SABATO 17 APRILE 2004 LA REPUBBLICA 41 DIARIO di IL LEADER SOCIALISTA UCCISO 80 ANNI FA DAL FASCISMO Escono dalla famiglia le foto inedite scattate da un grande reporter dopo l’omicidio A volerle fu la moglie del parlamentare Da allora nessuno le ha più viste atteotti venne rapito alle 16.30 del 10 giugno 1924 sul lungotevere Arnaldo da Brescia, mentre si stava dirigendo alla biblioteca di Montecitorio, dove da qualche giorno si recava per preparare il discorso che avrebbe dovuto tenere l’11 giugno alla riapertura della Camera. Dopo essere stato violentemente percosso, era stato caricato tramortito su una Lancia, che si era poi allontanata a folle velocità verso Ponte Milvio. L’operazione venne organizzata da due pupilli di Mussolini, Amerigo Dumini e Albino Volpi, e da altri tre ex arditi milanesi. L’uccisione avvenne nell’abitacolo dell’auto, pochi minuti dopo il rapimento, con un colpo di coltello al torace, vibrato quasi certamente da Volpi. Il cadavere, in avanzato stato di decomposizione, venne ritrovato il 16 agosto a 20 chilometri da Roma, in una boscaglia che costeggiava la via Flaminia. Il cadavere giaceva rannicchiato in una fossa talmente piccola che per costringervelo, era stato brutalmente compresso tanto da provocargli la frattura di alcune costole. Il ritrovamento del cadavere era stato preceduto da quello della giacca, rinvenuta tre giorni prima in un chiavicotto sulla via Flaminia a pochi chilometri dalla fossa. Lo stato della giacca fece escludere ai periti che essa potesse essere rimasta per due mesi nel chiavicotto; sembrava assai più probabile che vi fosse stata messa solo pochi giorni prima. Evidentemente doveva servire a ‘pilotare’ il ritrovamento del cadavere. All’identificazione degli assassini si giunse grazie a colpo di fortuna. Una coppia di portieri di uno stabile vicino all’abitazione di Matteotti, aveva notato da qualche giorno Dumini e compagni aggirarsi nei paraggi, e credendoli dei ladri, si era per precauzione appuntato il numero della targa della Lancia. Gli assassini di Matteotti appartenevano tutti alla Ceka fascista, un’organizzazione di polizia segreta, che Mussolini stava allestendo da tempo e la cui direzione era stata affidata a due degli uomini a lui più vicini: Cesare Rossi, capo del suo ufficio stampa, vera ‘eminenza grigia’ del fascismo, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf. I due furono in defini- CULTO POPOLARE Un bambino accompagnato dalla madre depone fiori nel punto del Lungotevere dove Giacomo Matteotti venne assalito dai sicari fascisti che poi lo uccisero M staggio della vittima, lasciata poi sanguinante sull’asfalto. Lo stesso Dumini, quando uscì dal mutismo, si guardò bene dall’affidare la propria difesa alla versione della ‘lezione’, preferendo ammannire ai magistrati alcune fantasiose amenità, soccorso in questo frangente da una impudente testimonianza di Curzio Malaparte, allora ispettore del Pnf. Non convince del tutto nemmeno la versione ‘classica’, cioè la necessità da parte di Mussolini di eliminare con Matteotti un avversario politico tenace e pericoloso, poiché la decisione appare troppo in contrasto con gli effetti disastrosi facilmente prevedibili, e poi perché essa non spiega come mai allora non si aspettasse un’occasione più propizia, meno affrettata. Appare invece più ragionevole ricercare il movente nei timori, accertati documentalmente dalle ultime ricerche, che agitavano alcuni settori del governo Mussolini, nell’imminenza della riapertura della Camera, per il discorso-denuncia che probabilmente Matteotti avrebbe fatto in Parlamento l’11 giugno, — da qui la necessità di agire in fretta quel 10 giugno, — su pratiche illecite presenti nella stipulazione della cosiddetta ‘convenzione Sinclair’, un accordo tra il governo fascista e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, una delle ‘sette sorelle’. Il contratto, fortemente voluto da Mussolini, assegnava alla Sinclair il monopolio della ricerca petrolifera in Italia, ed era stato raggiunto a fronte di una cospicua tangente versata tramite Arnaldo Mussolini nelle casse del Popolo d’Italia. Furono i due principali protagonisti della tragedia a suggerirlo: Dumini con un suo memoriale, venuto alla luce negli anni ottanta, che chiama in causa Arnaldo Mussolini, e Matteotti, con un articolo uscito postumo sulla rivista londinese English Life, nel quale dichiarava senza mezzi termini di essere venuto a conoscenza che l’accordo era stato raggiunto con la corruzione di alti esponenti del governo fascista. Di fatto, i documenti che Matteotti portava con sé quando venne rapito, e che, come raccontò più di un testimone, vennero raccolti da terra da uno dei rapitori, non furono mai ritrovati. MATTEOTTI Quel delitto che sconvolse l’Italia MAURO CANALI tiva i secondi mandanti del delitto. Le indagini vennero affidate ai magistrati Mauro Del Giudice e Guglielmo Tancredi, che, approfittando delle difficoltà in cui si dibatteva il partito fascista dopo il delitto, poterono condurre l’istruttoria senza pressioni e condizionamenti. Essi impostarono le indagini istruttorie sul movente politico del delitto, influenzati anche dagli echi non ancora spenti delle violentissime reazioni che il fascismo aveva riservato al discorso pronunciato da Matteotti alla Camera il 30 maggio, con il quale il deputato socialista, tra urla e invettive provenienti dai banchi fascisti, aveva coraggiosamente denunciato il clima d’intimidazione in cui s’erano svolte le elezioni del 6 aprile. Lo stesso Matteotti s’era mostrato consapevole di quanto si era pericolosamente esposto LEONARDO SCIASCIA MATTEOTTI. ORMAI da anni non pensava al delitto Matteotti… Era un’immagine che, tredici anni prima, giornali, manifesti, e cartoline avevano come inchiodato nella memoria degli italiani che avevano memoria, nel sentimento degli italiani che avevano sentimento. Questa, proprio questa: un volto sereno e uno sguardo e severo, ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico; o forse con quel che di tragico aveva poi conferito alla sua immagine di vivo la tragica morte. Immagine che riportò il giudice a quell’estate del 1924 (era pretore in un piccolo paese siciliano in cui pochi erano i fascisti e pochissimi i socialisti) in cui la sorte del fascismo parve vacillare, ma declinando l’estate ecco risollevarsi, riaffermarsi e vincere. E nella sua memoria il senso, proprio il senso – i colori, gli odori, i sapori persino – dell’estate che si spegneva, si associava allo spegnersi delle passioni che anche nell’ambito delle famiglie quel tragico caso aveva acceso. “ “ con il discorso e ai compagni che si congratulavano con lui aveva replicato tra il serio e lo scherzoso di cominciare a preparare il suo necrologio. Il giudizio degli storici sulle responsabilità morali del fascismo e di Mussolini appare abbastanza unanime. A dividerli sono i dubbi sul movente. Non convince certo la versione del delitto involontario, cioè che Mussolini avrebbe or- dinato alla Ceka di dare a Matteotti una ‘lezione’, che per una esecuzione maldestra si sarebbe involontariamente trasformata in tragedia. Non convince perché non fornisce una spiegazione del sequestro. Se si fosse trattato solo di una azione squadristica, perché allora rapire la vittima? Le ‘lezioni’ ad Amendola, Forni e Misuri avevano seguìto schemi diversi ed erano tutte terminate con il pe- DIARIO 42 LA REPUBBLICA LE TAPPE PRINCIPALI LA REQUISITORIA 30 MAGGIO ’24 Nel discorso pronunciato alla Camera il 30 maggio 1924 Matteotti accusa il regime fascista di intimidazioni e frodi durante la campagna elettorale e contesta la validità dei risultati elettorali L’ASSASSINIO 10 GIUGNO 1924 Il 10 giugno 1924 Matteotti è rapito a Roma da un gruppo di squadristi, caricato a forza su un’auto e ucciso a pugnalate. Il cadavere del deputato socialista sarà ritrovato due mesi dopo SABATO 17 APRILE 2004 L’AVENTINO 1924 A pochi giorni dall’omicidio l’opposizione decide di astenersi dai lavori parlamentari finché non sia ripristinata la legalità. Ma il re non interviene e i fiancheggiatori non tolgono l’appoggio a Mussolini UNA MOSTRA SU MATTEOTTI SI APRE LUNEDÌ A FIRENZE L’UOMO, IL MITO E LA STORIA UN REPORTAGE RACCONTA MICHELE SMARGIASSI I LIBRI GIAMPAOLO PANSA Le notti dei fuochi, Sperling Paperback 2004 PIERO GOBETTI Il delitto Matteotti. Un ritratto, Il Nuovo melangolo 1994 MAURO CANALI Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, il Mulino 1997 ALDO FORBICE (a cura di) Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli 1996 ANTONIO G. CASANOVA Matteotti: una vita per il socialismo, Bompiani 1974 ERNESTO RAGIONIERI Dall’età giolittiana al delitto Matteotti, Einaudi 1976 ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA La violenza politica e il delitto Matteotti, il Mulino 2004 GIUSEPPE ROSSINI Il delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino, il Mulino 1966 MAURO DEL GIUDICE Cronistoria del processo Matteotti, Opere nuove 1985 Firenze l Dio Matteotti». Non amavano mezze misure i socialisti di Costa Polesine. Evocarono le sommità del sacro per piangere il loro martire, a lettere d’oro, sul nastro di raso rosso-fiamma che brilla ancora dopo ottant’anni sotto la teca di vetro. Era il 21 agosto 1924: salutato da un rito quasi pagano (la bara sollevata e posata tre volte sulla «terra madre») il corpo straziato del segretario del Psu scendeva in una fossa del cimitero del suo paese, Fratta. Due mesi erano trascorsi da quel 10 giugno che Mussolini avrebbe descritto a D’Annunzio come il giorno in cui «mi hanno fatto barcollare e soffrire», quando cinque suoi sicari rapirono il capo dell’opposizione e lo fecero sparire per sempre, scatenando una reazione popolare imprevedibile. Settanta giorni appena, e Matteotti era già diventato per migliaia di antifascisti, sulla soglia della quaresima del Ventennio, un «nuovo Cristo» in croce. Proprio lui, laico, socialista, innamorato delle cose precise e razionali, il Diritto sopra tutto. Ma vent’anni di attività politica e intellettuale furono travolti dal martirio. Esempio di una morte che si sostituisce a una vita. È ancora così. Nell’immaginario collettivo, quando non è solo una riga sulla targa di una piazza, il nome di Matteotti non evoca un uomo ma un simbolo: l’Antifascista. Non era proprio questo che voleva la moglie Velia quando, all’indomani del delitto, commissionò al più famoso fotoreporter italiano dell’epoca, Adolfo Porry Pastorel (aveva immortalato l’arresto del Mussolini interventista nel 1914: il Duce non glielo perdonò mai) un rischiosissimo reportage privato sulle indagini. Decine di scatti rubati, eccezionali per contenuto informativo, di un dinamismo sconosciuto al fotogiornalismo coevo, tranne ai grandi pionieri: le macchine coi magistrati e i carabinieri che corrono sulle strade polverose, i sopralluoghi dei magistrati, il ritrovamento della giacca insanguinata, il recupero pietoso della salma, i leader socialisti Turati e Treves convocati per il riconoscimento, la simulazione giudiziaria del rapimento, i ritratti dei testimoni: alcune immagini apparvero nei giornali antifascisti dell’epoca, ma l’intera sequenza, un fotoracconto eccezionale, viene ricomposta solo oggi per la mostra Giacomo Matteotti, storia e memoria (promossa dal Consiglio regionale della Toscana, il cui presidente Riccardo Nencini la inaugurerà lunedì al palazzo Panciatichi di Firenze, dall’Associazione Pertini e dalla Fondazione Turati). Ma per Velia, che le raccolse in un album istoriato d’oro, erano documenti per i posteri. L’ora dei posteri è arrivata, e quelle foto, assieme a documenti e memorie, escono per la prima volta dagli archivi familiari dove dormivano avvolte in delicate veline nere, ciascuna etichettata con cura certosina. «Era un’archivista devota», «A LE IMMAGINI Le immagini di questo Diario (in copertina, a fianco e qui sotto) sono prese dal reportage che la vedova di Matteotti commissionò al famoso fotoreporter Adolfo Porry Pastorel. L’intera sequenza viene ricomposta solo oggi per la mostra fiorentina “Giacomo Matteotti, storia e memoria” osserva l’architetto Monica Mengoni, che ha scelto di esporre questi 450 oggetti per quello che sono diventati: reliquie di un culto. «Per riportare Matteotti nella storia, come finalmente merita, bisogna andarlo a cercare nel mito», suggerisce lo storico Stefano Caretti, curatore scientifico della mostra. «Certo, fu un mito molto operativo...». A volte è il mito che produce la storia e non viceversa. Ciò che accadde nell’estate del ’24 fu il primo scontro politico combattuto con le armi dell’immaginario di massa. Religione della politica, nutrito di riti e miti, il fascismo rischiò paradossalmente di essere travolto da un altro culto, da un’iconologia contrapposta. Non ci furono insurrezioni, neppure veri scontri di piazza dopo il delitto: fu una battaglia tutta simbolica. Eppure violentissima. I manifesti con la faccia di Mussolini cominciarono a grondare sangue, «imbrattati d’una bava color vermiglio». Una croce dello stesso colore sul parapetto del Lungotevere identificò il sito del martirio: attorno crebbe una selva di fiori e candele. La gente passava e s’inginocchiava. A tempo di record si stamparono migliaia di “santini” col volto di Matteotti. Antifascisti come Nitti e Salvemini rimasero impressionati dall’esplosione di devozione, dalla mistica sacrale ma combattiva che immediatamente si sprigionò da quel corpo straziato e assente (come il corpo di Cristo). Il fascismo ancora debole vacillò sotto l’offensiva, ma prese presto contromisure per abbattere o almeno ridicolizzare il culto del «santo di Fratta Polesine». Furono misure simboliche anch’esse: canzoncine («Avevi un posticino in Parlamento / te l’ha levato il Fascio in un momento»), manifesti irridenti, la spavalderia voodoodegli squadristi che «portavano al cinturone il ritratto di Matteotti traforato da uno spillo». Non bastando, l’iconoclastia anti-martire si spinse fino alla profanazione: fu distrutto il sacrario nel bosco della Quartarella, dove il 16 agosto il corpo di Matteotti era stato finalmente ritrovato. Ma frenare l’antifascismo mitopoietico si rivelò molto più difficile del previsto, quasi impossibile. Benché avvenuto di notte, il trasporto della salma da Roma a Fratta Polesine si trasformò nella traslazione di una reliquia, con altri inginocchiamenti e preghiere ad ogni stazione. Perfino inumato quel corpo inquietava il regime: i parenti temettero nuove profanazioni. Invece furono gli antifascisti (repubblicani) a vagheggiare il trafugamento all’estero della salma, per farne, scrive nelle sue memorie Vera Modigliani, un «santuario di fede, meta di pellegrinaggi e di voti». Il «sepolcro pauroso» turbò a lungo i sonni del Duce, terrorizzato all’idea che l’Italia potesse «tornare a matteottizzarsi». Non accadde: il culto del martire della LA BARA Sopra, il trasporto della bara con le spoglie di Matteotti. A sinistra, il ritrovamento della giacca del deputato e il sopralluogo del magistrato Del Giudice sul luogo del ritrovamento Quartarella, almeno in patria, diventò catacombale, s’interrò metaforicamente nelle coscienze e letteralmente sotto i mattoni o dentro i materassi dove gli antifascisti continuavano a conservare le immaginette, le cartoline, ma anche le spille, i francobolli, i bottoni col volto di Matteotti, estraendoli di nascosto, magari per un bacio furtivo, e riponendoli fino alla resurrezione pasquale del 25 luglio, quando il volto santo tornò ad essere portato in processione nelle piazze. Era un volto ormai icastico, ricavato sempre dalla stessa fotografia, scontornato, stilizzato, PIERO GOBETTI LE ESTERNAZIONI DI MANZINI E LA DIFESA DEI SICARI Egli rimane come l’uomo che sapeva dare l’esempio. Era un ingegno politico quadrato, sicuro; ma non si può dire quel che avrebbe potuto fare come ministro: ormai è già nella leggenda Per Matteotti. Un ritratto 1924 CARLO LEVI Col delitto Matteotti l’eroe paterno perse la popolarità: il protagonista fu ancora considerato indispensabile, se non come “uomo provvidenziale”, come “male necessario” Scritti Politici 1922-1942 UN PROCESSO FARSA NEL SEGNO DELLA TIRANNIDE SIMONETTA FIORI I l caso Matteotti? Una vera «esagerazione». A ben vedere, egli stesso «s’è posto in condizioni di vivere pericolosamente». Qualche sconsiderato parla di «attentato contro il popolo». Non scherziamo: sono piuttosto «gli incerti del mestiere di demagogo». Questa in sintesi la posizione espressa nel 1926 non da un rozzo propagandista asservito a Mussolini, ma dall’autorevole giurista Vincenzo Manzini, accademico d’Italia e autore di trattati fondamentali di diritto penale, studioso celebrato anche dopo la caduta del fascismo. Porta la sua firma la Prefazione a L’arringa di Roberto Farinacci, pubblicata nel maggio del 1926 in un opuscolo intitolato Il processo Matteotti alle Assise di Chieti (edizioni «Cremona Nuova»). Il saggio, ritrovato da Stefano Caretti in un archivio in cui è ri- masto sepolto per quasi ottant’anni, testimonia il potere di corruzione esercitato dalla dittatura di Mussolini anche sulle coscienze più avvertite. La «Beffa di Chieti» - così Turati definì il «processo-farsa» agli assassini di Matteotti - s’era chiusa nel marzo del 1926 con lievi condanne per tre dei cinque imputati (Dumini, Volpi e Poveromo). La difesa dei sicari, scarcerati appena due mesi dopo la sentenza, era stata assunta da Roberto Farinacci, segretario nazionale del Partito fascista. E se dunque non sorprende la perorazione del ras cremonese contro «l’opera nefasta e deleteria» dell’avversario Matteotti, colpisce invece il livore dell’illustre penalista Manzini verso una personalità che era divenuta un simbolo di moralità (oltre ad aver acquistato meriti proprio nel campo, il diritto DIARIO SABATO 17 APRILE 2004 IL PROCESSO 14 GIUGNO 1924 L’istruttoria per il delitto Matteotti ha inizio il 14 giugno 1924. All’aggressione ammettono di aver partecipato Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Augusto Malacria LA REPUBBLICA 43 MUSSOLINI 3 GENNAIO 1925 In un discorso alla Camera Mussolini si assume la “responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”. Il governo è abbastanza forte per stroncare l’Aventino L’ONDATA DI ARRESTI 1925 Dopo il discorso di Mussolini un’ondata di arresti e perquisizioni si abbatte sui partiti dell’opposizione. Il delitto Matteotti segna il passaggio da un governo autoritario a una vera e propria dittatura IL SUO RUOLO STORICO ALL’INTERNO DELLA TRADIZIONE SOCIALISTA IL RIFORMISTA CHE AMAVA GLI IDEALI MIMMO FRANZINELLI ivoluzionario riformista»: questa definizione di Matteotti ne definisce l’approccio politico-esistenziale, di un gradualismo coniugato con la fedeltà ai principi basilari del socialismo, per la trasformazione degli assetti sociali in una prospettiva emancipatrice. L’ossimoro coglie la specificità di una strategia alternativa al massimalismo dogmatico e settario di Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati ma irriducibile alla socialdemocrazia annacquata di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi. Una linea maturata negli anni giovanili, a stretto contatto con le masse rurali del Polesine, di cui Matteotti interpreta aspettative di riscatto, ricollegandosi al socialismo municipalista, in veste di amministratore comunale, di consigliere provinciale di Rovigo, di organizzatore sindacale delle masse bracciantili. Nel biennio rosso, con la sinistra italiana abbagliata dall’esempio russo, il deputato del Polesine contrappone alla scorciatoia della «dittatura di pochi sul proletariato» la via maestra dell’educazione all’autogoverno; incalzato dalle critiche della sinistra estrema, augura pacatamente «agli improvvisati e catastrofici neofiti del dopoguerra altrettanto ferma e inalterabile fede per il cosidetto comunismo, quanto io ne ho serbata al socialismo». Per nulla attratto dalle contese ideologiche, segue con distacco angosciato le lotte intestine al partito socialista: appassionato sostenitore dell’unità, è sconcertato dalle lacerazioni dell’assise nazionale del PSI (convocata a Livorno nel gennaio 1921) e abbandona il congresso quando i lavori sono ancora in corso, per recarsi a Ferrara e assumere la segreteria della Camera del lavoro, decapitata dalle violenze fasciste. Mentre i suoi compagni si scomunicano vicendevolmente, egli utilizza la tribuna parlamentare per denunciare l’illegalità dilagante: «Oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi ca- «R iconizzato dalla ripetizione in migliaia di esemplari: successe all’immagine di Matteotti, con cinquant’anni d’anticipo, ciò che sarebbe accaduto a quella di Che Guevara. Non ci fu regia: forte di un carico emotivo naturale (il David democratico ucciso per aver sfidato il Golia fascista in Parlamento) il mito si moltiplicò da sé, come non accadde per altre vittime del regime (don Minzoni, Rosselli, Amendola, Gramsci). Scorno dei comunisti: «Il più grande martire antifascista non è comunista», si crucciò Togliatti. Antidoto formidabile contro l’accusa di socialfascismo: «La socialde- mocrazia farà tesoro del sangue di Matteotti come Roma del sangue di Cristo», profetizzò Trockij anch’egli vittima della metafora religiosa. Ma fu ovviamente sul capo di Mussolini che quell’ombra volteggiò a lungo: glielo ricordavano ogni giorno i fogli dell’emigrazione politica, le vignette satiriche della stampa antifascista straniera, che si possono sfogliare a decine sui computer della mostra fiorentina. Una di queste, apparsa su un foglio madrileno, recitava: «Matar a un vivo es cosa fácil, pero cuan dificil es matar a un muerto...». GLI AUTORI Mauro Canali insegna Storia contemporanea a Camerino. Sta per uscire una nuova edizione de Il delitto Matteotti, (Il Mulino). Mimmo Franzinelli, storico, è studioso del fascismo. Il suo ultimo libro è Squadristi (Mondadori). Il testo di Leonardo Sciascia del Sillabario è tratto da Porte aperte (Adelphi) pi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate le quali dichiarano apertamente (hanno questo coraggio, che io volentieri riconosco), che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, violenze, incendi, e li eseguono non appena avvenga, o si pretesti che avvenga, alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. È una perfetta organizzazione della giustizia privata» (dall’intervento alla Camera del 31 gennaio 1921). Simili discorsi lo rendono l’obiettivo privilegiato della violenza: il 12 maggio, recatosi per un comizio in un una borgata in provincia di Rovigo, è sequestrato, cari- DENUNCIA I giornali antifascisti, anche all’estero, denunciarono con una vigorosa campagna le responsabilità di Mussolini nel delitto Matteotti VITTORIO FOA Come un grande studioso del diritto piegava la sua scienza per giustificare il crimine degli squadristi penale, nel quale eccelleva Manzini). «Il caso Matteotti» viene ridimensionato nella sua Prefazione a un mero «fatto di cronaca penaleparlamentare», l’emozione suscitata dall’omicidio liquidata come «enorme esagerazione» e «frenetica speculazione politica» mosse dalla «malafede» dei nemici del regime fascista, che vollero considerare quella morte, «non quale un incerto del mestiere di demagogo, ma addirittura come un attentato contro il popolo». Altro che «questione morale», scrive Manzini. Si è trattato invece della «più accanita e perfida campagna parlamentaristico-giornalistica di cui si abbia memoria», finalmente chiusa «dal giusto verdetto di Chieti». La sconsiderata chiosa d’un principe del diritto penale fu fortunatamente isolata rispetto all’ondata di sdegno e raccapriccio suscitata in Italia e nel mondo dall’assassinio del leader socialista. Un episodio, tra i tanti, di sottomissione dell’intelligenza alla tirannide. Matteotti non si era limitato a denunciare l’autoritarismo del governo e del suo capo, ma la corruzione e il malcostume, toccando così anche l’immagine di Mussolini Questo Novecento 1996 RENZO DE FELICE Appena si cominciò a scavare attorno al delitto si scoperchiò un’olla mefitica, dalla quale fuoriuscivano delitti e violenze, speculazioni e affarismi Mussolini il fascista. 1921-25 1966 cato su di un camion e rilasciato alcune ore più tardi dopo avere subito umilianti sevizie. L’aspettativa dei Soviet lascia il campo a forme di reazione sanguinaria, ma Matteotti si trova emarginato dentro il PSI, tollerato dai massimalisti come un corpo estraneo. Quando l’ala riformista viene estromessa, Matteotti costituisce con Filippo Turati il Partito socialista unitario e ne diviene il segretario. Il progressivo soffocamento della democrazia italiana trova proprio nei due dirigenti del PSU i testimoni più lucidi, assertori di un socialismo che si fa anzitutto carico della difesa delle «libertà borghesi», battaglia assolutamente fraintesa dai comunisti e dai social-massimalisti. Una volta divenuto presidente del Consiglio, Mussolini gioca nei confronti delle opposizioni le carte della repressione e della lusinga, invitando politici e sindacalisti socialriformisti alla collaborazione col suo governo. Inviti che seducono autorevoli leader della Camera del lavoro (da D’Aragona a Buozzi) e del PSU. In quel frangente l’opposizione di Matteotti è totale, perché — più che da una valutazione di opportunità politica — scaturisce da un giudizio morale. Nell’aprile 1924 scrive a Turati con l’amarezza di chi avverte attorno a sé il vuoto: «Io non posso continuare a fare il segretario del Partito; dirigere un esercito che continua a scappare è ridicolo. Ognuno fa quello che vuole, cioè fa nulla». Matteotti è un uomo solo, segretario di un partito i cui dirigenti propendono — tranne poche eccezioni — per una linea di compromesso: egli è un profeta disarmato, un uomo privo di illusioni sull’avvenire, che si batte per fedeltà ai propri ideali nonostante sappia di essere destinato alla sconfitta, che auspica l’unità socialista «non tanto in sé, ma per farci di nuovo tornare in comunicazione con lo spirito delle masse, che altrimenti andranno al comunismo o al fascismo». La campagna elettorale dell’aprile 1924 è costellata di violenze, puntigliosamente ricordate da Matteotti all’inaugurazione della nuova legislatura, in un discorso — quello del 30 maggio — che rimarrà negli annali parlamentari come il più elevato esempio di dedizione di un deputato al mandato elettivo, nonostante attorno a lui si addensi una spaventosa spirale di violenza, attraverso continue interruzioni e minacce di morte: «Onorevole Matteotti, se ella vuol parlare, ha facoltà di continuare, ma prudentemente!» gli intima, dopo aver cercato di togliergli la parola, il presidente della Camera, Alfredo Rocco (che legherà il suo nome a un codice penale liberticida); l’oratore reagisce rivendicando i propri diritti: «Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!». La tensione tocca l’apice quando l’esponente socialista denunzia l’esistenza di «una milizia armata composta di cittadini di un solo partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse». Un minimo campionario delle interruzioni da parte dei deputati fascisti lascia intendere la sorte riservata a Matteotti. Farinacci: «Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!»; Teruzzi: «È ora di finirla con queste falsità!»; alcuni deputati, in coro: «Vada in Russia!». Mussolini è livido e si sfoga con Cesare Rossi: «Ma cosa fa Dumini?!? Quell’uomo dopo questo discorso non dovrebbe più circolare!». I LIBRI GIACOMO MATTEOTTI Curata da Stefano Caretti per l'editore Nistri Lischi di Pisa, l'edizione critica delle Opere è giunta al settimo dei quindici volumi previsti RENZO DE FELICE Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi1995 (ultima ed.) EMILIO GENTILE Fascismo. Storia e interpretazioni Laterza 2002 EMILIO LUSSU Marcia su Roma e dintorni, Einaudi 2002 (1945) ENZO COLLOTTI Fascismo, fascismi, Sansoni 2004 MIMMO FRANZINELLI Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-22, Mondadori 2003 FILIPPO TURATI, ANNA KULISCIOFF Carteggio, Einaudi 1959 BENEDETTO CROCE Scritti varii, Laterza 1966 IGNAZIO SILONE Il fascismo. Origini e sviluppo, Mondadori 2003