
così come le notti di solitudine.
Ho sempre amato i libri che spronassero chi li stesse leggendo
a pensare. In quelli che ho scritto ho sempre cercato di creare
quest’alchimia, con la strana immodestia di credermi davvero capace
di scrivere, di appassionare qualcuno tanto da far sì che spenda il suo
tempo nella lettura di ciò che scrivo. Quello che spero è che quando i
miei fidati e pochi lettori chiudano il libro e lo ripongano per sempre
nelle librerie delle loro case, alcune frasi ritornino loro in mente e li
aiutino a ragionare. Mi piacerebbe tanto che le mie storie non fossero
solo storie, minuti leggeri passati su un divano o in spiaggia ma
riescano a essere qualcosa di più, quel qualcosa che ho sempre
cercato nei libri che ho letto in tutti questi anni, come affamato di
carta e parole. Qualche volta l’ho trovato, altre invece no.
Questo è quello che cerco di trasmettere attraverso ciò che
scrivo, che altro non è che la trasposizione in parole delle mie
esperienze, delle mie paure e della mia stessa anima, che si snocciola
pagina dopo pagina.
Non mi reputo certo un pensatore o un saggio, vivo la vita a
modo mio e scrivo nella maniera che più mi piace. Non pretendo di
invogliare schiere di potenziali pellegrini a percorrere il cammino, né
di sciogliere i dubbi di chi è indeciso o sente imminente il momento
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della partenza. Scrivo perché è la mia passione, perché amo farlo e
bisogna farlo, se se ne sente il bisogno. Scrivo affinché riesca a
trasmettere quel poco che so, quel poco in cui credo, nella maniera in
cui riesco a farlo, senza grandi idee di successo né di consenso. La
mia è solo una voce in mezzo al rumore o, per dirla in maniera più
romantica, solo una goccia in un oceano. Eppure quell’oceano non è
altro che l’insieme di miriadi di gocce, una vicino all’altra. Spero che
anche la mia riesca a dare il suo contributo.
Nella stessa misura in cui, quando inizio a scrivere un libro,
non immagino certo che piega prenderà e dove mi condurrà la
scrittura, ignoravo completamente quale fosse il significato del
cammino, ciò che mi attendeva e quello che avrei dovuto affrontare.
Vivere il cammino è stato come ritrovarsi a scrivere di un libro del
quale ero protagonista, con i miei difetti, le mie capacità e i miei
dubbi. I giorni sono passati lenti, innumerevoli le riflessioni e i
momenti di silenzio, infiniti gli attimi di scoramento, incredibilmente
profonde le sensazioni di felicità.
Tutto questo ho cercato di ravvivarlo e condensarlo in questo
romanzo che ho scritto nei mesi successivi a quell’esperienza. Come
ogni romanzo è partito da un’idea nebulosa e fantasiosa che già era
nata nei miei giorni pellegrini ed è cominciato con una parola. Una
semplice parola, un verbo, aggettivo, avverbio o preposizione che dà
il via a tutto quanto. Una parola seguita da altre, molte o poche
questo è giudizio sindacabile e soggettivo, fino a creare quello che
stai per cominciare a leggere.
Frase dopo frase ho rivissuto interamente il mio cammino,
spero che anche tu riesca a viverlo esattamente come ho fatto io,
assaporando un po’ delle mie emozioni. Se ci sono riuscito solo tu
potrai dirlo ma anche in quel caso, il tutto rimarrà sindacabile e
soggettivo.
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Non smettere mai di camminare verso i tuoi sogni ed i tuoi
obiettivi, è l’unica cosa che possiamo fare per rendere la nostra vita
davvero degna di essere vissuta.
Ti auguro una buona lettura.
Omar Gatti
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L’AUTORE
Omar Gatti.
Classe 1985, disegnatore meccanico.
Da sempre appassionato di lettura e di
viaggi intorno al mondo, si ritrova a scrivere
il primo racconto sulle Ramblas, a
Barcellona. Da allora non si è più fermato.
Autore di articoli di storia musicale per il sito “Noisymusic.it”,
partecipa a vari concorsi locali dove riesce a togliersi le prime
soddisfazioni.
Il primo romanzo è “Il filo di Arianna”, vicenda parzialmente
autobiografica di un ragazzo che insegue il proprio amore attraverso
l’Europa. Successivamente si dedica a “Il delicato suono del tempo”,
romanzo sul passato del miglior sassofonista italiano, dal tono
malinconico e triste come un brano jazz. Con “Un fado a Lisbona” si
cimenta nel racconto giallo, che riproporrà ne “Notturno parigino”,
nato da una scommessa.
Nell’Aprile del 2010 percorre l’intero cammino di Santiago.
Da quell’esperienza nasce il romanzo “Il silenzio di un milione di
passi”, nel quale ha racchiuso gli insegnamenti e le emozioni vissute
durante il pellegrinaggio.
Per contattare direttamente l’autore è possibile scrivere una mail a:
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DELLO STESSO AUTORE
Il Filo di Arianna
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Renato e Lucia si conoscono in una
gelida notte di Gennaio a Berlino. Tra
loro nasce subito una passione
dirompente. Il problema? Renato è
italiano di Como, Lucia è spagnola, di
Madrid. Tra i due fiorisce una storia a
distanza che nonostante le difficoltà
sembra
poter
durare.
Improvvisamente Lucia sparisce, fa
perdere ogni contatto. Renato dopo
aver sudato, sofferto, pianto e
pensato decide di partire per andare a
cercarla. Parte per Madrid. Si ritroverà
a dover inseguire il fantasma di Lucia
per un'Europa annegata nel caldo di
un agosto qualunque. Da Madrid a
Barcellona, da Zurigo a Roma, attraverso prove, incontri, paure e
difficoltà, percorrendo il lungo labirinto della propria eistenza. A
guidarlo c'è il suo personalissimo filo di Arianna, l'immagine di Lucia,
a volte così vicina da poterne sentire l'odore, altre talmente lontana
da non poterla nemmeno immaginare. Un susseguirsi di prove fino
all'inaspettato finale.
Il delicato suono del tempo
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capitoli
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l'audio
dell'incipit del romanzo
Il suono che Giosuè Lombardi sa
regalare è qualcosa di magico, unico e
romantico. Languido come un bacio
innamorato e malinconico come una
poesia di Jacques Prevert. Il suono del
19
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migliore sassofonista d'Europa. Dietro la patina di un successo
musicale senza precedenti si cela la vita di un uomo disilluso e
distrutto, dedito all'alcol e alle droghe. Giosuè, che ha conosciuto la
notorietà alla soglia dei sessant'anni, è in realtà un uomo venuto dal
nulla, dal passato misterioso e nebuloso quanto le sue canzoni. Una
lettera lo costringerà a fare i conti con quel passato, perso in una
notte dei primi anni settanta, in un' Atene soffocata dal regime dei
colonnelli. La notte in cui aveva tradito tutto quanto. L'amore,
l'amicizia e la musica. Da allora troppe domande sono rimaste senza
risposta. Chi ha venduto Anghelikì ai militari? Chi ha ucciso Sbraolin?
Che fine hanno fatto i "Souvenir d'Italie"? In un crescendo
d'emozioni e di suspence, in un romanzo dal sapore romantico e
malinconico, Giosuè finalmente potrà svelare le verità di quella
notte. Per ritrovare la pace, persa per oltre quaranta anni, la notte in
cui aveva smesso di vivere. "Il delicato suono del tempo" è un
romanzo da leggere tutto d'un fiato, con la colonna sonora che
spazia dal jazz all'elettronica, alla ricerca del suono perfetto, il suono
del tempo che scorre, inesorabile.
Un fado a Lisbona
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l'anteprima dei primi due
capitoli
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In una Lisbona di fine primavera, tra la
luce
abbagliante
che
si
riflette
sull'Atlantico e le vie del casco Antiguo,
si svolge la vicenda del "killer del
Fado". Sei omicidi inspiegabili, con le
vittime ricomposte in una strana
posizione ed una frase di una canzone
di Fado, la musica tipica portoghese,
quella della "saudade", la nostalgia
della vita, lasciata tra le dita della
vittima. L'indagine viene affidata al
commissario Fonseca, coadiuvato dal
tenente Dos Reis, ex mastino della
repressione. Infatti le vittime sono accumunate da un filo rosso:
hanno fatto parte tutte della resistenza contro il regime di Salazar.
In un crescendo di violenza e suspence, in una Lisbona oscura e
tormentata, fino all'impensabile finale, imprevedibile come un
canzone di Fado.
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Notturno parigino
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l'anteprima della prima parte
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Notturno parigino, un racconto veloce ed
etereo, che si snoda nelle ore buie di
una fredda notte d'anteguerra, a Place
Saint-Germain.
La
storia
della
compravendita di un quadro di Picasso
rubato. Una compravendita strana, un
gruppo
di
ladre
romantiche,
un
trafficante d'arte d'origine italiana, un
ispettore di polizia avvinazzato, un killer
della malavita marsigliese, tutti nello
stesso luogo, quella stessa notte. Tra i
fumi dei sigari che galleggiano a
mezz'aria, il suono di un pianoforte a
coda e la voce nervosa di una stupenda
cantante. Un racconto da leggere d'un fiato, per ritrovarsi in
un'atmosfera nostalgica,in bianco e nero, da film muto dal
sottofondo musicale leggero e lento, dalle tinte jazz.4
La leggenda del piccolo armaiolo
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gratuitamente
l'anteprima della prima parte
Acquista una copia
C'era una volta, così cominciano tutte le
fiabe. Così inizia anche la fiaba della
bellissima
principessa
Elena
dagli
splendidi occhi verdi e del suo
spasimante,
un
piccolo
armaiolo
dall'anima poetica. Nonostante le poesie
scritte per lei, non riuscirà a farla
innamorare. Per cui si troverà a dover
partire e affrontare un lungo cammino
nel regno dei tori ribelli, per giungere a
Campo delle Stelle. Qui infatti vive il
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Santo Giacomo, l'uomo più saggio del mondo, che svelerà al piccolo
armaiolo il segreto del cuore della principessa. Prima di poterla
riavvicinare, il piccolo armaiolo dovrà affrontare altre ardue imprese.
"La leggenda del piccolo armaiolo" è una fiaba moderna, un inno
alla forza dell'amore che rende capace ogni persona di gesta e
imprese incredibili ed impensabili, al solo scopo di ottenere l'amore
dell'altra persona.
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