Laboratorio di storia contemporanea Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» - Istrevi No. QM/2010/1 ISTITUTO STORIA DELLA RESISTENZA E DELL’ETÀ DELLA CONTEMPORANEA PROVINCIA DI VICENZA ETTORE GALLO Quaderni su guerre e memoria del ‘900 Responsabile di collana Marco Mondini – [email protected] Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti: il caso delle Università toscane. FRANCESCO CABERLIN (Scuola Normale Superiore di Pisa e Università di Pisa) Abstract After an introduction to the topic of the commemoration of fallen soldiers in the Great War, I expose the results of a survey on the University of Pisa and Siena. The results point out that the practices of commemoration were the moment for both coping with the pain for the death of fallen soldier and reasserting the meaning of the war, by means of a glorification of the death in war that led to the creation of a stereotype of the fallen student. I extend the analysis to the post-war period by pointing out that the political aspects of the commemoration, which were linked to the necessity of legitimating the war, prevailed on the ‘private’ aspects of these practices, and culminated with the celebrations of the middle 1920s. I conclude the analysis with some remarks about the fortunes of the nation as a legitimacy factor. Parole Chiave Prima Guerra Mondiale, nazionalismo, università, commemorazione, caduti, lutto. Francesco Caberlin [email protected] FRANCESCO CABERLIN (1987) è studente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Università di Pisa, dove ha ottenuto la laurea di primo livello in Storia Contemporanea con una tesi sulla commemorazione della Grande Guerra. Si interessa in generale di problematiche legate ai fenomeni nazionalistici, specie novecenteschi. I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono pubblicati a cura dell’Istrevi e intendono promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti sulla storia contemporanea vicentina e italiana, per suscitare commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della natura provvisoria dei lavori per citazioni e per ogni altro uso. I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono scaricabili all’indirizzo: www.istrevi.it/lab Per contatti: [email protected] Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» c/o Museo del Risorgimento e della Resistenza – Villa Guiccioli Viale X Giugno 115 - I-36100 Vicenza Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti: il caso delle Università toscane. Il problema Negli anni della Grande Guerra e del primo dopoguerra, negli spazi pubblici dei centri abitati italiani ed europei vengono costruiti numerosi ricordi monumentali dedicati ai caduti della guerra che ancor oggi caratterizzano il paesaggio urbano di diverse città. I monumenti ai caduti tuttavia non sono altro che la testimonianza più evidente di un fenomeno più complesso, all’interno del quale questi vanno inquadrati, ossia quello della commemorazione pubblica dei caduti della prima guerra mondiale. Fin da subito, i morti in guerra furono al centro di un sistematico processo di elaborazione del lutto messo in atto da parte dei loro cari, al fine di dare un significato e di rendere più tollerabile la perdita. Differentemente da quanto si crede, infatti, la stragrande maggioranza delle iniziative di commemorazione – compresi quindi i monumenti – non vennero prese su iniziativa statale, ma partirono “dal basso”, dalla cerchia degli intimi del caduto: parenti, colleghi, amici o spesso semplici conoscenti, che costituirono quelli che sono state definiti “gruppi di parentela fittizia”, accomunati da una stessa situazione e da un obiettivo comune, e che si organizzarono per ricordare assieme i cari caduti1. In realtà la situazione è molto più complessa di quanto non appare da queste prime righe introduttive: anche volendo semplificare al massimo, non è possibile ignorare come in Italia esistano due macrocasi nettamente distinguibili. Da una parte abbiamo la stragrande maggioranza della popolazione che guarda al 1 Sui “gruppi di parentela fittizia” e il loro ruolo nella costruzione della memoria della Grande Guerra si veda J. Winter, Remembering war: the Great War between memory and history in the twentieth century, New Haven, 2006, p. 137. 2 conflitto con estrema estraneità se non con aperta ostilità. Queste masse operaie e contadine a volte riescono ad elaborare una propria memoria del conflitto seguendo vie del tutto particolari, internazionaliste ed antipatriottiche, venendo d’altronde ostacolati dalle iniziative prefettizie; più spesso, le masse (soprattutto contadine) giungono ad un’accettazione del conflitto a distanza di anni, il più delle volte con la mediazione della religione tradizionale. Dall’altra parte abbiamo invece il relativamente ristretto strato di fedeli all’ideologia nazional-patriottica, per i quali la fedeltà alla nazione è un valore – per certi versi, come vedremo, assoluto – che si trovano di fronte ad un fenomeno inaspettato, a cui non erano preparati. Anche se dopo il primo anno di conflitto la situazione era prevedibile, nessuno, all’alba dell’entrata in guerra, era preparato ai lutti che il conflitto avrebbe portato con sé: le sole guerre combattute dagli italiani, come dalle altre nazioni europee, nei cent’anni prima del 1914, erano stati conflitti brevi e tutto sommato poco sanguinosi. Fin dalle prime settimane invece la guerra si presenta come un massacro di entità inaspettata: ma non è una questione meramente quantitativa, se consideriamo come la morte in guerra sia una morte estremamente cruenta e che coinvolge una fascia di popolazione ben delimitata, una generazione di uomini giovani, di “figli” ancor prima che di “padri” e di “mariti”, che lascia i più vecchi, i padri e le madri, per i quali l’elaborazione del lutto è certo più difficile 2. I “patriottici” si trovano dunque a dover affrontare il lutto per i cari caduti, e il fatto che questi siano morti nella guerra “nazionale” può portare a vacillare la fedeltà all’ideale nazionale cui sono legati. In quest’ottica crediamo che le pratiche commemorative possano essere studiate come i luoghi del mantenimento del senso nazionale della guerra, con le quali si edulcora e si valorizza la morte in battaglia, si ribadisce il suo senso e la sua importanza per i destini della nazione e al tempo stesso si tenta di saldare in qualche modo la componente del “debito” 2 Sul problema del lutto e le società di guerra, fondamentali Winter, Sites of memory, sites of mourning, e Stephane Audoin-Rouzeau e Annette Becker 14-18, retrouver la guerre, Gallimard 2000, in particolare pp. 232-233 e pp. 244-245. 3 che i più vecchi, i sopravvissuti, sentono di aver contratto nei confronti dei più giovani che sono morti per una causa ritenuta comune. In questo modo, le pratiche prendono anche una determinata connotazione politica, più o meno accentuata a seconda dei casi, divenendo dei veri e propri “atti di cittadinanza”, in quanto la partecipazione ad esse implica l’accettazione di una precisa scala valoriale, imperniata attorno alla nazione come fattore legittimante. Al tempo stesso, è facile capire come la dimensione del debito porti con sé un’ossessiva necessità di non dimenticare che le pratiche fissano e reiterano costantemente: così, se da una parte le pratiche portano in una qualche misura all’accettazione della guerra e della morte in guerra, ostacolano al tempo stesso il superamento del lutto da parte dei congiunti del caduto3. Accettazione della guerra nazionale e superamento del lutto sono quindi aspetti in conflitto tra di loro, tra i quali il più delle volte non si riesce a trovare una sintesi efficace. Inoltre questo processo, avviene con una rielaborazione della realtà della guerra, restituendo ad essa e alla morte in battaglia dei contorni accettabili e per certi aspetti idealizzati, che vanno ad alimentare quello che è stato definito “mito dell’esperienza della guerra”, ossia una risemantizzazione dell’esperienza bellica, presentata come profondamente carica di senso4. Tale rielaborazione così si rivelerà non priva di messaggi apertamente bellicisti, che sfoceranno negli anni a seguire in una retorica apertamente revanscista. Quello delineato fin qui può essere considerato un quadro d’analisi molto generale, la cui validità necessita di essere passata al vaglio tramite l’analisi di casi particolari. In questa sede, provvederemo a esporre i risultati di un sondaggio compiuto presso gli atenei toscani di Pisa e Siena negli anni tra il 1915 e il 1925, periodo centrale per l’elaborazione del lutto e per la prima definizione di una memoria “patriottica” della guerra. Le università si Ibid. Di parere leggermente diverso è Winter, Sites, cit. George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza 1990, in particolare pp. 3 e 89. 3 4 4 prestano bene ad un tale tipo di indagine: anzitutto, da un punto di vista documentario, sono “gruppi di parentela fittizia” che offrono una disponibilità di materiale che molto spesso non si verifica per altri gruppi, i quali il più delle volte non erano dotati di una struttura istituzionalizzata e pertanto non hanno conservato la documentazione relativa alle loro iniziative. Al di là di questa motivazione “tecnica”, va notato come la definizione di “gruppo di parentela fittizia”, si attagli bene agli Atenei di inizio Novecento, che siano istituzioni di dimensioni limitate, all’interno delle quali i rapporti tra corpo docente e studenti sono piuttosto stretti. Va certo tenuto conto del fatto che le Università sono “gruppi di parentela fittizia” dotati di caratteristiche particolari: da un lato, non sono fissi, in quanto la componente studentesca e – in misura minore – quella dei docenti sono fluide e soggette a cambiamenti annuali; dall’altro, sono gruppi sbilanciati al loro interno, essendo composti quasi esclusivamente da giovani che combattono e da membri della generazione dei “padri”: di tale dicotomia dobbiamo tenere conto, in quanto entrambi i gruppi partecipano alla genesi del discorso commemorativo, ma con un bagaglio di esperienze e sentimenti differenti. Nelle Università italiane, infine, l’ideologia nazionalista appare avere un ruolo di primo piano, sia a livello istituzionale che per la popolazione studentesca, costituendo l’ideologia comune di riferimento della maggioranza (per quanto non della totalità) della popolazione universitaria: da questo punto di vista il caso degli atenei appare adatto a capire come un ambiente nazional-patriottico reagisca di fronte alla tragedia della Grande Guerra. 5 Fonti Fin qui abbiamo accennato solo ai monumenti ai caduti come espressione commemorativa, ma questi sono solo una delle tante iniziative realizzate dai “gruppi di parentela fittizia”. Uno dei limiti maggiori di diversi lavori su questo argomento è stato quello di fermarsi all’analisi di questo tipo di forma commemorativa, estrapolandolo dall’insieme delle iniziative all’interno delle quali era inserito. Un tale approccio può essere utile per un’indagine di tipo strutturale, ma appare insoddisfacente per lo storico che voglia cercare di capire compiutamente come ci si rapportasse nei confronti della guerra in un dato momento. Il monumento ai caduti è certo uno degli aspetti da prendere in considerazione, ma non l’unico: se si vuole cercare di ricostruire globalmente e organicamente il discorso commemorativo da parte di un preciso soggetto storico è necessario tenere presente tutte le sue forme. Il monumento è infatti solo una particolare espressione della commemorazione, a cui dobbiamo affiancarne altre, quali gli opuscoli commemorativi, le cerimonie, e via dicendo. Gli opuscoli collettivi, per fare un esempio, sono in genere poco studiati: a dispetto del grande numero di questo tipo di fonti (che vanno, cronologicamente, dai primi anni del conflitto fino agli anni ’30), e la loro eterogenea provenienza,che permettono di fare luce sull’estrema varierà, negli anni del conflitto, delle immagini della guerra, e di capire meglio l’evoluzione di tale immagine, le modalità con cui si giunse gradatamente alla sottolineatura della morte di massa e alla perdita d’individualità del caduto. Con ciò, notiamo anche l’utilità di un approccio all’argomento di tipo diacronico che metta in luce sviluppi e torsioni del discorso commemorativo: un’indagine di questo tipo non è possibile tenendo presente solo il monumento ai caduti. Nella fattispecie, per quanto riguarda le Università, vennero spesso realizzati opuscoli commemorativi, in occasione delle cerimonie di inaugurazione dei monumenti oppure in occasione dell’assegnazione delle lauree honoris causa agli studenti caduti 6 (in virtù del decreto luogotenenziale 1° ottobre 1916, n. 1400): nell’Università di Pisa, queste venivano consegnate nel corso della cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico, a Siena il 29 maggio, anniversario di Curtatone e Montanara5. Gli opuscoli inoltre trasmettono spesso i testi dei discorsi pronunciati nel corso delle cerimonie, fondamentali per la comprensione delle azioni dei commemoranti, ma anch’esse generalmente trascurate6. Lo stesso monumento, d’altronde, può offrire numerose chiavi di lettura, considerandone la committenza, le scelte iconografiche, quelle estetiche, la posizione, le iscrizioni, e le stesse cerimonie al centro delle quali era inserito. È chiaro quindi che l’analisi storica non può fermarsi al livello “semiologico” ma deve anche considerare i retroscena e cercare di capire come e perché si sia giunti a quel risultato finale. Quindi uno studio di questo genere richiede anche uno spoglio documentario per capire le scelte che i commemoranti compirono, per capire quali di queste furono mosse da motivi meramente pratici e quali no. Tramite lo studio incrociato di queste diverse fonti, è possibile cogliere sviluppi e torsioni che la pratica commemorativa conobbe negli anni. Questi aspetti verrebbero meno qualora limitassimo l’analisi ad una sola espressione commemorativa, avulsa dal contesto in cui andava ad inserirsi: per questo prenderemo in analisi sinteticamente i vari aspetti della commemorazione, ponendoli in chiave diacronica. I testi dei discorsi inaugurali sono conservati negli annuari delle Università, ma negli anni centrali del conflitto, non venendo pubblicati questi, furono editi separatamente. Si è fatto quindi riferimento, per il caso pisano, a: L’anno scolastico 1915-16 ed i caduti sul Campo dell’Onore, Pisa, 1916; L’anno accademico 1916-17 ed i caduti sul campo dell’onore, Pisa, Mariotti 1917; Relazione sull’andamento dell’anno accademico 1917-18 e conferimento della laurea ad honorem ai caduti in guerra, Pisa, 1918. Per Siena si vedano Achille Sclavo, Per la solenne inaugurazione degli studi, Siena, 1917; Mario Betti, Per la solenne inaugurazione degli studi, Siena, 1918. 6 Nel caso di Siena i discorsi delle cerimonie commemorative del 29 maggio vennero pubblicati in Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVII, Siena, 1917; Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVIII, Siena, 1918. 5 7 Gli anni di guerra e la valorizzazione della morte Come già accennato, le Università italiane sono a inizio secolo degli ambienti fortemente “nazionalizzati”. In particolare, nelle Università di Pisa e Siena la battaglia risorgimentale di Curtatone e Montanara (cui parteciparono studenti degli Atenei) costituisce un autentico mito, commemorato a Pisa con una lapide e a Siena con un vero e proprio monumento costruito nel 1892, grazie ad una sottoscrizione degli studenti7. Non è casuale, d’altronde, che a Siena le cerimonie commemorative si tengano nell’anniversario della battaglia, il 29 maggio, a sottolineare la continuità tra i caduti del Risorgimento e la Grande Guerra. Le prime cerimonie con le quali si affronta pubblicamente la guerra nelle due Università sono quindi caratterizzate da una retorica nazional-patriottica decisamente sostenuta, in cui i motivi del lutto sono del tutto assenti o quasi. È solo dall’anno successivo che riscontriamo una pratica propriamente luttuosa e delle cerimonie in cui si avverte la necessità di giungere ad una non facile sintesi tra amor patrio e amore degli studenti caduti. Quello che è riscontrabile nei discorsi che vengono tenuti in questi anni, è il tentativo di valorizzare la morte in guerra tramite una strategia che fa leva su tre aspetti tra di loro complementari 8. Da una parte, la morte in guerra è spesso descritta come un evento sereno e poco cruento, il caduto muore circondato dai commilitoni, senza ferite sfiguranti, la sua è insomma una morte “bella”, poco traumatica e più accettabile per i congiunti rispetto alle condizioni “reali” della morte in guerra. Più interessanti (e più ricorrenti) sono tuttavia gli altri due aspetti della rivalutazione, ossia la descrizione della morte del caduto come un atto eroico e come un sacrificio per la patria. Descrivendo la morte come “eroica” si conferisce al caduto una Per un profilo della storia dell’Università di Siena tra 1861 e Grande Guerra, si veda Ilaria Porciani, Dalla Restaurazione alla Prima Guerra Mondale, in AA. VV. L’università di Siena: 750 anni di storia, 1991. 8 In questa tripartizione concordiamo con quanto osservato da Oliver Janz a proposito degli opuscoli editi dalle famiglie dei caduti in tutta Italia. Cfr. Janz, Lutto, famiglia, nazione nel culto dei caduti della prima guerra mondiale in Italia, in id., Lutz Klinkhammer (a cura di) La morte per la patria, Roma, 2008, p. 67 e ss. 7 8 specificità più accentuata, sottraendolo alla massa anonima dei morti, in quanto il suo gesto appare fondamentale per il buon esito della battaglia e non “gratuito”. Infine, con l’ultimo aspetto della rivalutazione, quello del sacrificio9, si pone la morte per la nazione su un piano che non è più soltanto immanente, conferendole un significato trascendente, il che ci porta a capire come la nazione sia al centro di un culto di tipo religioso: in seguito vedremo come questo aspetto è fondamentale per comprendere l’efficacia della nazione come fattore significante. È estremamente interessante notare che spesso è lo stesso caduto a descrivere il suo gesto come un sacrificio volontario, con le sue ultime parole o in lettere ai cari che vengono puntualmente citate nei discorsi dei commemoranti o riportati negli opuscoli in memoria. Questo aspetto ci permette di individuare come venga affrontato uno dei punti più delicati della tensione tra amor patrio e affetti famigliari: da un lato, è il caduto stesso che con le sue parole quasi assolve i sopravvissuti dai sensi di colpa, dall’altro, le tensioni vengono appianate grazie all’omaggio che viene reso alle madri dei caduti. La figura della madre è infatti al centro di un doppio processo di consolazione e compensazione, essendo questa al centro degli ultimi pensieri del caduto, che le chiede perdono per aver posto la patria prima degli affetti famigliari; dall’altro le madri vengono venerate dai conoscenti, in quanto titolari anch’esse di un gesto sacrificale. Così, i potenziali contrasti tra madre e “grande madre” vengono risolti in nome della serena subordinazione della prima alla seconda, con un accostamento che per quanto possa apparire paradossale, doveva riuscire nella funzione di appianare un contrasto dalle conseguenze potenzialmente esplosive10. Sul sacrificio per la patria in Italia cfr. Janz, Monumenti di carta, p. 31 in id., Fabrizio Dolci, Non omnis moriar, Roma, 2003; Alberto M. Banti, L’onore della nazione, Torino, 2005 p. 151; A. M. Banti e Paul Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in id. (a cura di), Il Risorgimento, Torino, 2007, p. XXIII; Roberto Balzani, Alla ricerca della morte “utile”. Il sacrificio patriottico nel Risorgimento, in Janz Klinkhammer (a cura di), La morte, cit. 10 Cfr. anche Janz, Lutto, cit., pp. 76-78. 9 9 L’adozione della retorica del sacrificio avviene quindi tramite la citazione di parole del caduto, ma questa non è l’unica fonte “diretta” impiegata dai redattori dei necrologi, ed è interessante considerare le fonti tramite le quali si giunge a questa triplice valorizzazione, e quali siano i suoi esiti. I commemoranti per procurarsi materiale utile per le loro iniziative, entravano spesso in contatto diretto coi parenti del caduto, per richiedere foto o scritti dello studente; tuttavia è più interessante notare come i commemoranti facessero richiesta di notizie anche ai commilitoni del morto in guerra11. I resoconti stilati dai superiori e le testimonianze dei commilitoni rappresentano infatti la fonte principale cui attingono i commemoranti per ricostruire gli ultimi momenti della vita del soldato e la sua condotta al fronte. I combattenti, tuttavia, mossi probabilmente da sentimenti di pietà, tendevano a descrivere la morte in termini valorizzati ed edulcorati, operando un consapevole occultamento della realtà di guerra e della morte in essa nei termini sopra descritti, così che essa finisce per essere più accettabile. Le descrizioni hanno quindi un carattere quasi stereotipato, particolarmente evidente nel caso dei resoconti dei superiori: qualora si pongano a confronto tali relazioni, ci si rende conto del loro carattere quasi seriale, al punto che esse sono praticamente interscambiabili. Questo attingere ad un repertorio piuttosto limitato di topoi finisce col descrivere tutti i caduti in termini sostanzialmente stereotipati ed uniformi, così che se da un lato si aiuta l’accettazione della morte edulcorandola e valorizzandola, dall’altro si giunge ad una prima perdita della specificità del caduto a favore della creazione di uno stereotipo esemplare, che giocherà un ruolo decisivo nell’evoluzione della pratica commemorativa negli anni a venire. Ovviamente, la descrizione che abbiamo fatto fino a questo punto non tiene conto delle differenze che pure ci sono tra i due casi in questione. Fin qui abbiamo individuato i motivi di fondo 11 Sull’importanza delle testimonianze, Winter, Sites, cit., pp. 35 e ss., più in generale, id., Remembering, cit., pp. 243 e ss.; sulla “banalizzazione” della guerra si veda Mosse, Le guerre, cit. pp. 139 e ss. 10 riconducibili alla comune aderenza ad un’ideologia di tipo nazionalpatriottico da parte di entrambi gli ambienti, ma non va dimenticato come i commemoranti, pur avendo un comune obiettivo ed una comune ideologia, hanno diverse sensibilità e diverse caratteristiche. Accade così che a Pisa, il rettore David Supino preferisca nei suoi discorsi un registro elegiaco e tutto sommato poco retorico, in cui prevalgono i toni melanconici e il dolore – affiancato all’orgoglio – per la perdita dei propri studenti. A Siena invece ci ritroviamo di fronte ad una retorica più sostenuta anche negli anni centrali del conflitto, con una ricorrente necessità, da parte degli oratori, di riaffermare la necessità e la legittimità dell’entrata in guerra, con una più sistematica rimozione dei toni elegiaci, a favore di una retorica “eroicizzante”. Non è un caso che a Siena gli studenti vengano tutti presentati fin dal 1916 come degli eroi, mentre a Pisa a questa “eroicizzazione di massa” avverrà solo alla fine della guerra, mentre negli anni centrali, anche grazie alla retorica di Supino (propenso ai ricordi personali) la specificità del caduto si manterrà per più tempo – per quanto questo aspetto appaia residuale. Dietro l’insistenza sulla necessità del conflitto che abbiamo riscontrato a Siena, è peraltro facile ravvisare come l’intervento rappresenti una sorta di ferita non del tutto rimarginata, sotto diversi aspetti, concernenti sia la legittimità della guerra (che per molti versi poteva essere considerata un tradimento al vecchio alleato), sia la sua effettiva necessità di fronte alle sofferenze che sta richiedendo. Questo ci porta a capire come l’accettazione della guerra nazionale avvenga a caro prezzo, rendendo necessaria una rimozione almeno parziale del dolore per la perdita del caduto, e per contro all’impossibilità di dimenticarlo, in quanto ci si sente debitori nei suoi confronti. È questo sentimento che porta uno dei professori dell’Università di Siena, padre di un caduto, a dire che [parleremo] di Voi [caduti], solo di Voi, sempre di Voi. […]. Ma, anzitutto, beatissimi Voi, ora e sempre, nel tempo e nello spazio; e sia il vostro nome ricordato in eterno, a incitamento e 11 conforto. Ah sì! Noi sentiamo profondamente, non per innato ottimismo, ma per la grandezza stessa delle cose, che Voi non sarete mai dimenticati.12 Il che testimonia in maniera netta da una parte un forte senso di debito, che implica un’ossessiva volontà di non dimenticare e di ricordare a scopo compensativo: di qui, l’incapacità di accettare la perdita e il distacco. Il primo dopoguerra e lo sfruttamento dello studente caduto La vittoria non porta ad un radicale cambiamento nella pratica commemorativa, anche se ovviamente il tono nei discorsi tenuti nel 1918 è più trionfale e anche più sollevato, ma le modalità con le quali sono ricordati i caduti non mutano radicalmente. La crisi del dopoguerra porta invece con sé anche un lungo strascico di polemiche attorno alla guerra, che si ripercuotono anche nelle pratiche commemorative, in cui adesso notiamo da parte dei “patriottici” una più forte necessità di difendere la guerra, oltre che dai dubbi “interni”, dai suoi detrattori “esterni”. Per i patriottici si tratta quindi di una doppia battaglia: da un lato, si trovano di fronte alla necessità di elaborare l’accaduto che ha portato ad un esito insoddisfacente, ben lontano dalle aspettative che si erano nutrite prima e durante il conflitto dall’altro, devono controbattere agli ex neutralisti, soprattutto socialisti, che tentano di elaborare una propria memoria del conflitto pesantemente critica13. Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVIII, cit., p. 22. Sulla situazione nel dopoguerra, per quanto un po’ datato si può ancora vedere G. Rochat, L’Italia nella prima Guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca, Milano, 1976; interessante per l’argomento trattato è Gianni Isola, Guerra al regno della guerra! Storia della Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra (1918-1924), Firenze, 1990. Più di recente, Andrea Baravelli, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale, Roma, 2006, per un caso particolare si può vedere Marco Baldassarri, La memoria celebrata. La festa del 4 novembre a Lucca tra dopoguerra e fascismo, in “Italia contemporanea” 244 (2006). 12 13 12 A livello nazionale, in un primo tempo, subito dopo la fine della guerra, si tende ad abbandonare i toni più roboanti ricercando una sorta di “minimo comun denominatore” nell’elaborazione del lutto, in nome di un dolore che è comune e che mette a tacere le polemiche, costringendo tutti ad un rispettoso silenzio14. Un’elaborazione del genere è riscontrabile soprattutto nelle campagne, dove come già accennato si dell’accaduto, realizza grazie una anche prima alla accettazione mediazione a posteriori della religione tradizionale; tuttavia possiamo notare come un processo simile avvenga anche su scala nazionale, come nel caso dell’inumazione del Milite Ignoto il 4 novembre 1921, quando le contestazioni, che pure hanno luogo, avvengono in sordina. Prendendo in considerazione i casi che stiamo analizzando, notiamo come una tendenza di questo genere sia riscontrabile in un primo tempo anche a Pisa, dove nel 1919 venne presa in considerazione l’ipotesi di costruire una lapide in memoria dei caduti molto sobria e poco retorica, che tuttavia non venne effettivamente realizzata a favore di un altro progetto. Ma già nel 1920, quando venne realizzato un albo commemorativo15 per i membri dell’Università caduti in guerra, i redattori (studenti ex combattenti) propesero per una scelta meno neutra politicamente e più connotata in difesa del valore della guerra. Certo anche in quest’opera è ravvisabile un’esigenza “compensativa”, la necessità di saldare il debito nei confronti dei compagni caduti e di edulcorarne e valorizzarne la morte. Tuttavia a questo aspetto, che poteva essere considerato centrale negli anni di guerra, se ne affianca un altro, destinato ad avere un’importanza crescente negli anni a venire. Anche in quest’opera la morte dei caduti è risemantizzata tramite il triplice processo di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente: ma ancor più che negli anni di guerra, i caduti sono ricordati tutti nei medesimi termini “monolitici”, con una netta tendenza ad 14 15 Cfr. Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani, Milano, 1989, p. 343. I caduti dell’Università di Pisa MCMXV-MCMXVIII, Milano, 1920. 13 uniformarne storie e aspirazioni all’insegna del patriottismo. In questo modo, si giunge alla creazione di una vera e propria figura stereotipata, quella dello studente-ufficiale di complemento, che già aveva fatto la sua apparizione nei discorsi degli ultimi anni di guerra, ma che in questo caso troviamo al centro di un sistematico uso politico, in quanto volto a difendere la legittimità della guerra. Particolarmente significativa è, in quest’ottica, l’introduzione dell’albo: A chi non sentirà rivivere in queste pagine la parola del figliolo, del fratello, dell’amico, sia di conforto e di gioia l’ammirare un egual senso di dovere, di pura bontà, di serio coraggio e soprattutto d’abnegazione completa in altri, che a Lui furono compagni negli studi e nelle armi e che con Lui avevano uno stesso destino di intelligente lavoro in mezzo alla faticata operosità umana, e che una medesima sorte gloriosa ricongiunse nel sacrificio supremo, fonte prima e più copiosa ed eterna di vita16 In questo modo, i caduti perdono la loro individualità, venendo piegati ad un uso politico, tendenza che andrà rinforzandosi nel corso degli anni: quel che conta è soprattutto il loro essere morti per la Patria, non più le loro storie, la loro vita. Una tendenza analoga è ravvisabile anche a Siena, dove nel 1919 si inaugura il monumento agli studenti caduti17. L’opera in questione consiste in una vittoria alata in stile liberty in altorilevo su una lapide con i nomi dei caduti, ed è in realtà poco vicina ai canoni dell’estetica nazionalista: va detto tuttavia che essa è un dono da parte di uno studente dell’Università, scultore dilettante, e pertanto appare una testimonianza più che altro del suo gusto e della sua sensibilità personali. Si può notare quindi una certa discrepanza tra l’estetica di Ibid., p. 151. Corsivi miei. Per i discorsi pronunciati in occasione della cerimonia inaugurale cfr. Per la inaugurazione di una lapide monumentale in memoria degli studenti caduti per la patria, Siena, Lazzeri 1919. 16 17 14 quest’opera e i roboanti discorsi degli oratori nel corso della cerimonia di inaugurazione, dove troviamo una costante e orgogliosa rivendicazione della guerra posta sotto la tutela spirituale dei caduti, ma anche una sistematica esaltazione dell’Università come scuola di patriottismo. Centrale è quindi lo sfruttamento dello stereotipo dello studente-ufficiale di complemento, assurto ad esempio delle tradizioni guerriere dell’Università, così che il rito diviene una celebrazione delle glorie universitarie e nazionali, privo di caratteri funebri, che in parte erano ancora riscontrabili a queste date a Pisa. Abbiamo così un’evoluzione nelle pratiche commemorative, avvertibile in entrambi i casi in esame: l’elaborazione della morte “ad uso interno” rimane un elemento fondamentale delle commemorazioni, e la riaffermazione della legittimità della guerra è funzionale anche ad un’esigenza di autoassoluzione ed all’accettazione della guerra da parte dei patriottici; ma vediamo come tale riaffermazione viene giocata decisamente anche nei confronti delle polemiche conseguenti la fine delle ostilità. Due esempi significativi dell’atteggiamento dei patriottici di fronte alle polemiche di parte socialista ci sono offerti dalle commemorazioni tenutesi a Siena nel 1920 e nel 192118. Nel 1920, in particolare, a seguito di scontri tra socialisti e “patriottici” nei giorni precedenti la commemorazione, questa si tiene a porte chiuse, e a tenere il discorso di quest’anno è un oratore d’eccezione, Piero Calamandrei, allora neodocente di diritto amministrativo, nonché reduce di guerra. Nel suo discorso più che a commemorare gli studenti concretamente morti in guerra (che peraltro non ha mai conosciuto personalmente, essendo giunto da pochi mesi nell’Ateneo), appare interessato a ribadire il valore e la legittimità della guerra nonostante la delegittimazione che contro di essa viene portata, e ad individuare un Si veda Pietro Calamandrei, In memoria degli studenti caduti per la patria, Siena, Lazzeri, 1920. Recentemente il discorso è stato ripubblicato in P. Calamandrei, Zona di guerra. Lettere, scritti, discorsi (1915-1924), Roma Bari 2006 con introduzione di Alessandro Casellato (p. 315). Calamandrei insegnò a Siena dal 1920 al 1924, quando passò alla neonata Università di Firenze. Per il discorso del 1921, Giovanni Lorenzoni, Commemorazione di Curtatone e Montanara, Siena, 1921. 18 15 significato per tale massacro, trovandolo nel valore palingenetico di “ultima guerra” che il conflitto avrebbe dovuto avere, e al tempo stesso nel valore di “scuola di vita” che ha avuto per i combattenti. Calamandrei infatti incita a portare nella vita civile i valori appresi in trincea e incarnati dai caduti: ancora una volta questi vengono rivestiti di un ruolo astratto ed esemplare. Certo non ci troviamo di fronte ad un’elaborazione marcatamente sciovinista, ma anche in questo caso il discorso è essenzialmente una celebrazione delle glorie universitarie ed un invito a servire la patria, così come la guerra assurge a mito formativo, analogamente a quanto avviene su vasta scala nel resto d’Europa19. Più esplicito a questo proposito è l’oratore dell’anno successivo, Giuseppe Giovanni Lorenzoni , il quale al pari di Calamandrei è un reduce, per di più trentino. Questi concorda con Calamandrei nel giustificare la guerra, richiamandosi ai diritti dei popoli, e nel riconoscere al conflitto un grande valore “educativo”, ma a differenza del collega, prospetta un futuro di scontro tra nazioni in cui all’Italia potrà spettare un ruolo di primo piano, a patto che sappia seguire l’esempio dei combattenti. Anche in questo caso i caduti hanno il ruolo di alto esempio morale, mentre troviamo di nuovo la sistematica esaltazione dell’Università come scuola di patriottismo, in quanto luogo in cui “salvare la concezione eroica della vita” che si era formata tra le trincee. Notiamo quindi come, col passare degli anni e l’allontanarsi dell’evento nel tempo, si perdano definitivamente i caratteri funebri che aveva avuto la commemorazione negli anni di guerra, a favore di un uso politico sempre più marcato degli studenti caduti come risorse retoriche. Tale sfruttamento, oltre che per difendere la guerra dai detrattori, è finalizzato anche all’esaltazione dell’Università guerriera e patriottica, ponendo così la Grande Guerra in continuità con quanto avevano fatto gli Atenei toscani a Curtatone e Montanara, presenza costante nelle commemorazioni, insita anche nella scelta della data delle celebrazioni. Questo processo culminerà verso la metà degli 19 Cfr. Mosse, Le guerre, cit. 16 anni ’20, quando la guerra non sarà più oggetto di polemiche – grazie anche all’intervento dall’alto – ma semmai un efficace mito nazionale ed una risorsa retorica facilmente spendibile. Gli anni ’20. La celebrazione La cerimonia d’inaugurazione del monumento ai caduti dell’Università di Pisa che si tiene il 29 maggio 1924 è altamente indicativa del cambiamento cui abbiamo accennato in chiusura del paragrafo precedente. La cerimonia è molto diversa da quelle degli anni di guerra, in quanto non ha in alcun modo carattere funebre, ed è incomparabilmente più solenne anche di quella che si tenne a Siena cinque anni prima. Ad essa presero parte autorità nazionali e cittadine, tra cui il Duca di Pistoia e l’arcivescovo Maffi, era prevista anche la presenza di Mussolini che diede forfait all’ultimo. Tutto concorre a dare alla cerimonia un carattere solenne ma al tempo stesso festoso, molto lontano da una cerimonia funebre20: nell’addobbo prevalgono colori come cremisi e l’oro e l’ingresso dei partecipanti, così come lo scoprimento del monumento, è accolto in maniera festosa e al suono di inni patriottici . È chiaro quindi come non ci si trovi di fronte ad una celebrazione luttuosa: anche in questo caso la commemorazione appare invece funzionale all’esaltazione della nazione e dell’Università come scuola di patriottismo, con una decisa accentuazione dei caratteri revanscisti, con l’invito, rivolto ai presenti, ad essere all’altezza degli “eroi” e a rinnovare, qualora necessario, il loro gesto di sacrificio per la nazione. Nei discorsi degli oratori, infatti, i caduti appaiono ormai identificati nello stereotipo dello studente-ufficiale di complemento, posti a fianco dei caduti di Curtatone e Montanara nella loro funzione di esempio morale e patrimonio dell’Università. Questo aspetto viene ulteriormente accentuato nella pubblicazione edita per l’occasione, il “numero 20 Cfr. la cronaca riportata su L’inaugurazione all’Università di Pisa del Monumento ai caduti, in “L’Italia Universitaria” 5 giugno 1924. 17 unico” XXIV Maggio 192421 , in cui non a caso sono posti in rilievo i messaggi delle personalità politiche e militari, poco interessate al ricordo degli studenti quanto alla loro esaltazione in quanto caduti. Anche il monumento, realizzato dallo scultore lombardo Gigi Supino, appare non essere altro che un corrispettivo visivo ed allegorico dello stereotipo dello studente guerriero. Esso rappresenta infatti un nudo virile – la “gioventù studiosa” – armato di scudo (ornato dal Cherubino dell’Ateneo) nell’atto di ricevere da Minerva – l’Università – una fiaccola “che dopo aver illuminati gli studi severi verrà agitata sui campi di battaglia”, a lato del gruppo scultoreo un cippo riporta l’iscrizione “pro patria”, mentre sul piedistallo, tra gli stemmi della provincia e del comune, è posta la lapide in bronzo con i nomi dei caduti sovrastati dall’iscrizione “Eternarono la loro giovinezza cadendo per l’Italia nell’epica guerra dal 1915 al 1918”. L’opera chiaramente non è un monumento “funebre”, ma è più vicina alle declinazioni di una monumentalistica celebrativa di tipo nazionalista, caratterizzata peraltro da scelte estetiche piuttosto ordinarie. In questo modo, non sono i “veri” caduti, i cui nomi sono difficilmente leggibili ai piedi del monumento, al centro dell’attenzione dei commemoranti, bensì il loro gesto di sacrificio per la patria. In tal modo sono così poste le basi su cui potrà svolgersi la lettura fascista della guerra, basata su una sorta di teleologia che lega Curtatone e Montanara, la Grande Guerra e la rivoluzione fascista. Tale lettura, già implicita nel 1924, troverà il suo coronamento, nell’Ateneo pisano, nel 1931, in occasione della pubblicazione dell’albo Sagra decennale dei martiri fascisti dell’Ateneo Pisano22, sorta di albo commemorativo redatto a cura del GUF, in cui i morti del 1848, quelli della Grande Guerra e i martiri fascisti sono esplicitamente posti sullo stesso piano. Il (peraltro relativo) successo della “fascistizzazione” della Grande Guerra tra le masse patriottiche appare più comprensibile 21 XXIX Maggio 1924 – L’Università di Pisa celebra i suoi gloriosi caduti nella guerra MCMXV-MCMXVIII, Pisa, 1924. 22 Pisa, Pacini Mariotti 1931. 18 alla luce del vero e proprio shock che il dopoguerra aveva rappresentato per molti ex combattenti. Dopo l’avvento del regime le polemiche giungono ad una conclusione: e se da un lato il fascismo monopolizza il discorso sulla guerra, impedendo alla stessa ANC un’elaborazione autonoma23, certo per molti ex combattenti tale soluzione poteva apparire preferibile alla situazione che si era delineata tra il 1918 e il 1922. In tale ottica è da inquadrare anche la cerimonia che si tiene a Siena il 29 maggio 1926, con la partecipazione di Italo Balbo e di Silvio Lessona come oratore principale24. Nel suo discorso, Lessona rievoca il trauma del dopoguerra in termini sostanzialmente analoghi a quelli di Calamandrei e Lorenzoni, salvo che la situazione, ai suoi occhi, ha trovato una soluzione grazie alla resistenza degli ex combattenti e all’azione di Mussolini. In questa “riscossa”, ancora una volta viene riconosciuto un ruolo di primo piano agli studenti e dell’Università, “fucina di scienza e di pensiero, […] fucina di fede, di nobiltà, di ardimento, bagno in cui il carattere dei giovani e dei maestri si rinsalda e si tempra e si sublima nell’amore di questa nostra patria…” 25. Certo c’è una componente di piaggeria in queste parole, se non altro nei termini con i quali è descritto il duce: ma non è errato credere che il sollievo dell’oratore sia, almeno in questo caso, sincero. Non serve notare che lo spazio dedicato ai caduti è quello degli alti esempi morali, né che non c’è spazio per toni elegiaci e per il dolore: la guerra costituisce oramai, al di là delle polemiche passate (ed anzi, in questo caso assieme ad esse e alla “battaglia” del dopoguerra), il compimento della storia unitaria italiana e come tale è oggetto di celebrazione. La guerra appare ormai in questi ambienti un mito consolidato, superati – o meglio rimossi – i dubbi sulla sua legittimità e necessità riscontrati nel 15-18 e che forse erano ancor più sentiti nel dopoguerra, così come era stato rimosso, durante gli anni di guerra, il dolore e il lutto per gli studenti caduti. 23 24 25 Cfr. Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari, 1974. Commemorazione di Curtatone e Montanara 29 maggio 1926, Siena, 1926. Ibid., p. 14. 19 Conclusioni Nei casi presi in esame, per quanto con modalità leggermente diverse, abbiamo visto come la valorizzazione della morte in guerra porti alla creazione di uno stereotipo che uniforma i caduti su un monocorde modello, quello degli studenti-ufficiali di complemento. Non mi risulta siano stati fatti studi sistematici su questo “stereotipo di guerra”, che è presumibilmente diffuso a livello nazionale e che crediamo possa essere tranquillamente accostato a quelli più noti del fante contadino, dell’alpino, dell’operaio imboscato e via dicendo. L’argomento appare meritevole di un approfondimento, in quanto sembra essere una di quelle astrazioni che hanno segnato, se non la storiografia sull’argomento, quantomeno l’immagine della guerra a livello pubblico, essendo al centro, come abbiamo visto, di un significativo uso politico ai fini dell’esaltazione dell’Università e della riaffermazione della legittimità della guerra. Tale processo lascia certo delle tensioni irrisolte, ma sta di fatto che la morte risemantizzata appare più accettabile. Non serve notare che, come gli stessi combattenti sapevano e (in altre sedi) affermavano26, la realtà della guerra e dei combattenti erano ben diverse dalle rassicuranti versioni che venivano trasmesse durante le cerimonie commemorative. E vale la pena ricordare che questa realtà poteva risultare sconosciuta al paese nei primi tempi, ma non poteva essere ignorata negli anni centrali del conflitto. Usando una metafora, la borghesia patriottica durante la guerra si tiene in bilico tra i racconti più crudi, la presenza dei mutilati, ed altre testimonianze del lato “sinistro” del conflitto da un lato, e i più rassicuranti resoconti giornalistici, la produzione della propaganda di guerra, i racconti più rassicuranti dei testimoni (come quelli che abbiamo visto) dall’altro. Questo secondo tipo di produzione discorsiva, alimentata dall’alto e dal basso – nel nostro caso, dalle cerimonie in memoria dei caduti – trova un terreno più fertile per 26 Cfr. Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La grande guerra, Milano, 20042 p. 233 e ss. 20 essere accolto, venendo incontro alla volontà e alla necessità (al tempo stesso psicologica e politica) di continuare ad accettare la guerra patriottica27. Può darsi che questo gioco di autoinganno fosse consapevole, quel che veramente conta è che, alla fine, le astrazioni e gli stereotipi che esso aveva finito per creare in molti casi vennero percepiti come reali e che grazie ad esso, la fedeltà alla nazione superi la prova della guerra. Quel che emerge certamente è un attaccamento all’ideologia nazionalista e al tempo stesso una capacità di impiegarla per elaborare la morte in guerra tali da rendere difficile parlare di “nazionalismo debole”28 per il caso italiano. È vero che lo stato unitario rinuncia per molto tempo a condurre una politica di nazionalizzazione delle masse veramente efficace, ma da un lato va rimarcato come anche all’estero questo processo sia spesso tardivo29 e come la politica “per le masse” sia a volte fallimentare 30; dall’altro, come a questa rinuncia dello Stato si affianchi un grande attivismo dal basso, di cui la “monumentomania” ottocentesca è l’aspetto più evidente. Vero è quindi che in Italia il messaggio nazionalista è limitato da un punto “quantitativo” e che le grandi masse, soprattutto contadine, rimangono ad esso estranee o ostili: ma da un punto di vista qualitativo, è indubbio che esso non sia meno pervasivo rispetto a Non è certo casuale che questo processo non riesca più a mettersi in moto dopo la seconda guerra mondiale, quando il conflitto diviene una realtà impossibile da risemantizzare. Cfr. Mosse, Le guerre, cit. 28 Di “nazionalismo debole” e di “immagine debole dell’Italia” hanno parlato soprattutto Bruno Tobia (Una patria per gli italiani, Roma Bari, 1991) e Ilaria Porciani (Una festa per la nazione, Bologna, 1998 e Stato e nazione: l'immagine debole dell'Italia in Simonetta Soldani, Gabriele Turi (eds.) Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna 1993). 29 Vale la pena ricordare il lavoro di Eugen Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale (1870-1914), Bologna, 1989, sulla nazionalizzazione delle masse in Francia. 30 Si prenda, ad esempio, il fallimento della Sedanfest analizzato da Mosse in La nazionalizzazione delle masse, Bologna, 1974, p. 138. 27 21 quanto avviene all’estero31. La “nazione”, per uno strato di popolazione ristretto, ma d’importanza sociale non secondaria – quale è, ad esempio, la popolazione universitaria – è un’entità estremamente “significativa”, capace di suscitare emozioni profonde e di orientare la condotta: al punto che in molti accettano di perdere un parente, di morire, nonché di uccidere, in nome di essa. Rimane da capire perché la valorizzazione alla luce della nazione abbia una sua efficacia: come fatto notare da Benedict Anderson, parlare di “cenotafio per i caduti liberali”32 suonerebbe ridicolo, mentre esistono diversi cenotafi ai caduti per la nazione. Una volta analizzate le modalità con cui avviene tale valorizzazione, è necessario quindi interrogarsi sulle motivazioni di tale efficacia: così facendo andiamo a toccare il problema centrale della fortuna del nazionalismo in Europa tra otto e novecento. Si tratta, un poche parole, di capire perché una guerra per la “nazione” venga vista come giusta e legittima al punto da poter giustificare la perdita dei propri cari. Non è questa la sede per esplorare compiutamente la complessa stratificazione di cause che porta a tale esito, tuttavia non possiamo esimerci dall’abbozzare almeno una possibile chiave di lettura del fenomeno. È stato ipotizzato che la fortuna e l’efficacia della “nazione” come fattore legittimante sia basata sulla capacità che ha il discorso nazionale di sviluppare potenti effetti performativi, dovuti all’articolazione di esso attorno a quelle che sono state definite “figure profonde”, aventi a che fare con fatti primari quali la nascita e la morte, l’amore e l’odio, la sessualità e la riproduzione 33. Tali “figure”, hanno effettivamente un loro spazio nelle pratiche che abbiamo preso in esame. Significativa (e spesso sottovalutata) in quest’ottica è l’importanza (e la novità) della sovrapposizione tra i concetti di “patria” e “nazione”, che avviene su larga scala solo a partire dal XIX secolo, e che trasla sul concetto di “nazione” le In Audoin-Rouzeau e Becker, 14-18, cit., specie nella seconda parte, è possibile trovare un’efficace esemplificazione di cosa implichi, in ambito francese, la fedeltà alla nazione in tempo di guerra. 32 Benedict Anderson, Comunità immaginate, Roma, 1996 (1983), p. 10. 33 Banti e Ginsborg, Per una nuova, cit., pp. XVIII e ss. 31 22 componenti discorsive accumulatesi fin dal medioevo attorno al concetto di “patria”, che a sua volta dal XIV secolo veniva identificata come “corpo mistico”, fino a quel momento definizione esclusiva della Chiesa34. È facile capire quali siano le conseguenze di questa identificazione della “nazione” come un “corpo mistico”, soprattutto se consideriamo la figura del sacrificio. È attorno a questa che assistiamo al processo più significativo, che ci fa notare come la nazione sia vista più come un’entità propriamente metafisica o comunque trascendente che non come un’entità politica35. E d’altra parte, il fatto che la nazione sia in grado di dare un senso trascendentale alla morte in suo nome, può aiutare a capire, se non proprio la fortuna del discorso nazionale (la religione della nazione non spiegherà mai una morte in tempo di pace, o comunque una morte “naturale”), almeno come si sia potuto continuare ad accettare la guerra, a far sì che questa non fosse percepita come “inutile”. Quanto detto, ancora una volta, non deve farci scordare i limiti dell’elaborazione patriottica: accettazione della morte in guerra per la nazione e mito dell’esperienza della guerra non vogliono dire superamento del lutto. Il dolore è censurato e rimosso, e i commemoranti non fanno nulla per accettare il distacco avvenuto, al contrario, il senso di debito nei confronti dei caduti li porta a rievocarli incessantemente. Quello che vediamo delinearsi è quindi un processo elaborativo complesso e contraddittorio, in cui si eleva la guerra ad alto ideale, ma al tempo stesso non si riescono ad accettarne fino in fondo le conseguenze: si accetta e si esalta il conflitto, ma al tempo stesso le sofferenze che questo comporta, ora note (mentre erano ignote e soprattutto inaspettate prima del 191418), portano a temerlo. Molte sono quindi, a nostro giudizio, le questioni meritevoli di essere approfondite. Oltre a quanto detto sugli stereotipi di guerra, notiamo che per quanto riguarda il problema del lutto, sarebbero 34 Ernst Kantorowicz, Pro Patria Mori in Medieval Political Thought, in “American Historical Review”, 56 (1951), pp. 486-487. 35 Cfr. Banti, L’onore della nazione, Torino, 2006, p. 151. 23 auspicabili studi analitici su casi particolari, anche con la collaborazione di esperti di scienze della psiche; per quanto concerne un problema più generale, sarebbe utile capire se il passaggio da una pratica commemorativa elegiaca ad una più celebrativa sia segno di un superamento del lutto o di una sua più radicale censura. Accanto a questo aspetto andrebbe approfondita l’analisi del nazionalismo come fenomeno religioso e sulla sua capacità di far entrare la morte (per quanto risemantizzata) in un sistema dotato di senso. L’ampliamento dello spettro della ricerca ha d’altronde già portato a risultati di rilievo nella comprensione del primo conflitto mondiale, che dimostra così di essere osservatorio privilegiato snodo fondamentale per la comprensione del XX secolo. 24 e