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MONS. NICOLA GAMBINO
Antiche testimonianze di un florido centro irpino:
VILLAMAINA
Riedizione a cura di
Gennaro Passaro e Vincenzo Favale
Edizioni Dragonetti
Montella - 2014
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Il presente volume è stato promosso dall’Amministrazione Comunale di Villamaina e dalla Pro Loco “Antiqua Villa Magna” di Villamaina.
© 2014 - Tutti i diritti riservati
Impaginazione e stampa:
Tip. Dragonetti - Montella (Av)
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Unicuique suum
La riedizione di questo dotto saggio di Mons. Nicola Gambino è
stata realizzata grazie al patrocinio dell’Amministrazione Comunale di
Villamaina e, in particolare, alla piena disponibilità dimostrata dal Sindaco, Dr.ssa Stefania Di Cicilia, che, resasi conto della sua importanza
per la storia antica della ridente cittadina, non ha mancato di accogliere favorevolmente la proposta avanzata dalla Pro Loco “Antiqua Villa
Magna”, di recente fondazione.
Il merito di poter parlare delle memorie storiche e archeologiche
di Villamaina va riconosciuto innanzitutto al signor Vincenzo Caputo
(1923-2010), che, come attività primaria, ha fatto lo scultore. Egli ha
raccolto per tutta la vita frammenti e reperti archeologici, che, donati
al Comune di Villamaina, hanno costituito il piccolo museo intitolato a
Paolino Macchia. Dopo il terremoto del 1980 raccolse, finanche dalle
discariche, reperti ed epigrafi, riconoscendone il grande valore. Fu lui
a sottoporli a Don Nicola Gambino, che ne effettuò lo studio che viene ora ripubblicato. Ha lavorato per anni all’allestimento di un parco
artistico-religioso nella contrada “Antica”, ricco di pregevoli sculture,
che ha poi donato al Comune di Villamaina
L’ottimo “zio Vincenzo” aveva comunicato il suo entusiasmo e il suo
amore per Villamaina a tanti giovani del paese.
Tra questi, già a suo tempo, Vincenzo Favale provvide ad elaborare
un’ampia ricognizione fotografica dei reperti da lui raccolti; in questo
lavoro ha curato la preparazione di tutto il materiale fotografico per
la loro presentazione nelle apposite tavole; ha fornito le notizie circa
alcuni rinvenimenti archeologici verificatisi in tempi recenti, quali la
base olearia custodita presso l’Oleificio Montuori, nonché di altri tre
frammenti di epigrafi non citate da Don Nicola; infine, ha fatto anche da
guida per una loro conoscenza diretta, almeno di quelle tuttora esistenti.
Solo per motivi di correttezza, bisogna evidenziare che il cippo
graccano, rinvenuto dal signor Carmine Calò nel proprio podere, sito in
Contrada Mazzarella, fu individuato dallo scrivente durante l’estate del
2008, grazie alla segnalazione di un amico piuttosto incuriosito circa la
funzione e l’importanza del reperto. Nell’ottobre successivo ebbi l’oc5
casione di invitare e accompagnare sul sito il Prof. Giuseppe Camodeca, dell’Università “Federico II”, di Napoli, a fare un sopralluogo per
darne piena conferma, ben sapendo che da alcuni anni, tra le altre cose,
stava svolgendo un’approfondita ricerca sulla riforma agraria dei Gracchi e sui cippi rintracciati in Italia meridionale. A giusta ragione, quindi,
ritengo opportuno pubblicare in appendice una sua breve spiegazione
scientifica che mi sono permesso di chiedergli espressamente per questa
particolare circostanza. Pertanto colgo l’occasione per ringraziarlo per
la sua disponibilità e squisita gentilezza.
G. P.
Fig. 1 – Bassorilievo raffigurante lo stemma di Villamaina. Risale presumibilmente
al sec. XVIII ed è tuttora incastonato nella cappella del cimitero. Proviene dall’architrave di un’antica cappella cimiteriale riservata al clero, ora completamente distrutta;
era ubicata alla fine dell’attuale Via Roma.
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Presentazione
La ristampa di questo dotto saggio di Don Nicola Gambino (19212000), non è per niente casuale in quanto, dopo l’attenta e doverosa lettura
delle bozze nella mia qualità di direttore del periodico in cui sarebbe stato pubblicato e avendone constatata la rilevante importanza, sin dalla sua
comparsa, ritenevo che meritasse un’edizione a sé stante, in un apposito
opuscolo, con una grafica più adeguata e dignitosa, anche perché era molto
più corposo degli scritti che di solito l’Autore forniva per la rivista1.
Ricordo bene che Don Nicola mi fece osservare che il saggio era il
frutto di una puntuale riflessione che intendeva rendere subito di pubblico dominio per il rischio che correvano i beni archeologici dopo il
sisma del 1980; quella ricerca era come un seme gettato occasionalmente in un terreno fertile e sufficientemente predisposto, con lo scopo
preciso di farlo fruttare, magari con ulteriori e dovuti approfondimenti
da parte di qualche lettore più attento ed interessato. D’altra parte non
avevo considerato che, con la sua naturale modestia, non aveva esitato
a scrivere: “Se commetterò errori di valutazione, avrò indotto altri a
darne conto con una ricerca più accurata e documentata”.
La mia proposta, tutto sommato, derivava dalla considerazione che
il saggio non riguardava soltanto un elenco di reperti archeologici, soprattutto quelli epigrafici, rinvenuti nel territorio di Villamaina, oppure
la dotta disquisizione filologica e linguistica dei toponimi locali, a cominciare da quello del centro urbano; ma presentava ben altro, quali, ad
esempio: l’accostamento delle vicende del popolo irpino, quasi del tutto
ignote o ignorate, alla grande storia di Roma, a cominciare dalle guerre
sannitiche2 o di quella di Pirro sconfitto a Benevento da Manlio Curio
1) Cfr.: N. Gambino, Antiche testimonianze di un florido centro irpino: Villamaina, in “Civiltà Altirpina”,
Periodico bimestrale di Studi e ricerche storiche locali, a. X, fasc. 1-3, gennaio – giugno 1985, pp. 3-28.
2) Considerando che l’Autore non ne fece espresso riferimento perché li dava per scontati, ritengo opportuno fare brevi cenni agli eventi della storia romana ambientata nel territorio irpino. A tale proposito ricordo
innanzi tutto che dal 343 al 290 a. C. ebbero luogo le tre guerre sannitiche con il famoso episodio delle Forche caudine del 321 e le conquiste, nel 298, dei centri irpini, quali Taurasia e Cisauna da parte di Scipione
Barbato e di Quinto Fabio Massimo che occupò Romulea e distrusse la ribelle Ferentinum, valido oppido,
come fu definito da Livio. I Romani sconfissero definitivamente i Sanniti e gli Irpini nel 293 ad Aquilonia,
che potrebbe essere identificata con l’attuale Lacedonia.
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Dentato3 o del passaggio di Annibale per l’Irpinia4. Non per niente sono
molto suggestive le sue considerazioni sugli effetti di quelle guerre,
nonché su quelli che determinarono un certo rilancio delle attività agricole grazie alla riforma agraria voluta e realizzata dai Gracchi dal 133 a.
C. in poi. Questa ebbe per oggetto anche un vasto territorio dell’Irpinia,
come è stato fatto osservare pochi anni or sono da parte di alcuni autorevoli storici e archeologi a seguito di alcuni scavi fatti in alcune zone
dell’Irpinia e delle scoperte conseguite.
Giustamente, ad esempio, Werner Johannowsky ha lasciato scritto:
“Varie ville rustiche e fattorie della Valle dell’Ufita sembrano risalire,
a giudicare dai materiali affioranti sul terreno, al periodo graccano”.
Il meritevole soprintendente si riferiva, in particolare, ai soddisfacenti
risultati ottenuti con gli scavi effettuati nella località Fioccaglia di Flumeri nel 1986 dove aveva rinvenuto un ricco giacimento archeologico
che testimoniava l’esistenza di un centro abitato o almeno di un forum
risalente alla fine del II secolo a. C.5.
Dello stesso parere è il Prof. Giuseppe Camodeca il quale, dopo aver
fatto osservare che tra il fiume Ufita a sud-ovest e il torrente Fiumarella
a nord, dove si trova la località di Fioccaglia vi era un ager publicus di
circa 30 iugeri, pari a più di 12 ettari, commenta che i materiali rinvenuti sono tutti databili a quel periodo, in quanto, “quelli trovati nello strato
d’incendio e di distruzione dell’abitato hanno puntuali confronti con
analoghi contesti di centri del Sannio Pentro distrutti durante la guerra
3) La colonizzazione dell’Irpinia da parte dei Romani era cominciata già alla conclusione delle guerre sannitiche nel 290 (non senza motivo in quell’anno la costruzione della Via Appia era continuata da Benevento
fino a Venosa dopo aver attraversato Aeclanum) ed ebbe termine dopo la sconfitta di Pirro a Benevento nel
275, nonostante i successi ottenuti ad Ascoli Satriano e nei centri delle valli dell’Ofanto e del Calore. Fu in
questa circostanza che gli Irpini compaiono con il proprio nome per la prima volta nella storia. Le loro città
principali furono Abellinum, Aeclanum, Aquilonia, Aequum Tuticum, Beneventum, Compsa, Caudium, Trivium, Taurasia. A conclusione della guerra gli Irpini furono riconosciuti come popolo federato, ma furono
tenuti a bada, però, dai distaccamenti romani delle colonie di Paestum e di Beneventum.
4) Cfr.: W. Johannowsky, L’abitato tardo-ellenistico a Fioccaglia di Flumeri e la romanizzazione dell’Irpinia, in AA. VV., Basilicata: L’espansionismo romano nel sud-est d’Italia, Venosa, 1990, pp. 269 e ss.
5) È il caso di precisare che l’Autore, grazie alla scoperta di due cippi miliari relativa ad una strada che
collegava la Via Appia alla Via Minucia, vale a dire dalla località Fioccaglia di Flumeri citata ad Aequum
Tuticum, che sorgeva a 8 Km. a nord dell’attuale Ariano Irpino, ha potuto dimostrare che la sua costruzione fu dovuta a M. Aemilius Lepidus, console nell’anno 126, quindi proprio nel periodo dei Gracchi.
G. Camodeca, Le assegnazioni graccane e la Via Aemilia in Hirpinia in “Zeitschrift für Papyrologie und
Epigraphik”, Bonn, n. 115 (1997), pp. 263-270. 8
sociale. Quindi anche l’insediamento urbano di Fioccaglia sarà stato
distrutto con ogni probabilità durante gli eventi bellici del 90-89, che
furono particolarmente aspri in Hirpinia; basta ricordare la conquista e
il saccheggio di Aeclanum da parte di Silla e la successiva occupazione
di Compsa ad opera dei suoi alleati irpini comandati da Minatus Magius, il trisavolo di Velleio Patercolo”6.
Bisogna far notare a questo punto che Don Nicola Gambino scriveva il suo saggio prima della pubblicazione degli scritti citati con i
quali sembra parlare all’unisono. Sono ancora più rilevanti, infatti, le
sue considerazioni sulle conseguenze della lotta intestina tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla e lo spadroneggiamento di quest’ultimo e dei
suoi collaboratori, nel cui comportamento è da individuare, come dimostra l’Autore, la prima causa del depauperamento sociale ed economico
dell’Irpinia durante il I secolo a. C.
L’Autore non poteva trascurare di menzionare le guerre subite dagli
Irpini perché, come si può immaginare, anche il semplice passaggio di
un esercito, per i vari bisogni dei soldati, a cominciare dalle vettovaglie,
comportava gravi danni per gli abitanti dei luoghi attraversati sia per i
beni di cui venivano depredati che per la distruzione dei campi coltivati.
I danni più gravi furono quelli subiti, per l’appunto, durante la Guerra
sociale in cui fu protagonista la figura di Silla, il monarca mancato,
la cui politica indusse gli Irpini a dividersi in due partiti contrapposti.
Mentre il prode Mario Egnazio, capo del partito democratico, occupava
Venafro, distruggendo le due coorti romane che la presidiavano, il già
citato Minazio Magio, di Aeclanum, capo del partito aristocratico, stette
con i Romani ed arruolò una legione che seguì Silla fino a Compsa.
Va detto anche che in quell’epoca, oltre a Minazio Magio, comparvero altri irpini autorevoli quali Gaio Quinzio Valgo e il genero di
quest’ultimo, Publio Servio Rullo, tribuno delle plebe nell’anno 63 a.
6) Camodeca, op. cit., p. 265. Durante la seconda guerra punica, dopo la battaglia di Canne del 216, i
Compsani, capeggiati da Stazio Trebio, avversario dei Mopsi, potente famiglia filo-romana, parteggiarono
per Annibale, tanto che il fratello Magone rimase a Conza mentre lui si dirigeva verso Napoli e Capua. Nel
214, tuttavia, Quinto Fabio Massimo riprendeva a viva forza Conza e altre città e, quattro anni dopo, nel
210, tutta l’Irpinia risultava di nuovo soggiogata dai Romani con il console Claudio Marcello. È noto che
nel 180 ben 40.000 famiglie di Liguri Apuani furono dedotte nel Sannio e nell’Irpinia, nei Campi Taurasini,
che si distinsero nei due gruppi, Bebiani, a nord, e Corneliani, a sud, dai nomi dei due consoli che avevano
fatto la deduzione.
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C., i quali ebbero a che fare con uomini come Silla, Giulio Cesare e lo
stesso Cicerone che era console proprio in quell’anno.
Purtroppo le divisioni politiche contribuirono a causare l’impoverimento del territorio perché molti centri abitati furono saccheggiati e
distrutti; Compsa, in particolare, subì notevolissimi danni. Per tutelare
gli interessi di Roma, del resto, bastavano le colonie militari di Beneventum, Aeclanum, Abellinum e Compsa le quali ben presto e senza difficoltà contribuirono a trasformare il volto di tutta la regione.
Nonostante la posizione politica filo-romana di una parte degli abitanti
più agiati, infatti, quello irpino continuava ad essere considerato un popolo conquistato di cui i Romani non si fidavano; di conseguenza la cittadinanza romana rimaneva soltanto un’apparenza. Per tale motivo furono
istituite colonie sia di veterani congedati dall’esercito, sia di famiglie di
coltivatori provenienti da altre regioni; per loro furono rese disponibili
tutte le terre demaniali considerate ager publicus populi Romani, oggetto
di revisione e di ridistribuzione durante la riforma agraria voluta, come
già detto, in particolare da Tiberio Gracco, tribuno della plebe nel 133 a.
C. In Irpinia ve ne era più d’uno e, pertanto, come sostiene l’Autore, “fu il
pomo della discordia” in quanto causò una serie di scandali e soprattutto
la promulgazioni di leggi che non riuscirono né a sanare la cattiva amministrazione, né a favorire interventi positivi sull’agricoltura7.
Non senza motivo l’aspetto più sorprendente che emerge dalla lettura del saggio, difatti, è che molte riflessioni sulle condizioni sociali di
quel tempo sono rapportabili ad alcuni aspetti dei tempi attuali, ivi comprese le attività agricole che si sono ben radicate nel corso dei secoli.
Per questa ragione, allora, non bisogna meravigliarsi se, già nel passato, ho avuto più di una volta occasione di suggerire all’amico prof.
Vincenzo Favale di far presente alle Autorità del Comune di Villamaina
7) Si tenga presente, inoltre, che in questa parte dell’Irpinia antica, come viene accennato nel testo, vi era
un vasto ager publicus che si estendeva dalla Valle d’Ansanto a quelle dell’Alto Calore e dell’Alto Ofanto.
La prima testimonianza era stata fornita dal rinvenimento di tre cippi graccani risalenti agli anni 129-123 a.
C. trovati nei territori di Rocca S. Felice e di Frigento, come furono descritti dal Santoli; oggi, oltre a quello
di Montella, rivelato dallo Scandone (Cfr.: F. Scandone, L’Alta Valle del Calore, vol. I, Montella antica e
medioevale, Napoli, 1911, pp.158-159), possono essere aggiunti altri due cippi scoperti in tempi recenti,
rispettivamente dallo scrivente e da Nicola Fierro, nella località Chianole a Nusco e nella località Civita a
Lioni. A tale proposito si rinvia al seguente saggio: A. Colantuono, I cippi graccani dell’Alta Irpinia, in
“Civiltà Altirpina”, n. s.; a. III, fasc. 2, luglio - dicembre 1992, pp. 5-14. Il cippo di Villamaina, pertanto, è
il settimo reperto archeologico del genere che viene scoperto in questa parte dell’Alta Irpinia. Ne consegue
che risulta quanto mai utile la nota del prof. Giuseppe Camodeca pubblicata in Appendice.
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di prendere l’iniziativa della ristampa dell’opera, la cui divulgazione
non avrebbe potuto che contribuire a far conoscere molto meglio le
antiche origini del ridente paese della Valle d’Ansanto.
Prima di entrare nel merito dello scritto e pur sapendo che dovrò
limitarmi soltanto a fare i dovuti riferimenti agli aspetti più rilevanti,
mi sia consentito di accennare alla mia frequentazione dello “studio” di
Don Nicola e ad alcuni dei suoi meriti principali.
La nostra frequentazione ebbe inizio nel 1975 quando con Don Pasquale Di Fronzo, suo ex-allievo ed amico, nonché successore nella
Parrocchia di Rocca S. Felice, riuscirono ad unire la maggior parte dei
ricercatori di storia locale residenti nei paesi dell’Alta Irpinia e, quindi,
a fondare l’Associazione “Francesco De Sanctis” col preciso obiettivo
di favorire la ricerca storica e la valorizzazione del patrimonio culturale
dell’intero territorio. In quell’occasione Don Nicola Gambino, che ne
era stato l’ispiratore, con la sua autorevole presenza, ne garantiva la
serietà e la non effimera durata che, non senza motivo, si protrasse per
più di un ventennio, grazie anche alla pubblicazione di un periodico,
“Civiltà Altirpina”, quale organo del sodalizio.
Mi corre l’obbligo di precisare che l’oggetto consueto della conversazione durante i nostri incontri, a parte le iniziative dell’Associazione
e la pubblicazione dei vari saggi ed articoli pervenuti in redazione, sui
quali vi era spesso l’opportunità di scambiarsi dei pareri, concerneva
per lo più due questioni particolari: la ricerca archeologica con l’interpretazione delle epigrafi di epoca romana, soprattutto quelle cristiane,
esistenti nei nostri territori e la propagazione del Cristianesimo e le origini delle diocesi fondate in Irpinia in numero relativamente eccessivo.
Colgo l’occasione per dichiarare tutta la mia riconoscenza se in seguito
ho coltivato lo studio di questa materia.
Devo anche ricordare che Don Nicola Gambino, come parroco in
Rocca S. Felice, ma anche per i suoi interessi culturali, non poteva rimanere indifferente rispetto all’importanza che assumeva una località come quella della Valle d’Ansanto; pertanto, emulo del suo lontano
predecessore, Vincenzo Maria Santoli (1736-1804), si dovette improvvisare archeologo e, quindi, promosse la prima delle sue importanti iniziative di notevole valore culturale: l’apertura di una campagna di scavi
alla Mefite. L’impresa non poteva che produrre subito i suoi frutti con
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la scoperta di numerosi reperti e, in particolare, della famosa stele che è
ormai utilizzata come il logo più rappresentativo dell’Irpinia antica. Del
resto, quanto appena detto è provato dalla serie di saggi che lo stesso
Mons. Gambino ha pubblicato soprattutto al fine di divulgare la ricerca
e gli studi archeologici in Irpinia.
Ne aveva i titoli se aveva suscitato l’ammirazione e l’apprezzamento di uno dei più autorevoli archeologi del tempo, il prof. Amedeo Maiuri, il quale, a proposito degli scavi alla Mefite, non ebbe
alcuna esitazione di esprimerli in un raro scritto che ritengo opportuno riferire qui di seguito: “ Iniziammo l’esplorazione di quel santuario nel settembre 1953 grazie all’aiuto prezioso che ci veniva dal
dotto arciprete di Rocca San Felice, Rev. Gambino, raccogliendo
terrecotte, bronzi votivi e monete, così come venivano rigettate dai
fedeli nel fosso emanante mortiferi vapori. Ed è uno dei miei più
vivi ricordi di periegeta l’incontro con l’ottimo arciprete sul colle
di Santa Felicita dove mi attendeva con l’indice tra le dotte pagine
settecentesche del Santoli, quasi che si trattasse delle pagine di un
libro sacro per la recitazione degli esorcismi contro le potenze demoniache del luogo”8.
È il caso di precisare che gli argomenti affrontati da Don Nicola, a
parte le testimonianze epigrafiche, non riguardano reperti archeologici
di grande importanza artistica o architettonica, ma tutto ciò che in un
certo qual modo potrebbe servire per capire le condizioni della gente
vissuta nei secoli lontani della preistoria e della storia antica per le quali
“proprio nelle campagne dei piccoli paesi, è possibile anche oggi reperire oggetti e tracce di notevole interesse archeologico. Ed è il caso
proprio di Villamaina, che offre l’occasione di poter studiare l’attività
agricola in un periodo molto tribolato della storia romana, dalle guerre
sannitiche all’impero”.
Non senza motivo non manca di dichiarare che “l’interesse a studiare questo territorio non è dato dalla quantità e qualità dei rinvenimenti, ma soprattutto dalle implicazioni giuridiche e politiche che
essi richiamano”. Completa la sua opinione con l’asserire con assoluta
8) Cfr.: A. Maiuri, Attraverso l’Irpinia antica, in Dall’Egeo al Tirreno, L’Arte tipografica, Napoli, 1962,
pag. 287. è il testo della conferenza fatta dall’Autore il 27 marzo 1958 in una sala della Prefettura di
Avellino
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decisione: “Per quanto io sappia, finora non è stato fatto uno studio
organico sulle attività agricole nei secc. III-I a. C. in questa parte mediana dell’Irpinia”.
Non è senza ragione, allora, se si vede costretto a lamentare che
“lo studio archeologico ha segnato il passo, rimanendo quasi un
hobby di studiosi locali. L’indagine di scavo è stata insufficiente
quasi umiliata; … La quantità degli oggetti non è rilevante e gli scavi sono ancora a livello di saggi. É vero. Ma i problemi che propongono e gli interessi che proiettano diventano motivi per una ricerca
più approfondita e indirizzata alla prospettiva di un chiarimento
sulle strutture agrarie almeno di una zona campione della media
Irpinia”.
A questo punto bisogna fare osservare che l’Autore non si sofferma
soltanto sui reperti archeologici di epoca classica, ma anche su quelli
della preistoria o della proto-storia che trovava quanto mai interessanti
per lo studio soprattutto delle attività agricole. Riteneva, infatti, che i
reperti preistorici di Villamaina potessero essere inquadrati fra quelli
di tutta la Campania, addirittura come i più antichi dell’Irpinia, tanto
che non ha esitato a proporre una tavola ricapitolativa delle varie età,
dal paleolitico all’età del ferro, concernente tutti i paesi dove si sono
verificati i rinvenimenti.
Che alcuni di questi ritrovamenti, escludendo quelli collegati alle
attività agricole, siano da collegare, poi, al culto della dea Mefite e che
potrebbero spiegare anche l’etimologia della Valle di Ansanto – termine
certamente legato all’osco più che al latino – è una pura ipotesi, molto
affascinante, ma quasi impossibile da dimostrare.
Circa il toponimo di Villamaina, invece, l’Autore, dopo aver criticamente riportato le opinioni dei vari scrittori e storici del passato che
avevano cercato di spiegarla, talvolta in modo anche banale, espone con
una meticolosa, puntuale e convincente dimostrazione con dotti riferimenti filologici e linguistici, fino a concludere con decisione: “Il nome
originario e antico è Villa Magna”, spiegando che era stato originato
da un latifondo appartenuto ad un solo proprietario, dimorante o meno
nel luogo.
A proposito della ricerca sull’etimologia del toponimo, strettamente
legato, tra l’altro, proprio alle attività agricole degli abitanti, è opportuno spiegare la citazione della quartina di un “poeta latino avellinese”
riportata nel testo. Forse è una mia presunzione, ma non posso esclu13
dere del tutto che Don Nicola Gambino abbia avuto l’idea di affrontare
l’intera questione partendo proprio da quei versi9.
L’Autore, inoltre, sulla scia di quanto aveva già fatto osservare il prof.
Oscar Onorato, che aveva avuto il merito, di aver favorito e auspicato una
più concreta ed attenta ricerca archeologica in Irpinia, non poteva considerare con una certa amarezza il suo secolare stato precario, lamentando che
“quanto viene scavato passa ad arricchire i depositi di musei di altre città,
defraudando l’Irpinia di un suo bene culturale. Non so quanta parte sia
addebitabile agli uomini e quanto alla disorganicità delle leggi antiquate che nessuno pone mano a correggere e ad aggiornare nella visuale di
un più efficace funzionamento delle autonomie locali”. Per dirla in breve:
non accettava che il territorio d’interesse archeologico fosse considerato
soltanto come luogo di sfruttamento per arricchire musei o depositi troppo
lontani dalle comunità che avrebbero potuto legittimamente fruire di quel
patrimonio culturale e reclamarne il diritto al loro possesso.
Giustamente, poi, passa a far osservare che oggi la concezione della
storia e della sua ricerca, “sotto la spinta delle nuove visioni politiche e
di democrazia reale”, è del tutto cambiata rispetto al passato in quanto
“è opera non della sola élite culturale ed economica, ma di tutto il popolo, con le sue componenti più modeste e anonime”.
Purtroppo doveva far anche constatare e non senza motivo che il
“disinteresse della cultura predominante è in qualche modo legato alla
deformazione della mentalità operata dalla scuola … che ha tenuto
fuori dall’aula la storia locale”, che anzi continua a non aver stretti
9) Il poeta cui allude l’Autore si chiamava Angelo De Ruggiero, nativo di Ajello del Sabato, il quale, avendo una buona conoscenza della lingua e della metrica latina, aveva composto versi emblematici per tutti i
paesi che facevano parte della Diocesi di Avellino e Frigento. In quel tempo. Mons. Bartolomeo Giustiniano, Vescovo di Avellino (1627-1653), al quale erano stati dedicati, non esitò ad inviarli con alcune notizie
storiche sulle due Diocesi, aggregate sin dal 1528, all’Abate Ferdinando Ughelli che aveva cominciato a
pubblicare la sua “Italia Sacra”. Avuta l’occasione di scoprirli nel fondo dei manoscritti della Biblioteca
Apostolica Vaticana (Codice Barberiniano Latino 3205, cc. 404r – 409v), ebbi cura di darne una notizia
sommaria che suscitò l’interesse particolare di Don Pasquale Di Fronzo. Questi, oltre ad essersi preoccupato di far reperire da parte del comune amico Giovanni Orsogna una fotocopia dei testi, invitò proprio Don
Nicola Gambino a trascriverli e a tradurli. Successivamente, da pari loro, i due dotti sacerdoti non mancarono di trattarne in due loro rispettivi saggi divulgativi. A tale proposito cfr: G. Passaro, Irpinia Sacra, in
“Civiltà Altirpina”, a. III, fasc. 2-3, marzo – giugno 1978, pp. 22-28, in particolare p. 27; N. Gambino, Un
elogio per Rocca S. Felice, in “Bollettino del Santuario di S. Felicita”, aprile – giugno 1983, pp. 26-28; P,
Di Fronzo, Versi emblematici su alcuni paesi irpini, in “Civiltà Altirpina, a. IX, nn. 1-3, gennaio – giugno
1984, pp. 13-20, in particolare p. 19. 14
legami con la cultura, in senso lato, del proprio territorio. Pertanto, tutto
ciò che fa parte delle tradizioni culturali di un popolo viene trascurato e
spesso distrutto, per ignoranza o per ignobile guadagno, a beneficio di
pochi profittatori che fanno tabula rasa di tutto il meglio che, invece,
sarebbe necessario che rimanesse nei luoghi originari.
In conclusione di queste mie poche note di presentazione e commento, non esito a dichiarare che le considerazioni espresse da Don Nicola
Gambino erano intenzionate a far approfondire il significato e il valore
dei “beni culturali” in genere e il diritto alla loro fruizione da parte delle
comunità che li posseggono, nonché il dovere delle stesse comunità nel
custodirli e valorizzarli
E ciò che mi ha sorpreso alquanto è che queste considerazioni sono
state il frutto della ricerca svolta proprio sui reperti archeologici rinvenuti
a Villamaina, ritenuti apparentemente “banali” o giudicati tali, ma a torto.
Per quanto detto, mi permetto di fare un appello alle nuove generazioni fra le quali non mancano gli studenti universitari o i laureati di
qualsiasi disciplina. Tutti, per amore del paese natio e con il bagaglio
culturale di cui certamente dispongono, emuli di Vincenzo Caputo che,
da autodidatta ha saputo dare l’esempio, possono impegnarsi nella ricerca continua di qualsiasi tipo di testimonianza del passato che possa
contribuire ad illustrare la storia dei lontani antenati al fine precipuo di
conservarla e valorizzarla.
Non dispiace, infine, aggiungere ulteriormente il pensiero di Don Nicola, che, alcuni anni dopo, ritornava sull’argomento, scrivendo testualmente:
“Forse non spunterà mai fuori un’opera d’arte da far notizia, ma
quel territorio riuscirà ancora ad ammaliarti con quel tanto di cocci che trovi così spesso riversi sui campi arati. Saranno un invito a
curvarti nell’atto di raccoglierli per interrogare i secoli sul cammino
percorso a partire dalle povere case di schiavi e liberti di allora per
arrivare al benessere e alla libertà di oggi. Se questo cammino ti può
sembrare troppo lento, vuol dire che per accelerarlo non bastano le tue
recriminazioni, ma serve il tuo contributo personale di laboriosità e di
esempio. Se lo farai, è segno che anche quei cocci hanno contribuito a
far crescere la tua maturità.”10.
10) Cfr: La Mefite nella Valle d’Ansanto di Vincenzo Maria Santoli dopo duecento anni, 1783/1982 / a cura
di Nicola Gambino, Rocca S. Felice, 1991,Vol 1, p.54
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Cenni biografici di Mons. Nicola Gambino
Nacque a Fontanarosa 25 agosto 1921 da Antonio Gambino e Rosa
Ruzza. Dopo aver frequentato le Scuole elementari nel paese natio, entrò nel Seminario di Avellino dove frequentò le classi della Scuola Media e del Ginnasio; quindi passò nel Seminario regionale di Benevento
per gli studi liceali; infine andò a Napoli per seguire i corsi della Facoltà
teologica a Posillipo.
Fu ordinato sacerdote a Fontanarosa il 9 settembre 1945 da Mons.
Guido Luigi Bentivoglio, Vescovo di Avellino, ma continuò a frequentare l’istituto di Posillipo per conseguire la licenza in teologia.
Contemporaneamente, dal 1946 al 1949, svolgeva il ruolo di docente
del Seminario vescovile di Avellino dove ebbe anche le cariche di Prefetto e vice-rettore.
Nel 1949 fu nominato parroco di Rocca San Felice dove, oltre a svolgere
le sue funzioni pastorali, cominciò ad appassionarsi agli studi e alla ricerca
delle testimonianze archeologiche del luogo e vi rimase fino al 1961 quando fu trasferito alla Parrocchia di S. Maria Maggiore di Mirabella Eclano
in cui era quasi un obbligo continuare gli studi di archeologia privilegiando
la ricerca delle testimonianze epigrafiche cristiane. Il 15 ottobre 1977 passò
alla parrocchia di Candida, dove continuò a svolgere il suo ministero sacerdotale fino al 1988. Nel 1987 fu nominato direttore di “Bonus Pastor”,
il bollettino della Diocesi di Avellino, di cui il primo numero, molto prestigioso per i contenuti, quasi tutti di mano sua, apparve nel 1988.
Con nota della Segreteria di Stato della Santa Sede 1° ottobre 1987
gli fu conferito il titolo di Cappellano di Sua Santità e il 15 dicembre
dello stesso anno, fu nominato Vicario generale della Diocesi da parte
di Mons. Gerardo Pierro, Vescovo di Avellino. Il 1° marzo 1989 fu nominato Canonico della Cattedrale di Avellino.
Conservò la carica di Vicario anche nel breve periodo di vacanza del
1992, quando Mons. Pierro prese possesso dell’Archidiocesi di Salerno.
Il 5 febbraio 1991 su proposta di Mons. Pierro, Papa Giovanni Paolo
II lo insignì del titolo di suo Prelato d’onore per meriti acquisiti. Il 13
marzo del 1990 gli fu conferita la cittadinanza onoraria da parte del
Consiglio Comunale di Rocca S. Felice.
16
Con l’arrivo di Mons. Forte ad Avellino rinunciò a tutti gli incarichi
per raggiunti limiti d’età e si ritirò nella chiesa di S. Caterina d’Alessandria, nell’omonima contrada di Mirabella Eclano, dove ha trascorso
gli ultimi anni della sua cara esistenza. Mons. Nicola Gambino è morto nell’Ospedale di S. Giovanni Rotondo dove, era stato ricoverato da
qualche tempo il 6 dicembre dell’anno 2000.
Si è del tutto certi che “Don Nicola”, come è di solito citato da tutti
quelli che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, sarà sempre
ricordato come instancabile promotore di iniziative culturali e meritevole ricercatore di storia locale, ma soprattutto come stimato autore
di numerose pubblicazioni che hanno fatto meglio conoscere la storia
dell’Irpinia antica.
Elenco delle pubblicazioni di Mons. Nicola Gambino
- Vita di Santa Felicita e storia del suo Santuario, Materdomini, 1957, pp. 35;
- Rocca San Felice: Appunti di storia, Materdomini, 1957, pp. 44;
- Le vittime di Mefite, Materdomini, 1960, pp. 16;
- Un grande archeologo irpino: Vincenzo Maria Santoli (1736-1804), Napoli, 1964,
pp. 64;
- La Sancta Ecclesia aeclanensis nell’antichità e nel Medio Evo in Per il 25°
anniversario dell’episcopato di Mons. Pedicini;
- Da Mefite a Santa Felicita, Lioni, 1965, pp. 112;
- Sancta Ecclesia aeclanensis, Napoli, 1967, pp. 60;
- La ricerca archeologica dopo l’apertura del Museo irpino (pp. 15-21); - Gli
scavi di Aeclanum ricaduti nel silenzio (pp. 35-37); - Tradizionalismo pagano
in un casale irpino nella seconda metà del sec. IV (pp. 39-43), in “Hirpinia”,
numero unico a cura di N. G, Avellino, 1968;
- Culti orientali nella Valle d’Ansanto, in “Civiltà Altirpina”, a. I, fasc. 1, sett.ott. 1976, pp. 22-29;
- Un rinvenimento di 800 anni fa, in “Civiltà Altirpina”, a. I, fasc. 1, sett. - ott.
1976, pp. 37-38;
- Un fantino di Frigento applauditissimo a Roma, in “Civiltà Altirpina”, a. I,
fasc. 2, nov. – dic. 1976, pp. 41-43;
- La storia di un sarcofago senza nome, in “Civiltà Altirpina”, a. II, fasc. 1,
genn. - febb. 1977, pp. 35-38;
17
- Un architetto di Frigento, in “Civiltà Altirpina”, a. II, fasc. 1, genn. febb.1977, pp. 35-38;
- S. Angelo a Pesco: profilo storico (I parte), in “Civiltà Altirpina”, a. II, fasc.
2, marzo – apr. 1977, pp. 13-30;
- S. Angelo a Pesco: profilo storico (II parte), in “Civiltà Altirpina”, a. II, fasc.
3-4, mag. – ag. 1977, pp. 16-23;
- Un orologio solare nella Valle d’Ansanto in “Civiltà Altirpina”, a. II, fasc.
5-6, nov. – dic. 1977, pp. 37-38;
- Una lucerna paleocristiana, in “Civiltà Altirpina”, a. III, fasc. 1, genn. –
febb. 1978, pp. 39-42;
- Una pubblicità alberghiera cinquecentesca, in “Civiltà Altirpina”, a. III,
fasc. 6, nov. – dic. 1978, pp. 34-44;
- La Valle d’Ansanto ieri e oggi, in “Civiltà Altirpina”, a. IV, fasc. 1-2, genn.
- apr. 1979, pp. 23-34;
- Fontanarosa e la Madonna della Misericordia, Lioni, 1980, pp. 580:
- San Bernardino da Siena nel VI Centenario della nascita, Lioni, 1980, pp.
48;
- Culti orientali nell’Irpinia romana, in “Civiltà Altirpina”, a. VI, fasc. 6, nov.
– dic. 1981, pp. 21-30;
- La presenza di Orientali nell’Irpinia romana, in “Civiltà Altirpina”, a. VII,
fasc. 1-2, genn. – apr. 1982, pp. 31-40;
- Epigrafi cristiane nell’alta Valle dell’Ofanto, in “Civiltà Altirpina”, a. VI I,
fasc. 3-4, mag. – ag. 1982, pp. 33-42;
- Aeclanum cristiana, Lioni, 1982, pp. 240;
- Il borgo antico di San Barbato, Calitri, 1982, pp. 16,
- Diamo una voce al nostro paese (per l’inaugurazione delle campane della
chiesa parrocchiale di Candida; ciclostilato), 1982, pp. 16;
- Rilettura di un’iscrizione di Aiello del Sabato, in “Civiltà Altirpina”, a. VIII,
fasc. 1-2, genn. – apr. 1983, pp. 35-44;
- Lo Specus Martyrum di Atripalda (I parte), in “Civiltà Altirpina”, a. VIII,
fasc. 5-6, sett. – dic. 1983, pp. 3-10;
- Lo Specus Martyrum di Atripalda (II parte), in “Civiltà Altirpina”, a. IX,
fasc. 1-3, genn. – giug. 1984, pp. 3-12;
- Il commercio dei prodotti dell’artigianato nei empi antichi, in “Occasioni di
incontro. Quaderno della Pro-Loco di Manocalzati”, Nov. – Dic. 1984, Avellino,
1984, pp. 2-8;
18
- Testimonianze di un centro irpino: Villamaina, in “Civiltà Altirpina”, a. X,
fasc. 1-3, genn. – giug. 1985, pp.3-28;
- La cattedrale di Avellino, Ed. Di Mauro, 1985, pp. 168 + 74 tt. f. t.;
- Sancta Ecclesia abellinensis, Candida, 1986, pp. 92;
- I territori delle alte valli del Calore e dell’Ofanto con una breve illustrazione
dei reperti archeologici rinvenuti in Nusco, in Atti delle manifestazioni culturali, a cura di G. Passaro, Lioni, 1986, pp. 1-30
- Le radici di pietra, in “Annuario Irpinia ‘86”, Avellino, 1986, pp. 15-20;
- Candida: Il Paese, la storia, i beni culturali, Lioni, 1987;
- S. Maria di Carpignano, Baronissi, 1988, pp. 168;
- Annuario della Diocesi di Avellino, Baronissi, 1988, pp. 336;
- Guida al Duomo di Avellino, Avellino, 1989, pp. 32;
- Ricorda che un gruppo di martiri ha dato la vita per la libertà della Santa
Chiesa avellinese, Avellino, Amodeo, 1990, pp. 72;
- La Mefite nella Valle d’Ansanto di Vincenzo Maria Santoli dopo duecento
anni: 1783 - 1982, a cura di N. Gambino, Rocca San Felice – Avellino, Amodeo, 1991, vv. 2, pp. 836 + XX;
- N. G. -- V. D’Ambrosio, S. Bernardino. La confraternita e la chiesa di Mirabella Eclano, Avellino, 1992, pp. 324;
- Memorie fotografiche di Santa Maria Maggiore di Mirabella Eclano, Avellino, 1995, pp. 40;
- L’immagine e la realtà, Avellino, 1995, pp. 32;
- Mirabella Eclano: La Chiesa di S. Maria Maggiore: Guida storico-artistica,
Salerno, 1995, pp. 32;
- La pazienza del popolo di Mirabella durante un decennio (1721-1731), in
“Vicum”, a. XIII, Marzo – Dicembre, 1995, pp. 103-119;
- Marco Pomponio Bassulo, poeta eclanese, in “Civiltà Altirpina”, a. VI, n. s,
genn. – giug. 1995, pp. 5-14;
- Aeclanum: Riscriviamo la nostra storia, Frigento, 1996, pp. 13;
- Salve Regina: Riflessioni, Frigento, 1997, pp. 80;
- La vita quotidiana ad Aeclanum, in “Civiltà Altirpina”, a. VIII, n. s, genn. –
dic. 1997, pp. 3-14;
- L’Irpinia applaude al Re Ferdinando II, in “Vicum”, a, XV, marzo – dicembre 1997, pp. 125-130.
19
Opere apparse postume:
- La Chiesa della Madonna delle Grazie, meta del Pellegrinaggio di Mirabella, Mercogliano, 2001, pp. 294;
- Raimondo Guarini. Lo studioso di “Aeclanum”, a cura di V. Iandiorio, Istituto di Scienze religiose “S. Giuseppe Moscati”, Avellino, 2003, pp. 364.
Manoscritti di opere lasciate incompiute:
- La Chiesa di Santa Maria Maggiore di Mirabella Eclano;
- La Chiesa di Santa Caterina in territorio di Mirabella Eclano;
- Cronotassi dei Vescovi di Avellino;
- La diffusione del monachesimo benedettino in Irpinia e la presenza dei Padri
benedettini ad Avellino.
Per alcune notizie bio - bibliografiche si rinvia a:
AA. VV, Per Mons. Nicola Gambino: 50 anni di sacerdozio (1945-1995), Avellino, 1995;
AA. VV., Don Nicola Gambino, Reverendo multimediale, in “Eclano 2000”,
a. II, n. 5 (gennaio – marzo 2001), pp. 31-80.
N. B.: Oltre agli scritti elencati, Mons. Gambino è stato anche autore di
alcune prefazioni e presentazioni di libri nonché collaboratore di alcuni giornali e vari periodici, quali “Il Quotidiano”, “Bonus Pastor”, “Il Ponte”, ecc.;
è il caso di citare ad esempio lo scritto seguente: Il bimillenario di Velleio
Patercolo, in “Il Ponte”, Avellino, 1981, pag. 1. Mi corre l’obbligo di precisare, inoltre, che il profilo biografico presente nei due testi citati sopra è stato
tracciato da Don Pasquale Di Fronzo.
Gennaro Passaro
20
Premessa (*)
Proprio nelle campagne dei piccoli paesi, dove lo sviluppo edilizio
è stato poco rilevante e lo sfruttamento agrario molto contenuto per la
forte percentuale di emigrazione, è possibile anche oggi reperire oggetti
e tracce di notevole interesse archeologico.
É il caso di Villamaina, che offre l’occasione di poter studiare l’attività agricola in un periodo molto tribolato della storia romana, dalle
guerre sannitiche all’impero.
L’interesse a studiare questo territorio non è dato dalla quantità e qualità dei rinvenimenti, ma soprattutto dalle implicazioni giuridiche e politiche che essi richiamano. Per quanto io sappia, finora non è stato fatto uno
studio organico sulle attività agricole nei secc. III-I a. C. in questa parte
mediana dell’Irpinia. Anche gli studiosi di epigrafia, come il Mommsen,
non sono riusciti a precisare un profilo politico del territorio. Lo studio
archeologico ha segnato il passo, rimanendo quasi un hobby di studiosi
locali. L’indagine di scavo è stata carente e quasi snobbata come un lavoro avaro di soddisfazioni in una regione dell’interno considerata ridotta
a regno di pastori. Vederci più chiaro e capirci di più servirà a rendersi
conto di una vicenda politica che ha coinvolto una rilevante popolazione,
spingendola verso un opprimente degrado sociale. Per tali ragioni tenterò
di ricostruire il contesto socio-economico nel quale è possibile raggruppare e spiegare i rinvenimenti archeologici.
La quantità degli oggetti non è rilevante e gli scavi sono ancora a
livello di saggi. É vero. Ma i problemi che propongono e gli interessi
che proiettano diventano motivi per una ricerca più approfondita e indirizzata alla prospettiva di un chiarimento sulle strutture agrarie almeno
di una zona campione della media Irpinia.
*Abbreviazioni
C.I.L. = Corpus Inscriptionum Latinarum, Vol. IX: Inscriptiones Calabriae, Apuliae, Samnii, Sabinorum,
Piceni Latinae, 1883 a cura di Th. MOMMSEN, Berlino , 1883. è il volume più citato nel corso dello studio perché comprende l’Irpinia, che era unita all’Apulia; le epigrafi di Abellinum e dintorni, invece, sono
riportate nel volume X, che comprende tutta la Campania Felix.
I.L.S. = DESSAU H. Inscriptiones latinae selectae , 3 voll. in 5 tomi, Berlino, 1892-1916.
I.L.L.R.P. = DEGRASSI A., Inscriptiones latinae liberae Rei Publicae, 2 voll. I 2a ed., Firenze, 1972.
21
Se commetterò errori di valutazione, avrò indotto altri a darne conto
con una ricerca più accurata e documentata. Ma, per carità, non si chiuda il libro, o il discorso che dir si voglia, perché sarebbe come voler
negare ad un popolo (qui una etnia) il diritto alla sua promozione culturale con l’indagine sulla vita sociale del passato.
Fig. 2 - Mons. Nicola Gambino, Mons. Gaetano Iorio, il prof. Antonio Vuolo e il sig.
Giovanni Famiglietti
22
I
Il nome da riportare alla toponomastica antica.
In passato si fecero diversi tentativi per dare spiegazione etimologica e storica del nome di Villamaina.
Scipione Bellabona1, Vincenzo Maria Santoli2, Fabio Ciampo3, Paolino Macchia4, Angelo Michele Iannacchini5 pensarono ad una villa
nel significato moderno di luogo di riposo, fatta costruire da un nobile
Mario di Abellinum o addirittura da Manio Curio Dentato o da Mario
oppositore di Silla oppure ad un toponimo medievale diffuso altrove.
Queste ipotesi, variamente formulate, sono state possibili per la scarsa conoscenza della storia romana che pure nel secolo scorso aveva già
avuto un rilevante approfondimento e sviluppo, insieme con lo studio
filologico e archeologico del mondo antico. Gli autori sopra citati sono
lodevolissimi quando scrivono di cose attinenti alla loro professione, ma
non lo sono quando scrivono per hobby di cose diverse o di antichità.
Mario Egnazio, irpino, ma non abellinate, e Caio Mario, oppositore
di Silla, erano uomini d’arme, impegnati nel loro compito con tutte le
forze e non avevano tempo da dedicare al “diporto”.
Di Manio Curio Dentato tutti conoscono la sua forza d’animo e la
sua austerità di costumi che non gli consentivano di accettare il tentativo di corruzione da parte dei nemici, né la ricompensa dei Romani dopo
la vittoria6. Perciò non aveva né la volontà, né il denaro per costruirvi
“la sua villamagna”.
Inoltre negli scrittori di storia locale provinciale c’è la tendenza, per la
mancanza di fonti classiche, di attribuire agli uomini più noti di Roma realtà e fatti accaduti nelle zone interne dell’Irpinia. L’omonimia è una cat-
1) BELLABONA S., Ragguagli della città d’Avellino, Trani, 1656, p. 36.
2) SANTOLI V.M., De Mephiti et Vallibus Anxanti, Napoli 1783, p. 61.
3) CIAMPO F., Elogio istorico di Carmine Tommaso Pascucci, Napoli, 1828, nota 13.
4) MACCHIA P., Sulla Valle di Ansanto e sulle acque termominerali di Villamaina in Principato Ultra,
Napoli, 1838, p.30, nota 1.
5) IANNACCHINI A.M., Topografia storica dell’Irpinia, III, Avellino, 1891, pp. 213-216.
6) DUCATI P., L’Italia antica, 3° ed., Milano 1968, pp. 359 sgg.
23
tiva consigliera in un mondo già così popolato , com’era quello romano.
Che non si avesse una idea chiara sull’origine del nome lo comprova
anche il fatto che la tradizione del nome è stata spesso incerta. Infatti
si è scritto Villamaina (e Villa Maina o Mayna o Mania) e Villamagna.
Questa grafia, creduta una forma dotta di chi scriveva in latino, è invece
quella del nome originario del paese.
Ecco le ragioni che mi portano a tale conclusione.
Il nome originario e antico è Villa Magna. Però si sa che la pronunzia popolare, oggi diremmo dialettale, già nei tempi antichi era ben
diversa da quella letteraria o dei dotti. Anzi, verso la decadenza dell’impero, il popolo faceva largo uso di un vocabolario proprio, sopravvissuto da secoli e ingrossato dai prestiti linguistici di altre popolazioni.
Certo è che, quando si scriveva come si parlava, affioravano termini
molto vicini alle forme attuali delle lingue romanze.
Per quanto riguarda il nesso -gn- in centrale della parola, abbiamo già
nel latino della decadenza o parlato o volgare alcune forme molto diverse
dal latino letterario. Così abbiamo aprunae per aprugnae (nell’editto di
Diocleziano; mana per magna (I. L. S., 8156: in tam mana clade non me
reliquerit); mani per magni (C.I.L., VI, 14672: collegi mani).
Però va tenuto presente che il nesso -gn- non aveva nel latino volgare uguale pronuncia in Italia. Così nel centro-nord agnus si pronunciava
quasi ag-i-nus, donde il toscano agnello, pugno, cognato ecc. Nel Mezzogiorno, invece, agnus si pronunciava quasi ag-u-nus donde il napoletano aino, puino (pugno), cainato (cognato).
Quindi non sorge difficoltà nell’accogliere ambedue le forme del
nome: Villamagna (Villa Magna) come forma del latino classico e Villamaina (Villa Maina o Mania) come forma della lingua parlata, accettata oggi dalla toponomastica ufficiale del Comuni italiani. Casi omonimi di Villamaina erano in Abruzzo (oggi Villamagna) e nel Molise, in
passato detta Villamagna o Villa Mayna, dov’era un feudo di S. Sofia
di Benevento7.
Perché fu adoperato il nome villa?
La risposta sembra ovvia: per la presenza di una grande villa romana. Non proprio così. Infatti, occorre tener presente che la parola villa
7) ZAZO A., Chiese, feudi e possessi della Badia di S.Sofia, in “Samnium”, XXXVII, (1964, 1-2) p. 22 e p. 64.
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non ha sempre indicato la stessa realtà, poiché, se la parola non è variata, è mutata la realtà indicata per le trasformazioni politiche, sociali ed
economiche nel corso di parecchi secoli. Oggi, per esempio, indica una
residenza signorile, più o meno sontuosa, nel verde della campagna.
Prima di citare i diversi termini in uso nella legislazione romana per
indicare la proprietà terriera, ritengo utile specificare i nomi.
Praedium è un termine generico per indicare qualsiasi immobile
(praedia urbana e rustica).
Ager è la terra in genere, che si lavora e dà frutto (Servio, Ad Georgica, II, 412: maiores agros incultos rura dicebant, id est silvas et
pascua; agrum, vero, qui colebatur). Poteva essere di proprietà della
città, dello Stato (ager publicus populi Romani) e distribuito con legge
a privati cittadini8.
Fundus, invece, ha un significato più restrittivo, poiché indica un
terreno col suo fabbricato e determinati confini che ne indicano la proprietà. Sia pure in epoca tardiva, così viene indicato dalla giurisprudenza (Florentino, in Digesto 50, 16, 211): fundi appellatione omne
aedificium et omnis ager continetur; sed in usu urbana aedificia, aedes
rustica, villae dicuntur; locus sine aedificio in urbe, area, rure autem
ager appellatur; idemque ager cum aedificio, fundus dicitur9. Il fundus
aveva un suo nome col quale veniva iscritto nel catasto e che gli rimaneva attaccato per sempre.
Villa (in Varrone De re rustica, I,2,14: villa e vella) era un neologismo utilizzato nei tempi più antichi per indicare il fundus. Questo nel
testo delle XII Tavole venne indicato col nome di hortus (Plinio, Naturalis Historia, XIX, 4, 19). Gli scrittori di agraria Catone e Varrone
usano indicare con il nome di villa il complesso del fundus con tutto
quello che vi si trova dentro, piantato o costruito. Più tardi si volle indicare spesso solo l’edificio centrale del fundus. Questo avvenne perché
con la fine del III sec a. C. cominciò lo sfruttamento capitalistico di
grosse estensioni di terre (latifundium) con ampie e attrezzate fattorie
(villa rustica) a conduzione servile e circondate talvolta nel sec. I a. C.
8) ARANGIO-RUIZ V., Istituzioni di diritto romano, 11° ed., Napoli, 1952, pp. 183 sgg.
9) DALMASSO L., Agricoltura, zootecnia e pastorizia, in “Guida allo studio della civiltà romana antica”,
I, 2° ed. Napoli, 1959, pp. 547-573.
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da recinti quasi fortificati. In questo ultimo periodo spesso la villa rustica ha una sua parte lussuosa e ampia destinata ad abitazione continua o
temporanea del proprietario (per es. le ville pompeiane).
Successivamente il termine villa è in qualche modo connesso con
quello di vicus. Infatti, nel periodo imperiale, villa indicò pure un gruppo di caseggiati rustici, però appartenenti a un solo proprietario. Questi,
in pratica, costituivano un vicus vero e proprio per estensione, ma sempre nelle mani di una sola famiglia.
Conosciamo i fondi con i loro nomi di un proprietario di Oppido,
presso Caposele (C.I.L., X, 444 = I. L. S., 3546) al tempo dell’imperatore Domiziano (82 d. C. ): fundus Iunianus, Lollianus, Percennianus, Statuleianus, Quaesicianus e Gallicianus. I primi quattro “cum
suis villis finibusque” furono donati al collegium del dio Silvano perché
si celebrassero delle feste “pro salute Domitiani Augusti”. Si possono
controllare i nomi dei fondi riportati nella Tabula alimentaria dei Liguri
Bebiani del Sannio (C.I.L., IX, 1455 = I. L. S., 6509) ed in quella di
Velleia o Veleia nell’appennino piacentino (C.I.L., IX 1147 = I. L. S.,
6675).
Il latifondo durante l’impero teneva accorpate molte terre, confinanti
o meno, nelle mani di un solo proprietario. Questi prima li sfruttò direttamente con schiavi ed amministratori capaci, ma successivamente le
diede in fitto a coloni (per un canone in natura).
Nel Medioevo, per influsso della conquista franca, il nome villa soppiantò i nomi di vicus e locus nel glossario amministrativo e notarile.
Però, se in Francia passò ad indicare anche i centri urbani (francese ville), in Italia rimase ad indicare solo il villaggio, ossia una terra (paese)
aperta, in contrapposizione a borgo e castello, che erano luoghi murati
e fortificati. Da questa situazione nacque la classe dei villani e l’istituto
del villanatico, relativo alla prestazione dei munera sordida.
Ritornando a Villamaina, perché fu detta magna?
Credo perché molti poderi, probabilmente i migliori, finirono nelle
mani di un solo padrone, che così divenne un grande proprietario ed i
suoi beni costituivano una grande villa (villa magna).
Un nome del genere (il paragone, con le dovute proporzioni è solo
nel nome) si trova riferito ad un esteso possedimento imperiale nell’Africa del Nord, detto “Villa Magna Variana”. La località è nota agli
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studiosi perché da essa sono pervenute notevoli testimonianze della lex
Manciana, relativa alle percentuali da pagare al dominus da parte dei
coloni10 e rimasta nell’uso per alcuni secoli. Come, quando e perché
può essere avvenuta in Irpinia una concentrazione di molti fondi nelle
mani di pochi proprietari?
La risposta va cercata nella evoluzione dell’agricoltura nella nostra
regione, particolarmente nel periodo di passaggio dalle guerre sannitiche ed annibaliche all’impero.
Ritenendo per scontato il fatto che, in epoca romana, almeno fino
alla espansione commerciale e manifatturiera, l’unica fonte di ricchezza
era la terra, perciò occuparsi della terra era un’occupazione dignitosa.
Difatti, ancora durante l’impero, ai senatori veniva interdetta l’attività
commerciale, ma era consentito acquistare e possedere terre in ogni
regione. Del resto l’imperatore, a partire da Augusto, era il più grande
proprietario privato di terre, che amministrava servendosi di una burocrazia competente, fedele e numerosa.
Nell’Irpinia, prima della disastrosa conclusione delle guerre sannitiche, la terra era distribuita in piccoli appezzamenti ed in grosse estensioni demaniali, cioè proprietà comune dei centri abitati, piccoli e grandi, disponibili per la pastorizia. Si sa pure che gli Irpini, come del resto
i Sanniti in genere, abitavano dispersi in piccoli centri (vicatim habitantes, Livio, IX,13). La struttura politica con una grossa amministrazione
centralizzata, gestita da grossi centri urbani, era sconosciuta. Era in uso
una struttura paganica11, cioè distrettuale, che, insieme ad altre, formavano una confederazione.
Dopo la sconfitta da parte dei Romani, gli Irpini divennero un popolo alleato di Roma, con precise condizioni e controlli molto onerosi.
Non potevano avere una propria politica estera e proprie forze militari. I nemici di Roma divennero i propri nemici. In caso di guerra
dovevano fornire a proprie spese degli eserciti. Nonostante questa collaborazione, non erano cittadini romani ed erano considerati ancora de10) DE MARTINO F., Storia economica di Roma antica, Firenze, 1980, pp. 245-250.
11) AA.VV., Popoli e civiltà dell’Italia antica, VII, Roma, 1878; TIBILETTI G., Considerazioni sulle
popolazioni dell’Italia preromana, pp. 17-49 (in particolare: pp. 31 sgg.); CRISTOFANI M., Società e
istituzione nell’Italia preromana, pp. 51-112, in particolare. p. 92.
27
gli stranieri. Anche l’amministrazione civile si conformò gradualmente
a quella romana e con uomini di sentimenti filoromani garantì la fedele
osservanza dei patti di alleanza.
I Romani però temevano tradimenti da parte dei popoli così assoggettati e vollero essere presenti sul posto con la deduzione di colonie di
veterani congedati dall’esercito o di famiglie di coltivatori provenienti
dal Lazio (colonie latine). Inoltre si erano impadroniti di vaste estensioni di terre demaniali o confiscate ad oppositori politici, facendole
divenire terre demaniali romane (ager publicus populi Romani).
Questo ager publicus fu il pomo della discordia causando appropriazioni e distribuzioni a favore dei più attivi uomini politici e perciò divenne oggetto di ripetute leggi o proposte di leggi che intendevano risanare la situazione con quel tanto di giustizia distributiva che l’aumento
dei diseredati richiedeva. Ma lo scopo non veniva quasi mai raggiunto,
perché era un problema politico, nel quale entravano la demagogia e gli
interessi elettorali, nonché quelli economici di influenti uomini politici.
Inoltre, la struttura agricola, già così fragile dell’Irpinia, perché insistente in un territorio collinare e montuoso, spesso soggetto alle frane,
subì gravissime distruzioni durante le guerre di Pirro e soprattutto di Annibale. In quei tempi, infatti, il passaggio di eserciti in guerra equivaleva a
una distruzione rilevantissima. Le truppe requisivano con la forza il cibo
per gli uomini (grano, bestiame ecc.), animali e mezzi di trasporto e fieno
per i cavalli e tutte le altre bestie. Questo era un modo amichevole di attraversare il territorio. Invece, quando si svolgevano operazioni di guerra,
un esercito cercava di danneggiare il territorio per privare l’esercito nemico dei mezzi di sussistenza, rubando più del necessario e distruggendo
e bruciando il rimanente al primo segno di opposizione.
Velleio Patercolo, nonostante che la sua ammirazione per Silla
“uomo che non si finisce mai di lodare”12, lo renda poco attendibile,
dice: “(Silla) condusse l’esercito attraverso la Calabria e l’Apulia fino
in Campania, rispettando i raccolti, i campi, le persone e le città”13
Il fatto doveva essere davvero eccezionale per quei tempi se veniva
considerato un punto di merito per Silla.
12) VELLEIO PATERCOLO, Storia di Roma, Milano 1978, II, 2.
13) VELLEIO PATERCOLO, op. cit., II, 25, 1.
28
Sul territorio irpino e nel Meridione in genere si svolsero operazioni
militari che lasciarono un segno, le cui lontane conseguenze le viviamo
ancora oggi: il latifondismo agrario e il degrado delle terre a campi di
pastori. Intendo accennare alla guerra di Annibale, che nella lotta contro
i Romani, specialmente dopo Canne, allorché si impadronì dell’Irpinia, lasciò dietro di sé “terra bruciata”. Tale triste operazione fu rifatta
dall’esercito romano per occupare di nuovo la regione ribelle14.
E poi ci fu la sollevazione italica con la guerra sociale, seguita dalla
brutale repressione romana. In questa occasione l’Irpinia fu spaccata
e indebolita dalla lotta tra indipendentisti e filoromani, che, con Minato Magio, raccolsero una legione di soldati per dar man forte a Silla nell’occupare Ercolano, Pompei e la stessa Irpinia. Il quadro finale
che ne risultò era questo: una regione spopolata dalla guerra e dalle
continue leve militari, dalla distruzione di piccoli e grossi centri abitati, dall’incameramento nel demanio dell’ager publicus di vastissime
estensioni di terre.
Quali furono le conseguenze di questo pauroso e lungo dissesto, avviato
con la fine delle guerre sannitiche e quasi concluso con la guerra sociale?
Gli uomini politici che dettero man forte ai Romani se ne avvantaggiarono diventando grandi possessori terrieri. Siccome, però, mancavano le
braccia per coltivare la terra, si fece ricorso al lavoro servile degli schiavi.
Nacque così il latifondo. Per ottenere un buon reddito dalle terre, occorreva investire grossi capitali. Per evitare tali spese onerose, si preferì destinare gran parte del suolo alla pastorizia e ricavarne altro dalla distruzione
dei boschi. Così l’Apulia, l’Irpinia e la Lucania divennero grandi produttrici di lana e Taranto assurse a centro laniero di primaria importanza15.
I Romani in passato avevano tentato alcune soluzioni per evitare la
concentrazione della proprietà terriera in poche mani. Infatti avevano
deportato i Liguri Apuani per ripopolare il Sannio e, con i Gracchi,
14) TOYNBEE A. J., L’eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana,
vol.I: Roma e l’Italia prima di Annibale, Torino 1981; vol.II: Roma e il Mediterraneo dopo Annibale,
Torino 1983.
15) SIRAGO V. A. La Regio II sotto Augusto, Napoli, 1978, p. 53, nota 5. L’Apulia è considerata la terra
più spopolata (CICERONE, Ad Atticum, VIII, 3: inanissima pars Italiae). I suoi terreni valgono meno
di quelli delle lontane province (GIOVENALE, Saturae, IV, 27-28). Col valore di vasti campi pugliesi a
Roma si compra invece un solo pesce pregiato.
29
avevano effettuato un controllo sulle indebite appropriazioni delle terre
demaniali (ager publicus). In Irpinia sono stati rinvenuti alcuni “cippi
graccani” nel territorio di Rocca S. Felice e Frigento, Nusco e Montella, cioè i segni visibili dei controlli effettuati dagli agrimensores romani
e registrati nelle mappe catastali (formae). Lo scopo dell’operazione
era quello di una riforma fondiaria in scala ridotta per assegnare terre
ai nullatenenti e inserirli nelle forze produttive della società. I risultati conseguiti da questo atto del potere centrale furono vanificati dalla
guerra sociale. In questa occasione vi furono dei rilevanti arricchimenti
illeciti. Conosciamo pure dei nomi.
Nella ripresa economica e stabilità politica che ne seguì, con una pesante romanizzazione, il municipium di Aeclanum passò nelle mani dei
collaboratori di Silla. Dalla iscrizione che riguarda la costruzione delle
mura della città (C.I.L., IX, 1140) sono menzionati Gaio Quinzio Valgo,
con lo stesso nome del padre “patronus municipii”, una specie di alto
commissario, Minato Magio Suro, figlio di Minato Magio, il comandante
della legione irpina accorsa in aiuto di Silla, e Aulo Patlacio, figlio di
Quinto. Questi erano due dei quattro amministratori del municipium.
Sono tre uomini influenti nella politica irpina. Per quei tempi di regime
oligarchico e aristocratico non facevano fortuna i politicanti di professione,
ma spiantati. Invece, nella logica spietata del sistema, chi era più ricco,
contava di più. Perciò, cominciamo ad esaminare la posizione economica
dei tre personaggi nell’ordine inverso a quello dato dall’iscrizione.
Di Aulo Patlacio, figlio di un Quinto Patlacio, non abbiamo molti
elementi per un giudizio. Se Patulacius è solo una variante di Patlacius,
allora appartiene a questa gens Marcus Patulacius Maximus che fu un
“quattuorvir aedilis quinquennalis” verso la fine della repubblica o nel
I sec. d. C. (C.I.L., IX, 1139).
Della gens Magia conosciamo Marcus (o Minatus) Maximus, che fu
prefetto della provincia di Egitto ed al quale i Terraconenses dedicarono un ricordo nella sua città natale di Aeclanum (C.I.L., IX, 1125).
Invece, di Caius Quinctius Valgus conosciamo molto di più, sia da
fonti epigrafiche che letterarie.
Nell’epigrafe di Frigento, ora al Museo Irpino (ILLRP, 598), Gaio
Quinzio Valgo e Lucio Sepunio, durante la carica di magistrati quinquennali, fanno eseguire e collaudano diverse opere pubbliche delibe-
30
rate dal Consiglio della città (quale?). I lavori eseguiti comprendono “il
muro, le porte, la piazza, il portico, la curia e la cisterna”.
Nell’epigrafe sulla porta di Eclano16, Gaio Quinzio Valgo, nella qualità di patrono del municipio, con in due magistrati cittadini Minato
Magio Suro e Aulo Patlacio soprintendono alla esecuzione delle opere
di difesa deliberate dal Consiglio cittadino. Esse comprendono le porte,
le torri, le mura con le torri della stessa altezza.
Gaio Quinzio Valgo, dopo aver espletato i suoi compiti in Eclano,
consolidando l’amministrazione del Municipio in mani sicure, passò a
Pompei come un maggiorente della colonia sillana ivi dedotta.
In quella città Gaio Valgo e Marco Porcio, in carica come duoviri e in
esecuzione del Consiglio cittadino, appaltarono la costruzione del teatro
coperto e ne collaudarono i lavori17. Qualche anno dopo gli stessi due magistrati, ma in carica come duoviri quinquennali, fecero costruire, questa
volta a proprie spese, il grosso dell’impianto dell’anfiteatro (C.I.L.,I, 1632
= I. L. S., 5627 = I.L.L.R.P., 645 = ONORATO, op. cit. n. 44 = RITSCHL
F., Priscae latinitatis monumenta epigraphica, 1862, tab. LXXVII).
Certamente la spesa fu rilevante, ma altrettanto considerevole era
l’estensione delle sue proprietà terriere. Oltre che in Irpinia, Gaio Valgo
aveva terre a Cassino, dove, in qualità di patrono, eresse la tomba di un
suo fedele liberto18
Il nome figura anche in uno dei tanti appelli elettorali dipinti sui muri
di Pompei (C.I.L., I, 1665, 2° ed. 1922,; IV, 2887 = I.L.L.R.P., 1137):
“Se uno non vota per Quinzio finirà per vivere da schiavo” (Quintiom si
qui recusat, assidat ad asinum…)19
Dal curriculum testimoniato dalle epigrafi si rileva l’inserimento
dell’uomo nella politica e la rilevante ricchezza del proprietario, che gli
consente di spendere somme enormi nella costruzione dell’anfiteatro
16) C.I.L., I, 2° ed 1922; IX, 1140 e 1141 (frammenti di una copia) = I.L.S., 5318 = I.L.L.R.P., 523;
RITSCHL F., Priscae latinitatis monumenta epigraphica, 1862, tab. LXX-c.
17) C.I.L., I, 1633 = I.L.S. 5636 = ONORATO G. O., Iscrizioni pompeiane. La vita pubblica, Firenze,
1957, n. 43.
18) C.I.L., I, 15471 = X, 5282; I.L.L.R.P., 565 = BUECHELER F., Carmina latina epigraphica, 189597, n. 12.
19) DESSAU H., C. Quinctius Valgus der Erbauer des Amphitheaters zu Pompei in “Hermes” 18 (1883)
pp. 620-22; NISSEN H., Pompeianische Studien, p.118 (anfiteatro di Pompei); SGOBBO L., La fortificazione romana in Aeclanum, in “Atti del II Congresso di Studi Romani”, I, pp. 394 e sgg.
31
pompeiano senza impoverirsi. Una sua figlia aveva sposato Publio Servio Rullo, che fu tribuno della plebe per l’anno 63 a.C.. Forse, sollecitato da Antonio e da Cesare, che prendevano voti più dal ceto popolare,
presentò una proposta di legge (rogatio agraria) di una quarantina di
articoli. Cicerone, console nello stesso anno, scese in campo per difendere i grandi aristocratici suoi elettori. Perciò si oppose con quattro
orazioni e riuscì a non farla passare.
Il disegno di legge proponeva di:
1) Lottizzare l’ager publicus italiano e delle province per distribuirlo
ai cittadini poveri di Roma e dell’Italia;
2) Acquistare altre terre per lo stesso scopo, eccettuandone, però, quelle distribuite da Silla ai veterani in Italia;
3) Fornire le scorte agli assegnatari con i fondi derivanti dal bottino
dei generali e dalla vendita dei lotti in soprannumero;
4) Affidare la realizzazione del piano ad una commissione di dieci persone (decemviri).
Cicerone, pur riconoscendo i benefici generici della legge, vi si oppose, temendo che la Commissione dei dieci avrebbe esercitato il potere
in maniera indipendente, al di fuori del controllo del Senato. Cicerone
nelle sue arringhe (De lege agraria) coglie l’occasione per fare degli
addebiti personali a Publio Servio Rullo, accusandolo di favoritismo
per difendere gli interessi del suocero Gaio Quinzio Valgo. Perciò da
queste arringhe possiamo sapere qualcosa di più su questo personaggio.
Cicerone mette in evidenza gli sconfinati possedimenti presso Cassino ed in Irpinia, della maggior parte dei quali si era appropriato profittando del caos politico durante la guerra civile tra Silla e Mario (in
illis rei publicae tenebris. Cfr. De Lege agraria II, 2669) e divenendo
così uno dei più grandi proprietari sillani (“sullanos possessores”, ib).
Insomma, Gaio Quinzio Valgo si impadronì di quello che volle (“tantum
agri…occupavit, quantum concupivit”, ib.). I possedimenti comprendevano gran parte dell’Irpinia (“ita latum est, ut melior tui soceri fundus
Hirpinus sit sive ager Hirpinus – totum enim possidet – quan meus paternus avitusque fundus Arpinas” III, 2, 8). Inoltre, anche con mezzi illegali,
presso Cassino, riunendo nelle sue mani molti fondi, si era formato un
unico possedimento vasto a perdita d’occhio (“Denique eo fundos, quos
in agro Casinati optimos fructuosissimosque continuavit, quod oculis
32
conformando ex multis praediis unam fundi regionem formamque perfecerit, quos nunc cum aliquo metu tenet, sine ulla cura possidet”, IV,14).
Insomma, a parere di Cicerone, quella legge appariva fatta per legalizzare
e difendere gli interessi di Gaio Quinzio Valgo (“eam legem non a vestrorum
commodorum patrono sed a Valgii genero esse conscriptam”, III, 1, 3).
Quali erano i benefici che Valgo ne avrebbe tratto?
1) Avrebbe legalizzato il titolo di possesso: “habet (agros) incertos ac nullo
iure possessos: confirmabuntur” (IV,14); “eos fundos quos in agro Casinati … continuavit … quos nunc cum aliquo metu tenet, sine ulla cura
possidebit” (ibidem); “habet (agros) publicos: reddam privatos (ib);
2) Avrebbe protetto gli interessi costituiti dei “sullani possessores”:”ille
quod habet retinere vult ne se sullanum esse dissimulat” (IV); “hos
agros quos Sulla nemini dedit, Rullus non vobis adsignare vult, sed
eis condonare qui possident”(III, 3, 12);
3) Avrebbe tratto un guadagno dalla vendita delle terre meno fertili e
incolte: “habet agros non nullos, inquit (Rullus), socer meus desertos atque longinquos: vendet eos mea lege quanti volet” (IV, 14).
Attraverso le lunghe citazioni epigrafiche e dalle arringhe di Cicerone possiamo farci un’idea più chiara dei tipi di possedimenti che Valgo
aveva in Irpinia e dei mezzi impiegati per accumularli.
Cicerone distingue il fundus e l’ager. Col primo nome si indicano gli
appezzamenti di terreno coltivati che hanno precisi confini ed un nome
proprio che li rende riconoscibili nel più ampio contesto territoriale nel
quale sono ubicati. Col secondo nome si indica l’ager publicus, cioè la
terra che appartiene allo Stato romano (populus romanus). All’origine
la sua estensione era grandissima. Il terreno confiscato al nemico vinto, infatti, poteva essere un terzo del territorio (Livio, X, 1, 3), la metà
(Livio, XXXVI, 39,3), due terzi (Livio, II,41,1; VIII,1,3), ecc. Gradualmente fu lottizzato ed in parte destinato ai veterani. Nonostante queste
decurtazioni, ancora durante l’impero, la sua estensione costituiva una
rilevante percentuale di tutte le terre coltivate. Una stima calcolata sui
dati della “Tabula alimentaria” dei Liguri Bebiani nel Sannio porta
l’ager publicus al 10% delle proprietà20.
20) DUNCAN-JONES R. P., Alcune conformazioni della proprietà della terra nell’impero romano, in
“La proprietà a Roma. Guida storica e critica, a cura di MOSES J. FINLEY”, Bari , 1980, pp. 1-34.
33
Per quali vie gran parte dell’ager publicus irpino finì nelle mani di
Gaio Quinzio Valgo e di altri grossi proprietari terrieri? Conviene leggere una pagina delle “Guerre civili” di Appiano21.
“I Romani, man mano che sottomettevano con le armi le regioni dell’Italia, si impadronivano di parte del territorio e vi fondavano delle città,
oppure nelle città già esistenti vi deducevano propri coloni: essi consideravano queste colonie come dei presidi. Del terreno volta a volta da loro
conquistato, dividevano subito la parte coltivata fra i coloni dedotti o la
vendevano oppure l’affittavano; la parte che in seguito alla guerra era
allora incolta, ed era la maggior parte, non avendo tempo di assegnarla
in lotti, permettevano con un editto che la coltivasse nel frattempo chi voleva, dietro pagamento di un quinto per le colture arboree. Veniva stabilito un canone anche per gli allevatori, tanto del bestiame grosso, quanto
del minuto. Essi agivano così perché crescesse la popolazione italica, da
loro considerata resistentissima alle fatiche, per aver così alleati in casa.
Ma accadde il contrario delle loro speranze. Difatti i ricchi, occupata la
maggior parte della terra indivisa e resi sicuri col passar del tempo che
nessuno più l’avrebbe loro tolta, quante altre piccole proprietà di poveri
erano loro vicine, o le compravano con la persuasione, o le prendevano
con la forza, sì da coltivare estesi latifondi al posto di semplici poderi.
Essi vi impiegavano nei lavori dei campi e nel pascolo, degli schiavi,
dato che i liberi sarebbero stati distolti per il servizio militare dalle fatiche della terra. D’altro canto, il capitale rappresentato da questa mano
d’opera arrecava loro molto guadagno per la prolificità degli schiavi,
che si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione dalla milizia. In tal modo i ricchi continuavano a diventarlo sempre di più e gli
schiavi aumentavano per le campagne, mentre la scarsità e la mancanza
di popolazione affliggevano gli Italici, rovinati dalla povertà, dalle imposte e dal servizio militare. Se per caso avevano un po’ di respiro dalla milizia, si trovavano disoccupati, perché la terra era posseduta dai ricchi,
che impiegavano a coltivarla lavoratori schiavi anziché liberi.”
Gli studiosi hanno precisato meglio certi termini e condizioni.
Le terre vendute rimanevano allo Stato come titolo di proprietà e
perciò l’acquirente pagava un canone annuo (vectigal), anche se gli era
21) Appiani bellorum civilium liber primus , a cura di E. GABBA, 2° ed. Firenze 1967,7,26-31; pp. 353 e sgg.
34
garantito il possesso perpetuo ed ereditario. Il vectigal equivaleva alla
decima parte (decuma) del prodotto annuo per i seminati e alla doppia
decima per le colture arboree. Il vectigal sul pascolo (scriptura) distingueva fra bestiame grosso e minuto22.
Effettivamente, nel sec II a. C. c’è stata una crisi demografica che ha
colpito Roma, ma soprattutto gli alleati italici e tra questi i Sanniti. Così
nel 209 a. C. dodici colonie latine dichiarano di non poter più fornire
soldati e contributi in danaro (Livio, XXVII, 9, 1 e sgg.). Altri abbandonavano le loro città suscitando lamentele e preoccupazioni: “Perpaucis lustris futurum, ut deserta oppida, deserti agri nullum militem dare
possint” (a. 177; cfr. Livio, XLI, 8, 1, 6 e sgg.).
L’abbandono delle terre da parte dei liberi coltivatori comincia già
dopo la guerra annibalica: molti sono costretti a lunghi periodi di servizio militare, molte famiglie contadine fuggono per paura dei nemici
(Livio, XXVIII, 11, 8-9).
Molte famiglie di piccoli coltivatori, non avendo denaro per ricostituire le scorte e riprendere il ciclo produttivo, ripiantando quello che era
stato distrutto, preferivano vendere le terre e o abbandonare il luogo o
rimanere sul posto, però come coloni e braccianti al servizio dei grandi proprietari. Questi erano i soli che, nonostante i danni delle guerre,
disponevano ancora di consistenti disponibilità finanziarie e potevano
fare incetta di terre (sia dell’ager publicus che private, cioè di fundi.
L’introduzione del lavoro servile fu giustificato col fatto che, solo gli
schiavi, perché non soggetti al servizio militare, potevano garantire la
continuità del lavoro. I piccoli proprietari contadini o liberi salariati
erano impegnati nei lavori stagionali o straordinari, quali, ad esempio,
la raccolta delle olive, la potatura della vigna ecc.23.
Il territorio mediano irpino tra Aeclanum, Compsa ed Abellinum nella indagine epigrafica non si presenta attribuito ad una sola tribù, ma è
abitato da gente forse di diversa provenienza, (parecchi sono di origine
servile e particolarmente mediorientali)24 o per lo meno iscritta a diver22) PARETI L., La storia di Roma e del mondo romano, III, Torino, 1953, pp. 278 e sgg.
23) CURCIO G., La primitiva civiltà latina agricola e il libro dell’agricoltura di M. Porcio Catone, Firenze, 1929, pp. 201 e sgg. e 206 e sgg.
24) GAMBINO N., La presenza di orientali nell’Irpinia romana, in “Civiltà altirpina”, VII (1982, fasc.
1-2), pp. 31-40.
35
se tribù. Come già detto prima, si tenga presente, inoltre, che in questa
parte dell’Irpinia antica vi era un vasto ager publicus che si estendeva
dai territori limitrofi a quelli attuali di Villamaina, Frigento e Rocca S.
Felice, fino a quelli di Nusco e Montella, come provano i cippi graccani
che vi sono stati trovati (129-123 a. C.).
Tutto questo fa supporre che il comprensorio sopra indicato, abbastanza fertile e con piccoli centri abitati, come provano i testi epigrafici ed i rinvenimenti archeologici, doveva formare quell’ager publicus
frutto di conquiste, ma passato ben presto nelle mani di alcuni ricchi
e scaltri accaparratori. Il controllo graccano sull’ager publicus irpino,
sulle grandi proprietà private, non esclusa quella del santuario della dea
Mefite25 aggiornando il catasto (forma), per lo meno recuperò delle rendite allo Stato con un censimento aggiornato.
Comunque, quel poco di ordine che si era cercato di mettere nel
possesso dell’ager publicus saltò e la situazione si ingarbugliò maggiormente con la guerra civile fra Mario e Silla.
Ecco la ragione e la via dell’abusivismo.
I grossi proprietari terrieri già esistenti, come la gens Quinctia, la
gens Magia, la gens Patlacia ed altre, se ne avvantaggiarono maggiormente al tempo di Silla, che li protesse per ricompensarli del loro appoggio. La legione di soldati irpini arruolati da Minato Magio era non
tanto il frutto di un volontarismo spontaneo, quanto la conseguenza di
un’imposizione a coloni ed altri lavoratori dipendenti. Così si spiega
pure l’opposizione degli aristocratici ad una revisione dei possessi proposta dalla legge del tribuno P. Servio Rullo.
La conclusione di questa mia lunga digressione esplicativa è che la
consistenza dei possedimenti di Gaio Quinzio Valgo era davvero rilevante: egli possedeva le migliori terre coltivabili (fundus hirpinus) e la maggior parte dell’ager publicus; (“totum enim possidet”,diceva Cicerone,
III,2,8). Una parte di questo ager posseduto da Gaio Quinzio Valgo era
formato da agri deserti (“habet agros non nullos…desertos atque longin-
25) APPIANO, op. cit., p. 57, nota 74. Il Mommsen (C. I. L., IX, p. 91) non scarta l’ipotesi che i termini
graccani di Rocca San Felice siano stati posti a delimitare le terre del santuario di Mefite (“si … ipsi ad eam
deam referuntur, quam publica, factam esse populi romani et agrum suum ab eo recepisse, nihil impedit”).
36
quos” IV ,14) cioè boschivi ed incoltivabili o destinati alla pastorizia26.
Per quello che riguarda i limiti geografici di questa mia ricerca, si
può pacificamente ritenere che gran parte dei fertili terreni tra Eclano,
Frigento e Rocca S. Felice e tra la valle del Calore e quella dell’Ufita
era nelle mani di Gaio Quinzio Valgo. Tuttavia, bisogna pur considerare
che le terre devono essere sfruttate razionalmente, se si vuole che producano ricchezza.
I terreni nell’immediato dintorno di Eclano rimasero in parecchie
mani, cioè di amici politici, perché erano i più ambiti, in quanto più
fertili. Invece, i terreni più lontani o a quote più elevate, più facilmente
potevano concentrarsi in poche mani, come del resto avviene ancora
oggi con proprietà in proporzioni più estese.
Comunque Villamaina, per la posizione di gran parte del suo territorio, si prestava tra l’altro per una produzione specializzata e redditizia:
olio, vino, ortaggi e cereali in genere.
Perciò furono rifatte e ampliate le piantagioni negli uliveti e nelle
vigne. Le ville rustiche o fattorie furono attrezzate razionalmente e con
impianti tecnologicamente più progrediti per lavorare il raccolto agricolo. Furono costruiti impianti per la conservazione dei prodotti, in attesa della commercializzazione verso i mercati interni dei grossi centri
abitati: Aeclanum, Abellinum, Beneventum, Roma. Non ci sono documenti per supporre rapporti commerciali con le province d’oltremare.
Questo era un appannaggio quasi esclusivo delle grandi ville del litorale
tirrenico dalla Campania alla Toscana, dove il costo del trasporto aveva
una minore incidenza sul prezzo finale.
I rinvenimenti archeologici più consistenti di Villamaina sono attribuibili alla fine della Repubblica e al primo secolo dell’Impero. Costituiscono, perciò, la conferma di quanto detto sopra.
26) WHITTAKER C. R., “Agri deserti” , in “La proprietà a Roma. Guida storica e critica” a cura di
MOSES J. FINLEY, Bari 1980, pp.167-204 (durante il basso impero); DE MARTINO F., Storia economica
di Roma antica, Firenze, 1980, pp. 402-404.
37
Figg. 3, 4 - Immagini dell’antico mulino ad acqua in località “Le Conche”
in Villamaina. Nella prima foto il sig.
Vincenzo Caputo evidenzia il punto
in cui il bacino di raccolta dell’acqua
alimenta il getto idrico che, cadendo
nella torre, fornisce l’energia meccanica alle mole sottostanti. Le foto
riportano le vecchie costruzioni, ora
completamente rifatte in un elegante
complesso agrituristico.
38
II
Le principali testimonianze archeologiche
1) Le ville rustiche
Il rinvenimento più sensazionale ed importante è degli ultimi anni.
Dopo il terremoto del 1980, un’area a oliveto alle spalle dell’edificio
scolastico fu prescelta dall’Amministrazione Comunale per l’insediamento dell’edilizia popolare. Al momento di livellarla, emersero strutture archeologiche. La Soprintendenza alle antichità effettuò tre o quattro scavi di saggio, facendo affiorare a poca profondità i resti di una
villa rustica romana. Oltre il livello di pavimentazione e di canalizzazione rustica, affiorò il contrappeso monolitico, dalla forma di grosso
cilindro calcareo, di un torchio. É un tipico manufatto, che si diffuse
nel mondo romano, anzi mediterraneo, sopravvivendo in Europa fino
all’epoca moderna. É il torchio per l’uva e le olive a vite senza fine e
con contrappeso. Esso è così descritto da Plinio:
“Negli ultimi cento anni sono stati realizzati dei torchi su modello
greco, caratterizzati da un dado della trave orizzontale a forma di vite
senza fine maschio. Di tale macchina esistono due tipi: con travicelli disposti radialmente, conficcati nella trave verticale a forma di vite
senza fine maschio (e un contrappeso fisso) e (sempre con i travicelli,
ma in questo caso non più necessari per abbassare la trave orizzontale
a forma di vite senza fine maschio, che solleva con sé il contrappeso,
costituito da una cassa piena di pietre. Questo tipo è quello che appare
più funzionale” (Naturalis Historia, 18,317)27
Questo manufatto ci obbliga a non risalire oltre la seconda metà del
sec.I a. C. I frammenti di ceramica ed altri particolari ci obbligano a
rimanere entro i limiti del sec.I a.C.
L’attività sarà continuata, ma, data la crisi che nel sec. II d. C. investì
27) KOLENDO J., L’agricoltura nell’Italia romana, Roma, 1980, p. XXI e fig.3 a p. XXIX; CARANDINI A. – SETTIS S. Schiavi e padroni nell’Etruria romana. La villa di Settefinestre dallo scavo alla mostra.
Bari, 1979, pp.70-73 e pannelli 18 e 19 con grafici per il funzionamento del torchio del sec XVIII, che continua quello romano. CATONE (De agricoltura 18-19) spiega come funzionava il torchio (torcular) usato
fino alla metà del sec. I a. C. Un esemplare di questo tipo fu rinvenuto e ricostruito nella Villa dei Misteri
a Pompei, cfr. la foto parziale a pag.72 - Fig.17 in CARANDINI, ibidem.
39
l’esportazione e, quindi, la richiesta del vino e dell’olio, per la scarsa
volontà dei proprietari a risiedere sul posto, preferendo città, e a causa
della rarefazione della manodopera servile, il sistema delle ville rustiche quali fattorie organizzate scomparì rapidamente. Si preferì fittare a
coloni i fondi, con l’obbligo di versare in natura al padrone, residente in
città, una percentuale fissa del raccolto. Venendo a mancare il capitale
necessario per mantenere un campo arbustato, prevalse la coltura cerealicola ed a pascolo. In tale modo si delineò l’avanzata di una agricoltura
di sussistenza o di sopravvivenza28.
Nel periodo di fine repubblica a Villamaina lo sfruttamento agricolo
era intensivo. Secondo i canoni descritti da Catone, ma risalenti alla
ricca esperienza passata del contadino italico, gli oliveti occupavano il
versante occidentale; i vigneti, invece, rivestivano le terre sud-orientali
della collina di Villamaina. Per questa ragione, nella contrada di Formolano sembra che siano affiorati o affiorino ancora ruderi che fanno
pensare ad un’altra villa rustica. Nel centro abitato e nei pressi della
piazza, nella costruzione di un palazzo, affiorarono pavimenti in coccio
pesto, spessi una ventina di cm, a bordi rialzati ed altro. Il locale così attrezzato era a notevole profondità rispetto al livello attuale della strada
e della piazza: poteva avere un ingresso a livello di strada sul versante
nordorientale. La cosa fa pensare ad un ambiente fresco e attrezzato per
conservare vino e olio, i due prodotti pregiati della zona.
Naturalmente il locale non era una struttura isolata, ma era la dipendenza di un fabbricato più grande, forse un’abitazione signorile e di
proporzioni abbastanza rilevanti.
Abbiamo così ville rustiche fuori dell’attuale centro abitato e qualcosa forse più importante nel centro abitato, anche se non nel centro
medievale murato. Potrebbe essere questa che posteriormente ha fatto
aggiungere quell’attributo di magna alla villa in confronto delle altre?
Forse intorno a questa sorse poi il vicus o un gruppo di abitazioni di
contadini e artigiani.
Quali sorprese potrà riservare in materia una indagine meticolosa e
generale sul territorio?
Le ville rustiche di Villamaina, fornite di torchio non sono le uniche.
28) KOLENDO J., op. cit. p. XXVII; CARANDINI-SETTIS op. cit. pp. 89-93.
40
Infatti nel 1901 ne fu rinvenuta una alle spalle di Luogosano, in località
S. Stefano, in prossimità della strada antica, poi detta Napoletana, che,
attraversando il territorio di Gesualdo, nel versante che scende verso il
Fredane, raggiunge Villamaina, passando per la Taverna del Conte, la
contrada Felitto e la Mefite, per raggiungere infine la via Appia presso
il Monte Forcuso e Guardia dei Lombardi29.
2) Le epigrafi
Iscrizioni romane sono state segnalate fin dal sec. XVII nel territorio
di Villamaina.
Il Bellabona scriveva: “Vi era anche in tempi dei Gentili una villa
chiamata Formolano, hor distrutta, sita nell’istessi Valli Ansanto, produceva potenti et ameni vini, molto lodati da antichi scrittori e sin’hora
li produce. Vi si vedono alcune reliquie d’iscrittione de’ Gentili trasportate a Villamaina che sta d’appresso ed altre alla Torella30”.
La notizia pubblicata dal Bellabona doveva circolare da tempo perché vi accenna con ammirazione un poeta latino avellinese dell’inizio
del secolo. Egli scrive:
De Villa Magna
Scire velim cur Villa diu tu Magna voceris
Dum patet exiguum te nimis esse locum.
Nobilitas rerum reddit claramque vetustas,
te Magnam Baccus, frux, ager, unda facit.
(Traduzione: Vorrei sapere perché tu, da molto tempo, sei chiamata
Villa Magna, mentre chiaramente sei una località troppo piccola. La
nobiltà e l’antichità delle cose ti rendono illustre, le vigne, i frutti, le
messi e le sorgenti ti fanno grande.)
29) “Notizie degli scavi di antichità” , 1901, pp. 333-336.
30) BELLABONA S., op. cit. p. 24.
41
A quali res si riferisce il poeta? Saranno ivi compresi dei palazzi,
delle chiese e dei resti antichi (oggetti, monumenti, iscrizioni ecc.).
Infatti la nobilitas può riferirsi alle chiese e palazzi costruiti entro
la fine del secolo XVI (la Chiesa della Madonna di Costantinopoli
nel 1587 da Vincenzo Caracciolo, figlio di Annibale Caracciolo). La
vetustas deve invece riferirsi solo alle cose antiche (oggetti). Ciò fa
supporre che durante il sec. XVI a Villamaina qualche persona colta
si sia interessata di antichità recuperandole e collocandole a vista su
edifici o in pubbliche piazze. Ciò avvenne per Mirabella e per Avellino e per altre località, allorché dotti umanisti , pieni di entusiasmo
e di ammirazione per i resti dell’arte classica, per le iscrizioni ecc.,
li descrissero, li fecero conoscere a studiosi delle grandi città, ne trascrissero i testi epigrafici. Così da quell’epoca cominciarono ad apparire epigrafi irpine nelle più importanti raccolte nazionali. A questo proposito sarebbe interessante uno studio sugli ambienti culturali
umanistici dell’Irpinia nel sec. XVI.
Paolino Macchia, medico di Villamaina, è più esplicito e più abbondante.
“Nei dintorni del paese e specialmente nella contrada Lenze si
trovano delle bellissime corniole. Una ve n’è ove è incisa la lupa che
poppa Romolo e Remo ed un’altra nella quale ambo i germani, con
l’aratro tirato da due bovi, segnano i confini di Roma. Nella contrada
Cisterne sono dei pavimenti a musaico, vicino ai quali si rinvenne
marmorea lapide sepolcrale, indicante l’avello di Vitellia, liberta di
O. Vitellio, famiglia romana innestata a Lucera donde era l’imperatore Vitellio, siccome lo avverte l’erudito Federico Cassitto, segretario
della nostra Real Società Economica, uno di quelli dei cui talenti va
superba la nostra provincia. Presso la pubblica fontana di Formolano, in un giardino della famiglia Incarnati, prossime e certe vetuste
mura, nel 1836 si scavarono molte figuline, statuette di argilla cotta,
simili a quelle rinvenute presso Ansanto. Le più erano dell’altezza di
circa mezzo piede, rappresentanti gente togata, idoletti come quelli di
Giove Ammone, baccanti con ghirlande di edera. Pezzi di varie teste
della naturale grandezza vi erano ancora e di mediocre scultura: altre assai piccole portavano capelli che dicevi all’ultima moda e talune con specie di pagliettine alla toscana. Vi si cavarono busti infranti
42
e ben punteggiati, avvanzi di coppe, di patere e di altri vasi di non
dispregevole ornato e vasi lacrimali vi si trovarono in gran copia.”31
L’elencazione è chiara, anche se non esauriente. Di particolare interesse è l’inventario delle terrecotte rinvenute nel 1836 a Formulano.
L’autore certamente le ha viste e perciò rimane sorpreso della grande
somiglianza con le statuine fittili che si rinvenivano alla Mefite. Nella
maggior parte sono alte circa 15 cm, hanno toga (cioè vestiti con molte
pieghe), vi sono a suo giudizio idoletti e baccanti coronate di edera. Vi
sono frammenti di teste a grandezza naturale e testine molto piccole
con belle acconciature. Interessa molto la somiglianza con il materiale
votivo della Mefite; per spiegarla darò in seguito una mia ipotesi.
Il versante di Formolano è stato così ricco di rinvenimenti archeologici da far congetturare che qui vi fosse stato in passato un paese e
cioè l’antica Villamaina, della quale la contrada conserverebbe il nome
antico.
Angelo Michele Iannacchini32 riassume gli autori precedenti aggiungendo qualcosa di nuovo. Egli scrive:
“Nel versante sud-est della graziosa collina sulla quale è fabbricata
Villamaina, sono state trovate delle cose antiche con vestigia di antichi
edifizi, non che lapidi epigrafiche, però che riguardano la tribù Galeria. Ora si domanda sapere: anticamente era quivi una terra abitata?
quale nome teneva?”
L’autore continua riferendo i pareri dei diversi scrittori citati all’inizio di questo studio.
A questo punto è ovvia la domanda: quale consistenza ha il materiale
epigrafico?
Nel Corpus del Mommsen sono riportate due iscrizioni site nel centro abitato di Villamaina ed un’altra in campagna, ma da storici antichi
attribuita a Torella. A queste tre vanno aggiunte altre quattro inedite.
1
C.I.L., IX, 1035 in parte rotta e di difficile lettura perché consunta
per essere su pietra dolce, che si scrosta, e con incisione poco profonda.
La lapide, con queste dimensioni: Larghezza minima: 50 cm, Altezza
31) MACCHIA P:, op. cit., p.32, nota 42.
32) IANNACCHINI A. M., o. c., vol. III, p. 213.
43
60 cm, Lettere alte 7-6 cm, è’ stata recuperata dopo il terremoto dalle
macerie del palazzo del Duca di S. Teodoro ( = palazzo del conte), dove
la lesse il Dressel. É contornata da una cornice.
Lettura: (Diis Manibus) / L(ucius) FONT(eius) (FE)
LICISSIM(us) / V(ixit) A(nnos) ….
SEVERO ET Q(uintiano) / (co) N(sulibus)
Trad: Sacro agli Dei Mani. Lucio Fonteio Felicissimo, visse anni
…. (fu sepolto) nell’anno in cui erano consoli Severo e (L.Ti.Cl Aurel.)
Quinziano ( = a.235 d. C. ).
2
C.I.L., IX, 1036. Il Dressel la lesse inserita nel muro della cappella
della Madonna del Carmine. Egli ammirò le sue “bellissime lettere”.
MVRRIA P. F.
POLLA
Lettura: MURRIA, P(ubli) F(ilia) / POLLA
Trad.: Murria Polla, figlia di Publio
É una iscrizione funeraria senza l’abituale, ma non sempre inciso,
segno D.M., che richiama la religiosità del luogo della sepoltura.
3
C.I.L., IX, 1016 = I. L. L. R. P., 921. Viene riportata nel Corpus tra
44
quelle di Torella, tenendo presente più la indicazione antica del Santoli,
che la ubicazione della lapide. Infatti il Dressel la lesse nella masseria
di S.Paolino, sotto Villamaina, ossia nella contrada di Formolano. É in
lettere antiche e viene attribuita all’epoca repubblicana, anche per quella
forma arcaica di sueis per suis dell’ultimo rigo. É tuttora conservata nello
stesso posto.
Lettura: C(aius) BLASSIUS, C(ai) F(ilius) / GAL(eria) H(ic) S(itus)
E(st)/ P(ublius) BLASIUS C(ai) F(ilius) / C(aio) M(arco) Q(uinto)
N(umerio) / BLASIS VIVIS / SIBI ET SVEIS FE(cit).
Trad.: Qui è sepolto Gaio Blassio, figlio di Gaio, e iscritto nella tribù
Galeria. Publio Blasio, figlio di Gaio, eresse questo monumento anche
per i componenti ancora in vita della famiglia dei Blasi e cioè Gaio,
Marco, Quinto e Numerio, per sé e per i suoi.
Come si vede, trattasi di un’area sepolcrale riservata alle famiglie
di Gaio Blasio e dei figli. Il praenomen è più correttamente Blasius,
anche se si trova all’inizio Blassius, che può essere sia un’ostentazione
di arcaismo o addirittura un idiotismo dialettale.
Il Santoli33 invece afferma che la tomba dei Blasi era stata rinvenuta
di recente nel territorio di Torella. (“In Taurella sepulchrum pulcherrimum nuper repertum insequenti inscriptione decoratur: D.M./C.BLASSIUS…”). Egli, però, ne dà una trascrizione poco fedele: ripete sempre
BLASSIUS-BLASSIS. Omette l’ultimo rigo SIBI ET SVEIS FE. (e
non F.F.), ma aggiunge la sigla D.M., che, invece, non esiste. Anche la
interpretazione parte da una falsa lettura. Nel testo Dressel è uno solo
33) SANTOLI V. M., o. c., p. 51.
45
che erige la tomba (FE. = fecit). Per il Santoli sono due (F.F. = fecerunt),
anche se egli esprime la sua incertezza. :”Quam ego sic legerem: C(um)
M(arco) Q(uinto) N(epote) Blassis vivis fecerunt”.
Ma perché sono contrastanti le affermazioni circa il sito del rinvenimento e della conservazione? Suppongo che sia colpa delle affermazioni
delle fonti orali e della poca scrupolosità degli informatori. Penso che il
Santoli non l’abbia mai letta di persona, perché, data la sua pignoleria,
non avrebbe commesso certi errori. Pure A. M. Iannacchini mostra di
essere scarsamente informato quando scrive34 “Attiguo alla chiesetta di S.
Antonio Abate havvi il busto di un uomo in toga ed in questi pressi il Santoli leggeva : C. BLASSIUS…”. La chiesetta esisteva nella parte bassa di
Torella. Meraviglia molto che una sessantina di anni dopo del Santoli la
iscrizione si trovi già da molto a Villamaina e non per ornare la casa di un
danaroso antiquario, ma in una “massaria” della campagna.
Ora seguono altre quattro iscrizioni inedite o non accolte nel Corpus.
4
L’iscrizione (Larghezza: 38 cm, Altezza: 36 cm, Lettere alte 6 cm)
è leggermente mutila ed è stata recuperata nelle demolizioni dopo il
terremoto. É in lettere belle e ben incise.
Lettura: (L)ARIBU(s) / ET GENIO / GAL(eriae) N(uminibus)
P(ecunia) P(ublica) F(actum et) P(ositum).
Trad: Ai Lari e al Genio, protettori (della tribù) Galeria. (É stato)
fatto e sistemato con denaro pubblico.
34) IANNACCHINI A.M., o. c., vol. III, p.38.
46
Occorrerà prima rendersi conto del senso del contenuto e poi discutere sulle indicazioni che se ne possono trarre per Villamaina.
Il “Lare” inizialmente era lo spirito del capostipite della famiglia. In
seguito e nella forma plurale “i Lari” (Lares) rappresentano gli spiriti
di una comunità. Sono ben noti i Lares compitales , cioè dei crocicchi
delle vie, che venivano festeggiati nelle Compitalia, feste di origine antichissima e celebrate verso il 23 dicembre, specialmente da persone di
basso livello sociale. “Il culto dei Lari era assai diffuso in Italia in età
preaugustea, come risulta sia da particolari dediche ai Lari, sia dalla
istituzione dei collegi compitalici, i quali sono documentati non soltanto in gran parte delle regioni italiane, ma largamente in Delo, dove nel
II e I secolo operavano mercatores italici”35.
“Il Genius, invece, era la rappresentazione delle virtù e delle forze di
ognuno. Perciò non soltanto c’era il Genio per ogni uomo, ma pure un
Genio per ogni modo di associarsi degli uomini. Infatti c’era il Genius
Populi Romani, ma pure il Genius di ogni collegio simile”36.
L’epigrafia è ricca di esempi. Abbiamo dediche al “Genius coloniae
et colonorum” (Nola) (I. L. S., 116), un’altra al “Genius coloniae Beneventanae”, fatta con denaro proprio dalla liberta Seppia Fidelis di
Equotutico (C.I.L., IX, 1418). L’epigrafia eclanese ci ha restituito due
dediche al Genio senza aggiunte (C.I.L.,IX, 1093 e 1094).
Parecchie volte i Lares ed il Genius sono accomunati nell’invocazione , così “Lares et Genius” (I. L. S., 3604-3641).
Le considerazioni da farsi per l’iscrizione di Villamaina sono: l’epigrafe è ben incisa, con lettere eleganti e ciò la riporta al tempo migliore dell’epigrafia latina (fine della repubblica e periodo augusteo); il
contenuto deve riferirsi al tempo in cui era ancor viva la soddisfazione
di aver ottenuto la cittadinanza romana con la iscrizione nella tribù Galeria e ci si augura di poterla conservare nonostante i rischi e i torbidi
della guerra civile alla fine della repubblica o anche può significare una
generica invocazione di protezione sulla tribù, qui intesa come il raggruppamento dei cittadini liberi in una zona dell’Irpinia , durante l’opera di pace e di restaurazione civile e religiosa intrapresa da Augusto.
35) DE SANCTIS G., Storia dei Romani, IV, parte II, Tomo I, Firenze, 1963, pp.237-242.
36) DE SANCTIS G., op. cit., pp.143-146.
47
Dato il carattere popolare di queste devozioni ai Lari e al Genio, si
può dedurre che la dedica sia opera collettiva dei liberi coltivatori, ossia
dei cittadini romani, della zona, che raggiungono un certo numero e
conservano una tal quale unione nel difendere i propri interessi.
Come si vede, potrebbe essere una conferma di quanto si sa dallo
scavo della villa rustica, attribuibile alla fine della repubblica romana.
La ripresa di attività nella zona avrà portato anche un maggior benessere, limitato quanto si voglia, ma pur sempre un importante traguardo
rispetto alle situazioni precedenti.
5
Di un’altra iscrizione, alla quale accenna Paolino Macchia e studiata
da Federico Cassitto, finora non ho reperito il testo. Comunque, la parte
essenziale dell’epigrafe funeraria è la seguente:
QVINTILLA Q. L.
ossia Quintilla, liberta di Quinto.
Il nome interessa per diverse ragioni. Doveva essere una donna benestante e abbastanza ricca se, a poca distanza, in passato furono scoperti resti di pavimento a mosaico.
Il nome Quintilla è legato ai tanti Quintus e Quintius irpini. Questo
nome compare anche in una ben nota iscrizione dedicatoria alla Mefite,
rinvenuta presso Equotutico (C.I.L.IX 1421: PACCIA Q(uinti) F(ilia) /
QUINTILLA / (Me)FITI VOT(um) / (s)OLVIT.
6
La iscrizione che segue mi è stata trasmessa per sola tradizione orale:
TROLLIA L. ( = TROLLIAE)
PAMPHIAE
VOTO PAVIMEN
Potrebbe essere letta così (sempre che i righi siano interi e non mutili):
TROLLIAE / PAMPHIAE / VOTO PAVIMEN(tum) / (positum est).
Trad: Questo pavimento è stato fatto per volontà di Trollia Pamfia.
48
Siccome si parla di un voto, è molto probabile che nella contrada
Formolano, alla quale l’iscrizione appartiene, ci sia stato un tempietto
o aedes dedicato ad una qualche divinità che non conosciamo. Il fatto è
possibile dato il rilevante numero di oggetti antichi affiorati nella zona;
il che fa supporre un certo raggruppamento di famiglie in quella località.
7
A contrada Vertoli c’è una iscrizione sepolcrale, quasi illeggibile per
la consunzione. In attesa di nuovo controllo, si legge:
D.M.
VITE……
VI…. OLYMPIDI…..
…YMPIDI…
…M.F.
Sarà possibile intendere: D.M. / VITE(lliae).. / (Q)VI(nti) OLYMPIDI (filiae) (Quintus Ol) YMPIDI(us) / (bene)M(erenti) F(ecit).
Ossia: Luogo sacro agli dei Mani di Vitellia, figlia di Quinto Olimpido, (il padre) Quinto Olimpio fece alla sua cara figlia.
É tutta e soltanto una ipotesi da verificare.
Nell’epigrafia eclanese (C.I.L.IX 1325) una iscrizione mutila dice:
VITELLIAE Q..
D’altra parte il nome Vitellia è ben noto nel territorio di Villamaina,
come proprietaria di una importante fornace di terrecotte (figlina), poiché il suo bollo ricorre con frequenza.
3) I bolli laterizi
Sei bolli laterizi sugli otto esaminati portano scritti questi due nomi
PLOTI e VITELLIAE. Li riferisco distinti poiché sono incisi su due
stampiglie separate, che non sempre vengono impresse nello stesso ordine. Il primo dei due presenta le seguenti dimensioni: Coda di rondine
15 mm; Lunga 50 mm; Altezza 23 mm; Altezza lettere 23 mm; Spessore 30 mm; Lunga 70 mm; Altezza 23 mm; Altezza lettere 15 mm.
49
I due nomi sono frequenti nell’onomastica romana: ma se Plotius
è assente nell’epigrafia eclanese, vi è presente invece Vitellia nell’iscrizione incompleta prima riferita. Potrebbe essere una vedova che ha
ereditato una fornace ben avviata, gestita dal marito. A tale ipotesi porta
un altro bollo mutilo in cui si legge Q.PE…/PLO… ( = Quintus Pedius
Plotius), da questo Plotius ha preso nome lo schiavo addetto al lavoro
nella qualità di operaio specializzato.
Che sia stata una fornace di una certa consistenza, lo dimostra anche
il fatto che alcune tegole identiche e con la scritta PLOTI/VITELLIAE
sono state rinvenute nella collina di Santa Felicita a Rocca S. Felice.
A Villamaina tale bollo, invece, è quasi esclusivo e ciò fa ubicare in
questo paese la fornace, che esporta il prodotto anche nei paesi viciniori.
É possibile fare ancora una considerazione. Nei tempi più antichi il
sigillo era fatto in forma rettangolare, dal sec II d. C. si diffuse quello in
forma lunata o in tre cerchi concentrici37.
É interessante inoltre constatare che il mattone, essendo un materiale
costoso, scompare dall’edilizia nei tempi di crisi.
H. Bloch esaminò ben 3200 bolli laterizi di Roma38 e concluse che
i due terzi appartenevano al tempo di Adriano, allorché si era realizza37) Cfr. Enciclopedia dell’ Arte Antica, sub voce: arte muraria.
38) BLOCH H., I bolli laterizi e la storia edilizia romana. Contributi all’archeologia e alla storia romana in “Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma”LXIV (1936), pp.141-225; LXV
(1937), pp. 83-187: LXVI (1938), pp. 51-221; LXXI (1943-45), Aggiunta di pagine 20. Gli studi furono
ripubblicati in volume dal titolo I bolli laterizi e la storia edilizia romana (Studi e materiali del Museo
della Civiltà Romana, Roma 1947. Cfr. Enciclopedia dell’ Arte Antica, sub voce: Bolli laterizi, dello stesso
autore.
50
ta la massima espansione edilizia della città. Nel sec III, invece, vi fu
una notevole decadenza durante la quale si preferì usare la muratura di
tufo, soltanto listata di laterizi. Con Diocleziano, che si impegnò nella
costruzione delle grandiose terme, si ebbe una ripresa della muratura
di soli mattoni. Dopo Costantino iniziò una decadenza senza ritorno e
si finì per utilizzare saltuariamente in buona parte materiale di spoglio.
Quello che avveniva a Roma non era un fenomeno isolato e circoscritto. Anche da noi, come per esempio ad Aeclanum, è riscontrabile
un notevole sviluppo edilizio con Adriano (per esempio le terme della
città), che andò progressivamente diradandosi utilizzando tecniche e
materiali scadenti e mortificando l’aspetto artistico del manufatto. Infatti sempre più spesso si preferì costruire con pietrame o tufo, metodo
più economico e vantaggioso in un periodo di grave crisi, utilizzando di
preferenza quei mattoni reperibili da edifici diruti sul posto. Così sulla
collina di Santa Felicita a Rocca S.Felice, nel restauro o ricostruzione
di una casa di origine irpina, (vi furono rinvenuti un peso da telaio ed
un vaso con scritte in lingua osca) furono utilizzate come materiale per
compattare la muratura ad incerto alcune lastre di terracotta con scene
bacchiche a rilievo e di fattura ellenistica39.
Da quanto detto innanzi, i bolli laterizi esaminati possono essere attribuiti genericamente al periodo interposto tra la fine della Repubblica
ed il tramonto del I sec. d. C. .
39) PESCATORI COLUCCI G., Il Museo Irpino, Cava dei Tirreni , 1975, p.38 e figg. 23 e 24: “Questi
manufatti, prodotti in un ambito cronologico che va dall’età ellenistica agli ultimi anni della repubblica,
rinvenuti in una zona in diretto contatto con la via Appia, sono maggiormente legati ai materiali sia dell’ambiente campano, sia di quello magno-greco”.
51
III
Altri reperti archeologici
Questo titolo può far pensare a qualcosa di secondaria importanza,
ma non lo è per niente. Ho voluto soltanto raggruppare oggetti diversi.
Difatti, trattasi di oggetti preistorici, frammenti di ceramica campana
ed oggetti fittili.
1) Reperti preistorici
Nel territorio di Villamaina, abbondantemente arborato, fa spicco
l’altura, in gran parte priva di vegetazione, che si eleva delimitata dal
vallone dei Bagni e dalle Terme di S.Teodoro, dallo stretto del “Luccolo” e a nord ed ovest dai valloni che scendono da Frigento. La parte
alta (m. 568), denominata Felitto, è occupata da un castagneto. La parte
bassa (m. 458 al ponte, prima di salire al Felitto, e m. 480 alle Terme di
S. Teodoro) prende il nome di Melazzo e Cerasito. La superficie, senza
precipizi e scoscendimenti, può essere valutata all’incirca kmq 1,50.
Incuriosisce il fatto che in gran parte manchi la vegetazione arborea, anche se il terreno non è infertile. Attualmente impoverito del suo
humus dal dilavamento provocato dalle piogge, è coltivato a cereali e
fieno. L’impoverimento deve aver avuto inizio in epoca molto lontana
da noi e finora non c’è stata nessuna opera di forestazione.
Proprio questa zona, attraversata da un ampio tratturo, poi denominato Via Napoletana, è interessata da un insediamento preistorico molto
antico ed anche consistente.
La individuazione di tale insediamento è stata puramente casuale,
dovuta alla raccolta di selci lavorate, emerse durante lavori di aratura,
accompagnate quasi certamente da altri indizi, in verità pochi, ai quali
non è stata data sufficiente attenzione e perciò non è stata mai programmata una indagine scientifica da parte di esperti del settore.
Le ragioni di rinvenimenti sparsi sono state così riassunte dagli studiosi: ”Prima di costruire abitazioni fisse, con le quali si conclude la
fase della vita nomade, gli uomini preistorici vissero a lungo in accampamenti , riparandosi certamente sotto capanne di frasche, Delle abitazioni id questo periodo è impossibile trovare una qualsiasi traccia, ma
accade a volte di scoprire i luoghi dove i nostri antenati si accamparono,
52
denunciati dalla presenza di focolari, di attrezzi litici abbandonati e di officine di lavoro. Queste stazioni all’aperto sono particolarmente numerose
nel Neolitico e si rinvengono per caso, durante ricerche in superficie, nelle
terre coltivate o nei boschi”40.
Il materiale recuperato è vario. Infatti “le selci che gli uomini preistorici
hanno scheggiato servivano come armi o attrezzi. Nelle officine di lavorazione si rinvengono blocchi di materia prima, pezzi lavorati e infine alcune
schegge inutili, che sono gli scarti di fabbricazione, i rifiuti.”41.
Naturalmente non si possono attribuire al lavoro dell’uomo antico tutte
le schegge recuperabili sul terreno. Infatti i blocchi di selce, appartenuti a
strati compressi nell’argilla selcifera, sono soggetti “a una disgregazione
alveolare” prodotta da cause termiche, cioè il passaggio freddo-caldo o il
contatto col fuoco. Perciò occorrono persone molto esperte in materia e scavi scientificamente valutati e presi come termini di paragone nella zona42.
Innanzitutto i manufatti hanno una diversa colorazione a seconda del
materiale usato (“la quarzite, il diaspro e diverse qualità di silecite, il
quarzo, la giadeite, lo scisto”)43. Ma si verifica pure che “la selce spezzata
presenta fratture opache, ma con l’andare del tempo, sotto l’azione delle intemperie e dell’attrito, la superficie si altera, diventa lucida, brillante, quasi
smaltata e qualche volta cambia colore: si è formata la patina”44.
Nonostante questi rischi, il materiale più importante è costituito da un
certo numero di selci lavorate accuratamente per ricavarne coltelli, punte
di frecce e altri piccoli arnesi. Sono stati recuperati anche ciottoli di selce
non lavorati o appena scheggiati.
Il rinvenimento ha una notevolissima importanza per l’era alla quale è
stato attribuito dagli esperti e per i problemi che pone nel determinare le
ragioni di presenza umana così antica nella zona e le vie di penetrazione
degli uomini primitivi in questa parte mediana dell’Irpinia.
Tolta la curiosità dei pezzi e l’esposizione di essi nel Museo Irpino, finora non è stato fatto niente verso una ricerca scientifica ed affidabile per
metodo e classificazione.
40) 41) 42) 43) 44) FURON R., Manuale di preistoria, 4° ed., Torino, 1961, p. 180.
FURON R., o. c. p. 190.
FURON R., o. c. p. 188.
FURON R., o. c. p. 184.
FURON R., op. cit. p. 189.
53
Nonostante questi rischi, il materiale più importante è costituito da un certo numero di selci
lavorate accuratamente per ricavarne coltelli, punte di frecce e altri piccoli arnesi. Sono stati recuperati anche ciottoli di selce non lavorati o appena scheggiati.
rinvenimento
ha conviene
una notevolissima
importanza
per l’era
alla quale di
è stato
attribuito dagli
A Ilquesto
punto
inserire
i reperti
preistorici
Villamaina
nel
esperti
e
per
i
problemi
che
pone
nel
determinare
le
ragioni
di
presenza
umana
così
antica
zoquadro della preistoria di tutta la Campania, o almeno dell’Irpinianella
finora
na e le vie diepenetrazione
deglivalutarne
uomini primitivi
in questa parteed
mediana
dell’Irpinia.
esplorata
studiata, per
l’importanza
anche
le prospettive che
Tolta
la
curiosità
dei
pezzi
e
l’esposizione
di
essi
nel
Museo
Irpino,
finora
non è stato
apre nello studio degli insediamenti umani antichissimi. Proporrò
quifatto
di
niente verso una ricerca scientifica ed affidabile per metodo e classificazione.
seguito
una tavola che rassomiglia ad una stratigrafia, perché segno prima
A questo punto conviene inserire i reperti preistorici di Villamaina nel quadro della preistoria
i rinvenimenti
delle ere recenti (età del ferro), per scendere a quelle più
di tutta la Campania
antiche (paleolitico). Le date messe a lato sono indicative e di carattere
generale45.
ETA’ del FERRO
Fine II millennio
Lacedonia
Tomba a incinerazione a pozzetto con grande ossario
d’argilla a forma biconica (fase protovillanoviana).
Mirabella Eclano
Torri d’Elia-S.Pietro
Tombe ad inumazione con recinto di ciottoli: schegge
di ossidiana e vasi.
ETA’ DEL BRONZO Ariano Irpino: Starza
2° metà II millennio
Bisaccia
S.Martino V.C.
Villaggio fortificato su di una via di traffico
Tombe a fossa
ENEOLITICO
1 metà II millennio
Mirabella Eclano: Ma- Tombe nel banco di tufo con ricco corredo funerario
(ceramica del tipo Gaudo).
donna delle Grazie
Attività documentate: agricoltura e allevamento.
Ariano Irpino: Starza
NEOLITICO
5000 anni fa
Ariano Irpino: Starza
Capanne, ceramica ecc. Attività documentate: agricoltura sedentaria; nasce la ceramica
Villamaina
Ceramica e punte di frecce.
PALEOLITICO SU- Sala di Serino
PERIORE
Manufatti di selce in cave di pietra
30-40000 anni fa
PALEOLITICO
Montemiletto
MEDIO
Tufara (presso Bene40-80000 anni fa
vento)
Alcuni manufatti di selce
(tipo mousteriano)
Grottaminarda
Villamaina
PALEOLITICO INFE- Villamaina
RIORE
80-100.000 anni fa
(tipo Aucheliano)
Benevento
Isola di Capri
Marina di Camerota
Periodo più recente: coltelli, punte di frecce, raschiatoi.
Sono questi i rinvenimenti più antichi di tutta la Campania finora scoperti.
45) AA.VV.,
Storia della
Campania,
voll., Napoli
1978,finora,
I, pp. 27-46;
Mostra dellaInfatti,
preistoria
Il rinvenimento
preistorico
di 2Villamaina
risulta,
il più AA.VV.
antico dell’Irpinia.
se ine
della protostoria del Salernitano, Salerno, 1962; AA.VV. Seconda Mostra della preistoria e della protostoparte risale fino al neolitico, per un’altra scende fino al periodo più recente del paleolitico inferiore
ria del Salernitano, Salerno, 1974; AA.VV. Popoli e civiltà dell’Italia antica (Biblioteca di storia patria), I,
45
(80.000
annil’intero
fa), di volume
poco precedente
tipo mousteriano
Roma,
1974,:
tratta della ilpreistoria
italiana. del paleolitico medio . Questa antichità,
documentata come un’isola nel cuore dell’Irpinia, pone problemi nuovi per il nostro territorio e cioè
la ricerca delle vie di penetrazione dalla costa verso l’interno. La persistenza nell’insediamento, nel
54
45
Informazioni ricevute dal direttore del Museo Irpino, prof. Consalvo Grella. Il rinvenimento preistorico di Villamaina risulta, finora, il più antico
dell’Irpinia. Infatti, se in parte risale fino al neolitico, per un’altra scende fino al periodo più recente del paleolitico inferiore (80.000 anni fa),
di poco precedente il tipo mousteriano del paleolitico medio46. Questa
antichità, documentata come un’isola nel cuore dell’Irpinia, pone problemi nuovi per il nostro territorio e cioè la ricerca delle vie di penetrazione dalla costa verso l’interno. La persistenza nell’insediamento, nel
territorio di Villamaina, documentabile per alcune decine di migliaia di
anni fino al neolitico, giustifica l’interrogativo: perché mai i nomadi del
paleolitico hanno scelto questo luogo?
Posso solo riportare alcune indicazioni sicure e valevoli per tutte
le regioni europee, sufficienti per comprendere qualche aspetto della
realtà preistorica.
Il paleolitico si è svolto contemporaneamente ai periodi ultimi di
glaciazione, cioè nei quali si è avuta una notevole, lenta estensione dei
ghiacciai, seguita poi dal loro progressivo scioglimento (interglaciazione) per il rialzo della temperatura. Per questa ragione la fauna (le specie
calde) emigrò verso il sud dell’Italia. L’uomo in quel periodo viveva
di raccolta, pesca e caccia, perciò, in un certo qual modo, seguiva lo
spostamento della selvaggina, scegliendosi il luogo entro il quale c’erano le migliori condizioni di vita. Non era propriamente nomade (dal
greco nemen, pascolare) perché non praticava l’allevamento, ma piuttosto emigrava verso altri luoghi. “Infatti le migrazioni corrispondono
a un fenomeno più generale: la tribù che emigra non parte per ritornare (come fanno i nomadi). Quanto ai popoli che praticano la raccolta,
come i Paleolitici, essi hanno un modo di vivere che si potrebbe definire ambulante: è una specie di vagabondaggio, compiuto in una certa
zona circostante, che offre acqua, foglie, radici e frutti eduli, oltre al
pesce e alla selvaggina”47.
Il bisogno di nuovi campi di caccia, con la necessità di poter disporre di un ampio spazio per il proprio gruppo, senza il bisogno di
condividerlo con altri, spinse questi uomini dalla costa verso l’interno,
percorrendo il corso dei fiumi, che offrivano una facile via naturale agli
46) Informazioni ricevute dal direttore del Museo Irpino, prof. Consalvo Grella.
47) FURON R., op. cit., pp. 229-239 e specialmente p. 230.
55
esploratori alla ricerca di selvaggina. Ecco perché noi troviamo gli insediamenti preistorici, anche se di epoca differente, ubicati particolarmente lungo il fiume Calore ed il Fredane, suo affluente, lungo il fiume
Ufita e lungo il fiume Ofanto. Il cammino di penetrazione nell’Irpinia
parte sia dalle coste tirreniche che da quelle adriatiche.
Questa diversa provenienza può spiegare i “vari orizzonti culturali”
osservati in stazioni preistoriche coeve. “Si deve quindi presumere che
tutte le varie correnti culturali della civiltà preistorica dell’Italia meridionale penetrarono in Irpinia attrattevi dalla posizione della regione,
sita al centro dello spartiacque appenninico e collegata dall’intricata
rete dei suoi fiumi alle opposte zone rivierasche dell’Est e dell’Ovest”48.
G. Oscar Onorato, l’appassionato studioso delle antichità irpine, si
prefiggeva uno scopo ben preciso alle sue ricerche quando scriveva: “Il
carattere preminente ed essenziale del Museo Irpino sarà specificamente
quello di costituire un nuovo centro di documentazione e ricerche per lo
studio dell’ambiente e della civiltà italico-sannitica del retroterra e dei
suoi rapporti culturali ed artistici con le zone costiere, e di fornire altresì
una più ampia informazione delle vicende preistoriche della Campania
nei suoi riflessi di vita e di cultura con le regioni adiacenti”49.
Finora è stata fatta qualcosa, ma il grande pubblico non la vede.
Per un conflitto di competenze tra museo di Stato e museo provinciale,
l’Irpinia continua ad essere la terra di tutti e di nessuno. Quanto viene
scavato passa ad arricchire i depositi di musei di altre città, defraudando
l’Irpinia di un suo bene culturale. Non so quanta parte sia addebitabile
agli uomini e quanto alla disorganicità delle leggi antiquate che nessuno
pone mano a correggere e ad aggiornare nella visuale di un più efficace
funzionamento delle autonomie locali.
Perché gli uomini della preistoria scelsero Villamaina e vi restarono
per tanto tempo?
Innanzitutto questo sito, lungo il corso del fiume Fredane, rappresenta l’ultimo luogo riparato prima che il territorio si innalzi rapidamente,
fino a quote elevate e quindi fredde (Frigento e la zona del bivio di
Guardia Lombardi sono a m.910 s.l.m.).
48) ONORATO G. O. La ricerca archeologica in Irpinia, Avellino, 1960, p. 38.
49) ONORATO G. O., op. cit., p. 37.
56
Inoltre beneficia degli estesi boschi che lo circondano, ricchi di selvaggina, e del basso corso del Fredane, ancora abbastanza pescoso. Gli
ampi spazi golenali del fiume facilitano pure la caccia e la raccolta dei
frutti sui campi vicini.
Oltre a questi motivi, che assicurano la sopravvivenza del gruppo,
penso che siano state considerate con religiosa attenzione le vicine
sorgenti termali (oggi Terme di S.Teodoro). Il fenomeno, reso maggiormente suggestivo dal lago di Mefite, situato più a monte lungo lo
stesso torrente, ha suscitato in quegli uomini il rispetto religioso che
generalmente fanno nascere le cose e i fatti straordinari, in quanto manifestazioni di potenze occulte decisamente superiori ed in questo caso
benefiche. Insomma ne sarà nato un culto, del quale non abbiamo testimonianze dirette perché su quelle sorgenti sono sorte poi ampie costruzioni che hanno sconvolto l’assetto originario del luogo. Un culto delle
acque e delle sorgenti è largamente attestato altrove, non solo in tempi
storici, ma pure durante la preistoria50. Perciò l’ipotesi da me presentata
non urta contro il muro dell’impossibilità.
Forse proprio questo motivo sacro avrà trattenuto a lungo gli uomini preistorici sul posto, o per lo meno li ha indotti a farne un punto di
riferimento nei loro spostamenti migratori. Può essere stato questo il
primo seme di quel culto di Mefite che in tempi storici sarà largamente
diffuso, praticato e riconosciuto, anche come momento di incontro della
maggior parte degli Irpini. Con essi quel santuario assume tanta importanza che il territorio circostante, per una buona estensione, diviene una
zona di rispetto o sacro o, come si dice pure, Anxantus (Ansanctus =
amfisanctus) cioè le valli dell’Ansanto.
La realtà naturale, pur così meravigliosa, aveva però bisogno di un
lungo lasso di tempo per far radicare il culto nell’animo di molta gente
e, soprattutto, di farlo accettare dagli Irpini, i nuovi arrivati che occuparono il territorio.
Una ricostruzione di questa portata può apparire come il romanzo di
una grande avventura, perché mancano le prove documentarie. Resta
50) PUGLISI S.M., La civiltà appenninica, Firenze, 1959; D’AGOSTINO B. Il mondo periferico della
Magna Grecia , in “Popoli e Civiltà (Biblioteca di storia patria)”, II, Roma 1974, p. 226: il deposito votivo
presso le sorgenti di Monticchio “affonda le sue radici fin nell’età del bronzo”.
57
però sempre vero che l’esperienza religiosa di un popolo è in realtà l’interminabile cammino verso una grande avventura, capace di spiegare
più avvenimenti di quanto possa farlo la semplice lotta per il possesso del pane. Non finisce, perciò, con il ricambio di poche generazioni.
Infatti, su quell’Ansanto, ancora oggi arriva da lontano gente per inginocchiarsi ed invocare il nome dell’Altissimo. Sicché questo luogo
è divenuto un luogo di preghiera dal momento che i primi uomini vi
si affacciarono tra la fitta vegetazione dei boschi, richiamati dall’acre
odore dello zolfo e dal frastuono rimbombante delle acque. Rimasero
come impietriti ad ammirare il tremendo spettacolo, finché riuscirono
a mormorare la preghiera “per sorella nostra acqua”. E fu soltanto la
prima preghiera.
2) Frammenti di ceramica
In un territorio che annovera insediamenti abitativi a partire dalla
più antica preistoria (paleolitico) i rinvenimenti archeologici dovrebbero essere moltissimi. Se in realtà non lo sono, la spiegazione può essere
ricercata nella scarsa attenzione dell’archeologia ufficiale alla cultura
materiale dei popoli antichi. Si è puntato con preferenza a scoprire l’opera d’arte e la struttura monumentale dell’edificio, cioè su quello che
poteva costituire la scoperta sensazionale. Forse questo è il risultato
della presenza di numerosi centri culturali magno-greci e romani delle città costiere disseminati nell’Italia meridionale, con la conseguente
formazione mentale degli studiosi di archeologia. Infatti proprio questa
realtà ha fatto prestare minore attenzione alle zone interne, povere di
monumentalità.
Questo mio giudizio è conforme a quanto scrisse Oscar Onorato
per spiegarsi l’assenza di interventi di studio e di scavo archeologico in
Irpinia nel primo venticinquennio di questo secolo51.
Oggi molti pregiudizi sono caduti, ma non tutti. Il cambiamento è
conseguenza di una nuova concezione della storia. Questa è opera non
della sola élite culturale ed economica, ma di tutto il popolo, con le sue
componenti più modeste e anonime. Perciò, sotto la spinta delle nuove
concezioni politiche e di democrazia reale, si è affermata, per esempio,
51) ONORATO G. O., o. c., p. 22.
58
la sociologia della storia, la psicologia della storia, ecc. Per tali ragioni,
anche la cultura materiale, ossia lo studio delle strutture e degli arnesi
da lavoro nell’agricoltura e nell’artigianato, ha trovato validi sostenitori
e studiosi esperti. Però da noi stenta a scendere nel campo dello scavo e
a trovare appoggio di finanziamenti.
Questo disinteresse della cultura predominante è in qualche modo
legato alla deformazione della mentalità operata dalla scuola. In gran
parte di indirizzo umanistico, essa ci ha infiammati per lo studio del
Partenone e del Foro romano, ma non ci ha spinto a studiare il nostro
territorio per conoscerlo nelle sue vicende storiche , umane ed artistiche. Così, pur con la nostra preparazione classica, abbiamo lasciato
disperdere necropoli, monete ed oggetti veri che, invece, hanno fatto
arricchire modesti rigattieri e scaltri antiquari. Oggi dobbiamo accontentarci dei racconti degli anziani e sentirci umiliati dal rimprovero del
contadino di Equotutico: “Siete arrivati troppo tardi, ormai non c’è più
niente.”
La scuola, dalla primaria all’Università, identica a Milano come nelle campagne dell’Irpinia, ha tenuto fuori dall’aula la storia locale, come
una componente in soprannumero dei programmi e talvolta quasi come
un intralcio al normale svolgimento didattico delle mete prefissate.
Il risultato è che siamo divenuti culturalmente quasi degli apolidi,
senza casa e senza ideali.
Quanto ho esposto sopra dovrebbe fare approfondire il significato
del “bene culturale” e il diritto alla sua fruizione che ha la comunità
che lo possiede e il dovere della stessa comunità nel custodirlo e valorizzarlo.
Sono queste le considerazioni che ho fatto nel parlare di prodotti giudicati “banali”, quali la ricerca dei bolli laterizi, degli strumenti agricoli, della diffusione delle coltivazioni antiche e dei frammenti (tali sono
per lo più) di ceramica.
A proposito di questi ultimi, ecco quello che conosciamo finora nel
territorio di Villamaina.
Sono stati recuperati e conservati nel Museo Irpino frammenti di ceramica neolitica o comunemente detta “appenninica” perché di un tipo
diffuso nelle zone interne. Sono pezzi di terraglie di uso quotidiano, ma
fatte con un certo gusto artistico primitivo, non solo nella linea funzio-
59
nale, ma pure con incisioni e bande, talvolta riempite con materia colorante. Avendone parecchi a disposizione, potremmo anche conoscere
quali sono state le attività preminenti di quelle antichissime comunità
perché conosceremmo la destinazione di questi vasi.
Abbiamo pure delle fuseruole, ossia il disco di argilla da applicare
all’asticella di legno del fuso. Ma che cosa filavano quelle donne della
preistoria, solo lana o anche fibre vegetali? Anche i pesi in argilla del
telaio verticale sono indicativi di un’attività quotidiana e progredita, in
confronto di epoche più antiche.
Tutto questo materiale suppone una tecnica progredita di vasaio e di
fornaciaio. Insomma era nata la specializzazione artigiana.
Ci sono poi dei frammenti di ceramica verniciata in nero di oggetti
di svariate forme e per usi diversi, soprattutto di mensa.
Come si vede, questi sono oggetti che denotano una notevole crescita del benessere. É vero che c’è di mezzo lo spazio di molti millenni,
ma questi oggetti sono pure il segno di diffusi e crescenti rapporti commerciali con i centri di produzione situati lontano.
Questo tipo di ceramica a vernice nera viene prodotto su scala industriale, direi, da Napoli e da Ischia (Pithecusa). Pure Cales (Calvi)
era specializzata nella produzione di ceramica nera, però a rilievo52. Il
boom della produzione di Napoli (e campana in genere) va dal III al
I sec. a. C. Napoli, divenendo città federata di Roma, sviluppa il suo
commercio, riprendendo i legami con l’entroterra sannitico, rielaborando i modelli della sua ceramica (precampana), ne mette sul mercato un
tipo che trova collocazione in tutte le regioni che si affacciano sul Mediterraneo occidentale. L’Irpinia addirittura ne è invasa, tanto è presente
in tutti i rinvenimenti archeologici.
Molte volte, il rinvenimento nei campi arati di frammenti di ceramica e di laterizi non suscita curiosità o interesse. Si va a caccia del
pezzo intero e bello, da esporre come soprammobile prezioso anche per
quel suo “valore culturale”. Invece, tutto ha valore per un complesso
di ragioni: dalla presenza di frammenti si può supporre che sul posto ci
sia stato un qualcosa (una tomba o un’abitazione o un mercato o uno
scarico di rifiuti), dalla molteplicità dei posti e dalla quantità dei tipi
52) DE MARTINO F., Storia economica di Roma antica, Firenze, 1980, p. 158.
60
di frammenti si può risalire alla consistenza e durata dei commerci, ai
prodotti di scambio e ai venditori locali che hanno diffuso il prodotto.
Oggi, per giudicare un paese, si tiene conto dei monumenti, delle case,
del tenore di vita degli abitanti, della produzione locale ecc. Perché poi
dovremmo esprimere un nostro giudizio su di un centro antico semmai
solo per la presenza del pezzo raro e prezioso di una sola casa signorile?
Poter ricostruire la mentalità e il modo di vivere e di lavorare di un
nostro paese di duemila anni addietro procura soddisfazione almeno
pari a quella di chi sfoglia un album di famiglia. Proprio così. Siamo
infatti debitori del nostro passato.
3) Statuette fittili
Quelli che le scoprirono nel 1836 furono molto sorpresi dalla forte
rassomiglianza con il materiale rinvenuto alla Mefite53.
Il rinvenimento di Villamaina, contando gli stessi tipi della Mefite,
fa pensare ad un luogo di culto. Infatti la località del rinvenimento è
presso la fontana di Formolano e vicina a mura antiche. Inoltre il luogo
conserva un nome antico. Da qui provengono anche due iscrizioni di
carattere religioso: la dedica ai “Laribus et Genio” ed il ricordo della
costruzione di un pavimento fatto per voto. Questo insieme di fattori
può far concludere che qui ci sia stato un culto locale delle acque o di
Mefite. Sarebbe sorto per l’influsso delle acque per lo meno straordinarie, anche se non se ne faceva un uso curativo, di Mefite e delle attuali
Terme di S. Teodoro.
Prestare un culto alla divinità che presiedeva alle sorgenti era abbastanza frequente, soprattutto nei tempi più antichi, nell’ambiente rurale
e sotto l’influsso greco. A Monticchio del Vulture fu scoperto un deposito votivo antichissimo, dedicato evidentemente alla divinità della
sorgente. Il deposito votivo colà raccolto inizia con l’epoca del bronzo
e del ferro e continua fino al tempo romano. Comunque, il gruppo più
consistente è formato da statuine fittili di tipo tarantino e del sec.IV
a.C.54.
53) MACCHIA P., op. cit., p. 32 nota 42: la descrizione è stata riportata nelle pagine precedenti trattando
delle epigrafi.
54) SESTRIERI BERTARELLI M., Il museo archeologico provinciale di Potenza, Roma 1957, p. 40.
61
Siccome abbiamo soltanto delle indicazioni sulla tipologia delle statuette rinvenute a Formolano e nessuna descrizione scientifica, ossia
sulla quantità, posizione e sugli altri oggetti eventualmente presenti,
nonché su eventuali rottami non pertinenti, può anche affacciarsi l’ipotesi che ci troviamo di fronte ad una fornace (figlina) di tali oggetti.
L’ipotesi comunque non è pura fantasia. C’è la presenza nei dintorni
di buona argilla azzurra, idonea per terrecotte. Anche i pesanti mattoni
della fornace di Plotia Vitellia di Villamaina furono venduti e trasportati
sulla collina di Santa Felicita.
Inoltre, nello studio analitico che è stato fatto del materiale fittile
votivo del santuario di Mefite,55 viene messo in evidenza che alcune
di quelle statuine sono di produzione locale, cioè non di importazione
dalle città costiere della Magna Grecia. Però, quando si dice produzione
locale, non si vuol far intendere che furono prodotte sul posto. Genericamente si afferma che furono fatte da artigiani irpini, ispirandosi a modelli venuti da lontano. In tal modo rimane da provare e da accertare, se
possibile, i luoghi di questa produzione. In questa materia, d’altronde,
nei tempi antichi non si commerciava tanto il prodotto finito, almeno a
lunga distanza, ma gli stampi, anch’essi di terracotta, preparati da abili
artigiani che, dalle città costiere della Magna Grecia, passavano nei paesi dell’interno per venderli a possibili acquirenti56.
55) “Notizie degli scavi di antichità”, 1976: AA.VV. Il deposito votivo del santuario di Mefite, pp. 359-524.
56) AA.VV., Popoli e civiltà dell’Italia antica (Biblioteca di storia patria), VII, Roma, 1978, p. 326.
62
IV
Toponimi di origine antica
La toponomastica rurale conserva ancora alcuni nomi prediali romani. É il caso di considerare quelli seguenti:
Formolano (fundus formolanus) di etimologia molto insicura, se non
proprio di impossibile decifrazione.
Può avere a che fare con la parola latina forma (pianta catastale)
per significare un fondo misurato dagli agrimensori e accatastato, forse
come terreno pubblico di uso comune del piccolo gruppo di famiglie o
in qualche modo sarà stato un piccolo appezzamento destinato al servizio del piccolo centro sacro nei pressi della fontana che poi è divenuto
il punto di riferimento di una zona più vasta dandole il proprio nome.
Sicciano (fundus siccianus o sicinianus) può aver avuto il nome dal
suo primo possessore, del quale non ci è pervenuto il nome in modo
corretto.
Vertoli: è una località con presenza di mura antiche, sepolture e laterizi romani. Ha a che fare con vertere nel significato di svolta o bivio?
Nel dialetto la curva di una strada è indicata con il nome di “votata” ( =
voltata), che spesso costituisce la base di un toponimo. Esiste anche il
diminutivo “votarelle” per indicare una strada stretta e piena di curve.
Felitto indica un terreno dove abbondano i castagni, ma, una volta
messo a coltura, si copre abbondantemente di felci (felicetum – felictum
– felitto). Con questo nome si indica pure qualsiasi terreno sciolto o
quasi polveroso, reso così dagli abbondanti residui vegetali dei castagni. La contrada è attraversata dalla via Napoletana ed è in prossimità
delle Terme di S. Teodoro. Oltre il materiale preistorico, vi si trovano
anche tombe più recenti.
Alcuni toponimi hanno nomi di santi e per lo più indicano terreni posseduti da cappelle (piccoli benefici annessi ad altari nelle chiese grandi)
o chiesette (distinte o edicole), costruite in onore di detti santi. Chi vuol
dire che ci siano state edicole sacre sul posto, deve provarlo con la precisa indicazione dei ruderi e di tradizioni antiche. Abbiamo: S. Caterina,
S. Paolino, Madonna delle Grazie, S. Giovanni e (toppolo) S. Barbato.
Quest’ultima indicazione conferma l’origine longobarda, forse a Gesualdo, della devozione verso questo santo vescovo beneventano.
63
Altri toponimi sono collegati alla presenza di costruzioni ben note
del passato: Taverna, Casaline, Terme di S.Teodoro, Molene, Ponterotto.
Altri ancora sono nati dalla conformazione del suolo (Costa, Isca,
Sotto le Coste) o dalla forma dei fondi (Campolongo, Lenze, Pontilli)
o dalla natura boschiva (Bosco, Gaudiello ( = boschetto), Cesine ( =
bosco tagliato), o dalle colture arboree (Cerasito, Orno, Sorbo, Piro,
Melazzo) o dal pascolo abbondante (Lattara) o dalla natura giuridica
del possesso (Demanio) o da una indicazione particolare (Pietrapiana).
In ultimo restano da spiegare i toponimi di Rasole, Mazzarella, Buffone, Maurella.
Fig. 5 - Frontespizio del
volume di Paolino Macchia del 1838 citato da don
Nicola Gambino. L’opera,
pur se dedicata alle acque
delle Terme di San Teodoro,
contiene moltissime notizie
di carattere storico su Villamaina.
64
V
Il paesaggio agrario
Il territorio di Villamaina è tipicamente irpino, cioè di collina, coperto di vegetazione e punteggiato di case rurali. Il clima è buono e
senza sbalzi eccessivi di temperatura. Il terreno, in buona parte, non è
argilloso, ma è piuttosto calcareo e tenace. La vegetazione che vi alligna di più è la quercia, l’olivo e la vite.
Alcuni di questi alberi si sono molto ridotti. Per esempio, molti boschi di querce sono stati dissodati e restano oggi fazzoletti sparsi di
verde. Gli olmi sono scomparsi. La vite occupa oggi piccoli spazi. Una
volta era molto più coltivata ed alta. Dopo che la fillossera ne ha fatto
strage, si è preferito piantare la vigna bassa ed in quantità sufficiente per
soddisfare i bisogni della famiglia. Gli oliveti sopravvivono, ma non
sono stati rinnovati o impiantati oliveti nuovi.
Le ragioni di questa decadenza del paesaggio agrario sono dovute
all’emigrazione e alla fuga dalla campagna. Si coltiva con mezzi meccanici e perciò si eliminano gli alberi che non sono allineati. La popolazione rurale invecchia rapidamente, mancano le forze giovani e mancano i capitali da investire.
Tuttavia la prevalenza delle colture arboree sopra indicate non è un
dato di vegetazione spontanea, bensì è il risultato di una scelta millenaria. Infatti l’area coltivata a castagno è molto limitata, ma non per
una ragione pedologica, poiché nel versante opposto, ossia nel bacino
dell’Ufita, tale pianta vi abbonda fino a coprire notevoli estensioni (bosco di Migliano, di Carmasciano, alla Taverna Sarduta). A Villamaina
si è voluto utilizzare bene il terreno disponibile e si è conservato anche
il querceto che consentisse un buon allevamento di suini, che dall’antichità e per tutto il Medioevo, fino ai tempi moderni, hanno rappresentato l’unica riserva di carne conservabile a lungo come insaccata o salata.
Proprio per le ragioni appena accennate, i prodotti dell’agricoltura in
vino, olio e carne suina hanno rappresentato una voce attiva del commercio, oltre che la base per una sostanziosa alimentazione.
****
65
In passato l’impianto per estrarre l’olio dalle olive veniva indicato
col nome di “trappeto” (lat. trapetum). Il nome sopravvive ancora oggi
nel dialetto dei paesi rurali, anche se l’impianto è ormai molto diverso
e con una nuova tecnologia. Fino alla seconda guerra mondiale, l’impianto, rimasto immutato per secoli, era costituito da due componenti
o settori di lavorazione. Una vasca con grosse mole verticali di pietra
serviva per schiacciare le olive ( = trapetum, frantoio). A lato c’era una
pressa ( = prelum, torculum, torcular, pressorium) per spremere l’olio
dalla pasta di olive. Nei tempi recenti la struttura della pressa era in
ferro, con una vite centrale senza fine. Cinque-sei uomini spingeveno
un palo per avvitare uno zoccolo che facesse pressione sui fiscoli per
spremere la pasta che contenevano.
Che il manufatto di Villamaina (contrappeso cilindrico in pietra)
sia romano, è chiaro per il contesto archeologico nel quale è inserito.
Quelli provenienti da Montefalcione, riprodotti in fotografia, anche se
non c’è sicurezza, dovrebbero riferirsi alla stessa epoca (almeno tardo
romano) poiché appartengono a località che hanno dato reperti romani
a più riprese. Del resto la tipologia è identica per forma e peso.
Nei tempi antichi e fin quasi ai giorni nostri, in qualche località più
arretrata e povera, si è fatto uso di una pressa basata sul principio della
leva. Perché la pressione aumentasse, si usava una leva robusta e pesante, addirittura un lungo albero. Però la forza delle braccia non era sufficiente e si pensò di appendere un pesantissimo contrappeso con una vite
all’estremità della leva, così da accrescere di molto la forza di pressione
e di migliorare la resa in percentuale tra olio ottenuto e olive lavorate.
Si può leggere con ricchezza di particolari il risultato di una ricerca
universitaria di archeologia industriale nel distretto portoghese di Castelo Branco, con un livello di agricoltura povera57.
* * *
Se qualcuno con una preparazione specifica volesse esaminare le
colture oggi più diffuse sul territorio irpino e potesse coordinare una
ricerca storica e interdisciplinare sulla loro diffusione, arriverebbe a
57) (Cfr. AA.VV., A propos du pressoir à huile: de l’archéologie industrielle à l’histoire, in “Melanges de
l’Ecole Française de Rome: Antiquité”, 96 [1984, 1] pp. 379-421.
66
compilare una storia dell’agricoltura irpina e dell’alimentazione dei
suoi abitanti. Ed alla fine dovremmo concludere che il territorio, con
la sua struttura, più o meno accidentata, ma idonea a coltivazioni molto variate, ha contribuito a formare quel carattere dell’abitante irpino
aperto e versatile, curioso e laborioso, legato alla famiglia e al villaggio,
ospitale e generoso, che, per evidenziare tali doti, ha sempre domandato
ai governanti di turno un po’ di fiducia e molta libertà, ma raramente le
ha ricevute.
Nicola Gambino
67
Appendice
Breve nota sul cippo graccano di Villamaina
Cippo di calcare bianco locale rinvenuto durante alcuni lavori agricoli nel 2008 in territorio del Comune di Villamaina (podere di Carmine Calò, sito in contrada Mozzarella; foglio catastale n. 1, al confine tra le particelle 332 e 612). Se ne riportano le dimensioni: altezza
totale, cm. 110; altezza del fusto, cm. 50; altezza della parte inferiore
appena sgrossata e destinata ad essere infissa nel terreno, cm. 60; diametro del tamburo, cm. 36.
Il cippo non reca alcuna iscrizione sui
lati, dove erano menzionati i nomi dei IIIviri agris iudicandis adsignandis; sul tamburo sono state incise le due rette che si incrociano ortogonalmente a formare il decussis;
sulle due linee sono iscritte rispettivamente
una D con il numerale II ad indicare il secondo decumanus, e la lettera K seguita dal
numerale XXXIII. Di particolare interesse
è questo alto numero per i cardini, il più
alto finora noto a documentare la straordinaria ampiezza nel territorio dell’ ager publicus oggetto delle assegnazioni graccane conseguenti alla legge Sempronia del 133 a. C.; il che
conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, della effettiva realizzazione
del grande progetto graccano di distribuzione agraria in Hirpinia, che
fu completato con la costruzione della via Aemilia nel 126 a. C.
D(ecumanus)___II
K(ardo)____XXXIII
Anche se non vi sono menzionati i nomi dei membri della commissione triumvirale, si può ritenere che anche questo cippo vada datato al
130/129 a. C. dal confronto con gli altri provenienti da aree contermini
dell’alta Irpinia, quelli di Chianola di Nusco e Civita di Lioni, entrambi
68
databili per la presenza di solo due triumviri (M. Fulvius Flaccus e C.
Sempronius Gracchus) fra la fine del 130 e i primi mesi del 129 (non era
ancora nota la nomina di C. Papirius Carbo) e i due altri termini presso
Rocca S. Felice (valle d’Ansanto) del 129 (con la nuova commissione
al completo).
Giuseppe Camodeca*
Fig. 6 – Cippo graccano ritrovato
e custodito da Carmine Calò, nel
territorio di Villamaina. Fu riconosciuto da Gennaro Passaro e successivamente esaminato dal prof.
Camodeca, che ne fornisce una
nota descrittiva,
Fig. 7 – Cippo graccano di Nusco
*Il Prof. Giuseppe Camodeca è ordinario di Storia romana e di Epigrafia latina
presso il Dipartimento di Studi del Mondo classico della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Napoli. Autore di numerosi saggi, è anche responsabile per la Campania del Progetto dell’Accademia Nazionale dei Lincei, denominato EDR (Epigraphic
Database Roma), cioè della schedatura in rete delle iscrizioni latine d’Italia (consultabili
sul sito edr-edr.it). La scoperta del cippo di Villamaina comporta un’apprezzabile se non
notevole conferma a quanto sostenuto in un suo saggio al quale si rinvia: G. Camodeca,
Le assegnazioni graccane e la Via Aemilia in Hirpinia in “Zeitschrift für Papyrologie
und Epigraphik”, Bonn, n. 115 (1997), pp. 263-270 (N.d.C.).
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Il cippo graccano di Nusco.
Rintracciato nel 1986 dallo scrivente nel podere di Teodora Natale sito
in località Chianole nel territorio del Comune di Nusco; foglio catastale n.
1, particella 242. Queste le dimensioni: altezza totale, cm. 110; altezza del
fusto, cm. 50; altezza della parte inferiore appena sgrossata e destinata ad
essere infissa nel terreno, cm. 60; diametro del tamburo, cm. 36. E’ conservato nella sala consiliare del Palazzo di Città.
L’epigrafe che si legge lungo il fusto:
M. FOLVI M. F. FL. C. SEMPRONI TI
III VIR A. I. A.
M(arcus) FOLVI(us) M(arci) F(ilius) (FL(accus)
C(aius) SEMPRONI(us) TI(berii filius) [GRAC(cus)]
III VIR(i) A(gris) I(udicandis) A(dsignandis)
Sul tamburo accanto alle due rette incrociate compaiono le lettere seguenti:
D ---------------K -------------- I
D(ecumanus)
K(ardo) ------------- I
Traduzione:
Marco Fulvio Flacco, figlio di Marco
Caio Sempronio Gracco, figlio di Tiberio
(manca il nome del terzo triumviro: Caio Papirio Carbone)
Triumviri per la valutazione e l’assegnazione del demanio pubblico
N.B.: Pur avendo già fatto nella mia Presentazione alcuni riferimenti ai rinvenimenti
dei cippi graccani in Irpinia, ritengo opportuno precisare ulteriormente e brevemente
alcuni dettagli. Nella sua Breve nota appena riportata il Prof. Camodeca fa riferimento
ad altri quattro cippi graccani rinvenuti in Irpinia. Due, trovati nel territorio di Rocca
S. Felice e ora conservati nel Museo archeologico irpino di Avellino, furono illustrati
da V. M. Santoli nella sua ben nota opera De Mephiti et Vallibus Anxanti, del 1783 (p.
67 ; C.I.L., IX, nn, 1024 e 1025); un terzo, rinvenuto a Lioni e riferito da Nicola Fierro nel 1985, è conservato presso il Museo etnografico che ha sede nell’edificio delle
Scuole elementari di Lioni; il quarto, scoperto e recuperato a Nusco dallo scrivente, è
conservato presso la Sala consiliare del locale Palazzo di Città (Cfr.: A. Colantuono,
I cippi graccani dell’Alta Irpinia, in “Civiltà Altirpina”, Luglio – Dicembre 1992, pp.
5-14). Bisogna anche ricordare, tuttavia, altri due cippi, purtroppo entrambi andati
perduti: il primo scoperto dallo stesso Santoli dopo il 1783 (C.I.L., IX, n. 1026);
l’altro, rintracciato nel territorio di Montella, fu riferito dallo Scandone nel 1911 nel
primo volume della sua Storia di Montella (pp. 158-160). Ne consegue che il cippo
graccano di Villamaina, riconosciuto e pubblicizzato dallo scrivente, poi esaminato
dal prof. Camodeca, è il settimo dei cippi rinvenuti in Irpinia.
G. P.
70
Fig.8 - Epigrafe funeraria di
Lucius Fonteius Felicissimus
(235 d. C.), descritta a pag.
44. Proviene dal Palazzo del
Conte, fu raccolta da Vincenzo Caputo ed è conservata nel
Museo “Paolino Macchia” di
Villamaina.
Fig.9 - Epigrafe funeraria della famiglia di Caius Blassius,
descritta a pag. 45. Citata fin
dal sec. XVII, raccolta da Vincenzo Caputo, è conservata nel
Museo “Paolino Macchia” di
Villamaina.
Fig. 10 - Epigrafe descritta a
pag. 46, dedicata ai Lari e al
Genio della Gens Galeria. Fu
ritrovata da Vincenzo Caputo tra i ruderi del Palazzo del
Conte. è conservata nel Museo
“Paolino Macchia” di Villamaina.
71
Fig. 11 - Bollo laterizio di Plotius Vitelliae, descritto a pag.50. Fa parte della raccolta
donata da Vincenzo Caputo ed è conservato nel Museo “Paolino Macchia” di Villamaina.
Fig. 12 - Impianto oleario inserito nella villa rustica romana
individuata in località Cisterne
in Villamaina. Scavo di saggio
condotto dalla Soprintendenza
per i Beni Archeologici negli
anni ‘80 e tuttora in corso. Il
reperto è stato ricoperto.
72
Fig. 13 - Impianto oleario inserito nella villa
rustica romana individuata in località Formolano in Villamaina.
Questa veniva descritta
già nel 1838 da Paolino
Macchia (v. foto Fig. 5,
pag. 64). La pietra, di
forma cilindrica, ha un
diametro di 96 cm, altezza 150 cm ed un peso
stimato in 29 quintali.
Il reperto, inedito, è venuto alla luce negli anni
scorsi e viene custodito presso l’Oleificio
Montuori dalla famiglia
omonima.
Fig. 14 - Panoramica attuale dello stabilimento termale di Villamaina, ricostruito
dopo il sisma del 1980.
73
Figg. 15, 16 - Epigrafe rinvenuta in Villamaina intorno agli anni ’30, ma non ancora
studiata. Si riferisce alla sepoltura di Ennio Silvestro, a lui dedicata dalla madre Ennia.
Il ricalco delle lettere che ne propone la lettura è dei curatori del presente volume.
74
Figg. 17, 18, 19 - Moneta romana da rinvenimento sporadico di Vincenzo Favale in
località Sotto Le Coste in Villamaina. Viene confrontata con una analoga da Internet
di più chiara lettura. Si riferisce all’imperatore Gordiano III (Imperator Gordianus
Pius Felix Augustus) e risale al 240 d. C. circa. Con la bilancia della giustizia e la
cornucopia della prosperità, esalta l’”Aequitas Augusti ” di tale imperatore, ma nella
nostra le parole non sono interamente leggibili. La sigla S C (Senatus Consultu) , nella
nostra appena leggibile, ci fa capire che è coniata per decreto del Senato (di Roma).
Riveste notevole importanza nel nostro contesto perché coeva dell’epigrafe di Lucius
Fonteius (Fig.8) e fa opinare per Villamaina, in quel periodo, una certa prosperità
economica.
75
Figg. 21, 22 – Frammenti
di epigrafi inedite custodite
presso l’Oleificio Montuori.
76
Fig. 23 – Ara, ovvero base del torchio, di un impianto oleario, presente ad Aeclanum,
dove è stata riutilizzata come elemento murario. Per gentile concessione della Soprintendenza ai Beni Archeologici.
Fig. 24 – Epigrafe proveniente da Frigento, conservata nei giardini della sede della
Soprintendenza ai Beni Archeologici di Avellino, riprodotta per gentile concessione.
Viene descritta a pag. 30.
77
Fig. 25 – Vincenzo Caputo durante la cerimonia in cui gli veniva consegnata una targa
dall’Amministrazione Comunale: “Appassionato ricercatore di Beni comuni, per aver
contribuito alla conservazione della memoria storica del nostro Territorio”.
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Indice
Pag. 5
7
Unicuique suum
Presentazione di Gennaro Passaro
21
Premessa
23
Capitolo I.
Villamaina: il nome da riportare alla toponomastica antica
38
38
40
48
Capitolo II.
Le principali testimonianze archeologiche
1. Le ville rustiche
2. Le epigrafi rintracciate
3. Alcuni bolli laterizi .
51
51
57
60
Capitolo III.
Altri reperti archeologici
1. Reperti preistorici
2. Frammenti di ceramiche
3. Statuette fittili
62
Capitolo IV.
Toponimi di origine antica
64
Capitolo V.
Il paesaggio agrario
68
70
Appendice:
Il cippo graccano di Villamaina del Prof. Giuseppe Camodeca
Il cippo graccano di Nusco di Gennaro Passaro
71
Illustrazioni
79
Finito di stampare nel mese di aprile 2014
presso la Tipografia Dragonetti - Montella (Av)
80
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Antiche testimonianze di un florido centro irpino