inutile è
inutile è indipendente
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inutile è cultura
inutile è dal 2007
inutile.eu
INUTILE
gennaio 2015, numero 60
Supplemento al #4865 di PressItalia.net, registrazione presso il Tribunale di Perugia #33 del 5
maggio 2006, pubblicazione trimestrale a cura di INUTILE » ASSOCIAZIONE CULTURALE
la redazione
leonardo azzolini • marianna crasto • pietro menozzi • nicolò porcelluzzi • matteo
scandolin • tamara viola
hanno collaborato
carmine bussone • lorenzo carbone • andrea maggiolo
traduzioni
irene brighenti • miriam hernández barrena
correzioni
daniela raffaldi
copertina & layout
leonardo azzolini • leonardoazzolini.com
stampa
Le Colibrì • [email protected]
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1
editoriale la redazione
soriano carmine bussone
canzone del vento che viene dal mare lorenzo
carbone
19 tre milioni di CFU marianna crasto
23 micronarrativa andrea maggiolo
3
5
9
2
siamo nati a oggi: e nel 2015 esistono un mucchio di
riviste che continuano ad alzare l’asticella.
editoriale
la redazione
Abbiamo sempre voluto fare sul serio, in tutti i campi
in cui ci muoviamo, e per farlo ancora di più chiudiamo questo capitolo. Da ottobre ne apriamo un
altro: abbiamo ancora tanta strada da fare, tante cose
da imparare e da condividere. Da settembre il
passato, a volte ingombrante, torna a essere una
risorsa, e inutile un tesoro da mostrare a tutti, il più
possibile. Da settembre però il futuro diventa
presente, con una rivista che rimane sé stessa,
cambiando dentro, e No Rocket Science.
E alla fine ci siamo arrivati, all’ultimo numero di
inutile così come lo conosciamo oggi. Cambiare
formato non ha a che fare tanto con la stanchezza,
quanto a un discorso sulla rilevanza.
Dal 2007 – anno di fondazione – a oggi abbiamo visto
e conosciuto tantissime altre riviste: alcune nate
prima o dopo di noi, oppure assieme a noi e
scomparse lungo la strada, altre nate da allora e
capaci di squassare l’ambiente e imporsi come
riferimento per tutti. Altre ancora, nate e dimenticate persino da chi le aveva fatte. Non è un segreto
che abbiamo fatto fatica, soprattutto negli ultimi
anni: ci siamo trovati ogni tanto a chiederci il perché
di uno sforzo continuo e irriducibile. È cambiato il
modo di fare e di intendere la cultura, da quando
inutile è, be’, la nuova incarnazione di inutile!, e in un
certo senso un ritorno alle origini: si dedicherà esclusivamente alla narrativa e all’editoria, e avrà uno
sguardo specifico e preciso, sulla narrativa ed editoria
internazionale. Il grosso della produzione sarà in
realtà un gigantesco lavoro di traduzione, e abbiamo
radunato un gruppo di traduttori di prim’ordine per
farlo. inutile sarà coordinato e guidato da Nicolò, che
3
si è unito alla nostra redazione cinque anni fa e dal
2012 ci ha aiutato a tenerlo insieme: e farà un ottimo
lavoro, già lo so.
No Rocket Science invece si occuperà di cultura, ma dal
punto di vista della tecnologia: tutto ciò che di
culturale viene creato con la tecnologia, e tutto ciò
che la tecnologia cambia a livello culturale. Sarà il
nuovo impegno quotidiano del nostro Matteo, e ad
aiutarlo ci sarà quel Claudio Serena, con il quale già
divide belle esperienze (per esempio Querty, il più
importante network di podcast italiani, e Continue?, la
sua rubrica di videogiochi per inutile).
Il 24 marzo dell’anno scorso scrivevamo:
Finché ci basta il tempo, finché l’acqua rimane
bassa: come sette anni fa, e per altri sette.
È che davanti abbiamo ancora tanta strada, e come
sempre: vogliamo farla insieme a voi.
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Il calcio, come tanti altri sport ma forse un po’ di
più, è una cosa che o hai la giusta scintilla o è
meglio che non ti ci accosti proprio. Quel tipo di
attaccamento, quelle cose che solo qualcuno
appassionato può comprendere, conferisce
l’autorità necessaria a raccontarne, altrimenti
qualunque cosa potrai dire o scrivere saranno
parole l’una di fianco all’altra.
È come se qualcuno che ha paura di volare
discutesse di paracadutismo.
A me, ad esempio, potrebbero chiedere di dire la
mia sulla cistifellea. In uno slancio di immaginazione, potrei vedermi a leggere qualcosa a
riguardo, ad informarmi sulle sue funzioni e a
scrivere qualcosa su qualche medico che ad essa ha
dedicato la sua vita. Potrei perfino appassionarmi
all’argomento, arrivare a studiare seriamente
gastroenterologia e dopo qualche anno essere in
una sala operatoria ad eseguire complicati
interventi. E questo sarebbe un quadro leggermente più realistico rispetto a me che scrivo con
coinvolgimento di pallone.
soriano
di carmine bussone
Prima o poi ti capita. Anche se guardi nei posti
dove mai penseresti di vederlo, alla fine il pezzo,
l’editoriale, il racconto sul calcio te lo trovi
sempre. E io provo una grande invidia per coloro
che sono capaci di scriverne. Il campione che
viene dalla povertà, il genio che si distrugge con
droga e donne, il terzino che fa la sua dignitosa
carriera in una grande squadra e poi si dedica alla
famiglia, sono tutte cose delle quali non riuscirei
a parlare con passione e a illuminare nella maniera
giusta.
Dovrei premettere che nella mia vita il calcio non
ha mai occupato una posizione di rilievo. Dovrei
premettere che non ha mai occupato una posizione
e basta.
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C’è da dire che non c’è mai stato odio né
avversione di nessun tipo da parte mia, io ci ho
provato, a farmelo piacere. Facevo gli album delle
figurine e ci giocavo con i compagni di classe,
v i n ce n d o n e a n c h e u n a d i s c r e t a q u a n t i t à ;
accompagnavo mio padre alle partite e guardavo
con lui Novantesimo Minuto, ma l’unica cosa che
mi balenava in mente era la somiglianza della mia
maestra anziana con Paolo Valenti. Non ce la
facevo ad accendere la scintilla. Era come con la
pasta e patate: me l’hanno proposta in qualunque
modo, col pepe, col formaggio, al forno ma niente.
È successo solo che un giorno, fra me e la pasta e
patate, ho tracciato una linea e lì è finita.
Mio padre, al contrario mio, quella scintilla ce
l’avrebbe anche avuta e forse me l’avrebbe anche
potuta passare, ma non era proprio destino.
Una volta, avrò avuto sette anni, mio padre andò
con degli amici ad assistere ad una trasmissione di
calcio in una tv locale. Io e mia madre, quella sera,
guardammo quella trasmissione per qualche
minuto e lo vedemmo seduto in prima fila che
ancora indossava il suo cappotto marrone. Una
delle raccomandazioni a mio padre da parte di mia
mamma - persona incredibilmente discreta e chiara
origine genetica della mia poca propensione al
mettermi in mostra - fu “cerca di non parlare in
diretta”. Come per frenare preventivamente
qualche eccesso di esuberanza da parte di lui.
Eravamo lì, dunque, io ero seduto per terra davanti
al tavolino del tinello, quando il conduttore
intavolò una discussione (non ricordo l’argomento
preciso) che in breve deve aver scatenato gli animi,
soprattutto quello di mio padre. Mentre qualcuno
degli ospiti parlava, lo vidi arraffare il microfono
del suo vicino di sedia, che fino a pochi secondi
prima aveva parlato, e iniziare a interrompere il
discorso dell’altro con “...E allora ci sarebbe da dire
anche un’altra cosa...”.
Non so come continuò perché in quell’istante
sentii mia mamma dietro di me che con voce
ansiosa ripeteva “Uh Maronn’… Uh Maronn’!”
come se stesse assistendo al dipanarsi di una
tragedia. Si avvicinò con il telecomando in mano
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per alzare il volume e accidentalmente cambiò
canale.
Per inciso: quasi trent’anni e la situazione dei
cambi di canale accidentali è la stessa, non solo per
mia madre. Qualcosina sulla progettazione dei
telecomandi la investirei.
Quando tornammo a guardare la trasmissione, mio
padre aveva già terminato di parlare. Non ho mai
saputo cosa avesse detto quella sera, se era stato
qualcosa di inutile o qualcosa di grandioso, e non
potevo neanche chiederglielo quando tornò poiché
avrebbe capito che non l’avevamo visto.
Quell’inter vento rimarrà uno dei ma g giori
interrogativi senza risposta della mia vita.
Mio padre, manco a dirlo, è un tifoso ai limiti della
venerazione di squadra-storica-di-Serie-A ed io,
fino a poco tempo fa, avevo un coinquilino
altrettanto tifoso di altra-squadra-notoriamenteavversaria. Quando c’era qualche defaillance di
quest’ultima o qualche match importante fra le
due, mio padre mi dava in consegna una frase
sibillina e volutamente cattiva da riferire, del tipo
“senza l’amico vostro non ce la fate, eh?” oppure
“digli che li aspettiamo a braccia aperte a
Manchester”. Ogni volta gli dicevo che non
essendo tifoso o appassionato, queste affermazioni
non avrebbero avuto né la forza che meritavano né
l’autorità di cui parlavo prima. Sarebbero state
parole vuote per il mio coinquilino, che si
sarebbero dissolte davanti a lui e delle quali
avrebbe preso atto con indifferenza, venendo da
uno che non guardava praticamente mai una
partita.
Per tutte queste cose, a volte, mi viene quasi da
chiedere scusa a mio padre.
A casa mia, su uno scaffale, c’è Fùtbol, una raccolta
di racconti di Osvaldo Soriano. Interrogati in
merito i miei familiari, nessuno ha mai saputo
come ci fosse finito. Di Soriano ho amato Triste,
Solitario y Final, ma questi racconti non mi hanno
mai fatto vibrare dentro. Quando leggevo cose del
tipo “avevamo pareggiato con la Spagna due a due,
con un gol che avevo fatto io all’ultimo minuto,
uno di quei gol che ti vengono di fortuna”, io
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soffrivo. Soffrivo perché non riuscivo appieno a
immaginare la scena con gli occhi di chi segnava,
non riuscivo a sentire il cuoio che sbatteva forte
sulla scarpa e la traiettoria del pallone. Io che ero e
sono una pippa anche a tirare un Super Santos, ho
sempre invidiato come un matto quelli che
giocavano a calcetto e che tiravano il pallone
producendo quel botto con i piedi che a me faceva
male solo a sentirlo. E quei racconti non li ho mai
vissuti come avrebbero meritato, mettendoci più
tempo del solito a leggerli.
Per tutto questo, a volte, mi verrebbe quasi da
chiedere scusa anche a Osvaldo Soriano.
Ogni volta che la mia diversità in qualcosa si fa
sentire, che sia riferita a mio padre o ad uno
scrittore sudamericano; ogni volta che mi rendo
conto che la mia strada è semplicemente differente
da quella di alcune persone che ammiro, mi viene
in mente William Holden in Viale Del Tramonto,
quando, alla ragazza che gli dice che lo credeva una
persona rispettabile, risponde “Non tutti possono
essere rispettabili”.
Carmine Bussone nasce nel 1979 e cresce in
provincia di Napoli, per poi andarsene un bel
giorno a Roma a fare l’ingegnere. Alle
elementari scopre che gli piace leggere e
scrivere storie. Da allora, fra una cosa e l’altra,
non ha smesso praticamente mai. 8
dietro l’altro, il vino-rosso, il gin... Mischiava. Non
c’era abituato a bere, il tutore dell’ordine, il
valente, il baldanzoso difensore dei patrii
monopòli, il novello finanziere, indomito
inquisitor di quindicenni spinelloni... Non glielo
dicevo per scherzo!
canzone del vento che viene
dal mare
di lorenzo carbone
Povero, povero, povero, non riuscire nemmeno a
sentire il profumo del vento che viene dal mare...
Lei, come nei film, lo aspettava in tenda coi suoi
occhi belli, socchiusi, freddi, truccati. Era nuda,
sotto un vestito di (simil)seta leggero. Proprio
come nei film. Come no? Lui non era in grado.
Troppo vino. E birra, gin, campari, ecc, ecc, hic.
Tremenda cilecca, e s’era lasciato andare senza
nemmeno una scusa, che ne so, un “sono stanco”,
sdraiato di schiena a fissare la sommità della tenda,
quei due laccetti che pendono, lassù, che chi lo sa
a che cazzo mai serviranno... Aveva già perso l’uso
della parola quando era dovuto scappare, schizzar
via, il pepe al culo, aiutomamma, un lamento
gutturale giusto in tempo per rafficar fuori in
piena rena un pollock acido di pane, salsicce,
campari, insalata, prosciutto, vinorosso
Avevamo dato fondo al boccione, buttato giù
l ’ u l t i m o c a m p a r i af f o g a to n e l g i n , d e t to
buonanotte alle stelle coperte dal nero di nubi
limacciose, minacciose, teso il viso alla voce
potente del mare, al vento muschiato, salato, che
bagnava la notte desolata di una spiaggia di fine
stagione, settembre di nord-est, nuova ovat-tata
quiete a sostituire l’irrispettoso frastuono turistico annaffiato di birra e kartoffen. Barcollava. E sì
che ero stato (abbastanza) attento a dirgli bada a
non mangiarci troppo su, con ‘sta roba, ti
rimescola tutte le budella... Niente da fare: non mi
sentiva. Rideva, lui, e scolava, scolava un campari
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(soprattutto vinorosso). Lei l’aveva seguito. Per un
attimo era restata lì, all’impiedi senza verecondia
alcuna a fissarmi negli occhi coi suoi, duri, scuri,
felini, come se fossi veramente stato io il
responsabile della sbornia malefica di quel gran
coglione. La luce danzante delle candele ancora
accese qua e là conferiva allo straccetto che
portava indosso, che il vento modellava malizioso
sulle forme, trasparenze tutte particolari. Ne
vedevo più di quante meritassi: strabuzzai gli
occhi e l’uccello mi fece cucù. La verità è che mi
arrapava di brutto quel suo fare sminchionato,
quelle labbra arricciate, quei capezzoli sempre ben
in vista sotto le maglie leggere – mica si sprecava a
portarlo il reggiseno, lei – e il pensiero, neanche
troppo latente, fin dal primo momento era stato:
come cazzo posso farmela? Come posso metterlo
k.o. questo bischero qui, che manco si rende conto
del pezzo da novanta che si porta a spasso e perde
tempo a bere, lo scemo, a sbrodolarsi, a
chiacchierare, a smanettarsi, a vomitare? Sentivo
proprio di piacerle, sotto quella velata ostilità.
Macché. Era corsa a reggergli la testa, a consolarlo,
lì, col culo nudo al vento... Un cazzo, gliene
fregava! Quello scemo aveva tutte le fortune.
Povero, povero, povero, gli sussurrava. Non
riuscire a sentire nemmeno il profumo del vento
che viene dal mare...
Era andata così: non ci avevo niente da fare,
perché il ristorantaccio coleroso dove avevo lavato
i piatti per tutta l’estate m’aveva detto è finita la
stagione, ciaociao bello, i piatti se li lava un
bangladino e tu, cortesemente e con l’inchino, te
ne vai affanculo, arrivederci e grazie, aufiderzèn, e
la ragazza dell’epoca pure. Non ricordo più bene
se gliel’avessi fatto io, ciaociao, dopo l’ennesimo
scazzo o lei, arcistufa della mia inconcludenza.
“Inconcludenza”, poi... «Devi laurearti» frignava,
«devi diventare dottore, ingegnere, avvocato,
monsignore... O non potrò mai presentarti a mio
padre!» Chi cazzo vuol conoscerlo, poi, pensavo...
fermo restando che con l’affitto da pagare,
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lavorando alla cazzodicane qua e là e spendendo
tutto il restante di ciò che pomposamente
chiamavo stipendio in birravinoerockenròll (era un
periodo un po’ agitato, ruggivo nel delirio
d’onnipotenza dei vent’anni), più che dottore
avvocato monsignore mi sarebbe andato bene pure
essere un bravo camerierino o un garzoncello di
bottega (cosa che sarei diventato di lì a poco).
Insomma: avevo ventidue anni e nessunissima idea
di che cazzo mettermi a fare. M’ero lasciato un po’
andare, con la fine dell’estate, e avevo pensato
bene di mettermi a bere forte per meglio
rifletterci su. Mi sentivo ancora bene: un geniaccio
sregolato, uno a posto, un fico... Salvo precipitare
sempre più spesso in un umoraccio debole e
paranoico, malmostoso, che lasciava presagire fin
troppo bene quanto tutto stesse lentamente
andando a puttane. Sicché quando lui mi aveva
chiamato, «vieni qui a festeggiare» mi aveva detto.
«Che cosa?»
«Ma un po’ di tutto... La stabilità!»
«Di chi?»
«La mia! Lo sai o no che mi hanno preso nel
glorrrrrioso corrrrrpo della guarrrrrdiadifinanza?
Eppoi l’Italia che ha vinto i mondiali!»
«Mi fanno cagare i mondiali.»
«Be’ il sole allora, il mare…»
«L’estate è finita.»
«Vabbè… Sali o no? Ti voglio far conoscere la mia
nuova ragazza... Stavolta è quella giusta, sai? Mica
come quella troia! Teloggiuro, mela sposo…»
«Si vabbè, vabbè, come no…» avevo accettato,
praticamente: comprato un biglietto, raccattato
quattro spicci, pure se ‘ste rimpatriate a dirla tutta
non mi facevano impazzire neanche allora... Ce
l’avevo chiara la sensazione che non andare
sarebbe stato meglio.
Quel pizzicore sotto le palle d’ogni volta che
m’imbarcavo in qualche impresa malcagata.
E non a torto. Quei due avevano l’aria di aver
scazzato da poco, lì alla stazione, sul binario, lui
con lo sguardo ebete di un cagnone scodinzolone
fiducioso che tutto si sistemi da sé, ansioso di
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prendere a pacche sulle spalle il vecchio amicone,
lei nervosa, col broncetto – salcazzo quanto
gliel’avrei mozzicato, quel broncetto – gli occhi
sospettosi di chi vede arrivare un grandissimo
cacacazzi, un grappolo d’emorroidi, un
guastafeste, occhi di chi ha appena mandato giù un
rospo così, la mano fredda, con voce gelata mi
sibilò un “piacere”. Piacere un corno, dopo tutti
quei chilometri... Ero per la pace, io. Non mi
piaceva troppo, quell’accoglienza lì: salcazzo
quanto avrebbero litigato, poi. Voglio dire, la
regola bisogna avercela chiara, quando competi
con tipetti del genere: si mischia mai passera e
amici. Potrebbero non tollerarsi, o peggio ancora
tollerarsi fin troppo e ficcarsi lingue in bocca e diti
in culo alle tue spalle, potrebbero farti le corna,
prenderti pel povero fesso che sei! Scenari
apocalittici, insomma: ma io sono paranoico...
Vabbè. Camminava sculettando di disappunto
avanti a noi. Chiaramente le guardavo il culo,
mentre lui mi strattonava maschiamente per
esprimere contentezza e mi mostrava la macchina,
la sua bella macchina nuova che ci avrebbe portati
alla sua bella casa nuova, col suo bel pratino, il suo
bel camino, il suo bel giardino e il cagnolino,
perfino, in un bucodiculo di questi: Minchiate,
Cagate, Sfigate Brianza... Padania Ulterior,
insomma, giù di lì, ché lavorava all’aeroporto di
Milano. «Tutta vita» diceva «passo il tempo a
grattarmi la panza, le palle, a magnare alla mensa,
il fantacalcio coi colleghi, tutti insieme a guardare
la partita, la domenica…» Il lavoro della vita sua!
Grazie al cazzo... No: grazie al babbo, il pezzo
grosso, il taglia-e-cuci del ministero tutto-d’unpezzo, dall’espressione corrucciata quantunque
ragionevole, il liberaldemocratico... Si sapeva da
subito, lui, che ci avrebbe avuto il futuro lindo e
pinto, tutto pronto e tranquillo, fin dai tempi della
scuola... Vuoi studiare? No. Vuoi lavorare? No. Che
cazzo vuoi fare? Vuoi ballare? Ti vuoi drogare? E
balla, scemo... Drogati pure... Quel par di annetti,
non di più. Poi ti ripulisci, ché c’è l’ufficio già
pronto per te, una bella divisa stirata... Così era
Stato. Me lo ricordavo in manca col viso grigio
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sudato e gli occhi infossati. Psicato nei cessi fetidi
di una discoteca che prende a calci il muro per
un’anfetamina – o Cristo sa cosa – salita male. In
lacrime di paranoia e paura che vede passare, sotto
acido peso, il fantasma della nonna stramorta pel
corridoio di casa. Rotolarsi nel vomito, nel piscio
che s’è fatto addosso, nella merda sciolta straripata
dal culo, singhiozzando... stesso acido, stessa bella
serata. Guidare sulla tangenziale in corsa contro
l’imminente effetto di un francobollo malefico,
che suda e dice di cominciare a vedere il mare, con
me accanto terrorizzato... Non mi facevo di quella
roba, io. Mai piaciuta. Smesso presto col fumo. Un
po’ troppo attaccato alla bottiglia, ma non si può
pretender troppo. Il fulminato, il fuori di testa, il
problemato era lui. La cattiva compagnia. Quello
che sarebbe finito male, mentre ci passavamo un
cannone e parlavamo di cos’avremmo fatto da
grandi... Era lui quello che sognava di girare il
mondo, di farsi crescere la barba e partire per
l’India.... Io ce l’avevo chiaro, invece, che fare:
laurearmi e mettermi a scrivere. Ed eccolo lì, dopo
qualche anno a dimostrarmi che il cazzone ero io.
Eccolo con la barba fatta e i denti sbiancati,
maniche di camicia arrotolate quel tanto che basta
a coprire i tatuaggi, a godersi le ferie con un gran
pezzo di fica accanto, a mostrar la casetta al
vecchio compagnone un po’ sfigato, male in
arnese, coi denti rotti e i culi di mosca in tasca.
Non ero invidioso (se non di quel concentrato di
sorca). Sembrava felice. Pacificato. Goduto della
sua nuova dimensione... Però quella dimensione lì
non la potevo soffrire. Giravamo per la casa,
mutuo acceso, tasso conveniente, televisore e
divano e playstation, neanche un-libro-uno, e
pensavo “non ce la faccio, non sono invidioso,
sono proprio felice per lui ma non ce la faccio sul
serio, qui, mi sento male”... Era premuroso,
perfino. Il passaggio fino a casa, una bottiglia di
roba costosa di benvenuto. Lo sapeva che non
m’era passata, ch’ero ancora un ubriacone. Magari
erano proprio le premure, ad arricciolarmi i capelli
in testa. O forse, no: qualcosa di malsano, di
ansiogeno. Come spiegarlo? Soggiorno, tavolino
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basso, vetro costoso che fa paura poggiarci il
bicchiere. Padrone di casa che mesce il rosso, roba
di classe. Nettare. Lei che lo gusta con gli occhi
socchiusi, un sorrisone, la voce artefatta da
bambina che zufola: “è buono-buono!” Sguardi
profondi. Intensi. Innamorati. Cazzo ci facevo, lì,
a portare la candela? Così avevamo cambiato
programma, rimediato un paio di tende e girato il
muso di quella macchina nuova verso il paese di
lei. Verso il mare.
ormai, nel mio letamaio, tornavano a martellarmi
in zucca più virulente che mai: mancava poco che
mi mettessi a scattare, a parlare da solo, a recitare
le mie formulette compulsive... Le vedevo, le
occhiate che mi tirava la gente. Così avevo colto al
volo l’occasione per infilarci tutti nel primo bar a
festeggiare questo e quello. L’alcool mi scioglieva
la lingua e le spalle, drizzava la schiena e acuiva la
vista. Le paranoie tornavano a nanna, giù nella
fogna. Diventavo più simpatico. Socialmente
accettabile. Socievole no, ma era già qualcosa. Con
lui ci parlavo, però. Lei no, succhiava il suo spritz
scoglionatissima, guardando per aria. Ancora una
volta: cazzo facevo, lì? Cazzo voleva, costui? Cazzo
mi aveva chiamato? Per mostrare cosa? Non gli
bastava il suo angoletto di mondo tranquillo? Avrei
pagato oro, io, per voltar pagina, costruirmi tutto
daccapo, mentre quel minchione sembrava
esta siato che il mio fiato nero venisse a
impuzzonirgli l’habitat. Peggio per me, che avevo
accettato! Ero imbarazzato. Una situazione
stupida. Tutti quegli spritz... Manco mi piacevano
Mare scuro, già più da farci il bagno dentro. Che
fare allora, se non rimettersi a bere? Quelli lì, gli
autoctoni, a lui c’erano bene o male abituati: er
romanaccio de Roma che si becca la meglio
passera della zona (e probabilmente dell’intera
provincia), ma io, tutto secco, giallo in faccia e
spettinato, col respiro affannoso di centomila
sigarette e lo sguardo sfuggente, ci facevo mica
una bella figura, lì... Il cambiamento d’aria mi
danneggiava la stabilità, le paranoie che mi
tenevano bello chiuso da un sacco di tempo,
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troppo, ma cominciavo a sentirmi meglio e,
paradossalmente, pareva tutto tornato come
prima, quand’eravamo ragazzini, per la gioia del
nostro tiratissimo e l’ambascia della sua dolce
metà. Cercava con gli occhi una via di fuga da quel
gran rompimento di palle e mancava poco
s’andasse a impiccare nel cesso. Noi, intanto, s’era
già passati a blaterar di viaggi e progetti, castelli in
aria, gatti sui tetti... Oh Madonna, tutte bugie. Ero
un mediocre. Cosa ci trovassi non so, nel
riempirmi la bocca, ma le parole andavano da sole:
già sapevo che me ne sarei pentito, che mi sarei
vergognato come un ladro, passata la sbornia... Il
fatto è che non avevo un bel niente da dire, e
andavo in giro a cercarlo in fondo a un bicchiere.
Qualcosa da scrivere, qualcosa da raccontare. Bere,
poi, faceva fico. Alzammo l’ultimo calice del
pomeriggio in onore dei vecchi tempi, con lui che
mi chiedeva di tizio e caio e io che rispondevo
tutto bene, tutti bene a casa, tutto normale.
Cambia mai un cazzo, da noi. Sembravamo tutti
più rilassati. Lei di sicuro, per essere uscita da quel
troiaio di bar.
Arraffammo boccioni e provviste al supermarket
all’angolo per una cena da campo, sul mare.
Si spogliarono e si buttarono. Un due tre, giù le
braghe e via, coi pedalini e tutto, a dispetto del
freddo... E ne faceva, fidatevi. Perfino le mutande
alla moda ci aveva, quello lì! Se la godeva, la vita,
mentre io sventolavo un focherello misero con un
pezzo di cartone incrostato di sale, tutto goffo,
tutto stronzo, impalato come un baccalà, inetto
come un cazzo sbucciato, col bicchiere di plastica
in mano... E me lo sarei suonato in testa, il
bicchiere, fosse stato di vetro. Sulla testa di
cazzo... Spettacolo erano, quei due. Non ci
avevano affatto bisogno di tutto questo! Di quella
stronzata di brace, del campari, del povero testa di
legno che ero... Bracciate vigorose nell’acqua
fredda, lui. Lei tettine al vento, leggera, senza
vergogna, come se non ci fossi, lì, a guardarli
danzare stagliati su un tramonto infuocato
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privato... Be’, vaffanculo: ci sono un sacco di modi
per far sentir qualcuno un gran pezzo di merda
fumante. Eccone uno. Sapevo che quell’immagine
mi avrebbe tormentato un bel po’, di lì in avanti, e
finalmente mi balenò chiara in testa la fiaccola
della verità: erano due esibizionisti, quelle facce da
culo! Al cento per cento! Altrimenti non ci sarebbe
stato bisogno di tutto ’sto teatrino, di mettermi in
mezzo e distruggermi l’amor proprio... A me, che
ero già bello instabile per conto mio! Ora
comprendevo: di lì a poco mi avrebbero chiesto di
guardarli scopare, con ogni probabilità... Di ficcare
un dito in culo a lui mentre lei gliel’avrebbe
ciucciato! Per forza! Quei due dovevano essere
talmente annoiati l’uno dell’altra, talmente
perfettini e tirati a lucido da aver bisogno di un
povero pirla che si sparasse un pippone
guardandoli sgroppare, che li facesse sentire
superiori... Be’, si sbagliavano. Me ne versai uno
grosso, stavolta solo gin, e mi ripromisi di salire sul
primo treno utile il prima possibile, prima di
subito, prima dell’alba. Aspettai trincando pesante
che si togliessero di dosso i (pochi) panni bagnati e
che tornassero lindi e pinti, asciutti e cambiati alla
base, tremanti e sorridenti per sfoderare il mio
ghigno più falso e servire la cena. Tutto era chiaro.
Buonappetito, merde.
Insomma: io me lo sentivo, di piacerle. Non solo
per la porcata che ero convinto avessero in mente,
ma perché dicevo un sacco di cose piene di
buonsenso (almeno secondo me), eppòi mangiavo
composto e conoscevo l’uso del tovagliolo, mentre
quella bestia lì ruttava & sbavava & ciancicava...
tutto sporco, tutto sbronzo, un rivolo d’olio che
colava dalla boccaccia spalancata dalle risa
sguaiate, tutta piena di salsiccia masticata &
poltiglia d’insalata... La patina da granduomo, quel
cerone del cazzo s’era bello che sciolto, con
qualche bicchierazzo di troppo! Se lo meritava, il
duro, il puro, il ficaccione! Io, da parte mia, ci
avevo fatto un po’ il callo a quella situazione. Il
gozzovigliare, intendo. Ci avevo una certa
resistenza, non per vantarmi... Gliel’avrei fatta
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vedere, a quel bamboccio lì, a quel pervertito...
Andare a pescare dal mazzo il più povero scemo di
tutti, quei due... Ma vaffanculo. La sbornia cattiva,
ci avevo. Sì, ma se la meritavano! Per chi mi
avevano preso? Per un guardone? Per un bavoso
del cazzo! Ma... E se non fosse così, mi ripetevo...
Se non fosse vero e mi stessi pipponando tutto in
testa? Se le loro intenzioni fossero buone, se mi
avessero solo sentito giù per telefono e stessero
cercando di fare qualcosa per me? Se fossi solo
invidioso? Naaah, impossibile. Doveva esserci
qualcosa sotto. Non ci si comporta così, ma
terribile è l’ira del mansueto, cazzo. Gliel’avrei
giocato bello, lo scherzetto. Altroché... Conoscevo
i miei polli. Mi misi a raccontare una storiella
divertente per blandirlo, per blandirli entrambi, e
versai da bere. Forte, come se versassi a me.
Scommetto cinque soldi che non ce la fai a
buttarlo giù d’un sorso come ai vecchi tempi, dissi.
Persi, ovviamente, e aveva già gli occhi umidi e la
voce incrinata. Sorrisi coi dentacci storti e versai
un altro giro.
Infine ero lì, seduto per terra come un babbeo, a
rimirare il profilo delle sue chiappe belle esaltato
dall’argento della luna, chiappe nude e setose, il
trionfo impudico accarezzato dal vento. A nulla
era valsa la voce del senso di colpa, sempre troppo
tardivo, che m’aveva spinto a supplicarlo di
fermarsi, a un certo punto, quel coglione... Di
darsi una calmata, di badare a sé... La vecchia
bestia senza misura, il tossicaccio era tornato a
galla! Colpa mia! Ed era questo, che ero? Un
paranoico, un matto? Un catalizzatore di scarogna?
Un u b r i a c o n e i n v e te r a to , u n c o n t a g i o s o
masticammerda, in fin de’ conti? La cattiva
compagnia? Re Merda, che in sterco trasforma
ogni cosa toccata? Ma che ne so... C’era solo quel
poco che vedevo nel buio denso, lì... suggestione
innaturale di candele abbaglianti il mio sguardo
bagnato, alcolizzato, tremulo come fiammella
contro il silenzio scuro di quella scena statuaria...
Tutto era immobile. Quell’improbabile, pietosa
postmoderna Pietà... Povero, povero, povero...
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Non riuscire nemmeno a sentire il profumo del
vento che viene dal mare... Me la sarei filata alla
chetichella con le prime luci dell’alba. Me
l’avevano bell’e rotto, il cazzo, quei due, qualunque
fosse stata l’intenzione. Trovai quattro sorsi di
scolatura in un bottiglione e li tracannai. Girai i
tacchi e dissi buonanotte. “Sei una merda”, sentii
sibilare alle mie spalle. La sua prima e ultima
parola per me. Accesi una sigaretta, consapevole
che non mi sarei mai e poi mai addormentato e
m’infilai nella mia tenda solitaria. Nessuno, lì,
nessuna bella ragazza ad aspettarmi ignuda. I sassi
sotto la schiena, soltanto. Un letto di spine,
ortiche per pulirsi il culo. Rischiai di andare a
fuoco per poter leggere a lume di candela e
quando al mattino li sentii recuperare il tempo
perduto
mi sentii
abbastanza
male.
Classe '84, romano, precario professionista.
Bassista in una band così emergente che è
ancora sotto il pelo dell'acqua, in apnea.
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diverse, le mie sorelle gesticolano a qualcuno fuori
campo e sono sfocate, tu mi stringi la vita e guardi
in camera, io bevo spumante da un calice di
plastica col gomito alzato. Quel pomeriggio postai
la foto su Instagram con la didascalia LOL, ma
oggi me ne contestano l’uso.
Stringo gli occhi: sembrano più giovani circondati
dalle zie, sempre se i ventitreenni possono
sembrare più giovani.
Il bianco mi sta male, mi fa sembrare stanca e
comunque alle persone di una certa età consigliano
di sparire, unirsi allo sfondo, delicatamente zittire
e scivolare via, evitare di stagliarsi. Quando
filologia romanza non fu più sufficiente passammo
a filologia germanica, ed ero vestita di bianco, una
camicia di seta trasparente sotto una giacca scura.
Come oggi, perché non mi importa cosa mi
consigliano.
Era la quarta volta nella stessa facoltà, ci
meritammo il bacio accademico. Quando gli fui
vicino abbastanza, il relatore mi sussurrò
all’orecchio Sei bellissima e mi sentii male, credevo
Tre milioni di CFU
di marianna crasto
Un giorno avevamo trent’anni e il giorno dopo ne
abbiamo settantacinque, e quel giorno-dopo è
oggi. Il contorno netto delle iridi si è sciolto nei
bulbi grigiolatte e anche tu hai perso sguardi
intensi in favore di un glaucoma non ancora
invalidante. Tentiamo di mettere a fuoco, al meglio
delle nostre possibilità, i ragazzi alle prese con il
primo alloro accademico.
Siamo alla sedicesima cerimonia di laurea.
Nei gruppi di facoltà su Facebook scrivono che
dovremmo abbandonare le corone dalle grandi
foglie intrecciate e iniziare a considerare quelle da
cerimonia funebre. A decine cliccano mi piace, poi
arrivo io a scrivere LOL e spariscono.
Alla prima laurea non avevo sulle mani le macchie
scure da accumulo di melanina. C’è una foto: mia
madre e mio padre guardano in due direzioni
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che tutti i presenti avessero sentito. E allora la
serietà, il protogermanico, il frisone?
Tu mi dicesti Sei stata bravissima, ed era la cosa
giusta da dire in un’aula a parlamento.
Mi dici Sei bellissima, me lo dici adesso e non ti
credo: ho male all’anca, non posso esserlo.
Mi prendi per il polso e corriamo via, se possiamo
dire correre di questi ridicoli passettini fatti in
equilibrio su un bastone col pomello intagliato. Ci
lasciamo alle spalle la vasca con la pianta di papiro,
da secoli al centro del chiostro della facoltà, l’unica
cosa qui prima di noi. Credo che ci mettiamo una
vita ad attraversarlo tutto, i ventitreenni hanno il
tempo di osservarci pieni di pena – Se ne vanno?
Finisce lo strazio finalmente? – ma tu hai sempre
detto che conta la velocità dentro.
Passare alla facoltà di ingegneria fu orribile: niente
anacronistica vegetazione, solo un palazzone di
undici piani inaugurato negli anni ‘70.
«Gli ingegneri si sposano sempre, facci caso.»
Fu l’unica volta in cui pensammo di poter iniziare
una vita fuori. Avevamo scherzato sul fatto che si
potesse vivere soltanto laureandosi e continuando
a farlo, con le borse di studio, gli assegni di ricerca,
i regali dei genitori, i contributi erasmus, solo che
poi ci eravamo riusciti davvero aggiungendo
qualche pubblicazione sporadica, qualche progetto
interno alla facoltà, e quando i nostri genitori
erano morti li avevamo sostituiti con le interviste e
le consulenze ai premi e comitati di ogni genere.
Vendevamo il curioso caso che eravamo diventati:
una coppia di studenti di mezza età. Ci stavamo
divertendo ma ci stavamo rimanendo anche male.
Diventammo ingegneri che eravamo già dottori in
letteratura, filologia, filosofia, storici dell’arte,
dottori in archeologia. Per me non fu un periodo
felice, subivo il giudizio a cui eravamo
continuamente sottoposti. Mi stavo costruendo
ogni tipo di formazione ma al cospetto degli
ingegneri erano tutte sbagliate. Iniziarono a fidarsi
di me tra la laurea in matematica e quella in fisica,
anni dopo.
Avevamo cinquant’anni quando a cena ti dissi che
forse non era più normale. Gli ingegneri si sposano
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sempre, facci caso. Forse era il momento perfetto
per tirare una linea, andare al mare. Me lo ricordo:
eri contento che l’avessi proposto. Fantasticammo
per un po’, leggermente desolati: iniziavi a soffrire
col nervo sciatico. Ma avevo torto, non potevamo
scendere. Che figura avremmo fatto. Nessuno ci
a vrebbe preso, nonostante la formazione,
l’autorevolezza, prima sei troppo giovane, poi sei
troppo vecchio, infine non sei più credibile in
nessuna veste.
Solo al Maurizio Costanzo Show.
Sull’autobus chiedi a un giovane di cedermi il
posto. Lo guardi come guardavi gli stronzi a
venticinque anni. Lui se ne accorge, alza la voce,
una ragazza intanto mi aiuta a sedere, alzi la voce a
tua volta perché avrebbe dovuto cedermelo senza
invito scritto, ma sei destinato a perdere per
anagrafe. Sistemo il bastone tra le ginocchia, per
non dar fastidio: così vestiti da laurea siamo
decisamente overdressed per i mezzi pubblici. Lo
scrivo su twitter. Mi contesteranno anche questa.
Ho la tachicardia, non mi piace vederti agitato e lo
sai. Mi poggi la mano sulla spalla, ostentando
rilassatezza: io rallento al contatto, tu tremi ancora
un po’ attraverso la stoffa della mia giacca. Poi
arriva la nostra fermata e scendiamo.
Maurizio Costanzo ci aveva davvero domandato se
fossimo l’orgoglio dei nostri figli, ma la risposta era
uscita più triste di quanto avremmo voluto, così
aveva fatto segno di mandare la pubblicità.
Ci era sfuggito di mano il momento in cui diversi
percorsi
sarebbero
stati
possibili
contemporaneamente. Capivamo le cose solo se
messe una dietro l’altra. Gli intervalli erano angusti
e non avevamo mai creduto alla possibilità di
infilarci in mezzo cose come figli e nipoti,
nemmeno sotto forma di ragionamenti sull’eredità
intellettuale. Al massimo c’era spazio per una
domanda di ammissione a un corso di alta
formazione, e di nuovo ricominciare da capo, non
fermarsi mai, nonfermarsimai.
Formarsi oggi, lavorare domani, vivere mai.
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Saliamo su per un vicolo stretto, ci teniamo la
mano. Su Instagram è pieno di giovani che
fotografano vecchi che si tengono per mano come
noi adesso, ma non so chi dei due stia sostenendo
l’altro, e allora i bastoni che ci sono a fare. I
motorini corrono folli a un centimetro da noi. Da
vecchio non hai paura di morire ma di cadere per
terra.
Quando arriviamo mi siedo un attimo su una sedia
di legno, in una saletta fresca, l’impiegato mi porge
un foglio di carta piegato e mi chiede se ho
bisogno d’acqua. Mi sventolo soltanto e lo
ringrazio.
Ci chiamano, ci alziamo, ancora una volta ci
guardano tutti. Sarei più sicura se dovessi esporre
da capo ogni teoria discussa in ogni tesi e in ogni
saggio in quasi cinquant’anni, tre milioni di
miliardi di CFU, è l’unica cosa per cui sia mai stata
pronta.
Dopo dieci minuti siamo sposati, l’impiegato di
prima mi stringe la mano e mi fa gli auguri. Gli hai
chiesto di scattarci una foto da mettere su
Instagram, mi gira la testa, non so da che parte
voltarmi, ma mi stringi la vita e sono per magia dal
lato giusto, e stai già guardando in camera.
Nasce a Napoli nel 1984, già munita di occhiali. Si distingue
nella lotta contro i portatori di lenti a contatto. Un giorno ha
urlato al cielo “Se non posso fare la scrittrice allora non mi
importa più di niente, farò un lavoro qualunque!” e infatti
adesso fa un lavoro qualunque. Scrive cose belle come
questa bio su cosechenonesistono.blogspot.it, e fa parte
della redazione di inutile.
22
m
Ex CT della nazionale brasiliana, Paulo allena una
squadra di Hong Kong. Guadagna una barca di soldi.
Del calcio non gliene frega più nulla.
Alfredo guida l’unico taxi in quel paesino di mare.
D’estate lavora senza soste, d’inverno parcheggia sul
molo, spegne il motore e si riposa.
Torino. Inverno. Sei di sera. Strade deserte. Auto che
sfiorano le pozzanghere. Ivo aspetta il tram e sogna la
sua Calabria lontana.
Un po’ folle Mara, controllava 5 volte di aver chiuso il
gas prima di dormire. Poi ha sfiorato la morte in un
incidente in Bolivia e ha smesso.
Cloe sta sognando l’odore di erba appena tagliata, il
colore del mare alle 5 di mattina. Poi la sveglia è una
fucilata. Milano brucia di smog.
Postino in una provincia assolata della Costa
D’Avorio, Kolo pedala sotto il sole. Il giallo dei
campi, il bianco delle buste, la sua vita.
micronarrativa
di andrea maggiolo
Mai visto una città, in vita sua. Non gli credono. Ma è
la verità. Giovanni, 88 anni, mai sposato, conosce solo
le sue colline. Gli bastano.
Ennio, piacente conduttore di tg, guarda sempre fisso
in camera quando legge le news. Ma quando ha
lasciato la moglie teneva gli occhi bassi.
Da ragazzo stava fino all’alba in discoteca, ora fa il
portiere notturno in un albergo. Mino vive sempre la
notte, solo che la vita cambia.
Renato, cantautore che negli anni ‘80 riempiva i
teatri, si esibisce il martedì sera in un pub
sull’Appennino. Lo pagano con birre e panini.
Beppe, panettiere ligure, mette una goccia d’acqua di
mare nell’impasto della focaccia. Ai clienti dice
“Ricetta segreta, come la Coca Cola”.
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Sorriso da brava ragazza di provincia. Iva ha sete di
potere. Di soldi. Insulta tutti: mamma, papà, amici.
Se ne va a Milano, l’anno prossimo.
«Vorrei una doppio malto e una canna di erba, tutto
lì.» La carriera di Ennio, politico moderato, è finita
così, per un fuori onda rubato.
Pierpaolo insegna italiano alle Medie. Solo se
indovina la parola finale nel quiz di Carlo Conti si
concede il caffè al bar, la mattina dopo.
Qi è stato il primo cinese a trasferirsi in Bosnia. 1996.
Odore di guerra nelle strade di Sarajevo. La città oggi
è rinata. Lui ha dato una mano.
1968. Paul è in vacanza in India. Scoppia il Maggio
francese. Ora è un bravo chirurgo, ma è convinto di
essersi perso l’unica cosa che contava.
Boris voleva viaggiare. Poi l’incidente, la lunga
riabilitazione. Ieri ha aperto un negozio di
mappamondi. Non sa come mai, ma lenisce il dolore.
Alex ha vissuto in affitto per 17 anni, in 3 continenti.
Ieri si è accollato un mutuo di 30 anni. Un
monolocale a Trastevere. Torna all’ovile.
Una vita di sacrifici per comprare una casa da cui i
figli vorranno scappare. Vita di periferia, palazzi di 15
piani. Intonaco a pezzi.
Giardiniere comunale di Caracas, ex campione di
pugilato, Juan ha riempito di botte un ragazzo che
pisciava sui suoi fiori. E lo rifarebbe.
Tony ha un chiosco di panini vicino alla tangenziale. I
clienti? Camionisti che hanno sbagliato strada. Non
ha mai battuto uno scontrino.
Mosca. Aeroporto Domodedovo. Peppe, ingegnere,
sta andando in Siberia. Lavorerà in una centrale. Ha
7kg di pasta e 2 prosciutti nel bagaglio.
Micronarrativa è un sito di Andrea Maggiolo. Se vuoi
scrivergli: [email protected].
Nato a Torino nel 1982, vive in Sardegna. Scrive su
micronarrativa.com.
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inutile è inutile è indipendente inutile è