Lidia Del Gaudio PILLOLE (di follia quotidiana) A quelli che subiscono l'incuria altrui, agli ipocriti e a chi s'illude che l'aspetto sia tutto; ai dipendenti di sportello sempre gentili e ai mostri che si dichiarano senza ipocrisia; a chi non cura i deboli e non rispetta i vecchi; a coloro che si rifugiano nel sogno virtuale e a quelli che, invece, sfidano il tempo con la speranza di un mondo migliore. A questi le pillole son dedicate. Anzi prescritte. Ma pure a tutti gli altri. Spazzatura (Pillola di follia differenziata) Il buio era calato da un pezzo e le sagome degli edifici parevano disegnate con la matita nera. In fondo alla strada un muro alto occultava l'area del mercato ortofrutticolo, ormai chiuso. Da mesi un uomo si aggirava guardingo da quelle parti. Ogni sera sfiorava appena l'asfalto con scarpe di gomma, le fattezze nascoste sotto un cappello di feltro con visiera, il corpo avvolto da un soprabito stretto in vita. A tracolla, la custodia di una chitarra. Svoltato l'angolo, si ritrovò nella piazzetta vicina al giardinetto rionale, quello con la fontana tonda di cemento, raggiunse una delle panchine di pietra e ci si accovacciò dietro. Onorato, così si chiamava l'uomo, aveva sempre pensato che le facevano di pietra, quelle panchine, perché nessuno se le portasse via, visto che i vandali del quartiere riuscivano a distruggere tutto. Ma lui era stufo. Ogni giorno che Dio mandava in terra, si chiedeva perché fosse stato condannato a vivere in un degrado simile. E non se ne faceva una ragione, non si capacitava dell'indifferenza generale. Gli sembrava che la gente si muovesse con la benda sugli occhi, o forse lui s'era fatto troppo intransigente. Era invecchiato, e si sa: i vecchi sono spesso in5 sofferenti, non sopportano quello che un tempo appariva del tutto normale ai loro stessi occhi. Ma che gliene importava se qualche ragazzino macchiava il muro del palazzo con la bomboletta spray o se, appena sostituita, la lampadina della plafoniera delle scale finiva puntualmente in mille pezzi? Non ci aveva mai fatto caso, prima, troppo occupato col suo lavoro alla Compagnia del Gas, sempre in giro a leggere i contatori nelle case, a controllare impianti; era passato discreto tra odori d'ogni tipo, abbassando gli occhi per non indagare l'altrui intimità, ma ora era in pensione e trovava tempo e voglia di registrare la stupidità umana. E proprio quella gli dava fastidio. Anzi, per dire meglio, proprio non la capiva. Insomma, se quelle azioni delinquenziali avessero portato benefici, magari riempito la pancia o le tasche, allora se ne sarebbe fatto una ragione, ma l'incuria fine a se stessa, no: quella gli era inconcepibile. Si guardò in giro, circospetto; dalla sua postazione la strada appariva deserta, nessuno passava neppure sul marciapiede di fronte, dove il Comune aveva collocato la campana per la raccolta del vetro. Strinse i denti in una smorfia di sopportazione, l'artrosi alle ginocchia lo torturava, ma doveva togliersi quel peso dallo stomaco e nessun dolore gli avrebbe fatto cambiare idea. Si sfilò la tracolla per poggiare la custodia a terra e l'aprì. Il pensiero andò ad Al Pacino, il suo mito. “Quel pomeriggio di un giorno da cani” era il film che gli aveva fatto scoprire il grande attore americano. 6 Da allora la passione non gli era più passata. Da “Il padrino” fino a “L'avvocato del diavolo”, aveva avuto modo di riflettere sull'ineluttabile, satanico destino che insegue il genere umano, al di là delle strade che sceglie di percorrere. La vita non dava scampo, e se pure mutava la scelta, si arrivava sempre allo stesso finale. E con quel finale in testa, Onorato cominciò ad avvertire l'ansia. Tirò fuori dalla custodia lo strumento; il cuore andava di fretta ma al contempo lo faceva sentire vivo, desideroso di dare una degna conclusione a quella storia cominciata con l'emergenza rifiuti, quando anche lui aveva dovuto farsi un bell'esame di coscienza e decidere di dare una mano per risolvere il problema. Aveva stilato di suo pugno, dopo che i vicini l'avevano pregato di farlo, il calendario da affiggere nell'androne del palazzo. Tutto spiegato in modo perfetto. Lunedì, mercoledì e venerdì: organico; martedì: plastica; giovedì: carta; domenica: multimateriale. Il vetro, invece, nell'apposita campana collocata nei giardinetti. S'era entusiasmato al pensiero che il Comune intendesse avviare proprio nel suo quartiere la raccolta porta a porta, in questo modo avrebbero zittito le malelingue che li tacciavano di inciviltà, compresi gli opinionisti che vedeva blaterare in televisione. E per qualche mese, infatti, le cose erano filate lisce; in un certo senso, ancora funzionavano. I camion dell'azienda comunale venivano a raccogliere nei giorni stabiliti, la maggioranza faceva buon viso a cattivo gioco e si barcamenava tra il rispetto del calendario e qualche ve7 niale dimenticanza. Tranne un deficiente, però, che depositava sistematicamente il suo sacchetto fuori orario ai piedi delle campane per il vetro. Schifosa spazzatura non differenziata, stipata in una altrettanto generica busta del supermercato. Fatto grave e intollerabile dato che, a causa del sistema porta a porta, dalla strada erano stati tolti i cassonetti e venivano raccolti solo i rifiuti sui portoni dei condomini, negli orari e nelle date stabilite. Le prime volte aveva preso il sacchetto fuorilegge per smaltirlo insieme ai suoi, un gesto eroico a difesa dell'onore suo e del quartiere, sperando che le cose si normalizzassero. Invece, se normalizzazione c'era stata, questa era consistita nel fatto che, almeno due volte a settimana, di fianco alla campana del vetro compariva l'odiata busta d'immondizia. E i cani facevano scempio. A quel punto aveva cercato di indagare su chi fosse l'autore di un comportamento così incivile, e una volta individuato l'aveva fermato per parlargli, per spiegargli le regole. Ne era nato un battibecco. A nulla era servito presentarsi come coordinatore, responsabile per il condominio della raccolta rifiuti, eccetera eccetera; la discussione era degenerata fino all'inverosimile. E quando l'altro gli aveva intimato, coi suoi modi volgari, di farsi i fatti suoi, era stato tentato di rispondergli con la battuta di “Insomnia”: tu sei per me un mistero come può esserlo un cesso otturato per un idraulico . Ma poi aveva taciuto, pensando che non ne valesse la pena, che quello neppure li conosceva i 8 film di Al Pacino. Col passare dei giorni lo stomaco aveva preso a rodergli per il nervoso, però, la collera a montare. La spazzatura nella busta del supermercato era diventata il suo chiodo fisso. Cercava di distrarsi, di pensare ad altro, ma ce l'aveva sempre davanti agli occhi, come un'ossessione, una malattia. Non si capacitava di dover soccombere alla prepotenza e aveva giurato a se stesso che quella vergogna sarebbe finita in un modo o nell'altro. Non era giusto alimentare con simili comportamenti i preconcetti che il suo quartiere e la città si portavano dietro come marchio d'infamia. Perché lui, persona perbene, silenzioso e correttissimo ex dipendente della Compagnia del Gas, solerte pagatore di tasse d'ogni genere, compreso l'abbonamento alla televisione, non doveva essere accomunato a orrori come quelli. E se le parole non facevano effetto, allora... Allora stava lì, adesso, dietro la panchina di pietra che gli faceva da riparo. Accovacciato fiero sui dolori dell'artrosi, in attesa dell'inevitabile. Per fortuna, non dovette aspettare molto: il tizio arrivò, l'aria strafottente di chi si crede più furbo degli altri o gli altri non li vede proprio, strascicando i piedi in due ciabatte di plastica, pantaloni corti, inadatti a contenere il panzone esagerato e traballante sopra la cintura. Aveva con sé anche la solita busta di plastica, annodata alla meglio e perforata qua e là da bucce di cocomero. Era proprio lui, il nemico giurato di quella guerra da cui non ci si poteva più ritirare. Un nemico a cui 9 avrebbe voluto dire, come in “Scient of Woman”: so esattamente dove si trova il tuo corpo, quello che sto cercando è qualche indicazione del tuo cervello. Tuttavia il tempo delle chiacchiere era finito e Onorato non ebbe esitazioni. Sapeva cosa fare perché si era esercitato a lungo, ripetendo diligentemente ogni gesto fino alla nausea. Preciso e veloce, si sporse quel tanto che bastava, usando per sostegno lo schienale della panchina. Mirò e sparò. Il panzone barcollò come un ubriaco, poi stramazzò a terra senza emettere fiato. La busta cadde con lui, in un secondo tonfo; ciò nonostante rimase intatta. A quel punto Onorato si guardò in giro, certo che il rimbombo dello sparo avrebbe fatto accorrere tutto il quartiere. Si rimise in piedi a fatica, utilizzando il fucile da caccia come un bastone. Alla sua età certe cose costavano, ma qualche volta non c'era altro modo per spiegarsi. Il vicinato pareva, però, dormire sonni profondi e lui sentì arrivare una malinconica insoddisfazione. Era il silenzio della sua vita, tutta quella indifferenza. Sempre anonimo, operaio corretto e diligente d'un mondo che faceva schifo, non era disposto a restare in incognito anche da giustiziere. La panchina a due passi, vi montò sopra e, con la forza nervosa d'un atleta, cominciò a saltellare sparando in aria qualche fucilata. «Ehi, gente, sono qui!» si mise a gridare. «Volete fare la guerra a me? Okay, farete la guerra con il più forte!» Il trambusto fece accendere la luce di qualche fi10 nestra, ombre si mossero indecise dietro ai vetri, Onorato sparò di nuovo in aria, di nuovo urlò a squarciagola, sicuro che almeno per “Scarface” si sarebbe radunato il pubblico delle grandi occasioni. Ma sbagliava. Probabilmente lo avevano preso per il solito ubriacone notturno, forse per un pazzo. Ben presto anche quel poco interesse svanì. Dopo il baccano, tornò il silenzio. Chi aveva fatto capolino dalla finestra si ritrasse, tutte le tende si chiusero, le luci si spensero, le tapparelle giunsero al fine corsa con un rumore sordo. Onorato si trovò di nuovo solo e impotente. Come al solito nessuno aveva il coraggio di fiatare: l'accidia comandava il mondo, ecco. La gente, sempre pronta a criticare e a lamentarsi, scappava appena si trattava di metterci la faccia. «E va bene» sospirò a quel punto, rassegnato. S'appoggiò allo schienale di pietra, guardò il marciapiede dall'altro lato della strada e cercò di fare mente locale. Il panzone stava sempre immobile, fantoccio ormai senza vita. Forse era stato da coglioni avergli dato importanza. Ebbe un attimo di sbandamento, l'impulso di darsela a gambe senza voltarsi indietro. Di sicuro aveva buone probabilità di farla franca in quel festival dell'indifferenza, ma subito si vergognò del pensiero. Era sempre stato una persona onesta, anzi, dell'onestà ne aveva fatto una bandiera. Come avrebbe potuto vivere con quel peso sulla coscienza? E quand'anche si fosse dato alla fuga, qualcuno lo aveva pur visto in faccia; sarebbe bastata una chiamata anonima alle forze dell'ordine per essere individuato e arrestato. Rischiava d'es11 sere scoperto in ogni caso e fare in più una pessima figura. Così scese dalla panchina, rimise il fucile nella custodia, si sedette calmo e incrociò le braccia, sperando che venissero presto ad arrestarlo. Passò circa mezz'ora, però, prima che dal buio in fondo alla strada s'intravedesse una luce intermittente, una luce gialla che si avvicinava. Onorato strizzò gli occhi per guardare meglio e riconobbe non già la polizia, bensì il camion della nettezza urbana che faceva il suo giro. Quando giunse all'altezza dei giardinetti rallentò, restando al centro della carreggiata. Uno degli addetti in tuta blu si sporse dal finestrino, poi scese per guidare il collega nella manovra a marcia indietro e agganciare la campana al compattatore. Dopo un po' comparve anche l'altro, l'autista, che si dette da fare con la ramazza per ripulire intorno al marciapiede. Fu proprio lui ad accorgersi del corpo steso a terra. Con un fischio richiamò l'attenzione del compagno. I due confabularono per qualche istante gesticolando, poi si decisero a raccattare il panzone; lo afferrarono, uno per i piedi, l'altro per le braccia, e lo lanciarono sul camion insieme a tutto il resto. Dopo il lavoro si accesero una sigaretta, ne aspirarono qualche boccata in silenzio, risalirono in cabina e ripresero la marcia. Onorato non ebbe neppure il tempo di capire cosa stesse succedendo, che già la luce gialla era scomparsa dietro l'angolo. Non gli rimase che ingoiare le frasi che s'era preparato. Alla sua età poche cose lo lasciavano senza parole, ma quello fu il caso. Scosse la testa, si mise la custodia a tra12 colla, si rialzò il bavero dell'impermeabile, calcò meglio il cappello sulla testa e s'avviò mogio verso casa. Se qualcuno avesse potuto guardarlo in faccia, però, avrebbe notato sulle sue labbra un mezzo sorriso compiaciuto. E se qualcuno avesse potuto chiederne il motivo, avrebbe saputo che la soddisfazione non gli derivava da quella inaspettata impunità, bensì dall'aver constatato che il servizio per la raccolta differenziata funzionava con ineccepibile efficienza. 13 Supermanager (Pillola di follia sindacale) «Siete dei cialtroni, dei cialtroni!» urlò il giovane dottor Paglia mentre lasciava il salone a passo svelto per tornarsene in ufficio. «Questa volta ha ragione Supermanager a volervi licenziare, ve lo meritate, e basta!» La porta sbatté tra il mutismo costernato dei presenti, e a quel punto Sergio Fiore si sentì in dovere di intervenire. In piedi, continuava a mostrare un'aria risentita: «Cialtrone sarà lei, ha capito?» urlò. «Ma vedi che roba. Vorrei sapere chi ce l'ha mandato quest'altro imbecille!» Si rivolse alla platea dei compagni aspettandosi di ricevere un coro di approvazioni, invece arrivò solo una voce dal fondo. «Vuoi sapere chi ce l'ha mandato, Fiore? Allora, se dobbiamo dirla tutta, quello lì ce l'avete appioppato proprio voi.» «Noi? Ma che cazzo dici?» Sergio si stava spazientendo, ora pure le pulci avevano la tosse. E poi chi era stato a parlare? Allungò il collo per scrutare tra la folla, qualcuno si fece da parte per marcare la distanza con la polemica incombente, e allora vide il ragazzo. Simpatico, una faccia grassottella, parlava con un mar15 cato accento popolare, gli occhi d'un colore trasparente che ti scavava dentro. Fece mente locale, ma si convinse che non lo conosceva. Ogni volta ne arrivava uno nuovo a scoprire l'acqua calda, come se la vita sulla terra fosse cominciata giusto in quel momento e tutto il genere umano per milioni di anni non avesse mangiato, procreato, fatto guerre, e soprattutto praticato la politica. «Ma sì, quello sta in quota al tuo partito, Fiore. Come diceste, quando il Procuratore fece piazza pulita del vecchio consiglio di amministrazione? Ah, vedrete, l'aria è cambiata, metteremo persone giuste al posto giusto, finalmente dei competenti, dei veri manager. Questi sono i vostri scienziati e mo' ve li dovete sopportare.» «Senti un po', Nonsocometichiami, io faccio il sindacalista da quando avevo la tua età e per anni mi sono fatto il mazzo per garantire diritti e pace sociale e ancora mi ritrovo qui a spalare merda, va bene? E chi sei tu per farmi la lezione? Che se poi vogliamo parlare di corruzione, c'era proprio un gran bisogno di cambiare aria, mi pare!» «Sì, cambiare aria è giusto, il problema è che i musicisti sono cambiati ma la musica è rimasta la stessa. E non ci si può ergere a moralisti quando non se ne ha l'autorità» disse ancora il ragazzo, l'unico ad avere il fegato per esternare qualcosa di simile a un pensiero. Gli altri, intorno, parevano pesci in barile alle prese con un problema più grosso di loro. E già, che altro sapevano fare quegli uomini amorfi, pasciuti e viziati? L'ipotesi di dover licenziare non s'era mai presentata prima e le RSU si 16 erano trastullate fino a quel momento solo coi problemi dei turni di notte, dei concorsi interni, della pausa pranzo e del valore dei buoni-pasto. Sergio pensò che doveva fare più attenzione a questo Nonsocometichiami, il quale intanto non la smetteva: «Senti, Fiore, se avessero mandato persone capaci e con l'obiettivo di rilanciare l'azienda con idee nuove e nuovi investimenti, non avrei avuto proprio niente da ridire, ma ci hanno rifilato delle nullità, ecco, solo altra gente incompetente che doveva avere qualche contentino. E i dirigenti si prendono i premi anche se la produzione peggiora. Eh già, basta risparmiare sul personale, tagliare le teste e i conti quadrano per miracolo. Se continua così, altro che licenziamenti: qui ci fanno chiudere.» Giunsero mormorii di approvazione, l'aria si stava surriscaldando. Il ragazzo non aveva tutti i torti, e il suo modo di parlare pareva genuino, senza peli sulla lingua. Sergio pensò che gli sarebbe piaciuto portarlo dalla sua parte; che, in fondo, li separava solo un'inutile e antiquata ideologia. Paragonò quella freschezza volenterosa alla sua barba ormai bianca, alle palpebre gonfie che avevano fagocitato lo sguardo dentro due cuscini, ai chili di troppo e ai capelli radi come i pensieri, ormai. La vita girava in fretta: chi l'avrebbe immaginato, quando la maturità degli altri lo infastidiva, che in un attimo il vecchio sarebbe diventato proprio lui? Una carriera cominciata il giorno stesso in cui avevano rapito Aldo Moro. 17 Il segretario del sindacato era arrivato in fabbrica e li aveva fatti uscire gridando: «Fuori, ragazzi, sciopero, sciopero, c'è la manifestazione!» Per caso l'aveva preso sottobraccio e a lui non sembrò vero che Lucio Dama, un mito che odorava ancora di partigiano, lo tenesse stretto di fianco mentre sfilavano in corteo. Lucio gli aveva insegnato sul campo cose che in nessuna università avrebbe potuto sperare di apprendere, e aveva trasformato la sua acerba arroganza in ammirazione. Sì, Sergio lo aveva ammirato e appoggiato in ogni circostanza, anche quando al tavolo delle trattative Lucio se ne usciva dicendo che li stavano setacciando d'inefficienza e quindi si sarebbero detratti dalla discussione. Sempre, fino al giorno in cui il vecchio segretario non era passato a miglior vita, lasciandogli il posto. E lui ci aveva messo la stessa passione del vecchio e s'era mantenuto pulito per anni, in mezzo a tanti che s'arricchivano spostando i nomi negli elenchi delle graduatorie delle assunzioni, dopo la telefonata di qualche potente, prendendo mazzette e abbandonandosi a nefandezze di ogni genere. Nella mente gli passò veloce il film d'una vita: il terrorismo, la vittoria ai mondiali di Spagna, la caduta del muro di Berlino, i partiti che avevano rinnegato simboli e nomi, la lira trasformata in euro; alla fine pure le Torri Gemelle si erano sbriciolate e la girandola senza ritorno aveva travolto anche lui. Riprese a fatica il filo del discorso: «Va bene, va bene, ma parlare di corruzione sa18 rebbe troppo lungo, ragazzi, adesso non abbiamo il tempo di fare certi dibattiti. Dobbiamo pensare alle cose concrete. Intanto, è certo che quelli» e mosse la testa in direzione della porta, «prepareranno le lettere di licenziamento anche senza il nostro accordo.» «E che possiamo fare?» intervenne un altro dei presenti, grande e grosso e tutto sudato, la sua camicia sembrava una carta per fritti. «Molti della lista sono malati e hanno superato i giorni di comporto, è la legge...» «Ma quale legge!» intervenne ancora Nonsocometichiami, ormai rosso in viso e lanciato verso la battaglia. «I malati devono essere tutelati, possiamo spostarli in mansioni meno gravose, lo prevede il contratto integrativo, no? Anche se Supermanager coi suoi avvocati trova sempre cavilli per mettersi i nostri diritti sotto i piedi. Insomma, quelli parlano di numeretti scritti sulla carta, ma per noi si tratta di persone in carne e ossa, amici che finiranno in mezzo alla strada. Un po' di solidarietà, per la miseria!» «Altre mansioni? Caro collega, scusa se te lo dico, ma tu sogni» disse a quel punto un altro ragazzo allampanato e pallido. Un tatuaggio gli copriva il braccio sinistro, avvolgendo la pelle con un traliccio scuro da cui si dipartiva un nome di donna. Non sembrava arrabbiato, solo rassegnato. Sergio lo riconobbe, era uno dei part-time verticali, quelli che lavoravano solo il sabato e la domenica e non prendevano neppure le competenze accessorie. «Ammalarsi ormai è un lusso. E a noi chi ci pensa, allora?» concluse rivolgendosi a Non19 socometichiami, che obiettò: «Sì, bravo! Facciamo la guerra tra poveri, avanti! Ma non è che se togliamo ad alcuni riusciamo a dare di più ad altri, questo almeno lo capite? Perché siete così apatici, allora? Dobbiamo ribellarci, abbiamo il dovere di lottare per cambiare questo schifo. Tu che ne pensi, Fiore? Tu sei quello che ha più esperienza, dicci cosa dobbiamo fare.» All'improvviso le urla mutarono in brusio e tutti si voltarono a guardare il vecchio sindacalista. Sergio capì che era venuto il momento di prendere in mano la situazione. Allargò le braccia come per chiedere la calma e s'arrampicò su una sedia di similpelle nera che stava lì vicino. Quando ottenne il silenzio, parlò. «Ascoltate, ragazzi, sarò sincero. Ho sessantotto anni e potrei starmene benissimo a casa mia, in santa pace, a godermi gli anni che ancora mi restano. E invece no! Cazzo. Il ragazzo ha ragione, dobbiamo ribellarci contro questi parassiti. Mandarli tutti affanculo. È chiaro? Tu, per esempio» e si rivolse proprio a Nonsocometichiami. «Ecco, tu sembri un tipo a posto. Saresti d'accordo a fare un po' di occupazione?» Il ragazzo sbiancò, poi lo guardò trasognato. «Beh, se c'è da dare una mano per cambiare verso al sistema, potete contare su di me» disse con voce rotta dall'emozione e voltandosi per cercare gli sguardi dei compagni. «Se è per questo ci sto anch'io» aggiunse il parttime col braccio tatuato. «Però, caro Fiore, rimane il fatto che abbiamo bisogno di uno come te, uno con le palle e l'esperienza, che ci aiuti a non com20 mettere errori.» «Bene, ragazzi, bravi, così vi voglio. Dovete essere forti e volenterosi, combattivi. Io vi starò a fianco, vi guiderò, e se mi starete a sentire vi garantisco che li metteremo tutti in ginocchio. Basta organizzarci per bene. E dico anche che non dobbiamo accontentarci più di quel leccaculo di Paglia, ma mirare in alto, molto più in alto.» Nel salone cominciò a montare l'eco degli anch'io , dei sì allo sciopero, sì all'occupazione. Un'onda magnificente e calorosa passava di bocca in bocca, si gonfiava come un tornado; nel procedere, si colorava di guizzi spiritosi e irriverenti contro il Potere di ogni specie. Sergio alzò di nuovo le braccia per calmare gli animi. Ora lo avvertiva, anche fisicamente, il calore che arrivava dal gruppo. Le mani cominciavano a prudergli. «Vi prego, amici, ancora un attimo di attenzione. Una volta ho letto da qualche parte che così succedono le rivoluzioni. A un certo punto la gente si stufa e scocca la scintilla. E noi siamo ben altro che una piccola scintilla. Ho ragione di credere che possiamo aspirare a cambiare questa fabbrica e poi forse anche il nostro paese. Vi ricordo che una delle più grandi rivoluzioni della storia ebbe inizio da un posto in cui si giocava a palla. Però è importante restare uniti. E soprattutto comportarsi in modo razionale, con una strategia. Dunque, il primo passo è proclamare l'agitazione e chiedere d'essere convocati. Ma non da quel pupazzo di Paglia, bensì da Supermanager in persona. Questa volta lo dobbiamo stanare 21 fin dentro al suo ufficio, e ci dovrà ascoltare. Siete d'accordo?» «Sì, ma come si fa?» intervenne di nuovo Nonsocometichiami. «Mica lo sappiamo dove sta. Quello se ne va in giro per il mondo, magari adesso si trova in America o chissà dove.» «Io dico che questa storia di Supermanager che gira il mondo è tutta una scusa per tenerci in soggezione» tuonò Bracciotatuato, che nella foga pareva finanche meno pallido e magro. «Non so se sia una scusa o meno, però qui non c'è mai venuto e nessuno l'ha mai visto, a quanto pare» osservò Sergio riprendendo il controllo della discussione. «È Paglia che mantiene i contatti con noi, insieme a quei tre yuppie che si vestono come dei venditori porta a porta. Ma a noi non deve interessare. In un modo o nell'altro, lo staneremo. Adesso qualcuno di noi va a chiedere una convocazione. E sapete cosa gli diremo, quando potremo finalmente guardarlo in faccia?» Fece una pausa e allora s'udì una pernacchia rumorosa, seguita dal rumoreggiare di grasse risate liberatorie. Sergio sorrise: «Ma no, no, non quello. Ve lo dico io che cosa gli diremo: tu sei parvità di materia» concluse attingendo dal magico pozzo delle massime di Lucio Dama. L'uditorio non riuscì a decifrare la citazione, tuttavia ne colse il tono canzonatorio. Urla di sostegno si levarono miste a fischi e applausi scroscianti, il coro si ricompattò poi intorno a un solo nome, scandito all'unisono (Ser-gio! Ser-gio!) finché non tornò la calma e fu deciso che sarebbero 22 stati Nonsocometichiami e Bracciotatuato ad andare da Paglia per chiedere d'incontrare Supermanager. Quando tornarono, i due giovani erano rossi in viso per la soddisfazione. «Avevi ragione, Fiore. Se l'è fatta sotto, il ragazzino, quando ci ha visti così determinati. La buona educazione non paga. E dire che quando stavamo zitti e calmi ci guardava dall'alto in basso» disse Bracciotatuato. «Ha giurato che contatterà il gran capo oggi stesso per farci convocare. Scusa Fiore, non ti dispiacere, ma ci voleva proprio un po' di gioventù per smuovere le acque. Adesso capiranno che non possono più scherzare, che qui siamo capaci di fare pure le barricate» aggiunse Nonsocometichiami. «Ve l'avevo detto, no? Sono solo dei vigliacchi, forti coi deboli e deboli coi forti. E dove si terrà questa riunione?» «Per evitare che Paglia facesse il furbo, abbiamo proposto una videoconferenza, così Supermanager non avrà scuse. Anche se attraverso un monitor, dovrà starci ad ascoltare.» Fiore non diede a vedere che quella soluzione gli lasciava un sapore amaro in bocca. Eccola qua, un'altra illusione del Potere: la tecnologia che risolve tutti i problemi, rimette tutto a posto. «Fate come volete, però non mi chiedete d'aiutarvi che io di queste cose non ci capisco niente» disse con un sorriso mogio e un'alzata di spalle. «Ma no, s'impara in fretta, persino mio nonno smanetta qualche volta. Basta avere un portatile 23 con la webcam . Vedrai, parleremo con quello stronzo, pure se si trova in Cina.» «Sì, e magari dalla Cina pensa che siamo anche noi come i cinesi. Non ha capito niente: chiederemo conto di tutto, ma proprio di tutto. Come vedi, seguiamo i tuoi consigli, Fiore. Però usiamo la tecnologia, in fondo che male c'è?» Sergio annuì, s'accarezzò la barba brizzolata. A quanto pareva, qualcosa che finiva in -gia doveva sempre esserci, per dare senso alla vita delle persone semplici. E ci rimuginò sopra per tutto il tempo che durò ancora la riunione. Alla fine fece le ultime raccomandazioni, strette di mani e pacche sulle spalle, salutò i compagni uno a uno e lasciò il salone dell'assemblea con la schiena curva. Imboccò il corridoio deserto. La borsa di pelle pesava come un macigno. Tutte quelle carte inutili, il Testo unico coi Contratti Nazionali, la bozza per l'accordo sullo straordinario a forfait, le copie dei fax di protesta, i comunicati stampa, l'autoregolamentazione. Quante assurdità s'era trascinato appresso in quegli anni, o perlomeno fino a quando un Procuratore coscienzioso non aveva fatto di tutta l'erba un fascio e ognuno aveva cercato di salvarsi a modo suo. Lo ricordava bene quel momento perché era stato anche il suo personale 8 Settembre. Come un reduce tra le macerie delle convinzioni che l'avevano sempre sostenuto, per la prima volta s'era sentito la testa pulita, fresca, libera da appartenenze o sovrastrutture. E aveva deciso di riappropriarsi della sua vita. Prese l'ascensore, premette il pulsante dell'ulti24 mo piano. Passò davanti a molti uffici chiusi, a custodire i segreti di pulcinella – secondo le nuove disposizioni di Paglia. Arrivò davanti alla porta a due battenti con la scritta Direzione del Personale, con circospezione l'aprì e si ritrovò in uno stanzone nel quale era rimasta una sola scrivania. Vuota. Attraversò il locale quasi di corsa e si infilò in un altro ufficio anonimo, chiuse la porta a chiave e tirò un sospiro di sollievo: non sarebbe stato in grado di resistere un attimo di più in quella bolgia di speranze umane. Entrò in un bagno finemente maiolicato di bianco, richiuse col lucchetto anche lì, e solo allora cominciò a rilassarsi. Si sfilò il giaccone col cappuccio, colore verde marcio che faceva tanto Sessantotto, poi il maglione a dolce vita, e rimase in canottiera, una vecchia canottiera bianca a coste con qualche buchetto sotto l'ascella. Si guardò nel grande specchio molato che stava sopra al lavandino. Il suo volto sembrava più stanco del solito, ma forse era solo questione di luci. Con pazienza cominciò a tirar via i cespuglietti aggiunti nelle sopracciglia, la finta barba folta, attento che la colla non si portasse via anche la pelle; sputò le palline di gomma che gli gonfiavano le guance e infine si tolse la parrucca di ricci imbiancati. Tirò fuori da un cassetto laterale un grande beauty case e vi sistemò le protesi, poi prese un bel fiocco d'ovatta e se lo passò sul viso, eliminando ogni traccia di cerone e i segni di matita che avevano accentuato l'ombra delle occhiaie. Si sentì meglio senza tutto quel trucco, si spogliò 25 ed entrò nella doccia. Dopo aver passato un po' di tempo sotto l'acqua calda prima, e quella fredda poi, chiuse i rubinetti e s'asciugò con cura. Da un armadio lì vicino tirò fuori boxer e canottiera nuovi, un bell'abito grigio scuro, completo di camicia e cravatta di seta. Si specchiò di nuovo e pensò che, pelato com'era e ben rasato, faceva ancora la sua bella figura. Inforcò un paio di occhiali a specchio e uscì dal bagno. Sedette alla scrivania e accese il computer. Non ricordava quando gli fosse venuta quella splendida idea, forse una volta aveva letto un libro che parlava d'un re. Sì, quel Ferdinando di Borbone che si travestiva da popolano e, sotto falso nome, andava in giro a ubriacarsi, giocare d'azzardo e frequentare bordelli. Un re lazzarone che, odiato dal popolo, cercava di tenere la situazione sotto controllo confondendosi nella plebaglia. Solo che lui non era nato re: aveva fatto la gavetta nel sindacato. Quanto tempo era trascorso? Alzò la cornetta del telefono. «Sì, signor direttore!» rispose subito la voce di Paglia. «Mi dica.» «Dica lei, piuttosto. Cosa sarebbe questa novità dei sindacati?» Paglia cominciò a balbettare. «Ehm... ecco, quelli sono arrivati come degli scalmanati. Ho dovuto dire... promettere...» «E secondo lei, se poi devo parlarci io con questi sindacati, cosa la pago a fare? Posso licenziarla, dunque?» Dall'altro capo del telefono giunse un silenzio 26 glaciale. Poi ci fu un timido: «Ha ragione, direttore. Ma... lei come fa a...» «Sapere quel che succede?» «Sì...» «Paglia! Si svegli. Io sono il capo qui, non lo dimentichi mai. Un motivo ci sarà se mi chiamate Supermanager! Pure lei, sì, non faccia lo gnorri. Comunque, niente scuse: parli con quei cialtroni e dica che sono in Papuasia senza connessione. S'inventi qualche cosa, insomma. E chiarisca bene che se non tornano al lavoro licenzio tutti. Dobbiamo fare i conti col mercato globale, ormai, e certe fantasie non se le possono più permettere. Capito?» Sergio sbatté giù il ricevitore, si stiracchiò, aprì il portatile e si collegò al suo gioco preferito. Il trading azionario. Se lo meritava proprio qualche momento di relax ed era anche curioso di sapere le quotazioni della compagnia, dopo gli annunciati licenziamenti. Gli dispiaceva solo un po' per Nonsocometichiami e Bracciotatuato, ma era gusto che i giovani facessero le loro esperienze e ci sbattessero il muso. Importante, però, che avessero qualcosa grazie a cui sognare. Ideologia o fantasia che fosse. Finanche un poco di tecnologia. 27 Motosega (Pillola di follia disabile) Il primo concetto che il cervello elabora è quello di buio, uno strano buio che va tingendosi di pennellate blu e dal quale prendono forma un po' alla volta le cose intorno. Meno male, temeva d'essere diventato cieco. E anche sordo. Ha le orecchie tappate come quando si sta sott'acqua, e come nell'acqua, si sente leggero... leggero... tutto è così lento, ovattato. Quasi non vorrebbe svegliarsi, ma ormai i pensieri si sono messi in moto e non si possono fermare. Ne cerca almeno uno che abbia un senso, che lo guidi tra la folla di immagini, frasi e sensazioni che gli ingorga il cervello e lo confonde. Prima stava sognando, nell'incubo qualcuno lo punzecchiava con gli spilli, ma lui è riuscito a scappare e si è visto da lontano come succede quando si sta morendo... Calmo, stai calmo , si raccomanda. Ma come può restare calmo? La consapevolezza del suo corpo che si sta svegliando lo spaventa persino più della brodaglia colorata che lo cullava. Cerca di deglutire per ingoiare la nausea che sente in bocca, e poi di respirare profondamente. Avverte una pressione sul petto, la stessa che gli 29 blocca la fronte, le gambe e le braccia. L'hanno legato. Ecco. E imbavagliato. La sua lingua è diventata un grosso serpente amaro, rivoltante. Deglutire gli costa sforzo. L'ha provato solo un'altra volta, un groviglio del genere: dal dentista, ancora se lo ricorda. Si fa coraggio e riapre le palpebre, ora il blu si sta schiarendo. Cerca di riassumere la situazione: si trova supino, legato al buio, qualcosa gli preme dentro e sopra la bocca. Ma intanto chi è lui, come si chiama? Ha un passato? Deve cercare di ricordare, aprire la mente, renderla più ricettiva. Appena lo fa, intravede lo spiraglio, lo individua proprio come uno spicchio luminoso che si allarga fino a riempire tutto il cerchio. Lui è Mino, ecco chi è! E poi? Ha venticinque anni. Sicuro? Venticinque? Sì, senza dubbio. Ecco l'immagine della torta con le candeline tremule, il numero si legge benissimo, facce giovani e sorridenti in posa per la fotografia di rito, un viso attaccato al suo, vicino più degli altri, così attraente, i capelli raccolti in una coda di cavallo, la bocca aperta nel sorriso. Esulta all'idea di Manuela, la sua ragazza, un tenero ricordo che gli dà coraggio. Manu, aspetta, a te ci penso dopo, ora devo capire che cosa ci faccio qui. Prova a stringere i pugni; le mani e le dita si muovono, nonostante le fasce attorno ai polsi. Un'altra fascia, più larga, gli circonda il petto, la 30 sente premere sul torace. Contrae i muscoli, sono duri e sviluppati a causa dell'allenamento quotidiano. La palestra, ecco! Una lacrima spunta all'angolo dell'occhio, la commozione per un altro pezzetto di vita che sta riconquistando il suo posto. Certo, lui ci passa le giornate in quel locale ben attrezzato, si esercita col massimo impegno. Come potrebbe dimenticarlo? Nuovo riepilogo, il quadro si va delineando. Dunque, lui si chiama Mino, anzi Giacomo, ma sua madre – ha anche una madre – lo ha sempre chiamato Mino per vezzeggiarlo. Ora si ricorda di lei con chiarezza, la sua mamma affettuosa e bella, seno grande e morbido, bacio sulla guancia, in cucina grembiule e forno acceso per la pizza fatta in casa, non fare tardi che sto in pensiero mi raccomando. Lo invade un sentimento di speranza e buona volontà: ora che sa della mamma, ha un motivo in più per volere uscire da quella situazione. Tenta qualche nuovo movimento con le gambe, pure quelle sono legate al tavolo. L'ha identificato, un tavolo duro, liscio e gelido, forse di acciaio, sul quale sta sdraiato nudo. Per un attimo lo sconvolge il pensiero d'essere finito per sbaglio all'obitorio, ma subito si rincuora pensando che sul tavolo di un obitorio non c'è bisogno d'essere legati, semmai ricoperti da un lenzuolo. E non è il suo caso. Giusto . Forse ha avuto un incidente, si trova all'ospedale 31 ed è rinvenuto troppo presto dall'anestesia. Ma quale incidente e quando, soprattutto? Anzi, che giorno è? Avanti, Mino, fino a un minuto fa non ricordavi neppure il tuo nome e adesso vorresti sapere addirittura giorno, mese, anno? Continua a spremersi le meningi: un incidente ci potrebbe anche stare. Caduto dal motorino, una scivolata sull'asfalto bagnato, appena un'escoriazione all'avambraccio. Il casco, tesoro, non scordarti il casco . Di nuovo la bella mamma affettuosa appare in primo piano. Ma no. Quel Mino dell'escoriazione aveva sedici anni, andava ancora alle superiori, il motorino è stato venduto. Si aggrappa di nuovo al ricordo della palestra, è quello che gli pare più vicino nel tempo. Preferisce allenarsi nel pomeriggio, di sera no, troppe ragazzine urlanti che cercano solo di mettersi in mostra con gli allenatori. A lui piace la tranquillità degli orari morti, invece, e in palestra ci va per farsi il fisico, è vero, però senza esagerare. Soprattutto non prende schifezze, a lui le sostanze fanno schifo. Gli basta essere in forma per quando cammina sul bagnasciuga, mano nella mano con Manu. Nient'altro. Però che bello il mare, quell'onda fresca che ti bagna i piedi e ammorbidisce la rena quanto basta per segnare orme di passi, prima di ricoprirle subito dopo. Mino sospira, nella sua vita è tutto semplice, pulito, senza pretese; a lui bastano amore, amici, famiglia. Anche nello studio è andata liscia, più o meno. In realtà sta un anno fuori corso all'università, ma non si reputa lo sfigato che pretende il 32 sottosegretario. Gli restano solo due esami e la tesi, suo padre è un commercialista con uno studio ben avviato dove per fare tirocinio basta il diploma di ragioniere – quello sì, conseguito a pieni voti. Ecco, ormai la sua breve esistenza ce l'ha tutta chiara in mente, ci pensa e ci ripensa, ma non si capacita della strana situazione in cui si trova. Cosa può essere successo? Il ricordo della palestra gli lascia dentro un senso di incompiuto. Il locale è abbastanza grande e si trova al pianoterra di un bel fabbricato signorile, in centro. Il posto è comodo, lui ci arriva con la Smart e parcheggia tutte le volte proprio vicino all'ingresso del palazzo. I ricordi si fermano agli esercizi che sta eseguendo sdraiato sulla panca, a quel signore alto e distinto che si è avvicinato per chiedergli un'informazione. Una cosa seccante, il tizio si esprimeva a voce così bassa che lui ha dovuto posare il bilanciere, mettersi seduto e sporgersi per capire cosa dicesse. È stato allora che gli è parso di sentire un fastidio sulla natica. Come una puntura... La chiave girò nella serratura. Mino allertò tutti i sensi. Il cigolio di una porta gli diede la certezza che qualcuno fosse sul punto di entrare, ma con la testa bloccata dalla fascia non riuscì a vedere niente. Neppure ebbe il coraggio di articolare qualche suono. Udì i passi in avvicinamento, quindi fu abbagliato da una luce fortissima collocata al di sopra di lui, e dovette strizzare le palpebre per 33 non rimanerne accecato. Un tocco estraneo sul braccio gli lasciò sulla pelle una freddezza gommosa. Cercò di guardare attraverso gli occhi socchiusi: dalla sua posizione poté solo subire la luce accecante della lampada ovale agganciata al soffitto, una luce bianca che non riscaldava. Poi due figure la oscurarono inserendosi nella visuale: un uomo e una donna, gli parve, entrambi adulti. Lui, molto alto, sporgeva con tutto il busto e somigliava al tizio della palestra; lei, più piccola, appariva solo dallo scarno petto in su. Indossavano camice, cappello e mascherina verdi, come quelli che si vedevano nella serie di E. R. Dunque non si era sbagliato a pensare di trovarsi all'ospedale, in una sala operatoria. La preoccupazione aumentò. «Si sta svegliando» disse piano la donna. Altroché se sono sveglio, stronzi, toglietemi questa roba dalla bocca e vi faccio vedere! «Ah, finalmente» disse l'uomo. «Vedo che stai meglio» aggiunse gonfiando la mascherina che gli copriva la bocca. Figli di puttana! Dove sono, che volete da me? Mino cominciò a dibattersi, ora che si trovava in compagnia di quegli strani tipi si sentiva ancor più stralunato e indifeso, oppresso dal bavaglio e dalle fasce. «Calma, calma. Se ti agiti in questo modo dovremo darti un'altra dose di ketamina» disse la donna. La ketamina? Ma voi siete pazzi, quella si dà ai cavalli! 34 I due si spostarono da un lato, scomparendo nell'angolo più lontano. Poteva continuare a udirne le voci, però. «Allora, procediamo? Pensavo che una sola potrebbe anche bastare» disse l'uomo. «Ma non s'era stabilito tutt'e due?» chiese lei. «Beh, in effetti due è meglio di una.» «Più sicuro, diciamo. Non vorrei che dopo venissero fuori i soliti problemi burocratici per i permessi» disse ancora lei. «Sei sempre così precisa e previdente, tu» concluse l'altro. Seguì una risatina, poi nel campo visivo del ragazzo riapparve all'improvviso il volto della donna. Si avvicinò così tanto che Mino poté scorgere le zampe di gallina intorno ai suoi occhi, accentuate forse da un sorriso celato dalla mascherina. «Allora, ci siamo un po' calmati? Non devi aver paura, mio marito è un bravo chirurgo e le cose le sa fare per bene, sai?» gli disse con tono rassicurante. Ma quale chirurgo! E cosa volete farmi? Cercò di implorare una risposta con gli occhi, ma un nuovo rumore lo fece sobbalzare. Un suono noto eppure stridente, in quel contesto. Sembrava che qualcuno avesse acceso un motorino; gli parve incredibile, eppure doveva essere così, perché gli arrivò anche l'inconfondibile odore di miscela. Non ebbe il tempo di immaginare altro: vide l'uomo pararglisi davanti con una sega a motore tra le mani, le braccia vibravano per lo sforzo di mantenerla in aria. Gli scorse un lampo di follia negli occhi, poi un guizzo d'incertezza. O forse la 35 voglia di strafare. In ogni caso, l'uomo spense l'attrezzo infernale e pensò di regalargli qualche altra spiegazione. «Non volercene, ragazzo, ci abbiamo pensato su bene e la soluzione più efficace resta quella di segarti le gambe.» «Tutt'e due» confermò la donna annuendo. «Sì, così potrai ricevere il tuo bel contrassegno» disse lui. «Uno tutto per te, non sei contento?» chiese lei. Mino non comprese una sola parola, e considerò immediatamente quelle frasi alla stregua di deliri. Capì allora di avere di fronte due pazzi, e nessuna possibilità di fuga. Sperò di morire d'infarto prima che la sega arrivasse a sfiorarlo, ma intanto l'uomo già cercava di riaccendere il motore. Tirò la cordicella e non accadde nulla. Riprovò dando più slancio al braccio, senza risultato. Stava per ritentare quando la porta sbatté con violenza e s'udì un urlo. «Ehi! Voi due! Cosa diavolo state combinando?» Che qualcuno avesse allertato la polizia? L'uomo e la donna sobbalzarono, si voltarono dandogli le spalle, poi fecero un passetto per spostarsi di lato, senza fiatare. Nel silenzio che seguì, Mino distinse – oltre al galoppo impazzito del suo cuore – anche un cigolio, qualcosa di meccanico che si muoveva. Si sentì sfiorare i capelli, la fascia che premeva sulla fronte si allentò e lui poté finalmente girarsi di lato. Accanto a lui sostava adesso un ragazzo della sua età. Indossava una tuta nera, con due strisce bianche parallele sui fianchi. Il fatto che sedesse 36 su una sedia a rotelle permetteva ai loro visi di trovarsi più o meno alla stessa altezza. «Ciao» gli disse. «Stai bene? Devi scusare quei due matti, spero che non abbiano fatto danni.» Mino, troppo sbalordito per pronunciare persino un lamento, sbatté solo le palpebre e deglutì. «Per fortuna sono arrivato in tempo anche stavolta» aggiunse il ragazzo con un sospiro; poi manovrò la sedia a rotelle per voltarsi verso i due aguzzini, che se ne stavano a testa bassa, come cani bastonati. «Insomma, come devo farvi capire che la dovete smettere? Vi sembra un comportamento responsabile? Avanti, mamma, slega subito questo ragazzo, ridagli i vestiti e lascialo andare. E anche tu, papà, sembri un bambino. Va' a rimettere la motosega a posto, per piacere. Si è fatta quasi ora di cena.» Poi si rivolse a Mino: «Mi dispiace davvero molto, ma che ci posso fare... i miei vecchi sono fuori di testa da quando mi è successo l'incidente, bisogna aver pazienza. Però anche tu, scusa se te lo dico, potresti piantarla di occupare il posto per disabili quando vieni in palestra.» 37 Stanno tutti bene (Pillola di follia statale) Il vecchio capannone era sempre stato lì, si era solo trasformato nel tempo. Costruito negli anni Quaranta per la produzione di componenti meccaniche da destinare all'industria bellica e fortunosamente scampato ai bombardamenti americani, era stato poi utilizzato come deposito di elettrodomestici, e ancora come vetrina espositiva di un concessionario di auto di lusso. All'inizio degli anni Novanta era diventato un supermercato, chiuso nel 2011 a causa della crisi che aveva messo in ginocchio l'intera economia del paese. E così era rimasto fino alla metà del 2027, col suo cartello fittasi bene in vista. In effetti quella zona della città pareva poco adatta alle attività commerciali. A un certo punto la strada asfaltata si biforcava in due strette viuzze, pavimentate da grandi lastre rettangolari di pietra liscia. Erano tanto vecchie, quelle pietre, che quando pioveva si correva il rischio di scivolare e passandoci sopra le gomme delle auto emettevano un lamento stridulo. E strette, poi, le due viuzze, lo erano al punto che i pedoni dovevano camminare addossati al muro per evitare che le auto li sfiorassero. Su quelle due viuzze non s'aprivano che cortili di 39 fabbricati popolari e una chiesetta sconsacrata, con la facciata seminascosta dai tubolari di un'impalcatura installata molti anni prima, per riparare la strada dal crollo di qualche cornicione. Così, tutti rimasero sorpresi quando un bel lunedì trovarono in cima al capannone una grande insegna di lampadine che componevano, nell'insieme, le cinque lettere della parola BINGO. Molti abitanti del quartiere, soprattutto anziani in pensione, si fermarono a guardare quella novità col naso in aria, come bambini davanti alla ruota panoramica. Alcuni neppure sapevano cosa volesse dire BINGO e furono costretti a chiedere agli altri, vergognandosi della propria ignoranza. E quando i più informati spiegarono che si trattava di una specie di tombola, solo più moderna, la curiosità di quelli si accese. Dopo il primo momento di perplessità, qualcuno si fece coraggio e s'avvicinò all'ingresso, una porta modesta di alluminio anodizzato coi vetri opachi, tenendo le mani di lato al viso come i paraocchi di un cavallo, per cercare di scrutare all'interno. Non si vedeva niente, per cui si decise di suonare il campanello. La serratura automatica scattò e sulla soglia apparve un uomo alto e ben piantato, robusto come sono alcuni uomini giovani ma non giovanissimi, che sembra abbiano il busto tutto intero, senza il girovita. E quel busto lui lo teneva infilato in una casacca blu dallo scollo a “v”, dal quale spuntava una peluria scura inframmezzata da riccioli bianchi. La carnagione era quella di chi aveva passato qualche ora in spiaggia, il viso tondo e rassicurante con dei baf40 fetti sottili. Accanto a lui, ma un passo indietro, c'era un ragazzo magro, dinoccolato, pallido, la pelle del viso quasi trasparente, liscia e senza rughe, lo sguardo inesperto e dolce. «Buongiorno a tutti» disse il tipo robusto mostrando un bel sorriso, «e grazie della visita. Purtroppo non siamo ancora in funzione. Piccoli intoppi burocratici, sapete come vanno queste cose: la firma del Decreto, i permessi dell'ASL, e anche se immaginiamo che non vedete l'ora di divertirvi, vi chiediamo di pazientare ancora qualche giorno. Nel frattempo...» A queste parole, come se gli avessero dato la carica a molla, il più giovane si mosse, insinuandosi come un serpente tra il suo collega e lo stipite della porta. Teneva in mano alcuni fogli e cominciò a distribuirli in giro. «... Vi consigliamo di dare un'occhiata al regolamento, così che possiate preparare i documenti necessari.» Molti dei presenti, educati e anche intimoriti dai modi fermi e sicuri dell'uomo, timidamente allungarono le mani per ricevere lo stampato, un foglio bianco di carta comune con poche scritte di colore blu. Un vecchietto di statura piccola, un po' ingobbito, ebbe a quel punto il coraggio di accennare un “ma...” dubbioso, subito zittito dal gesto del tipo robusto che aggiunse: «Mi dispiace, signori, adesso dobbiamo andare. Troverete tutto scritto sul volantino. Vi aspettiamo per l'inaugurazione. Numerosi, mi raccomando. Facciamo in modo che questo primo esperimento abbia successo e se ne possano aggiungere di altri.» 41 Detto ciò, sparì insieme al giovane compagno nel buio oltre la porta, che si richiuse dietro di loro con uno scatto. La folla di curiosi si spostò allora verso quei due o tre che avevano tra le mani i fogli bianchi. Le regole parevano precise e incoraggianti. Premesso che la Sala Bingo aveva lo scopo di procurare qualche ora di svago agli anziani del quartiere, in particolare se soli e non abbienti, per accedervi bisognava aver superato i settantacinque anni e non possedere altri redditi al di fuori della pensione. L'esenzione dalla spesa sanitaria e l'essere assegnatario di una casa popolare costituivano titolo preferenziale. «Ma voi pensate che una persona anziana, di questi tempi, possa concedersi il lusso di giocare d'azzardo?» obiettarono quelli con maggiore grado di raziocinio. «A malapena abbiamo di che mangiare!» Qualcuno si dichiarò d'accordo borbottando e scuotendo la testa, ma una signora coi capelli tinti color paglia disse: «Un momento, sentite qui!» e proseguì leggendo ad alta voce. «In questo le politiche sociali del nuovo Governo si distinguono da quelle dei regimi passati e si concretizzano, al di là di vuote enunciazioni di principio, in una reale attenzione per la popolazione anziana. » «E come si concretizzano?» chiesero i più curiosi, soprattutto quelli che non avevano gli occhiali da vista a portata di mano. «Beh» rispose la signora, che si chiamava Giacinta, col sussiego che le derivava dall'essere stata 42 maestra elementare e quindi abituata a spiegare le cose per filo e per segno in modo semplice, «sta scritto che quelli coi requisiti riceveranno una congrua dote di cartelle. Una specie di abbonamento gratuito, insomma.» Ci furono sospiri di sollievo e mormorii d'approvazione. «E i premi, cosa si sa dei premi?» chiese un signore elegante, vestito di blu e con un borsalino in testa che gli pendeva da un lato. Fece un leggero inchino. Non se ne vedevano molte di persone così da quelle parti; quasi faceva soggezione, si capiva che era un uomo di mondo e aveva centrato un importante argomento da valutare. Forse il più importante. La signora Giacinta restò muta e si sentì anche un poco stupida. Ai premi, sul volantino, non si faceva alcun riferimento. Possibile che non ci avessero pensato? Come poteva esistere un gioco senza vincita, che senso avrebbe avuto? Nelle partite a tombola che si facevano a casa sua, quando ancora la famiglia si riuniva per Natale, i premi consistevano nelle somme raccolte con la vendita delle cartelle. Li mettevano tutti dentro un piatto e prima di cominciare a tirare i numeri dal cestino qualcuno di buona volontà li ripartiva in maniera crescente dall'ambo alla tombola. Erano sempre piccole cifre, a casa sua, ma nonostante questo sua madre e sua zia non facevano altro che lamentarsi, per tutto il tempo, che non si vinceva mai niente e che quel gioco era un sistema mangiasoldi, che avevano già perso questo e quello. Per le tipicità di una sala Bingo non si poteva fa43 re certo affidamento sullo stesso sistema. Se lo Stato prevedeva di farsi carico delle giocate, allora doveva metterci anche i premi. Non se ne usciva. E ancora Giacinta ci rimuginava sopra, quando un ragazzo, che stava lì con l'aria di compatirli, sbottò: «Mi sa che siete rimasti un po' arretrati. Non sapete che ormai sta tutto in mano agli sponsor? Voglio dire, la pubblicità. Vi offriranno qualche giocata gratis, è vero, ma dovrete sorbirvi chissà quante vendite porta a porta e aste di padelle, vedrete!» E se ne andò alzando le spalle. «Beh, se pure così fosse, per me non ci sarebbero problemi, di tempo da perdere ne ho in abbondanza» disse la signora Giacinta, senza riuscire a celare un pizzico di amarezza. «Non se la prenda» la rincuorò il signore distinto, avvicinandosi e prendendola da parte. «A me quel ragazzo è sembrato solo un po' invidioso. Si sa che i giovani si risentono quando il governo prende delle iniziative a nostro favore. Ci ritengono un peso e basta, pezzi da rottamare. Non si rendono conto che questa sorte prima o poi tocca a tutti.» «Sì, forse ha ragione» sospirò Giacinta. «Vorrà dire che sulla questione dei premi ci informeremo meglio. Lei pensa di partecipare?» «Perbacco, non vedo l'ora. Una volta frequentavo i casinò e le migliori sale. Vuole che non approfitti? Certo che l'organizzazione statale lascia a desiderare. Ha visto come sono già in ritardo? E quei due tipi ridicoli, poi, non mi sono sembrati 44 all'altezza, con quelle divise da infermieri... comunque vedremo. E lei?» «A me manca ancora un po' per compiere gli anni.» «Ah, ci avrei giurato, infatti sembra una ragazzina. Spero comunque di incontrarla presto. È stato un vero piacere, cara signora.» «Piacere mio.» Il gruppetto si sciolse e ognuno se ne tornò a casa rimuginando sulla faccenda. «Oh! Signora Giacinta, come sta?» «Bene, grazie. E lei?» «Anch'io bene.» «È un bel po' che non ci incontriamo. Sta frequentando il Bingo?» «Sì, proprio per questo trascuro un po' le passeggiate. Ma guardi l'abbonamento che mi hanno consegnato. Che ne dice?» «Bello. Ben fatto. Non me l'aspettavo. Mamma mia, quanto la invidio! A me tocca pazientare un altro mese. E com'è andata finora, ha vinto nulla?» «No, purtroppo, le mie cartelle sembrano stregate. Da principio mi era venuto il dubbio che il gioco fosse truccato e facessero vincere solo... ehm... certi amici loro, lei mi capisce.» «Altroché, chissà quanti interessi ci saranno di mezzo!» «Esatto. Poi però ho saputo di conoscenti che ce l'hanno fatta. Gente al di sopra d'ogni sospetto, sia chiaro, e così ho dovuto ricredermi. E poi mi sta bene aspettare che il vento giri. Sa cosa penso?» «Cosa?» 45 «Forse il destino vuole che la vincita ce la godiamo insieme.» «In che senso?» «Lo stesso viaggio, intendo. Non gliel'ho ancora detto che ci sono in palio delle belle crociere? Potere degli sponsor, quel ragazzino antipatico non aveva mica tutti i torti.» «Una crociera? Magari ne vincessi una io! Non sono mai stata su una nave in tutta la mia vita.» «Beh, considerato che i vincitori non hanno diritto a rigiocare, e mi sembra anche giusto visto che la ruota deve girare per tutti, col locale aperto solo di sabato e domenica... fanno circa cinquanta vincitori a settimana. Una media di sei, settecento posti alla volta. Organizzano una nave ogni tre mesi, le probabilità di partire sono piuttosto alte. E poi, se non al gioco, fortunata lo sarà in amore, cara signora. Venga, le offro qualcosa.» «Sempre galante, lei. Accetto volentieri.» Nelle settimane seguenti la signora Giacinta pensò e ripensò alla crociera, magari in compagnia dell'amico. E pur vergognandosi un po', sentì riaprirsi il cuore alla speranza. Era arrivato il momento di sognare un futuro meno triste e solitario. Le prese l'ansia: al contrario di quanto sarebbe stato logico, pregò di invecchiare il più in fretta possibile e appena compì gli anni, già il giorno seguente, si precipitò a presentare la domanda di partecipazione al Bingo. Si munì di numeretto e aspettò il turno con pazienza. La ricevette un solerte funzionario in giacca e cravatta, un po' pelato; con un gesto gentile le indicò di accomodarsi dal46 l'altra parte della scrivania. «Dunque, lei sarebbe...» «Candida Giacinta.» Il funzionario le rivolse un sorriso compiaciuto, aprì la cartellina che teneva davanti, lesse un foglio. «Vedo, vedo. Mi servirebbe un documento.» «Va bene la carta di identità?» «Perfetto.» Il funzionario afferrò la tessera che la signora gli porgeva. Era piuttosto usurata, strappata al centro, e per questo lui la maneggiò con gran delicatezza. «Vedo che anche lei è stata pigra e non ha ritirato il nuovo modello elettronico...» «Oh, ne avevo sentito parlare alla tivù, ma non credevo che fosse già in distribuzione.» «Certo, il nuovo Governo mantiene le promesse, cosa crede? Comunque se la tenga stretta questa tessera, che quelle coi chip e compagnia costano allo Stato un sacco di soldi e danno solo grattacapi. E poi guardi che bella foto! Complimenti, sembra anche più giovane.» «Grazie. In effetti nemmeno mi sono accorta d'essere giovane, che subito mi sono ritrovata vecchia.» «Ad arrivarci, cara signora! Chissà quanti vorrebbero essere al suo posto. Si accontenti. Ora però mi servirebbe l'emmedierre.» «Cosa?» «L'emmedierre. Il Modello dei Redditi, no?» «Ma lo vuole da me? Guardi che io lo ricevo proprio da questo ufficio...» Il funzionario tradì un attimo di insofferenza. 47 «Signora, lei deve presentare quello che le viene chiesto. Insomma, ci si lamenta che non esistono regole certe, che la pubblica amministrazione fa il bello e il cattivo tempo, poi però tutti cercano di fare i furbi e aggirare le disposizioni. E no. Così si finisce nell'anarchia.» «Anarchia?» «Sissignore. Comunque, non si preoccupi: a dimostrazione che il cambiamento esiste e qui siamo al servizio di anziani e meno abbienti, il modello glielo faccio stampare io. Va bene?» «Magari, grazie!» «Ma il libretto della pensione, lo stato di famiglia, la residenza, il codice fiscale, la tessera sanitaria, le quattro foto, la bolletta elettrica, il contratto di fitto... almeno quelli, dico, ce li ha?» «Penso d'aver portato tutto. Guardi lei stesso, per piacere.» La signora Giacinta tirò fuori dalla borsa una busta a soffietto. Il funzionario prese le carte, le esaminò con scrupolo una a una, girando i fogli avanti e dietro. «Sembrerebbe proprio di sì» accennò con un sorriso di circostanza. «Perché vede, a volte possiamo sembrare rigidi, ma le procedure vanno rispettate, soprattutto quando si tratta di attività finanziate dallo Stato, come in questo caso. Finalmente, cara signora, vengono prese misure a favore di chi possiede meno, i governi precedenti – lo sa anche lei – si dibattevano tra riforme, salvaguardie, taglio dei trattamenti... che noia! Ma chi di loro vi ha mai garantito un bell'abbonamento da sfruttare in apposite sale per anziani?» 48 Il funzionario si gonfiò come un tacchino, pescò dal cassetto una specie di libretto azzurro, riempì a penna tutti i campi vuoti e poi ci mise sopra un bel timbro. «Ecco a lei, cara signora, il suo lasciapassare per il paradiso. Cosa dice, è contenta?» La signora Giacinta a quella vista quasi si commosse, il pensiero già rivolto alla crociera che sperava di vincere. Mise al sicuro il libretto azzurro, ringraziò un paio di volte e si allontanò felice. Il primo sabato utile si presentò presso la Sala Bingo. Passò per una strettissima anticamera, con sedie imbottite e una struttura in ferro che le teneva unite, appeso al muro un portadocumenti di plastica azzurra, pieno di opuscoli pubblicitari. Il tutto chiuso da un'altra grande porta a vetri, le finestrelle opache schermate da tendine avvolgibili in tinta col resto. A Giacinta l'ambiente fece venire in mente una vecchia dentiera dimenticata nell'astuccio, e le parole del suo odontotecnico: quan- do si arriva a mettere la dentiera, non serve più il dentista. E questo significa un bel risparmio. Tuttavia varcò la porta del salone piena di speranze. Un tabellone luminoso sfrigolava e lampeggiava di luci colorate. Molti dei giocatori si alzavano e si sedevano di continuo, commentando ogni estratto. L'altoparlante ripeteva i numeri almeno un paio di volte. Urla di gioia si alternavano a lamenti di disappunto. La signora constatò anche, con soddisfazione, che di padelle e sponsor non c'era 49 traccia e che il suo amico stava seduto un po' in disparte, lanciando continue occhiate verso la porta. Pareva che aspettasse proprio lei. Da quel giorno, per i due anziani, i pomeriggi al Bingo divennero un appuntamento immancabile e molto divertente, anche se ci volle più tempo del previsto prima che i loro nomi fossero aggiunti all'elenco dei vincitori. Questo consentì di rinforzare la reciproca conoscenza e preparare con calma i bagagli. Erano già sicuri, infatti, che prima o poi sarebbero serviti. «Sono molto felice per voi» disse il giovane preposto a consegnare i documenti di viaggio, il giorno prima della partenza. Fu preciso mentre controllava i dati al computer e molto cortese, a dimostrazione che le nuove assunzioni statali erano ispirate al principio della meritocrazia. L'impiegato stampò i biglietti e li accompagnò con un lungo e preciso elenco di regole da osservare, comprese le cose che si potevano o meno portare a bordo. Precisò infine che sarebbero stati prelevati da casa con l'autobus e avrebbero avuto degli assistenti sempre a disposizione. Infine li esortò a stare sereni e a fare buon viaggio. «Vedrete» presagì il ragazzo porgendo loro la mano, «quando sarete lì vi dimenticherete del resto del mondo, e non vorrete più andare via.» La Sala Bingo ebbe tanto successo che l'esperimento non rimase isolato. Altre sale vennero aperte in altre città. Si resero al contempo disponibili molti alloggi, subito riassegnati a giovani coppie bisognose. Nelle metropolitane e negli uffici po50 stali si notò meno ressa e negli ambulatori medici i tempi di attesa si dimezzarono. La viabilità stradale divenne più fluida. Ottimo esempio di organizzazione sociale, titolarono le maggiori testate nazionali e l'iniziativa fu apprezzata persino dalla stampa d'opposizione, di solito molto severa. Nessuna cartolina – o altri tipi di comunicazione – giunse presso i parenti della signora Giacinta, del suo amico distinto e dei loro compagni di viaggio. Stanno tutti bene, pensarono coloro che erano rimasti. E non se ne parlò mai più. 51 continua... Il nostro progetto La Factory editoriale I Sognatori (avviata formalmente nella tarda primavera del 2013) costituisce un modello evoluto di casa editrice, fondato sul concetto di cooperazione e aiuto reciproco. Se in una casa editrice tradizionale l’editore svolge il suo lavoro col solo supporto di una redazione interna e ogni scrittore pensa a sé – spesso senza conoscere gli altri autori e relativi libri, nella Factory l’editore e gli scrittori sfumano i ruoli e collaborano tra loro in perfetta sinergia.Pur nel rispetto delle competenze specifiche (l’editore si assume ogni obbligo di natura economica, per esempio) e dell’individualità, il singolo si impegna per il gruppo ed è a sua volta consapevole di ricevere aiuto dal gruppo. Editore, autori e collaboratori discutono assieme, decidono assieme, agiscono assieme. Non esiste nulla di simile in Italia, proprio per questo il progetto viene seguito con curiosità da migliaia di persone fin dall’inizio.Entusiasmo e dinamismo si pongono come base per due obiettivi: rinnovare lo scenario stantio dell’editoria nazionale e combattere l’indifferenza che circonda libri e autori di gran valore, attraverso un approccio che vuole mediare imprenditorialità moderna e recupero di un associazionismo “dal basso” che altrove è ormai ridotto a banale parodia. Sito: ww.casadeisognatori.com Facebook: I Sognatori - Factory Editoriale Twitter: I Sognatori Factory@CasaSognatori Blog autori: lastranafamiglia.wordpress.com © 2015 I sognatori, Lecce ISBN 978-88-95068-65-7 Vietata la riproduzione totale o parziale dell'opera senza previo consenso dell'Editore. Ogni riferimento a fatti o persone esistenti è da intendersi come frutto del caso .