LA SALVEZZA CRISTIANA DONO DALL’ALTO
DELLA COSCIENZA E DELLA PASTORALE SOCIALE
DIVAGAZIONI
P. Aimone Gelardi, scj
Se doveste cercarlo, ricordate che il suo numero d’inventario negli
Archives dehoniennes del Centro Generale Studi a Roma è il 13.53, la Boite
è la n. 3. No, non è un volume di morale sociale o fondamentale, anche se la
materia che tratta rimanda ad ambedue gli ambiti della teologia morale. Non
è un volume e neppure un opuscolo, è soltanto un foglietto e negli Archives è
solo la fotocopia dell’originale.
La grafia è, con certezza, di P. Dehon, quanto alla paternità del piccolo
scritto non possiamo dire nulla di certo. Tuttavia, questo foglietto di poco
più di tre righe si trovava tra le sue “cose” e se, come propendiamo a
credere, si tratta di qualcosa che egli ha soltanto letto e trascritto, tuttavia con
il suo contenuto deve essersi trovato consenziente, in qualche modo l’ha
fatto proprio, visto che l’ha conservato. Nessuno trascrive un pensiero in cui
s’imbatte leggendo un libro, se questo pensiero non è per lui interessante,
meritevole di ricordo, da non perdere di vista.
Forse solo un consultore dell’Indice di quell’epoca avrebbe potuto
trascrivere un pensiero il cui contenuto non condivideva, magari per
segnalare l’autore e preparare un votum da sottoporre all’illuminato parere
agli «eminentissimi padri», prima di congedarsi da loro con il bacio della
sacra porpora e forma di saluto preceduta da «devotissimo e umilissimo
servo», come si legge nei vota di P. Dehon, digitalizzati al Centro Sudi nei
primi mesi del 2011.
È vero, P. Dehon è stato anche consultore dell’Indice. A leggere i suoi
vota a un secolo di distanza si rimane gradevolmente sorpresi per
l’equilibrio, il buon senso e la mitezza delle sue valutazioni, oltre che per la
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perspicacia dei suoi rilievi critici. Per quanto riguarda questo scritto
particolare, si può tuttavia escludere che, non condividendone il contenuto,
egli lo abbia trascritto per prepararsi a ribattere nelle sedi opportune.
Avrebbe almeno ripreso gli estremi del testo in cui l’ha letto, magari in
modo approssimativo, come talora accade nelle sue citazioni, se avesse
avuto in mente di servirsene, e in questi casi non sempre egli rimanda alla
paternità di chi ha formulato un certo scritto. Qualcuno ha fatto notare che
questa era una consuetudine di quei tempi, si può aggiungere che non lo era
tuttavia per tutti gli autori.
Che P. Dehon si ritrovasse con la sostanza di quello scritto autorizza a
dirlo, come vedremo, soprattutto un altro testo del 1919, dove le sue
considerazioni sul tema sono proprio su quelle posizioni.
1. Della coscienza
Chi scrive queste note ha provato a frugare nei suoi ricordi universitari,
ha consultato qualche collega, si è servito dei moderni strumenti di ricerca
per togliersi il dubbio se quel piccolo testo fosse del Fondatore o solo
un’appropriazione... indebita, perché non lo riporta tra virgolette, non
aggiunge un riferimento bibliografico, non ne cita l’eventuale autore.
L’ha semplicemente collocato tra due trattini, lasciando ai posteri la
sorpresa e l’imbarazzo del lettore che vorrebbe saperne di più. La sorpresa,
perché si tratta di una chicca golosa, almeno per chi s’interessa, studia,
insegna o ha insegnato teologia morale. L’imbarazzo perché, nel suo
anonimato, quella definizione interessante, dice di un certo modo,
singolarmente moderno, di intendere l’interiorità dell’uomo e la sua vita
morale e, dunque, piacerebbe sapere che è proprio suo.
Una definizione, si è detto, una definizione della coscienza:
– La conscience est la voix intérieure de la raison appliquée aux actes
de la vie morale. –
– La coscienza è la voce interiore della ragione applicata agli atti della
vita morale. –
Sono trascorsi più di sessanta anni tra quella trascrizione di P. Dehon e
la formulazione della definizione e dei dinamismi propri della coscienza
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nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Vaticano II, là dove si
parla della Dignità della coscienza morale (1965):
«Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a
darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama
sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno
risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro.
L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire
è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La
coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con
Dio, la cui voce risuona nell’intimità.
Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che
trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla
coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per
risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella
vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la
coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco
arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità
(...)». 1
Più tempo ancora è trascorso rispetto alla ripresa delle indicazioni del
testo conciliare nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) e
nell’enciclica Veritatis Splendor (1993) e il piccolo scritto “di” P. Dehon. Il
Padre alla formazione della coscienza riservava una preoccupata attenzione,
come prova un’annotazione che rintracciamo nella corrispondenza tra lui e
l’allora maestro dei novizi P. Andrea Prevot: «Dia una base solida ai novizi,
non troppo misticismo. Le fondamenta devono essere messe prima del tetto.
Sia semplice, pratico. Riguardo alla fede non c’è abbastanza formazione
religiosa. Sin dall’inizio e durante tutto l’anno si parla della vita d’amore…
I novizi escono senza istruzione religiosa fondamentale. Riguardo alla
coscienza, la sua direzione spirituale non è come dovrebbe essere. Sta
formando degli ipocriti. Bisogna formare la coscienza. E mi perdoni se la
faccio soffrire un po’. Vedendo quanti lasciano la Congregazione, e tanta
codardia, molti dicono: qualcosa non funziona nel noviziato.» (B 18. 5/2).
1
Gaudium et Spes, n. 16/ EV 1,1369.
37
2. Della promozione umana e della salvezza
L’una (la citazione di G.S. ripresa dal Catechismo), se la leggiamo
tenendo presente la definizione “di” P. Dehon, ci conferma a proposito della
modernità della sua attenzione a questo tema. L’altra (la citazione di V.S.),
confrontata la stessa definizione e con il testo di una sua meditazione che
riprenderemo più avanti, dimostra che davvero lo Spirito soffia dove vuole
(cf. Gv 3,8) e “quando vuole”. Lo Spirito sollecita a un’agire che incontri il
mondo e lo trasformi, se è vero che la spiritualità non va confusa con il
solipsismo spirituale autogratificante, ma deve farsi anima di un impegno
perché il mondo creda (cf. Gv 17,21), gli uomini siano salvi e giungano alla
conoscenza della verità (cf. 1 Tm 2,4).
A ben pensare, quando ci impegniamo nel sociale e, in coerenza con la
Regola di vita [RdV], tutto facciamo e soffriamo per il servizio del Vangelo,
partecipando all’opera della riconciliazione per risanare l’umanità,
riunificarla nel corpo di Cristo e consacrarla a Dio (cf. RdV 25), come Cristo
a nostra volta identificandoci con i piccoli e i poveri (cf. RdV 29), qualunque
cosa facciamo o diciamo, la facciamo e diciamo non primariamente perché
sociologi, psicologi, terapeuti, insegnanti, ma perché annunciatori della
novità del Vangelo, al servizio della missione salvifica del popolo di Dio nel
mondo d’oggi (RdV 28).
Già, la salvezza. Altri, meglio di noi, sanno fare e fanno politica,
economia, sociologia, terapia, insegnamento e persino musica. Nessuno,
meglio di noi, invece, dovrebbe sapere annunciare la salvezza e operare per
il suo compimento. Per questo siamo scelti e mandati (cf. Gv 15,16). Dire
cosa sia la «salvezza cristiana», che cosa significa che il Signore ci ha dato,
dà, darà la salvezza e se questa sia il paradiso nell’aldilà, oppure il perdono
dei peccati di qua, o la possibilità di relazioni nuove con lui e tra noi: ci è
chiesto questo, soprattutto questo si attende da noi.
Ancora una volta la RdV, senza forzature ma anche senza letture
riduttive, potrebbe avere qualcosa da dirci. Parla di ricerca sempre più fedele
della volontà del Padre su noi e sul mondo, di attenzione agli appelli che ci
giungono attraverso gli avvenimenti piccoli e grandi e nelle attese e
realizzazioni umane, di consapevolezza dell’intenso sforzo di liberazione che
tormenta il mondo d’oggi, di liberazione da quanto ferisce la dignità
dell’uomo e minaccia le sue aspirazioni più profonde di verità, giustizia,
amore, libertà, di testimonianza. E, tutto ciò, impegnandoci con il nostro
modo di essere e di agire nella partecipazione alla costruzione della città
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terrestre e all’edificazione del corpo di Cristo, consapevoli che il Regno di
Dio e la sua giustizia devono essere cercati prima di tutto e attraverso tutto
(cf. RdV 35 ss.).
La situazione della Chiesa è mutata rispetto ai tempi di P. Dehon e del
Vaticano II. O, forse, non è cambiato niente, se non il modo in cui le cose si
evidenziano alla nostra mente e alla coscienza degli uomini. Come ha scritto
Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, oggi «Il senso cristiano della
parola ”salvezza” è sempre più sconosciuto». La domanda di salvezza
emerge però nel bisogno di senso, di liberazione dalle alienazioni, dalla
morte, dal dolore, dalle schiavitù e dal male di ogni uomo e di ogni donna
del nostro tempo. 2
Esattamente come ai tempi di P. Dehon e a quelli del Concilio, pare che
la gente non s’interroghi più esplicitamente sulla “salvezza” o se lo fa,
complice anche una certa nostra predicazione, non sembra avere ancora
capito che non c’è aldilà e aldiquà per la fede e la salvezza. O, per meglio
dire, di qua si crede, di là si vede: qua la salvezza è questione di fede e di
opere, cioè «sostanza di cose sperate», come dice Dante Alighieri (La divina
commedia, Paradiso XXIV,64), di là è questione di vista, anzi di vita.
Sembra una banalità, ma è invece una cosa importante aiutare a capire che la
salvezza cristiana non è questione di geografia (…di qua, di là), ma di storia.
Infatti «è azione di Dio nella storia, dall’in-principio fino a quando la storia
stessa troverà il suo compimento…» (E. Bianchi). Insomma una storia che
comincia con la creazione, inciampa nel peccato, vede la promessa della
Redenzione, l’Alleanza, Dio che manda il Figlio a portare una buona parola,
a salvare quelli che erano perduti, morendo in croce e, nel sole strepitoso di
una domenica destinata a restare nella storia, risorge, vincendo la morte, la
sua e quella di tutti.
Quello che, tanti anni fa, in un convegno di teologi italiani spingeva il
loro decano, Luigi Sartori, a dichiarare urgente che la teologia definisse
meglio la «salvezza cristiana» e il suo rapporto con le presunte alternative di
«salvezza umana», resta urgente nelle Chiese di tutti i continenti.
Dappertutto la gente vorrebbe capire, avere risposte. Il problema della
salvezza ritorna nei momenti di verità, celato in tre o quattro desideri diffusi:
realizzarsi, essere felici, non vedere finire tutto in due metri quadrati di terra.
2
Cf. “La Stampa”, 3 maggio 2009.
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E ritorna tra le righe di alcune domande: che senso ha la vita? E... dopo?
Perché? Il bene? Il male? L’ingiustizia? Dio? Gesù Cristo?
Troppo spesso le nostre risposte o sono a tal punto sublimi da passare
troppo alte sulla testa dei richiedenti, perché possano capire che abbiamo
parlato con loro e non con gli angeli, o si spostano su ambiti e settori nei
quali, se volessero, avrebbero altri referenti a disposizione per risposte anche
migliori delle nostre, oppure contengono troppo latino perché possano
comprenderci. In altre parole, il nostro linguaggio non è più il loro. Così la
gente finisce per confondere il dono della salvezza con una camicia che le
mettono addosso e lei deve solo stare attenta a non sporcare, perché se no il
Padrone di casa, che l’ha invitata al suo banchetto, la caccia fuori, perché a
quel banchetto l’abito di società non è facoltativo...
Eppure basterebbe ricordare un’orazione dopo la comunione della
messa della domenica della Santissima Trinità: «Signore Dio nostro, la
comunione al tuo sacramento, e la professione della nostra fede in te, unico
Dio in tre persone, ci sia pegno di salvezza dell’anima e del corpo». Oppure
due righe di san Paolo: «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché,
mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).
La salvezza è, infatti, tutta questione d’Incarnazione, Croce e
Resurrezione. Dio ha ristabilito la giustizia, dando il Figlio perché ci
rendesse giusti, figli ed eredi della gloria. E noi, che eravamo morti per le
nostre colpe e i nostri peccati e meritevoli d’ira, Dio, ricco di misericordia,
per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per i
peccati, ha fatto rivivere con Cristo. In lui siamo stati salvati, con lui siamo
anche risuscitati e fatti sedere nei cieli. Per questa grazia siamo salvi
mediante la fede (cf. Ef 2,1 ss.).
Ecco, la salvezza e la vita sono dentro a un annuncio da accogliere e
vivere, un annuncio che cambia la vita. Non c’è più condanna per chi crede
in Gesù e vive secondo il suo Vangelo: «Questa è la vita eterna: che
conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv
17,3): tutto ciò per grazia, mediante la fede (cf. Ef 2,8 ss.) e le opere della
fede (cf. Gc 2,14.24). Senza esclusioni di sorta, come emerge dal racconto
evangelico sulla donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24 ss. e Mt 15,21 ss.) che, con
l’immagine delle briciole destinate ai cagnolini, chiede di partecipare ai beni
della salvezza messianica ed è esaltata per la sua fede grande.
Ogni altro discorso di liberazione e crescita umana, di libertà e giustizia
si fonda, per un cristiano, su questa consapevolezza. Quanto a noi, la RdV
ricorda che la nostra condivisione degli interrogativi, delle ricerche, delle
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attese e delle speranze, sia pure di fronte al rischio d’insuccesso e
degradazione, nella fede e come insegna la Chiesa, pertiene alla venuta del
Regno promesso in Cristo. L’annuncio di questa realtà, con la nostra vita
prima ancora che nella nostra predicazione, ci rende solidali con l’uomo e
partecipi alla costruzione della città terrestre attraverso l’edificazione del
Corpo di Cristo, nella testimonianza efficace «che il Regno di Dio e la sua
giustizia devono essere cercati prima di tutto e attraverso tutto» (RdV 38;
cf. 36 s.; cf. M.6,33).
3. Dello Spirito e delle sue mozioni
Quando parliamo dello Spirito, suggestionati dall’evento della
Pentecoste, noi amiamo insistere sul fatto che la sua discesa segna l’inizio
della Chiesa. È del resto la lettura di Padri e scrittori ecclesiastici, magistero
della Chiesa e teologia. Se, tuttavia, in una sorta di lectio divina a tavolino,
meditassimo sull’evento della Pentecoste, rifacendoci all’inno «Veni,
Creator Spiritus… – Vieni, Spirito Creatore…», scopriremmo come lo
Spirito abbia operato e operi dall’inizio e come possiamo inserirci nella sua
azione. Apprenderemmo, infatti, che lo Spirito è in primo luogo creatore.
Nei primi versetti della Genesi, dove per immagini si parla della creazione
dell’universo, si dice che sopra il caos e le acque dell’abisso, aleggiava lo
Spirito di Dio (cf. Gn 1,2).
Non, dunque, alla sola origine della Chiesa rimanda la discesa dello
Spirito ma all’evento primordiale della creazione: «la Pentecoste è anche
una festa della creazione. Il mondo non esiste da sé; proviene dallo Spirito
creativo di Dio, dalla Parola creativa di Dio. E per questo rispecchia anche
la sapienza di Dio. Essa, nella sua ampiezza e nella logica onnicomprensiva
delle sue leggi, lascia intravedere qualcosa dello Spirito Creatore di Dio.
Essa ci chiama al timore riverenziale. Proprio chi, come cristiano, crede
nello Spirito Creatore, prende coscienza del fatto che non possiamo usare ed
abusare del mondo e della materia come di semplice materiale del nostro
fare e volere; che dobbiamo considerare la creazione come un dono
affidatoci non per la distruzione, ma perché diventi il giardino di Dio e così
un giardino dell’uomo. Di fronte alle molteplici forme di abuso della terra
che oggi vediamo, udiamo quasi il gemito della creazione di cui parla san
Paolo (cf. Rm 8,22); cominciamo a comprendere le parole dell’Apostolo,
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che cioè la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio,
per essere resa libera e raggiungere il suo splendore». 3
Due effetti produce la presenza dello Spirito nella Chiesa e nei credenti:
vita e libertà, realtà che si situano al cuore di ogni discorso morale e di
responsabilità sociale dell’uomo e del cristiano. Realtà abbiamo detto e,
dobbiamo aggiungere, che rinviano a due concetti che, in questo come in
ogni altro tempo della storia, hanno bisogno di purificazione, dunque di
impegno pastorale. È, infatti, questa la prima forma di evangelizzazione o
pre-evangelizzazione alla quale i cristiani sono chiamati, la prima forma
d’impegno “sociale”, al quale, in quanto uomini e cristiani, rimanda la voce
dello Spirito che risuona nell’intimo del cuore umano. Vita e libertà sono
l’anelito primo di ogni persona. Lo sapeva bene Gesù, il quale ha detto: «Io
sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Ha anche detto che la libertà si fonda sulla verità: «La verità vi farà liberi»
(Gv 8,32).
Se tuttavia, e non è cosa particolarmente difficile, verifichiamo cosa
siano vita e libertà nel sentire diffuso e nello stile di vita contemporaneo,
scorgiamo come per la grande maggioranza esse siano spesso molto lontane
da ciò che intende il Vangelo e come l’immagine che ne abbiamo si avvicini
molto al concetto che ne aveva il figlio prodigo della parabola (cf. Lc 15,11
ss.). Libertà è pretesa di avere dalla vita tutto ciò che può offrire, «godersela
pienamente, vivere, solo vivere, abbeverarsi all’abbondanza della vita e non
perdere nulla di ciò che di prezioso essa può offrire». 4
L’esito di questa opzione diffusa è ritrovarsi nella condizione di quel
prodigo, custodi di porci e invidiosi di quello che essi hanno, cioè alle prese
con il non senso di chi, essendosi voluto impadronire della vita, l’ha resa
solo più vuota e povera, fino a doversi rifugiare nelle illusioni dei paradisi
artificiali, per continuare a vivere, o coabitare con il dubbio inquietante se
vivere sia poi davvero un bene.
Quanto alla libertà, identificata col fare tutto quello che si vuole, senza
dovere accettare alcun criterio o norma che non sia seguire soltanto i propri
desideri e la propria volontà, non è difficile intuire come essa finisca per
confliggere con quella di chi vuole vivere alla stessa maniera e, a sua volta,
3
4
Benedetto XVI, “Omelia nella vigilia di Pentecoste”, Piazza San Pietro, 3 giugno
2006, LEV 2006.
Benedetto XVI, ibidem.
42
consentirsi tutto, seguendo istinto e desiderio. L’esito di questa concezione
egoistica di libertà è la violenza, la distruzione vicendevole della libertà,
l’abuso del creato e delle creature, un uso irresponsabile della natura e della
vita. 5
Comprendiamo, così, come sia grande il lavoro di bonifica necessario
perché gli uomini del nostro tempo abbiano vita in abbondanza e siano
veramente liberi. Esso è possibile, però, solo a partire da quel momento
particolare dell’esperienza di ognuno in cui la coscienza evidenzia come
vuota e vana sia diventata la vita e con essa la libertà, quando si è agito senza
discernimento e non ascoltando lo Spirito.
È, pertanto, nel ritorno alla coscienza che si comprende il senso del
proprio essere creature, persone, cristiani e si recupera il nesso tra libertà e
figliolanza: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere
nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del
quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’» (Rm 8,15). Si può, insieme, riscoprire
come libertà e responsabilità vadano di conserto e la vera libertà si dimostri
nella responsabilità, in un modo di agire, cioè, che assume la cura di se
stessi, degli altri e del mondo.
Tra i doni dello Spirito, ai quali P. Dehon dedica alcune meditazioni del
mese di maggio in L’année avec le Sacré Cœur, merita un richiamo
particolare, con riferimento al tema che trattiamo, quanto egli scrive sul dono
del Consiglio. Egli lo descrive come atto della prudenza che prescrive la
scelta dei mezzi per perseguire un determinato fine, come luce mediante la
quale lo Spirito indica che cosa occorra fare in un determinato momento e
luogo, nella congiuntura in cui ci si trova, applicando ai casi particolari ciò
che scienza e saggezza insegnano in generale:
«Le conseil est un acte de la prudence qui prescrit le choix des moyens
pour arriver à une fin. Ainsi le don de conseil regarde la direction des
actions particulières. C’est une lumière par laquelle le Saint-Esprit montre
ce qu’il faut faire dans le temps, dans le lieu et dans les conjonctures où l’on
se trouve. Ce que la foi, la sagesse et la science enseignent en général, le
don de conseil l’applique aux cas particuliers». 6
5
6
Benedetto XVI, ibidem.
L. Dehon, L’année avec le Sacré Cœur. Méditations pour tous les jours de
l’année…, I,; 18 mai «Les dons du Saint-Esprit: le don de conseil», Premier
point: “Du don de conseil ”, pp. 547ss. ; Tournai – Paris 1919.
43
4. Dell’educazione e della libertà
Ritorniamo ai due riferimenti di cui si è detto sopra. Il Catechismo della
Chiesa Cattolica sviluppa il tema della coscienza e dei suoi dinamismi
rifacendosi alla Scolastica, secondo cui la coscienza è un giudizio della
ragione pratica: essa ingiunge di compiere il bene ed evitare il male, giudica
le scelte compiute, approva quelle buone, denuncia quelle cattive.
Essa è un giudizio della ragione mediante il quale la persona riconosce
la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha
compiuto e da cui consegue l’obbligo per la persona di seguire la voce della
sua coscienza. Condizione essenziale perché ciò avvenga è che la persona sia
presente a se stessa, per sentire e seguire la voce della propria coscienza, che
è quanto dire ricercare la necessaria interiorità. Ed è un’altra sottolineatura di
P. Dehon.
La coscienza è una facoltà della persona, la cui dignità implica ed esige
la rettitudine di quella. Essa permette di assumere la responsabilità degli atti
compiuti. La persona ha il diritto di agire in coscienza e libertà e prendere
personalmente le decisioni morali. Nessuno deve essere costretto ad agire
contro la sua coscienza, o impedito a operare in conformità ad essa,
soprattutto in campo religioso. 7
Di qui la necessità di educare e formare la coscienza, secondo i criteri
che vengono dalla ragione e dalla Parola di Dio, assimilata nella fede e nella
preghiera. Infatti, all’origine delle deviazioni del giudizio nella condotta
morale può esserci, con la mancata attenzione ai dettami della ragione, la
non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo, i cattivi esempi, la schiavitù
delle passioni, la pretesa di una malintesa autonomia, il rifiuto dell’autorità
della Chiesa e del suo insegnamento, la mancanza di conversione e di carità.
La dottrina distingue ignoranza vincibile e invincibile, casi in cui il
giudizio erroneo rimanda alla responsabilità del soggetto, oppure no e, in tal
caso, il male che consegue non è imputabile. Esso tuttavia resta male e
incide nella vita propria, in quella degli altri e nella storia del mondo e della
Chiesa. Operare perché la coscienza morale riconosca la qualità negativa di
talune azioni, non significa allora compiere solo un’operazione che si risolve
nella sfera del privato, ma contribuire attivamente a migliorare il mondo.8
7
8
Dignitatis Humane, n. 3/ EV 1,1047ss.
Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1777ss., LEV 1992.
44
Vedremo in seguito che, nella meditazione ricordata, P. Dehon ha in
proposito una sottolineatura importante.
Veritatis Splendor situa nel cuore della persona, cioè nella coscienza
morale, il rapporto tra libertà e legge di Dio: «Il rapporto che esiste tra la
libertà dell’uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel “cuore” della
persona, ossia nella sua coscienza morale» 9, e cita a sua volta il passo della
Gaudium et Spes già ricordato. Anche qui piace richiamare la consonanza di
una riflessione di P. Dehon che si poneva agli inizi del 1900, con un’altra
(Veritatis Splendor), che prende forma alla fine dello stesso secolo, dopo il
lavorio teologico seguito all’«aggiornamento» del Vaticano II.
Che P. Dehon concordasse con la definizione di coscienza dalla quale
ha preso avvio il nostro discorso, possiamo inoltre ritenerlo in qualche modo
confermato da un testo delle sue opere spirituali.
La vie intérieure facilitée par des exercices spirituels tirés de la Sainte
Écriture et des meilleurs auteurs ascétiques è l’opera che ci interessa. Nel
primo punto della quinta meditazione (« Notre appel personnel»), si legge:
«L’homme est un être raisonnable et responsable, qui doit consulter
habituellement sa conscience et en suivre les préceptes. La lumière de la
raison éclaire notre âme avant la lumière de la foi: “Erat lux vera quae
illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum” (Jn 1,9). Cette
lumière de la conscience était la règle de vie de l’humanité avant l’Évangile.
La révélation mosaïque en avait précisé et formulé les préceptes. Les nations
qui n’ont pas la loi d’Israël, dit saint Paul, en connaissent cependant les
préceptes par la raison et la conscience. Ces hommes ont la loi en euxmêmes: “Ipsi sibi sunt lex” (Rm 2,14).
Mais pour lire cette loi dans leur conscience, il leur fallait une habitude
de réflexion et de recueillement, qu’on peut déjà appeler une vie intérieure.
“Connais-toi toi-même”, disait la sagesse antique. Et les écoles que
tenaient les sages avaient pour but de former leurs disciples à la réflexion, à
la connaissance des lois de la conscience et à leur observation. C’était aussi
l’objet de toute éducation. Mais en pratique, la légèreté et la vanité
9
Veritatis Splendor, n. 54/ EV 13,2672.
45
l’emportaient sur la sagesse et la réflexion. C’était l’objet des plaintes
fréquentes de la Sainte Écriture». 10
In sintesi: razionalità e responsabilità caratterizzano l’uomo, che deve
consultare abitualmente la sua coscienza e seguirne i dettami. La luce della
ragione illumina la nostra anima prima della luce della fede. La luce della
coscienza era la regola di vita dell’umanità prima del Vangelo. La
rivelazione mosaica ne aveva precisato e formulato i precetti. «Infatti,
quando i Gentili che non hanno legge, adempiono per natura le cose della
legge, essi, che non hanno legge, son legge a se stessi» (Rm 2,14). Ma per
leggere questa legge nella loro coscienza, occorreva loro un’abitudine alla
riflessione e al raccoglimento, che si può già chiamare vita interiore.
«Conosci te stesso», ricorda P. Dehon, diceva la sapienza antica.
Il detto γνῶθι σεαυτόν/gnōthi seauton, citato dal Fondatore, si leggeva
nel tempio dell’Oracolo di Delfi. Esso rimanda a più di un esponente
dell’antica filosofia greca e sintetizza l’insegnamento di Socrate sulla ricerca
della verità dentro di sé, anziché nel mondo delle apparenze. Abbiamo fatto
riferimento a Socrate; si dovrebbero citare anche Talete di Mileto, Antistene
di Rodi, Chilone di Sparta, Pitagora, Solone. Nella sua interezza, inoltre,
«Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli Dei», il detto dice
assai di più che nella versione delle due parole nota a tutti.
Riprendendolo, P. Dehon sembra, almeno a prima vista, ridurne la
portata alla riflessione e alla sola conoscenza e osservanza des lois de la
conscience, come facevano con i discepoli le scuole dei saggi, secondo un
determinato modo di intendere la funzione educativa. Il suo significato
originario sembra però rimandare anche all’impegno a stare nei propri limiti,
essere se stessi, non eccedere, non esaltarsi e non presumere, pretendendo di
essere come la divinità. Insomma un richiamo a essere saggi della saggezza
in senso forte σωφροσύνη/sophrosyne, che si accompagna alla moderazione
e consiste nel conoscere se stessi nella propria interiorità (anima).
Quest’ultima, di natura divina, può portare alla conoscenza del divino o, più
modestamente, alla comprensione del funzionamento della propria mente e
del suo modo di conoscere le cose, preludio alla liberazione da pregiudizi e
condizionamenti culturali e alla possibilità di conoscere senza filtri.
10
L. Dehon, La vie intérieure facilitée par des exercices spirituels tirés de la Sainte
Écriture et des meilleurs auteurs ascétiques, Lille, Paris, Bruges, Bruxelles 1919,
pp. 33ss.
46
Γνῶθι σεαυτόν, soprattutto nella formulazione estesa, si avvicina
all’agostiniano: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat
veritas, etsi tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum. Non
voler uscire da te stesso per trovarla, la verità abita nell’interno dell’uomo, e
se troverai mutevole la sua natura, trascendi anche te stesso». 11
5. Del buio, delle luci, della Luce
A prima vista non si può escludere che, per l’impegno di evidenziare il
nuovo e il proprio della rivelazione, la lettura di questo testo da parte di P.
Dehon sia alquanto riduttiva, senza cessare di essere vera. E tuttavia, come
vedremo, dalla lettura di altri suoi testi si può invece avere l’impressione che
l’attenzione al discernimento, per ciò che riguarda la funzione della
coscienza illuminata dalla ragione o dalla grazia, sia in lui tutt’altro che
marginale.
Procediamo per temi.
Il nuovo che viene dalla rivelazione è da P. Dehon ricollegato all’azione
del Verbo incarnato venuto a portare all’uomo una luce nuova: «Il vivait en
nous par la raison et le monde ne le connaissait pas: “Mundus eum non
cognovit” [Jn 1,10]. Mais il est venu se manifester à nous. Il a fait enfants de
Dieu ceux qui ont bien voulu croire à sa mission […]. La grâce, comme la
raison, parle à notre âme et dirige notre conscience; mais elle parle une
autre langue, la langue de la foi. Il fallait une certaine vie intérieure pour
écouter et consulter la raison; il en faut une autre pour consulter la foi, pour
écouter ses dictées.
Le baptême nous impose donc un certain degré de vie intérieure. Par le
baptême, nous sommes faits enfants de Dieu. Nous recevons en notre âme
l’Esprit-Saint et la grâce qui sont les instruments ou les organes du Sauveur
pour nous diriger et nous sanctifier. La grâce élève notre âme à une vie
surnaturelle. L’Esprit-Saint parle, il conseille, il dirige, il devient comme
l’âme de notre âme.
Un adulte non baptisé devait écouter sa raison; un adulte baptisé doit
écouter le Saint-Esprit, qui vit en lui et qui lui parle le langage de la foi.
11
Augustinus, De vera religione liber unus, XXXIX ,72-73, 1, PL 34; cf. Agostino,
La vera religione, Torino 1945, p. 74.
47
C’est une conscience nouvelle, qui commande les vertus théologales et
les vertus morales chrétiennes. Notre Seigneur nous a dit: “Le Saint Esprit
vous enseignera tout ce que je vous ai commandé” (cf. Jn 14,26). Un baptisé
doit donc être habituellement attentif à sa condition d’enfant de Dieu et aux
préceptes de l’Évangile. L’Esprit-Saint l’aidera à comprendre, à vouloir, à
agir. Cette attention indispensable et habituelle est déjà une vie intérieure,
qui est nécessaire, à un certain degré, à tous les chrétiens. C’est ce
qu’exprime saint Paul en rappelant à toutes les Églises, dans ses épîtres, que
le juste vit de la foi. Le juste, ici, c’est le chrétien, c’est le baptisé, fidèle à la
grâce qu’il a reçue (cf. He 10,38 ; Ga 3,11 ; Rm 1, 17, etc.) […]». 12
Sintetizziamo. Ragione e grazia sono voci che parlano nell’anima e
guidano la coscienza. La grazia parla la lingua della fede. Per ascoltarla e
seguirne i dettami occorrono silenzio e attenzione interiore. La stessa cosa è
vera, nella diversità dei livelli soprannaturale e naturale, per consultare,
ascoltare la ragione e seguirne i dettami. La rettitudine e le virtù naturali
accompagnano l’azione della ragione, i doni e i frutti dello Spirito quella
della grazia. È quanto dire che il discernimento nel cristiano, così come
nell’uomo comune, postula comunque una vita interiore. Il non battezzato
adulto deve porsi in ascolto della ragione, il battezzato, oltre che mettersi in
ascolto della propria ragione, dovrà ascoltare anche lo Spirito: quello Spirito
che vive in lui e gli parla il linguaggio della fede.
La novità della coscienza del cristiano suppone, e non annulla, la
dignità della coscienza illuminata dalla ragione. Al suo livello è possibile la
comune ricerca di cui parla Gaudium et Spes 17: «Nella fedeltà alla
coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per
risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella
vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la
coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco
arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità...».
6. Del bene, del male, del discernimento
Il compito morale fondamentale sta nell’attuare il “disegno” e, prima
ancora, nel conoscerlo e discernerne le conseguenze nella vita quotidiana.
12
L. Dehon, La vie…, Deuxième point, ibidem.
48
Questo vale per tutti, come evidenzia anche la sapienza antica (sagesse
antique), di cui parla P. Dehon.
La liberazione dell’uomo, dunque, passa primariamente attraverso
l’impegno di aiutarlo a essere se stesso nella verità, a conoscersi, a stare
entro i suoi limiti, a non eccedere, non esaltarsi e non presumere, procurando
di essere saggio e moderato, prudente: cioè attento a discernere. Non è
ancora liberato l’uomo che, per usare una considerazione felice di Dietrich
Bonhoeffer 13, è ancora alle prese con la stupidità, la sua e quella che lo
circonda, dalla quale è possibile affrancarlo interiormente, solo dopo averlo
liberato esteriormente, facendo di tutto perché re-impari a pensare.
Discorso antico, che P. Dehon in qualche modo evoca quando, nella
meditazione citata, ricorda le frequenti rimostranze della Scrittura: «Mais en
pratique, la légèreté et la vanité l’emportaient sur la sagesse et la
réflexion». Légèreté et vanité, un modo elegante per dire la stessa cosa che
dirà Bonhoeffer venticinque anni dopo in modo molto franco.
In fondo, quella cosa solo apparentemente per iniziati che è il
discernimento, consiste nel distinguere il bene dal male, seguendo la ragione
e la Regola d’oro che, nonostante le diverse formulazioni che assume nei
vari contesti culturali e religiosi, nella sua sostanza è identica per tutti. Per
un cristiano il discernimento è la stessa cosa che è per l’uomo comune, con
l’aggiunta della «capacità di prendere in ogni e qualsivoglia momento la
decisione etica conforme al Vangelo, coerentemente alla conoscenza
dell’avvenimento della salvezza, in cui lo Spirito Santo rappresenta un
elemento decisivo». 14
Solo chi discerne può superare le strette della stupidità di cui parlava
Bonhoeffer e, come raccomanda san Paolo, non conformarsi a questo
mondo, rinnovando il proprio modo di pensare, «per poter discernere la
volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
La chiave di ogni agire morale sta in questo atteggiamento umano
fondamentale. Preziosa la sottolineatura di P. Dehon: «L’homme est un être
raisonnable et responsable, qui doit consulter habituellement sa conscience
et en suivre les préceptes. La lumière de la raison éclaire notre âme avant la
lumière de la foi». 15
13
14
15
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo (MI) 1989.
O. Cullmann, Cristo e il tempo, Bologna 2005, p. 265.
L. Dehon, La vie..., ibidem.
49
San Paolo ne parla spesso e lo definisce possibile e doveroso per chi,
battezzato in Cristo e animato dallo Spirito, ha conosciuto un profondo
rinnovamento interiore. 16 Frutto di giudizio riflesso e ispirazione spontanea,
il discernimento è un impegno costante che dà autenticità alla fede, alla
speranza e alla carità, traducendole nell’attualità di un’esistenza in cui ogni
decisione assume spessore e qualità umana e cristiana dal giudizio che la
persona formula alla luce della ragione e dello Spirito.
«Il Signore conosce i pensieri e le intenzioni del nostro cuore – scrive
Baldovino di Ford, monaco cistercense e arcivescovo di Canterbury (11201190) – . Senza dubbio egli li conosce tutti, mentre noi solo quelli che ci è
concesso di percepire per il dono del discernimento. [...] Il discernimento,
infatti, è come la madre di tutte le virtù ed è necessario a tutti nel guidare la
vita, sia propria sia altrui. È giusto il proposito di fare le cose secondo la
volontà di Dio. È virtuosa l’intenzione che si dirige semplicemente verso il
Signore. La nostra vita e ogni nostra azione saranno luminose solo se
l’occhio sarà semplice. Ora l’occhio semplice è occhio, ed è semplice. È
occhio perché vede per mezzo di un retto sentire cosa si deve fare, ed è
semplice perché agisce con pia intenzione escludendo la doppiezza. Il retto
sentire non cede all’errore. La pia intenzione esclude la finzione. Questo è
dunque il discernimento, l’unione del retto pensiero e della virtuosa
intenzione. Tutto quindi si deve fare nella luce del discernimento, come sta
in Dio e sotto lo sguardo di Dio». 17
Per qualche autore scelta e discernimento non coincidono. Rifacendosi
soprattutto ai testi più antichi della Bibbia, dicono che scelta è ciò che
l’uomo vuole e deve fare; discernimento ciò che intuisce di dovere fare,
grazie a un’illuminazione o mozione interiore. Nella scelta è lui che opera;
nel discernimento opera lo Spirito, mettendo in luce ciò che Dio vuole. Per
essi la scelta diventa davvero discernimento, quando vi è un riferimento alla
fede o ad altre virtù, quando sono in gioco il trascendente e la sua
comprensione, che assume un ruolo predominante nella sintesi tra naturale e
soprannaturale che il credente compie nella sua scelta.
Per noi, là dove scelta e discernimento dicono riferimento al bene e al
male e comportano l’accettazione di creaturalità, limite, fragilità, incertezze,
16
17
Cf. Fil 1,9ss; 2,13; 1Ts 5,19 ss.; Ef 5,8ss.
Baldovino di Ford, Trattato 6, PL 204, 446-467; cf. Breviario Romano, Ufficio
delle Letture sabato IX Settimana tempo ordinario.
50
peccati, bisogno di salvezza, sono la stessa cosa, non riguardano solo due
possibilità ma due opposti. Al fondo si pone non una distinzione, ma
un’opzione fondamentale. Anche se la scelta rimane sul piano naturale e non
supera il livello umano, nel suo dinamismo possono essere presenti elementi
che rimandano al soprannaturale.
A ben pensare, infatti, è la stessa cosa che compie chi si lascia guidare
dalla sapienza σωφροσύνη/sophrosyne, fermo restando che il credente vede
tutto alla luce della fede in un Assoluto che egli riconosce creatore e autore
di un disegno e di una storia da cui non intende prescindere.18 Il cristiano,
impegnato a discernere la volontà di Dio nella ferialità dei suoi giorni (cf.
Rm 12,2), “sceglie” ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. L’uomo
comune, impegnato a seguire la luce della ragione nella ferialità dei suoi
giorni, a sua volta “sceglie” ciò che è buono, perfetto, coerente con la luce
della ragione, che, anche se egli non ne è consapevole, rimanda allo stesso
disegno e al suo Autore.
Discernere è un’analisi che coinvolge il «cuore», la mente, la
percezione delle cose e la memoria del passato (esperienza) per riconoscere
la volontà di Dio e tradurla qui e ora in un comportamento o in un atto
conformi al suo disegno e alla sua volontà. Dire cuore non significa evocare
la sfera affettivo - emozionale, ma l’interiorità, la connaturalità con le cose
di Dio, così come lo Spirito le manifesta. Dire mente significa riferirsi a una
riflessione della ragione attuata alla luce della rivelazione e che mira ad
approfondire la conoscenza del disegno di Dio.
La qualità della scelta e del discernimento risente della qualità morale
della persona e, rispettivamente, della sua apertura al Vangelo. Come la
scelta, il discernimento è frutto dell’iniziativa umana, ma è arricchito dalla
mozione divina alla quale, in un atteggiamento di libertà, grazie al
rinnovamento battesimale, si è divenuti capaci di rispondere (cf. Rm
8,14ss.).
Atto di libertà, dunque, il discernimento decide della responsabilità del
cristiano, è impegno personale nell’oggi della storia di ognuno. «Personale»
non significa che si prescinda dalla comunità cui si appartiene e, nel caso,
dalla Chiesa: «La responsabilità dei cristiani è in verità una
18
Cf. T. Beck – G. Della Croce, Il discernimento dono dello Spirito, Bologna 1986,
pp. 17ss.
51
corresponsabilità. Discernere la volontà di Dio, è inserirsi in un unico
disegno di salvezza che ingloba tutti gli uomini». 19
Quel disegno ha nella Chiesa il luogo della sua più sicura evidenza.20
Questo non sminuisce, tuttavia, il valore del discernimento di tutti gli uomini
di buona volontà. Il popolo di Dio, infatti, mentre prende parte insieme agli
altri uomini agli avvenimenti della storia, è unito a loro nella fedeltà alla
coscienza a cercare la verità e a risolvere secondo verità i problemi morali
che sorgono nella vita dei singoli così come in quella sociale.21
7. Della legge, dei pesi, del dito
M. L. King riteneva la sensibilità etica del suo tempo un esito della
teoria della relatività applicata all’ambito morale. Diceva che, come a notte
inoltrata i colori perdono le loro caratteristiche, omologandosi in un diffuso
grigiore, così anche i principi morali gli parevano avere perso i loro caratteri
distintivi: bene, male, ragione, torto gli sembrava dipendessero ormai dalle
scelte delle maggioranze, giusto e ingiusto dai gusti del momento, dalle
simpatie/antipatie e dalle usanze/consuetudini di una determinata
comunità. 22
La considerazione vale anche oggi. Un diffuso grigiore etico rende così
indispensabile il discernimento, urgenti responsabilità e coerenza (cf. Ef 4,17
ss.), inderogabili vigilanza e impegno per vivere da uomini saggi (cf. Ef 5,15
ss.). Trasformazioni del sentire, del costume e delle consuetudini hanno
scosso certezze morali, punti fermi e quadri di riferimento. Dio è per molti
lontano o estraneo, i segni della sua presenza trovano un pubblico distratto.
La fede è sempre più un fatto privato, rispettabile ma non importante per chi
appare intento a costruire una città terrena efficiente, soddisfacente... per
pochi. 23
19
20
21
22
23
G. Therrien, “Le discernement moral dans l’épître aux Romains”, “Studia
Moralia” VI, Roma 1968, p. 129.
Cf. Lumen Gentium, n. 2; EV 1/285; n. 25; EV 1/344ss.
Cf. Gaudium et spes, n. 16; EV 1/1369.
Cf. M. L. King, La forza di amare, Torino 1968, p. 93.
Cf. Popolorun Progressio, nn.14, 21, 22; EV 2/1059, 1066, 1067; Caritas in
veritate 7, 18, 27, 37, 43, 49, LEV 2009.
52
Se la privatizzazione sociale della fede è da attribuire alla diffusa
cultura liberale e radicale, quella personale è però frutto di una schizofrenia
esistenziale che non fa risuonare nel sociale quello che si crede e vive nel
privato.
Se è vero che i credenti non trovano nella società stimoli alla coerenza e
si chiedono come conciliare la fede con gli impegni della vita quotidiana in
un ambiente in cui i modi di agire sono molteplici, ambigui i dibattiti sul
bene e sul male, contraddittorie le disquisizioni sulle cose che si possono o si
devono fare o invece evitare, è anche vero che spesso, nelle e con le loro
comunità, vivono essi stessi una fede di conio intimistico, con scarsi riflessi
nel sociale.
Alla fine degli anni ’80, il cardinale Joseph Ratzinger annotava, a
proposito della difficoltà di fronte alla fede nell’Europa contemporanea, che
gli stessi concetti di «norma» e di «legge» erano vissuti come realtà
negative, indicazioni provenienti dall’esterno, forse in grado di trasmettere
modelli orientativi, non certo di fondare obbligazioni ultimative. 24
La costatazione resta vera. Oggi si deve aggiungere una diffusa afasia
dei credenti, cioè la perdita della capacità di parlare. La fede, come la
conoscenza, viene dall’ascolto (cf. Rm 10,17) ma, se si è persa la capacità di
parlare, si è annullata anche la possibilità di farsi ascoltare e, dunque, di
offrire agli altri l’occasione di conoscere e credere. C’è bisogno di una
testimonianza fatta di vita e di parola: di una vita conformata al Cristo,
pienezza dell’umano; di una parola annunciata con παρρησία / parresia. Ma
la parresia, il dire la verità, non solo è autentica se chi la esercita corre
qualche rischio personale, è autentica quando il soggetto ha primariamente
detto la verità a se stesso e la sua franchezza è frutto di autocritica, di
comunicazione vera, di correttezza morale.
La parresia è una virtù assente non solo nella terminologia corrente, ma
anche nella vita. Ne hanno richiamata l’urgenza pensatori laici e cristiani,
filosofi e pastori. M. Foucault tenne un corso sul tema all’università di
Berkeley (1983); C. M. Martini la evocò, con riferimento all’accidia della
sua città, nell’ultima omelia milanese (1999); J. Ratzinger ne raccomandò la
pratica, presentando l’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II; A.
Glucksmann, più di recente, rimproverò all’Occidente di avere rinunciato ai
24
Cf. J. Ratzinger, “Difficoltà di fronte alla fede oggi in Europa”, “L’Osservatore
Romano”, 30/6-1/7/1989, p. 7.
53
suoi caratteri fondamentali e non avere coltivato il dovere morale di dire la
verità.
Quanto alla vita morale, non si tratta di non fare e di evitare, ma di dare
compimento a un disegno e a un abbozzo d’immagine affidati alla
responsabilità di ognuno, perché la vita morale è coerenza con la ragione,
risposta a una chiamata, imitazione di un modello, non sola osservanza di un
codice di comportamento. Al cristiano in Cristo è dato il modello della sua
umanità e il senso più vero della sua esistenza. In lui, suprema rivelazione
dell’uomo e della vita come dono e servizio a Dio e agli altri, è rivelata la
legge nuova. Il suo impegno morale consiste allora nel seguirlo,
trasformando la legge e la norma in vita. Moralità non è mai soltanto
correttezza nel privato. Si è per: ciò che è dentro è per «il fuori». Insomma,
la dimensione sociale dell’essere (ciò che si è) è costitutiva dell’essere
stesso. Le aggettivazioni sono in questo caso intuibili...
Molto espressivo quello che annota P. Dehon e che abbiamo già citato:
«Un adulte non baptisé devait écouter sa raison; un adulte baptisé doit
écouter le Saint-Esprit, qui vit en lui et qui lui parle le langage de la foi.
C’est une conscience nouvelle, qui commande les vertus théologales et les
vertus morales chrétiennes». 25
Attenzione alla coscienza e educazione alla libertà sono, dunque,
elementi portanti di ogni pedagogia, anche di quella cristiana, di ogni
impegno per l’uomo e con l’uomo. Compito del cristiano è aiutare a essere,
compiendo un cammino di verità, che parta da una visione onesta e non
riduttiva della persona, faccia spazio alle sue caratteristiche e limiti oltre
ogni lettura ottimistica, pessimistica o ideologizzata, senza dimenticare che
ogni persona resta capace di un responsabile “sì”, che è possibilità di
discernimento e agire morale, risposta alla chiamata di Dio, realizzazione del
suo disegno su di lei.
La visione cristiana della storia riconosce una liberazione che viene
dall’alto, un rinnovamento interiore, una nuova nascita (cf. Gv 3,3 ss.), una
configurazione a chi la fede indica Signore del tempo e della storia, che
chiama a una libertà, dono e segno altissimo dell’immagine di chi ha voluto
lasciare l’uomo in mano al suo consiglio (cf. Sir 15,14), così che cerchi
25
L. Dehon, La vie…, Deuxième point, ibidem.
54
spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l’adesione a lui, a
quella pienezza di essere cui è destinato.26
Spesso, quando si parla di “morale”, si fa soprattutto riferimento a
precetti ai quali adeguarsi. Così accade che non pochi cristiani, quando, per
esempio, sentono dire che il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per
il sabato, si chiedono se questo valga anche... per il venerdì. Del venerdì e
degli altri giorni Gesù non ha detto niente di specifico. Pastori e teologi
molte cose, e hanno specificato che, poiché «il sabato è per l’uomo», la
domenica non si lavora, si va a messa e guai a chi non lo fa. Quanto al resto,
sono tutti venerdì, cioè giorni feriali che, non avendo ancora detto nessuno in
modo esplicito che essi pure sono per l’uomo, si finisce per ritenere che sia
l’uomo a essere fatto per loro. Così anche negli “altri” giorni si fa quello che
dicono la Legge, le leggi, i capi, i teologi e i pastori.
Restano però sempre valide alcune parole che il Signore disse in
occasione di un pranzo in casa di un fariseo igienista, dopo avere parlato di
lucerne che non servono a niente, se non stanno in alto, di occhi sani e
malati, di luce e di tenebre: «Guai anche a voi, dottori della legge, che
caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate
nemmeno con un dito!» (Lc 11,46).
È probabile che, ogni tanto, questo discorso risuoni nella coscienza di
pastori e teologi, vescovi e parroci, arcipreti e monsignori, biblisti e
canonisti oltre che dei cristiani comuni. Buona cosa che non lo si dimentichi
a proposito di leggi e precetti, soprattutto della Chiesa, perché questi
riguardano anche un domani eterno!
Comandamenti, Beatitudini… di per sé c’è già tutto nelle Scritture.
Certo, poi c’è anche il Codice di Diritto Canonico e il Catechismo. Il primo
è uno, anzi due, c’è anche quello dei Canoni delle Chiese Orientali. L’altro
sarebbe anch’esso uno ma le Conferenze episcopali hanno elaborato i loro,
dai neonati ai vecchietti, per spiegare tutto per bene, mica per imbrigare le
coscienze. Di quando in quando, sopravvengono altri documenti, note e
noterelle per i dubbi rimasti, così che tutto sia ben determinato.
È che, mentre vescovi e teologi meditano compiaciuti sulle loro note,
deduzioni e considerazioni, i cristiani nella vita quotidiana fanno i conti con
l’ordinaria amministrazione. Molti, che hanno nostalgia del cielo di cui
hanno sentito parlare durante l’omelia domenicale volata alta sulle loro teste,
26
Cf. Gaudium et Spes, n. 17; EV 1/1370.
55
devono tuttavia camminare faticosamente sulla terra e vorrebbero che,
scendendo di un piano tra cielo e terra, teologi e pastori, traducessero la
legge di Dio in vernacolo, cioè nella lingua corrente, a misura di uomini e
donne concreti. Certe traduzioni, invece, sembrano troppo tra le nuvole,
lontane dalla terra sulla quale essi camminano, dal lunedì al sabato.
Lo sanno tutti: le leggi, come i sacramenti, sono per l’uomo. Alle volte
sembra che siano per gli angeli. Per fortuna gran parte dei cristiani non ha
frequentato il Pontificio Istituto Biblico e neanche la Scuola diocesana di
teologia. Per giunta, spesso, anche in chiesa sono inseguiti dai loro pensieri e
preoccupazioni, così, ai più non vengono subito in mente quelle parole di
Gesù sui pesi e le dita. Che si prenda a diritto o a rovescio, quel versetto di
Luca, però, è un rimprovero per certe cavillose interpretazioni teologiche e
morali, che complicano la vita dei cristiani con deduzioni e circonlocuzioni,
rendono laboriosa l’osservanza della legge, ignorano o inquietano le
coscienze, impongono pesi insopportabili, inducono a fare pari e patta con la
coscienza, magari salvando la lettera della legge, ma tradendone la sostanza.
I più sensibili maturano sensi di colpa devastanti. Altri smettono di
frequentare e, quel che è peggio, smettono di pensare.
Sarebbe allora da ricordare che non è che i principi sono assoluti e la
vita dei cristiani no: insomma se «il sabato è per l’uomo, e non l’uomo per il
sabato» (Mc 2,27), bisogna che sia valido anche di venerdì. Così, quando dai
comandamenti si fanno deduzioni teologiche e pastorali di primo, secondo,
terzo o sedicesimo livello, converrebbe rammentare che è scritto «I miei
pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie» (Is
55,8), poi «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi…» (Mt 11,28)
e ancora «Misericordia io voglio e non sacrifici…» (Mt 9,13) e infine «Dio è
più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa... se il nostro cuore non ci
rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio» (1 Gv 3,20 s.).
Sulle spalle dei cristiani sono finite un po’ di cose, senza che noi,
pastori e teologi, proviamo a toccarle neanche con un dito. Non farò qui
l’elenco per non insegnare ai nuovi teologi quello che hanno fatto i vecchi
col dire che l’etica, basandosi su ragionamenti e confronti, illustra principi o
produce linee guida per un processo di confronto e di mediazione, che da un
lato genera le leggi e dall’altro regola i comportamenti… Per lo più in un
nutrito scambio tra addetti ai lavori.
Illuminante in proposito una considerazione di Gregorio Magno: molte
cose nella Sacra Scrittura, che da soli non riusciamo a comprendere, le
capiamo quando ci troviamo in mezzo ai fratelli. Infatti, dice il santo, con la
56
grazia di Dio, avviene che aumenti l’intelligenza e diminuisce la superbia,
grazie ai fratelli impariamo quello che insegniamo loro. 27
Che è quanto dire che i maestri possono imparare qualcosa dai
discepoli.
8. Della Provvidenza, dello sviluppo
«La conduite la plus sûre pour la vie quotidienne, est donc celle qu’on
reçoit du Saint-Esprit par le don de conseil, et nous n’en devrions point
suivre d’autre. Premièrement parce qu’en la suivant, nous sommes assurés
de marcher dans la voie de Dieu et de sa divine Providence; secondement,
parce que c’est le moyen de n’errer jamais, le Saint-Esprit étant la règle
infaillible aussi bien de nos actions que de nos connaissances;
troisièmement parce que cette dépendance de la direction du Saint-Esprit
nous fait vivre dans un grand repos, sans inquiétude et sans souci…». 28
Già, la Provvidenza: negli scritti spirituali di P. Dehon il rimando alla
Provvidenza è ricorrente. Sembra invece rarefatta nella nostra predicazione e
nel nostro linguaggio ordinario. Forse è solo scomparso il termine o è stato
sostituito con altri. D’altra parte oggi non sarebbe proprio facile partire da
Seneca, citare Agostino, Tommaso, richiamare il vangelo dei fiori del campo
e degli uccelli dell’aria (cf. Mt 6,25 ss.) per parlare della Provvidenza, come
hanno fatto gli autori del passato.
Ripenso a un’omelia in età giovanile in cui, incauto, provai alla messa
delle dodici – ed era già di fine giugno, dunque chi va a messa, lo fa perché
ci crede, altrimenti va al mare – a rispondere a un interrogativo in quei giorni
ricorrente a causa di certe disgrazie: «Ma se la provvidenza fa tutto lei,
com’è che le cose vanno così male?». È la stessa domanda che si poneva
Seneca: «Perché capitano delle disgrazie agli uomini buoni, se esiste la
Provvidenza». 29 Di citare il Discorso sulla Provvidenza di Dio di
sant’Agostino 30 proprio non mi venne in mente e forse fu un bene, perché la
27
28
29
30
Cf. Gregorio Magno, Homiliae in Ezechielem prophetam. II, 6, PL 948D-949A.
L. Dehon, L’année…, citato.
L. A. Seneca, Ad Lucilium De Providentia caput I, in Dialoghi morali, Milano
2006.
Augustinus, De ordine libri duo, Discorso sulla provvidenza di Dio, PL 32.
57
gente non familiarizza subito con il suo periodare e nemmeno con quello di
san Tommaso.
Che la Provvidenza ci sia lo dice la Costituzione dogmatica del
Vaticano I Dei Filius, sulla fede cattolica. La libertà delle creature è inclusa
nel piano divino senza che essa debba per ciò essere annullata.
D’altra parte in un’omelia non si possono tirare in ballo RahnerVorgrimler che spiegano come la Provvidenza «indica il piano del mondo
creato, stabilito dal sapere di Dio, al quale nulla, nemmeno il libero
elemento creaturale sfugge, e la volontà divina che nel suo amore e nella
sua santità lo sorregge e lo condiziona con la sua potenza». 31 E neppure,
come fanno loro, riprendere Denzinger-Hünermann: «Dio, con la sua
provvidenza, protegge e governa tutto ciò che ha creato, poiché “essa si
estende da un confine all’altro con forza, governa con bontà ogni cosa”
(Sap 8,1). “Tutto è nudo e scoperto davanti agli occhi suoi” (Eb 4,13),
anche quello che sarà fatto dalla libera azione delle creature». 32
Forse, allora, basterebbe dire che anche quello della Provvidenza è un
mistero, che avvolge il rapporto tra causalità universale di Dio e vera libertà
della creatura e riguarda la coesistenza dell’essere infinito di Dio con l’ente
finito, che esiste in maniera diversa da Dio e, proprio per questo, è sostenuto
da Dio... Troppo difficile.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica che, per essere appunto un
catechismo, dovrebbe risultare subito comprensibile, dice: «La creazione ha
la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore
interamente compiuta. È creata “in stato di via”... verso una perfezione
ultima alla quale Dio l’ha destinata... Chiamiamo divina provvidenza le
disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa
perfezione». 33 Si deve aggiungere che l’uomo ha la sua parte da fare.
Forse è proprio meglio tornare alla fonte, provare direttamente con il
Vangelo. Gesù chiede un abbandono filiale al Padre celeste, che ha cura di
tutti i suoi figli (cf. Mt 6,31ss). Senza dire provvidenza, quando ha voluto
che quattro pescatori e un bancario capissero bene le cose, ha detto soltanto
31
32
33
Rahner-Vorgrimler, Dizionario di teologia, Roma – Brescia 1968, p. 552.
Denzinger-Hünermann, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum
de rebus fidei et morum, EDB 1995, n. 3003.
Catechismo... n. 302, ibidem.
58
guardate gli uccelli... osservate i gigli della campagna, non fanno niente. Di
loro si prende cura il Padre; quanto più di voi (cf. Mt 6,25 ss.).
Il problema è che noi non guardiamo più né gigli, né uccelli.
Ragioniamo spesso a vanvera, facciamo i filosofi, anche nelle nostre omelie.
Un sogno: se invece di parlare di provvidenza che, come tutti i concetti
astratti, non è subito digeribile, parlassimo del Padre che ci ama,
«predestinandoci a essere suoi figli...» (Ef 1,5) e ci chiama «a essere
conformi all’immagine del Figlio suo » (Rm 8,29) secondo un disegno
misterioso di salvezza, che ci lascia liberi; del Padre che si prende cura di
tutti, se solo lo permettiamo... e, se, dovendo proprio fare una citazione,
ricorressimo ai proverbi della gente: non accade nulla che Dio non voglia;
oppure a san Tommaso Moro: qualunque cosa avvenga sarà sempre per il
meglio?
Circa la nostra parte, per capire bene cosa ci tocca, basta rileggere un
paio di versetti della Genesi, quelli in cui si dice che l’uomo ha il compito di
coltivare e custodire il mondo (cf. Gn 2,15), e un paio di versetti dei vangeli
dove si parla di prossimo e di poveri ai quali è annunciata la buona novella
(cf. Gv 13,34; Mt 11,5).
Quanto alla coscienza, perché probabilmente non tutti potranno essere
subito consapevoli che l’impegno sociale ne suppone, a mo’ di prolegomeni,
tutta la teoria e la sua traduzione pratica, si potrebbe rimandare alle
sottolineature che ne ha fatto Benedetto XVI in Croazia, mentre questo testo
veniva riveduto.
«E qui vorrei introdurre il tema centrale della mia breve riflessione:
quello della coscienza. Esso è trasversale [...] ed è fondamentale per una
società libera e giusta, sia a livello nazionale che sovranazionale. [...] le
grandi conquiste dell’età moderna, cioè il riconoscimento e la garanzia della
libertà di coscienza, dei diritti umani, della libertà della scienza e, quindi, di
una società libera, sono da confermare e da sviluppare mantenendo però
aperte la razionalità e la libertà al loro fondamento trascendente, per evitare
che tali conquiste si auto-cancellino, come purtroppo dobbiamo constatare in
non pochi casi. La qualità della vita sociale e civile, la qualità della
democrazia dipendono in buona parte da questo punto “critico” che è la
coscienza, da come la si intende e da quanto si investe sulla sua formazione.
Se la coscienza, secondo il prevalente pensiero moderno, viene ridotta
all’ambito del soggettivo, in cui si relegano la religione e la morale, la crisi
dell’occidente non ha rimedio e l’Europa è destinata all’involuzione. Se
invece la coscienza viene riscoperta quale luogo dell’ascolto della verità e
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del bene, luogo della responsabilità davanti a Dio e ai fratelli in umanità –
che è la forza contro ogni dittatura – allora c’è speranza per il futuro.
[...] Ritorniamo dunque alla coscienza come chiave di volta per
l’elaborazione culturale e per la costruzione del bene comune. È nella
formazione delle coscienze che la Chiesa offre alla società il suo contributo
più proprio e prezioso. Un contributo che comincia nella famiglia e che trova
un importante rinforzo nella parrocchia »34.
Quanto all’attenzione al sociale, qua e là richiamata citando anche RdV,
è bene ricordare, a conferma delle cose dette, un passo della Caritas in
Veritate: «Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso
Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che
l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico
sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei
34
Benedetto XVI, «La coscienza chiave di volta per la costruzione del bene
comune». Discorso alle diverse componenti della società civile croata, Zagabria
sabato 4 giugno, l’Osservatore Romano 6/7 giugno 2011, p. 12.
Qualche settima più tardi, collegandosi alla pagina liturgica della Domenica nella
recita dell’angelus a Castel Gandolfo, ricordato come Salomone chiese a Dio
“un cuore docile” per sapere rendere giustizia al popolo e distinguere il bene dal
male (cf. 1 Re 3,9), il papa è tornato su tema della coscienza. Il “cuore” nella
Bibbia indica il centro della persona, la sede delle sue intenzioni e dei suoi
giudizi, la coscienza. « “Cuore docile” allora significa una coscienza che sa
ascoltare, che è sensibile alla voce della verità, e per questo è capace di
discernere il bene dal male. Nel caso di Salomone, la richiesta è motivata dalla
responsabilità di guidare una nazione (...) nelle vie del Signore, la via della
giustizia e della pace. Ma l’esempio di Salomone vale per ogni uomo. Ognuno di
noi ha una coscienza per essere in un certo senso “re”, cioè per esercitare la
grande dignità umana di agire secondo la retta coscienza operando il bene ed
evitando il male. La coscienza morale presuppone la capacità di ascoltare la voce
della verità, di essere docili alle sue indicazioni. Le persone chiamate a compiti
di governo hanno naturalmente una responsabilità ulteriore, e quindi (...) hanno
ancora più bisogno dell’aiuto di Dio. Ma ciascuno ha la propria parte da fare,
nella concreta situazione in cui si trova (...) la vera qualità della nostra vita e
della vita sociale dipende dalla retta coscienza di ognuno, dalla capacità di
ciascuno e di tutti di riconoscere il bene, separandolo dal male, e di cercare
pazientemente di attuarlo e così contribuire alla giustizia e alla pace» («Chi
governa il mondo ha più bisogno dell’aiuto di Dio», l’Osservatore Romano 2526 luglio 2011, p. 8).
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momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza,
dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione
alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio,
di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla
Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di
accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile
per trasformare i “cuori di pietra” in “ cuori di carne” (Ez 36,26), così da
rendere “divina” e perciò più degna dell’uomo la vita sulla terra. ». 35
Se, infine, si vuole conoscere il pensiero del Fondatore in proposito,
basta rileggere alcune righe di una sua meditazione su Saint Louis, re di
Francia: «La vraie dévotion loin d’être contraire à aucun progrès social, les
favorise tous et les élève à un plus haut degré». 36
Queste sono proprio di p. Dehon. Chiuse, infatti, le virgolette, comme il
faut, su una citazione di san Francesco di Sales, relativa alla pietà e alle virtù
civili, egli aggiunge il commento riportato, indubitabilmente suo.
E, infine, quanto alla morale sociale, ecco in sintesi cosa pensava: «On
demande parfois si l’Évangile contient une morale sociale. L’Évangile n’est
pas un catéchisme didactique, mais il trace les grandes règles de la morale,
aussi bien sociale que privée. Le décalogue est la base de toutes les
législations humaines et de toutes les relations sociales. Tout le malaise
social actuel vient de quelque violation du décalogue: travail servile du
dimanche, mépris des règles de respect et de justice dans l’organisation
industrielle ou dans le contrat du travail, etc.
Notre Seigneur a confirmé le décalogue, il en a demandé instamment le
respect. Pour adoucir les rouages de da justice, il y a ajouté le baume de la
charité, de la douceur, du sacrifice, qui sont les vertus chères à son Cœur.
Ceux qui croient pouvoir faire oublier leur peu de souci de la justice en
distribuant quelques aumônes, ne comprennent rien à l’Évangile…». 37
35
36
37
Caritas in veritate, n. 79, ibidem.
L. Dehon, L’année avec le Sacré Cœur. Méditations pour tous les jours de
l’année…, ; II, 24 août, «Saint Louis» , Deuxième point: “Sa piété et ses vertus
civiles ”, p. 180 ; Tournai – Paris 1919.
L. Dehon, L’année avec le Sacré Cœur. Méditations pour tous les jours de
l’année II, Premier Juillet, «Le Cœur de Jésus dans sa vie publique», 3ème point:
“La morale sociale”, p. 12, citato.
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