LG
Biblioteca della Montagna - CAI Milano
Club Alpino Italiano
Sezione di Milano
Biblioteca
Luigi Gabba
archivio storico
e fotografico
Servizio
Bibliotecario
Nazionale
Anno XI N.39 - Estate 2015
Direzione e redazione
Via Duccio di Boninsegna 21 - 20145 Milano
Tel. 0291765944 - Fax 028056971
www.caimilano.eu
email: [email protected]
Dino Buzzati
Dalla fortezza
bastiani di
via solferino
descriveva
l’alpinismo “un
assedio senza
fine”
Edizioni rare
così i geologi
istruivano le
truppe sulle
insidie della
montagna
Serate
culturali
tra i tanti
incontri al cai
milano anche
teresio valsesia
col suo
camminaitalia
LG
Serate culturali
Biblioteca della Montagna - CAI MIlano
Anno XI N.39 - Estate 2015
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Biblioteca della Montagna - CAI Milano
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È vietata la riproduzione anche parziale di testi,
fotografie, schizzi, figure, disegni, senza esplicita
autorizzazione.
Layout: Lorenzo Serafin
La redazione accetta articoli, possibilmente
succinti, compatibilmente con lo spazio, riservandosi ogni decisione sul momento e la forma
della pubblicazione. Gli argomenti trattati
sono in genere correlati alla ricca bibliografia
consultabile presso la Biblioteca della Montagna Luigi Gabba del Cai Milano.
Club Alpino Italiano
Sezione di Milano
fondata nel 1873
6.206 soci (fine dicembre 2013)
Distribuzione
riservata
gratuitamente
a soci
e simpatizzanti
In copertina la
riproduzione di una
fotografia di Buzzati
in montagna nel
1929. Sullo sfondo si
intravedono le Tre
Cime di Lavaredo
(arch. Lorenzo Viganò)
L’immagine nel testo
ritrae da destra Teresio
Valsesia, ideatore di
camminaitalia assieme
a Lorena Sfreddo,
socia della sezione
CAI di Cornaredo
e del gruppo Club
Camminaitalia e Marco
Rigini, cofondatore di
varie associazioni e
promotore di escursioni
per vie storiche e
terre alte, oltre che di
itinerari alla scoperta
del Basso Milanese
Teresio Valsesia e il Camminaitalia
il trekking più lungo del mondo
N
on capita tutte le sere di apprendere da
un esperto tra i più competenti in materia i segreti e le specificità delle pratiche di
reinserimento dell’orso sulle nostre montagne; e il suo intervento fa parte di uno spettacolo articolato in cui si alterna una voce narrante (Carola Caruso) e un trio d’archi (Trio
Cavalazzi), e dove un autore d’eccezione, Rosario Fichera, presenta il suo romanzo storico “Il soffio dell’orsa” in parole e musica a un
pubblico attento e incantato. Ecco cos’hanno
combinato quelli della commissione culturale, Luisa Ruberl, Marco Polo, Marco Dalla
Torre e Lorenzo Serafin:
un esercizio tutt’altro che
sterile considerato il gradimento del pubblico in sala
e per certi versi lo stupore
nell’assistere al Cai Milano a una serata così multidisciplinare. Durante la
presentazione, l’autore assieme ad Andrea Mustoni,
responsabile
dell’Ufficio
faunistico del parco Adamello Brenta che ha collaborato attivamente all’organizzazione dell’evento,
dialoga con il pubblico sui
risvolti ambientalisti che
il tema della salvaguardia
dell’orso pone nelle comunità alpine, con particolare
riferimento al progetto europeo “Life Ursus”
per la reintroduzione di questa specie sulle
nostre montagne.
La collaborazione con l’associazione Alpes,
di sede a Trento e dedita alla promozione
di attività di studio e di rivalutazione
delle culture dei territori alpini, dà buoni
frutti. Oltre all’Orsa che è andata in onda a
gennaio, assieme ad Alpes si è organizzata
una bella serata di architettura dedicata
alla recente edizione di “Destinazione
paradiso” un volume interamente dedicato
allo SportHotel della Val Martello di Giò
Ponti; oltre all’autore Luciano Bolzoni e a
Cristina Busin, presidente di Alpes messo
a confronto esperienze e generazioni di
architetti alpini: il nostro Luigi Barsanti,
presidente della Commissione rifugi del cai
Milano ha portato una testimonianza di Giò
Ponti vissuta prima da studente e poi durante
i viaggi in Iran dove il grande architetto
LG_giugno 2015 2
milanese realizzava l’ambasciata italiana;
e le interessanti esplorazioni dell’architetto
Enrico Scaramellini sull’architettura che si
fa segno nel paesaggio alpino alla ricerca di
legami profondi.
La collaborazione è un imperativo categorico e quando si parla di montagna e di cultura alpina; pur stando coi piedi in città, si
avverte la necessità di fare rete per superare
l’ostacolo di un pubblico non sempre attratto da episodi e proposte che, spesso a torto,
vengono considerate minori. La montagna
poi, intesa al di fuori dei grandi eventi ludi-
co sportivi e dell’alpinismo estremo, tende
a rimanere in disparte, ignota alle masse,
come Expo 2015 sta dimostrando.
Non è questo il caso delle due mostre proposte e organizzate dalla Commissione
culturale: la mostra fotografica di Paolo
Miramondi, in collaborazione con la Commissione escursionismo, che ha documentato il trekking dell’estate 2014 dei nostri
soci sul monte Ararat, montagna sacra per
il popolo armeno, e la mostra su “Ruchin,
piccolo grande rocciatore” generosamente
ospitata negli spazi della biblioteca Luigi
Gabba. Due argomenti di spessore che hanno valso la partecipazione di ospiti d’eccezione: il Console onorario armeno in Italia
Pietro Kuciukian in un dialogo serrato con
Lorenzo Cremonesi inviato di guerra di Corsera sulla tragedia del popolo armeno all’alba del primo conflitto mondiale; Ruggero
Meles, Roberto Benini e Alberto Pirovano
Edward Whimper
alle prese con la memoria di Ercole Esposito, detto Ruchin, e la bella mostra che Luca
Rota ha curato per il Cai di Calolziocorte.
Relatori d’eccezione e personalità di spicco del mondo della montagna non si fanno
pregare e vengono volentieri nelle fresche
sale attrezzate della nostra sezione a testimoniare la loro passione e attaccamento
alla montagna.
Così è stato per Marco Valentini, già prefetto di Lecco, che da Roma ove ora risiede ha
risalito metà penisola per incontrare il suo
amico Gigi Alippi, compagno di penna e di
“strimpellate” nel bel volume autobiografico
“Il profumo delle mie montagne”; una serata cottraddistinta da un dialogo fitto tra un
pubblico di appassionati e il “ragno” Alippi
che ha raccontato i retroscena di tante avventure con Riccardo Cassin, Casimiro Ferrari e i retroscena del suo
recente cimento letterario, nato per
raccontare un alipinismo fatto soprattutto di amicizie e relazioni.
Ancora tra gli ospiti eccezionali del
Cai Milano abbiamo avuto Tino
Albani, accademico e già per molti
anni presidente della Parravicini,
che è tornato con gioia nella “sua”
sezione per raccontare le immagini raccolte in questi anni di magici
viaggi dall’Himalaya al Sahara.
Tra le serate di giugno c’è quella
con Teresio Valsesia che ha accettato l’invito di Marco Righini, della
Commissione scientifica, a portare al Cai-Mi il film girato nel 1995
in occasione della prima edizione
del Camminaitalia: un impresa che
Teresio volle fortemente e che lo portò a
rinunciare alla presidenza del Club Alpino.
Il film girato da Renato Andorno, all’epoca
fotoreporter della Rai, racconta il cammino
di oltre 6.000 km dalla Sicilia a Trieste alla
scoperta di un Italia ricca di tradizioni e di
culture, con l’intento di rilanciare attraverso il Cai un messaggio di unità nazionale,
purtroppo negli ultimi anni dato sempre
meno per scontato.
Stupisce quindi che attraverso le pagine della stampa del Cai nazionale non emerga con
evidenza la notizia di questo ventennale: un
lancio che varrebbe bene la prima pagina di
Montagne360 considerato che è stato proprio
uno dei maggiori network televisivi mondiali, la CNN, a indicare il Caminaitalia come il
trekking più lungo del pianeta. Un “lancio”
da sfruttare anche per rilanciare nel nostro
paese, così montano ma anche sedentario, un
■
più autentico turismo sostenibile.
L’ultima visita al suo Cervino
P
ubblicato recentemente in lingua francese su una edizione
svizzera il saggio di Angelo Recalcati intitolato La dernière
fois que je vis le Cervin racconta in prima persona gli ultimi giorni di Whimper. La lettera preziosa che il grande alpinista, primo
salitore del Cervino, scrisse all’amico americano Henry F. Montagnier ha ispirato Recalcati a ripercorrere la storia alpinistica
del Matterhorn con gli occhi del suo primo salitore. La lettera è
particolarmente importante poiché è stata scritta tre settimane
prima della sua morte: Whimper sentiva la fine imminente e la
sua vitalità e il suo spirito inflessibile sono ben documentate da
questo scritto autografo.
Giunse a Zermatt il 21 agosto 1911, incomprensibilmente non
trovò alloggio, e scrisse a Montagnier: non c’è molto da riferire, eccetto che sono stato lasciato fuori Zermatt (...) ho trovato
impossibile ottenere una stanza. La maggior parte dei turisti
erano i tuoi amici tedeschi; c’erano un po’ di americani, ma pochissimi inglesi. Così è possibile trascrivere dalla lettera autografa che il libraio milanese ha voluto gentilmente inviare in copia
alla redazione di LG e che è riprodotta qui sopra.
Mi hanno confinato in una piccola stanzetta mansardata, devo
tenere la testa bassa e soffro di angina, a 3000 metri non va per
niente bene... per contro se mi affaccio dalla cappuccina godo di
uno spettacolo meraviglioso, all’imbrunire il cielo è puntellato
da una miriade di stelle, la luna non si è ancora alzata e io indovino la sua silouette che come una carta assorbente si prende
la luce delle stelle. Così racconta il Whimper/Recalcati che sarà
posibile godersi in lingua italiana sul prossimo numero di Vertice, l’annuario della sezone di Valmadrera.
Nella lettera c’è poi un importante riferimento all’incontro con
il reverendo Coolidge, a Grindenwald, per redimere una lite che
minava il rapporto tra i due grandi alpinisti inglesi da circa quarant’anni. Si trattava della questione del salto di un crepaccio da
parte di Christian Almer, guida di Whimper in una ascensione sulla Berre des Ecrins; Whimper aveva descritto e illustrato l’impresa
ed era stato contestato da Coolige dando vita a un annosa contesa... Insomma, da poche righe autografe lo spunto per ricapitolare
la visione e lo spirito di un alpinista e di un impresa che ancora
oggi, nel 150° anniversario riempie le pagine delle maggiori testate, oltre che quelle di alcune attente pubblicazioni sezionali.
■
3 LG_giugno 2015
Domanda di ammissione
Buzzati, i tartari e l’assedio senza fine
S
Qui sopra un
immagine scattata
da Rolly Marchi
dell’autore alle
prese con la sua
fedele macchina da
scrivere; a destra
nel testo la domanda
di iscrizione al Cai
Milano di cui Buzzati
fece parte da alpinista
praticante a partire
dal 1929. Qui sotto la
copertina dell’edizione
economica del suo
celebre romanzo
ettantacinque anni
sono trascorsi dalla pubblicazione del
suo “Deserto dei tartari” e questo particolare basta a giustificare, in questo 2015,
un ricordo di Dino
Buzzati (1906-1972),
la cui “presenza” nella
nostra cultura e nello
scenario delle nostre
montagne è un dato
di fatto facilmente
verificabile nel continuo succedersi di
saggi che riguardano
la sua poetica, i suoi
problemi esistenziali.
Sarà anche, nel farcelo sentire vicino, che
le minacce niente affatto immaginarie dei
tetri guerrieri dell’Isis
rimandano inevitabilmente ai Tartari che
assediano la sua Fortezza Bastiani.
Così come è sempre attuale il suo porsi nei
confronti di un certo alpinismo che lui considerava “una pazzia” salvo poi ricredersi e tesserne le lodi. Ma lo faceva per non alienarsi
le simpatie dei supermen che ammirava, non
da pari a pari che non sarebbe stato tecnicamente possibile.
“Chi più di Dino personifica e sublima il miglior modello dell’alpinista medio?”, si chiese
Gabriele Franceschini che fu sua guida affezionata nel Primiero e notò nel suo affrontare le pareti “curiosità e paura” ma anche “dedizione continua”. Non quanto bastò tuttavia
per assicurargli l’iscrizione al Club accademico che tanto vagheggiò Buzzati cercando
invano di conquistarsene i favori.
Nel 1948, quando Franceschini entrò nel novero delle sue guide (le altre furono Quinz,
Schranzhofer, Apollonio) la guida aveva appena compiuto la seconda salita solitaria,
dopo Comici nel 1937, di una via di sesto
grado: la Solleder-Kummer al Sass Maor
nelle Pale di San Martino suscitando nel suo
nuovo, illustre cliente una fortissima impressione. Erano trascorsi poco più di vent’anni
dall’iscrizione quale “socio studente” di Buzzati alla sezione milanese del Club alpino, e
quella sua richiesta in carta ingiallita, oggi
conservata nel sancta sanctorum della Bi-
LG_giugno 2015 4
blioteca Luigi Gabba, riporta che era iscritto
anche al primo anno dell’Università di Milano (facoltà di Giurisprudenza).
Di scalate in effetti poté concedersene in misura ridotta sia pure mettendo in mostra una
certa eleganza e privilegiando il Gruppo delle
Pale di San Martino e le Dolomiti ampezzane. Del resto nel ‘28 dopo avere conseguito
la laurea si lasciò volentieri ingabbiare nella “fortezza Bastiani” del Corriere della Sera
come cronista praticante incaricato di fare il
giro dei commissariati a caccia di notizie.
Visse poi per una dozzina d’anni l’esperienza
di inviato di guerra, imbarcato su incrociatori della Regia Marina stringendo amicizia
con l’ufficiale Mario Nelli, suocero dell’autore di queste note, che ebbe anche il privilegio di conoscerlo sia in via Solferino sia
sui campi di sci dove si disputavano le gare
dei giornalisti. Buzzati si unì quella volta ai
colleghi in veste di spettatore evitando di affrontare i paletti, anche se spasimava per “i
due inseparabili gemelli” sognandosi di notte
quella “posizione a virgola” di cui teorizzava
l’austriaco Kruckenhauser in un manuale
che lui stesso tradusse con la collaborazione
di Franco Mandelli, maestro di sci e accademico del CAI.
Che tipo fosse Buzzati non occorre qui ripeterlo: lo si intuisce dalle immagini che circolano di lui, sempre un po’ impettito, il tratto
militaresco da circolo ufficiali che metteva
in soggezione. E venata di militarismo era la
“Famosa invasione degli orsi” che apparve a
puntate sul Corriere dei Piccoli e i nostri genitori ci leggevano la sera e poi ci sognavamo
puntualmente la notte.
I suoi quadri con quelle montagne esili e inquietanti tappezzano oggi fin sul soffitto la
casa in via Vittorio Veneto della signora Almerina, sua moglie, dove una delegazione del Cai
si recò nel 2013 per ottenere in prestito, per la
mostra “La Lombardia e le Alpi” allestita nel
vicino Spazio Oberdan, il celebre “Duomo di
Milano”, una tempera su olio del 1958, uno
dei suoi quadri più famosi. Il dipinto tradisce
sicuramente la sua nostalgia per le Dolomiti,
di cui sentiva spesso la mancanza. Apparve
per la prima volta sulla copertina di “Bàrnabo
delle montagne”, il suo primo romanzo scritto nel 1933. “La pittura”, diceva Buzzati, “per
me non è un hobby, ma è il mio vero mestiere:
anche se nei quadri continuo a narrare delle
storie come nei libri”.
Praticava in quegli anni per lo più la montagna “scritta” o “parlata”, raccontando del
K2 o della tragedia del Pilone Centrale. “Ma
Grandi mostre
Il catalogo donato dalla
nipote di Segantini
A
non è una pazzia?”, si chiese appunto dopo
la sciagura. Ma non andò oltre nella requisitoria e rese giustizia a Walter Bonatti concludendo il suo articolo: “Guai se a questo
mondo non ci fossero uomini come i Bonatti
e gli Oggioni. E c’è da giurare che quando
partirono gli argonauti, quando Ulisse tentò
le colonne d’Ercole, quando Icaro fece il famoso volo, i commenti in piazza furono tali e
quali oggi per la tragedia del Monte Bianco,
con le stesse identiche parole”.
Più drastico era stato quattro anni prima
il suo giudizio dopo la drammatica scalata
invernale dello sperone Moore di Bonatti e
Gheser costata la vita ai giovani Henry e Vincendon. “Basterebbe”, aveva scritto, “che,
nell’evenienza di imprese audacissime, sì ma
di discutibile costrutto come le scalate fatte
nella stagione avversa, basterebbe che giornali, riviste, radio e televisione mantenessero un ermetico silenzio, senza cronache, né
interviste, né fotografie grandezza pagina.
Se questo progetto, ahimè troppo utopistico, potesse realizzarsi, siamo convinti che
la solitudine dei più audaci picchi non sarebbe turbata da nessuno per tutta la durata dell’inverno”. Quell’alpinismo che oggi si
direbbe estremo sicuramente lo affascinava
ma non lo condivideva.
Roberto Serafin
Palazzo Reale di Milano si è tenuta nei mesi scorsi la mostra dedicata a Giovanni Segantini che, curata dalla maggiore esperta del pittore - Annie Paule Quinsac - ha riunito
120 opere del grande artista trentino. Scopo della rassegna è
stato quello di offrire al grande pubblico e agli studiosi la panoramica più completa dell’opera di Segantini: dai paesaggi
dove ritrae Milano, centrale per la sua vita e la sua carriera
così come l’Engadina, agli autoritratti, dai magnifici ritratti
maschili e femminili alle meravigliose nature morte, dai grandi capolavori svizzeri dedicati alle Alpi.
Giovanni Segantini (Arco 1858 – Schafberg 1899), uno dei più
grandi pittori di fine Ottocento, in una mostra che raccoglie
per la prima volta a Milano 139 opere da importanti musei europei e statunitensi. Abbiamo visitato la mostra che si è tenuta
presso i Saloni del Palazzo Reale di Milano dedicata alle opere
del grande Giovanni Segantini. Siamo stati invogliati anche
dal fatto che la pronipote del pittore ha fatto dono alla nostra
Biblioteca del magnifico catalogo sul quale sono illustrate tutte le opere esposte.
Nato in terra irredenta, Segantini non riuscì mai ad ottenere
la cittadinanza italiana da lui tanto ambita; ritenuto austriaco dagli austriaci fino alla prima guerra mondiale e tutt’ora
considerato svizzero dagli svizzeri (nei Grigioni visse durante
i 13 anni più produttivi e importanti della sua vita), fu quindi
oggetto di numerosissimi studi da parte di critici tedeschi e
austriaci più ancora che italiani.
E’ difficile trovare un artista moderno sul quale sia stato scritto così tanto. La sua infanzia fu segnata, fin dai primissimi
anni, da tristi vicissitudini familiari. Mortagli la madre quando aveva appena sette anni, fu condotto dal padre a Milano
e affidato a una sorellastra. Si iscrisse alla scuola serale di
Brera e divenne assistente di un pittore di bandiere. Seguì i
corsi diurni di pittura all’Accademia sotto la guida di Guido
Carmignani. Si trasferì poi in Svizzera nel Cantone dei Grigioni. Morì stroncato da una peritonite mentre sulla vetta dello
Schafberg stava dipingendo “Il trittico della montagna”.
Renato Lorenzo
5 LG_giugno 2015
Edizioni rare
Così i geologi “insegnarono” alle truppe a dife
D
Qui sopra la
copertina di uno
dei rari volumi,
conservati
nella biblioteca
dell’Istituto
di Geologia
dell’Università
di Milano; in
queste pagine
due immagini
tratte dall’archivo
fotografico della
biblioteca Luigi
Gabba e che
ritraggono gli
alpini in partenza
dal Castello di
Sondrio e, in
alto, la bandiera
issata dagli sulla
Vetta d’Italia
(Glockenkarkopf
2912 m)
urante la prima guerra mondiale una parte
considerevole del fronte italiano era costituito
dall’arco alpino. Nel tentativo di dare alle truppe, o
almeno ai loro ufficiali, una
sommaria conoscenza di
queste zone, i comandi delle armate italiane stamparono nel 1915-1918 diversi
opuscoli informativi, andati nella maggior parte dei
casi perduti. Nella maggioranza dei casi però sembrano più esercitazioni accademiche che manuali volti
a dare alle truppe semplici
e concisi consigli su come
comportarsi.
Mario Silvestri nella sua opera “Caporetto:
una battaglia e un enigma” ha notato la condiscendenza con cui le conoscenze pratiche
erano considerate rispetto a quelle accademiche; parlando del pur valoroso storico
Adolfo Omodeo riporta come lo studioso,
imbevuto di studi classici, considerasse “cultura contadinesca” l’abilità di scavare con
perizia un ricovero o di muovere un pezzo
d’artiglieria senza farlo cadere in un burrone, senza rendersi conto che quelle erano le
nozioni veramente importanti per la guerra.
Insieme allo stile retorico dell’epoca, questa
impostazione mentale sfociava in una scarsa
considerazione per le esigenze pratiche dei
soldati su ogni fronte.
Il volumetto “Il pericolo delle valanghe in
primavera” è quello che maggiormente si
avvicina a una guida per il soldato alla guerra montana. Dichiara esplicitamente che
“Queste elementari nozioni, già familiari alle
truppe alpine, sono rivolte sopratutto alle
fanterie non alpine viventi ora in alta e media montagna, o nel fondo di valli, in zona
alpina”. Seguono consigli sulle ore in cui
muoversi, su come portarsi dietro le corde
ignorando la superstizione che portino sfortuna, di procedere in squadre ben separate
le une dalle altre, e di usare come guide gente del posto, “Il montanaro desto e amante
delle alpi sente la valanga, cioè la presente;
il cielo, l’aria e la temperatura”.
A parte questa luminosa eccezione gli altri
scritti sembrano poco legati all’esperienza
vissuta. Michele Gortani scrive nel 1917 “Notizie sui monti di frontiera della Zona Carnia
nel settore Paralba-Canin e loro sistemazio-
LG_giugno 2015 6
ne difensiva quale risulta da informazioni
attendibili varie, Parte prima, Cenni geografici – logistici”. Studioso già affermato ed
esperto delle Alpi Carniche, condensa la sua
esperienza in queste pagine, arricchite di
quattro schizzi del territorio di cui solo uno
rimasto. Risale al 1918 “Cenni monografici
sulla Carta geologica del Grappa”, della sezione cartografica dell’armata del Grappa,
riassunto di studi anteguerra di Torquato
Taramelli (Monografia stratigrafica Paleontologica del Lias nelle provincie venete –
Geologia delle province venete) e di Arturo
Rossi (La provincia di Treviso). L’accademismo di queste opere è rilevante; il fatto di
sapere sulla geologia del M. Grappa che “Sul
M. Sole i calcari grigi sono coperti da calcari
e dolomie calcarifere rosee e cineree; furono
trovati nella località detta Croce di Valpore
l’H. Murchisano e l’Amm. Fallax e molti ammoniti” non sembra molto importante per le
operazioni belliche.
Michel Gortani tornerà sull’argomento a
guerra finita con un breve articolo, “La geologia e la guerra di posizione”. In queste
poche pagine sostiene l’utilità dello studio
accademico della materia, indispensabile
per la logistica e il trasporto dei materiali.
In conclusione parla di una conoscenza acquisita nel corso della guerra: l’uso di una
“roccia” particolare, la neve. Nella neve si
possono scavare gallerie e trincee, che si
mantengono nel periodo estivo, la loro resistenza ai proiettili è minima, ma si possono rinforzare bagnando le pareti affinché
si ghiaccino o rafforzandole con blocchi di
neve compressa, bagnata e ghiacciata. Chissà se durante la guerra era stato stampato un
opuscolo con queste preziose informazioni.
a difendersi dalle insidie del territorio alpino
Chiudiamo questa breve carrellata con un
accenno agli scritti che vogliono solo essere
apologetici, come il testo di una conferenza
di Federico Sacco, “La geologia e la guerra”. Sacco, eminente geologo, si esercita sui
temi dell’italianità geologica della Venezia
tridentina e dell’adriatico, affermando per
esempio che, poiché l’Adriatico è destinato a
essere colmato dai detriti dei monti italiani
portati dal Po’, è “ben giusto che l’Adriatico appartenga liberamente all’Italia”. Sullo
stesso tono Mario Tedeschi nella sua con-
ferenza “L’Alpinismo e la guerra” del 1916
ricorda gli “Arrabbiati accademici, che avevano temprato i muscoli sulle rupi granitiche delle guglie di Chamonix o sulle pareti
vertiginose del Catinaccio, del Cimon della
Pala, delle Cime di Lavaredo e di tutte le più
celebrate montagne dolomitiche, deposta la
piccozza per il moschetto, accorsero a guidare i nostri soldati là dove più aspra e terribile
era la montagna”.
Ivan Costanza
Biblioteca Università degli Studi di Milano
7 LG_giugno 2015
Pioniere dell’ingegneria sismica
La lezione di Grandori, alpinista e intellettuale
I
Qui sopra Pippo
Grandori in azione
sulla via Grandori,
sulla parete est del
pizzo Rachele
l nome di Giuseppe Grandori, socio della sezione milanese del CAI a partire dal
1945, dopo una precedente militanza nella
SUCAI, non è certamente noto oggi in Italia
come meriterebbe. Anzi probabilmente la
sua conoscenza non si estende al di fuori della cerchia di chi si occupa di rischi sismici e
di quanti lo ebbero come docente fra le mura
del Politecnico.
Giuseppe “Pippo” Grandori (1921) è alpinisticamente meno noto del fratello Nando
(1920), autore di alcune prime di rilievo, soprattutto sulle montagne della Val Malenco,
caduto nell’estate del 1945 col comasco Carlo
Valli sulla via Solleder in Civetta e ricordato
dal Bivacco posto dal 1948 al Passo di Mello
e intitolato a suo nome, unitamente a quello
di Carla Odello, sua compagna di ascensione
in diverse salite perita nel 1944 sulla Cima di
Vazzeda.
I due fratelli insieme hanno effettuato la prima ripetizione invernale della Corda Molla
del Disgrazia (26-27 dicembre 1940) e la seconda ascensione assoluta della diretta alla
parete sud dello Scerscen (via Folatti- Corti)
con successiva traversata al Bernina (14 luglio 1942). Inoltre hanno firmato (25 agosto
1943) una nuova via sullo spigolo est-sud-est
del Pizzo Rachele, di cui compiranno anche
la prima invernale nel gennaio del 1944.
Intrapresa, a partire dal 1951, la carriera
accademica e sposatosi con Elisa Gaugenti
(anche lei docente fra la Statale e il Politecnico di diverse discipline) Pippo Grandori
ha continuato a praticare l’alpinismo, spesso
in compagnia della moglie, dando costantemente corpo ad un amore per la natura e per
gli spazi aperti realizzatosi oltre che in montagna nella navigazione, nei viaggi anche un
po’ avventurosi, in un approccio profondamente anticonvenzionale, anche se alieno
dalle ostentazioni, a tutte le circostanze della
vita. A partire dal 1963 Grandori comincia ad
occuparsi di ingegneria sismica, materia praticamente inesistente in Italia, arrivando in
breve tempo a produrre gli strumenti scientifici basilari per la sua diffusione, organizzando corsi, seminari e convegni. Fonda così
in Italia tale importante disciplina, diventandone il caposcuola indiscusso. La produzione della prima mappa sismica del paese nel
1980 e il contributo dato alla ricostruzione
successiva al terremoto del Friuli 1976, sono
fra i frutti più visibili del lavoro di equipe che
ha sempre saputo guidare, promuovendo costantemente un clima di collaborazione. Un
contesto in cui era sempre ben chiaro l’obiet-
LG_giugno 2015 8
tivo di giungere senza divagazioni al nucleo
dei problemi, ma che contemporaneamente
“faceva scuola” cioè suscitava e incoraggiava
costantemente la collaborazione mai gerarchica fra insegnanti e allievi.
Una figura luminosa di intellettuale a tutto
campo, che con queste parole, rivolte ai suoi
allievi, si congedava dalla cattedra universitaria di Scienza delle Costruzioni che aveva
tenuto dal 1961 al 1996:
La comunicazione fra generazioni incontra
sempre qualche difficoltà, tuttavia ho sempre ritenuto affascinante il mio lavoro, sia
dal punto di vista dei contenuti intellettuali
sia per il tipo di rapporto umano che dell’insegnamento si instaura.[…] Forse questo
desiderio di confessione deriva anche dal
fatto che chi insegna, se ha fatto una scelta
elettiva e non imposta dalle circostanze, è in
generale persona che ama lo studio e come
spesso capita pensa che anche gli altri non
possano fare a meno di apprezzare la bellezza dell’oggetto di cui si è innamorato. […]
Studiare significa, in primo luogo, mettersi
in comunicazione, (a lezione, sui libri o più
semplicemente dei comuni rapporti interpersonali) con chi prima di noi ha studiato.
Proprio quella comunicazione che talvolta
si presenta difficile ma che, nelle molteplici
forme in cui si è storicamente concretata,
è stata ed è la base di quello straordinario
processo al quale si vuol dare sinteticamente il nome di “progresso del genere umano”.
[…] un processo singolare: fragile, e al tempo stesso impetuoso e forse incontrollabile.
Fragile, almeno in linea di principio, perché,
se si interrompesse per una o due generazioni la situazione arretrerebbe di un numero
incalcolabile di anni. Impetuoso e forse incontrollabile, come dimostrano le gravi preoccupazioni attuali circa le nefaste influenze dello sviluppo tecnologico sull’equilibrio
ecologico del pianeta. Ma se c’è una speranza di riprendere il controllo e di correggerne le storture, questa risiede nella capacità
delle nuove generazioni di comprendere appieno il messaggio che ricevono, di analizzarlo criticamente e di orientare conseguentemente gli sviluppi successivi.
Affinché ciò possa avvenire, è importante
che il bagaglio attuale di conoscenze e di valori venga offerto e spiegato ai giovani. Ma
non presentato come un insieme di verità
indiscutibili. Si dica cioè dove si è arrivati e
perché, così che i giovani possano consapevolmente procedere alle loro scelte, che defi■
niranno il mondo di domani. 
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Giugno 2015 - CAI Milano