LG Biblioteca della Montagna - CAI Milano Club Alpino Italiano Sezione di Milano Biblioteca Luigi Gabba archivio storico e fotografico Servizio Bibliotecario Nazionale Anno XI N.39 - Estate 2015 Direzione e redazione Via Duccio di Boninsegna 21 - 20145 Milano Tel. 0291765944 - Fax 028056971 www.caimilano.eu email: [email protected] Dino Buzzati Dalla fortezza bastiani di via solferino descriveva l’alpinismo “un assedio senza fine” Edizioni rare così i geologi istruivano le truppe sulle insidie della montagna Serate culturali tra i tanti incontri al cai milano anche teresio valsesia col suo camminaitalia LG Serate culturali Biblioteca della Montagna - CAI MIlano Anno XI N.39 - Estate 2015 Direzione e redazione Via Duccio di Boninsegna 21 - 20145 Milano Tel. 0291765944 - Fax 028056971 www.caimilano.eu email: [email protected] Coordinamento redazionale: Renato Lorenzo e-mail: [email protected] Biblioteca della Montagna - CAI Milano Via Duccio di Boninsegna 21,23 - 2045 Milano orario martedì 10:00-18:00/21:00-22:00 giovedì 10:00-18:00 È vietata la riproduzione anche parziale di testi, fotografie, schizzi, figure, disegni, senza esplicita autorizzazione. Layout: Lorenzo Serafin La redazione accetta articoli, possibilmente succinti, compatibilmente con lo spazio, riservandosi ogni decisione sul momento e la forma della pubblicazione. Gli argomenti trattati sono in genere correlati alla ricca bibliografia consultabile presso la Biblioteca della Montagna Luigi Gabba del Cai Milano. Club Alpino Italiano Sezione di Milano fondata nel 1873 6.206 soci (fine dicembre 2013) Distribuzione riservata gratuitamente a soci e simpatizzanti In copertina la riproduzione di una fotografia di Buzzati in montagna nel 1929. Sullo sfondo si intravedono le Tre Cime di Lavaredo (arch. Lorenzo Viganò) L’immagine nel testo ritrae da destra Teresio Valsesia, ideatore di camminaitalia assieme a Lorena Sfreddo, socia della sezione CAI di Cornaredo e del gruppo Club Camminaitalia e Marco Rigini, cofondatore di varie associazioni e promotore di escursioni per vie storiche e terre alte, oltre che di itinerari alla scoperta del Basso Milanese Teresio Valsesia e il Camminaitalia il trekking più lungo del mondo N on capita tutte le sere di apprendere da un esperto tra i più competenti in materia i segreti e le specificità delle pratiche di reinserimento dell’orso sulle nostre montagne; e il suo intervento fa parte di uno spettacolo articolato in cui si alterna una voce narrante (Carola Caruso) e un trio d’archi (Trio Cavalazzi), e dove un autore d’eccezione, Rosario Fichera, presenta il suo romanzo storico “Il soffio dell’orsa” in parole e musica a un pubblico attento e incantato. Ecco cos’hanno combinato quelli della commissione culturale, Luisa Ruberl, Marco Polo, Marco Dalla Torre e Lorenzo Serafin: un esercizio tutt’altro che sterile considerato il gradimento del pubblico in sala e per certi versi lo stupore nell’assistere al Cai Milano a una serata così multidisciplinare. Durante la presentazione, l’autore assieme ad Andrea Mustoni, responsabile dell’Ufficio faunistico del parco Adamello Brenta che ha collaborato attivamente all’organizzazione dell’evento, dialoga con il pubblico sui risvolti ambientalisti che il tema della salvaguardia dell’orso pone nelle comunità alpine, con particolare riferimento al progetto europeo “Life Ursus” per la reintroduzione di questa specie sulle nostre montagne. La collaborazione con l’associazione Alpes, di sede a Trento e dedita alla promozione di attività di studio e di rivalutazione delle culture dei territori alpini, dà buoni frutti. Oltre all’Orsa che è andata in onda a gennaio, assieme ad Alpes si è organizzata una bella serata di architettura dedicata alla recente edizione di “Destinazione paradiso” un volume interamente dedicato allo SportHotel della Val Martello di Giò Ponti; oltre all’autore Luciano Bolzoni e a Cristina Busin, presidente di Alpes messo a confronto esperienze e generazioni di architetti alpini: il nostro Luigi Barsanti, presidente della Commissione rifugi del cai Milano ha portato una testimonianza di Giò Ponti vissuta prima da studente e poi durante i viaggi in Iran dove il grande architetto LG_giugno 2015 2 milanese realizzava l’ambasciata italiana; e le interessanti esplorazioni dell’architetto Enrico Scaramellini sull’architettura che si fa segno nel paesaggio alpino alla ricerca di legami profondi. La collaborazione è un imperativo categorico e quando si parla di montagna e di cultura alpina; pur stando coi piedi in città, si avverte la necessità di fare rete per superare l’ostacolo di un pubblico non sempre attratto da episodi e proposte che, spesso a torto, vengono considerate minori. La montagna poi, intesa al di fuori dei grandi eventi ludi- co sportivi e dell’alpinismo estremo, tende a rimanere in disparte, ignota alle masse, come Expo 2015 sta dimostrando. Non è questo il caso delle due mostre proposte e organizzate dalla Commissione culturale: la mostra fotografica di Paolo Miramondi, in collaborazione con la Commissione escursionismo, che ha documentato il trekking dell’estate 2014 dei nostri soci sul monte Ararat, montagna sacra per il popolo armeno, e la mostra su “Ruchin, piccolo grande rocciatore” generosamente ospitata negli spazi della biblioteca Luigi Gabba. Due argomenti di spessore che hanno valso la partecipazione di ospiti d’eccezione: il Console onorario armeno in Italia Pietro Kuciukian in un dialogo serrato con Lorenzo Cremonesi inviato di guerra di Corsera sulla tragedia del popolo armeno all’alba del primo conflitto mondiale; Ruggero Meles, Roberto Benini e Alberto Pirovano Edward Whimper alle prese con la memoria di Ercole Esposito, detto Ruchin, e la bella mostra che Luca Rota ha curato per il Cai di Calolziocorte. Relatori d’eccezione e personalità di spicco del mondo della montagna non si fanno pregare e vengono volentieri nelle fresche sale attrezzate della nostra sezione a testimoniare la loro passione e attaccamento alla montagna. Così è stato per Marco Valentini, già prefetto di Lecco, che da Roma ove ora risiede ha risalito metà penisola per incontrare il suo amico Gigi Alippi, compagno di penna e di “strimpellate” nel bel volume autobiografico “Il profumo delle mie montagne”; una serata cottraddistinta da un dialogo fitto tra un pubblico di appassionati e il “ragno” Alippi che ha raccontato i retroscena di tante avventure con Riccardo Cassin, Casimiro Ferrari e i retroscena del suo recente cimento letterario, nato per raccontare un alipinismo fatto soprattutto di amicizie e relazioni. Ancora tra gli ospiti eccezionali del Cai Milano abbiamo avuto Tino Albani, accademico e già per molti anni presidente della Parravicini, che è tornato con gioia nella “sua” sezione per raccontare le immagini raccolte in questi anni di magici viaggi dall’Himalaya al Sahara. Tra le serate di giugno c’è quella con Teresio Valsesia che ha accettato l’invito di Marco Righini, della Commissione scientifica, a portare al Cai-Mi il film girato nel 1995 in occasione della prima edizione del Camminaitalia: un impresa che Teresio volle fortemente e che lo portò a rinunciare alla presidenza del Club Alpino. Il film girato da Renato Andorno, all’epoca fotoreporter della Rai, racconta il cammino di oltre 6.000 km dalla Sicilia a Trieste alla scoperta di un Italia ricca di tradizioni e di culture, con l’intento di rilanciare attraverso il Cai un messaggio di unità nazionale, purtroppo negli ultimi anni dato sempre meno per scontato. Stupisce quindi che attraverso le pagine della stampa del Cai nazionale non emerga con evidenza la notizia di questo ventennale: un lancio che varrebbe bene la prima pagina di Montagne360 considerato che è stato proprio uno dei maggiori network televisivi mondiali, la CNN, a indicare il Caminaitalia come il trekking più lungo del pianeta. Un “lancio” da sfruttare anche per rilanciare nel nostro paese, così montano ma anche sedentario, un ■ più autentico turismo sostenibile. L’ultima visita al suo Cervino P ubblicato recentemente in lingua francese su una edizione svizzera il saggio di Angelo Recalcati intitolato La dernière fois que je vis le Cervin racconta in prima persona gli ultimi giorni di Whimper. La lettera preziosa che il grande alpinista, primo salitore del Cervino, scrisse all’amico americano Henry F. Montagnier ha ispirato Recalcati a ripercorrere la storia alpinistica del Matterhorn con gli occhi del suo primo salitore. La lettera è particolarmente importante poiché è stata scritta tre settimane prima della sua morte: Whimper sentiva la fine imminente e la sua vitalità e il suo spirito inflessibile sono ben documentate da questo scritto autografo. Giunse a Zermatt il 21 agosto 1911, incomprensibilmente non trovò alloggio, e scrisse a Montagnier: non c’è molto da riferire, eccetto che sono stato lasciato fuori Zermatt (...) ho trovato impossibile ottenere una stanza. La maggior parte dei turisti erano i tuoi amici tedeschi; c’erano un po’ di americani, ma pochissimi inglesi. Così è possibile trascrivere dalla lettera autografa che il libraio milanese ha voluto gentilmente inviare in copia alla redazione di LG e che è riprodotta qui sopra. Mi hanno confinato in una piccola stanzetta mansardata, devo tenere la testa bassa e soffro di angina, a 3000 metri non va per niente bene... per contro se mi affaccio dalla cappuccina godo di uno spettacolo meraviglioso, all’imbrunire il cielo è puntellato da una miriade di stelle, la luna non si è ancora alzata e io indovino la sua silouette che come una carta assorbente si prende la luce delle stelle. Così racconta il Whimper/Recalcati che sarà posibile godersi in lingua italiana sul prossimo numero di Vertice, l’annuario della sezone di Valmadrera. Nella lettera c’è poi un importante riferimento all’incontro con il reverendo Coolidge, a Grindenwald, per redimere una lite che minava il rapporto tra i due grandi alpinisti inglesi da circa quarant’anni. Si trattava della questione del salto di un crepaccio da parte di Christian Almer, guida di Whimper in una ascensione sulla Berre des Ecrins; Whimper aveva descritto e illustrato l’impresa ed era stato contestato da Coolige dando vita a un annosa contesa... Insomma, da poche righe autografe lo spunto per ricapitolare la visione e lo spirito di un alpinista e di un impresa che ancora oggi, nel 150° anniversario riempie le pagine delle maggiori testate, oltre che quelle di alcune attente pubblicazioni sezionali. ■ 3 LG_giugno 2015 Domanda di ammissione Buzzati, i tartari e l’assedio senza fine S Qui sopra un immagine scattata da Rolly Marchi dell’autore alle prese con la sua fedele macchina da scrivere; a destra nel testo la domanda di iscrizione al Cai Milano di cui Buzzati fece parte da alpinista praticante a partire dal 1929. Qui sotto la copertina dell’edizione economica del suo celebre romanzo ettantacinque anni sono trascorsi dalla pubblicazione del suo “Deserto dei tartari” e questo particolare basta a giustificare, in questo 2015, un ricordo di Dino Buzzati (1906-1972), la cui “presenza” nella nostra cultura e nello scenario delle nostre montagne è un dato di fatto facilmente verificabile nel continuo succedersi di saggi che riguardano la sua poetica, i suoi problemi esistenziali. Sarà anche, nel farcelo sentire vicino, che le minacce niente affatto immaginarie dei tetri guerrieri dell’Isis rimandano inevitabilmente ai Tartari che assediano la sua Fortezza Bastiani. Così come è sempre attuale il suo porsi nei confronti di un certo alpinismo che lui considerava “una pazzia” salvo poi ricredersi e tesserne le lodi. Ma lo faceva per non alienarsi le simpatie dei supermen che ammirava, non da pari a pari che non sarebbe stato tecnicamente possibile. “Chi più di Dino personifica e sublima il miglior modello dell’alpinista medio?”, si chiese Gabriele Franceschini che fu sua guida affezionata nel Primiero e notò nel suo affrontare le pareti “curiosità e paura” ma anche “dedizione continua”. Non quanto bastò tuttavia per assicurargli l’iscrizione al Club accademico che tanto vagheggiò Buzzati cercando invano di conquistarsene i favori. Nel 1948, quando Franceschini entrò nel novero delle sue guide (le altre furono Quinz, Schranzhofer, Apollonio) la guida aveva appena compiuto la seconda salita solitaria, dopo Comici nel 1937, di una via di sesto grado: la Solleder-Kummer al Sass Maor nelle Pale di San Martino suscitando nel suo nuovo, illustre cliente una fortissima impressione. Erano trascorsi poco più di vent’anni dall’iscrizione quale “socio studente” di Buzzati alla sezione milanese del Club alpino, e quella sua richiesta in carta ingiallita, oggi conservata nel sancta sanctorum della Bi- LG_giugno 2015 4 blioteca Luigi Gabba, riporta che era iscritto anche al primo anno dell’Università di Milano (facoltà di Giurisprudenza). Di scalate in effetti poté concedersene in misura ridotta sia pure mettendo in mostra una certa eleganza e privilegiando il Gruppo delle Pale di San Martino e le Dolomiti ampezzane. Del resto nel ‘28 dopo avere conseguito la laurea si lasciò volentieri ingabbiare nella “fortezza Bastiani” del Corriere della Sera come cronista praticante incaricato di fare il giro dei commissariati a caccia di notizie. Visse poi per una dozzina d’anni l’esperienza di inviato di guerra, imbarcato su incrociatori della Regia Marina stringendo amicizia con l’ufficiale Mario Nelli, suocero dell’autore di queste note, che ebbe anche il privilegio di conoscerlo sia in via Solferino sia sui campi di sci dove si disputavano le gare dei giornalisti. Buzzati si unì quella volta ai colleghi in veste di spettatore evitando di affrontare i paletti, anche se spasimava per “i due inseparabili gemelli” sognandosi di notte quella “posizione a virgola” di cui teorizzava l’austriaco Kruckenhauser in un manuale che lui stesso tradusse con la collaborazione di Franco Mandelli, maestro di sci e accademico del CAI. Che tipo fosse Buzzati non occorre qui ripeterlo: lo si intuisce dalle immagini che circolano di lui, sempre un po’ impettito, il tratto militaresco da circolo ufficiali che metteva in soggezione. E venata di militarismo era la “Famosa invasione degli orsi” che apparve a puntate sul Corriere dei Piccoli e i nostri genitori ci leggevano la sera e poi ci sognavamo puntualmente la notte. I suoi quadri con quelle montagne esili e inquietanti tappezzano oggi fin sul soffitto la casa in via Vittorio Veneto della signora Almerina, sua moglie, dove una delegazione del Cai si recò nel 2013 per ottenere in prestito, per la mostra “La Lombardia e le Alpi” allestita nel vicino Spazio Oberdan, il celebre “Duomo di Milano”, una tempera su olio del 1958, uno dei suoi quadri più famosi. Il dipinto tradisce sicuramente la sua nostalgia per le Dolomiti, di cui sentiva spesso la mancanza. Apparve per la prima volta sulla copertina di “Bàrnabo delle montagne”, il suo primo romanzo scritto nel 1933. “La pittura”, diceva Buzzati, “per me non è un hobby, ma è il mio vero mestiere: anche se nei quadri continuo a narrare delle storie come nei libri”. Praticava in quegli anni per lo più la montagna “scritta” o “parlata”, raccontando del K2 o della tragedia del Pilone Centrale. “Ma Grandi mostre Il catalogo donato dalla nipote di Segantini A non è una pazzia?”, si chiese appunto dopo la sciagura. Ma non andò oltre nella requisitoria e rese giustizia a Walter Bonatti concludendo il suo articolo: “Guai se a questo mondo non ci fossero uomini come i Bonatti e gli Oggioni. E c’è da giurare che quando partirono gli argonauti, quando Ulisse tentò le colonne d’Ercole, quando Icaro fece il famoso volo, i commenti in piazza furono tali e quali oggi per la tragedia del Monte Bianco, con le stesse identiche parole”. Più drastico era stato quattro anni prima il suo giudizio dopo la drammatica scalata invernale dello sperone Moore di Bonatti e Gheser costata la vita ai giovani Henry e Vincendon. “Basterebbe”, aveva scritto, “che, nell’evenienza di imprese audacissime, sì ma di discutibile costrutto come le scalate fatte nella stagione avversa, basterebbe che giornali, riviste, radio e televisione mantenessero un ermetico silenzio, senza cronache, né interviste, né fotografie grandezza pagina. Se questo progetto, ahimè troppo utopistico, potesse realizzarsi, siamo convinti che la solitudine dei più audaci picchi non sarebbe turbata da nessuno per tutta la durata dell’inverno”. Quell’alpinismo che oggi si direbbe estremo sicuramente lo affascinava ma non lo condivideva. Roberto Serafin Palazzo Reale di Milano si è tenuta nei mesi scorsi la mostra dedicata a Giovanni Segantini che, curata dalla maggiore esperta del pittore - Annie Paule Quinsac - ha riunito 120 opere del grande artista trentino. Scopo della rassegna è stato quello di offrire al grande pubblico e agli studiosi la panoramica più completa dell’opera di Segantini: dai paesaggi dove ritrae Milano, centrale per la sua vita e la sua carriera così come l’Engadina, agli autoritratti, dai magnifici ritratti maschili e femminili alle meravigliose nature morte, dai grandi capolavori svizzeri dedicati alle Alpi. Giovanni Segantini (Arco 1858 – Schafberg 1899), uno dei più grandi pittori di fine Ottocento, in una mostra che raccoglie per la prima volta a Milano 139 opere da importanti musei europei e statunitensi. Abbiamo visitato la mostra che si è tenuta presso i Saloni del Palazzo Reale di Milano dedicata alle opere del grande Giovanni Segantini. Siamo stati invogliati anche dal fatto che la pronipote del pittore ha fatto dono alla nostra Biblioteca del magnifico catalogo sul quale sono illustrate tutte le opere esposte. Nato in terra irredenta, Segantini non riuscì mai ad ottenere la cittadinanza italiana da lui tanto ambita; ritenuto austriaco dagli austriaci fino alla prima guerra mondiale e tutt’ora considerato svizzero dagli svizzeri (nei Grigioni visse durante i 13 anni più produttivi e importanti della sua vita), fu quindi oggetto di numerosissimi studi da parte di critici tedeschi e austriaci più ancora che italiani. E’ difficile trovare un artista moderno sul quale sia stato scritto così tanto. La sua infanzia fu segnata, fin dai primissimi anni, da tristi vicissitudini familiari. Mortagli la madre quando aveva appena sette anni, fu condotto dal padre a Milano e affidato a una sorellastra. Si iscrisse alla scuola serale di Brera e divenne assistente di un pittore di bandiere. Seguì i corsi diurni di pittura all’Accademia sotto la guida di Guido Carmignani. Si trasferì poi in Svizzera nel Cantone dei Grigioni. Morì stroncato da una peritonite mentre sulla vetta dello Schafberg stava dipingendo “Il trittico della montagna”. Renato Lorenzo 5 LG_giugno 2015 Edizioni rare Così i geologi “insegnarono” alle truppe a dife D Qui sopra la copertina di uno dei rari volumi, conservati nella biblioteca dell’Istituto di Geologia dell’Università di Milano; in queste pagine due immagini tratte dall’archivo fotografico della biblioteca Luigi Gabba e che ritraggono gli alpini in partenza dal Castello di Sondrio e, in alto, la bandiera issata dagli sulla Vetta d’Italia (Glockenkarkopf 2912 m) urante la prima guerra mondiale una parte considerevole del fronte italiano era costituito dall’arco alpino. Nel tentativo di dare alle truppe, o almeno ai loro ufficiali, una sommaria conoscenza di queste zone, i comandi delle armate italiane stamparono nel 1915-1918 diversi opuscoli informativi, andati nella maggior parte dei casi perduti. Nella maggioranza dei casi però sembrano più esercitazioni accademiche che manuali volti a dare alle truppe semplici e concisi consigli su come comportarsi. Mario Silvestri nella sua opera “Caporetto: una battaglia e un enigma” ha notato la condiscendenza con cui le conoscenze pratiche erano considerate rispetto a quelle accademiche; parlando del pur valoroso storico Adolfo Omodeo riporta come lo studioso, imbevuto di studi classici, considerasse “cultura contadinesca” l’abilità di scavare con perizia un ricovero o di muovere un pezzo d’artiglieria senza farlo cadere in un burrone, senza rendersi conto che quelle erano le nozioni veramente importanti per la guerra. Insieme allo stile retorico dell’epoca, questa impostazione mentale sfociava in una scarsa considerazione per le esigenze pratiche dei soldati su ogni fronte. Il volumetto “Il pericolo delle valanghe in primavera” è quello che maggiormente si avvicina a una guida per il soldato alla guerra montana. Dichiara esplicitamente che “Queste elementari nozioni, già familiari alle truppe alpine, sono rivolte sopratutto alle fanterie non alpine viventi ora in alta e media montagna, o nel fondo di valli, in zona alpina”. Seguono consigli sulle ore in cui muoversi, su come portarsi dietro le corde ignorando la superstizione che portino sfortuna, di procedere in squadre ben separate le une dalle altre, e di usare come guide gente del posto, “Il montanaro desto e amante delle alpi sente la valanga, cioè la presente; il cielo, l’aria e la temperatura”. A parte questa luminosa eccezione gli altri scritti sembrano poco legati all’esperienza vissuta. Michele Gortani scrive nel 1917 “Notizie sui monti di frontiera della Zona Carnia nel settore Paralba-Canin e loro sistemazio- LG_giugno 2015 6 ne difensiva quale risulta da informazioni attendibili varie, Parte prima, Cenni geografici – logistici”. Studioso già affermato ed esperto delle Alpi Carniche, condensa la sua esperienza in queste pagine, arricchite di quattro schizzi del territorio di cui solo uno rimasto. Risale al 1918 “Cenni monografici sulla Carta geologica del Grappa”, della sezione cartografica dell’armata del Grappa, riassunto di studi anteguerra di Torquato Taramelli (Monografia stratigrafica Paleontologica del Lias nelle provincie venete – Geologia delle province venete) e di Arturo Rossi (La provincia di Treviso). L’accademismo di queste opere è rilevante; il fatto di sapere sulla geologia del M. Grappa che “Sul M. Sole i calcari grigi sono coperti da calcari e dolomie calcarifere rosee e cineree; furono trovati nella località detta Croce di Valpore l’H. Murchisano e l’Amm. Fallax e molti ammoniti” non sembra molto importante per le operazioni belliche. Michel Gortani tornerà sull’argomento a guerra finita con un breve articolo, “La geologia e la guerra di posizione”. In queste poche pagine sostiene l’utilità dello studio accademico della materia, indispensabile per la logistica e il trasporto dei materiali. In conclusione parla di una conoscenza acquisita nel corso della guerra: l’uso di una “roccia” particolare, la neve. Nella neve si possono scavare gallerie e trincee, che si mantengono nel periodo estivo, la loro resistenza ai proiettili è minima, ma si possono rinforzare bagnando le pareti affinché si ghiaccino o rafforzandole con blocchi di neve compressa, bagnata e ghiacciata. Chissà se durante la guerra era stato stampato un opuscolo con queste preziose informazioni. a difendersi dalle insidie del territorio alpino Chiudiamo questa breve carrellata con un accenno agli scritti che vogliono solo essere apologetici, come il testo di una conferenza di Federico Sacco, “La geologia e la guerra”. Sacco, eminente geologo, si esercita sui temi dell’italianità geologica della Venezia tridentina e dell’adriatico, affermando per esempio che, poiché l’Adriatico è destinato a essere colmato dai detriti dei monti italiani portati dal Po’, è “ben giusto che l’Adriatico appartenga liberamente all’Italia”. Sullo stesso tono Mario Tedeschi nella sua con- ferenza “L’Alpinismo e la guerra” del 1916 ricorda gli “Arrabbiati accademici, che avevano temprato i muscoli sulle rupi granitiche delle guglie di Chamonix o sulle pareti vertiginose del Catinaccio, del Cimon della Pala, delle Cime di Lavaredo e di tutte le più celebrate montagne dolomitiche, deposta la piccozza per il moschetto, accorsero a guidare i nostri soldati là dove più aspra e terribile era la montagna”. Ivan Costanza Biblioteca Università degli Studi di Milano 7 LG_giugno 2015 Pioniere dell’ingegneria sismica La lezione di Grandori, alpinista e intellettuale I Qui sopra Pippo Grandori in azione sulla via Grandori, sulla parete est del pizzo Rachele l nome di Giuseppe Grandori, socio della sezione milanese del CAI a partire dal 1945, dopo una precedente militanza nella SUCAI, non è certamente noto oggi in Italia come meriterebbe. Anzi probabilmente la sua conoscenza non si estende al di fuori della cerchia di chi si occupa di rischi sismici e di quanti lo ebbero come docente fra le mura del Politecnico. Giuseppe “Pippo” Grandori (1921) è alpinisticamente meno noto del fratello Nando (1920), autore di alcune prime di rilievo, soprattutto sulle montagne della Val Malenco, caduto nell’estate del 1945 col comasco Carlo Valli sulla via Solleder in Civetta e ricordato dal Bivacco posto dal 1948 al Passo di Mello e intitolato a suo nome, unitamente a quello di Carla Odello, sua compagna di ascensione in diverse salite perita nel 1944 sulla Cima di Vazzeda. I due fratelli insieme hanno effettuato la prima ripetizione invernale della Corda Molla del Disgrazia (26-27 dicembre 1940) e la seconda ascensione assoluta della diretta alla parete sud dello Scerscen (via Folatti- Corti) con successiva traversata al Bernina (14 luglio 1942). Inoltre hanno firmato (25 agosto 1943) una nuova via sullo spigolo est-sud-est del Pizzo Rachele, di cui compiranno anche la prima invernale nel gennaio del 1944. Intrapresa, a partire dal 1951, la carriera accademica e sposatosi con Elisa Gaugenti (anche lei docente fra la Statale e il Politecnico di diverse discipline) Pippo Grandori ha continuato a praticare l’alpinismo, spesso in compagnia della moglie, dando costantemente corpo ad un amore per la natura e per gli spazi aperti realizzatosi oltre che in montagna nella navigazione, nei viaggi anche un po’ avventurosi, in un approccio profondamente anticonvenzionale, anche se alieno dalle ostentazioni, a tutte le circostanze della vita. A partire dal 1963 Grandori comincia ad occuparsi di ingegneria sismica, materia praticamente inesistente in Italia, arrivando in breve tempo a produrre gli strumenti scientifici basilari per la sua diffusione, organizzando corsi, seminari e convegni. Fonda così in Italia tale importante disciplina, diventandone il caposcuola indiscusso. La produzione della prima mappa sismica del paese nel 1980 e il contributo dato alla ricostruzione successiva al terremoto del Friuli 1976, sono fra i frutti più visibili del lavoro di equipe che ha sempre saputo guidare, promuovendo costantemente un clima di collaborazione. Un contesto in cui era sempre ben chiaro l’obiet- LG_giugno 2015 8 tivo di giungere senza divagazioni al nucleo dei problemi, ma che contemporaneamente “faceva scuola” cioè suscitava e incoraggiava costantemente la collaborazione mai gerarchica fra insegnanti e allievi. Una figura luminosa di intellettuale a tutto campo, che con queste parole, rivolte ai suoi allievi, si congedava dalla cattedra universitaria di Scienza delle Costruzioni che aveva tenuto dal 1961 al 1996: La comunicazione fra generazioni incontra sempre qualche difficoltà, tuttavia ho sempre ritenuto affascinante il mio lavoro, sia dal punto di vista dei contenuti intellettuali sia per il tipo di rapporto umano che dell’insegnamento si instaura.[…] Forse questo desiderio di confessione deriva anche dal fatto che chi insegna, se ha fatto una scelta elettiva e non imposta dalle circostanze, è in generale persona che ama lo studio e come spesso capita pensa che anche gli altri non possano fare a meno di apprezzare la bellezza dell’oggetto di cui si è innamorato. […] Studiare significa, in primo luogo, mettersi in comunicazione, (a lezione, sui libri o più semplicemente dei comuni rapporti interpersonali) con chi prima di noi ha studiato. Proprio quella comunicazione che talvolta si presenta difficile ma che, nelle molteplici forme in cui si è storicamente concretata, è stata ed è la base di quello straordinario processo al quale si vuol dare sinteticamente il nome di “progresso del genere umano”. […] un processo singolare: fragile, e al tempo stesso impetuoso e forse incontrollabile. Fragile, almeno in linea di principio, perché, se si interrompesse per una o due generazioni la situazione arretrerebbe di un numero incalcolabile di anni. Impetuoso e forse incontrollabile, come dimostrano le gravi preoccupazioni attuali circa le nefaste influenze dello sviluppo tecnologico sull’equilibrio ecologico del pianeta. Ma se c’è una speranza di riprendere il controllo e di correggerne le storture, questa risiede nella capacità delle nuove generazioni di comprendere appieno il messaggio che ricevono, di analizzarlo criticamente e di orientare conseguentemente gli sviluppi successivi. Affinché ciò possa avvenire, è importante che il bagaglio attuale di conoscenze e di valori venga offerto e spiegato ai giovani. Ma non presentato come un insieme di verità indiscutibili. Si dica cioè dove si è arrivati e perché, così che i giovani possano consapevolmente procedere alle loro scelte, che defi■ niranno il mondo di domani.