Lidia Del Gaudio
PILLOLE
(di follia quotidiana)
A quelli che subiscono l'incuria altrui, agli
ipocriti e a chi s'illude che l'aspetto sia tutto; ai
dipendenti di sportello sempre gentili e ai mostri
che si dichiarano senza ipocrisia; a chi non
cura i deboli e non rispetta i vecchi; a coloro
che si rifugiano nel sogno virtuale e a quelli
che, invece, sfidano il tempo con la speranza
di un mondo migliore.
A questi le pillole son dedicate.
Anzi prescritte.
Ma pure a tutti gli altri.
Spazzatura
(Pillola di follia differenziata)
Il buio era calato da un pezzo e le sagome degli
edifici parevano disegnate con la matita nera. In
fondo alla strada un muro alto occultava l'area del
mercato ortofrutticolo, ormai chiuso.
Da mesi un uomo si aggirava guardingo da quelle parti. Ogni sera sfiorava appena l'asfalto con
scarpe di gomma, le fattezze nascoste sotto un cappello di feltro con visiera, il corpo avvolto da un
soprabito stretto in vita. A tracolla, la custodia di
una chitarra.
Svoltato l'angolo, si ritrovò nella piazzetta vicina
al giardinetto rionale, quello con la fontana tonda
di cemento, raggiunse una delle panchine di pietra
e ci si accovacciò dietro. Onorato, così si chiamava l'uomo, aveva sempre pensato che le facevano
di pietra, quelle panchine, perché nessuno se le
portasse via, visto che i vandali del quartiere riuscivano a distruggere tutto. Ma lui era stufo. Ogni
giorno che Dio mandava in terra, si chiedeva perché fosse stato condannato a vivere in un degrado
simile. E non se ne faceva una ragione, non si
capacitava dell'indifferenza generale. Gli sembrava che la gente si muovesse con la benda sugli
occhi, o forse lui s'era fatto troppo intransigente.
Era invecchiato, e si sa: i vecchi sono spesso in5
sofferenti, non sopportano quello che un tempo
appariva del tutto normale ai loro stessi occhi.
Ma che gliene importava se qualche ragazzino
macchiava il muro del palazzo con la bomboletta
spray o se, appena sostituita, la lampadina della plafoniera delle scale finiva puntualmente in mille
pezzi?
Non ci aveva mai fatto caso, prima, troppo occupato col suo lavoro alla Compagnia del Gas,
sempre in giro a leggere i contatori nelle case, a
controllare impianti; era passato discreto tra odori
d'ogni tipo, abbassando gli occhi per non indagare
l'altrui intimità, ma ora era in pensione e trovava
tempo e voglia di registrare la stupidità umana. E
proprio quella gli dava fastidio. Anzi, per dire
meglio, proprio non la capiva. Insomma, se quelle
azioni delinquenziali avessero portato benefici,
magari riempito la pancia o le tasche, allora se ne
sarebbe fatto una ragione, ma l'incuria fine a se
stessa, no: quella gli era inconcepibile.
Si guardò in giro, circospetto; dalla sua postazione la strada appariva deserta, nessuno passava
neppure sul marciapiede di fronte, dove il Comune aveva collocato la campana per la raccolta del
vetro. Strinse i denti in una smorfia di sopportazione, l'artrosi alle ginocchia lo torturava, ma doveva togliersi quel peso dallo stomaco e nessun
dolore gli avrebbe fatto cambiare idea.
Si sfilò la tracolla per poggiare la custodia a terra e l'aprì.
Il pensiero andò ad Al Pacino, il suo mito. “Quel
pomeriggio di un giorno da cani” era il film che
gli aveva fatto scoprire il grande attore americano.
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Da allora la passione non gli era più passata. Da
“Il padrino” fino a “L'avvocato del diavolo”, aveva avuto modo di riflettere sull'ineluttabile, satanico destino che insegue il genere umano, al di là
delle strade che sceglie di percorrere. La vita non
dava scampo, e se pure mutava la scelta, si arrivava sempre allo stesso finale.
E con quel finale in testa, Onorato cominciò ad
avvertire l'ansia. Tirò fuori dalla custodia lo strumento; il cuore andava di fretta ma al contempo
lo faceva sentire vivo, desideroso di dare una degna conclusione a quella storia cominciata con
l'emergenza rifiuti, quando anche lui aveva dovuto farsi un bell'esame di coscienza e decidere di
dare una mano per risolvere il problema. Aveva
stilato di suo pugno, dopo che i vicini l'avevano
pregato di farlo, il calendario da affiggere nell'androne del palazzo. Tutto spiegato in modo perfetto. Lunedì, mercoledì e venerdì: organico; martedì: plastica; giovedì: carta; domenica: multimateriale. Il vetro, invece, nell'apposita campana collocata nei giardinetti.
S'era entusiasmato al pensiero che il Comune
intendesse avviare proprio nel suo quartiere la
raccolta porta a porta, in questo modo avrebbero
zittito le malelingue che li tacciavano di inciviltà,
compresi gli opinionisti che vedeva blaterare in
televisione. E per qualche mese, infatti, le cose
erano filate lisce; in un certo senso, ancora funzionavano. I camion dell'azienda comunale venivano a raccogliere nei giorni stabiliti, la maggioranza faceva buon viso a cattivo gioco e si barcamenava tra il rispetto del calendario e qualche ve7
niale dimenticanza. Tranne un deficiente, però,
che depositava sistematicamente il suo sacchetto
fuori orario ai piedi delle campane per il vetro.
Schifosa spazzatura non differenziata, stipata in
una altrettanto generica busta del supermercato.
Fatto grave e intollerabile dato che, a causa del sistema porta a porta, dalla strada erano stati tolti i
cassonetti e venivano raccolti solo i rifiuti sui
portoni dei condomini, negli orari e nelle date stabilite.
Le prime volte aveva preso il sacchetto fuorilegge per smaltirlo insieme ai suoi, un gesto eroico a difesa dell'onore suo e del quartiere, sperando che le cose si normalizzassero. Invece, se
normalizzazione c'era stata, questa era consistita
nel fatto che, almeno due volte a settimana, di
fianco alla campana del vetro compariva l'odiata
busta d'immondizia.
E i cani facevano scempio.
A quel punto aveva cercato di indagare su chi
fosse l'autore di un comportamento così incivile, e
una volta individuato l'aveva fermato per parlargli, per spiegargli le regole. Ne era nato un battibecco. A nulla era servito presentarsi come coordinatore, responsabile per il condominio della
raccolta rifiuti, eccetera eccetera; la discussione era
degenerata fino all'inverosimile. E quando l'altro
gli aveva intimato, coi suoi modi volgari, di farsi i
fatti suoi, era stato tentato di rispondergli con la
battuta di “Insomnia”: tu sei per me un mistero
come può esserlo un cesso otturato per un idraulico . Ma poi aveva taciuto, pensando che non ne
valesse la pena, che quello neppure li conosceva i
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film di Al Pacino.
Col passare dei giorni lo stomaco aveva preso a
rodergli per il nervoso, però, la collera a montare.
La spazzatura nella busta del supermercato era diventata il suo chiodo fisso. Cercava di distrarsi, di
pensare ad altro, ma ce l'aveva sempre davanti
agli occhi, come un'ossessione, una malattia. Non
si capacitava di dover soccombere alla prepotenza
e aveva giurato a se stesso che quella vergogna
sarebbe finita in un modo o nell'altro. Non era
giusto alimentare con simili comportamenti i preconcetti che il suo quartiere e la città si portavano
dietro come marchio d'infamia. Perché lui, persona perbene, silenzioso e correttissimo ex dipendente della Compagnia del Gas, solerte pagatore
di tasse d'ogni genere, compreso l'abbonamento
alla televisione, non doveva essere accomunato a
orrori come quelli. E se le parole non facevano
effetto, allora...
Allora stava lì, adesso, dietro la panchina di pietra che gli faceva da riparo. Accovacciato fiero sui
dolori dell'artrosi, in attesa dell'inevitabile.
Per fortuna, non dovette aspettare molto: il tizio
arrivò, l'aria strafottente di chi si crede più furbo
degli altri o gli altri non li vede proprio, strascicando i piedi in due ciabatte di plastica, pantaloni
corti, inadatti a contenere il panzone esagerato e
traballante sopra la cintura. Aveva con sé anche la
solita busta di plastica, annodata alla meglio e
perforata qua e là da bucce di cocomero. Era proprio lui, il nemico giurato di quella guerra da cui
non ci si poteva più ritirare. Un nemico a cui
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avrebbe voluto dire, come in “Scient of Woman”:
so esattamente dove si trova il tuo corpo, quello
che sto cercando è qualche indicazione del tuo
cervello.
Tuttavia il tempo delle chiacchiere era finito e
Onorato non ebbe esitazioni. Sapeva cosa fare
perché si era esercitato a lungo, ripetendo diligentemente ogni gesto fino alla nausea.
Preciso e veloce, si sporse quel tanto che bastava, usando per sostegno lo schienale della panchina. Mirò e sparò. Il panzone barcollò come un
ubriaco, poi stramazzò a terra senza emettere fiato. La busta cadde con lui, in un secondo tonfo;
ciò nonostante rimase intatta.
A quel punto Onorato si guardò in giro, certo che
il rimbombo dello sparo avrebbe fatto accorrere
tutto il quartiere. Si rimise in piedi a fatica, utilizzando il fucile da caccia come un bastone. Alla
sua età certe cose costavano, ma qualche volta
non c'era altro modo per spiegarsi.
Il vicinato pareva, però, dormire sonni profondi
e lui sentì arrivare una malinconica insoddisfazione. Era il silenzio della sua vita, tutta quella indifferenza. Sempre anonimo, operaio corretto e diligente d'un mondo che faceva schifo, non era disposto a restare in incognito anche da giustiziere.
La panchina a due passi, vi montò sopra e, con la
forza nervosa d'un atleta, cominciò a saltellare
sparando in aria qualche fucilata.
«Ehi, gente, sono qui!» si mise a gridare. «Volete fare la guerra a me? Okay, farete la guerra con
il più forte!»
Il trambusto fece accendere la luce di qualche fi10
nestra, ombre si mossero indecise dietro ai vetri,
Onorato sparò di nuovo in aria, di nuovo urlò a
squarciagola, sicuro che almeno per “Scarface” si
sarebbe radunato il pubblico delle grandi occasioni.
Ma sbagliava. Probabilmente lo avevano preso
per il solito ubriacone notturno, forse per un pazzo.
Ben presto anche quel poco interesse svanì. Dopo il baccano, tornò il silenzio. Chi aveva fatto
capolino dalla finestra si ritrasse, tutte le tende si
chiusero, le luci si spensero, le tapparelle giunsero
al fine corsa con un rumore sordo. Onorato si trovò di nuovo solo e impotente. Come al solito nessuno aveva il coraggio di fiatare: l'accidia comandava il mondo, ecco. La gente, sempre pronta
a criticare e a lamentarsi, scappava appena si trattava di metterci la faccia.
«E va bene» sospirò a quel punto, rassegnato.
S'appoggiò allo schienale di pietra, guardò il marciapiede dall'altro lato della strada e cercò di fare
mente locale. Il panzone stava sempre immobile,
fantoccio ormai senza vita. Forse era stato da coglioni avergli dato importanza.
Ebbe un attimo di sbandamento, l'impulso di darsela a gambe senza voltarsi indietro. Di sicuro aveva buone probabilità di farla franca in quel festival dell'indifferenza, ma subito si vergognò del
pensiero. Era sempre stato una persona onesta,
anzi, dell'onestà ne aveva fatto una bandiera. Come avrebbe potuto vivere con quel peso sulla coscienza? E quand'anche si fosse dato alla fuga,
qualcuno lo aveva pur visto in faccia; sarebbe bastata una chiamata anonima alle forze dell'ordine
per essere individuato e arrestato. Rischiava d'es11
sere scoperto in ogni caso e fare in più una pessima figura.
Così scese dalla panchina, rimise il fucile nella
custodia, si sedette calmo e incrociò le braccia,
sperando che venissero presto ad arrestarlo.
Passò circa mezz'ora, però, prima che dal buio in
fondo alla strada s'intravedesse una luce intermittente, una luce gialla che si avvicinava. Onorato
strizzò gli occhi per guardare meglio e riconobbe
non già la polizia, bensì il camion della nettezza
urbana che faceva il suo giro. Quando giunse all'altezza dei giardinetti rallentò, restando al centro
della carreggiata. Uno degli addetti in tuta blu si
sporse dal finestrino, poi scese per guidare il
collega nella manovra a marcia indietro e agganciare la campana al compattatore. Dopo un po'
comparve anche l'altro, l'autista, che si dette da
fare con la ramazza per ripulire intorno al marciapiede. Fu proprio lui ad accorgersi del corpo steso
a terra. Con un fischio richiamò l'attenzione del
compagno. I due confabularono per qualche istante
gesticolando, poi si decisero a raccattare il panzone; lo afferrarono, uno per i piedi, l'altro per le
braccia, e lo lanciarono sul camion insieme a tutto
il resto. Dopo il lavoro si accesero una sigaretta,
ne aspirarono qualche boccata in silenzio, risalirono in cabina e ripresero la marcia.
Onorato non ebbe neppure il tempo di capire cosa stesse succedendo, che già la luce gialla era
scomparsa dietro l'angolo. Non gli rimase che ingoiare le frasi che s'era preparato. Alla sua età poche cose lo lasciavano senza parole, ma quello fu
il caso. Scosse la testa, si mise la custodia a tra12
colla, si rialzò il bavero dell'impermeabile, calcò
meglio il cappello sulla testa e s'avviò mogio verso casa.
Se qualcuno avesse potuto guardarlo in faccia,
però, avrebbe notato sulle sue labbra un mezzo
sorriso compiaciuto. E se qualcuno avesse potuto
chiederne il motivo, avrebbe saputo che la soddisfazione non gli derivava da quella inaspettata
impunità, bensì dall'aver constatato che il servizio
per la raccolta differenziata funzionava con ineccepibile efficienza.
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Supermanager
(Pillola di follia sindacale)
«Siete dei cialtroni, dei cialtroni!» urlò il giovane dottor Paglia mentre lasciava il salone a passo
svelto per tornarsene in ufficio. «Questa volta ha
ragione Supermanager a volervi licenziare, ve lo
meritate, e basta!»
La porta sbatté tra il mutismo costernato dei presenti, e a quel punto Sergio Fiore si sentì in dovere di intervenire. In piedi, continuava a mostrare
un'aria risentita:
«Cialtrone sarà lei, ha capito?» urlò. «Ma vedi
che roba. Vorrei sapere chi ce l'ha mandato quest'altro imbecille!»
Si rivolse alla platea dei compagni aspettandosi
di ricevere un coro di approvazioni, invece arrivò
solo una voce dal fondo.
«Vuoi sapere chi ce l'ha mandato, Fiore? Allora,
se dobbiamo dirla tutta, quello lì ce l'avete appioppato proprio voi.»
«Noi? Ma che cazzo dici?»
Sergio si stava spazientendo, ora pure le pulci
avevano la tosse. E poi chi era stato a parlare?
Allungò il collo per scrutare tra la folla, qualcuno
si fece da parte per marcare la distanza con la polemica incombente, e allora vide il ragazzo. Simpatico, una faccia grassottella, parlava con un mar15
cato accento popolare, gli occhi d'un colore trasparente che ti scavava dentro. Fece mente locale,
ma si convinse che non lo conosceva. Ogni volta
ne arrivava uno nuovo a scoprire l'acqua calda,
come se la vita sulla terra fosse cominciata giusto
in quel momento e tutto il genere umano per milioni di anni non avesse mangiato, procreato, fatto
guerre, e soprattutto praticato la politica.
«Ma sì, quello sta in quota al tuo partito, Fiore.
Come diceste, quando il Procuratore fece piazza
pulita del vecchio consiglio di amministrazione?
Ah, vedrete, l'aria è cambiata, metteremo persone
giuste al posto giusto, finalmente dei competenti,
dei veri manager. Questi sono i vostri scienziati e
mo' ve li dovete sopportare.»
«Senti un po', Nonsocometichiami, io faccio il
sindacalista da quando avevo la tua età e per anni
mi sono fatto il mazzo per garantire diritti e pace
sociale e ancora mi ritrovo qui a spalare merda, va
bene? E chi sei tu per farmi la lezione? Che se poi
vogliamo parlare di corruzione, c'era proprio un
gran bisogno di cambiare aria, mi pare!»
«Sì, cambiare aria è giusto, il problema è che i
musicisti sono cambiati ma la musica è rimasta la
stessa. E non ci si può ergere a moralisti quando
non se ne ha l'autorità» disse ancora il ragazzo,
l'unico ad avere il fegato per esternare qualcosa di
simile a un pensiero. Gli altri, intorno, parevano
pesci in barile alle prese con un problema più
grosso di loro.
E già, che altro sapevano fare quegli uomini
amorfi, pasciuti e viziati? L'ipotesi di dover licenziare non s'era mai presentata prima e le RSU si
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erano trastullate fino a quel momento solo coi
problemi dei turni di notte, dei concorsi interni,
della pausa pranzo e del valore dei buoni-pasto.
Sergio pensò che doveva fare più attenzione a
questo Nonsocometichiami, il quale intanto non la
smetteva:
«Senti, Fiore, se avessero mandato persone capaci e con l'obiettivo di rilanciare l'azienda con
idee nuove e nuovi investimenti, non avrei avuto
proprio niente da ridire, ma ci hanno rifilato delle
nullità, ecco, solo altra gente incompetente che
doveva avere qualche contentino. E i dirigenti si
prendono i premi anche se la produzione peggiora. Eh già, basta risparmiare sul personale, tagliare le teste e i conti quadrano per miracolo. Se
continua così, altro che licenziamenti: qui ci fanno chiudere.»
Giunsero mormorii di approvazione, l'aria si stava surriscaldando. Il ragazzo non aveva tutti i
torti, e il suo modo di parlare pareva genuino, senza peli sulla lingua. Sergio pensò che gli sarebbe
piaciuto portarlo dalla sua parte; che, in fondo, li
separava solo un'inutile e antiquata ideologia. Paragonò quella freschezza volenterosa alla sua
barba ormai bianca, alle palpebre gonfie che avevano fagocitato lo sguardo dentro due cuscini, ai
chili di troppo e ai capelli radi come i pensieri,
ormai.
La vita girava in fretta: chi l'avrebbe immaginato, quando la maturità degli altri lo infastidiva,
che in un attimo il vecchio sarebbe diventato proprio lui? Una carriera cominciata il giorno stesso
in cui avevano rapito Aldo Moro.
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Il segretario del sindacato era arrivato in fabbrica e li aveva fatti uscire gridando:
«Fuori, ragazzi, sciopero, sciopero, c'è la manifestazione!»
Per caso l'aveva preso sottobraccio e a lui non
sembrò vero che Lucio Dama, un mito che odorava ancora di partigiano, lo tenesse stretto di fianco
mentre sfilavano in corteo. Lucio gli aveva insegnato sul campo cose che in nessuna università
avrebbe potuto sperare di apprendere, e aveva trasformato la sua acerba arroganza in ammirazione.
Sì, Sergio lo aveva ammirato e appoggiato in ogni
circostanza, anche quando al tavolo delle trattative Lucio se ne usciva dicendo che li stavano setacciando d'inefficienza e quindi si sarebbero detratti dalla discussione. Sempre, fino al giorno in
cui il vecchio segretario non era passato a miglior
vita, lasciandogli il posto. E lui ci aveva messo la
stessa passione del vecchio e s'era mantenuto pulito per anni, in mezzo a tanti che s'arricchivano
spostando i nomi negli elenchi delle graduatorie
delle assunzioni, dopo la telefonata di qualche potente, prendendo mazzette e abbandonandosi a nefandezze di ogni genere.
Nella mente gli passò veloce il film d'una vita: il
terrorismo, la vittoria ai mondiali di Spagna, la
caduta del muro di Berlino, i partiti che avevano
rinnegato simboli e nomi, la lira trasformata in
euro; alla fine pure le Torri Gemelle si erano sbriciolate e la girandola senza ritorno aveva travolto
anche lui.
Riprese a fatica il filo del discorso:
«Va bene, va bene, ma parlare di corruzione sa18
rebbe troppo lungo, ragazzi, adesso non abbiamo
il tempo di fare certi dibattiti. Dobbiamo pensare
alle cose concrete. Intanto, è certo che quelli» e
mosse la testa in direzione della porta, «prepareranno le lettere di licenziamento anche senza il
nostro accordo.»
«E che possiamo fare?» intervenne un altro dei
presenti, grande e grosso e tutto sudato, la sua camicia sembrava una carta per fritti. «Molti della
lista sono malati e hanno superato i giorni di comporto, è la legge...»
«Ma quale legge!» intervenne ancora Nonsocometichiami, ormai rosso in viso e lanciato verso la
battaglia. «I malati devono essere tutelati, possiamo spostarli in mansioni meno gravose, lo prevede il contratto integrativo, no? Anche se Supermanager coi suoi avvocati trova sempre cavilli
per mettersi i nostri diritti sotto i piedi. Insomma,
quelli parlano di numeretti scritti sulla carta, ma
per noi si tratta di persone in carne e ossa, amici
che finiranno in mezzo alla strada. Un po' di solidarietà, per la miseria!»
«Altre mansioni? Caro collega, scusa se te lo dico, ma tu sogni» disse a quel punto un altro ragazzo allampanato e pallido. Un tatuaggio gli copriva il braccio sinistro, avvolgendo la pelle con
un traliccio scuro da cui si dipartiva un nome di
donna. Non sembrava arrabbiato, solo rassegnato.
Sergio lo riconobbe, era uno dei part-time verticali, quelli che lavoravano solo il sabato e la domenica e non prendevano neppure le competenze
accessorie. «Ammalarsi ormai è un lusso. E a noi
chi ci pensa, allora?» concluse rivolgendosi a Non19
socometichiami, che obiettò:
«Sì, bravo! Facciamo la guerra tra poveri, avanti! Ma non è che se togliamo ad alcuni riusciamo
a dare di più ad altri, questo almeno lo capite?
Perché siete così apatici, allora? Dobbiamo ribellarci, abbiamo il dovere di lottare per cambiare
questo schifo. Tu che ne pensi, Fiore? Tu sei quello
che ha più esperienza, dicci cosa dobbiamo fare.»
All'improvviso le urla mutarono in brusio e tutti
si voltarono a guardare il vecchio sindacalista. Sergio capì che era venuto il momento di prendere in
mano la situazione. Allargò le braccia come per
chiedere la calma e s'arrampicò su una sedia di similpelle nera che stava lì vicino.
Quando ottenne il silenzio, parlò.
«Ascoltate, ragazzi, sarò sincero. Ho sessantotto
anni e potrei starmene benissimo a casa mia, in
santa pace, a godermi gli anni che ancora mi restano. E invece no! Cazzo. Il ragazzo ha ragione,
dobbiamo ribellarci contro questi parassiti. Mandarli tutti affanculo. È chiaro? Tu, per esempio» e
si rivolse proprio a Nonsocometichiami. «Ecco, tu
sembri un tipo a posto. Saresti d'accordo a fare un
po' di occupazione?»
Il ragazzo sbiancò, poi lo guardò trasognato.
«Beh, se c'è da dare una mano per cambiare verso al sistema, potete contare su di me» disse con
voce rotta dall'emozione e voltandosi per cercare
gli sguardi dei compagni.
«Se è per questo ci sto anch'io» aggiunse il parttime col braccio tatuato. «Però, caro Fiore, rimane
il fatto che abbiamo bisogno di uno come te, uno
con le palle e l'esperienza, che ci aiuti a non com20
mettere errori.»
«Bene, ragazzi, bravi, così vi voglio. Dovete essere forti e volenterosi, combattivi. Io vi starò a
fianco, vi guiderò, e se mi starete a sentire vi garantisco che li metteremo tutti in ginocchio. Basta
organizzarci per bene. E dico anche che non
dobbiamo accontentarci più di quel leccaculo di
Paglia, ma mirare in alto, molto più in alto.»
Nel salone cominciò a montare l'eco degli anch'io , dei sì allo sciopero, sì all'occupazione.
Un'onda magnificente e calorosa passava di bocca
in bocca, si gonfiava come un tornado; nel procedere, si colorava di guizzi spiritosi e irriverenti
contro il Potere di ogni specie.
Sergio alzò di nuovo le braccia per calmare gli
animi. Ora lo avvertiva, anche fisicamente, il calore che arrivava dal gruppo. Le mani cominciavano a prudergli.
«Vi prego, amici, ancora un attimo di attenzione.
Una volta ho letto da qualche parte che così
succedono le rivoluzioni. A un certo punto la gente si stufa e scocca la scintilla. E noi siamo ben
altro che una piccola scintilla. Ho ragione di credere che possiamo aspirare a cambiare questa
fabbrica e poi forse anche il nostro paese. Vi ricordo che una delle più grandi rivoluzioni della
storia ebbe inizio da un posto in cui si giocava a
palla. Però è importante restare uniti. E soprattutto comportarsi in modo razionale, con una
strategia. Dunque, il primo passo è proclamare
l'agitazione e chiedere d'essere convocati. Ma non
da quel pupazzo di Paglia, bensì da Supermanager in persona. Questa volta lo dobbiamo stanare
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fin dentro al suo ufficio, e ci dovrà ascoltare. Siete
d'accordo?»
«Sì, ma come si fa?» intervenne di nuovo Nonsocometichiami. «Mica lo sappiamo dove sta.
Quello se ne va in giro per il mondo, magari adesso
si trova in America o chissà dove.»
«Io dico che questa storia di Supermanager che
gira il mondo è tutta una scusa per tenerci in
soggezione» tuonò Bracciotatuato, che nella foga
pareva finanche meno pallido e magro.
«Non so se sia una scusa o meno, però qui non
c'è mai venuto e nessuno l'ha mai visto, a quanto
pare» osservò Sergio riprendendo il controllo della discussione. «È Paglia che mantiene i contatti
con noi, insieme a quei tre yuppie che si vestono
come dei venditori porta a porta. Ma a noi non
deve interessare. In un modo o nell'altro, lo staneremo. Adesso qualcuno di noi va a chiedere una
convocazione. E sapete cosa gli diremo, quando
potremo finalmente guardarlo in faccia?»
Fece una pausa e allora s'udì una pernacchia rumorosa, seguita dal rumoreggiare di grasse risate
liberatorie. Sergio sorrise:
«Ma no, no, non quello. Ve lo dico io che cosa
gli diremo: tu sei parvità di materia» concluse
attingendo dal magico pozzo delle massime di
Lucio Dama.
L'uditorio non riuscì a decifrare la citazione,
tuttavia ne colse il tono canzonatorio. Urla di sostegno si levarono miste a fischi e applausi scroscianti, il coro si ricompattò poi intorno a un solo
nome, scandito all'unisono (Ser-gio! Ser-gio!) finché non tornò la calma e fu deciso che sarebbero
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stati Nonsocometichiami e Bracciotatuato ad andare da Paglia per chiedere d'incontrare Supermanager.
Quando tornarono, i due giovani erano rossi in
viso per la soddisfazione.
«Avevi ragione, Fiore. Se l'è fatta sotto, il ragazzino, quando ci ha visti così determinati. La buona educazione non paga. E dire che quando stavamo zitti e calmi ci guardava dall'alto in basso»
disse Bracciotatuato.
«Ha giurato che contatterà il gran capo oggi stesso per farci convocare. Scusa Fiore, non ti dispiacere, ma ci voleva proprio un po' di gioventù per
smuovere le acque. Adesso capiranno che non
possono più scherzare, che qui siamo capaci di fare pure le barricate» aggiunse Nonsocometichiami.
«Ve l'avevo detto, no? Sono solo dei vigliacchi,
forti coi deboli e deboli coi forti. E dove si terrà
questa riunione?»
«Per evitare che Paglia facesse il furbo, abbiamo
proposto una videoconferenza, così Supermanager non avrà scuse. Anche se attraverso un monitor, dovrà starci ad ascoltare.»
Fiore non diede a vedere che quella soluzione gli
lasciava un sapore amaro in bocca. Eccola qua,
un'altra illusione del Potere: la tecnologia che risolve tutti i problemi, rimette tutto a posto.
«Fate come volete, però non mi chiedete d'aiutarvi che io di queste cose non ci capisco niente»
disse con un sorriso mogio e un'alzata di spalle.
«Ma no, s'impara in fretta, persino mio nonno
smanetta qualche volta. Basta avere un portatile
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con la webcam . Vedrai, parleremo con quello
stronzo, pure se si trova in Cina.»
«Sì, e magari dalla Cina pensa che siamo anche
noi come i cinesi. Non ha capito niente: chiederemo conto di tutto, ma proprio di tutto. Come vedi,
seguiamo i tuoi consigli, Fiore. Però usiamo la
tecnologia, in fondo che male c'è?»
Sergio annuì, s'accarezzò la barba brizzolata. A
quanto pareva, qualcosa che finiva in -gia doveva
sempre esserci, per dare senso alla vita delle persone semplici. E ci rimuginò sopra per tutto il
tempo che durò ancora la riunione. Alla fine fece
le ultime raccomandazioni, strette di mani e pacche
sulle spalle, salutò i compagni uno a uno e lasciò il
salone dell'assemblea con la schiena curva.
Imboccò il corridoio deserto.
La borsa di pelle pesava come un macigno. Tutte
quelle carte inutili, il Testo unico coi Contratti
Nazionali, la bozza per l'accordo sullo straordinario a forfait, le copie dei fax di protesta, i comunicati stampa, l'autoregolamentazione. Quante assurdità s'era trascinato appresso in quegli anni, o
perlomeno fino a quando un Procuratore coscienzioso non aveva fatto di tutta l'erba un fascio e
ognuno aveva cercato di salvarsi a modo suo. Lo
ricordava bene quel momento perché era stato anche il suo personale 8 Settembre. Come un reduce
tra le macerie delle convinzioni che l'avevano
sempre sostenuto, per la prima volta s'era sentito
la testa pulita, fresca, libera da appartenenze o sovrastrutture.
E aveva deciso di riappropriarsi della sua vita.
Prese l'ascensore, premette il pulsante dell'ulti24
mo piano. Passò davanti a molti uffici chiusi, a
custodire i segreti di pulcinella – secondo le nuove disposizioni di Paglia.
Arrivò davanti alla porta a due battenti con la
scritta Direzione del Personale, con circospezione
l'aprì e si ritrovò in uno stanzone nel quale era rimasta una sola scrivania. Vuota. Attraversò il locale quasi di corsa e si infilò in un altro ufficio anonimo, chiuse la porta a chiave e tirò un sospiro di
sollievo: non sarebbe stato in grado di resistere un
attimo di più in quella bolgia di speranze umane.
Entrò in un bagno finemente maiolicato di bianco, richiuse col lucchetto anche lì, e solo allora
cominciò a rilassarsi.
Si sfilò il giaccone col cappuccio, colore verde
marcio che faceva tanto Sessantotto, poi il maglione a dolce vita, e rimase in canottiera, una vecchia canottiera bianca a coste con qualche buchetto sotto l'ascella. Si guardò nel grande specchio
molato che stava sopra al lavandino. Il suo volto
sembrava più stanco del solito, ma forse era solo
questione di luci. Con pazienza cominciò a tirar
via i cespuglietti aggiunti nelle sopracciglia, la finta
barba folta, attento che la colla non si portasse via
anche la pelle; sputò le palline di gomma che gli
gonfiavano le guance e infine si tolse la parrucca
di ricci imbiancati. Tirò fuori da un cassetto laterale un grande beauty case e vi sistemò le protesi,
poi prese un bel fiocco d'ovatta e se lo passò sul
viso, eliminando ogni traccia di cerone e i segni di
matita che avevano accentuato l'ombra delle occhiaie.
Si sentì meglio senza tutto quel trucco, si spogliò
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ed entrò nella doccia.
Dopo aver passato un po' di tempo sotto l'acqua
calda prima, e quella fredda poi, chiuse i rubinetti
e s'asciugò con cura. Da un armadio lì vicino tirò
fuori boxer e canottiera nuovi, un bell'abito grigio
scuro, completo di camicia e cravatta di seta. Si
specchiò di nuovo e pensò che, pelato com'era e
ben rasato, faceva ancora la sua bella figura. Inforcò un paio di occhiali a specchio e uscì dal bagno.
Sedette alla scrivania e accese il computer. Non
ricordava quando gli fosse venuta quella splendida idea, forse una volta aveva letto un libro che
parlava d'un re. Sì, quel Ferdinando di Borbone
che si travestiva da popolano e, sotto falso nome,
andava in giro a ubriacarsi, giocare d'azzardo e
frequentare bordelli. Un re lazzarone che, odiato
dal popolo, cercava di tenere la situazione sotto
controllo confondendosi nella plebaglia. Solo che
lui non era nato re: aveva fatto la gavetta nel
sindacato. Quanto tempo era trascorso?
Alzò la cornetta del telefono.
«Sì, signor direttore!» rispose subito la voce di
Paglia. «Mi dica.»
«Dica lei, piuttosto. Cosa sarebbe questa novità
dei sindacati?»
Paglia cominciò a balbettare.
«Ehm... ecco, quelli sono arrivati come degli
scalmanati. Ho dovuto dire... promettere...»
«E secondo lei, se poi devo parlarci io con questi
sindacati, cosa la pago a fare? Posso licenziarla,
dunque?»
Dall'altro capo del telefono giunse un silenzio
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glaciale. Poi ci fu un timido:
«Ha ragione, direttore. Ma... lei come fa a...»
«Sapere quel che succede?»
«Sì...»
«Paglia! Si svegli. Io sono il capo qui, non lo dimentichi mai. Un motivo ci sarà se mi chiamate
Supermanager! Pure lei, sì, non faccia lo gnorri.
Comunque, niente scuse: parli con quei cialtroni e
dica che sono in Papuasia senza connessione.
S'inventi qualche cosa, insomma. E chiarisca bene
che se non tornano al lavoro licenzio tutti. Dobbiamo fare i conti col mercato globale, ormai, e
certe fantasie non se le possono più permettere.
Capito?»
Sergio sbatté giù il ricevitore, si stiracchiò, aprì
il portatile e si collegò al suo gioco preferito. Il
trading azionario. Se lo meritava proprio qualche
momento di relax ed era anche curioso di sapere
le quotazioni della compagnia, dopo gli annunciati licenziamenti.
Gli dispiaceva solo un po' per Nonsocometichiami
e Bracciotatuato, ma era gusto che i giovani facessero le loro esperienze e ci sbattessero il muso.
Importante, però, che avessero qualcosa grazie a
cui sognare. Ideologia o fantasia che fosse.
Finanche un poco di tecnologia.
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Motosega
(Pillola di follia disabile)
Il primo concetto che il cervello elabora è quello
di buio, uno strano buio che va tingendosi di pennellate blu e dal quale prendono forma un po' alla
volta le cose intorno. Meno male, temeva d'essere
diventato cieco. E anche sordo. Ha le orecchie
tappate come quando si sta sott'acqua, e come nell'acqua, si sente leggero... leggero... tutto è così
lento, ovattato.
Quasi non vorrebbe svegliarsi, ma ormai i pensieri si sono messi in moto e non si possono fermare. Ne cerca almeno uno che abbia un senso,
che lo guidi tra la folla di immagini, frasi e sensazioni che gli ingorga il cervello e lo confonde. Prima stava sognando, nell'incubo qualcuno lo punzecchiava con gli spilli, ma lui è riuscito a scappare e si è visto da lontano come succede quando
si sta morendo...
Calmo, stai calmo , si raccomanda.
Ma come può restare calmo? La consapevolezza
del suo corpo che si sta svegliando lo spaventa
persino più della brodaglia colorata che lo cullava. Cerca di deglutire per ingoiare la nausea che
sente in bocca, e poi di respirare profondamente.
Avverte una pressione sul petto, la stessa che gli
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blocca la fronte, le gambe e le braccia. L'hanno
legato. Ecco. E imbavagliato. La sua lingua è diventata un grosso serpente amaro, rivoltante. Deglutire gli costa sforzo. L'ha provato solo un'altra
volta, un groviglio del genere: dal dentista, ancora
se lo ricorda.
Si fa coraggio e riapre le palpebre, ora il blu si
sta schiarendo. Cerca di riassumere la situazione:
si trova supino, legato al buio, qualcosa gli preme
dentro e sopra la bocca.
Ma intanto chi è lui, come si chiama? Ha un
passato? Deve cercare di ricordare, aprire la
mente, renderla più ricettiva. Appena lo fa, intravede lo spiraglio, lo individua proprio come uno
spicchio luminoso che si allarga fino a riempire
tutto il cerchio.
Lui è Mino, ecco chi è!
E poi?
Ha venticinque anni.
Sicuro? Venticinque?
Sì, senza dubbio. Ecco l'immagine della torta
con le candeline tremule, il numero si legge benissimo, facce giovani e sorridenti in posa per la
fotografia di rito, un viso attaccato al suo, vicino
più degli altri, così attraente, i capelli raccolti in
una coda di cavallo, la bocca aperta nel sorriso.
Esulta all'idea di Manuela, la sua ragazza, un tenero ricordo che gli dà coraggio.
Manu, aspetta, a te ci penso dopo, ora devo capire che cosa ci faccio qui.
Prova a stringere i pugni; le mani e le dita si
muovono, nonostante le fasce attorno ai polsi.
Un'altra fascia, più larga, gli circonda il petto, la
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sente premere sul torace. Contrae i muscoli, sono
duri e sviluppati a causa dell'allenamento quotidiano.
La palestra, ecco!
Una lacrima spunta all'angolo dell'occhio, la
commozione per un altro pezzetto di vita che sta
riconquistando il suo posto. Certo, lui ci passa le
giornate in quel locale ben attrezzato, si esercita
col massimo impegno. Come potrebbe dimenticarlo?
Nuovo riepilogo, il quadro si va delineando.
Dunque, lui si chiama Mino, anzi Giacomo, ma
sua madre – ha anche una madre – lo ha sempre
chiamato Mino per vezzeggiarlo. Ora si ricorda di
lei con chiarezza, la sua mamma affettuosa e
bella, seno grande e morbido, bacio sulla guancia,
in cucina grembiule e forno acceso per la pizza
fatta in casa, non fare tardi che sto in pensiero mi
raccomando.
Lo invade un sentimento di speranza e buona
volontà: ora che sa della mamma, ha un motivo in
più per volere uscire da quella situazione. Tenta
qualche nuovo movimento con le gambe, pure
quelle sono legate al tavolo. L'ha identificato, un
tavolo duro, liscio e gelido, forse di acciaio, sul
quale sta sdraiato nudo. Per un attimo lo sconvolge il pensiero d'essere finito per sbaglio all'obitorio, ma subito si rincuora pensando che sul tavolo di un obitorio non c'è bisogno d'essere legati,
semmai ricoperti da un lenzuolo.
E non è il suo caso.
Giusto .
Forse ha avuto un incidente, si trova all'ospedale
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ed è rinvenuto troppo presto dall'anestesia.
Ma quale incidente e quando, soprattutto?
Anzi, che giorno è?
Avanti, Mino, fino a un minuto fa non ricordavi
neppure il tuo nome e adesso vorresti sapere addirittura giorno, mese, anno?
Continua a spremersi le meningi: un incidente ci
potrebbe anche stare. Caduto dal motorino, una
scivolata sull'asfalto bagnato, appena un'escoriazione all'avambraccio. Il casco, tesoro, non scordarti il casco . Di nuovo la bella mamma affettuosa appare in primo piano. Ma no. Quel Mino dell'escoriazione aveva sedici anni, andava ancora
alle superiori, il motorino è stato venduto.
Si aggrappa di nuovo al ricordo della palestra, è
quello che gli pare più vicino nel tempo. Preferisce allenarsi nel pomeriggio, di sera no, troppe ragazzine urlanti che cercano solo di mettersi in
mostra con gli allenatori. A lui piace la tranquillità
degli orari morti, invece, e in palestra ci va per
farsi il fisico, è vero, però senza esagerare. Soprattutto non prende schifezze, a lui le sostanze
fanno schifo. Gli basta essere in forma per quando
cammina sul bagnasciuga, mano nella mano con
Manu. Nient'altro. Però che bello il mare, quell'onda fresca che ti bagna i piedi e ammorbidisce
la rena quanto basta per segnare orme di passi,
prima di ricoprirle subito dopo.
Mino sospira, nella sua vita è tutto semplice, pulito, senza pretese; a lui bastano amore, amici, famiglia. Anche nello studio è andata liscia, più o
meno. In realtà sta un anno fuori corso all'università, ma non si reputa lo sfigato che pretende il
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sottosegretario. Gli restano solo due esami e la tesi, suo padre è un commercialista con uno studio
ben avviato dove per fare tirocinio basta il diploma di ragioniere – quello sì, conseguito a pieni
voti.
Ecco, ormai la sua breve esistenza ce l'ha tutta
chiara in mente, ci pensa e ci ripensa, ma non si
capacita della strana situazione in cui si trova.
Cosa può essere successo? Il ricordo della palestra gli lascia dentro un senso di incompiuto. Il
locale è abbastanza grande e si trova al pianoterra
di un bel fabbricato signorile, in centro. Il posto è
comodo, lui ci arriva con la Smart e parcheggia
tutte le volte proprio vicino all'ingresso del palazzo. I ricordi si fermano agli esercizi che sta
eseguendo sdraiato sulla panca, a quel signore
alto e distinto che si è avvicinato per chiedergli
un'informazione. Una cosa seccante, il tizio si
esprimeva a voce così bassa che lui ha dovuto posare il bilanciere, mettersi seduto e sporgersi per
capire cosa dicesse.
È stato allora che gli è parso di sentire un fastidio sulla natica.
Come una puntura...
La chiave girò nella serratura. Mino allertò tutti i
sensi. Il cigolio di una porta gli diede la certezza
che qualcuno fosse sul punto di entrare, ma con la
testa bloccata dalla fascia non riuscì a vedere
niente. Neppure ebbe il coraggio di articolare qualche suono. Udì i passi in avvicinamento, quindi fu
abbagliato da una luce fortissima collocata al di
sopra di lui, e dovette strizzare le palpebre per
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non rimanerne accecato.
Un tocco estraneo sul braccio gli lasciò sulla
pelle una freddezza gommosa. Cercò di guardare
attraverso gli occhi socchiusi: dalla sua posizione
poté solo subire la luce accecante della lampada
ovale agganciata al soffitto, una luce bianca che
non riscaldava. Poi due figure la oscurarono inserendosi nella visuale: un uomo e una donna, gli
parve, entrambi adulti. Lui, molto alto, sporgeva
con tutto il busto e somigliava al tizio della palestra; lei, più piccola, appariva solo dallo scarno
petto in su. Indossavano camice, cappello e mascherina verdi, come quelli che si vedevano nella
serie di E. R.
Dunque non si era sbagliato a pensare di trovarsi
all'ospedale, in una sala operatoria. La preoccupazione aumentò.
«Si sta svegliando» disse piano la donna.
Altroché se sono sveglio, stronzi, toglietemi questa roba dalla bocca e vi faccio vedere!
«Ah, finalmente» disse l'uomo. «Vedo che stai
meglio» aggiunse gonfiando la mascherina che gli
copriva la bocca.
Figli di puttana! Dove sono, che volete da me?
Mino cominciò a dibattersi, ora che si trovava in
compagnia di quegli strani tipi si sentiva ancor
più stralunato e indifeso, oppresso dal bavaglio e
dalle fasce.
«Calma, calma. Se ti agiti in questo modo dovremo darti un'altra dose di ketamina» disse la
donna.
La ketamina? Ma voi siete pazzi, quella si dà ai
cavalli!
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I due si spostarono da un lato, scomparendo nell'angolo più lontano. Poteva continuare a udirne le
voci, però.
«Allora, procediamo? Pensavo che una sola potrebbe anche bastare» disse l'uomo.
«Ma non s'era stabilito tutt'e due?» chiese lei.
«Beh, in effetti due è meglio di una.»
«Più sicuro, diciamo. Non vorrei che dopo venissero fuori i soliti problemi burocratici per i permessi» disse ancora lei.
«Sei sempre così precisa e previdente, tu» concluse l'altro.
Seguì una risatina, poi nel campo visivo del ragazzo riapparve all'improvviso il volto della donna. Si avvicinò così tanto che Mino poté scorgere
le zampe di gallina intorno ai suoi occhi, accentuate
forse da un sorriso celato dalla mascherina.
«Allora, ci siamo un po' calmati? Non devi aver
paura, mio marito è un bravo chirurgo e le cose le
sa fare per bene, sai?» gli disse con tono rassicurante.
Ma quale chirurgo! E cosa volete farmi?
Cercò di implorare una risposta con gli occhi,
ma un nuovo rumore lo fece sobbalzare. Un suono noto eppure stridente, in quel contesto. Sembrava che qualcuno avesse acceso un motorino;
gli parve incredibile, eppure doveva essere così,
perché gli arrivò anche l'inconfondibile odore di
miscela. Non ebbe il tempo di immaginare altro:
vide l'uomo pararglisi davanti con una sega a motore tra le mani, le braccia vibravano per lo sforzo
di mantenerla in aria. Gli scorse un lampo di follia
negli occhi, poi un guizzo d'incertezza. O forse la
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voglia di strafare. In ogni caso, l'uomo spense l'attrezzo infernale e pensò di regalargli qualche altra
spiegazione.
«Non volercene, ragazzo, ci abbiamo pensato su
bene e la soluzione più efficace resta quella di segarti le gambe.»
«Tutt'e due» confermò la donna annuendo.
«Sì, così potrai ricevere il tuo bel contrassegno»
disse lui.
«Uno tutto per te, non sei contento?» chiese lei.
Mino non comprese una sola parola, e considerò
immediatamente quelle frasi alla stregua di deliri.
Capì allora di avere di fronte due pazzi, e nessuna
possibilità di fuga. Sperò di morire d'infarto prima
che la sega arrivasse a sfiorarlo, ma intanto l'uomo già cercava di riaccendere il motore. Tirò la
cordicella e non accadde nulla. Riprovò dando più
slancio al braccio, senza risultato. Stava per ritentare quando la porta sbatté con violenza e s'udì
un urlo.
«Ehi! Voi due! Cosa diavolo state combinando?»
Che qualcuno avesse allertato la polizia?
L'uomo e la donna sobbalzarono, si voltarono
dandogli le spalle, poi fecero un passetto per spostarsi di lato, senza fiatare. Nel silenzio che seguì,
Mino distinse – oltre al galoppo impazzito del suo
cuore – anche un cigolio, qualcosa di meccanico
che si muoveva. Si sentì sfiorare i capelli, la fascia che premeva sulla fronte si allentò e lui poté
finalmente girarsi di lato.
Accanto a lui sostava adesso un ragazzo della
sua età. Indossava una tuta nera, con due strisce
bianche parallele sui fianchi. Il fatto che sedesse
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su una sedia a rotelle permetteva ai loro visi di
trovarsi più o meno alla stessa altezza.
«Ciao» gli disse. «Stai bene? Devi scusare quei
due matti, spero che non abbiano fatto danni.»
Mino, troppo sbalordito per pronunciare persino
un lamento, sbatté solo le palpebre e deglutì.
«Per fortuna sono arrivato in tempo anche stavolta» aggiunse il ragazzo con un sospiro; poi
manovrò la sedia a rotelle per voltarsi verso i due
aguzzini, che se ne stavano a testa bassa, come
cani bastonati.
«Insomma, come devo farvi capire che la dovete
smettere? Vi sembra un comportamento responsabile? Avanti, mamma, slega subito questo ragazzo, ridagli i vestiti e lascialo andare. E anche tu,
papà, sembri un bambino. Va' a rimettere la motosega a posto, per piacere. Si è fatta quasi ora di
cena.»
Poi si rivolse a Mino:
«Mi dispiace davvero molto, ma che ci posso fare... i miei vecchi sono fuori di testa da quando mi
è successo l'incidente, bisogna aver pazienza. Però anche tu, scusa se te lo dico, potresti piantarla
di occupare il posto per disabili quando vieni in
palestra.»
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Stanno tutti bene
(Pillola di follia statale)
Il vecchio capannone era sempre stato lì, si era
solo trasformato nel tempo.
Costruito negli anni Quaranta per la produzione
di componenti meccaniche da destinare all'industria bellica e fortunosamente scampato ai bombardamenti americani, era stato poi utilizzato come deposito di elettrodomestici, e ancora come
vetrina espositiva di un concessionario di auto di
lusso. All'inizio degli anni Novanta era diventato
un supermercato, chiuso nel 2011 a causa della
crisi che aveva messo in ginocchio l'intera economia del paese. E così era rimasto fino alla metà
del 2027, col suo cartello fittasi bene in vista.
In effetti quella zona della città pareva poco
adatta alle attività commerciali. A un certo punto
la strada asfaltata si biforcava in due strette viuzze, pavimentate da grandi lastre rettangolari di
pietra liscia. Erano tanto vecchie, quelle pietre,
che quando pioveva si correva il rischio di scivolare e passandoci sopra le gomme delle auto
emettevano un lamento stridulo.
E strette, poi, le due viuzze, lo erano al punto
che i pedoni dovevano camminare addossati al
muro per evitare che le auto li sfiorassero. Su
quelle due viuzze non s'aprivano che cortili di
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fabbricati popolari e una chiesetta sconsacrata,
con la facciata seminascosta dai tubolari di un'impalcatura installata molti anni prima, per riparare
la strada dal crollo di qualche cornicione.
Così, tutti rimasero sorpresi quando un bel lunedì trovarono in cima al capannone una grande
insegna di lampadine che componevano, nell'insieme, le cinque lettere della parola BINGO. Molti
abitanti del quartiere, soprattutto anziani in pensione, si fermarono a guardare quella novità col
naso in aria, come bambini davanti alla ruota panoramica. Alcuni neppure sapevano cosa volesse
dire BINGO e furono costretti a chiedere agli
altri, vergognandosi della propria ignoranza. E
quando i più informati spiegarono che si trattava
di una specie di tombola, solo più moderna, la curiosità di quelli si accese.
Dopo il primo momento di perplessità, qualcuno
si fece coraggio e s'avvicinò all'ingresso, una porta modesta di alluminio anodizzato coi vetri opachi, tenendo le mani di lato al viso come i paraocchi di un cavallo, per cercare di scrutare all'interno. Non si vedeva niente, per cui si decise di
suonare il campanello. La serratura automatica
scattò e sulla soglia apparve un uomo alto e ben
piantato, robusto come sono alcuni uomini giovani ma non giovanissimi, che sembra abbiano il
busto tutto intero, senza il girovita. E quel busto
lui lo teneva infilato in una casacca blu dallo
scollo a “v”, dal quale spuntava una peluria scura
inframmezzata da riccioli bianchi. La carnagione
era quella di chi aveva passato qualche ora in
spiaggia, il viso tondo e rassicurante con dei baf40
fetti sottili. Accanto a lui, ma un passo indietro,
c'era un ragazzo magro, dinoccolato, pallido, la
pelle del viso quasi trasparente, liscia e senza rughe, lo sguardo inesperto e dolce.
«Buongiorno a tutti» disse il tipo robusto mostrando un bel sorriso, «e grazie della visita. Purtroppo non siamo ancora in funzione. Piccoli intoppi burocratici, sapete come vanno queste cose:
la firma del Decreto, i permessi dell'ASL, e anche
se immaginiamo che non vedete l'ora di divertirvi,
vi chiediamo di pazientare ancora qualche giorno.
Nel frattempo...»
A queste parole, come se gli avessero dato la carica a molla, il più giovane si mosse, insinuandosi
come un serpente tra il suo collega e lo stipite
della porta. Teneva in mano alcuni fogli e cominciò a distribuirli in giro.
«... Vi consigliamo di dare un'occhiata al regolamento, così che possiate preparare i documenti
necessari.»
Molti dei presenti, educati e anche intimoriti dai
modi fermi e sicuri dell'uomo, timidamente allungarono le mani per ricevere lo stampato, un foglio
bianco di carta comune con poche scritte di colore
blu. Un vecchietto di statura piccola, un po' ingobbito, ebbe a quel punto il coraggio di accennare
un “ma...” dubbioso, subito zittito dal gesto del tipo robusto che aggiunse:
«Mi dispiace, signori, adesso dobbiamo andare.
Troverete tutto scritto sul volantino. Vi aspettiamo
per l'inaugurazione. Numerosi, mi raccomando.
Facciamo in modo che questo primo esperimento
abbia successo e se ne possano aggiungere di altri.»
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Detto ciò, sparì insieme al giovane compagno
nel buio oltre la porta, che si richiuse dietro di loro con uno scatto.
La folla di curiosi si spostò allora verso quei due
o tre che avevano tra le mani i fogli bianchi. Le
regole parevano precise e incoraggianti. Premesso
che la Sala Bingo aveva lo scopo di procurare
qualche ora di svago agli anziani del quartiere, in
particolare se soli e non abbienti, per accedervi
bisognava aver superato i settantacinque anni e
non possedere altri redditi al di fuori della pensione. L'esenzione dalla spesa sanitaria e l'essere assegnatario di una casa popolare costituivano titolo
preferenziale.
«Ma voi pensate che una persona anziana, di
questi tempi, possa concedersi il lusso di giocare
d'azzardo?» obiettarono quelli con maggiore grado di raziocinio. «A malapena abbiamo di che
mangiare!»
Qualcuno si dichiarò d'accordo borbottando e
scuotendo la testa, ma una signora coi capelli tinti
color paglia disse:
«Un momento, sentite qui!» e proseguì leggendo
ad alta voce. «In questo le politiche sociali del
nuovo Governo si distinguono da quelle dei regimi passati e si concretizzano, al di là di vuote
enunciazioni di principio, in una reale attenzione
per la popolazione anziana. »
«E come si concretizzano?» chiesero i più curiosi, soprattutto quelli che non avevano gli occhiali
da vista a portata di mano.
«Beh» rispose la signora, che si chiamava Giacinta, col sussiego che le derivava dall'essere stata
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maestra elementare e quindi abituata a spiegare le
cose per filo e per segno in modo semplice, «sta
scritto che quelli coi requisiti riceveranno una
congrua dote di cartelle. Una specie di abbonamento gratuito, insomma.»
Ci furono sospiri di sollievo e mormorii d'approvazione.
«E i premi, cosa si sa dei premi?» chiese un signore elegante, vestito di blu e con un borsalino
in testa che gli pendeva da un lato. Fece un leggero inchino. Non se ne vedevano molte di persone
così da quelle parti; quasi faceva soggezione, si
capiva che era un uomo di mondo e aveva centrato un importante argomento da valutare. Forse
il più importante.
La signora Giacinta restò muta e si sentì anche
un poco stupida. Ai premi, sul volantino, non si
faceva alcun riferimento. Possibile che non ci
avessero pensato? Come poteva esistere un gioco
senza vincita, che senso avrebbe avuto? Nelle
partite a tombola che si facevano a casa sua, quando ancora la famiglia si riuniva per Natale, i premi consistevano nelle somme raccolte con la vendita delle cartelle. Li mettevano tutti dentro un
piatto e prima di cominciare a tirare i numeri dal
cestino qualcuno di buona volontà li ripartiva in
maniera crescente dall'ambo alla tombola. Erano
sempre piccole cifre, a casa sua, ma nonostante
questo sua madre e sua zia non facevano altro che
lamentarsi, per tutto il tempo, che non si vinceva
mai niente e che quel gioco era un sistema mangiasoldi, che avevano già perso questo e quello.
Per le tipicità di una sala Bingo non si poteva fa43
re certo affidamento sullo stesso sistema. Se lo
Stato prevedeva di farsi carico delle giocate, allora doveva metterci anche i premi. Non se ne usciva. E ancora Giacinta ci rimuginava sopra, quando un ragazzo, che stava lì con l'aria di compatirli,
sbottò:
«Mi sa che siete rimasti un po' arretrati. Non sapete che ormai sta tutto in mano agli sponsor? Voglio dire, la pubblicità. Vi offriranno qualche giocata gratis, è vero, ma dovrete sorbirvi chissà
quante vendite porta a porta e aste di padelle, vedrete!»
E se ne andò alzando le spalle.
«Beh, se pure così fosse, per me non ci sarebbero problemi, di tempo da perdere ne ho in abbondanza» disse la signora Giacinta, senza riuscire a
celare un pizzico di amarezza.
«Non se la prenda» la rincuorò il signore distinto, avvicinandosi e prendendola da parte. «A me
quel ragazzo è sembrato solo un po' invidioso. Si
sa che i giovani si risentono quando il governo
prende delle iniziative a nostro favore. Ci ritengono un peso e basta, pezzi da rottamare. Non si
rendono conto che questa sorte prima o poi tocca
a tutti.»
«Sì, forse ha ragione» sospirò Giacinta. «Vorrà
dire che sulla questione dei premi ci informeremo
meglio. Lei pensa di partecipare?»
«Perbacco, non vedo l'ora. Una volta frequentavo i casinò e le migliori sale. Vuole che non approfitti? Certo che l'organizzazione statale lascia a
desiderare. Ha visto come sono già in ritardo? E
quei due tipi ridicoli, poi, non mi sono sembrati
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all'altezza, con quelle divise da infermieri... comunque vedremo. E lei?»
«A me manca ancora un po' per compiere gli
anni.»
«Ah, ci avrei giurato, infatti sembra una ragazzina. Spero comunque di incontrarla presto. È stato
un vero piacere, cara signora.»
«Piacere mio.»
Il gruppetto si sciolse e ognuno se ne tornò a casa rimuginando sulla faccenda.
«Oh! Signora Giacinta, come sta?»
«Bene, grazie. E lei?»
«Anch'io bene.»
«È un bel po' che non ci incontriamo. Sta frequentando il Bingo?»
«Sì, proprio per questo trascuro un po' le passeggiate. Ma guardi l'abbonamento che mi hanno
consegnato. Che ne dice?»
«Bello. Ben fatto. Non me l'aspettavo. Mamma
mia, quanto la invidio! A me tocca pazientare un
altro mese. E com'è andata finora, ha vinto nulla?»
«No, purtroppo, le mie cartelle sembrano stregate. Da principio mi era venuto il dubbio che il
gioco fosse truccato e facessero vincere solo...
ehm... certi amici loro, lei mi capisce.»
«Altroché, chissà quanti interessi ci saranno di
mezzo!»
«Esatto. Poi però ho saputo di conoscenti che ce
l'hanno fatta. Gente al di sopra d'ogni sospetto, sia
chiaro, e così ho dovuto ricredermi. E poi mi sta
bene aspettare che il vento giri. Sa cosa penso?»
«Cosa?»
45
«Forse il destino vuole che la vincita ce la godiamo insieme.»
«In che senso?»
«Lo stesso viaggio, intendo. Non gliel'ho ancora
detto che ci sono in palio delle belle crociere? Potere degli sponsor, quel ragazzino antipatico non
aveva mica tutti i torti.»
«Una crociera? Magari ne vincessi una io! Non
sono mai stata su una nave in tutta la mia vita.»
«Beh, considerato che i vincitori non hanno diritto a rigiocare, e mi sembra anche giusto visto
che la ruota deve girare per tutti, col locale aperto
solo di sabato e domenica... fanno circa cinquanta
vincitori a settimana. Una media di sei, settecento
posti alla volta. Organizzano una nave ogni tre
mesi, le probabilità di partire sono piuttosto alte.
E poi, se non al gioco, fortunata lo sarà in amore,
cara signora. Venga, le offro qualcosa.»
«Sempre galante, lei. Accetto volentieri.»
Nelle settimane seguenti la signora Giacinta
pensò e ripensò alla crociera, magari in compagnia dell'amico. E pur vergognandosi un po', sentì
riaprirsi il cuore alla speranza. Era arrivato il momento di sognare un futuro meno triste e solitario.
Le prese l'ansia: al contrario di quanto sarebbe
stato logico, pregò di invecchiare il più in fretta
possibile e appena compì gli anni, già il giorno seguente, si precipitò a presentare la domanda di
partecipazione al Bingo. Si munì di numeretto e
aspettò il turno con pazienza. La ricevette un solerte funzionario in giacca e cravatta, un po' pelato;
con un gesto gentile le indicò di accomodarsi dal46
l'altra parte della scrivania.
«Dunque, lei sarebbe...»
«Candida Giacinta.»
Il funzionario le rivolse un sorriso compiaciuto,
aprì la cartellina che teneva davanti, lesse un foglio.
«Vedo, vedo. Mi servirebbe un documento.»
«Va bene la carta di identità?»
«Perfetto.»
Il funzionario afferrò la tessera che la signora gli
porgeva. Era piuttosto usurata, strappata al centro,
e per questo lui la maneggiò con gran delicatezza.
«Vedo che anche lei è stata pigra e non ha ritirato il nuovo modello elettronico...»
«Oh, ne avevo sentito parlare alla tivù, ma non
credevo che fosse già in distribuzione.»
«Certo, il nuovo Governo mantiene le promesse,
cosa crede? Comunque se la tenga stretta questa
tessera, che quelle coi chip e compagnia costano
allo Stato un sacco di soldi e danno solo grattacapi. E poi guardi che bella foto! Complimenti, sembra anche più giovane.»
«Grazie. In effetti nemmeno mi sono accorta d'essere giovane, che subito mi sono ritrovata vecchia.»
«Ad arrivarci, cara signora! Chissà quanti vorrebbero essere al suo posto. Si accontenti. Ora però mi servirebbe l'emmedierre.»
«Cosa?»
«L'emmedierre. Il Modello dei Redditi, no?»
«Ma lo vuole da me? Guardi che io lo ricevo proprio da questo ufficio...»
Il funzionario tradì un attimo di insofferenza.
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«Signora, lei deve presentare quello che le viene
chiesto. Insomma, ci si lamenta che non esistono
regole certe, che la pubblica amministrazione fa il
bello e il cattivo tempo, poi però tutti cercano di
fare i furbi e aggirare le disposizioni. E no. Così si
finisce nell'anarchia.»
«Anarchia?»
«Sissignore. Comunque, non si preoccupi: a dimostrazione che il cambiamento esiste e qui siamo al servizio di anziani e meno abbienti, il modello glielo faccio stampare io. Va bene?»
«Magari, grazie!»
«Ma il libretto della pensione, lo stato di famiglia, la residenza, il codice fiscale, la tessera sanitaria, le quattro foto, la bolletta elettrica, il contratto di fitto... almeno quelli, dico, ce li ha?»
«Penso d'aver portato tutto. Guardi lei stesso, per
piacere.»
La signora Giacinta tirò fuori dalla borsa una
busta a soffietto. Il funzionario prese le carte, le
esaminò con scrupolo una a una, girando i fogli
avanti e dietro.
«Sembrerebbe proprio di sì» accennò con un sorriso di circostanza. «Perché vede, a volte possiamo sembrare rigidi, ma le procedure vanno rispettate, soprattutto quando si tratta di attività finanziate dallo Stato, come in questo caso. Finalmente, cara signora, vengono prese misure a favore di chi possiede meno, i governi precedenti –
lo sa anche lei – si dibattevano tra riforme, salvaguardie, taglio dei trattamenti... che noia! Ma chi
di loro vi ha mai garantito un bell'abbonamento da
sfruttare in apposite sale per anziani?»
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Il funzionario si gonfiò come un tacchino, pescò
dal cassetto una specie di libretto azzurro, riempì
a penna tutti i campi vuoti e poi ci mise sopra un
bel timbro.
«Ecco a lei, cara signora, il suo lasciapassare per
il paradiso. Cosa dice, è contenta?»
La signora Giacinta a quella vista quasi si commosse, il pensiero già rivolto alla crociera che
sperava di vincere. Mise al sicuro il libretto azzurro, ringraziò un paio di volte e si allontanò felice.
Il primo sabato utile si presentò presso la Sala
Bingo. Passò per una strettissima anticamera, con
sedie imbottite e una struttura in ferro che le teneva unite, appeso al muro un portadocumenti di
plastica azzurra, pieno di opuscoli pubblicitari. Il
tutto chiuso da un'altra grande porta a vetri, le finestrelle opache schermate da tendine avvolgibili
in tinta col resto. A Giacinta l'ambiente fece venire in mente una vecchia dentiera dimenticata nell'astuccio, e le parole del suo odontotecnico: quan-
do si arriva a mettere la dentiera, non serve più il
dentista. E questo significa un bel risparmio.
Tuttavia varcò la porta del salone piena di speranze.
Un tabellone luminoso sfrigolava e lampeggiava
di luci colorate. Molti dei giocatori si alzavano e
si sedevano di continuo, commentando ogni estratto. L'altoparlante ripeteva i numeri almeno un paio di volte. Urla di gioia si alternavano a lamenti
di disappunto. La signora constatò anche, con
soddisfazione, che di padelle e sponsor non c'era
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traccia e che il suo amico stava seduto un po' in
disparte, lanciando continue occhiate verso la porta. Pareva che aspettasse proprio lei.
Da quel giorno, per i due anziani, i pomeriggi al
Bingo divennero un appuntamento immancabile e
molto divertente, anche se ci volle più tempo del
previsto prima che i loro nomi fossero aggiunti
all'elenco dei vincitori. Questo consentì di rinforzare la reciproca conoscenza e preparare con calma i bagagli. Erano già sicuri, infatti, che prima o
poi sarebbero serviti.
«Sono molto felice per voi» disse il giovane preposto a consegnare i documenti di viaggio, il giorno prima della partenza. Fu preciso mentre controllava i dati al computer e molto cortese, a dimostrazione che le nuove assunzioni statali erano
ispirate al principio della meritocrazia.
L'impiegato stampò i biglietti e li accompagnò
con un lungo e preciso elenco di regole da osservare, comprese le cose che si potevano o meno
portare a bordo. Precisò infine che sarebbero stati
prelevati da casa con l'autobus e avrebbero avuto
degli assistenti sempre a disposizione. Infine li
esortò a stare sereni e a fare buon viaggio.
«Vedrete» presagì il ragazzo porgendo loro la
mano, «quando sarete lì vi dimenticherete del resto del mondo, e non vorrete più andare via.»
La Sala Bingo ebbe tanto successo che l'esperimento non rimase isolato. Altre sale vennero aperte
in altre città. Si resero al contempo disponibili
molti alloggi, subito riassegnati a giovani coppie
bisognose. Nelle metropolitane e negli uffici po50
stali si notò meno ressa e negli ambulatori medici
i tempi di attesa si dimezzarono. La viabilità stradale divenne più fluida.
Ottimo esempio di organizzazione sociale, titolarono le maggiori testate nazionali e l'iniziativa
fu apprezzata persino dalla stampa d'opposizione,
di solito molto severa.
Nessuna cartolina – o altri tipi di comunicazione
– giunse presso i parenti della signora Giacinta,
del suo amico distinto e dei loro compagni di
viaggio. Stanno tutti bene, pensarono coloro che
erano rimasti.
E non se ne parlò mai più.
51
continua...
Il nostro progetto
La Factory editoriale I Sognatori (avviata formalmente nella tarda primavera del 2013) costituisce un modello evoluto di casa editrice, fondato
sul concetto di cooperazione e aiuto reciproco. Se
in una casa editrice tradizionale l’editore svolge il
suo lavoro col solo supporto di una redazione interna e ogni scrittore pensa a sé – spesso senza
conoscere gli altri autori e relativi libri, nella Factory l’editore e gli scrittori sfumano i ruoli e
collaborano tra loro in perfetta sinergia.Pur nel rispetto delle competenze specifiche (l’editore si
assume ogni obbligo di natura economica, per
esempio) e dell’individualità, il singolo si impegna per il gruppo ed è a sua volta consapevole di
ricevere aiuto dal gruppo. Editore, autori e collaboratori discutono assieme, decidono assieme,
agiscono assieme. Non esiste nulla di simile in
Italia, proprio per questo il progetto viene seguito
con curiosità da migliaia di persone fin dall’inizio.Entusiasmo e dinamismo si pongono come
base per due obiettivi: rinnovare lo scenario stantio dell’editoria nazionale e combattere l’indifferenza che circonda libri e autori di gran valore,
attraverso un approccio che vuole mediare imprenditorialità moderna e recupero di un associazionismo “dal basso” che altrove è ormai ridotto a
banale parodia.
Sito: ww.casadeisognatori.com
Facebook: I Sognatori - Factory Editoriale
Twitter: I Sognatori Factory@CasaSognatori
Blog autori: lastranafamiglia.wordpress.com
© 2015 I sognatori, Lecce
ISBN 978-88-95068-65-7
Vietata la riproduzione totale o parziale dell'opera senza previo consenso dell'Editore.
Ogni riferimento a fatti o persone esistenti è da intendersi come frutto del caso .
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