Questo documento raccoglie i primi, provvisorî risultati di un lavoro presentato, per la parte 1, ad un recente convegno. L’autore intende continuare ad aggiornarlo anche dopo la prossima pubblicazione degli atti, nei quali si augura di poter impostare un ragionamento più argomentato, sia sui problemi e sulle prospettive nuove che si aprono per lo studio della tradizione manoscritta di Carisio sia su dettagli di critica testuale e di Quellenforschung qui solo abbozzati ed esposti oralmente ma in breve al convegno. Sarà comunque essenziale proseguire, secondo un progetto già delineato (anche sulla scorta dei fecondi contributi di Carmen Codoñer), il censimento e le collazioni dei codici delle Etymologiae che recano le interpolazioni, e proprio a tal fine si renderà opportuno in questa sede un aggiornamento progressivo dei risultati, con eventuali rettifiche delle ipotesi qui prospettate. In particolare, per il momento, sarebbe prematuro affrontare alcuni aspetti cruciali per la questione che ritengo essenziale: stabilire cioè se l’interpolazione 1 discenda dal codice N, in condizioni migliori delle attuali (quanto basterebbe comunque a conferirle un considerevole valore) e con ricorso a felici congetture, o da una tradizione indipendente da N (come quella di cui si discute un nuovo testimone al punto 3). La ricerca dovrà offrire spunti per individuare l’origine geografica e cronologica dell’interpolazione, attraverso l’esame di codici che non ho ancora consultato e di altri dove conto di rintracciarla; tale operazione, anche se non si riuscirà ad identificarne un archetipo eventualmente conservato, potrebbe servire a circoscrivere il numero degli errori paleografici comuni realmente significativi e a riconoscere se questi siano compatibili con le caratteristiche di N. Analoghe intenzioni di approfondimento della storia della tradizione manoscritta ispireranno le integrazioni che mi attendo per lo studio delle due interpolazioni dal cosiddetto Isidorus iunior discusse al punto 2. FIRENZE, 24 dicembre 2013 IL LATINO DEI GRAMMATICI: ASPETTI DELLA RIFLESSIONE LINGUISTICA NEL MONDO ROMANO PISA, 7 novembre 2013 ERNESTO STAGNI Carisio e Isidoro interpolato, i capitoli delle figure: novità sulla tradizione manoscritta 1. Un’interpolazione in Isidoro da Carisio IV.5 (DE BARWICK, pp. 371-3751 = GL K. 1.283-2872) SCHEMATE DIANOEAS ed. TESTIMONI CONSULTATI FINORA Per Carisio: N= Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, IV.A.8, f. 24v (n= ibid. IV.A.10; n1= ibid. IV.A.9) F= Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana plut. 90 sup. 17.1, f. 34rv O= Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottoboniano lat. 477, f. 28rv R= Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reginense lat. 1824, f. 14rv T= Tolosa, Bibliothèque Municipale, 176, ff. 26rb-27ra V= Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano lat. 623, f. 20rb-vb Σ= FORTV (Isid. etym. ante 2.22) Il nostro brano fu notato da ARÉVALO, II, p. 2343 (= PL 81, col. 770 C) nella descrizione di V e riconosciuto come carisiano da CODOÑER (cfr. p. 12 con n. 32 e pp. 24-25 per RV e per altri codici)4. Il precedente capitolo 2.21 De figuris verborum et sententiarum si ferma a 2.21.2 nei più antichi testimoni della famiglia di origine italiana siglata β da Lindsay e in altri gruppi di codici, ma il vero e proprio elenco di figure di 2.21.3-48 fu noto in Italia fin dalla fine del sec. VIII (compare nella sezione isidoriana dell’Anonymus Ecksteinii del protobeneventano Parigi, Bibl. Nat. de France, lat. 7530, e in manoscritti delle Etymologiae già nei primi decenni del sec. IX) e fu spesso ripristinato per contaminazione. Tutti gli esemplari di Σ, pur se tardi (secc. XIII-XIV, ma R può essere un po’ anteriore) e molto contaminati, e R con molti rimaneggiamenti e abbreviazioni, contengono, fra altre interpolazioni, brani attestati in origine solo in β, come l’Indiculus de haeresibus pseudo-geronimiano a etym. 8.4-8.55. FOTV contengono l’intero capitolo 2.21, vicino per argomento all’estratto carisiano interpolato. R giunge solo a 2.21.1 deflectat e potrebbe aver trovato un testo di 2.21 ancora incompleto (ma la sua tendenza a decurtare non lo garantisce): in tal caso, l’originario interpolatore avrebbe forse inteso colmare il vuoto di un modello di tipo β (lo stemma qui proposto, verificato anche per l’Indiculus nel libro VIII, sarebbe compatibile con quest’ipotesi: il subarchetipo di FOTV risalirebbe a tradizione contaminata). STEMMA PROVVISORIO DI Σ Σ R F 1 2 O T V http://books.google.fr/books?hl=it&id=Og4jAAAAQBAJ&dq=%22dianoeas+a%22+inauthor%3A%22Charisius%22&q=%22dianoeas+a%22#v=snippet&q=%22dianoeas%20a%22&f http://books.google.fr/books?id=rfIUAAAAQAAJ&pg=PA283&dq=%22lexeos+hoc+distat%22&hl=it&sa=X&ei=UaFUqKKCunV4gTr74DgCQ&ved=0CEMQ6AEwAw#v=onepage&q=%22lexeos%20hoc%22&f 3 http://books.google.fr/books?ei=poFWUpqcJqOL4ATpyoAY&hl=it&id=EM4hAQAAMAAJ&dq=%22de+lectione%22+%22de+transitu%22&q=%22de+lectione%22#v=onepage&q=%22de%20lectione%22%20%22schemate%22&f 4 È prevedibile che altri manoscritti siano fra quelli ricordati dalla stessa CODOÑER 2008, in part. pp. 18 e 23-24, o da HUGLO, p. 182. Su questi e su altri aspetti della tradizione italiana di Isidoro cfr. STAGNI. https://www.academia.edu/attachments/30321066/download_file. http://crm.revues.org/10452, 5 1.1 Un nuovo frammento di Carisio: de lectione Alla fine dell’interpolazione, l’inizio di IV.6 (perduto con metà di un nuovo fascicolo in N già al tempo dell’apografo n, dopo il 1493: che vi si trovasse proprio un De lectione è garantito dall’indice dei capitula in testa al manoscritto e dalla réclame dopo IV.5, cfr. BARWICK, pp. VI, 3.30 e 375.10 con apparato): immagini in rete da T, f. 27ra6 e F, f. 34v7. DE LECTIONE Lectio est omnium script[ur]arum rerum in versificatione<m> redactarum pro modo cuiusque meditata comprehensione pronuntiatio8. RUBRICA post LECTIONE add. O (sic)|| Lectio] Sectio ut vid. T|| genus ut vid. post rerum add. R|| verificatione FO|| redactum R|| modo R] domo cett.|| ac post cuiusque add. R Varrone, GRF I, pp. 266-267, n° 2369 (ma l’attribuzione è poco affidabile10, e meno ancora proprio da lectio in poi): …lectio est varia cuiusque scripti enuntiatio serviens dignitati personarum exprimensque habitum cuiusque da Diomede, GL K. 1.42611 e Dositeo, ed. BONNET, p. 3 (praticamente identici, anche se Diomede combina con un’altra fonte): Cfr. anche n° 234 sugli officia, e ancora (epitome «Scauro II») «Max. Vict.» GL K. 6.188 grammaticae autem officia… Lectio quid est? Secundum accentus et [v.l. ad] sensuum necessitatem propria pronuntiatio [v.l. enuntiatio]= Aud. GL K. 7.322 [enuntiatio, v.l. pronuntiatio]. In entrambi definizione di pronuntiatio (terza pars della lectio) praticamente coincidente con Diom. GL K. 1.436: Pronuntiatio est scriptorum secundum personas accommodata distinctione similitudo, cum aut senis temperamentum aut iuvenis protervitas aut feminae infirmitas aut qualitas cuiusque personae ostendenda est et mores cuiusque habitudinis [Vict.=Aud. habitus] exprimendi (notevole affinità di contenuto e struttura con la ritrovata definizione carisiana di lectio). Alla luce delle ricerche più recenti12, Diomede dipende spesso da Carisio, ma conosce e usa anche la fonte (Cominiano?), il Gewährsmann di Barwick, che Carisio stesso condivide con Dositeo e con l’Anonymus Bobiensis. D’altronde (cfr. ora BONNET, soprattutto pp. XVI-XVII e 178-179) non mancano accordi fra i soli Diomede e Dositeo senza altri riscontri, soprattutto quando tace Carisio (o almeno la tradizione che ne conosciamo, che Barwick considerava decurtata). Nel nostro caso, una definizione di lectio (come quelle successive degli altri officia) si ritrova praticamente identica in Diomede e Dositeo: ma ora sappiamo che Diomede non può averla ricavata direttamente da Carisio, dove esiste ma è diversa, anche se una fonte comune più o meno remota si potrà comunque postulare in ultima analisi. Se si trattasse ancora del Gewährsmann (ammesso che si occupasse espressamente degli officia del grammatico), Carisio sarebbe stato (insolitamente?) meno fedele. Ma Diomede e Dositeo potrebbero aver sfruttato, in questo punto come altrove, una fonte comune (solo a loro?), ad esempio Sacerdote (maestro di Cominiano?), la cui ars ci è giunta acefala, o Scauro13. 6 7 http://bvmm.irht.cnrs.fr/consult/consult.php?COMPOSITION_ID=11077&mode=ecran&IMAGE_ID=439360&corpus=manuscrit http://teca.bmlonline.it/TecaFrontEnd/servlet/readImg?RisIdr=TECA0001091873 8 Probabilmente l’interpolatore distratto aveva continuato a copiare da Carisio anche dopo il brano che lo interessava, in quel punto d’Isidoro, sugli schemata dianoeas, ma si accorse presto dell’errore, senza sopprimere il superfluo. È assai remota la speranza che sopravviva un tratto più lungo in qualche codice ancora da rinvenire e più vicino all’originale e che dunque Σ rappresenti un subarchetipo decurtato, o che qualcuno abbia annotato il séguito altrove, ad es. in margine a 6.19.9 dove si definisce la lectio (hic sola pronuntiatio quaeritur) ma in contesto religioso. 9 https://archive.org/stream/grammaticaeroma01funagoog#page/n300/mode/2up 10 11 12 Critica serrata (forse anche troppo: il longevo e prolifico Varrone può aver dato definizioni diverse in opere differenti) in DAMMER, pp. 189-201. http://books.google.fr/books?id=oJcQh6Qdw00C&pg=PA426&dq=%22varia+cuiusque+scripti%22+inauthor:keil&hl=it&sa=X&ei=EACGUpLkC5DAtAb0roGgCw&ved=0CDkQ6AEwAA#v=onepage&q=%22varia%20cuiusque%20scripti%22&f Si vedano almeno le voci dedicate ai grammatici nominati in questo paragrafo da NHLL= HLL (http://books.google.fr/books?hl=it&id=Vmy3A8Cw4cMC&dq=%22522.1%22+%22ein+scaurus%22+%22cominianus%22&q=%22ein+scaurus%22+%22cominianus%22#v=snippet&q=%22ein%20 scaurus%22%20%22cominianus%22&f) e soprattutto DAMMER, SCHENKEVELD, BONNET, URÍA, con bibliografia ivi citata. 13 Vanno comunque trattati con prudenza gli indizî apparentemente più spettacolari a favore di Sacerdote, come quello discusso ora da CONDUCHÉ (anche per una dipendenza remota da Scauro), http://tel.archives-ouvertes.fr/docs/00/85/80/01/PDF/CONDUCHE_Cecile.pdf, specialmente pp. 178-179: potrebbe 1.2 Un frammento tragico restituito a miglior vita? TrRF I (ed. M. Schauer 2012), pp. 287-28814, Fragmenta adespota, n° 138 TESTO secondo Barwick, pp. 374-375 (in apparato varianti manoscritte aggiornate su Σ) per epitropen «siue ista virtus seu latrocinium <fuit>,/ horrendum miserandum fuisse clamitant/ insonti * quod extulisti saucios/ patrio Lare». eptropen Σ (-ofen R)|| ista Ribbeck1] ita N, om. Σ|| seu Ribbeck1] sive ita N, sive Σ (sine ita)|| patrocinium N|| <fuit> Keil|| orrendum R, horridum Ribbeck1|| miserandum Keil] -da codd. (“Cod.” Lindem.)|| fuisse Keil] fia (vel fin vel fiu) e(ss)e N (“fia (sic) esse Cod.” Lindem.), sive est OTV, ed. princ., sive FR (ante miser- transp. R)|| clamitant Keil] -tas N (“Cod.” Lindem.), calamitas Σ, ed. princ.|| insonti n (N non legitur)] infantium Σ|| lacunam post insonti statuit Barwick, pro insonti quatuor pedum Keil || quod] quos R, quam ut vid. T|| estulisti R (da verificare se le lezioni dell’editio princeps siano già anticipate da n1, dal momento che il silenzio di Barwick non garantisce15; in corsivo nel testo interventi ope ingenii accolti da Barwick [ma latrocinium di Keil è anticipato da Σ], in rosso nel testo o in apparato varianti a mio avviso poziori di Σ rispetto a N o- dove in N si è persa scrittura per la consunzione del margine destro- agli apografi, tutte già attestate, o meglio congetturate, tranne infantium, cfr. sotto, 1.3.1.1 b, decisivo anche per la metrica; quos per quod sarebbe facilior e non ha autorità stemmatica ma va presa in considerazione). Per una rassegna completa di letture e congetture di studiosi ed editori precedenti sul frammento rinvio all’ed. Schauer; per la rappresentazione dei danni ai margini di N16 si raccomanda soprattutto l’apparato di trascrizione semidiplomatica di GL K. 1.278. A modest proposal for preventing the children… from being a burden…: siue i<s>ta uirtus seu latrocinium horridum miseranda siue est calamitas infantium quod extulisti saucios patrio Lare… 1.3 Lezioni poziori in Σ: novità e conferme Quasi sempre (ved. 1.3.1) Σ offre lezioni giuste in punti dove N risulta oggi illeggibile per colpa dei margini danneggiati (come infantium di 1.2). Molte vi erano state lette per intero o almeno in parte divinate alla fine del Quattrocento e nei primi decenni del Cinquecento da n- e poi anche dal Parrasio (che era entrato in possesso di N), annotatore e forse committente di n1, a sua volta copia di n- o ancora, nel 1823, da Niebuhr. Le condizioni di conservazione erano peggiorate (fra l’altro con distacco di alcuni frammenti recentemente ritrovati dall’inizio dell’Ars), già dopo un trentennio, al momento dell’esame autoptico di Keil: l’editore dei Grammatici Latini attribuisce talora a restituzioni meramente congetturali alcune lezioni che al Cod(ex), spesso- ad avviso di Keil- arbitrariamente o con errori, aveva ascritto Lindemann proprio sulla base della collazione di Niebuhr, oggi non più verificabile in quanto perduta17. Ma almeno in due punti (cfr. sotto, 1.3.1.1 d) la sua lettura- che sia frutto di maggior attenzione o competenza paleografica o anche, almeno in parte, integrata ope ingenii- trova conferma proprio in Σ (di grandissimo significato, in particolare, de nomine a 374.24 B. dopo hic, in un punto dove n segna lacuna). Sono invece rare le lezioni di Σ sicuramente o assai probabilmente superiori a quelle che ancora si riconoscono in N, concentrate verso la fine del capitolo e in particolare nel frammento tragico trattato sopra in 1.2 (ma cfr. sotto, 1.3.2, e altre varianti tutt’al più adiafore). Le migliorie, dal punto di vista paleografico (o anche solo ortografico, come acerbior per acervior a 373.21), sono generalmente minime e in qualche circostanza, se non sempre, il merito potrebbe essere, per congettura o per un caso fortunato, di qualcuno che dipendesse, direttamente o indirettamente, proprio da N. L’interpolatore (o chi eventualmente trascrisse da N una copia, o la prima di una serie di copie, che l’interpolatore avrebbe sfruttato), prima del 1200 (ma poteva essere ben più antico, perfino un contemporaneo dello scriba, abituato alla difficile grafia insulare), avrebbe visto N in uno stato molto meno precario e frammentario18, e sarebbe stato trattarsi dell’esempio di un allievo e non del maestro, e (p. 175, n. 118) non è escluso che comparisse in un Charisius plenior, tanto più che anche altrove è plausibile una mediazione di Cominiano o comunque di un compilatore posteriore (cfr. pure BONNET, pp. 156-157, 168, 170, 172-173). 14 15 http://books.google.fr/books?hl=it&id=UFpnJ5hVnRwC&dq=%22horrenda%2C+miseranda%22+%22latrocinium%22&q=virtus+latrocinium#v=snippet&q=virtus%20latrocinium&f Su questo cfr. PALADINI, specialmente pp. 240-241, con BARWICK, soprattutto p. XI. Immagine di bassa qualità del f. 24v (o meglio III 8v): http://www.icpal.beniculturali.it/scheda_fotografico.html?ids_foto=0D3ADCFF-6DA3-4E89-A07C-F42163253341 17 Sull’argomento, magistrale BROWN, http://brepols.metapress.com/content/v3141r5n8607j246 18 In primo luogo andrà chiarito se N abbia davvero perso i fogli con il De lectione solo dopo il 1461, come si è sostenuto e si continua a sostenere (prima e dopo BARWICK, p. VI); a mio avviso, nel catalogo di Bobbio di quell’anno, de subtilitatibus grammaticalium et metrorum compositione indicava l’intero Carisio, con la sua parte metrica del quarto fascicolo, almeno oggi incompleto, seguita però dal (surrettizio?) De centum metris di Servio (cfr. BARWICK, app. a 378.15), per il quale il codice rappresenta il testimone migliore, se non addirittura l’archetipo conservato (per quanto anche quella sezione presenti alcune mutilazioni), vista la minima quantità e importanza dei suoi errori singolari (si veda ora l’ed. ELICE). Il successivo Quaedam de poetis (per cui l’indice di Carisio in testa a N non offre la minima corrispondenza) sarà caduto (come la cronaca degli imperatori registrata subito dopo), sempre che in tanta, desolante vaghezza non ci si riferisca proprio al Centimeter: non vedo come si possa identificarlo con ciò che sappiamo della parte perduta del libro IV, che tutt’al più secondo me rientra sotto de metrorum compositione (le tesi di DAMMER, ad es. p. 49, aiutano a smentire l’opinione di BARWICK per le stesse ragioni di critica delle fonti che abbiamo addotto a proposito del de lectione: non sempre l’accordo fra Dositeo e Diomede, per tacere di Beda- tanto più su un de poematibus, non de poetis- rimanda a Carisio; ma soprattutto, è assai improbabile che quanto edito da Keil come Dositeo sia autentico, cfr. BONNET, pp. XXXI-XXXII, che non stampa quel passo). Per ora, ci porterebbe troppo lontano discutere in dettaglio gli indizî che sono stati recati a sostegno della conoscenza di un esemplare vicino a N, ma 16 comunque abilissimo a riconoscere sempre i criterî d’impaginazione del codice (cfr. GL K. 1, pp. IX-X e l’accurata resa in apparato): in N, ogni volta che si era potuto, invece di tornare subito a sinistra per proseguire con un nuovo rigo, si era occupato lo spazio eventualmente restato bianco al termine di quello sovrastante, se ultimo di una sezione (qui una per ogni schema) o di un paragrafo (più raramente si sottrasse in anticipo la parte all’estrema destra del rigo successivo ancora da scrivere, se era rimasto poco da copiare prima di un capoverso, come a 372.28 potens, o alla fine di un paragrafo o di un foglio, come appunto al refertur conclusivo di IV.5 e del fascicolo a 375.9), e così si erano creati inserti (spesso anch’essi guasti per i danni al margine) che non andavano letti subito e il cui séguito era da cercare due righe sotto (al limite solo all’estremità destra)19 o perfino tre (cfr. 372.9 introducta: si erano occupate le porzioni ancora libere di ben due linee consecutive, risalendo alla seconda e poi alla prima). Questi «ritorni in alto» erano preceduti da segni, diversi da quelli che più raramente servivano a separare un rigo dal completamento a destra di uno sovrastante, ma era facile dimenticarsene dopo aver letto per intero un altro lungo rigo, e in definitiva veniva a crearsi un’impaginazione tutt’altro che perspicua per i posteri (tanto è vero che gli apografi umanistici, seguiti dagli editori prima di Keil, non si accorsero di una di queste integrazioni, cfr. sotto 1.3.1.2 per 374.18-19 dopo perferam, e n ne lesse un’altra fedelmente- cfr. subito sopra, n. 19, per il già citato 372.28 potens, anche per l’accordo ora decisivo con Σcome riconosciuto solo da Barwick, ma la collocò erroneamente, anche in questo seguito dagli editori prima di Lindemann, che sulla scorta della collazione di Niebuhr avviò il problema a una sia pur lenta soluzione). Resta dunque assai probabile che la nostra interpolazione discenda non da N ma da un modello comune a N, forse il suo stesso antigrafo20: l’alta percentuale di errori di N non evitati ma condivisi da Σ, anche al di fuori delle citazioni dagli auctores magari già deteriorate alla fonte, rende poco attendibile l’ipotesi che i due rami risalgano all’archetipo generale di Carisio per vie indipendenti, come invece è verosimile per i due capitoli di poco precedenti del libro IV di cui si discute sotto al punto 3. In linea di principio, e a maggior ragione in attesa di collazionare più manoscritti di Isidoro, sarebbe azzardato cercare di trarre conclusioni dalle cause paleografiche degli errori finora riscontrati in Σ (ad es., ce ne apparirebbero molti di più se non conoscessimo R, e forse altri testimoni più antichi ne ridurranno ancora il numero): potrebbe aver letto male l’interpolatore in Carisio, o qualche scriba di un anello intermedio fra l’interpolatore e l’archetipo la cui esistenza si dovesse riconoscere o ricostruire per Σ all’interno della tradizione delle Etymologiae (esplorandola tutta, come prospettiva ideale), o il copista di quello stesso archetipo21. E quanti guasti saranno sorti in codici di Carisio «a monte» dell’interpolatore? Non rinuncerei tuttavia a presentare un indizio interessante (suggerendone l’applicazione a un problema testuale nella sezione 1.3.1.2): una sconcertante propensione agli scambi fra p e r che produce voces nihili come 374.12 apas invece di aras (manca R) o 372.14 elireo invece di clipeo (alcune varianti o incertezze di lettura non toccano la r; inoltre la prima sillaba, restituita da n, non si legge più in N). Una simile fattispecie sembra presupporre che già il capostipite dei nostri cinque manoscritti derivasse da uno stadio in cui si potevano confondere p e r: la constatazione che si tratta di uno scambio vero e proprio, «bidirezionale», dissuaderebbe dal dare la colpa a un amanuense, magari di diversa epoca e cultura grafica, che trovasse- pur in un modello con forme ben distinte per p e r- una r simile alle p che era personalmente abituato a tracciare, o viceversa (un po’ come se uno sprovveduto lettore dei nostri tempi, avvezzo alla s bassa e tonda, prendesse spesso una s alta per una f, mentre non avrebbe motivo per prendere una f per una s). È pur vero (per il poco che si riesce a distinguere dalle immagini in rete in bianco e nero, «sporcate» anche da trasparenze dal recto), che a colpo d’occhio la p di clipeo in N poteva apparire- a un copista abituato proprio a quel tipo di scritture altomedievali- come una r, sebbene quelle di N normalmente non abbiano affatto forma stretta e compressa e tendano a legare abbastanza in alto, senza accennare a richiudersi o ad abbassare la coda; e viceversa la r di aras è in N una delle meno lontane, forse, da una p con occhiello aperto in basso a sinistra che un lettore-copista verosimilmente precarolino avrà conosciuto se non usato. Evidentemente, anche su questo terreno, qualsiasi giudizio sarebbe avventato (e in generale al colpo d’occhio rischiano di sfuggire differenze assai più macroscopiche, sebbene ove si creino voces nihili non ci si aspetti l’interferenza di cause distinto, in età umanistica, in particolare- prima dell’asportazione dei codici grammaticali di Bobbio- in Valla e in Perotti (si veda STOK): i paralleli davvero significativi sono pochi (mai per il libro IV, e mai citazioni nominative) e caso per caso si prestano a obiezioni, non sempre decisive (come invece quelle che si devono muovere all’articolo della PALADINI: si possono contestare anche le prove apparentemente più convincenti a favore di emendazioni di Parrasio basate su codici diversi e indipendenti da N). A ben vedere, l’occorrenza più notevole, in Valla, sarebbe per alcuni aspetti fuori contesto anche se costruita con materiale carisiano, e potrebbe discendere dal ramo Cominianus della tradizione (cfr. sotto, punto 3): se è vero che non ha riscontro in Par. lat. 7530, che ne è testimone, si ricordi che questo illustre cimelio, proprio dove cercheremmo il brano di Carisio, soffre di mutilazioni (molto probabilmente anteriori al momento in cui Valla lo consultò, ma non si può dimostrarlo con certezza). Ad ogni modo, non mi sento di sfruttare queste dubbie vestigia umanistiche per argomentare che in Italia continuasse a circolare per secoli un esemplare completo di Carisio diverso da N a cui potesse attingere l’interpolatore di Σ; ma il fascicolo di N che cominciava con la definizione di lectio trasmessa ora da Σ era forse già danneggiato nel 1461. Da quanto? 19 Cfr. di nuovo 372.28 per la residua p di quel potens che provocò sconquassi prima di Niebuhr (la cui collazione, a giudicare dal riflesso in Lindemann, aveva riconosciuto l’erronea collocazione negli apografi) e Keil (e ancora in lui un eccesso di diffidenza sull’integrazione di n, ora confermata da Σ). 20 Per il brano di 1.2, ad esempio, pur senza scendere adesso nei dettagli, sarebbe facile immaginarne le caratteristiche grafiche che giustificherebbero la perdita della prima a di calamitas in N o il contrasto fra il doppio sive ita di N e il doppio sive di Σ in luogo dell’atteso sive… seu. 21 A rigore, potremo forse riconoscere nella tradizione delle Etymologiae un esemplare interpolato ancora conservato da cui discendono tutti gli altri; ma in sé i suoi errori non basteranno a dimostrare se si tratti appunto di un archetipo (nel senso di testimone che ne avrebbe aggiunti di proprî rispetto a un Isidoro già interpolato e per noi perduto da cui copiava, diffondendoli nel resto dei codici a noi giunti) o addirittura dell’originale in cui fu trascritto per la prima volta il brano di Carisio. Se l’analisi filologica obbligherà a postulare un capostipite scomparso per rami di tradizione fra loro indipendenti, quale ci appare Σ dai cinque manoscritti finora esaminati, saremo altrettanto incapaci di decidere se fosse l’originale o un archetipo. Anche per questo ci permettiamo un uso alquanto elastico della sigla. psicologiche); senza calarci in ipotesi anche molto varie e articolate, siamo spinti a presumere che la mano ingannatrice, almeno occasionalmente, presentasse r con una coda poco pronunciata o molto sottile o p con un occhiello aperto. Insisto che le normali p minuscole di N non sembrano prestarsi a equivoci (tutt’al più non si chiudono le litterae notabiliores iniziali, in particolare nei Per con cui inizia la trattazione di quasi tutti gli schemata dianoeas), e così le r. Indubbiamente p aperte si osservano in qualsiasi scrittura fino all’età carolingia, anche se non soprattutto corsiva, di base maiuscola (si pensi all’onciale old style) come minuscola, tranne forse la beneventana; difficile però mi pare che il fenomeno abbia corso in gran parte d’Europa dopo il sec. IX (magari lo si concepirebbe in una copia abbastanza precoce di N in insulare o in corsiva italiana, grafie diffuse a Bobbio). Lo stesso varrà per le R chiuse in un canonico alfabeto maiuscolo dove sarebbe stato facile confonderle con P altrettanto canonicamente chiuse. A mio avviso, dunque, le fonti più plausibili per uno scambio p/r si erano inaridite ben prima del 1200 circa che sarebbe finora compatibile per il capostipite di Σ. Che l’origine risieda proprio in N appare poco probabile ma non impossibile, e per tutto ciò che si è visto sono convinto che chi voglia sostenere l’indipendenza di Σ da N sia chiamato a mostrare che le lezioni poziori di Σ non potevano nascere per congettura o per caso. 1.3.1 Ai margini deteriorati di N 1.3.1.1 Σ conferma letture degli apografi o di Niebuhr Tutte confermate le lezioni restituite più o meno felicemente a fine rigo di N dagli apografi22, tranne (fra parentesi ciò che non si legge più in N) a) quattro o forse cinque corrotte in Σ: 372.14 (cli)peo (variamente guasto, cfr. sopra), 373.13-14 quo uti eum s(cimus) non posse (solo quod eum o quod cum in Σ), 373.30 coep(it) (trasformato forse deliberatamente da Σ in de ceteris, che acquisterebbe un po’ più di valore se come testo originario se ne dovesse ricavare coeperat, di per sé accettabile a fronte di un successivo fin(it)- sulla desinenza, pur confermata da Σ, non c’è da giurare: si può escludere finiit o finivit?- ma poi, soprattutto, di un aiebat e di un subiecit), 374.14 trans(iit ut), solo ut in FOTV (R taglia). A 374.12 a s(acrificas) di Keil e all’insensato sacrare di n (e di N secondo Niebuhr-Lindemann) corrisponde sacre o sacer in Σ, ma in un punto in cui R tace e in cui comunque domina l’incertezza sul testo e su genesi e sviluppo dei processi di corruzione. b) due a mio avviso poziori in Σ ma non altrimenti attestate23: 373.9 nom(inavere) (-runt di Σ può apparire facilior, ma è difeso dagli altri due perfetti in -erunt subito sopra e subito sotto, tanto più in un brano che Keil e Barwick considerano spurio e dove una desinenza più ricercata stonerebbe; già per n forse il finale di rigo in N era divenuto illeggibile) e l’ottimo, già visto infantium di 375.1 (non ne restava niente in N già ai tempi di Niebuhr, ma non sarà una semplice coincidenza se n propone l’assai simile insonti, senza alcuna idea visibile del senso complessivo: un ottimo appiglio per l’autorità di Σ, sia che n abbia letto male in N sia che il guasto fosse già in N). c) due che anticipano giuste congetture di editori: 371.29 or(namentis) come ed. princ. (-nto n), 375.9 aeq(ue postea) come Fabricius (aeque post n). d) soprattutto due attribuite da Lindemann al “Cod.” N (evidentemente per il tramite della collazione di Niebuhr), 373.5 non(ne haec) sic contro nonne sic n (alterato dalle edizioni prima di Lindemann per l’intrusione di potens, variamente corrotto o emendato, da 372.28, cfr. sopra, con n. 19; Keil e Barwick accettano haec ma subito dopo integrano tibi); 374.24 hic (de nomine) certae (de nomine, «quae videtur Niebuhrii coniectura esse», integrazione a mio giudizio sicurissima, cfr. 375.3, fu accantonato da Keil e ignorato da Barwick, che nonostante le condizioni del manoscritto, dove fra l’altro le abbreviazioni abbondano, azzarda «in N nihil deesse videtur»: ma n, segnando un asterisco di lacuna, rinuncia a leggere un séguito che comunque sembra intuire, e che n1 prova a restituire come descende: probabile congettura, per completare con una principale in contesto cletico i due versi precedenti, ma almeno de si sarà scorto ancora, come qualcosa di assai vicino a infantium a 375.1; non sappiamo se Niebuhr tre secoli dopo lo riconobbe e se riuscì a spingersi ancora oltre con l’occhio o solo con un ingenium che esiteremmo ad attribuire al nostro interpolatore, se avesse avuto di fronte un codice già malconcio). 1.3.1.2 Σ induce a rivedere congetture 374.19 B.: consulto verbum vel verba praetermi(ttit et) quiddam suspitionis silentio colligit. consueto verbo Σ|| praetermittit et Keil] praetermi N (reliqua perierunt), pratermissarius FOTV, per transmutationem R|| quidam FOV, quoddam T|| colligit Keil] colligunt N, contegunt Σ Anche qui fra parentesi ciò che non si legge più in N; il supplemento è di Keil, ope ingenii, e non degli apografi- come accade di solito, anche ope integrioris codicis- o delle edizioni precedenti, che saltano da 374.18 perferam e riprendono da quiddam per non essersi ricordati di uno di quei «ritorni in alto» di N descritti sopra, che giustamente avevano accantonato alla fine del paragrafo precedente (cfr. la trascrizione semidiplomatica di GL K. 1.286: un esempio 22 Di qualche peso, in particolare, potrebbe essere a 372.13 la conferma della desinenza alla greca in Hectora, che favorirebbe l’attribuzione ad Accio invece che ad Ennio. 23 Si ricordi che Niebuhr collazionava a margine di un’edizione derivante in ultima analisi da n-n1; dunque il suo silenzio (sempre che non dipenda da una dimenticanza di Lindemann) non garantisce che abbia trovato in N ciò che scrivono gli apografi, ma rischia semplicemente di significare che, non riuscendo a trovare di più o di meglio per autopsia, si sarà fidato di lezioni che n o n1, in corrispondenza del margine di N, potevano aver almeno in parte integrato per congettura. lampante di quelle difficoltà che Σ, se dipendesse da N, avrebbe superato brillantemente; il fatto che l’omissione non fosse stata ancora riparata nemmeno da Lindemann farebbe sospettare che fosse sfuggita pure a Niebuhr, si silentio fides). Se si assume che l’interpolatore abbia ereditato o creduto di leggere l’insensato praetermissarius e che R si sia lasciato andare a una delle sue tipiche, audaci congetture e manomissioni, è lecito tentare di trovar traccia di un originario praetermissa, che si accorderebbe con un verbo al plurale come nei codici. Come interpretare quel rius residuo? Vista la tendenza di Σ a confondere p e r, non potrebbe celarvisi un plus? In una simile ipotesi indubbiamente suscita perplessità la posizione di consulto, che ci si attenderebbe piuttosto fra verba e il participio (ma l’avverbio potrebbe dare il tono all’intera proposizione, appoggiandosi al verbo principale e non insistendo sulla sola azione del pratermittere), e contegunt saprebbe forse di banalizzazione (d’altronde l’accezione di colligo nelle iuncturae non altrimenti attestate con silentio e quiddam suspitionis sarebbe difficile da determinare pienamente)24. Certo è che il silenzio degli apografi ci priva di un indirizzamento, se non di una totale garanzia, altrove fondamentale; sarà dunque benvenuta qualsiasi soluzione capace di salvare il plurale, senza che sia da dare per scontata l’appropriatezza della congettura di Keil: e pratermissa… plus quiddam… contegunt darebbe un senso impeccabile e più immediatamente percettibile. 1.3.2 Σ superiore a N (dove si conserva) Ripeto che a fatica s’incontrano lezioni così chiaramente poziori come le tre/quattro (oltre ad infantium) trattate al punto 1.2 (latrocinium per ita patrocinium di N, sive est per fin e(ss)e o simili, calamitas per clamitas); altrove, correzione di minima portata ma pur sempre sfuggita agli apografi e alla princeps, vedo solo 372.19 volumus, restituito da Fabricius contro nolumus (che anche all’interno di Σ sembra riprodursi in V e forse in T, ma con tutte le incertezze di lettura immaginabili per una gotica fra n e u). A 372.14 vidi tegentem con corretta separazione è già in R (vidi tegendi negli altri) mentre N sembra dividere vidit egentem, anche secondo gli editori (che individuano anche un punto sotto t impossibile da verificare dall’immagine di cui dispongo), per il poco o niente che ciò può valere in regime di scriptio continua (cfr. subito prima vidi te ulixes, dove ugualmente verrebbe facile dividere dopo t e non prima). Non necessario (il parallelo con 377.7 non è probante), ma da prendere in considerazione anche per (così R, peri o pery gli altri) prima di derisum a 372.11 (congetturato da Fabricius). 2. Altre interpolazioni nelle «figure» di Isidoro Etym., libro I (da “Isidorus iunior”, De vitiis et virtutibus orationis, ed. SCHINDEL, pp. 203-214 e 218-219) SCHINDEL pubblicò l’opuscolo, che condivide una fonte con Isidoro e con la grammatica di Giuliano di Toledo, sulla base di un unico codice del sec. VIII. I manoscritti che stiamo per citare sembrano appartenere a filoni di tradizione indipendenti da quell’esemplare, anche se diffusamente corrotti e in più punti di 2.2 contaminati con i corrispondenti passi delle Etymologiae. 2.1 Aggiunta di climax- “energia”- “emphaticos” alla fine di 1.36 Brano segnalato ma non identificato da CODOÑER, p. 12 con n. 34 e p. 24, nei codici che ho siglato RV per l’interpolazione carisiana (rispettivamente f. 10v e f. 14va, ma nello stesso gruppo lo presenta anche il margine di T, f. 20ra25). Il testo si trova in tutto o in parte anche in codici isidoriani più antichi come Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5873 (sec. XII, palinsesto su scriptio inferior beneventana), f. 9r (da ora sigla V2) e (solo per l’emphaticos) Roma, Biblioteca Vallicelliana, A 18, sec. XII (celebre per gli scolii risalenti al lavoro di Paolo Diacono)26, f. 132v, nell’appendice attribuita a un vescovo Grauso, con ogni probabilità quello che resse la diocesi di Ceneda a cavallo del 1000 (nel libro I i capp. 34-37 sono saltati, come in tutta la più antica tradizione β)27, e ancora (cfr. SCHINDEL 2002, p. 260, n. 17)28, in un’ultima sezione di figure, introdotta con ABHINC NON SUNT AB URSO 24 Fa comunque riflettere che stampi praetermittit et… contegit Lucian MÜLLER, p. 142, https://archive.org/stream/qennicarminvmrel00enni#page/n103/mode/1up, nell’apparato della sua edizione enniana (dove accoglie il frammento precedente, sia pur come spurio, per ragioni di storia degli studî che non mi dilungo ad esporre), anche se l’editore non spiega da dove lo ricavi (verosimilmente una congettura non dichiarata che non ho rintracciato altrove, basata sul testo già ritoccato da Keil). 25 http://bvmm.irht.cnrs.fr/consult/consult.php?COMPOSITION_ID=11077&mode=ecran&IMAGE_ID=439349&corpus=manuscrit 26 Memorabile dimostrazione in VILLA (http://www.mgh-bibliothek.de/dokumente/a/a058938.pdf). Si veda ora anche STAGNI, soprattutto pp. 20-21 con nn. 38-39 (dove si legga «confrontare», non «confutare»). 27 In verità, a partire almeno dal sec. XI, esiste un gruppo di manoscritti dove la lacuna (ma verrebbe da dire mutilazione) inizia solo dopo 1.34.12 terga: posso citare almeno Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conv. Soppr. 364 e Cesena, Biblioteca Malatestiana, D.XXIV.1, sui quali si veda qualche cenno in STAGNI, e un loro stretto parente recenziore che ho rinvenuto in seguito, Firenze, Laur. 90 sup. 17.3. Sebbene sospetti di contaminazione altrove non manchino, la loro appartenenza a β è sicura, e nel frattempo più estese collazioni dell’indiculus de haeresibus a 8.4 confermano la mia persuasione che questa tradizione italiana si divida nettamente fra gli antiquiores (KMtk, secondo le sigle adottate negli apparati e nei lavori indicati sotto, n. 38) e tutti gli altri (incluso il Vallicelliano), e che ciascuno di questi gruppi risalga a un subarchetipo perduto: quello degli antiquiores (ma la sua esistenza e unicità è ancora da provare definitivamente) potrebbe aver eliminato ogni traccia di 1.34 pur trovandone nell’archetipo uno spezzone che altri avrebbero riprodotto (ammesso che non abbiano contaminato: ma perché con una interruzione così brusca e precoce? Potrebbe dipendere da un danno interno a questa famiglia?). 28 http://gfa.gbv.de/dr,gfa,005,2002,a,13.pdf EDITAE, al termine dell’Adbreviatio artis gramatice ex diversis doctoribus di Orso, vescovo eletto di Benevento intorno all’840, in Roma, Biblioteca Casanatense, 1086, f. 53va (cfr. FIORETTI, con tav. I)29. L’identificazione di Isidorus iunior come fonte ultima per tutti questi esemplari è garantita per l’emphaticos, figura dalla denominazione non altrimenti attestata (cfr. SCHINDEL, pp. 148-149), ma è facilmente dimostrabile anche per l’energia (sic, per enargia). Per la climax il testo della recensione interpolata nei codici isidoriani coincide praticamente alla lettera con quello del manoscritto beneventano di Roma, ma agli uni e all’altro da Isidorus iunior deriva con ogni probabilità soltanto un exemplum paolino (conservato da V2 e dal Casanatense ma non dal gruppo RTV). La definizione, per quanto rielaborata, richiama invece inequivocabilmente Diomede, da dove sembra venire anche un primo exemplum, virgiliano. Per l’energia la definizione e il primo exemplum derivano interamente da Isidorus iunior (con errori congiuntivi per l’interpolazione dei codici isidoriani e il Casanatense); in questo caso, il continuatore di Orso non prosegue, come R (già in questi fogli propenso ad accorciare), mentre TV recano due dei molti altri exempla di Isidorus iunior (V2 ha il primo ma tralascia il secondo). Per l’emphaticos i manoscritti isidoriani, inclusa l’appendice del Vallicelliano (che anche altrove denuncia forti consonanze con Orso)30, seguono da vicino Isidorus iunior sopprimendo un solo esempio su quattro, mentre il continuatore beneventano ne tralascia un altro. 2.2 Una redazione interpolata di 1.34 e 1.36.1-16 MANOSCRITTI CONSULTATI FINORA c = Cesena, Biblioteca Malatestiana, S.XXI.5, ff. 19r-21v31, sec. IX in. F (vedi 1), quasi soltanto in margine (cfr. sotto, n. 54), ff. 23r-24r32. F2= Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e doni 80, sec. XIV, ff. 8r-9v H = Londra, British Library, Harl. 2686, ff. 13r-14v, sec. IX, fino a Is. iun. p. 210 r. 134 SCH.≈ 1.36.3, expl. iungit. In primo ut illut (?) (segue lacuna di un foglio)33. P1= Parigi, Bibliothèque Nationale de France, lat. 7491, ff. 76r-78r (estratti frammisti alla grammatica di Pompeo di cui il codice è testimone) e (per 1.34) f. 82v34, sec. IX. P2= Parigi, Bibliothèque Nationale de France, lat. 11864, f. 149v35, sec. XII-XIII, 1.34.4-5, expl. Cacenfaton dictio et cetera (aggiunta alla fine delle Etymologiae con richiamo corrispondente ad locum, f. 9v)36. V2 (vedi 2.1), ff. 8r-9r. Non si tratta di un’aggiunta compatta e ben distinguibile, come le precedenti di 1. e 2.1, ma di una vera e propria redazione isidoriana diffusamente interpolata, per contaminazione da Isidorus iunior, quasi sempre con esiti di sostituzione e non di giustapposizione rispetto al testo genuino delle Etymologiae. Si trova in un codice segnalato da Holtz, P1, sec. IX, dove brani della grammatica di Pompeo si alternano, per alcuni dei cetera vitia e degli schemata, con i corrispondenti delle Etymologiae (breve descrizione di SCHINDEL, p. 203)37. Solo ora, però, la sua vera natura, sfuggita a Schindel, si può riconoscere compiutamente per quei vitia e schemata, appunto nelle parti di P1 introdotte con la sigla IS., dall’identità con il testo, più completo, di codici puramente isidoriani del sec. IX come H e c38 e di altri più recenti, e perfino (solo per 1.34, e con qualche omissione) di edizioni antiche come quelle di Augusta del 19 novembre 147239 o di Vulcanius, Basilea 1577, coll. 24-2540 (varianti registrate con “al.” fra le variae lectiones in appendice ad ARÉVALO, III, pp. 552-55341= PL 82, coll. 765-76642: ma l’ultima, a 1.36.1, si trova nei codici e non nelle edd. citate). Ma già 29 https://www.academia.edu/1473368/Leredita_di_un_maestro._Genesi_ed_edizione_della_grammatica_di_Orso_beneventano. Probabilmente la continuazione comprende proprio materiale raccolto da Orso stesso, ma sfuggito a un’elaborazione definitiva (e forse proprio per questo più facilmente riconoscibile, per nostra fortuna), cfr. FIORETTI, pp. 316-320 e 324-326. In questo senso la nostra definizione di «continuatore» non esclude affatto che il responsabile della compilazione continui ad essere Orso. 30 Grauso o chi per lui, per gli schemata di 1.36, segue altri modelli, in particolare combinando Beda con Isidoro, e non aggiunge climax ed energia, forse perché Isidoro le tratta altrove (nel libro II) e con diversa classificazione, mentre Beda le ignora. Eppure anche prima dell’emphaticos sono costanti, pur se circoscritti, gli accordi con Orso e con la sua continuazione, soprattutto nella scelta di esempi quasi tutti dai Salmi (anche diversi da quelli di Beda). Inoltre Grauso introduce con alii una definizione di omeoteleuto (differente da quella che ha già tratto da Isidoro), cfr. sotto, n. 46, che sembra venire da Isidorus iunior, ma priva di un errore attestato negli unici due codici superstiti (in quel punto) dell’Isidoro interpolato di cui tratteremo in 2.2. 31 Aprire da http://www.malatestiana.it/cgi-bin/wxis.exe/?IsisScript=Opcat/image.xis&tag7777=sinistri/21.5/013-024 32 Aprire da http://teca.bmlonline.it/TecaViewer/index.jsp?RisIdr=TECA0001091795&keyworks=isidor* 33 Aprire da http://www.bl.uk/manuscripts/Viewer.aspx?ref=harley_ms_2686_fs001r 34 35 36 37 http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b9078025j/f76.image.r=7491.langFR http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b9065867f/f301.image.r=11864.langFR http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b9065867f/f20.image.r=11864.langFR Risultano inaccettabili ricostruzioni e conclusioni proposte in seguito dallo stesso studioso, come in SCHINDEL 2002: la recensione rappresentata dal Parigino nasce non in codici di un Pompeius auctus ma in qualche manoscritto delle Etymologiae come quelli, anche più antichi, che ho elencato, più completi. Si noti che tutte le figure in cui il testo seguito è puramente isidoriano sono tratte dai paragrafi da 1.36.17 in poi, dove anche negli altri codici cessa qualsiasi traccia di Isidorus iunior (per scelta dell’interpolatore originario o per un guasto del suo modello?). 38 Seguo le sigle adottate per le Etymologiae, ad es., da CODOÑER et al., p. 275, e da GORMAN, p. 542. 39 40 41 http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0002/bsb00029495/images/index.html?id=00029495&fip=eayaewqeayaeayaeayasdaseayafsdrxdsydeayaen&no=7&seite=59 http://reader.digitale-sammlungen.de/de/fs1/object/display/bsb10148944_00030.html http://books.google.fr/books?id=ggT7nOBRyzkC&pg=PA552&lpg=PA552&dq=%22Sed+et+si+alio+modo+quolibet%22&source=bl&ots=UmykxeucZ9&sig=qiDaZbXeLjjVJCdortVoQUNl3aU&hl =it&sa=X&ei=ze2JUrSECYfEsgaMpYHYCg&ved=0CCsQ6AEwAA#v=onepage&q=%22Sed%20et%20si%20alio%20modo%22&f FUNAIOLI43, pp. 77-78, a quanto pare totalmente ignorato dai posteri, era riuscito a identificare «infiltrazioni» dell’Isidorus iunior, da lui scoperto, fino a 1.36.1, in esemplari isidoriani di Wolfenbüttel usati nell’ed. OTTO del 1833 delle Etymologiae, pp. 49-5244 (in realtà un solo manoscritto, Gu2, Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Weissenburg 2, sec. XI, oltre alle edd. antiche: e l’unico passo di 1.36, siglato “al.”, pare desunto da Arévalo45). Tracce di discendenza da un archetipo contaminato con varianti e integrazioni in margine affiorano in tutti i testimoni, ma soprattutto in c, in P1, in H e in V2 (a quanto pare per più vie indipendenti, forse una per ciascuno)46: si ricordi che qualsiasi traccia di Isid. iun. scompare dal resto della tradizione finora a me nota, sia manoscritta che a stampa, o subito prima o subito dopo la definizione generale degli schemata di 1.36.1, e che in 1.34 soprattutto i codici più tardi potrebbero rappresentare (come è visivamente documentato in F) testi di Isidoro sostanzialmente genuino collazionati con altri dell’Isidoro già contaminato da Isidorus iunior. Ma la comune origine ultima dell’interpolazione per antiquiores e recentiores, provata da innovazioni e veri e proprî errori comuni, si rivela fin dal suo inizio, che in tutti si colloca a 1.34.4 con la ripresa di Isidorus iunior da 204.20 spes enim dopo etym. 1.34.447. Non mancano, per quanto sporadiche, lezioni giuste, o apparentemente tali, che si sarebbero corrotte nel codex finora unicus B di SCHINDEL, a cominciare ad es. da die(s) formabuntur, restituito dall’editore a 206.57-58, contro dii firmabuntur di B: il brano dai Salmi era facilmente riconoscibile e restaurabile secondo la redazione della Vulgata, e il fatto che anche nella tradizione parallela di Giuliano di Toledo e perfino in quella diretta o indiretta dei Salmi s’incontrino die (ma anche dii) e firmabuntur rende ancor più probabile una congettura, altrettanto probabilmente, però, fuori luogo e in contrasto con il salterio cosiddetto mozarabico in uso nel regno visigotico48; in casi del genere, soprattutto per citazioni bibliche e virgiliane, occorrerà grande prudenza. Ma molto meno ovvia, sempre a titolo d’esempio, è l’aggiunta di miseria prima di quae a 207.65, avvalorata dal confronto con Giuliano, come altre pregevoli varianti49 (una contaminazione col trattato dell’arcivescovo di Toledo, da cui ci si attenderebbe la registrazione di discrepanze più frequenti, estese e vistose, appare francamente poco probabile, per quanto potesse passare, dalla fine del sec. VIII, anche attraverso il Liber glossarum). Ancora, poco dopo, a 207.71, i nostri manoscritti anticipano la 42 http://books.google.fr/books?id=tvcQAAAAYAAJ&pg=PR108&dq=%22Sed+et+si+alio+modo+quolibet%22&hl=it&sa=X&ei=Y_GJUpHkBnx4QSUjIGICA&ved=0CFYQ6AEwBQ#v=onepage&q=%22Sed%20et%20si%20alio%20modo%22&f 43 http://scans.library.utoronto.ca/pdf/4/26/rivistadifilolog39toriuoft/rivistadifilolog39toriuoft.pdf 44 http://books.google.fr/books?id=RcUcAQAAMAAJ&pg=PA52&dq=%22eloquium+ornant%22+%22auferunt%22&hl=it&sa=X&ei=w0XUoChM4Kj4gTgq4GgBw&ved=0CHEQ6AEwCQ#v=onepage&q=%22eloquium%20ornant%22&f 45 Della rielaborazione di 1.36.1 con la definizione degli schemata si trova un’altra traccia in un’aggiunta al salterio Roma, Biblioteca Vallicelliana, E 24, sec. XII in., f. 7r, di area romanesca (cfr. incipit ed explicit in SUPINO MARTINI, p. 152, n. 18, e GRYSON, II, p. 120: che la prima parola sia scematibus, come in c ante corr., invece di scemata, fa pensare che il brano venga da un ramo del nostro Isidoro interpolato, dove era immediatamente preceduto dal titolo De schematibus, e non dall’affine Giuliano di Toledo, dove all’inizio del capitolo si legge un paragrafo in più). 46 In particolare, a 1.36.1, dopo homoeoteleuton est, cP1V2, gli unici tre testimoni che comprendono questa figura, recano aliter (con l’aggiunta di alias in cP1), seguito dalla definizione e dall’exemplum di Isidoro e poi (solo in CP1, perché V2, incline ad alterare e ad abbreviare, non prosegue), senza stacco, da quotiens…, con definizione ed exemplum da Isidorus iunior, il cui testo in questi codici interpolati cessa definitivamente d’interferire proprio qui. Per converso, si noti che in questo stesso punto, eccezionalmente, fra un esempio dai Salmi condiviso con Orso e un estratto da Beda, compare l’unica definizione di Isidorus iunior prima di emphaticos attestata nell’appendice vallicelliana di Grauso menzionata sopra, a 2.1, con una formulazione che fa nuovamente pensare alla registrazione di una variante: quamquam alii omoeoteleuton sic definiant: omoeo teleuton est quotiens media et postrema simili modo terminantur (similitudine invece di simili modo in Isid. iun., ma germinantur [gemin- P1] similiter invece di terminantur in cP1; non è del tutto da escludere, pur se improbabile, che, nonostante le minori coincidenze, la vera fonte sia già Beda, quotiens media et postrema versus sive sententiae simili syllaba finiuntur). Inoltre, in H l’inizio dell’interpolazione a 1.34.4, preceduto da un item, è dislocato in modo tale da far pensare che chi commise l’errore trovasse nell’antigrafo ancora un’aggiunta marginale di cui non capì l’esatta collocazione. Poco dopo, anche la situazione caotica alla fine di 1.34.4 si spiega solo con la coesistenza della versione isidoriana pura con quella di Isidorus iunior nell’archetipo, variamente risolta dai diversi discendenti. 47 Il passo- ispirato ad Agostino- sembra essere uno dei pochi di Isidorus iunior conosciuti dal raro commento donatiano di origine insulare dell’Ars Laureshamensis (cfr. anche sotto, n. 50). Poco dopo, per il cacemphaton, V2 si stacca momentaneamente sia da Isidoro che da Isidorus iunior e si accosta vistosamente alla stessa Ars o a testi ad essa affini, così come a 1.36.3. 48 Cfr. le segnalazioni di CAPELLE. 49 Per la stessa ragione, cioè per l’accordo con Giuliano, sarebbe da preferire reprehendebat ad apprehendebat a 207.83 o da aggiungere enim dopo feminino e et dopo fit a 211.148 (per tacere di generi nello stesso rigo e di pluralem poco dopo, come da facili restituzioni di Schindel, o della mancanza, r. 149, di si datur e tendere come, a p. 212. r. 176, di et quo o a 214.208-209 di post tergum nodis, che rispetto a Giuliano e alle fonti parallele sembrano integrazioni del codex finora unicus B per completare o la sintassi o il metro degli esempi virgiliani) e si trova confermata l’inversione inflat superbia stampata da Schindel a 210.140 (in un esempio che la fonte comune con Giuliano aveva adattato da Cipriano, Ad Don. 3 sub fin.: comunque superbia inflat di B, a scapito della variatio, rispondeva allo stesso criterio- ricostruire un’intera serie con ordo soggettopredicato- che rischia di aver ispirato la forte anticipazione di rapacitas dopo inflammat comune a B e all’Isidoro interpolato: meno persuasiva l’ipotesi che prospetto sotto, n. 52) e raccomandata un’altra, patiebatur populus, a 211.161-162, che invece Schindel non adotta pur trovandola in Giuliano e nella fonte ultima Agostino. Da notare, subito prima, l’omissione di quell’in veteri trans., opportunamente sciolto da Funaioli come in veteri translatione, che forse in B, al pari di integrazioni virgiliane come quelle ricordate poco sopra, fu accolto sulla base di una glossa «filologica», magari del compilatore stesso, trascurata dal nostro interpolatore: lo stesso può essere accaduto per il ripristino di enim al r. 163, ignorato dai nostri codici come da Giuliano, ma anche, all’opposto, per altre integrazioni virgiliane come, a fini sintattici, Idem venturos tollemus in astra nepotes dopo 179 aequor, che è in cP1 contro il consenso di B e Giuliano, o addirittura come (in una porzione attestata solo da c, prima di nunc autem a 214.209, con un exemplum nuovo di zecca per arricchire la casistica) nunc autem in medio ut “quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis”, sempre contro B e Giuliano e perfino senza appigli in Isidoro (ma il fatto che compaia nella stessa posizione in testimoni isidoriani non interpolati- o non più, come F F2 e ancora Arévalo- e che l’esempio sia sfruttato allo stesso modo da Matteo di Vendôme, fa ritenere che l’aggiunta nasca nella tradizione delle Etymologiae, assai più precocemente di quanto si ricavi dal silenzio degli apparati, vista la data di c, e che vi circoli indipendentemente da glosse in margine a Isidorus iunior). Ma non sempre Giuliano può fungere da guida sicura, soprattutto nei lemmi che tende a desumere da Donato, a differenza di Isidorus iunior: probabilmente a 214.201-202 è appropriato, se non è solo frutto di contaminazione, il quodam ambitu copulata di c (solo copulata V2), che coincide con Isidoro, contro quodam ambitu copulantium di B e di parte della tradizione di Donato, emendato da Schindel con quodam habitu copulandi in accordo con Donato e Giuliano: anche se i codici interpolati seguissero Isidoro per copulata, la conferma di ambitu favorirebbe il mantenimento del testo di B. Isidoro e Giuliano insieme, subito dopo, darebbero ragione a cV2, che come secondo esempio di schesis onomaton aggiungono Nubila nix grando procellae flumina venti, dislocato in B sotto dialyton (in una sezione dove l’interpolazione nei nostri codici è già cessata); ma anche in questo caso non si può escludere contaminazione. restituzione di Schindel, enuntiantur per nuntiantur, sebbene preceduta da figuris in luogo di figurate, e a 213.183 e 186 in c, unico codice interpolato che trasmetta quegli exempla virgiliani (solo il primo eventualmente restaurabile dal confronto con l’Isidoro genuino), si leggono il di di liquidi restituito da Schindel, pur in un contesto a sua volta corrotto in c, e il giusto me per mi, anche se subito dopo c aggiunge indebitamente un altro me dopo il secondo tua. A 209.127 vaticinanti sarà da preferire a vaticinantis dopo apta, e così via. Talvolta le discordanze potrebbero rimandare a uno stadio assai alto della tradizione di Isidorus iunior, con glosse o integrazioni (cfr. già n. 49)50; analogamente, complicazioni a livello forse addirittura prearchetipale sembra denunciare a 214.213, fra gli errori condivisi da B e dall’Isidoro interpolato51, un guasto confermato da c, unico testimone oltre a B in quel punto: il petisti dopo il famoso monstrum ciceroniano O fortunatam natam me consule Romam dal De consulatu suo52, poema nel quale pure sappiamo che un petisti effettivamente ricorreva, forse non lontano, cosicché una coincidenza sarebbe a dir poco sorprendente53. La mutilazione di H e la brevità o selettività delle porzioni tramandate da alcuni manoscritti come V2 o P1 impediscono di tracciare uno stemma sicuro, e non sono di aiuto le contaminazioni, con diverse proporzioni e combinazioni, fra Etymologiae genuine ed Isidorus iunior. Certamente nessun codice dipende da uno degli altri conservati, e i recentiores sono strettamente imparentati fra loro54; ma è difficile rintracciare errori veramente significativi che congiungano uno degli antiquiores con uno o più degli altri o con la famiglia dei recentiores. Tutto da indagare rimane il rapporto tra P1, francese del Nord, e quel vescovo Orso di Benevento di cui abbiamo parlato in 2.1 in quanto conosceva, direttamente o indirettamente, gli schemata di Isidorus iunior; per Pompeo la sua Adbreviatio di norma segue da vicino il cassinese/beneventano Par. lat. 7530 (con il quale il Casanatense che la 50 Richiederebbe in tal senso una lunga e problematica trattazione (complicata dalla cattiva qualità di alcune edizioni) l’oscillazione dell’ordo fra ubique deus iudex di B e deus ubique iudex dei manoscritti interpolati a 206.61: non sarà un caso se ubique- molto adatto al contesto esegetico- manca nel vicinissimo Giuliano, come già nel Salmo 74 di cui si sta discutendo, ma compare con parallelo strettissimo, e con l’ordo dei nostri codici isidoriani, in un commento (alla seconda epistola di Pietro, CCCM 121.2.4, p. 262, r. 49) di Beda, autore che come ha dimostrato Schindel conosce la fonte comune a Isidorus iunior e a Giuliano (o forse proprio il primo? Tutta la questione dei rapporti fra i trattati citati, comprese le Etymologiae, andrà prima o poi riesaminata; intanto aggiungo che ubique si ritrova dopo iudex est anche nel commento di Sedulio Scotto all’inizio del Vangelo di Matteo, p. 15 LÖFSTEDT, e la fonte può essere Isidorus iunior¸ Giuliano o la fonte perduta, non Beda; ma solo da Isidorus iunior- così BOUHOT- o dalla sua fonte possono discendere, poche pagine dopo [p. 21 L.], i due esempi dalle epistole di Pietro e Paolo a corredo della definizione di climax a 218.290-291, dove il parallelo con Diomede e Isidoro dimostra che verbo stampato da Schindel potrebbe essere un’aggiunta di B o dell’originario compilatore, o comunque l’intrusione di una glossa; in attesa di completare l’indagine anche per metaplasmi e tropi, ritengo tutt’altro che certo che le occasionali dipendenze di Sedulio Scotto e dell’ars Laureshamensis, cfr. sopra, n. 47, da Isidorus iunior siano mediate da una fonte comune insulare, quella che spesso seguono nell’esporre Donato: proprio nel commento di Sedulio finora non ne ho trovate, ad eccezione appunto di climax- la figura estranea alla tradizione donatiana degli schemtata lexeos- e senza gli esempî neotestamentarî; l’accordo con l’ars di Lorsch sul significato di vador richiama 208.85-86 ma anche Giuliano, e per suo tramite il Liber glossarum, e «Sergius», l’altro opuscolo edito da Schindel, 266.152). Più semplice è capire come analogamente oscilli la posizione di un’aggiunta quale 210.133 semper, senza riscontro negli altri grammatici: cHP1 lo collocano fra id verbum e ponitur e non fra id e ponitur verbum (come B), o fra id e verbum ponitur (secondo la trasposizione adottata da Schindel forse arbitrariamente e senza necessità, ma curiosamente in maggior sintonia con l’ordo dell’Isidoro interpolato, si direbbe più piano e facilior rispetto a B). A 214.205, nel famoso verso di Ennio, tanta poteva essere stato ripristinato in collocazione incerta dopo una caduta, se è vero che B legge tanta tibi tyranne e M tibi tyranne tanta; V2 potrebbe avere il giusto tibi tanta tyranne ma le condizioni del codice, almeno in riproduzione, non mi consentono per ora di verificarlo: in ogni caso sarebbe stato facile restituire per il metro e per il confronto- anche mnemonico- con qualcuna delle numerose attestazioni nei grammatici (pur con frequenti corruttele), a cominciare da Donato. 51 In vista di una futura riedizione di Isidorus iunior, bisogna avvertire che molti si trovano negli exempla, e dunque possono dipendere dalla tradizione diretta o indiretta attraversata dai testi degli auctores a monte della compilazione o, spesso, della fonte comune con Isidoro e Giuliano diffusa nel regno visigotico nel sec. VII; Schindel non di rado aspira a restituire il dettato originario ed emenda, sottovalutando il problema. 52 Un petisti si legge alla fine del secondo dei tre esametri di un frammento dal terzo libro (tratto da una lettera di Cicerone stesso) che secondo alcuni editori- cfr. in part. SOUBIRAN, pp. 30-33 e 245-246; sulla struttura del poema e su questi versi cfr. ora KURCZYK, specialmente pp. 81-86 e 90-93doveva trovarsi nelle immediate vicinanze, alla fine dell’opera. La genesi della corruttela potrebbe aver a che fare con la difficoltà di capire l’annotazione di un lettore che si fosse ricordato del passo della lettera con consul… petisti, pronunciato da Calliope, più che con la decurtazione di una citazione originariamente (e inutilmente) assai più lunga da un componimento che ben pochi probabilmente lessero già ai tempi dell’autore: fra l’altro, è improbabile che qualcuno avesse accorciato i primi due versi con un usque petisti (come a volte si concede l’Isidoro interpolato per i ben più famosi e memorizzati exempla lunghi virgiliani) perché la relativa che essi contengono (Interea cursus quos… petisti) acquista senso solo con il terzo (Hos retine… bonorum); perciò sarebbe altrettanto complicato sviluppare l’ipotesi che petisti fosse il completamento non riconosciuto di un rigo sovrastante o sottostante (che si sarebbe perso senza lasciare altra traccia) come in N di Carisio e come invece sarebbe lecito immaginare per l’anticipazione del rapacitas finale di 210.141 se non ci fosse motivo per invocare altre ragioni (cfr. sopra, n. 49). Il compilatore stesso di Isidorus iunior¸ o addirittura la sua fonte, doveva lavorare su testi già pesantemente glossati, che altrimenti non potevano fungere da exempla: alla fine dei cetera vitia, a 208.94-96, a mio avviso l’esegesi, anzi la scelta in sé del passo, è giustificata solo dal già avvenuto stravolgimento di un verso virgiliano (con un verbo al plurale, fugant, invece che al singolare, e con la penetrazione nel testo di un venti che serviva a glossarlo come indicazione di soggetto al posto della divinità presupposta dal singolare), e poi- non riesco a immaginarmi altro- dall’interpretazione di collectas sostantivato nell’accezione di coetus che reggerebbe il genitivo venti: il tutto (e con persistenti, inevitabili perplessità) a patto che si conservino lezioni ripudiate da Schindel (con emendazioni che non persuadono e non risolvono) ma confermate dalla tradizione interpolata rappresentata da cH, in particolare venti fugant, al r. 95: in sostanza, l’anfibolia, per quanto goffamente individuata, consisterebbe nel non poter decidere se le nubi allontanino le collectae venti o se i venti allontanino le nubi riunite. 53 In attesa di tornare sul problema, faccio osservare che l’eventuale accorpamento dei due frammenti senza soluzione di continuità avvalorerebbe il sospetto, già da tempo espresso da alcuni studiosi, che me si sia insinuato grazie a una davvero fortunata parodia al posto di un te con cui a Cicerone si sarebbe rivolto qualcun altro: magari proprio la Musa; il secco «vgl.» con cui SCHINDEL, p. 195 n. 3, rinvia ai versi con petisti, senza avvertire espressamente che provengono anch’essi dal De consulatu suo, non chiarisce se pensi a una contiguità più o meno stretta, ma non si vede come la seconda persona in consul… petisti potrebbe intendersi «als Fortsetzung der Anrede an Rom»: forse la nota serve solo a fornire un parallelo per un verbo che in apparato presenta come «fortasse pars proximi versus, sed non initium, cum discrepet a metro», concludendo con una congettura, «an fecisti?», che eliminerebbe l’ostacolo metrico per un «initium». Comunque sia, non mi risulta che gli studiosi abbiano tenuto conto di Isidorus iunior, non più inedito dal 1975, nelle più recenti discussioni sul poema ciceroniano. 54 Errori comuni a F F2 P2 si riscontrano già nella piccola porzione attestata in P2 (ad es. imperium per impiorum all’inizio di p. 205); inoltre in questi recenziori, e ancor più nelle edizioni, il testo originario di Isidoro, soprattutto nelle definizioni, tende a preservarsi più a lungo, a scapito di quello interpolato (ma qualcosa di simile accade spesso anche in V2). Le varianti in margine a F sembrano desunte da un codice contaminato delle Etymologiae assai simile a F2: ma in almeno un tratto, alla fine di 1.34.6, risente dell’interpolazione già il testo base di F. contiene condivide alcuni testi non altrimenti noti, trovati in un modello comune) ma per il cacemphaton adduce in questa forma, et tuos iuris rubros obsetrix (sic, ut videtur) pannos lavit, un exemplum oraziano (Epod. 17.50-51 ma con tuo cruore in luogo di tuos iuris) che in Pompeo suona et tuos rubros obstetrix pannos lavit (così nelle grammatiche che qui ne dipendono, l’ars Laureshamensis e il misterioso e oggi irreperibile Flodegario visto da Carrion- lo ricorda l’apparato di Keil ad loc., GL K. 5.293- e posseduto da biblioteche medievali di area franco-belga come Saint-Amand e Lobbes). Ebbene, iuris è variante per rubros (non altrimenti documentata, come mi conferma Anna Zago che sta allestendo l’edizione del commento al libro III dell’ars maior di Donato) nel testo pompeiano di P1, un codice che non sembra di origine corbeiense ma che fu integrato da un foglio di poco più tardo (q), sicuramente corbeiense e concepito per un diverso esemplare, con il prologo, perduto dalla famiglia non italiana di cui P1 è il rappresentante spesso più autorevole, sebbene talvolta rimaneggiato e forse contaminato55: nel nostro passo, Orso sembra in effetti dipendere da un esemplare in cui iuris fosse stato annotato sopra o in margine a rubros, finendo comunque per considerarlo come un’aggiunta invece che- secondo l’interpretazione di P1- come una variante. Sappiamo anche che Orso fu in corrispondenza, proprio su argomenti grammaticali, con il monaco Ildemaro di Corbie, trasferitosi verso la fine della sua vita in Lombardia, e che l’Adbreviatio cita una definizione di fundago che è attestata, in un contesto praticamente identico, soltanto in un altro opuscolo contenuto in P156. 3. Un nuovo testimone di Carisio IV.2-3 (De tropis e De metaplasmo ed. BARWICK, pp. 358-368) NAPOLI, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, IV.A.34, ff. 107r-108v (Na), sec. IXin. Il codice, famoso ma mai adeguatamente descritto, è in questa parte un gemello di L, con cui condivide un’intera sezione di opuscoli grammaticali, ma più antico. Secondo un brevissimo cenno di P.L. Schmidt in HLL57, p. 130= NHLL, p 147, L apparterrebbe al ramo Cominianus della tradizione di Carisio, indipendente da quello di N: ora a maggior ragione l’affermazione si applicherà al capostipite comune a LNa. Bisogna però osservare che non ne viene data prova, il che probabilmente è impossibile allo stato attuale delle conoscenze (non a caso, L non compare nello stemma di Schmidt, p. 128, nel quale dal subarchetipo «Cominian» discenderebbero il ramo Cominianus breviatus [β] e una «irische Tradition» tutta indiretta): l’estratto è anepigrafo e, in mancanza di sovrapposizioni con altri manoscritti diversi da N e perfino con tradizione indiretta, se ne può solo confermare l’indipendenza da N, già apprezzata da Keil e Barwick, ma non l’appartenenza al ramo Cominianus, di una cui forma non abbreviata sarebbe l’unica testimonianza diretta. Con estrema prudenza lo farebbe sospettare l’origine francese di L e soprattutto di Na, prodotto in un centro con forti agganci insulari come Luxeuil: ma se è in territorio carolingio che β probabilmente nacque, e sicuramente si diffuse, è altrettanto vero che β secondo lo stesso Schmidt, ibid., p. 128, non comprendeva il libro IV. Dunque non abbiamo prove di una più ampia circolazione di questa porzione di Carisio a Nord delle Alpi, e a rigore neppure della sua conservazione nella redazione «Cominian» non decurtata, rappresentata per noi da tradizione indiretta insulare disinteressata ai problemi di stilistica affrontati dall’estratto di LNa. Adesso possediamo integralmente un altro excerptum del libro IV grazie all’interpolazione descritta sopra, cap. 1, ma finché non ne sarà accertata l’origine e il rapporto genealogico con N sarà prudente sospendere il giudizio; per ora basterà notare che rispetto a N le varianti di Σ appaiono meno numerose e vistose di quelle di LNa, che più facilmente faranno pensare a una redazione radicalmente distinta (come Cominianus) da quella bobiense di N. BIBLIOGRAFIA ARÉVALO= S. 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Nella citazione di Pompeo (GL K. 5.126.27-127.11 e 130.13-131.38) che ho rinvenuto in un codice del commento di Ildemaro del sec. XI (Par. lat. 12637, ff. 116v-117r, http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b9066143x/f120.image.r=12637.langFR) l’impressione è che il testo non possa venire da uno solo dei manoscritti conservati che in quel punto lo conservano: non Q (il nostro P1) ma neanche G, di prossima ascendenza beneventana, o CF, di sicura origine corbeiense. Dopo aver esaminato molti manoscritti di Pompeo, più che a contaminazione penserei comunque alla conoscenza di un esemplare vicino a G, con il quale si osservano pochi ma talora significativi accordi parziali o totali in errore come l’omissione di illo loco a 127.4 (riscontrabile anche in P, il celebre Par. lat. 7530, gemello di G per Pompeo e, per altri testi, come abbiamo notato sopra, del Casanatense di Orso): dal recupero del prologo in q sappiamo che un codice con queste caratteristiche, o almeno indipendente dalla tradizione non italiana e sostanzialmente insulare, dovette trovarsi fra le mani di uno scriba corbeiense nel sec. IX. Ma il rapporto fra Orso e una miscellanea quale P1, composta in Francia ma non a Corbie, continua a sfuggirci; Ildemaro e q potrebbero aver conosciuto materiale beneventano grazie a Orso, ma si deve forse immaginare uno scambio in direzione opposta per la coincidenza (non so se solo occasionale, finché la ricerca non si allargherà all’intera compilazione) fra l’Adbreviatio e P1 per la variante iuris in Pompeo e per fundago. 57 http://books.google.fr/books?hl=it&id=Vmy3A8Cw4cMC&dq=%22leid.+voss.%22+%22fassung%22+%22cominianus%22&q=%22leid.+voss.%22+%22fassung%22#v=snippet&q=%22leid.%20voss.%22%20%22fassung%22&f BARWICK= Flavii Sosipatri Charisii Artis grammaticae libri V edidit Carolus Barwick, addenda et corrigenda collegit et adiecit F. Kühnert, Lipsiae 19642 (rist. anast. Stutgardiae et Lipsiae 1997; 19251). BONNET= Dosithée, Grammaire latine, texte établi, traduit et commenté par Guillaume Bonnet, Paris 2005. 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