presidio di pace dell’Associazione per la Pace lettere da Nablus, maggio 2004 di Giorgio Stern Domenica 9 maggio: Dalle 23,30 alle 1,30 (di lunedì) dal campo militare sui rilievi occidentali di Nablus gli israeliani aprono un fuoco continuo con mitragliatrici pesanti. Sparano a casaccio. Non ce lo racconta nessuno, lo sentiamo noi: per due ore e mezza da trecento metri da dove abitiamo le armi dell'esercito di Tel Aviv crepitano senza sosta. Ripetiamo sparano a casaccio sulla città. Lunedì 10 maggio: Yanun è un villaggio dove vivono sedici famiglie, un'ottantina di persone. Due insediamenti israeliani, costruiti illegalmente come tutti gli insediamenti, lo assediano. Da sempre è soggetto alle angherie brutali dei coloni che da oltre un anno hanno aumentato la loro aggressività. Sparano sulle persone, uccidono le pecore, tagliano gli olivi. Qualche famiglia si è rifugiata nel villaggio più vicino ma i più resistono. È da questo periodo che data una presenza internazionale a Yanun. Ora ci sono due europee dell'Ecumenical Accompaniment Programme in Palestine and Israel, una svedese e l'altra svizzera. La loro presenza è importante per le testimonianze che possono fornire. Seduti sotto un gelso aspettiamo che il dott. Saber ed il personale della clinica mobile che ci ha portati quassù finiscano le visite in programma. Il bel panorama offre un quasi impossibile senso di quiete e di tranquillità. Galeb Mahmoud Shpeh ha settant'anni, è piccolo e magro, ma sembra avere intatta la tempra di contadino “La mia famiglia ha visto la dominazione turca; poi c'è stata l'Inghilterra Mandataria; poi sono venuti i giordani e adesso gli israeliani. Io sto qui con la mia famiglia.” Lunedì 17 maggio: Una Clinica di emergenza nella Città Vecchia. È probabile un attacco nella notte, ieri gli israeliani hanno distrutto l'illuminazione pubblica e ciò prelude al peggio. È il dr. Ghassan, responsabile a Nablus del Medical Relief, a condurci per viuzze buie, nella bella dimora messa a disposizione dal proprietario, dove l'equipe medica ha allestito la clinica d'emergenza. La sala operatoria di primo intervento è indispensabile poiché sotto il fuoco i feriti non potrebbero venir trasportati in nessun ospedale della città. La grande sala dove sediamo ha i vetri rotti. Un missile sparato recentemente da un elicottero ha mandato in frantumi tutte le finestre in un vasto raggio. La clinica d'emergenza non riveste solo valenza medica. Il Medical Relief è nella Città Vecchia per sostenere con una presenza organizzata la popolazione costantemente soggetta agli attacchi israeliani. Abbiamo visto case abbattute, negozi distrutti. La gente ha molta paura e se lasciata sola, poco alla volta, cercherebbe scampo altrove. Scomparirebbe il tessuto sociale umano che costituisce la continuità storica di questa antichissima vivente testimonianza: la Città Vecchia di Nablus ed il suo Mercato. La dimora in cui siamo è vecchia di trecento anni ma ce ne sono di molto più antiche. Due paramedici escono per assistere un anziano infermo. Andiamo con loro seguendo la luce della lampada tascabile. Nel buio percepiamo i commenti di chi ci sente passare, poi una porta si apre buttando un fascio di luce sulla via ed entriamo. Dopo il breve intervento si ritorna verso la casa che ospita la clinica. Non si sa quando avverrà l'attacco. Di solito si scatenano a notte fonda. Poco prima di mezzanotte ci riportano a casa. Verso le due sentiamo i primi colpi poi per due ore i colpi di mitra e delle mitragliatrici israeliane ci impediscono di dormire. Nablus 18 maggio 2004 Questa notte nella Città Vecchia un commando israeliano ha ucciso un uomo e ne ha ferito un altro. È un omicidio e non un’azione di guerra, come viene definita dallo Tsahal (l’esercito israeliano) la quotidiana aggressione con carri armati ed elicotteri contro il popolo di Palestina. 1 La città ha risposto chiudendo in segno di lutto tutti i negozi. Ce ne accorgiamo andando da Samar Hawash responsabile del Palestinian Working Women Committee for Development. La signora Hawash, che riveste la carica di Consigliere nell’assise comunale di Nablus, illustra con precisione storia e scopi del Comitato delle Donne lavoratrici del quale è responsabile per la Cisgiordania settentrionale. “I contatti fra Paesi europei e la Palestina, e in ciò l’Italia si distingue, sono importanti perché conducono a progetti comuni ed a testimonianze che producono una corretta informazione. Le Nazioni non dovrebbero limitarsi a giudicare secondo informazioni fornite da stampa e Tv che puntano la loro attenzione su parte della realtà non analizzandone le ragioni profonde. Abbiamo cominciato a lavorare nel settore dello sviluppo femminile, negli anni Ottanta. Allora e nel corso della Prima Intifada dovemmo porre l’accento, più che sui problemi sociali, su quelli politici che l’occupazione israeliana poneva. E furono le ONG a prendere il posto di un governo palestinese che non c’era. “Tuttavia nel 1993 quando l’A.N.P. prese la guida nelle zone stabilite dagli accordi di Oslo (per lo più i grandi centri urbani e la Striscia di Gaza, n.d.r.) non vedemmo riconosciuto il nostro apporto alla società palestinese e rimanemmo allibite davanti ad esempi molto negativi, quale il consenso di un componente maschio della famiglia per il rilascio del passaporto alla donna. Su tali esempi ci mobilitammo e conducemmo una lotta che conseguì risultati anche sul piano legislativo. Lo stesso diritto alla rappresentanza politica non ebbe subito l’appoggio dell’A.N.P.; ma furono quelli gli anni in cui riuscimmo a vedere risultati. Dopo le elezioni del 1996, magari con difficoltà, trovammo l’accordo su quote di partecipazione femminile. Certo la pratica di tali diritti fu anche più ardua della loro acquisizione. La donna assume su di sé compiti diversi, ci vuole tempo e libertà di movimento per l’azione sociale e politica. Nel Consiglio legislativo Palestinese le donne ottennero due seggi su trenta, nei consigli locali la rappresentanza femminile fu molto bassa: 68 su circa 3400 seggi. “Tuttavia lavoravamo sul piano sociale come su quello politico. L’occupazione militare è ridiventata il nostro problema più grande. Le Istituzioni sono state distrutte o talmente indebolite da non riuscire più a rispondere alle nostre sollecitazioni. Siamo di nuovo costrette ad affrontare problemi primari quali la disoccupazione, la mancanza di redditi, o la speranza di un futuro. Come nel 1987 il calendario delle priorità è dato dai problemi politici. E le questioni sociali si aggravano. Oggi tutto è precipitato indietro di quindici o vent’anni, ed in questa situazione dobbiamo lavorare.” Annotazione Nablus, 18 maggio 2004 Mi chiedo, dopo tanto tempo che frequento la Palestina, come solo ora sia riuscito a verbalizzare un dato tanto evidente come quello che sto per descrivere. Per spiegarmi meglio, solo una breve nota autobiografica. Da bambino se trovavo un formicaio, mi divertivo a danneggiarlo con un pezzo di legno (pratica alla quale mia madre pose fine con un salutare ceffone) e buttandolo per aria osservavo le formiche prodigarsi per rimetterlo in sesto. Prima ancora di difendersi lo ricostruivano alacremente. La stesso alacre fervore che noto qui a Nablus. Nei mesi scorsi la città è stata attaccata e sovvertita dai carri armati israeliani un sacco di volte. Oggi, pur così spesso sotto il fuoco, Nablus è un cantiere. Le strade sono state ripavimentate, le aiuole spartitraffico, l’illuminazione e la segnaletica ripristinate. Mi trovavo a Ramallah i primi giorni di Aprile 2002 quando gli israeliani l’attaccarono. Fui testimone dei bombardamenti, e dei cannoneggiamenti che sconvolsero la città. E la presenza dell’esercito di Israele non si esaurì allora. Continuò e continua con incursioni ripetute. Tuttavia le strade della capitale provvisoria palestinese, ripulite e rimesse a posto offrono il segno di una normalità fortemente voluta, cercata e, in certi limiti. ottenuta. Fino alla prossima volta, quando “l’unica nazione democratica in Medio Oriente” non ricomparirà con i suoi ameni fuoristrada. Ricordo Gaza come la vidi la prima volta sotto coprifuoco, nella primavera del 1991 o nel piovoso inverno del 1994: l’inferno dei vivi! Ma quando vi ritornai nel 1997 l’inferno del mio ricordo era scomparso. Edifici nuovi sorti come funghi bianchi nei posti più impensabili erano l’espressione di una vita la cui sola idea mi sarebbe sembrata assurda e impossibile qualche anno prima. Sono questi i pensieri che mi hanno indotto a capire la costante necessità del governo di Tel Aviv di bombardare, colpire e distruggere la Palestina. Il primo ministro dello stato ebraico, il signor Sharon, più di altri sensibile, si è reso conto della pericolosità della terribile arma segreta dei palestinesi. L’arma di costruzione di massa. Nablus, 19 maggio 2004 ore 13.oo Stanotte gli Israeliani sono entrati nel Campo profughi di Askar ed hanno ferito 9 persone. Il loro obiettivo è stato di occupare una casa…. vuota. Nella Città Vecchia hanno ucciso un’altra persona (come la notte precedente). Non passano 24 ore in questa città che non ci sia un’incursione dell’esercito di Tel 2 Aviv. Alle undici c’è stata una dimostrazione per commemorare le vittime dei massacri di Gaza e per le ultime vittime in città. Una settimana fa, il 12 maggio, da Rojub, il villaggio dove eravamo con la clinica mobile, abbiamo visto arrivare i blindo israeliani e sentito colpi provenire dal campo di Balata. Al ritorno un carro armato ha seguito la traiettoria della vettura con il cannone. Un modo come un altro per salutare. Poi siamo stati bloccati nei pressi di Balata dagli scontri con gli israeliani. Le camionette corazzate entravano ed uscivano dalle strette viuzze del campo a tutta velocità attirando sassi e oggetti diversi lanciati dai palestinesi. Per un’ora e mezza abbiamo assistito a questa assolutamente inutile e illogica manifestazione di prepotenza. Le camionette inseguivano i giovani. Di tanto in tanto i soldati uscivano, si appostavano sparavano candelotti o facevano fuoco con i fucili. Vedevamo gli intonaci schizzare là dove si schiacciavano le pallottole. Solo un paio di feriti, fra i palestinesi naturalmente. Perché questa palese operazione di disturbo, condotta di giorno senza apparenti motivazioni? La nostra logica ci impedisce di contemplare l’importante argomento che presiede a questo tipo di aggressioni, argomento presente, solido e motivato all’interno della banda Sharon. La volontà israeliana di rendere impossibile la vita dei palestinesi a casa loro e cacciarli. Non è certamente un personaggio di secondo piano in Israele il Ministro per il Turismo la cui idea costantemente insistita è di caricare i palestinesi su camion e mandarli via assieme ai rifugiati di Libano Siria Giordania, che costituiscono, a suo dire, una potenziale bomba ad orologeria. Mandarli dove? Per lui è indifferente, basta mandarli via. Al Ministero del turismo israeliano è così che concepiscono questo svago. Nablus, 19 maggio 2004 ore 19.oo Da Gaza giungono notizie terrificanti. Gli israeliani sparano su una folla di migliaia di persone che dimostrano per i massacri dei giorni scorsi. Haaretz quotidiano israeliano, ripreso su internet, parla di dozzine di civili uccisi. L’esercito “spiega” che un colpo di cannone ha deviato dalla traiettoria. Non sanno cosa dire o pensare. È chiaro che sanno solo uccidere. Il governo di Tel Aviv sta ormai superando sé stesso. E tutto ciò supererebbe l’immaginazione se non sapessimo cosa è accaduto a Sabra e Chatila. Non è a caso che tale Yuli Tamir del “Labor Party” pochi minuti fa ha detto: “…bisogna fermarsi prima di trovarci in un nuovo Libano….” E Libano significa l’equazione “Sharon = Sabra e Chatila”. L’uomo è lo stesso. Un essere spietato, un pericolo per l’umanità. Attenzione! Questo messere dispone di testate termonucleari. La banda che capeggia è formata da fanatici che non esiterebbero davanti a nulla. La comunità internazionale NON PUÒ PIÙ voltare la testa dall’altra parte. Pena la sua stessa incolumità. I cittadini devono sapere e devono intervenire prima che sia troppo tardi. Troppo tardi per i palestinesi! Troppo tardi per tutti! Mi dicono che la popolazione di Nablus si sta raccogliendo nella Città Vecchia sotto lo shock di quanto accade a Gaza. Gli israeliani stanno entrando nel campo di Balata. Sono già partite le ambulanze del Medical Relief. A più tardi. Nablus 21 maggio Sono le 17,30, dopo una notte tranquilla la giornata fresca e soleggiata non ha riservato cattive sorprese. Venerdì non ci sono incontri in programma, né le cliniche mobili sulle quali spesso viaggiamo vanno nei villaggi, anche perché da giorni la città è blindata. Recuperiamo allora gli appunti che non siamo riusciti a metter giù. Giorni addietro, al campo di rifugiati di Balata abbiamo visitato un mostra fotografica della Palestina dagli anni Venti al 1948. Rassegna di immagini, talvolta drammatiche, che capovolgono l’assioma sionista di “una terra senza popolo ….”. Un popolo e la sua civiltà, le belle case, i villaggi, che nel susseguirsi cronologico delle fotografie, appaiono oltraggiati, distrutti, cancellati dall’aggressiva presenza dell’altro che non riconosce altro da sé. Anche qui è il bianco europeo, non diversamente che nelle Americhe, a scaricare i suoi torti, i suoi derelitti o i suoi conquistadores, per predare le terre altrui. Ché di spoliazione si tratta, proprio quanto più si ammanta di fanatismo religioso o laico espansionismo. Prima di lasciare Balata siamo andati a trovare Mohammed Naim Alaraj, padre di un bambino ucciso recentemente dagli israeliani. È una storia come tantissime in questa terra. Connotata da un elemento 3 drammaticamente originale. Il bambino morì sulla porta di casa colpito deliberatamente da un soldato, nel corso di una ennesima provocazione compiuta dalle camionette militari nel campo. La sera dopo, l’altro soldato israeliano che si trovava a bordo della jeep bussò alla porta della famiglia in lutto e piangendo espresse la sua disperazione per quanto accaduto. Nonostante la disperazione condivisa la morte non torna indietro. Nablus 23 maggio 2004 Acquisiamo a poco a poco la normalità della Palestina occupata. Da due giorni la situazione è tranquilla. Certo la notte ci sono state sparatorie nel centro, certo anche ieri al Campo di rifugiati di Balata sono entrate le camionette e qualche carro armato si è appostato davanti alla distesa di casupole. Ma questo è normale per gli abitanti di Nablus e lo sta diventando anche per noi. Parleremo di sport in questo breve scritto. Potrebbe sembrare un tema inusuale, ma abbiamo scoperto che non lo è. Non lo è soprattutto dopo il divertente e incredibile paradosso della conquista dello scudetto israeliano da parte della squadra di calcio della città di Sakhnin, un club palestinese (ma in Israele) che con molti sacrifici è riuscito nella folle impresa. Ieri sera siamo stati ospiti dell'Ebal Sport Club. Questo sodalizio di Nablus vanta ottocento tesserati, che praticano pallacanestro, femminile e maschile, ping-pong, nuoto, corsa e così via. Una particolare attenzione è dedicata alle attività sportive dei disabili. Naturalmente tutti sono dilettanti, ma dilettanti che nella pallacanestro femminile si sono affermate conquistando titoli internazionali prestigiosi. Un terzo posto in Corea in un campionato del mondo, una medaglia d'oro nei Giochi Arabi svoltisi in Giordania nel 2002, ed altre affermazioni. Vorremmo chiedere come si fa ad allenarsi convivendo quotidianamente con le incursioni e le distruzioni, se non che il presidente del Club, signor Emad Lubadh, ci anticipa “Non è facile conseguire risultati, ma la volontà di riuscire è tanta. Il nostro è un club sportivo, ma è un club sportivo palestinese e come tale ha bisogno ogni giorno di costruire e recuperare per tutti noi una normalità che i nostri giovani, come nessuno di noi, non riescono ad avere.” Interrompo il report alle 14,45 perché una fortissima esplosione scuote l'aria. Cosa succede? È solo un F16 che rompe il muro del suono. Ora, sono passati pochi istanti, una seconda esplosione proviene dal centro cittadino. Sono le 16.00, la notizia si precisa, un'auto è stata centrata da un missile. Ridotti a pezzettini i corpi dei due passeggeri, ad una torcia fumante la macchina. Un altro omicidio mirato. La tranquillità di poco fa è svanita. Nablus, 25 maggio 2004 An-Najah National University, questo è il nome internazionale dell’Università di Nablus, che quest’anno compie il suo 86mo compleanno (fu fondata nel 1918 come An-Najah Nabulsi School, poi diventata National University nel 1977, NdR). È uno dei più anziani organismi educativi, e fra le più prestigiose delle 8 (se ricordo bene) università palestinesi. La popolazione universitaria supera di molto il numero di 8500 studenti (640 fra docenti e personale), dato dal censimento del 2001. Oggi, almeno duemila fra studentesse e studenti celebrano la fine dei loro studi nella spianata limitata da bianchi edifici le cui finestre traboccano di giovani. La giornata limpida, ventosa e brillante colora lo happening di felicità, di canti e di balli. Se conseguire la laurea è passo importante nella vita di un giovane in ogni parte del mondo, in Palestina lo è di più. L’occupazione pesa tanto sulle spalle degli studenti. Posti di blocco che limitano o impediscono la frequenza, la chiusura dell’Istituto imposta dall’esercito israeliano ad ogni pie’ sospinto, più ancora che la situazione economica già di per sé pesante, costituisce spesso un limite insormontabile al conseguimento della massima aspirazione dello studente. In un opuscolo di sedici pagine “Violazioni di Israele al nostro diritto allo studio” raccolti brevi racconti biografici dei soprusi, degli insulti subiti ai posti di blocco, delle lunghe deviazioni per impervi sentieri, della disperazione che invade quando per settimane non si riesce passare. Dovremmo tradurre queste testimonianze, renderle note, perché in esse si specchia ciò che per un giovane rappresenta studiare nella Palestina occupata. La visita all’Università di An-Najah ha un risvolto imprevisto. Una delegazione francese presenta “La Battaglia di Algeri” il film di Gillo Pontecorvo “Leone d’Oro” alla mostra di Venezia (quando Venezia aveva la dignità che oggi dimostra Cannes). La proiezione nell’Aula Magna è preceduta da una breve presentazione dell’opera. La delegata francese, rammentando che il film fu proibito in Francia per molti anni (come il film libico sull’eroe nazionale Al Muktar, in Italia), conclude con un dato singolare a me ignoto: nel 2003 il Pentagono ha voluto proiettare 4 il film per illustrare le motivazioni che spingono all’azione i combattenti per la libertà, colà (suppongo con la mia usuale malizia, ma senza sforzo di fantasia) ribattezzati “terroristi”. Nablus 26 maggio dalle 12,15 alle 13,30 Gli israeliani questa mattina hanno occupato un casa al centro di Nablus ed al momento in cui si sono dati il cambio ci sono stati scontri nel quartiere. L'ambulanza del Medical Relief parte subito, a bordo il dott. Saber, l'autista Firas e l'infermiere Mohammad. Vado con loro perché potrebbe essere utile la presenza di un internazionale. Nei pressi della casa, una bella dimora con grandi finestre, due automobili sono state appena colpite dal fuoco dei soldati. L'ambulanza si ferma sotto la casa. Gli israeliani sono al primo piano, tengono in ostaggio diciannove persone. Raggiungiamo il pianerottolo e il dott. Saber suona un campanello che non sembra squillare, allora bussa più volte. Gli risponde una voce alla quale replica dando le sue generalità di medico e chiedendo di entrare. L'atteggiamento di chi risponde sembra negativo. Il dott. Saber insiste “Capitano, devo assistere…” (e dice un nome che non comprendo). Il militare ribatte che non si può. Lo dice più volte. Scendiamo e ci sediamo fuori dall'ambulanza perché le camionette blindate sono in giro e potrebbe esserci la necessità di pronto intervento. È proprio così, passano due jeep ed un gippone. L'ambulanza li segue. Potrebbero provocare incidenti. La pattuglia israeliana entra nel centro di Nablus, là dove c'è il mercato della frutta e verdure e tanti negozi. La confusione è indescrivibile, si fermano e cominciano a sparare. Un giovane cade a terra poco lontano dall'ambulanza. Mohammad e il dott. Saber lo pongono sul lettino. È ferito al fianco da una pallottola che è rimasta dentro. Gli praticano le prime cure mentre il mezzo si scaglia verso l'ospedale Rafidia. Firas non è un autista è un pilota. Ricoverato il ferito l'ambulanza ritorna al centro dove ci sono ancora i soldati. Quando arriviamo non c'è alcun dubbio che ci siano. Dalle camionette partono brevi raffiche. Sento anche degli scoppi più forti. Vedo arrivare un nugolo di reporter foto e tv! Le camionette ci sfilano davanti e l'ambulanza li segue. Ma un gippone si impelaga a metà sul marciapiede spartitraffico e sembra non essere capace di uscirne. Sono momenti pericolosi. Firas non può restare là né può superarlo. Riesce a fare demi tour e si scaraventa in una stradina. Poi rientra in linea con le camionette israeliane e riprende l'inseguimento. Mohammad, si volge sorridendo verso di me “Vedi Giorgio, lavoriamo sempre così, è molto difficile”. Vanno verso la periferia, c'è il rischio che entrino nel campo profughi di Balata. Invece se ne ritornano da dove sono venuti. Quale il senso di simili azioni? Non sono azioni di rappresaglia, perché da giorni a Nablus nessuno si muove. Sono azioni apparentemente assurde, invece no. Ciò risponde al disegno di Tel Aviv di vietare ai palestinesi qualsiasi tipo di normalità. ovvero di imporre come norma la guerra. Dimenticano che la guerra si fa tra eserciti e che in mancanza di un antagonista armato alla pari, non si chiama guerra: si chiama pulizia etnica o peggio. Nablus, 27 maggio 2004 Verso le 23 di ieri sera un quindicina di camionette ed un mezzo più grosso dell'esercito israeliano sono entrati a Nablus. Li abbiano visti nel lasciare il Centro giovanile del Medical Relief. Era il segno di una “operazione” importante. Ma solo verso le quattro del mattino abbiamo sentito i boati che motivavano la spedizione. Con il sole alto siamo entrati nella prima delle due case distrutte dai sicari di Sharon nella Città Vecchia e, qualche decina di minuti dopo, nella seconda. L'odore dell'esplosione si percepiva ancora tra le pareti distrutte, tra i travi pericolanti e le macerie che assommavano pietre, legno, vetri e la poltiglia delle povere cose delle sei famiglie rimaste senza più niente. Una quarantina di persone, che ci hanno accolto con un compostezza ed una dignità che sottolineava, se ve ne fosse stato bisogno l'empietà del gesto degli occupanti. Circondate le due abitazioni, alle 23 e 30, il commando, composto da un centinaio di israeliani, ha imposto alle famiglie l'uscita immediata, senza poter prendere nulla, né i vestiti dei ragazzini che dormivano, né il latte per i più piccoli. Fuori subito! E gli artificieri hanno lavorato ad approntare le cariche. Alcune ore dopo, le esplosioni. Non è difficile descrivere ciò che abbiamo visto, più difficile è fare il percorso a ritroso e, nella notte fonda, più fonda ancora in quel dedalo di viuzze, tentare di capire lo shock di quella gente. Qual è il sogno che quei bambini faranno per tutto il resto della loro vita? Sogno? Quando siamo usciti dalla Città Vecchia abbiamo incontrato la troupe di Al Jazeera. Ci è sfuggita la presenza di E. Galli della Loggia, della signora F. Nirenstein, del sig. Fuad Hallam, né abbiamo notato alcuna troupe della RAI. Peccato, avrebbero imparato molto da questa gente. La città è stata dichiarata zona militare chiusa. Lo sappiamo ora (17,30) quando telefona il nuovo volontario, giunto da poco in Palestina per darci il cambio. Ci informa che al posto di blocco di Huwara (Sud Est di Nablus) non intendono farlo passare. Riferisce che i soldati di Tel Aviv bloccano pure le ambulanze. 5 Nablus, 28 maggio 2004 Alle 6,30 di questa mattina gli israeliani hanno circondato il rione di Tell street, bloccato le ambulanze subito accorse e i giornalisti. Alle undici e trenta quando arriviamo hanno appena tolto l'assedio. Da un condominio di cinque o sei piani escono, sorrette, donne in evidente stato di shock. Seguiamo il dr. Ghassan del Medical Relief . Le scale ingombre di detriti, sui muri le raffiche hanno impresso osceni disegni. Cercavano un attivista delle Brigate Al Aqsa che si è consegnato senza opporre resistenza. Ciò non è valso a fermare la furia distruttrice dei militari israeliani. Salendo vediamo l'interno di abitazioni che sembrano appena uscite da un ciclone. Al terzo piano entriamo in un appartamento pieno di donne, bambini, uomini. Camminiamo sui detriti di ciò che era stato il mobilio e le cose di questa famiglia. Il proprietario, appoggiato ai resti di un tavolo, sembra sull'orlo del pianto, a voce bassa racconta come siano entrati, spaccando tutto, prendendo pure i soldi, perfino i libretti degli assegni (alle proteste per il furto l'ufficiale israeliano rispondeva “Di questo parleremo in seguito”). Il ricercato si era già arreso, senza provocare alcuno scontro con i soldati, non c'era alcun motivo di ammassare le persone in un angolo di quell'appartamento in cui il ricercato non si trovava e distruggere con una bomba l'ingresso e la rampa di scale. Uscendo dall'edificio notiamo i bossoli, M16, e altri di maggior calibro. Sono munizioni da guerra. A terra vediamo un altro bossolo lungo circa 30 cm. e 5 di diametro con impressa una scritta in parte illeggibile e dei numeri. Perché ogni notte gli israeliani si comportano così? Accanimento inutile? Inutile se considerato all'interno di una normale operazione di polizia o militare. Logico e funzionale invece se teso a colpire e terrorizzare una popolazione civile. Fuori dal condominio tante macchine, gente accorsa per aiutare parenti e amici. Lasciamo il rione percependo intera l'emozione per l'ennesima ferita inferta alla città. È sera quando scrivo il report e un'altra notte attende Nablus. Nablus 29 maggio 2004 (ore 14,45) E un'altra notte di fuoco è trascorsa a Nablus. Un commando ha attaccato il campo rifugiati di Balata. A quanto si dice un ufficiale delle forze speciali israeliane è stato ucciso negli scontri. Queste le notizie appena giunte. Ma questo report, poco più lungo del solito, vorremmo dedicarlo ad un breve e doveroso profilo del Medical Relief, così spesso citato in questi report. Prima dei colloqui di Oslo (1991) il servizio sociale sanitario palestinese era amministrato da Israele, ma non estendeva la sua scarsa attività oltre i centri urbani. Poiché il 72% degli abitanti della Cisgiordania vive nei villaggi, ciò significa che la maggior parte della popolazione palestinese si trovava totalmente priva di assistenza medica. Nel 1978 un gruppo di medici palestinesi si unì su base volontaria per gettare le basi di un servizio sanitario. Iniziarono utilizzando dapprima i propri mezzi e strumenti personali poi, attraverso contatti con l'estero, stabilirono forme di cooperazione con Associazioni mediche europee che inviarono due minibus. Nel suo sviluppo il team medico predispose un programma di intervento sanitario articolato su due direttrici: scuola e sanità di base. L'assistenza sanitaria scolastica fu realizzata trasportando sui minibus le equipe mediche operanti a Gerico e in Cisgiordania, mentre la sanità di base già nel 1983 garantiva controlli anticancro ed assistenza medica alle donne incinte attraverso il Women Health Programme. La “Palestinian Medical Relief Society”, questo il nome completo della ONG, stimolò parallelamente l'educazione medica scolastica e corsi di formazione femminili. Oggi la “Union of Palestinian Medical Relief Committees”, fra medici, paramedici, ed autisti, conta quattrocento persone che lavorano metà del loro tempo come stipendiati e per l'altra metà come volontari. Il taglio di molti finanziamenti provenienti dall'estero e da un'occupazione militare che distrugge sistematicamente le infrastrutture sociali rende via via più problematico il lavoro di questa ONG palestinese. Dice il dott. Ghassan responsabile a Nablus del Medical Relief: “L'obiettivo dell'occupante è di costringere le famiglie e le persone ad andarsene. E chi può lo fa! Se dovessimo fermarci non sarebbe solo la medicina sociale a portarne le conseguenze. La popolazione lasciata sola, in condizioni sempre più gravi, assumerebbe comportamenti politici disperati, estremi. E noi consideriamo sbagliate risposte di questo tipo alla violenza dell'occupante. È fondamentale ricostruire, assieme alle infrastrutture continuamente colpite e distrutte, momenti di democrazia sociale e politica (infatti quando si parla di società si parla di governi) e la sanità offre l'occasione ideale per farlo. Anche per questo il nostro lavoro ha interessato l'esercizio della medicina negli stati limitrofi quali Libano e Giordania. E poi perché salute non significa meramente fornire medicine agli ammalati, significa affrontare ogni aspetto della vita sociale, economica, culturale di un popolo. 6 In fondo questa è la discriminante fra quanto stabilito nella Dichiarazione di Alma Ata del 1978 (sottoscritta da oltre cento Governi, implicante la diffusione e lo sviluppo della medicina sociale di base, che perseguiamo) e la globalizzazione che mira alla privatizzazione. Il primo caso prevede la partecipazione popolare nel creare strutture socio-sanitarie, il secondo conduce ad un isolamento individualistico, posto che la garanzia della salute diventa possibile solo a chi ha i mezzi per permettersela. Una minoranza. La costruzione del muro dell'apartheid attraverso la confisca delle terre, la devastazione dei campi, la separazione di villaggi e delle abitazioni colpisce seicentomila persone. Ciò comporta un aumento delle nostre responsabilità e del nostro lavoro in momenti in cui sono drasticamente diminuite le disponibilità. Tuttavia sia da Gerusalemme (ovvero a Ramallah dove ora abbiamo spostato il nostro centro) che da tutti i trentatré Comitati del Medical Relief della Cisgiordania, continuiamo a lavorare per conseguire, anche nelle difficoltà che voi stessi percepite di giorno o di notte, i nostri compiti.” Nablus, 30 maggio 2004 La fresca primavera oggi ha lasciato il passo al caldo estivo. Cambia il tempo, ma non le amene abitudini degli israeliani. Come al solito, nella notte, i soldati sono entrati, sparando, nella Città Vecchia. Al mattino l'ambulanza del Medical Relief raggiunge un casetta dove i sicari di Sharon, malmenato il proprietario, si sono installati per alcune ore. Andandosene hanno lanciato almeno una bomba fumogena che nell’esplodere ha scheggiato il selciato di durissima pietra! Al rientro rivedo altri due volontari, Giuditta e Fabio, arrivati con la seconda ambulanza inviata a portare aiuto ad altre case occupate questa mattina, da dove i soldati di tanto in tanto ancora sparano dalle finestre. Cerco di rendere la dimensione pratica, “normale” del vissuto di questa città. Nablus ha centottantamila abitanti. È un grosso centro urbano situato in una valle dai cui rilievi, circa novecento metri, dominano due grosse basi militari israeliane. Le uscite della città sono semplici da controllare. Già ai tempi dei romani (Nablus è la Nea Polis di allora) gli ingegneri imperiali avevano costruito un reticolo di gallerie per sfuggire agli assedi. E a Nablus, città assediata dal 28 marzo 2002 (quando, invasa dai carri armati, in un solo giorno ebbe ottanta morti), oggi gli assedianti scorrazzano come meglio gli aggrada. Stretta nella morsa dei posti di blocco la gente non può entrare o uscire senza subire controlli tanto minuziosi e insultanti quanto lunghi ed imprevedibili. Poi quando, e se, riescono a tornare a casa, potrebbero ricevere, magari a notte fonda, le visite di cortesia dei bravi cittadini in divisa del così detto “stato ebraico” (definizione giustamente contestata da moltissime persone di religione ebraica). Non dimentichiamo che l'occupazione israeliana dura da decenni. Molto più lunga quindi di quella imposta da fascisti e nazisti all'Europa nella Seconda guerra mondiale. La sottolineatura temporale ha un suo significato perché l'oppressione militare israeliana marca non una, ma molte generazioni. Io ricordo l'occupazione nazista (e il suo corollario di servi fascisti e repubblichini) come un incubo lungo cinque anni alla fine del quale vi fu la Liberazione, ed una nuova vita. Qua in Palestina non si vede una fine! Non c'è speranza! Solo volontà di continuare a vivere cercando, giorno dopo giorno, di ricostruire fuori e dentro di sé un barlume di normalità umana (magari soltanto sognata). Quanto segue appartiene ad un singolare momento di questa continua ricostruzione. Nel tardo pomeriggio assisto all'inizio del campionato cittadino di pallacanestro che riprende dopo tre anni e mezzo di sosta forzata. Di fronte una squadra di Nablus e quella del villaggio di Samaritani situato appena oltre l'alto rilievo meridionale. Se mi stupisce che qui a Nablus abbiano un campionato di pallacanestro, mi stupisce ancor più che vi sia una squadra di “Samaritani”. Le “grandi firme” del giornalismo italiano non mi pare abbiano mai raccontato la storia di questa piccola comunità ebraica palestinese, con una sua squadra di pallacanestro, con un proprio seggio nel Consiglio Legislativo Palestinese, a cui Israele riserba la stessa sorte di ogni altro palestinese, cristiano, musulmano o ebreo. Al ritorno a Trieste. GIORGIO alla partenza dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. I dettagli dell'inquisizione sono semplici. Il primo inquisitore si meraviglia che sto un mese a Gerusalemme come turista e poiché, in risposta ad una successiva domanda, aggiungo che sono venuto altre volte da quelle parti, si meraviglia ancora di più. Arriva una altro chiedendomi identiche cose e gli dico che già il suo collega lo ha fatto. Allora mi dice “sorry, sir” e se ne va. Salta fuori una donnina piccola e arcigna e mi fa le stesse domande. La informo che mi hanno già chiesto due volte le stesse cose. Lei risponde che è la supervisora e vuole sapere anche lei. Va bè, allora le dico che sono venuto cinque o sei volte e che faccio il turista. Sembra corrucciata perché ho un sacco di visti libanesi e siriani e mi chiede se faccio anche là il turista. Le dico sorridendo che faccio dappertutto il turista essendo in pensione, per mia fortuna. “Ma sempre da queste parti lei viene?” 7 “No, sono andato anche 42 volte in Austria.” “Sì, ma l'Austria è vicina” “Sono anche andato 11 volte negli Stati Uniti”. Lei si arrabbia perché comincia ad averne abbastanza. Le chiedo innocentemente perché mi chiedano tante volte sempre le stesse cose. “Le domande le faccio io!!!” Ribatto che però sono sempre le stesse. Allora sbotta “Ho capito come stanno le cose con lei, ora attenderà qui fino a che non torno”. Mi vuole penalizzare col tempo, ma ne ho tanto che lei neanche immagina. O forse immagina perché dopo dieci minuti torna. Sempre più incazzata. “Mi senta bene, io....”. La blocco con fare severo! “Mi lasci finire di parlare....”, freme la donnina. Ma le do sulla voce e la povera diavola si incazza sempre di più. Ho l'impressione che sappia bene a quale tipologia io appartenga, ma che sappia altrettanto bene di NON AVERE ARMI contro di me. “Ma cosa ha fatto un mese a Gerusalemme?”, “Ho letto, ho visto, mi sono informato”. Non mi sposto oltre una precisa vaghezza. Mi controllano lo zainetto. E saltano fuori le JAMAL. Si inalberano. Sono sigarette palestinesi li informo. Imbronciati mi aprono lo zaino che praticamente contiene solo ricami delle due cooperative (quella di Teresa e quella di Hebron). - E questa roba????. - L’ho comperata in albergo. (Più stronzo di così non potrei essere). - Comperata in albergo!! E da chi? - Dalle suore. La povera donna a questo punto decide che non ne può più, mi ricopre di nastri rossi e costringe i suoi ragazzi ad una visita minuziosa di mutande sporche e calzetti puzzolenti. Dopo esser stato massaggiato almeno dieci minuti dalla paletta elettronica, mi fanno passare e vado al check in. Da quando sono arrivato al Bin Laden airport sono passati 90 minuti. Questo è quanto. Giorgio Stern (Salaam-Ragazzi dell'ulivo Trieste) 8