SABATO 17 APRILE 2004
LA REPUBBLICA 41
DIARIO
di
IL LEADER SOCIALISTA UCCISO 80 ANNI FA DAL FASCISMO
Escono dalla
famiglia le foto
inedite scattate
da un grande
reporter dopo
l’omicidio
A volerle fu la
moglie del
parlamentare
Da allora
nessuno le ha
più viste
atteotti venne rapito alle
16.30 del 10 giugno 1924
sul lungotevere Arnaldo
da
Brescia,
mentre si stava
dirigendo alla
biblioteca di
Montecitorio,
dove da qualche
giorno si recava
per preparare il
discorso che
avrebbe dovuto
tenere l’11 giugno alla riapertura della Camera. Dopo essere stato violentemente percosso, era stato
caricato tramortito su una
Lancia, che si
era poi allontanata a folle velocità
verso Ponte Milvio. L’operazione
venne organizzata da due pupilli
di Mussolini, Amerigo Dumini e
Albino Volpi, e da altri tre ex arditi
milanesi. L’uccisione avvenne
nell’abitacolo dell’auto, pochi minuti dopo il rapimento, con un
colpo di coltello al torace, vibrato
quasi certamente da Volpi. Il cadavere, in avanzato stato di decomposizione, venne ritrovato il
16 agosto a 20 chilometri da Roma,
in una boscaglia che costeggiava
la via Flaminia. Il cadavere giaceva rannicchiato in una fossa talmente piccola che per costringervelo, era stato brutalmente compresso tanto da provocargli la frattura di alcune costole. Il ritrovamento del cadavere era stato preceduto da quello della giacca,
rinvenuta tre giorni prima in un
chiavicotto sulla via Flaminia a
pochi chilometri dalla fossa. Lo
stato della giacca fece escludere ai
periti che essa potesse essere rimasta per due mesi nel chiavicotto; sembrava assai più probabile
che vi fosse stata messa solo pochi
giorni prima. Evidentemente doveva servire a ‘pilotare’ il ritrovamento del cadavere. All’identificazione degli assassini si giunse
grazie a colpo di fortuna. Una coppia di portieri di uno stabile vicino
all’abitazione di Matteotti, aveva
notato da qualche giorno Dumini
e compagni aggirarsi nei paraggi,
e credendoli dei ladri, si era per
precauzione appuntato il numero
della targa della Lancia. Gli assassini di Matteotti appartenevano
tutti alla Ceka fascista, un’organizzazione di polizia segreta, che
Mussolini stava allestendo da
tempo e la cui direzione era stata
affidata a due degli uomini a lui
più vicini: Cesare Rossi, capo del
suo ufficio stampa, vera ‘eminenza grigia’ del fascismo, e Giovanni
Marinelli, segretario amministrativo del Pnf. I due furono in defini-
CULTO POPOLARE Un bambino accompagnato dalla madre depone fiori nel punto del
Lungotevere dove Giacomo Matteotti venne assalito dai sicari fascisti che poi lo uccisero
M
staggio della vittima, lasciata poi
sanguinante sull’asfalto. Lo stesso
Dumini, quando uscì dal mutismo, si guardò
bene dall’affidare la propria difesa alla versione della ‘lezione’, preferendo
ammannire ai
magistrati alcune fantasiose
amenità, soccorso in questo
frangente da
una impudente
testimonianza
di Curzio Malaparte, allora
ispettore del
Pnf. Non convince del tutto
nemmeno la
versione ‘classica’, cioè la necessità da parte di Mussolini di eliminare con Matteotti un avversario
politico tenace e pericoloso, poiché la decisione appare troppo in
contrasto con gli effetti disastrosi
facilmente prevedibili, e poi perché essa non spiega come mai allora non si aspettasse un’occasione più propizia, meno affrettata.
Appare invece più ragionevole ricercare il movente nei timori, accertati documentalmente dalle ultime ricerche, che agitavano alcuni settori del governo Mussolini,
nell’imminenza della riapertura
della Camera, per il discorso-denuncia che probabilmente Matteotti avrebbe fatto in Parlamento
l’11 giugno, — da qui la necessità
di agire in fretta quel 10 giugno, —
su pratiche illecite presenti nella
stipulazione della cosiddetta
‘convenzione Sinclair’, un accordo tra il governo fascista e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, una delle ‘sette sorelle’. Il
contratto, fortemente voluto da
Mussolini, assegnava alla Sinclair
il monopolio della ricerca petrolifera in Italia, ed era stato raggiunto a fronte di una cospicua tangente versata tramite Arnaldo Mussolini nelle casse del Popolo d’Italia.
Furono i due principali protagonisti della tragedia a suggerirlo: Dumini con un suo memoriale, venuto alla luce negli anni ottanta, che
chiama in causa Arnaldo Mussolini, e Matteotti, con un articolo
uscito postumo sulla rivista londinese English Life, nel quale dichiarava senza mezzi termini di essere
venuto a conoscenza che l’accordo era stato raggiunto con la corruzione di alti esponenti del governo fascista. Di fatto, i documenti che Matteotti portava con
sé quando venne rapito, e che, come raccontò più di un testimone,
vennero raccolti da terra da uno
dei rapitori, non furono mai ritrovati.
MATTEOTTI
Quel delitto che sconvolse l’Italia
MAURO CANALI
tiva i secondi mandanti del delitto.
Le indagini vennero affidate ai
magistrati Mauro Del Giudice e
Guglielmo Tancredi, che, approfittando delle difficoltà in cui si dibatteva il partito fascista dopo il
delitto, poterono condurre l’istruttoria senza pressioni e condizionamenti. Essi impostarono le
indagini istruttorie sul movente
politico del delitto, influenzati anche dagli echi non ancora spenti
delle violentissime reazioni che il
fascismo aveva riservato al discorso pronunciato da Matteotti alla
Camera il 30 maggio, con il quale il
deputato socialista, tra urla e invettive provenienti dai banchi fascisti, aveva coraggiosamente denunciato il clima d’intimidazione
in cui s’erano svolte le elezioni del
6 aprile. Lo stesso Matteotti s’era
mostrato consapevole di quanto
si era pericolosamente esposto
LEONARDO SCIASCIA
MATTEOTTI.
ORMAI da anni non
pensava al delitto
Matteotti… Era un’immagine che, tredici anni
prima, giornali, manifesti, e cartoline avevano come
inchiodato nella memoria degli italiani che avevano
memoria, nel sentimento degli italiani che avevano
sentimento. Questa, proprio questa: un volto sereno
e uno sguardo e severo, ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico; o forse con
quel che di tragico aveva poi conferito alla sua immagine di vivo la tragica morte. Immagine che riportò
il giudice a quell’estate del 1924 (era pretore in un piccolo paese siciliano in cui pochi erano i fascisti e pochissimi i socialisti) in cui la sorte del fascismo parve
vacillare, ma declinando l’estate ecco risollevarsi,
riaffermarsi e vincere. E nella sua memoria il senso,
proprio il senso – i colori, gli odori, i sapori persino –
dell’estate che si spegneva, si associava allo
spegnersi delle passioni che anche nell’ambito
delle famiglie quel tragico caso aveva acceso.
“
“
con il discorso e ai compagni che si
congratulavano con lui aveva replicato tra il serio e lo scherzoso di
cominciare a preparare il suo necrologio.
Il giudizio degli storici sulle responsabilità morali del fascismo e
di Mussolini appare abbastanza
unanime. A dividerli sono i dubbi
sul movente. Non convince certo
la versione del delitto involontario, cioè che Mussolini avrebbe or-
dinato alla Ceka di dare a Matteotti una ‘lezione’, che per una esecuzione maldestra si sarebbe involontariamente trasformata in tragedia. Non convince perché non
fornisce una spiegazione del sequestro. Se si fosse trattato solo di
una azione squadristica, perché
allora rapire la vittima? Le ‘lezioni’
ad Amendola, Forni e Misuri avevano seguìto schemi diversi ed
erano tutte terminate con il pe-
DIARIO
42 LA REPUBBLICA
LE TAPPE
PRINCIPALI
LA REQUISITORIA 30 MAGGIO ’24
Nel discorso pronunciato alla Camera il 30
maggio 1924 Matteotti accusa il regime
fascista di intimidazioni e frodi durante la
campagna elettorale e contesta la validità
dei risultati elettorali
L’ASSASSINIO 10 GIUGNO 1924
Il 10 giugno 1924 Matteotti è rapito a
Roma da un gruppo di squadristi, caricato
a forza su un’auto e ucciso a pugnalate. Il
cadavere del deputato socialista sarà
ritrovato due mesi dopo
SABATO 17 APRILE 2004
L’AVENTINO 1924
A pochi giorni dall’omicidio l’opposizione
decide di astenersi dai lavori parlamentari
finché non sia ripristinata la legalità. Ma il
re non interviene e i fiancheggiatori non
tolgono l’appoggio a Mussolini
UNA MOSTRA SU MATTEOTTI SI APRE LUNEDÌ A FIRENZE
L’UOMO, IL MITO E LA STORIA
UN REPORTAGE RACCONTA
MICHELE SMARGIASSI
I LIBRI
GIAMPAOLO
PANSA
Le notti
dei fuochi,
Sperling
Paperback
2004
PIERO
GOBETTI
Il delitto
Matteotti.
Un ritratto,
Il Nuovo
melangolo
1994
MAURO
CANALI
Il delitto
Matteotti.
Affarismo
e politica
nel primo
governo
Mussolini,
il Mulino 1997
ALDO
FORBICE
(a cura di)
Matteotti,
Buozzi,
Colorni.
Perché
vissero,
perché
vivono,
Franco Angeli
1996
ANTONIO G.
CASANOVA
Matteotti:
una vita per
il socialismo,
Bompiani
1974
ERNESTO
RAGIONIERI
Dall’età
giolittiana
al delitto
Matteotti,
Einaudi 1976
ERNESTO
GALLI
DELLA
LOGGIA
La violenza
politica
e il delitto
Matteotti,
il Mulino 2004
GIUSEPPE
ROSSINI
Il delitto
Matteotti tra
il Viminale
e l’Aventino,
il Mulino 1966
MAURO DEL
GIUDICE
Cronistoria
del processo
Matteotti,
Opere nuove
1985
Firenze
l Dio Matteotti». Non
amavano mezze misure
i socialisti di Costa Polesine. Evocarono le sommità del
sacro per piangere il loro martire,
a lettere d’oro, sul nastro di raso
rosso-fiamma che brilla ancora
dopo ottant’anni sotto la teca di
vetro. Era il 21 agosto 1924: salutato da un rito quasi pagano (la bara
sollevata e posata tre volte sulla
«terra madre») il corpo straziato
del segretario del Psu scendeva in
una fossa del cimitero del
suo paese, Fratta.
Due mesi erano trascorsi da
quel 10 giugno che
Mussolini avrebbe
descritto a D’Annunzio come il
giorno in cui «mi
hanno fatto barcollare e soffrire»,
quando cinque suoi
sicari rapirono il capo dell’opposizione e
lo fecero sparire per
sempre, scatenando
una reazione popolare imprevedibile. Settanta giorni appena, e
Matteotti era già diventato per migliaia di antifascisti, sulla soglia della quaresima del Ventennio, un «nuovo Cristo» in croce. Proprio lui,
laico, socialista, innamorato delle
cose precise e razionali, il Diritto
sopra tutto. Ma vent’anni di attività politica e intellettuale furono
travolti dal martirio. Esempio di
una morte che si sostituisce a una
vita.
È ancora così. Nell’immaginario collettivo, quando non è solo
una riga sulla targa di una piazza,
il nome di Matteotti non evoca un
uomo ma un simbolo: l’Antifascista. Non era proprio questo che
voleva la moglie Velia quando, all’indomani del delitto, commissionò al più famoso fotoreporter
italiano dell’epoca, Adolfo Porry
Pastorel (aveva immortalato l’arresto del Mussolini interventista
nel 1914: il Duce non glielo perdonò mai) un rischiosissimo reportage privato sulle indagini. Decine di scatti rubati, eccezionali
per contenuto informativo, di un
dinamismo sconosciuto al fotogiornalismo coevo, tranne ai
grandi pionieri: le macchine coi
magistrati e i carabinieri che corrono sulle strade polverose, i sopralluoghi dei magistrati, il ritrovamento della giacca insanguinata, il recupero pietoso della salma,
i leader socialisti Turati e Treves
convocati per il riconoscimento,
la simulazione giudiziaria del rapimento, i ritratti dei testimoni:
alcune immagini apparvero nei
giornali antifascisti dell’epoca,
ma l’intera sequenza, un fotoracconto eccezionale, viene ricomposta solo oggi per la mostra Giacomo Matteotti, storia e memoria
(promossa dal Consiglio regionale della Toscana, il cui presidente
Riccardo Nencini la inaugurerà
lunedì al palazzo Panciatichi di Firenze, dall’Associazione Pertini e
dalla Fondazione Turati).
Ma per Velia, che le raccolse in
un album istoriato d’oro, erano
documenti per i posteri. L’ora dei
posteri è arrivata, e quelle foto, assieme a documenti e memorie,
escono per la prima volta dagli archivi familiari dove dormivano
avvolte in delicate veline nere, ciascuna etichettata con cura certosina. «Era un’archivista devota»,
«A
LE IMMAGINI
Le immagini di questo Diario (in copertina, a fianco e qui sotto) sono prese dal reportage che la vedova di Matteotti commissionò al famoso fotoreporter Adolfo
Porry Pastorel. L’intera sequenza viene ricomposta solo oggi per la mostra fiorentina “Giacomo Matteotti, storia e memoria”
osserva l’architetto Monica Mengoni, che ha scelto di esporre questi 450 oggetti per quello che sono
diventati: reliquie di un culto. «Per
riportare Matteotti nella storia,
come finalmente merita, bisogna
andarlo a cercare nel mito», suggerisce lo storico Stefano Caretti,
curatore scientifico della mostra.
«Certo, fu un mito molto operativo...».
A volte è il mito che produce la
storia e non viceversa. Ciò che accadde nell’estate del ’24 fu il primo
scontro politico combattuto con
le armi dell’immaginario di massa. Religione della politica, nutrito di riti e miti, il fascismo rischiò
paradossalmente di essere travolto da un altro culto, da un’iconologia contrapposta. Non ci furono
insurrezioni, neppure veri scontri
di piazza dopo il delitto: fu una
battaglia tutta simbolica. Eppure
violentissima. I manifesti con la
faccia di Mussolini cominciarono
a grondare sangue, «imbrattati
d’una bava color vermiglio». Una
croce dello stesso colore sul parapetto del Lungotevere identificò il
sito del martirio: attorno crebbe
una selva di fiori e candele. La gente passava e s’inginocchiava. A
tempo di record si stamparono
migliaia di “santini” col volto di
Matteotti. Antifascisti come Nitti
e Salvemini rimasero impressionati dall’esplosione di devozione,
dalla mistica sacrale ma combattiva che immediatamente si sprigionò da quel corpo straziato e assente (come il corpo di Cristo).
Il fascismo ancora debole vacillò sotto l’offensiva, ma prese presto contromisure per abbattere o
almeno ridicolizzare il culto del
«santo di Fratta Polesine». Furono
misure simboliche anch’esse:
canzoncine («Avevi un posticino
in Parlamento / te l’ha levato il Fascio in un momento»),
manifesti irridenti,
la spavalderia
voodoodegli squadristi che «portavano al cinturone il
ritratto di Matteotti
traforato da uno
spillo». Non bastando, l’iconoclastia
anti-martire si spinse fino alla profanazione: fu distrutto il
sacrario nel bosco
della Quartarella, dove il 16 agosto il corpo
di Matteotti era stato finalmente ritrovato.
Ma frenare l’antifascismo mitopoietico si
rivelò molto più difficile
del previsto, quasi impossibile. Benché avvenuto di notte, il trasporto
della salma da Roma a
Fratta Polesine si trasformò nella
traslazione di una reliquia, con altri inginocchiamenti e preghiere
ad ogni stazione. Perfino inumato
quel corpo inquietava il regime: i
parenti temettero nuove profanazioni. Invece furono gli antifascisti (repubblicani) a vagheggiare il
trafugamento all’estero della salma, per farne, scrive nelle sue memorie Vera Modigliani, un «santuario di fede, meta di pellegrinaggi e di voti».
Il «sepolcro pauroso» turbò a
lungo i sonni del Duce, terrorizzato all’idea che l’Italia potesse «tornare a matteottizzarsi». Non accadde: il culto del martire della
LA BARA
Sopra, il
trasporto della
bara con le
spoglie di
Matteotti. A
sinistra, il
ritrovamento
della giacca
del deputato e
il sopralluogo
del magistrato
Del Giudice sul
luogo del
ritrovamento
Quartarella, almeno in patria, diventò catacombale, s’interrò metaforicamente nelle coscienze e
letteralmente sotto i mattoni o
dentro i materassi dove gli antifascisti continuavano a conservare
le immaginette, le cartoline, ma
anche le spille, i francobolli, i bottoni col volto di Matteotti,
estraendoli di nascosto, magari
per un bacio furtivo, e riponendoli fino alla resurrezione pasquale
del 25 luglio, quando il volto santo tornò ad essere portato in processione nelle piazze.
Era un volto ormai icastico, ricavato sempre dalla stessa fotografia, scontornato, stilizzato,
PIERO GOBETTI
LE ESTERNAZIONI DI MANZINI E LA DIFESA DEI SICARI
Egli rimane come l’uomo
che sapeva dare l’esempio.
Era un ingegno politico
quadrato, sicuro; ma non si
può dire quel che avrebbe
potuto fare come ministro:
ormai è già nella leggenda
Per Matteotti. Un ritratto
1924
CARLO LEVI
Col delitto Matteotti l’eroe
paterno perse la popolarità:
il protagonista fu ancora
considerato indispensabile,
se non come “uomo
provvidenziale”, come
“male necessario”
Scritti Politici
1922-1942
UN PROCESSO FARSA
NEL SEGNO DELLA TIRANNIDE
SIMONETTA FIORI
I
l caso Matteotti? Una vera «esagerazione». A ben vedere, egli stesso
«s’è posto in condizioni di vivere
pericolosamente». Qualche sconsiderato parla di «attentato contro il
popolo». Non scherziamo: sono
piuttosto «gli incerti del mestiere di
demagogo».
Questa in sintesi la posizione
espressa nel 1926 non da un rozzo
propagandista asservito a Mussolini,
ma dall’autorevole giurista Vincenzo Manzini, accademico d’Italia e
autore di trattati fondamentali di diritto penale, studioso celebrato anche dopo la caduta del fascismo. Porta la sua firma la Prefazione a L’arringa di Roberto Farinacci, pubblicata
nel maggio del 1926 in un opuscolo
intitolato Il processo Matteotti alle
Assise di Chieti (edizioni «Cremona
Nuova»). Il saggio, ritrovato da Stefano Caretti in un archivio in cui è ri-
masto sepolto per quasi ottant’anni,
testimonia il potere di corruzione
esercitato dalla dittatura di Mussolini anche sulle coscienze più avvertite.
La «Beffa di Chieti» - così Turati definì il «processo-farsa» agli assassini
di Matteotti - s’era chiusa nel marzo
del 1926 con lievi condanne per tre
dei cinque imputati (Dumini, Volpi e
Poveromo). La difesa dei sicari, scarcerati appena due mesi dopo la sentenza, era stata assunta da Roberto
Farinacci, segretario nazionale del
Partito fascista. E se dunque non sorprende la perorazione del ras cremonese contro «l’opera nefasta e deleteria» dell’avversario Matteotti, colpisce invece il livore dell’illustre penalista Manzini verso una personalità che era divenuta un simbolo di
moralità (oltre ad aver acquistato
meriti proprio nel campo, il diritto
DIARIO
SABATO 17 APRILE 2004
IL PROCESSO 14 GIUGNO 1924
L’istruttoria per il delitto Matteotti ha inizio
il 14 giugno 1924. All’aggressione
ammettono di aver partecipato Amerigo
Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola,
Amleto Poveromo, Augusto Malacria
LA REPUBBLICA 43
MUSSOLINI 3 GENNAIO 1925
In un discorso alla Camera Mussolini si
assume la “responsabilità politica, morale,
storica di tutto quanto è avvenuto”. Il
governo è abbastanza forte per stroncare
l’Aventino
L’ONDATA DI ARRESTI 1925
Dopo il discorso di Mussolini un’ondata di
arresti e perquisizioni si abbatte sui partiti
dell’opposizione. Il delitto Matteotti segna
il passaggio da un governo autoritario a
una vera e propria dittatura
IL SUO RUOLO STORICO ALL’INTERNO DELLA TRADIZIONE SOCIALISTA
IL RIFORMISTA
CHE AMAVA GLI IDEALI
MIMMO FRANZINELLI
ivoluzionario riformista»: questa definizione
di Matteotti ne definisce
l’approccio politico-esistenziale, di
un gradualismo coniugato con la fedeltà ai principi basilari del socialismo, per la trasformazione degli assetti sociali in una prospettiva
emancipatrice. L’ossimoro coglie la
specificità di una strategia alternativa al massimalismo dogmatico e
settario di Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati ma irriducibile alla socialdemocrazia annacquata di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi. Una linea maturata negli anni giovanili, a stretto contatto con le
masse rurali del Polesine, di cui
Matteotti interpreta aspettative di
riscatto, ricollegandosi al socialismo municipalista, in veste di amministratore comunale, di consigliere provinciale di Rovigo, di organizzatore sindacale delle masse
bracciantili.
Nel biennio rosso, con la sinistra
italiana abbagliata dall’esempio
russo, il deputato del Polesine contrappone alla scorciatoia della «dittatura di pochi sul proletariato» la
via maestra dell’educazione all’autogoverno; incalzato dalle critiche
della sinistra estrema, augura pacatamente «agli improvvisati e catastrofici neofiti del dopoguerra altrettanto ferma e inalterabile fede
per il cosidetto comunismo, quanto io ne ho serbata al socialismo».
Per nulla attratto dalle contese
ideologiche, segue con distacco angosciato le lotte intestine al partito
socialista: appassionato sostenitore
dell’unità, è sconcertato dalle lacerazioni dell’assise nazionale del PSI
(convocata a Livorno nel gennaio
1921) e abbandona il congresso
quando i lavori sono ancora in corso, per recarsi a Ferrara e assumere
la segreteria della Camera del lavoro, decapitata dalle violenze fasciste. Mentre i suoi compagni si scomunicano vicendevolmente, egli
utilizza la tribuna parlamentare per
denunciare l’illegalità dilagante:
«Oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta
e nota nei suoi aderenti, nei suoi ca-
«R
iconizzato dalla ripetizione in migliaia di esemplari: successe all’immagine di Matteotti, con cinquant’anni d’anticipo, ciò che sarebbe accaduto a quella di Che
Guevara. Non ci fu regia: forte di
un carico emotivo naturale (il David democratico ucciso per aver
sfidato il Golia fascista in Parlamento) il mito si moltiplicò da sé,
come non accadde per altre vittime del regime (don Minzoni, Rosselli, Amendola, Gramsci). Scorno dei comunisti: «Il più grande
martire antifascista non è comunista», si crucciò Togliatti. Antidoto formidabile contro l’accusa
di socialfascismo: «La socialde-
mocrazia farà tesoro del sangue
di Matteotti come Roma del sangue di Cristo», profetizzò Trockij
anch’egli vittima della metafora
religiosa.
Ma fu ovviamente sul capo di
Mussolini che quell’ombra volteggiò a lungo: glielo ricordavano
ogni giorno i fogli dell’emigrazione politica, le vignette satiriche
della stampa antifascista straniera, che si possono sfogliare a decine sui computer della mostra fiorentina. Una di queste, apparsa
su un foglio madrileno, recitava:
«Matar a un vivo es cosa fácil, pero cuan dificil es matar a un muerto...».
GLI AUTORI
Mauro Canali insegna Storia contemporanea a Camerino. Sta per uscire una nuova
edizione de Il delitto Matteotti, (Il Mulino).
Mimmo Franzinelli, storico, è studioso del
fascismo. Il suo ultimo libro è Squadristi
(Mondadori). Il testo di Leonardo Sciascia
del Sillabario è tratto da Porte aperte
(Adelphi)
pi, nella sua composizione, nelle sue
sedi, di bande armate le quali dichiarano apertamente (hanno questo coraggio, che io volentieri riconosco), che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce,
violenze, incendi, e li eseguono non
appena avvenga, o si pretesti che avvenga, alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della
classe borghese. È una perfetta organizzazione della giustizia privata»
(dall’intervento alla Camera del 31
gennaio 1921). Simili discorsi lo rendono l’obiettivo privilegiato della
violenza: il 12 maggio, recatosi per
un comizio in un una borgata in provincia di Rovigo, è sequestrato, cari-
DENUNCIA
I giornali
antifascisti,
anche
all’estero,
denunciarono
con una
vigorosa
campagna le
responsabilità
di Mussolini
nel delitto
Matteotti
VITTORIO FOA
Come un grande studioso
del diritto piegava la sua
scienza per giustificare il
crimine degli squadristi
penale, nel quale eccelleva Manzini). «Il caso Matteotti» viene ridimensionato nella sua Prefazione a
un mero «fatto di cronaca penaleparlamentare», l’emozione suscitata dall’omicidio liquidata come
«enorme esagerazione» e «frenetica
speculazione politica» mosse dalla
«malafede» dei nemici del regime fascista, che vollero considerare quella morte, «non quale un incerto del
mestiere di demagogo, ma addirittura come un attentato contro il popolo». Altro che «questione morale»,
scrive Manzini. Si è trattato invece
della «più accanita e perfida campagna parlamentaristico-giornalistica
di cui si abbia memoria», finalmente
chiusa «dal giusto verdetto di Chieti».
La sconsiderata chiosa d’un
principe del diritto penale fu fortunatamente isolata rispetto all’ondata di sdegno e raccapriccio suscitata in Italia e nel mondo dall’assassinio del leader socialista.
Un episodio, tra i tanti, di sottomissione dell’intelligenza alla tirannide.
Matteotti non si era
limitato a denunciare
l’autoritarismo del governo
e del suo capo, ma la
corruzione e il malcostume,
toccando così anche
l’immagine di Mussolini
Questo Novecento
1996
RENZO DE FELICE
Appena si cominciò a
scavare attorno al delitto
si scoperchiò un’olla
mefitica, dalla quale
fuoriuscivano delitti e
violenze, speculazioni e
affarismi
Mussolini il fascista. 1921-25
1966
cato su di un camion e rilasciato alcune ore più tardi dopo avere subito
umilianti sevizie.
L’aspettativa dei Soviet lascia il
campo a forme di reazione sanguinaria, ma Matteotti si trova emarginato dentro il PSI, tollerato dai massimalisti come un corpo estraneo.
Quando l’ala riformista viene estromessa, Matteotti costituisce con Filippo Turati il Partito socialista unitario e ne diviene il segretario. Il progressivo soffocamento della democrazia italiana trova proprio nei due
dirigenti del PSU i testimoni più lucidi, assertori di un socialismo che
si fa anzitutto carico della difesa
delle «libertà borghesi», battaglia
assolutamente fraintesa dai comunisti e dai social-massimalisti.
Una volta divenuto presidente
del Consiglio, Mussolini gioca nei
confronti delle opposizioni le carte
della repressione e della lusinga, invitando politici e sindacalisti socialriformisti alla collaborazione col
suo governo. Inviti che seducono
autorevoli leader della Camera del
lavoro (da D’Aragona a Buozzi) e del
PSU. In quel frangente l’opposizione di Matteotti è totale, perché —
più che da una valutazione di opportunità politica — scaturisce da
un giudizio morale. Nell’aprile 1924
scrive a Turati con l’amarezza di chi
avverte attorno a sé il vuoto: «Io non
posso continuare a fare il segretario
del Partito; dirigere un esercito che
continua a scappare è ridicolo.
Ognuno fa quello che vuole, cioè fa
nulla». Matteotti è un uomo solo,
segretario di un partito i cui dirigenti propendono — tranne poche eccezioni — per una linea di compromesso: egli è un profeta disarmato,
un uomo privo di illusioni sull’avvenire, che si batte per fedeltà ai propri ideali nonostante sappia di essere destinato alla sconfitta, che auspica l’unità socialista «non tanto in
sé, ma per farci di nuovo tornare in
comunicazione con lo spirito delle
masse, che altrimenti andranno al
comunismo o al fascismo».
La campagna elettorale dell’aprile 1924 è costellata di violenze, puntigliosamente ricordate da Matteotti all’inaugurazione della nuova legislatura, in un discorso —
quello del 30 maggio — che rimarrà
negli annali parlamentari come il
più elevato esempio di dedizione di
un deputato al mandato elettivo,
nonostante attorno a lui si addensi
una spaventosa spirale di violenza,
attraverso continue interruzioni e
minacce di morte: «Onorevole Matteotti, se ella vuol parlare, ha facoltà
di continuare, ma prudentemente!» gli intima, dopo aver cercato di
togliergli la parola, il presidente della Camera, Alfredo Rocco (che legherà il suo nome a un codice penale liberticida); l’oratore reagisce rivendicando i propri diritti: «Io chiedo di parlare non prudentemente,
né imprudentemente, ma parlamentarmente!». La tensione tocca
l’apice quando l’esponente socialista denunzia l’esistenza di «una milizia armata composta di cittadini di
un solo partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato governo con la forza, anche
se ad esso il consenso mancasse».
Un minimo campionario delle interruzioni da parte dei deputati fascisti lascia intendere la sorte riservata a Matteotti. Farinacci: «Va a finire che faremo sul serio quello che
non abbiamo fatto!»; Teruzzi: «È ora
di finirla con queste falsità!»; alcuni
deputati, in coro: «Vada in Russia!».
Mussolini è livido e si sfoga con Cesare Rossi: «Ma cosa fa Dumini?!?
Quell’uomo dopo questo discorso
non dovrebbe più circolare!».
I LIBRI
GIACOMO
MATTEOTTI
Curata da
Stefano
Caretti per
l'editore
Nistri
Lischi
di Pisa,
l'edizione
critica
delle
Opere è
giunta al
settimo
dei quindici
volumi
previsti
RENZO DE
FELICE
Mussolini
il fascista.
La conquista
del potere
1921-1925,
Einaudi1995
(ultima ed.)
EMILIO
GENTILE
Fascismo.
Storia e
interpretazioni
Laterza 2002
EMILIO
LUSSU
Marcia su
Roma
e dintorni,
Einaudi
2002
(1945)
ENZO
COLLOTTI
Fascismo,
fascismi,
Sansoni
2004
MIMMO
FRANZINELLI
Squadristi.
Protagonisti
e tecniche
della violenza
fascista
1919-22,
Mondadori
2003
FILIPPO
TURATI,
ANNA
KULISCIOFF
Carteggio,
Einaudi 1959
BENEDETTO
CROCE
Scritti varii,
Laterza 1966
IGNAZIO
SILONE
Il fascismo.
Origini
e sviluppo,
Mondadori
2003
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