Laboratorio di storia contemporanea
Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» - Istrevi
No. QM/2010/1
ISTITUTO STORIA DELLA RESISTENZA
E DELL’ETÀ
DELLA
CONTEMPORANEA
PROVINCIA DI VICENZA
ETTORE GALLO
Quaderni su guerre e memoria del ‘900
Responsabile di collana Marco Mondini – [email protected]
Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti:
il caso delle Università toscane.
FRANCESCO CABERLIN
(Scuola Normale Superiore di Pisa e Università di Pisa)
Abstract
After an introduction to the topic of the commemoration of fallen soldiers in the Great War, I expose
the results of a survey on the University of Pisa and Siena. The results point out that the practices of
commemoration were the moment for both coping with the pain for the death of fallen soldier and
reasserting the meaning of the war, by means of a glorification of the death in war that led to the
creation of a stereotype of the fallen student. I extend the analysis to the post-war period by pointing
out that the political aspects of the commemoration, which were linked to the necessity of
legitimating the war, prevailed on the ‘private’ aspects of these practices, and culminated with the
celebrations of the middle 1920s. I conclude the analysis with some remarks about the fortunes of the
nation as a legitimacy factor.
Parole Chiave
Prima Guerra Mondiale, nazionalismo, università, commemorazione, caduti, lutto.
Francesco Caberlin
[email protected]
FRANCESCO CABERLIN (1987) è studente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Università di Pisa, dove
ha ottenuto la laurea di primo livello in Storia Contemporanea con una tesi sulla commemorazione della Grande
Guerra. Si interessa in generale di problematiche legate ai fenomeni nazionalistici, specie novecenteschi.
I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono pubblicati a cura dell’Istrevi e intendono
promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti sulla storia contemporanea
vicentina e italiana, per suscitare commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della
natura provvisoria dei lavori per citazioni e per ogni altro uso.
I quaderni del Laboratorio di storia
contemporanea
sono scaricabili all’indirizzo: www.istrevi.it/lab
Per contatti: [email protected]
Istituto per la storia della Resistenza e dell’età
contemporanea
della provincia di Vicenza «Ettore Gallo»
c/o Museo del Risorgimento e della Resistenza – Villa Guiccioli
Viale X Giugno 115 -
I-36100 Vicenza
Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti:
il caso delle Università toscane.
Il problema
Negli anni della Grande Guerra e del primo dopoguerra, negli
spazi pubblici dei centri abitati italiani ed europei vengono costruiti
numerosi ricordi monumentali dedicati ai caduti della guerra che
ancor oggi caratterizzano il paesaggio urbano di diverse città. I
monumenti ai caduti tuttavia non sono altro che la testimonianza più
evidente di un fenomeno più complesso, all’interno del quale questi
vanno inquadrati, ossia quello della commemorazione pubblica dei
caduti della prima guerra mondiale.
Fin da subito, i morti in guerra furono al centro di un
sistematico processo di elaborazione del lutto messo in atto da parte
dei loro cari, al fine di dare un significato e di rendere più tollerabile
la perdita. Differentemente da quanto si crede, infatti, la stragrande
maggioranza delle iniziative di commemorazione – compresi quindi i
monumenti – non vennero prese su iniziativa statale, ma partirono
“dal basso”, dalla cerchia degli intimi del caduto: parenti, colleghi,
amici o spesso semplici conoscenti, che costituirono quelli che sono
state definiti “gruppi di parentela fittizia”, accomunati da una stessa
situazione e da un obiettivo comune, e che si organizzarono per
ricordare assieme i cari caduti1.
In realtà la situazione è molto più complessa di quanto non
appare
da
queste
prime
righe
introduttive:
anche
volendo
semplificare al massimo, non è possibile ignorare come in Italia
esistano due macrocasi nettamente distinguibili. Da una parte
abbiamo la stragrande maggioranza della popolazione che guarda al
1
Sui “gruppi di parentela fittizia” e il loro ruolo nella costruzione della memoria della
Grande Guerra si veda J. Winter, Remembering war: the Great War between memory and history in
the twentieth century, New Haven, 2006, p. 137.
2
conflitto con estrema estraneità se non con aperta ostilità. Queste
masse operaie e contadine a volte riescono ad elaborare una propria
memoria
del
conflitto
seguendo
vie
del
tutto
particolari,
internazionaliste ed antipatriottiche, venendo d’altronde ostacolati
dalle iniziative prefettizie; più spesso, le masse (soprattutto
contadine) giungono ad un’accettazione del conflitto a distanza di
anni, il più delle volte con la mediazione della religione tradizionale.
Dall’altra parte abbiamo invece il relativamente ristretto strato di
fedeli all’ideologia nazional-patriottica, per i quali la fedeltà alla
nazione è un valore – per certi versi, come vedremo, assoluto – che si
trovano di fronte ad un fenomeno inaspettato, a cui non erano
preparati. Anche se dopo il primo anno di conflitto la situazione era
prevedibile, nessuno, all’alba dell’entrata in guerra, era preparato ai
lutti che il conflitto avrebbe portato con sé: le sole guerre combattute
dagli italiani, come dalle altre nazioni europee, nei cent’anni prima
del 1914, erano stati conflitti brevi e tutto sommato poco sanguinosi.
Fin dalle prime settimane invece la guerra si presenta come un
massacro di entità inaspettata: ma non è una questione meramente
quantitativa, se consideriamo come la morte in guerra sia una morte
estremamente cruenta e che coinvolge una fascia di popolazione ben
delimitata, una generazione di uomini giovani, di “figli” ancor prima
che di “padri” e di “mariti”, che lascia i più vecchi, i padri e le madri,
per i quali l’elaborazione del lutto è certo più difficile 2. I “patriottici”
si trovano dunque a dover affrontare il lutto per i cari caduti, e il fatto
che questi siano morti nella guerra “nazionale” può portare a
vacillare la fedeltà all’ideale nazionale cui sono legati. In quest’ottica
crediamo che le pratiche commemorative possano essere studiate
come i luoghi del mantenimento del senso nazionale della guerra, con
le quali si edulcora e si valorizza la morte in battaglia, si ribadisce il
suo senso e la sua importanza per i destini della nazione e al tempo
stesso si tenta di saldare in qualche modo la componente del “debito”
2
Sul problema del lutto e le società di guerra, fondamentali Winter, Sites of memory,
sites of mourning, e Stephane Audoin-Rouzeau e Annette Becker 14-18, retrouver la guerre,
Gallimard 2000, in particolare pp. 232-233 e pp. 244-245.
3
che i più vecchi, i sopravvissuti, sentono di aver contratto nei
confronti dei più giovani che sono morti per una causa ritenuta
comune. In questo modo, le pratiche prendono anche una
determinata connotazione politica, più o meno accentuata a seconda
dei casi, divenendo dei veri e propri “atti di cittadinanza”, in quanto
la partecipazione ad esse implica l’accettazione di una precisa scala
valoriale, imperniata attorno alla nazione come fattore legittimante.
Al tempo stesso, è facile capire come la dimensione del debito porti
con sé un’ossessiva necessità di non dimenticare che le pratiche
fissano e reiterano costantemente: così, se da una parte le pratiche
portano in una qualche misura all’accettazione della guerra e della
morte in guerra, ostacolano al tempo stesso il superamento del lutto
da parte dei congiunti del caduto3. Accettazione della guerra
nazionale e superamento del lutto sono quindi aspetti in conflitto tra
di loro, tra i quali il più delle volte non si riesce a trovare una sintesi
efficace. Inoltre questo processo, avviene con una rielaborazione
della realtà della guerra, restituendo ad essa e alla morte in battaglia
dei contorni accettabili e per certi aspetti idealizzati, che vanno ad
alimentare quello che è stato definito “mito dell’esperienza della
guerra”,
ossia
una
risemantizzazione
dell’esperienza
bellica,
presentata come profondamente carica di senso4. Tale rielaborazione
così si rivelerà non priva di messaggi apertamente bellicisti, che
sfoceranno negli anni a seguire in una retorica apertamente
revanscista.
Quello delineato fin qui può essere considerato un quadro
d’analisi molto generale, la cui validità necessita di essere passata al
vaglio tramite l’analisi di casi particolari. In questa sede,
provvederemo a esporre i risultati di un sondaggio compiuto presso
gli atenei toscani di Pisa e Siena negli anni tra il 1915 e il 1925,
periodo centrale per l’elaborazione del lutto e per la prima
definizione di una memoria “patriottica” della guerra. Le università si
Ibid. Di parere leggermente diverso è Winter, Sites, cit.
George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza 1990,
in particolare pp. 3 e 89.
3
4
4
prestano bene ad un tale tipo di indagine: anzitutto, da un punto di
vista documentario, sono “gruppi di parentela fittizia” che offrono
una disponibilità di materiale che molto spesso non si verifica per
altri gruppi, i quali il più delle volte non erano dotati di una struttura
istituzionalizzata
e
pertanto
non
hanno
conservato
la
documentazione relativa alle loro iniziative. Al di là di questa
motivazione “tecnica”, va notato come la definizione di “gruppo di
parentela fittizia”, si attagli bene agli Atenei di inizio Novecento, che
siano istituzioni di dimensioni limitate, all’interno delle quali i
rapporti tra corpo docente e studenti sono piuttosto stretti. Va certo
tenuto conto del fatto che le Università sono “gruppi di parentela
fittizia” dotati di caratteristiche particolari: da un lato, non sono fissi,
in quanto la componente studentesca e – in misura minore – quella
dei docenti sono fluide e soggette a cambiamenti annuali; dall’altro,
sono gruppi sbilanciati al loro interno, essendo composti quasi
esclusivamente da giovani che combattono e da membri della
generazione dei “padri”: di tale dicotomia dobbiamo tenere conto, in
quanto entrambi i gruppi partecipano alla genesi del discorso
commemorativo, ma con un bagaglio di esperienze e sentimenti
differenti. Nelle Università italiane, infine, l’ideologia nazionalista
appare avere un ruolo di primo piano, sia a livello istituzionale che
per la popolazione studentesca, costituendo l’ideologia comune di
riferimento della maggioranza (per quanto non della totalità) della
popolazione universitaria: da questo punto di vista il caso degli atenei
appare adatto a capire come un ambiente nazional-patriottico
reagisca di fronte alla tragedia della Grande Guerra.
5
Fonti
Fin qui abbiamo accennato solo ai monumenti ai caduti come
espressione commemorativa, ma questi sono solo una delle tante
iniziative realizzate dai “gruppi di parentela fittizia”. Uno dei limiti
maggiori di diversi lavori su questo argomento è stato quello di
fermarsi all’analisi di questo tipo di forma commemorativa,
estrapolandolo dall’insieme delle iniziative all’interno delle quali era
inserito. Un tale approccio può essere utile per un’indagine di tipo
strutturale, ma appare insoddisfacente per lo storico che voglia
cercare di capire compiutamente come ci si rapportasse nei confronti
della guerra in un dato momento. Il monumento ai caduti è certo uno
degli aspetti da prendere in considerazione, ma non l’unico: se si
vuole cercare di ricostruire globalmente e organicamente il discorso
commemorativo da parte di un preciso soggetto storico è necessario
tenere presente tutte le sue forme. Il monumento è infatti solo una
particolare espressione della commemorazione, a cui dobbiamo
affiancarne altre, quali gli opuscoli commemorativi, le cerimonie, e
via dicendo. Gli opuscoli collettivi, per fare un esempio, sono in
genere poco studiati: a dispetto del grande numero di questo tipo di
fonti (che vanno, cronologicamente, dai primi anni del conflitto fino
agli anni ’30), e la loro eterogenea provenienza,che permettono di
fare luce sull’estrema varierà, negli anni del conflitto, delle immagini
della guerra, e di capire meglio l’evoluzione di tale immagine, le
modalità con cui si giunse gradatamente alla sottolineatura della
morte di massa e alla perdita d’individualità del caduto. Con ciò,
notiamo anche l’utilità di un approccio all’argomento di tipo
diacronico che metta in luce sviluppi e torsioni del discorso
commemorativo: un’indagine di questo tipo non è possibile tenendo
presente solo il monumento ai caduti. Nella fattispecie, per quanto
riguarda
le
Università,
vennero
spesso
realizzati
opuscoli
commemorativi, in occasione delle cerimonie di inaugurazione dei
monumenti oppure in occasione dell’assegnazione delle lauree
honoris
causa
agli
studenti
caduti
6
(in
virtù
del
decreto
luogotenenziale 1° ottobre 1916, n. 1400): nell’Università di Pisa,
queste
venivano
consegnate
nel
corso
della
cerimonia
d’inaugurazione dell’anno accademico, a Siena il 29 maggio,
anniversario di Curtatone e Montanara5. Gli opuscoli inoltre
trasmettono spesso i testi dei discorsi pronunciati nel corso delle
cerimonie, fondamentali per la comprensione delle azioni dei
commemoranti, ma anch’esse generalmente trascurate6. Lo stesso
monumento, d’altronde, può offrire numerose chiavi di lettura,
considerandone la committenza, le scelte iconografiche, quelle
estetiche, la posizione, le iscrizioni, e le stesse cerimonie al centro
delle quali era inserito. È chiaro quindi che l’analisi storica non può
fermarsi al livello “semiologico” ma deve anche considerare i
retroscena e cercare di capire come e perché si sia giunti a quel
risultato finale. Quindi uno studio di questo genere richiede anche
uno spoglio documentario per capire le scelte che i commemoranti
compirono, per capire quali di queste furono mosse da motivi
meramente pratici e quali no.
Tramite lo studio incrociato di queste diverse fonti, è possibile
cogliere sviluppi e torsioni che la pratica commemorativa conobbe
negli anni. Questi aspetti verrebbero meno qualora limitassimo
l’analisi ad una sola espressione commemorativa, avulsa dal contesto
in cui andava ad inserirsi: per questo prenderemo in analisi
sinteticamente i vari aspetti della commemorazione, ponendoli in
chiave diacronica.
I testi dei discorsi inaugurali sono conservati negli annuari delle Università, ma
negli anni centrali del conflitto, non venendo pubblicati questi, furono editi separatamente.
Si è fatto quindi riferimento, per il caso pisano, a: L’anno scolastico 1915-16 ed i caduti sul
Campo dell’Onore, Pisa, 1916; L’anno accademico 1916-17 ed i caduti sul campo dell’onore, Pisa,
Mariotti 1917; Relazione sull’andamento dell’anno accademico 1917-18 e conferimento della laurea
ad honorem ai caduti in guerra, Pisa, 1918. Per Siena si vedano Achille Sclavo, Per la solenne
inaugurazione degli studi, Siena, 1917; Mario Betti, Per la solenne inaugurazione degli studi,
Siena, 1918.
6
Nel caso di Siena i discorsi delle cerimonie commemorative del 29 maggio vennero
pubblicati in Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVII, Siena,
1917; Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVIII, Siena, 1918.
5
7
Gli anni di guerra e la valorizzazione della morte
Come già accennato, le Università italiane sono a inizio secolo
degli ambienti fortemente “nazionalizzati”. In particolare, nelle
Università di Pisa e Siena la battaglia risorgimentale di Curtatone e
Montanara (cui parteciparono studenti degli Atenei) costituisce un
autentico mito, commemorato a Pisa con una lapide e a Siena con un
vero e proprio monumento costruito nel 1892, grazie ad una
sottoscrizione degli studenti7. Non è casuale, d’altronde, che a Siena
le cerimonie commemorative si tengano nell’anniversario della
battaglia, il 29 maggio, a sottolineare la continuità tra i caduti del
Risorgimento e la Grande Guerra. Le prime cerimonie con le quali si
affronta pubblicamente la guerra nelle due Università sono quindi
caratterizzate da una retorica nazional-patriottica decisamente
sostenuta, in cui i motivi del lutto sono del tutto assenti o quasi. È
solo dall’anno successivo che riscontriamo una pratica propriamente
luttuosa e delle cerimonie in cui si avverte la necessità di giungere ad
una non facile sintesi tra amor patrio e amore degli studenti caduti.
Quello che è riscontrabile nei discorsi che vengono tenuti in questi
anni, è il tentativo di valorizzare la morte in guerra tramite una
strategia che fa leva su tre aspetti tra di loro complementari 8. Da una
parte, la morte in guerra è spesso descritta come un evento sereno e
poco cruento, il caduto muore circondato dai commilitoni, senza
ferite sfiguranti, la sua è insomma una morte “bella”, poco traumatica
e più accettabile per i congiunti rispetto alle condizioni “reali” della
morte in guerra. Più interessanti (e più ricorrenti) sono tuttavia gli
altri due aspetti della rivalutazione, ossia la descrizione della morte
del caduto come un atto eroico e come un sacrificio per la patria.
Descrivendo la morte come “eroica” si conferisce al caduto una
Per un profilo della storia dell’Università di Siena tra 1861 e Grande Guerra, si
veda Ilaria Porciani, Dalla Restaurazione alla Prima Guerra Mondale, in AA. VV. L’università di
Siena: 750 anni di storia, 1991.
8
In questa tripartizione concordiamo con quanto osservato da Oliver Janz a
proposito degli opuscoli editi dalle famiglie dei caduti in tutta Italia. Cfr. Janz, Lutto,
famiglia, nazione nel culto dei caduti della prima guerra mondiale in Italia, in id., Lutz
Klinkhammer (a cura di) La morte per la patria, Roma, 2008, p. 67 e ss.
7
8
specificità più accentuata, sottraendolo alla massa anonima dei
morti, in quanto il suo gesto appare fondamentale per il buon esito
della battaglia e non “gratuito”. Infine, con l’ultimo aspetto della
rivalutazione, quello del sacrificio9, si pone la morte per la nazione su
un piano che non è più soltanto immanente, conferendole un
significato trascendente, il che ci porta a capire come la nazione sia al
centro di un culto di tipo religioso: in seguito vedremo come questo
aspetto è fondamentale per comprendere l’efficacia della nazione
come fattore significante.
È estremamente interessante notare che spesso è lo stesso
caduto a descrivere il suo gesto come un sacrificio volontario, con le
sue ultime parole o in lettere ai cari che vengono puntualmente citate
nei discorsi dei commemoranti o riportati negli opuscoli in memoria.
Questo aspetto ci permette di individuare come venga affrontato uno
dei punti più delicati della tensione tra amor patrio e affetti
famigliari: da un lato, è il caduto stesso che con le sue parole quasi
assolve i sopravvissuti dai sensi di colpa, dall’altro, le tensioni
vengono appianate grazie all’omaggio che viene reso alle madri dei
caduti. La figura della madre è infatti al centro di un doppio processo
di consolazione e compensazione, essendo questa al centro degli
ultimi pensieri del caduto, che le chiede perdono per aver posto la
patria prima degli affetti famigliari; dall’altro le madri vengono
venerate dai conoscenti, in quanto titolari anch’esse di un gesto
sacrificale. Così, i potenziali contrasti tra madre e “grande madre”
vengono risolti in nome della serena subordinazione della prima alla
seconda, con un accostamento che per quanto possa apparire
paradossale, doveva riuscire nella funzione di appianare un contrasto
dalle conseguenze potenzialmente esplosive10.
Sul sacrificio per la patria in Italia cfr. Janz, Monumenti di carta, p. 31 in id., Fabrizio
Dolci, Non omnis moriar, Roma, 2003; Alberto M. Banti, L’onore della nazione, Torino, 2005
p. 151; A. M. Banti e Paul Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in id. (a cura di), Il
Risorgimento, Torino, 2007, p. XXIII; Roberto Balzani, Alla ricerca della morte “utile”. Il
sacrificio patriottico nel Risorgimento, in Janz Klinkhammer (a cura di), La morte, cit.
10
Cfr. anche Janz, Lutto, cit., pp. 76-78.
9
9
L’adozione della retorica del sacrificio avviene quindi tramite la
citazione di parole del caduto, ma questa non è l’unica fonte “diretta”
impiegata dai redattori dei necrologi, ed è interessante considerare le
fonti tramite le quali si giunge a questa triplice valorizzazione, e quali
siano i suoi esiti. I commemoranti per procurarsi materiale utile per
le loro iniziative, entravano spesso in contatto diretto coi parenti del
caduto, per richiedere foto o scritti dello studente; tuttavia è più
interessante notare come i commemoranti facessero richiesta di
notizie anche ai commilitoni del morto in guerra11. I resoconti stilati
dai superiori e le testimonianze dei commilitoni rappresentano infatti
la fonte principale cui attingono i commemoranti per ricostruire gli
ultimi momenti della vita del soldato e la sua condotta al fronte. I
combattenti, tuttavia, mossi probabilmente da sentimenti di pietà,
tendevano a descrivere la morte in termini valorizzati ed edulcorati,
operando un consapevole occultamento della realtà di guerra e della
morte in essa nei termini sopra descritti, così che essa finisce per
essere più accettabile. Le descrizioni hanno quindi un carattere quasi
stereotipato, particolarmente evidente nel caso dei resoconti dei
superiori: qualora si pongano a confronto tali relazioni, ci si rende
conto del loro carattere quasi seriale, al punto che esse sono
praticamente interscambiabili. Questo attingere ad un repertorio
piuttosto limitato di topoi finisce col descrivere tutti i caduti in
termini sostanzialmente stereotipati ed uniformi, così che se da un
lato
si
aiuta
l’accettazione
della
morte
edulcorandola
e
valorizzandola, dall’altro si giunge ad una prima perdita della
specificità del caduto a favore della creazione di uno stereotipo
esemplare, che giocherà un ruolo decisivo nell’evoluzione della
pratica commemorativa negli anni a venire.
Ovviamente, la descrizione che abbiamo fatto fino a questo
punto non tiene conto delle differenze che pure ci sono tra i due casi
in questione. Fin qui abbiamo individuato i motivi di fondo
11
Sull’importanza delle testimonianze, Winter, Sites, cit., pp. 35 e ss., più in
generale, id., Remembering, cit., pp. 243 e ss.; sulla “banalizzazione” della guerra si veda
Mosse, Le guerre, cit. pp. 139 e ss.
10
riconducibili alla comune aderenza ad un’ideologia di tipo nazionalpatriottico da parte di entrambi gli ambienti, ma non va dimenticato
come i commemoranti, pur avendo un comune obiettivo ed una
comune ideologia, hanno diverse sensibilità e diverse caratteristiche.
Accade così che a Pisa, il rettore David Supino preferisca nei suoi
discorsi un registro elegiaco e tutto sommato poco retorico, in cui
prevalgono i toni melanconici e il dolore – affiancato all’orgoglio –
per la perdita dei propri studenti. A Siena invece ci ritroviamo di
fronte ad una retorica più sostenuta anche negli anni centrali del
conflitto, con una ricorrente necessità, da parte degli oratori, di
riaffermare la necessità e la legittimità dell’entrata in guerra, con una
più sistematica rimozione dei toni elegiaci, a favore di una retorica
“eroicizzante”. Non è un caso che a Siena gli studenti vengano tutti
presentati fin dal 1916 come degli eroi, mentre a Pisa a questa
“eroicizzazione di massa” avverrà solo alla fine della guerra, mentre
negli anni centrali, anche grazie alla retorica di Supino (propenso ai
ricordi personali) la specificità del caduto si manterrà per più tempo
– per quanto questo aspetto appaia residuale. Dietro l’insistenza sulla
necessità del conflitto che abbiamo riscontrato a Siena, è peraltro
facile ravvisare come l’intervento rappresenti una sorta di ferita non
del tutto rimarginata, sotto diversi aspetti, concernenti sia la
legittimità della guerra (che per molti versi poteva essere considerata
un tradimento al vecchio alleato), sia la sua effettiva necessità di
fronte alle sofferenze che sta richiedendo. Questo ci porta a capire
come l’accettazione della guerra nazionale avvenga a caro prezzo,
rendendo necessaria una rimozione almeno parziale del dolore per la
perdita del caduto, e per contro all’impossibilità di dimenticarlo, in
quanto ci si sente debitori nei suoi confronti. È questo sentimento
che porta uno dei professori dell’Università di Siena, padre di un
caduto, a dire che
[parleremo] di Voi [caduti], solo di Voi, sempre di Voi. […]. Ma,
anzitutto, beatissimi Voi, ora e sempre, nel tempo e nello spazio;
e sia il vostro nome ricordato in eterno, a incitamento e
11
conforto. Ah sì! Noi sentiamo profondamente, non per innato
ottimismo, ma per la grandezza stessa delle cose, che Voi non
sarete mai dimenticati.12
Il che testimonia in maniera netta da una parte un forte senso di
debito, che implica un’ossessiva volontà di non dimenticare e di
ricordare a scopo compensativo: di qui, l’incapacità di accettare la
perdita e il distacco.
Il primo dopoguerra e lo sfruttamento dello studente
caduto
La vittoria non porta ad un radicale cambiamento nella pratica
commemorativa, anche se ovviamente il tono nei discorsi tenuti nel
1918 è più trionfale e anche più sollevato, ma le modalità con le quali
sono ricordati i caduti non mutano radicalmente. La crisi del
dopoguerra porta invece con sé anche un lungo strascico di
polemiche attorno alla guerra, che si ripercuotono anche nelle
pratiche commemorative, in cui adesso notiamo da parte dei
“patriottici” una più forte necessità di difendere la guerra, oltre che
dai dubbi “interni”, dai suoi detrattori “esterni”. Per i patriottici si
tratta quindi di una doppia battaglia: da un lato, si trovano di fronte
alla necessità di elaborare l’accaduto che ha portato ad un esito
insoddisfacente, ben lontano dalle aspettative che si erano nutrite
prima e durante il conflitto dall’altro, devono controbattere agli ex
neutralisti, soprattutto socialisti, che tentano di elaborare una
propria memoria del conflitto pesantemente critica13.
Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVIII, cit., p. 22.
Sulla situazione nel dopoguerra, per quanto un po’ datato si può ancora vedere G.
Rochat, L’Italia nella prima Guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca,
Milano, 1976; interessante per l’argomento trattato è Gianni Isola, Guerra al regno della
guerra! Storia della Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra (1918-1924),
Firenze, 1990. Più di recente, Andrea Baravelli, La vittoria smarrita. Legittimità e
rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale, Roma, 2006, per un caso
particolare si può vedere Marco Baldassarri, La memoria celebrata. La festa del 4 novembre a
Lucca tra dopoguerra e fascismo, in “Italia contemporanea” 244 (2006).
12
13
12
A livello nazionale, in un primo tempo, subito dopo la fine della
guerra, si tende ad abbandonare i toni più roboanti ricercando una
sorta di “minimo comun denominatore” nell’elaborazione del lutto, in
nome di un dolore che è comune e che mette a tacere le polemiche,
costringendo tutti ad un rispettoso silenzio14. Un’elaborazione del
genere è riscontrabile soprattutto nelle campagne, dove come già
accennato
si
dell’accaduto,
realizza
grazie
una
anche
prima
alla
accettazione
mediazione
a
posteriori
della
religione
tradizionale; tuttavia possiamo notare come un processo simile
avvenga anche su scala nazionale, come nel caso dell’inumazione del
Milite Ignoto il 4 novembre 1921, quando le contestazioni, che pure
hanno luogo, avvengono in sordina.
Prendendo in considerazione i casi che stiamo analizzando,
notiamo come una tendenza di questo genere sia riscontrabile in un
primo tempo anche a Pisa, dove nel 1919 venne presa in
considerazione l’ipotesi di costruire una lapide in memoria dei caduti
molto sobria e poco retorica, che tuttavia non venne effettivamente
realizzata a favore di un altro progetto. Ma già nel 1920, quando
venne
realizzato
un
albo
commemorativo15
per
i
membri
dell’Università caduti in guerra, i redattori (studenti ex combattenti)
propesero per una scelta meno neutra politicamente e più connotata
in difesa del valore della guerra. Certo anche in quest’opera è
ravvisabile un’esigenza “compensativa”, la necessità di saldare il
debito nei confronti dei compagni caduti e di edulcorarne e
valorizzarne la morte. Tuttavia a questo aspetto, che poteva essere
considerato centrale negli anni di guerra, se ne affianca un altro,
destinato ad avere un’importanza crescente negli anni a venire.
Anche in quest’opera la morte dei caduti è risemantizzata tramite il
triplice processo di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente: ma
ancor più che negli anni di guerra, i caduti sono ricordati tutti nei
medesimi termini “monolitici”, con una netta tendenza ad
14
15
Cfr. Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani, Milano, 1989, p. 343.
I caduti dell’Università di Pisa MCMXV-MCMXVIII, Milano, 1920.
13
uniformarne storie e aspirazioni all’insegna del patriottismo. In
questo modo, si giunge alla creazione di una vera e propria figura
stereotipata, quella dello studente-ufficiale di complemento, che già
aveva fatto la sua apparizione nei discorsi degli ultimi anni di guerra,
ma che in questo caso troviamo al centro di un sistematico uso
politico, in quanto volto a difendere la legittimità della guerra.
Particolarmente
significativa
è,
in
quest’ottica,
l’introduzione
dell’albo:
A chi non sentirà rivivere in queste pagine la parola del figliolo,
del fratello, dell’amico, sia di conforto e di gioia l’ammirare un
egual senso di dovere, di pura bontà, di serio coraggio e
soprattutto d’abnegazione completa in altri, che a Lui furono
compagni negli studi e nelle armi e che con Lui avevano uno
stesso destino di intelligente lavoro in mezzo alla faticata
operosità umana, e che una medesima sorte gloriosa
ricongiunse nel sacrificio supremo, fonte prima e più copiosa
ed eterna di vita16
In questo modo, i caduti perdono la loro individualità, venendo
piegati ad un uso politico, tendenza che andrà rinforzandosi nel corso
degli anni: quel che conta è soprattutto il loro essere morti per la
Patria, non più le loro storie, la loro vita.
Una tendenza analoga è ravvisabile anche a Siena, dove nel 1919
si inaugura il monumento agli studenti caduti17. L’opera in questione
consiste in una vittoria alata in stile liberty in altorilevo su una lapide
con i nomi dei caduti, ed è in realtà poco vicina ai canoni dell’estetica
nazionalista: va detto tuttavia che essa è un dono da parte di uno
studente dell’Università, scultore dilettante, e pertanto appare una
testimonianza più che altro del suo gusto e della sua sensibilità
personali. Si può notare quindi una certa discrepanza tra l’estetica di
Ibid., p. 151. Corsivi miei.
Per i discorsi pronunciati in occasione della cerimonia inaugurale cfr. Per la
inaugurazione di una lapide monumentale in memoria degli studenti caduti per la patria, Siena,
Lazzeri 1919.
16
17
14
quest’opera e i roboanti discorsi degli oratori nel corso della
cerimonia di inaugurazione, dove troviamo una costante e orgogliosa
rivendicazione della guerra posta sotto la tutela spirituale dei caduti,
ma anche una sistematica esaltazione dell’Università come scuola di
patriottismo. Centrale è quindi lo sfruttamento dello stereotipo dello
studente-ufficiale di complemento, assurto ad esempio delle
tradizioni guerriere dell’Università, così che il rito diviene una
celebrazione delle glorie universitarie e nazionali, privo di caratteri
funebri, che in parte erano ancora riscontrabili a queste date a Pisa.
Abbiamo così un’evoluzione nelle pratiche commemorative,
avvertibile in entrambi i casi in esame: l’elaborazione della morte “ad
uso
interno”
rimane
un
elemento
fondamentale
delle
commemorazioni, e la riaffermazione della legittimità della guerra è
funzionale
anche
ad
un’esigenza
di
autoassoluzione
ed
all’accettazione della guerra da parte dei patriottici; ma vediamo
come tale riaffermazione viene giocata decisamente anche nei
confronti delle polemiche conseguenti la fine delle ostilità. Due
esempi significativi dell’atteggiamento dei patriottici di fronte alle
polemiche di parte socialista ci sono offerti dalle commemorazioni
tenutesi a Siena nel 1920 e nel 192118. Nel 1920, in particolare, a
seguito di scontri tra socialisti e “patriottici” nei giorni precedenti la
commemorazione, questa si tiene a porte chiuse, e a tenere il discorso
di quest’anno è un oratore d’eccezione, Piero Calamandrei, allora
neodocente di diritto amministrativo, nonché reduce di guerra. Nel
suo discorso più che a commemorare gli studenti concretamente
morti in guerra (che peraltro non ha mai conosciuto personalmente,
essendo giunto da pochi mesi nell’Ateneo), appare interessato a
ribadire il valore e la legittimità della guerra nonostante la
delegittimazione che contro di essa viene portata, e ad individuare un
Si veda Pietro Calamandrei, In memoria degli studenti caduti per la patria, Siena,
Lazzeri, 1920. Recentemente il discorso è stato ripubblicato in P. Calamandrei, Zona di
guerra. Lettere, scritti, discorsi (1915-1924), Roma Bari 2006 con introduzione di Alessandro
Casellato (p. 315). Calamandrei insegnò a Siena dal 1920 al 1924, quando passò alla neonata
Università di Firenze. Per il discorso del 1921, Giovanni Lorenzoni, Commemorazione di
Curtatone e Montanara, Siena, 1921.
18
15
significato per tale massacro, trovandolo nel valore palingenetico di
“ultima guerra” che il conflitto avrebbe dovuto avere, e al tempo
stesso nel valore di “scuola di vita” che ha avuto per i combattenti.
Calamandrei infatti incita a portare nella vita civile i valori appresi in
trincea e incarnati dai caduti: ancora una volta questi vengono
rivestiti di un ruolo astratto ed esemplare. Certo non ci troviamo di
fronte ad un’elaborazione marcatamente sciovinista, ma anche in
questo caso il discorso è essenzialmente una celebrazione delle glorie
universitarie ed un invito a servire la patria, così come la guerra
assurge a mito formativo, analogamente a quanto avviene su vasta
scala nel resto d’Europa19. Più esplicito a questo proposito è l’oratore
dell’anno successivo, Giuseppe Giovanni Lorenzoni , il quale al pari
di Calamandrei è un reduce, per di più trentino. Questi concorda con
Calamandrei nel giustificare la guerra, richiamandosi ai diritti dei
popoli, e nel riconoscere al conflitto un grande valore “educativo”, ma
a differenza del collega, prospetta un futuro di scontro tra nazioni in
cui all’Italia potrà spettare un ruolo di primo piano, a patto che
sappia seguire l’esempio dei combattenti. Anche in questo caso i
caduti hanno il ruolo di alto esempio morale, mentre troviamo di
nuovo la sistematica esaltazione dell’Università come scuola di
patriottismo, in quanto luogo in cui “salvare la concezione eroica
della vita” che si era formata tra le trincee.
Notiamo quindi come, col passare degli anni e l’allontanarsi
dell’evento nel tempo, si perdano definitivamente i caratteri funebri
che aveva avuto la commemorazione negli anni di guerra, a favore di
un uso politico sempre più marcato degli studenti caduti come risorse
retoriche. Tale sfruttamento, oltre che per difendere la guerra dai
detrattori, è finalizzato anche all’esaltazione dell’Università guerriera
e patriottica, ponendo così la Grande Guerra in continuità con quanto
avevano fatto gli Atenei toscani a Curtatone e Montanara, presenza
costante nelle commemorazioni, insita anche nella scelta della data
delle celebrazioni. Questo processo culminerà verso la metà degli
19
Cfr. Mosse, Le guerre, cit.
16
anni ’20, quando la guerra non sarà più oggetto di polemiche – grazie
anche all’intervento dall’alto – ma semmai un efficace mito nazionale
ed una risorsa retorica facilmente spendibile.
Gli anni ’20. La celebrazione
La cerimonia d’inaugurazione del monumento ai caduti
dell’Università di Pisa che si tiene il 29 maggio 1924 è altamente
indicativa del cambiamento cui abbiamo accennato in chiusura del
paragrafo precedente. La cerimonia è molto diversa da quelle degli
anni di guerra, in quanto non ha in alcun modo carattere funebre, ed
è incomparabilmente più solenne anche di quella che si tenne a Siena
cinque anni prima. Ad essa presero parte autorità nazionali e
cittadine, tra cui il Duca di Pistoia e l’arcivescovo Maffi, era prevista
anche la presenza di Mussolini che diede forfait all’ultimo. Tutto
concorre a dare alla cerimonia un carattere solenne ma al tempo
stesso
festoso, molto
lontano da una cerimonia funebre20:
nell’addobbo prevalgono colori come cremisi e l’oro e l’ingresso dei
partecipanti, così come lo scoprimento del monumento, è accolto in
maniera festosa e al suono di inni patriottici . È chiaro quindi come
non ci si trovi di fronte ad una celebrazione luttuosa: anche in questo
caso la commemorazione appare invece funzionale all’esaltazione
della nazione e dell’Università come scuola di patriottismo, con una
decisa accentuazione dei caratteri revanscisti, con l’invito, rivolto ai
presenti, ad essere all’altezza degli “eroi” e
a rinnovare, qualora
necessario, il loro gesto di sacrificio per la nazione. Nei discorsi degli
oratori, infatti, i caduti appaiono ormai identificati nello stereotipo
dello studente-ufficiale di complemento, posti a fianco dei caduti di
Curtatone e Montanara nella loro funzione di esempio morale e
patrimonio dell’Università. Questo aspetto viene ulteriormente
accentuato nella pubblicazione edita per l’occasione, il “numero
20
Cfr. la cronaca riportata su L’inaugurazione all’Università di Pisa del Monumento ai
caduti, in “L’Italia Universitaria” 5 giugno 1924.
17
unico” XXIV Maggio 192421 , in cui non a caso sono posti in rilievo i
messaggi delle personalità politiche e militari, poco interessate al
ricordo degli studenti quanto alla loro esaltazione in quanto caduti.
Anche il monumento, realizzato dallo scultore lombardo Gigi Supino,
appare non essere altro che un corrispettivo visivo ed allegorico dello
stereotipo dello studente guerriero. Esso rappresenta infatti un nudo
virile – la “gioventù studiosa”
– armato di scudo (ornato dal
Cherubino dell’Ateneo) nell’atto di ricevere da Minerva – l’Università
– una fiaccola “che dopo aver illuminati gli studi severi verrà agitata
sui campi di battaglia”, a lato del gruppo scultoreo un cippo riporta
l’iscrizione “pro patria”, mentre sul piedistallo, tra gli stemmi della
provincia e del comune, è posta la lapide in bronzo con i nomi dei
caduti sovrastati dall’iscrizione “Eternarono la loro giovinezza
cadendo per l’Italia nell’epica guerra dal 1915 al 1918”.
L’opera
chiaramente non è un monumento “funebre”, ma è più vicina alle
declinazioni di una monumentalistica celebrativa di tipo nazionalista,
caratterizzata peraltro da scelte estetiche piuttosto
ordinarie. In
questo modo, non sono i “veri” caduti, i cui nomi sono difficilmente
leggibili ai piedi del monumento, al centro dell’attenzione dei
commemoranti, bensì il loro gesto di sacrificio per la patria.
In tal modo sono così poste le basi su cui potrà svolgersi la
lettura fascista della guerra, basata su una sorta di teleologia che lega
Curtatone e Montanara, la Grande Guerra e la rivoluzione fascista.
Tale lettura, già implicita nel 1924, troverà il suo coronamento,
nell’Ateneo pisano, nel 1931, in occasione della pubblicazione
dell’albo Sagra decennale dei martiri fascisti dell’Ateneo Pisano22,
sorta di albo commemorativo redatto a cura del GUF, in cui i morti
del 1848, quelli della Grande Guerra e i martiri fascisti sono
esplicitamente posti sullo stesso piano.
Il (peraltro relativo) successo della “fascistizzazione” della
Grande Guerra tra le masse patriottiche appare più comprensibile
21
XXIX Maggio 1924 – L’Università di Pisa celebra i suoi gloriosi caduti nella guerra
MCMXV-MCMXVIII, Pisa, 1924.
22
Pisa, Pacini Mariotti 1931.
18
alla luce del vero e proprio shock che il dopoguerra aveva
rappresentato per molti ex combattenti. Dopo l’avvento del regime le
polemiche giungono ad una conclusione: e se da un lato il fascismo
monopolizza il discorso sulla guerra, impedendo alla stessa ANC
un’elaborazione autonoma23, certo per molti ex combattenti tale
soluzione poteva apparire preferibile alla situazione che si era
delineata tra il 1918 e il 1922. In tale ottica è da inquadrare anche la
cerimonia che si tiene a Siena il 29 maggio 1926, con la
partecipazione di Italo Balbo e di Silvio Lessona come oratore
principale24. Nel suo discorso, Lessona rievoca il trauma del
dopoguerra in termini sostanzialmente analoghi a quelli di
Calamandrei e Lorenzoni, salvo che la situazione, ai suoi occhi, ha
trovato una soluzione grazie alla resistenza degli ex combattenti e
all’azione di Mussolini. In questa “riscossa”, ancora una volta viene
riconosciuto un ruolo di primo piano agli studenti e dell’Università,
“fucina di scienza e di pensiero, […] fucina di fede, di nobiltà, di
ardimento, bagno in cui il carattere dei giovani e dei maestri si
rinsalda e si tempra e si sublima nell’amore di questa nostra patria…”
25.
Certo c’è una componente di piaggeria in queste parole, se non
altro nei termini con i quali è descritto il duce: ma non è errato
credere che il sollievo dell’oratore sia, almeno in questo caso, sincero.
Non serve notare che lo spazio dedicato ai caduti è quello degli alti
esempi morali, né che non c’è spazio per toni elegiaci e per il dolore:
la guerra costituisce oramai, al di là delle polemiche passate (ed anzi,
in questo caso assieme ad esse e alla “battaglia” del dopoguerra), il
compimento della storia unitaria italiana e come tale è oggetto di
celebrazione. La guerra appare ormai in questi ambienti un mito
consolidato, superati – o meglio rimossi – i dubbi sulla sua
legittimità e necessità riscontrati nel 15-18 e che forse erano ancor
più sentiti nel dopoguerra, così come era stato rimosso, durante gli
anni di guerra, il dolore e il lutto per gli studenti caduti.
23
24
25
Cfr. Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari, 1974.
Commemorazione di Curtatone e Montanara 29 maggio 1926, Siena, 1926.
Ibid., p. 14.
19
Conclusioni
Nei casi presi in esame, per quanto con modalità leggermente
diverse, abbiamo visto come la valorizzazione della morte in guerra
porti alla creazione di uno stereotipo che uniforma i caduti su un
monocorde modello, quello degli studenti-ufficiali di complemento.
Non mi risulta siano stati fatti studi sistematici su questo “stereotipo
di guerra”, che è presumibilmente diffuso a livello nazionale e che
crediamo possa essere tranquillamente accostato a quelli più noti del
fante contadino, dell’alpino, dell’operaio imboscato e via dicendo.
L’argomento appare meritevole di un approfondimento, in quanto
sembra essere una di quelle astrazioni che hanno segnato, se non la
storiografia sull’argomento, quantomeno l’immagine della guerra a
livello pubblico, essendo al centro, come abbiamo visto, di un
significativo uso politico ai fini dell’esaltazione dell’Università e della
riaffermazione della legittimità della guerra.
Tale processo lascia certo delle tensioni irrisolte, ma sta di fatto
che la morte risemantizzata appare più accettabile. Non serve notare
che, come gli stessi combattenti sapevano e (in altre sedi)
affermavano26, la realtà della guerra e dei combattenti erano ben
diverse dalle rassicuranti versioni che venivano trasmesse durante le
cerimonie commemorative. E vale la pena ricordare che questa realtà
poteva risultare sconosciuta al paese nei primi tempi, ma non poteva
essere ignorata negli anni centrali del conflitto.
Usando una
metafora, la borghesia patriottica durante la guerra si tiene in bilico
tra i racconti più crudi, la presenza dei mutilati, ed altre
testimonianze del lato “sinistro” del conflitto da un lato, e i più
rassicuranti resoconti giornalistici, la produzione della propaganda di
guerra, i racconti più rassicuranti dei testimoni (come quelli che
abbiamo visto) dall’altro. Questo secondo tipo di produzione
discorsiva, alimentata dall’alto e dal basso – nel nostro caso, dalle
cerimonie in memoria dei caduti – trova un terreno più fertile per
26
Cfr. Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La grande guerra, Milano, 20042 p. 233 e ss.
20
essere accolto, venendo incontro alla volontà e alla necessità (al
tempo stesso psicologica e politica) di continuare ad accettare la
guerra patriottica27. Può darsi che questo gioco di autoinganno fosse
consapevole, quel che veramente conta è che, alla fine, le astrazioni e
gli stereotipi che esso aveva finito per creare in molti casi vennero
percepiti come reali e che grazie ad esso, la fedeltà alla nazione superi
la prova della guerra.
Quel che emerge certamente è un attaccamento all’ideologia
nazionalista e al tempo stesso una capacità di impiegarla per
elaborare la morte in guerra tali da rendere difficile parlare di
“nazionalismo debole”28 per il caso italiano. È vero che lo stato
unitario rinuncia per molto tempo a condurre una politica di
nazionalizzazione delle masse veramente efficace, ma da un lato va
rimarcato come anche all’estero questo processo sia spesso tardivo29
e come la politica “per le masse” sia a volte fallimentare 30; dall’altro,
come a questa rinuncia dello Stato si affianchi un grande attivismo
dal basso, di cui la “monumentomania” ottocentesca è l’aspetto più
evidente.
Vero è quindi che in Italia il messaggio nazionalista è limitato da
un punto “quantitativo” e che le grandi masse, soprattutto contadine,
rimangono ad esso estranee o ostili: ma da un punto di vista
qualitativo, è indubbio che esso non sia meno pervasivo rispetto a
Non è certo casuale che questo processo non riesca più a mettersi in moto dopo la
seconda guerra mondiale, quando il conflitto diviene una realtà impossibile da
risemantizzare. Cfr. Mosse, Le guerre, cit.
28
Di “nazionalismo debole” e di “immagine debole dell’Italia” hanno parlato
soprattutto Bruno Tobia (Una patria per gli italiani, Roma Bari, 1991) e Ilaria Porciani (Una
festa per la nazione, Bologna, 1998 e Stato e nazione: l'immagine debole dell'Italia in Simonetta
Soldani, Gabriele Turi (eds.) Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna
1993).
29
Vale la pena ricordare il lavoro di Eugen Weber, Da contadini a francesi. La
modernizzazione della Francia rurale (1870-1914), Bologna, 1989, sulla nazionalizzazione delle
masse in Francia.
30
Si prenda, ad esempio, il fallimento della Sedanfest analizzato da Mosse in
La nazionalizzazione delle masse, Bologna, 1974, p. 138.
27
21
quanto avviene all’estero31. La “nazione”, per uno strato di
popolazione ristretto, ma d’importanza sociale non secondaria –
quale è, ad esempio, la popolazione universitaria – è un’entità
estremamente “significativa”, capace di suscitare emozioni profonde
e di orientare la condotta: al punto che in molti accettano di perdere
un parente, di morire, nonché di uccidere, in nome di essa.
Rimane da capire perché la valorizzazione alla luce della nazione
abbia una sua efficacia: come fatto notare da Benedict Anderson,
parlare di “cenotafio per i caduti liberali”32 suonerebbe ridicolo,
mentre esistono diversi cenotafi ai caduti per la nazione. Una volta
analizzate le modalità con cui avviene tale valorizzazione, è
necessario quindi interrogarsi sulle motivazioni di tale efficacia: così
facendo andiamo a toccare il problema centrale della fortuna del
nazionalismo in Europa tra otto e novecento. Si tratta, un poche
parole, di capire perché una guerra per la “nazione” venga vista come
giusta e legittima al punto da poter giustificare la perdita dei propri
cari. Non è questa la sede per esplorare compiutamente la complessa
stratificazione di cause che porta a tale esito, tuttavia non possiamo
esimerci dall’abbozzare almeno una possibile chiave di lettura del
fenomeno. È stato ipotizzato che la fortuna e l’efficacia della
“nazione” come fattore legittimante sia basata sulla capacità che ha il
discorso nazionale di sviluppare potenti effetti performativi, dovuti
all’articolazione di esso attorno a quelle che sono state definite
“figure profonde”, aventi a che fare con fatti primari quali la nascita e
la morte, l’amore e l’odio, la sessualità e la riproduzione 33. Tali
“figure”, hanno effettivamente un loro spazio nelle pratiche che
abbiamo preso in esame. Significativa (e spesso sottovalutata) in
quest’ottica è l’importanza (e la novità) della sovrapposizione tra i
concetti di “patria” e “nazione”, che avviene su larga scala solo a
partire dal XIX secolo, e che trasla sul concetto di “nazione” le
In Audoin-Rouzeau e Becker, 14-18, cit., specie nella seconda parte, è possibile
trovare un’efficace esemplificazione di cosa implichi, in ambito francese, la fedeltà alla
nazione in tempo di guerra.
32
Benedict Anderson, Comunità immaginate, Roma, 1996 (1983), p. 10.
33
Banti e Ginsborg, Per una nuova, cit., pp. XVIII e ss.
31
22
componenti discorsive accumulatesi fin dal medioevo attorno al
concetto di “patria”, che a sua volta dal XIV secolo veniva identificata
come “corpo mistico”, fino a quel momento definizione esclusiva
della Chiesa34. È facile capire quali siano le conseguenze di questa
identificazione della “nazione” come un “corpo mistico”, soprattutto
se consideriamo la figura del sacrificio. È attorno a questa che
assistiamo al processo più significativo, che ci fa notare come la
nazione sia vista più come un’entità propriamente metafisica o
comunque trascendente che non come un’entità politica35. E d’altra
parte, il fatto che la nazione sia in grado di dare un senso
trascendentale alla morte in suo nome, può aiutare a capire, se non
proprio la fortuna del discorso nazionale (la religione della nazione
non spiegherà mai una morte in tempo di pace, o comunque una
morte “naturale”), almeno come si sia potuto continuare ad accettare
la guerra, a far sì che questa non fosse percepita come “inutile”.
Quanto detto, ancora una volta, non deve farci scordare i limiti
dell’elaborazione patriottica: accettazione della morte in guerra per la
nazione e mito dell’esperienza della guerra non vogliono dire
superamento del lutto. Il dolore è censurato e rimosso, e i
commemoranti non fanno nulla per accettare il distacco avvenuto, al
contrario, il senso di debito nei confronti dei caduti li porta a
rievocarli incessantemente. Quello che vediamo delinearsi è quindi
un processo elaborativo complesso e contraddittorio, in cui si eleva la
guerra ad alto ideale, ma al tempo stesso non si riescono ad
accettarne fino in fondo le conseguenze: si accetta e si esalta il
conflitto, ma al tempo stesso le sofferenze che questo comporta, ora
note (mentre erano ignote e soprattutto inaspettate prima del 191418), portano a temerlo.
Molte sono quindi, a nostro giudizio, le questioni meritevoli di
essere approfondite. Oltre a quanto detto sugli stereotipi di guerra,
notiamo che per quanto riguarda il problema del lutto, sarebbero
34
Ernst Kantorowicz, Pro Patria Mori in Medieval Political Thought, in “American
Historical Review”, 56 (1951), pp. 486-487.
35
Cfr. Banti, L’onore della nazione, Torino, 2006, p. 151.
23
auspicabili studi analitici su casi particolari, anche con la
collaborazione di esperti di scienze della psiche; per quanto concerne
un problema più generale, sarebbe utile capire se il passaggio da una
pratica commemorativa elegiaca ad una più celebrativa sia segno di
un superamento del lutto o di una sua più radicale censura. Accanto a
questo aspetto andrebbe approfondita l’analisi del nazionalismo
come fenomeno religioso e sulla sua capacità di far entrare la morte
(per quanto risemantizzata) in un sistema dotato di senso.
L’ampliamento dello spettro della ricerca ha d’altronde già
portato a risultati di rilievo nella comprensione del primo conflitto
mondiale, che dimostra così di essere osservatorio privilegiato
snodo fondamentale per la comprensione del XX secolo.
24
e
Scarica

versione stampabile