Ferruccio Vignoni
il suo sacrificio
la nostra libertà
Comune di Montichiari
La “Scelta” di Ferruccio Vignoni, nostro concittadino caduto per la libertà e la democrazia,
vuole essere una testimonianza preziosa in occasione del 25 aprile, la Festa della Liberazione che torniamo a celebrare degnamente a Montichiari.
Il lavoro certosino che Giacomo Tosoni ha realizzato e che potete leggere qui di seguito
deve costituire per tutti noi, giovani e adulti, donne e uomini, un incentivo ad approfondire le tematiche attinenti alla Seconda Guerra Mondiale, con il suo tragico carico di morti
innocenti e, con essa, dei movimenti che si sono opposti al nazifascismo, immane dramma
che ha visto coinvolto anche il nostro Paese.
Montichiari ha “dato” alla patria molte giovani vite, vite spese per ridare un futuro di
benessere e di progresso, vite che si sono schierate dalla parte giusta, contro l’oppressore
nazista ed il nemico fascista. Ferruccio Vignoni fu una di queste, un eroe perito nel fiore
degli anni, la cui morte costituì un lutto che colpì non solo la sua amata famiglia ma tutta
la nostra comunità.
Ricordarne il sacrificio significa tenere vivi i valori resistenziali, talvolta dimenticati o irrisi, ed invece, per tutti noi, fondamentali e necessari. Leggere la sua vita, così ben descritta
e narrata da Tosoni, è arricchente, è fonte di orgoglio per tutta la nostra comunità che può
e deve trovare sempre nuovi stimoli nel ricordare la Resistenza.
Sono certo che, tramite questo opuscolo, Vignoni verrà riscoperto, finalmente, dai tanti
che ancora ne ignorano il sacrificio: solo così sapremo tenere accesa quella fiammella della
libertà che mai dev’essere spenta.
A tutti buona lettura: viva la Resistenza, viva l’Italia democratica.
Il Sindaco
Mario Fraccaro
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La scelta
(Vita di Ferruccio Vignoni)
di Giacomo Tosoni
Quante volte, durante la nostra esistenza, ci troviamo di fronte ad una scelta? Si può dire che la nostra vita è condizionata dalle
scelte e dalle decisioni che prendiamo. Chi può dire come sarebbe andata, se avessimo scelto “l’altra” opzione? Bisognerebbe
vivere più volte per avere la controprova o quanto meno avere la possibilità di tornare indietro, ma né l’una, né l’altra, sono al
momento applicabili. A volte la scelta non si presenta nemmeno, perché manca l’alternativa o perché qualcun altro l’ha presa per
noi. Dicendo questo, penso soprattutto al luogo di nascita, ognuno nasce dove abita chi lo mette al mondo. Così è stato anche per
Ferruccio Vignoni, ma il fatto che lui sia diventato un monteclarense, lo dobbiamo alle scelte attuate dalla sua famiglia.
Chi è Ferruccio Vignoni?
Ferruccio è un ragazzo come ce ne sono stati tanti a Montichiari, solo che la sua vita non è andata più in là di 21 anni e mezzo.
E’ un ragazzo della prima metà del Novecento, morto esattamente 70 anni fa, il 5 marzo 1945. E’ uno dei tanti personaggi che
hanno dato “lustro” al nome di Montichiari. E’ un nome inciso sulla lapide della chiesa del Suffragio o su una delle croci in ferro
lungo il Viale della Rimembranza, nel cimitero cittadino. E’ il nome stampato su un cartello stradale, ad indicare una delle vie della
frazione Ro. E’ un nome, nella storia di casa nostra.
Questo è il racconto della sua tormentata vita.
Siamo agli inizi di un nuovo Secolo, quello appena conclusosi ci ha portato in dote un’unità territoriale quasi completa. In cambio,
però, ha voluto il sacrificio ed il sangue di molte vite umane. D’improvviso, l’orizzonte si mostra oscuro e minaccioso, gravido di
pensieri. L’aria è diventata più fredda, il cielo si è fatto più cupo, il temporale incombe. Un peso grava sulle spalle di un uomo di
Casaloldo, paese del mantovano. A dover compiere la prima scelta è Zeffirino, il nonno di Ferruccio. Con la moglie Palmira hanno
4 figli: Alceste, Ada, Dirce e Rachele. Sofia, Amanda e Cidalia, invece, non ce l’hanno fatta, sono morte in tenera età. La famiglia si
sta allargando ancora, un altro figlio è in arrivo. Oltre all’incombere di una guerra, c’è un problema molto più stringente da affrontare, sfamare la famiglia. Zeffirino è contadino, lavora la terra, ma sembra che quella di Casaloldo non sia più in grado di dare sussistenza a tutti quanti. I tempi non sono di certo propizi, ma urge prendere una decisione sul da farsi. Anche se a malincuore, non
si può fare altro, la scelta è quasi obbligata: traslocare. I Vignoni si trasferiscono in una cascina in quel di Ro, una delle innumerevoli frazioni che fungono da “lune” del pianeta Montichiari. Zeffirino e Palmira completano la loro “opera”. In terra monteclarense
ed in piena Grande Guerra, nascono altre due figlie: Clara ed Edda. Ora la scena è completa, tutti i personaggi sono al loro posto.
Là in fondo sta schiarendo, dopo anni tempestosi l’aria si va acquietando. Il rosso dell’erba, piano, piano va scomparendo e riappare il suo colore naturale. Assilli, pensieri, preoccupazioni, tutto è ormai alle spalle, la famiglia Vignoni può guardare fiduciosa al
domani. Il futuro si presenta con l’abito della festa. La terra germoglia e con essa nascono nuovi amori.
Dirce si è fatta ragazzina, la sua bellezza vola incantata accanto alla sua fragilità. E’ come una preda in una riserva di caccia, facile da catturare, troppo facile. Il “bracconiere” non è lontano, arriva dall’altra parte dello “stradone”. Una fragile demarcazione,
tra l’essere sicuri ed il perdersi. Un sottile filo d’asfalto che non riesce a salvarla. “Non andare”, si affretta a dirle la famiglia, ma
ormai il suo cuore ha già oltrepassato quella linea. Non ha visto nessun ostacolo, nessun impedimento. Il cervello, ancora troppo
debole, non è riuscito a fermare quel giovane cuore che batte per quell’uomo. “Arriverà il momento giusto – continua a ripetergli instancabile la famiglia – non avere fretta e poi “quello” è troppo vecchio per te”. “Si sbagliano, io lo so che si sbagliano, noi
saremo felici, insieme”. C’è solo questo nella testa di Dirce. Per un po’ la ragione è dalla sua, i giorni passano ed il loro rapporto
sembra rinsaldarsi sempre di più. “Forse ci siamo sbagliati”. Scorrono i mesi, fino ad arrivare a quel giorno. “Credevi veramente
che sarei sempre stato con te, sei solo una povera illusa”. Questa la sentenza finale. Pronunciata da chi, secondo lei, l’avrebbe difesa e custodita, mentre ora si trasformava nel
suo peggior accusatore. Raccogliendo i pezzi di se, che quella sentenza ha ferocemente
disseminato per tutta l’aia, si trova a dover fare i conti con ciò che ritiene il pezzo più
importante. Quello che credeva, anzi, che era certa, avrebbe condiviso con “lui”. Dopo
quella presa da suo padre, ancora una volta si ripresentava la scelta ed ora l’incombenza
spettava a lei. “Mamma, papà, io ho già scelto”, “Noi ti saremo sempre vicini”.
E’ stata la scelta di una ragazza di 18 anni, a “regalarci” Ferruccio. Prima ancora che nasca,
si trova ad avere su di se, un marchio che lo accompagnerà per tutta la vita: figlio di N N.
Siamo nell’estate del 1923 quando Dirce porta a compimento la sua gravidanza, da circa
un anno, al governo della Nazione, si è insediato Mussolini con i suoi fascisti. “Figlia mia,
non potevi scegliere momento peggiore per fare un figlio, con tutto quello che c’è da
fare in campagna”. In quel periodo, per nascere bastava una levatrice, ma non sempre le
cose sono semplici e naturali. “Papà aiutami, mi sento male”. Fa caldo, agosto ha appena
ceduto il posto a settembre. “Dottore, mi dica, ci sono problemi”, “Non si preoccupi,
vedrà che andrà tutto bene”. E’ il secondo sabato del mese, quando Dirce da alla luce suo
figlio. E’ un maschio. Ha deciso, lo chiamerà Ferruccio. Un nome di quelli che rimarranno
ad imperitura memoria, già ricordato da Goffredo Mameli nel suo “Canto degli italiani”,
«Ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano…». Il giorno di nascita? L’8 settembre. Una
data per il neonato, doppiamente fondamentale, come se tutto fosse già scritto. Quasi Da sinistra: zia Clara, nonno Zeffirino,
che la storia, si fosse “divertita” a segnarne l’inizio e la fine, partendo da un numero.
zia Ada, Ferruccio e zia Edda.
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Il bambino cresce allegro in quella cascina vicino alla seriola, lungo via Cappelletta, qui muove i suoi primi passi. Tutti s’impegnano per non fargli pesare quel marchio che, suo malgrado, si è trovato stampato sulla pelle. Marchio che, invece, ritroveremo
nei documenti ufficiali. Il destino non ha ancora finito il suo gioco, per Ferruccio è pronta un’altra prova. Un grave lutto lo coglie
ancora piccolo. Poco dopo aver compiuto 5 anni, si trova a dover patire la perdita della madre. Oggi, trovare una collocazione ad
un bambino in queste condizioni, sarebbe quanto meno problematico, ma non in quel periodo. Non in quegli anni, in cui a farla
da padrona è la civiltà rurale e contadina, dove spiccato è il senso di solidarietà, di aiuto reciproco, dove in un cascinale convivono
più famiglie. Infatti problemi non ce ne sono, d’altro canto, sono talmente tante le zie, che una “nuova” mamma la trova immediatamente. E’ la zia Ada, la più grande fra le sorelle. Va ricordato che quando nasce Ferruccio, tre delle sue zie, hanno tra i 7 ed
i 10 anni. In seguito anche gli altri zii si adopereranno per la sua crescita, in particolare lo zio Alceste, il più anziano dei fratelli.
Nel maggio 1934 riceve la Cresima. Sul registro parrocchiale, gli altri bambini, accanto al loro nome hanno quello dei genitori,
Ferruccio, invece, rifà i conti col suo marchio: figlio di NN e fu Dirce.
Nel frattempo nel Paese l’aria è cambiata, ora va di moda il nero. I bambini si chiamano Balilla, devono portare una divisa, fare
tanta ginnastica e allungare il braccio destro per salutare. Quando si è piccoli, tutto questo può anche sembrare divertente, peccato che poi, crescendo, il punto di vista cambia drasticamente. Non puoi pensarla diversamente dal resto del “gregge”, non puoi
permetterti una parola fuori luogo, non puoi muoverti liberamente, sei costantemente controllato. A casa Vignoni, quest’aria
pesante non è mai entrata, qui soffia più rosea. Da sempre si respira un vento socialista, di trasgressione, di cambiamento, ma
quando si diffonde l’eco della notizia dell’uccisione di Giacomo Matteotti si capisce che si è imboccato una strada senza ritorno.
Per Ferruccio finisce il tempo della scuola, egli ha due grandi “amori”, che coltiva con passione: il canto e la bicicletta. Cantare gli
piace molto, non ha alcuna vergogna di farsi sentire dagli altri: “Aveva una bella voce, era davvero bravo” ricorda una delle sue
nipoti. La bicicletta, la usa quotidianamente nei suoi spostamenti, per andare da zio Alceste o da zia Rachele, nella frazione Teotti
oppure a Borgosotto, dalle suore.
Come avvenne già un quarto di secolo prima, il cielo torna a farsi minaccioso. Compaiono gli stessi nuvoloni neri visti allora, carichi di angoscia e di sofferenza ed ancora una volta arrivano a rabbuiare le già faticose esistenze dei popoli. La Germania invade la
Polonia, ha inizio la Seconda Guerra Mondiale. Ferruccio compie 16 anni. L’Italia ancora non partecipa, si vive con il cuore sospeso
e le orecchie agli altoparlanti. La tempesta si scatena il 10 giugno del 1940. Come fu per la Prima, anche in questa occasione si
dice che sarà solo un temporale passeggero e, prontamente, come allora le cose non vanno come preventivato. Ogni figlio della
Patria è chiamato ad obbedire al suo giuramento di osservanza. Sono in molti, però, coloro che cercano di scacciare quest’incubo,
ingegnando mille stratagemmi, non ultimo il fingersi pazzi. A casa Vignoni giunge l’ordine di partenza per il, «figlio di N.N.», ma
che la Patria conosce benissimo. Ferruccio si ritrova in marina. I marinai, per regolamento, partono ancora giovani, infatti, egli
non è ancora maggiorenne. La ferma dura due lunghi infiniti anni, ferma che lui non porterà a completamento. Nell’evoluzione
della guerra qualcosa è mutato, lo scenario sta assumendo contorni diversi da quelli previsti. Giunge l’8 settembre, quello del
1943. Ferruccio compie 20 anni. Al comando dell’Italia non c’è più Mussolini, è stato messo “sotto” dai suoi e “fatto fuori” dal re.
Ora le azioni di guerra sono dirette dal generale Badoglio, il quale ha firmato l’armistizio con gli alleati.
Mentre si trova a casa per una licenza, Ferruccio ha il tempo per meditare. Dopo il nonno, dopo la mamma, ora è lui a trovarsi nel
momento della decisione, ora la scelta tocca a lui. Davanti a lui si apre una questione pressante: entrare nella Repubblica Sociale
di Salò oppure diventare un bandito-Partigiano? La decisione è presa: “Indietro non ci torno, questa non è la mia guerra, la mia
è un’altra”. Quanto coraggio ci vuole per compiere un simile dietro-front? Non è di certo né facile, né semplice, perché la posta
è alta, in gioco c’è la vita. Questa scelta, fatta da migliaia di persone-soldati, dobbiamo vederla come se fosse un tradimento? E’
una forma di diserzione? Dal punto di vista militare sembrerebbe proprio di si, ma ci sono di conforto le parole del gen. Badoglio:
«La guerra continua, accanto alle truppe alleate». Credo che possano bastare per dare una risposta a queste domande. Quindi
nessun tradimento, nessuna diserzione, solo un cambio di ruoli. Col senno di poi, potremmo dire che l’8 settembre 1943 è il riconoscimento ufficiale di un errore commesso più di vent’anni prima. Fortunatamente per noi, “generazione futura”, figli di quanti
la guerra l’hanno vissuta e subita, sono stati in molti ad intraprendere questa strada della “pseudo-diserzione”. Donne e uomini,
ma soprattutto ragazzi giovani, che hanno dato vita ad un secondo esercito, lanciato contro l’occupante tedesco.
In principio Ferruccio rimane nascosto a Montichiari. Passa qualche giorno a casa sua, poi si trasferisce dalle suore a Borgosotto,
quindi dallo zio Alceste, cambia continuamente posto. I fascisti locali gli danno la caccia, perché egli si è rifiutato di presentarsi,
quando la RSI gli ha inviato la lettera di richiamo. Verso la metà del 1944 lo troviamo in casa della zia Rachele, che nel frattempo
si è sposata con Augusto Mor ed abita nella frazione Teotti. Qui rimane per un po’ di tempo. In quanto a vettovagliamento, le
cascine godono un posto di “privilegio”, infatti, la fame qui si fa sentire di meno, che non nel resto del paese. Lo sanno benissimo
anche i soldati tedeschi, i quali già da un paio d’anni si sono stabiliti in tutti i cascinali di Montichiari. Hanno capito che questi
appezzamenti sono fonte di sostentamento, perché vi possono trovare carne (animali da cortile e da stalla) e verdura (frutti della
terra). Il cerchio, intorno a Ferruccio come a molti altri nella sua situazione, si stringe sempre più, fino al momento in cui bisogna
prendere una drastica decisione, salutare la famiglia e riprendere la lotta. Ha inizio una “nuova” storia. Un capitolo che lo porterà
fino al sacrificio.
Siamo nell’ottobre 1944, Ferruccio lascia Montichiari con destinazione Prandaglio, una frazione di Villanuova sul Clisi. Presso il
Santuario della Madonna della Neve, si è riunito un gruppo di “ribelli”. Sono giovani che non hanno aderito alla RSI, ex ufficiali dell’esercito, fuggiti dopo l’8 settembre, come il sergente di fanteria Amilcare Baronchelli di Carpenedolo ed ex prigionieri,
scappati dai tanti campi di concentramento che affollano anche il territorio italiano. Il gruppo è formato da una trentina di unità.
Aiutati dal parroco, don Ferdinando Collio, raccolgono delle armi, che il sacerdote nasconde nella cripta della chiesa. Per tutto
l’autunno agiscono in maniera completamente autonoma, decisione mal vista dagli altri gruppi operanti nella zona, in quanto
ciò impedisce la cooperazione tra i vari reparti. Se loro non forniscono indicazioni su spostamenti ed obiettivi, diventa praticamente impossibile stilare un piano delle operazioni, non ultimo il rischio di trovarsi coinvolti in un conflitto a fuoco. Il comando
delle Fiamme Verdi che agisce nella zona, manda dei suoi emissari per sollecitare la loro entrata nel “corpo”, ma Baronchelli, il
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comandante del gruppo è contrario a questo ingresso. Per un po’ di tempo continua la discussione sull’entrare o meno a far parte
delle Fiamme Verdi, se sia meglio unirsi alle Brigate Garibaldi oppure rimanere ancora autonomi. Per dirimere questo stato di incertezza, interviene il C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà) di Milano, che invia un suo rappresentante per convincerli a prendere
una decisione. Dopo vari tentennamenti vengono assegnati alla 7a Brigata “Matteotti” di montagna. Il responsabile è Daniele
Donzelli (Renato), il loro raggio d’operazione è Gavardo, Prandaglio, Quarena, Villanuova ed il fondo valle. Il gruppo si ferma
a svernare a Prandaglio, la gente li ospita, li sfama, anche perché con loro in paese si sentono più sicuri. Le armi aumentano di
numero, la cripta non è più sufficiente a contenerle, quindi si decide di spostarle nell’ossario del cimitero. A metà febbraio del ‘45,
complice una “soffiata”, i fascisti compiono un rastrellamento, scoprono il nascondiglio e sequestrano tutte le armi. Nessuno dei
Partigiani, però, viene catturato, perché nel frattempo si erano spostati in un’altra posizione. Le camicie nere trovano ed arrestano il parroco, imprigionato sarà liberato il 25 aprile.
In alcune occasioni Ferruccio torna a casa per rivedere i parenti, stando sempre attento a non farsi catturare dai fascisti monteclarensi. Qualche volta ha con se alcune bombe a mano, aspetta che lo zio si addormenti e poi le appoggia per terra sotto il tavolo.
Durante quella che risulterà la sua ultima “licenza”, lo zio gli chiede di fermarsi, la guerra sta finendo, anche la radio va dicendo
che gli americani stanno arrivando, ormai è questione di pochi mesi, forse solo di giorni. “Le suore sono disposte a tenerti nascosto, da loro saresti al sicuro, si tratta di far passare qualche settimana, pensaci”. «No zio, non posso proprio fermarmi, ho con me dei
documenti molto importanti, potrei passare dei guai se non li riportassi. Non preoccupatevi, se la guerra finirà presto, vorrà dire che
non starò via molto e poi potremo riabbracciarci. Ora, però, devo proprio tornare dai miei compagni, mi aspettano».
La Brigata compie vari spostamenti, per sfuggire ai rastrellamenti dei nazifascisti, dapprima sul Monte Tesio, poi alle Coste di
S. Eusebio, quindi a Vallio, in località Gnere. Qui avviene il passaggio di consegne tra Umberto Ricci (Giorgio) e Baronchelli, che
torna ad essere il comandante del gruppo. Nella notte tra il 27 ed il 28 febbraio, quindici componenti della Brigata lasciano Gnere
e scendono a valle, tra questi c’è anche Ferruccio. Poco dopo le prime luci dell’alba raggiungono Provaglio Val Sabbia. Questo
comune ha una peculiarità, non esiste o meglio è un insieme di frazioni che si sono date come nome Provaglio. Le frazioni che lo
compongono sono: Cesane, Cedessano, Barnico, Marzago, Mastanico, Livrio ed Arveaco. E’ proprio in quest’ultima che trovano
rifugio, ospitati da uno degli abitanti.
Il 3 marzo, durante un normale pattugliamento, Baronchelli ferma un giovane e gli chiede i documenti, questi gli dice d’essere uno
sbandato come loro, un disertore della RSI e gli mostra la tessera, sulla quale mancano i timbri degli ultimi tre mesi. Tutti i militi
fascisti erano in possesso di una tessera bilingue, italiano–tedesco, sulla quale venivano apposti i timbri mensili. Queste carte
di riconoscimento furono introdotte a partire dall’ottobre ‘44. Il giovane viene lasciato andare. Questo episodio imprimerà una
svolta negativa nella storia della 7a Brigata Matteotti. E’ si uno sbandato, il giovane fermato, ma mentalmente e non per motivi
collegati alla guerra. Questo incontro gli è servito per accertarsi dell’effettiva presenza di un gruppo di Partigiani, immediatamente avverte il comando della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana). In quel periodo, il 40° Battaglione era formato da oltre
250 uomini, dislocati tra Vestone, Lavenone, Gardone Val Trompia, Casto ed Anfo ed aveva la propria sede ad Idro. Come sovente
accade durante una guerra, non tutti la pensano alla stessa maniera, ma certamente è singolare trovare dalla parte avversa dei
Partigiani un prete. A differenza di don Collio, che li aiutava, il parroco di Provaglio, don Damiani, li perseguita e nella predica
domenicale li definisce «uccelli di bosco», mettendo in guardia i suoi parrocchiani. Il suo comportamento, che come vedremo in
seguito non può definirsi di certo da buon samaritano, a guerra finita gli costerà un lungo processo.
Nel pomeriggio di quel 3 marzo il gruppo si divide, una parte si dirige verso il crinale del Monte Besume, che domina tutta la
zona e l’altro, del quale fa parte Ferruccio, si attesta più in basso presso Livrio. Intanto i fascisti si stanno attivando per il rastrellamento. Partono alcune telefonate, una di queste viene intercettata dalla centralinista di Vestone, Piera Sardi, partigiana delle
Fiamme Verdi. La battuta delle camicie nere è prevista per il giorno dopo nella frazione di Arveaco. Avvertiti dalla centralinista,
dal comando delle Fiamme Verdi parte la staffetta Alfredo Poli, deve avvertire i Partigiani del pericolo imminente e di spostarsi.
Li raggiunge che ormai è notte fonda e decide di fermarsi a dormire. Il gruppo commette l’errore di pensare di poter passare la
notte in tranquillità ed allontanarsi con calma alle prime luci dell’alba. Un altro errore, probabilmente, l’avevano commesso nel
momento del loro arrivo a Provaglio, non avvertendo il comando del loro spostamento e non cercando un collegamento che li
rendesse “visibili”. Ancora una volta, quella voglia di fare da soli, li aveva messi in difficoltà. Questa volta, però, la difficoltà era
spaventosamente seria e preoccupante.
E’ ancora buio, anche dalla sommità del Besume non si riesce a vedere i colori dell’alba, una figura si muove per quelle stradine
è Ferruccio, che con un pentolino sta andando a prendere il latte. Era suo l’incarico del vettovagliamento della Brigata, anche
perché fra tutti era il più veloce. All’improvviso una raffica di mitra, Ferruccio è a terra ferito alla gamba. Subito i fascisti gli sono
addosso e lo catturano. Una seconda versione dell’accaduto, fornita da una delle sue nipoti, racconta che lui venne sorpreso dai
fascisti quando aveva già preso il latte e mentre stava tornando dai suoi compagni, nel tentativo di sfuggire all’agguato, si lacerò
la gamba cercando di scavalcare un reticolato.
Il rumore delle fucilate riecheggia tra le montagne, raggiungendo i suoi compagni appostati nel fienile al «Prat de Rüc», a Sereno
di Sopra. Immediato scatta l’allarme, Baronchelli ordina ad un gruppetto di 5 uomini di appostarsi qualche centinaio di metri
più in alto, per evitare un accerchiamento nemico. Questo sganciamento sarà la loro fortuna, in quanto non verranno implicati
negli scontri con i fascisti. Gli altri, infatti, vengono subito coinvolti in un duro conflitto a fuoco. Le proporzioni dei duellanti sono
impari. Da una parte 9 Partigiani, male equipaggiati e con poche munizioni, dall’altra, almeno 30 uomini, armati di tutto punto.
Intanto si è fatto giorno, le ombre hanno smesso di essere tali, il paese, i massi, le piante, sono rischiarate, i contorni sono divenuti
più nitidi. I due schieramenti si stanno ancora fronteggiando. La battaglia trova il suo epilogo. I Partigiani hanno esaurito le munizioni. E’ la fine. Da dietro i sassi, dove avevano trovato riparo, uno ad uno escono, alzando le mani in segno di resa. Tutti meno
uno, Domenico. Lui no. Non vuole farsi prendere vivo dalle camicie nere, sa che andrebbe incontro ad interrogatori duri, a terribili
torture. Meglio la morte, immediata. Inizia a correre e si lascia cadere in un dirupo. Incastrato tra le rocce è trafitto dalle raffiche
dei militi fascisti. Il suo corpo verrà ritrovato da alcuni abitanti qualche ora più tardi e sepolto nel cimitero di Livrio.
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Dopo aver subìto un primo pestaggio, ai 9 catturati viene promesso che avranno diritto ad un processo e non saranno fucilati
subito. Legati con le mani dietro la schiena vengono condotti a forza nel fondo valle. Ci sono circa 12 chilometri per giungere a
Barghe. Quando vi arrivano, vengono avvicinati da un fascista del posto, il quale offre un fiasco di vino alle camicie nere ed un
secchio di acqua e aceto ai prigionieri. Caricati su un autocarro, vengono portati a Casto. Qui ha luogo un primo processo. Oggi
abbiamo un’idea di processo dalla durata decennale, se non di più, il loro, invece è per “sveltissima”. Pochi minuti e viene emessa
la sentenza. Morte! Per la sua effettività serve ancora un’autorizzazione. Il viaggio non è ancora terminato, bisogna arrivare ad
Idro, alla sede della GNR. Durante lo spostamento subiscono qualsiasi tipo di violenza. Sembra, ma non c’è certezza di ciò, anche
se a riportarlo è un’altra delle sue nipoti, che Ferruccio venga legato dietro una motocicletta e portato in giro come un trofeo. Una
volta giunti a destinazione sono nuovamente interrogati, la domanda è sempre la stessa: «Dov’è il resto della Brigata?» Di contro
giungono solo i silenzi dei giovani. Ferruccio è il più bersagliato del gruppo, riceve un trattamento di “favore”. Secondo alcune
voci, tuttora circolanti a Montichiari, per estorcergli le informazioni, gli vengono tagliate le “piante” dei piedi e fatto camminare
sopra i ricci delle castagne. Quando il suo corpo verrà ritrovato, i suoi piedi risulteranno effettivamente lacerati.
Per mettere in atto il piano finale, cioè far sembrare l’esecuzione un normale scontro a fuoco, si decide di riportarli dove furono
catturati la mattina. Il documento ufficiale che attesta la loro morte, infatti, riporta la data ed il luogo della loro cattura: «Il giorno
4 corrente, nel corso di un combattimento con una banda di fuori legge nella zona di Livrio (Brescia), sono stati uccisi i seguenti banditi». Messi su un autocarro sono riportati a Barghe e qui scaricati per risalire a piedi fino a Livrio. La loro sembra una Via Crucis.
La speranza è che l’ultima stazione arrivi in fretta, perché ormai sono allo stremo delle forze. A piedi nudi, sotto le nerbate degli
aguzzini, vengono condotti per la strada sassosa che porta alla loro destinazione finale. I nove giovani non hanno più la forza di
continuare, in quelle condizioni è impossibile andare avanti, mancano ancora circa due ore prima di arrivare in cima. Tanto vale
farla finita qui e subito.
Hanno appena raggiunto l’abitato di Cesane, quando si lasciano cadere a terra stremati ed esausti. I militi tentano di farli rialzare con i calci dei mitra. Niente. Le camicie
nere perdono la calma, li prendono di peso e li tolgono dalla strada, portandoli nel
campo vicino, chiamato «Vestér». Li schiacciano contro un salice e, formato il plotone
d’esecuzione, li fucilano. Prima di morire, insieme, gridano «Viva l’Italia». Non tutti
muoiono sul colpo. Ci pensa il milite Giovanni Ostini a sparargli il colpo di grazia alla
testa. C’è una versione riguardante la morte di Ferruccio che non lo vede appoggiato
a quel salice. Data la sua impossibilità a camminare, egli era trasportato su una barella
e quindi venne ucciso a terra, con 5 colpi sparatigli in viso. Nei verbali degli interrogatori del processo a carico dei militi della GNR, svoltosi nel maggio 1945, nessuno ha
fatto menzione a questo particolare, anche se non è da escludere. La mezzanotte è
già scoccata da un po’, ormai siamo al 5 marzo. Il plotone si sfalda. Alcuni decidono di
portare la notizia a don Damiani, nella vicina Cedessano. Il prete è intimorito da quel
baccano notturno, ma viene rassicurato dai fascisti, anzi viene sollecitato ad aprire,
perché ci sono dei morti che vanno seppelliti, «Immediatamente e senza la celebrazione di alcuna funzione religiosa». Il campanile ha suonato le due ed il sacerdote scende
ad aprire la porta. Fatti accomodare, offre loro un paio di bottiglie di quello buono.
Rimangono un paio d’ore e poi anche loro se ne vanno.
La notizia del massacro dei 9 a Cesane, in poche ore arriva a coprire l’intero territorio
di Provaglio. Alcuni abitanti improvvisano delle barelle per trasportare i corpi fino alla
Pieve di Cedessano, da don Damiani. Il prete si affretta a dire loro che in chiesa non li vuole, li fa quindi “accatastare”, uno sopra
l’altro, in un’angusta stanza. Appresa la notizia, alcune donne si recano sul posto, per ripulire i corpi sfigurati e sanguinanti ed
ordinano al prete di tenere aperta quella “camera mortuaria”. Alcuni bambini che stanno andando a scuola, si fermano a deporre
un mazzetto di bucaneve.
Dal comando del 40° Battaglione arriva l’ordine al podestà di Provaglio: «I corpi vanno seppelliti in una fossa comune nel cimitero
di Cedessano, il più presto possibile». Le donne: Maria Boschi (Stella), Wanda Maresi (Mercedes) ed Elsa Pelizzari (Gloria), appreso
quanto sta per avvenire, preparano alcool, cotone, garze e bende, per ricomporre i corpi prima della sepoltura. Purtroppo il loro
intento fallisce, perché la mattina dopo, i fascisti sono già sul posto, hanno preso alcuni abitanti e gli hanno ordinato di scavare
una fossa nell’angolo di sinistra, appena dentro il piccolo camposanto. Vengono fatte due file, 5 sono deposti sotto e 4 sopra. Le
bare che erano state preparate, sono nascoste nella cappella. Saranno utilizzate il giorno della riesumazione, che avviene l’11
maggio. Ad ottenerla è il comandante della 7a Brigata, “Renato”. Quel giorno, per riconoscere i resti di Ferruccio, sono presenti
tre suoi zii: Luigi Tortelli, marito di Clara, Augusto Mor, marito di Rachele ed Alceste Vignoni.
La notizia della morte di Ferruccio, a Montichiari, era arrivata un venerdì, portata dalle voci raccolte al mercato. “Io ero fuori –
ricorda un suo nipote – quando arrivai a casa, verso mezzogiorno, dalla strada sentivo le grida ed i pianti delle donne, una volta
entrato seppi della tragica fine dello zio”. Il triste compito del riconoscimento tocca ad Alceste, tra i tre è quello che lo conosce
meglio. Il corpo è già in avanzato stato di decomposizione, lo zio lo riconosce dalla caratteristica ondulazione dei capelli. Oltre ai
piedi martoriati, mancano anche tutte le unghie delle mani, strappate dai carnefici durante gli interrogatori.
Ferruccio Vignoni viene deposto nella bara n° 1, come riporta il verbale del sindaco Giuseppe Girelli: «L’anno millenovecentoquarantacinque addì undici del mese di Maggio in Provaglio V.S. (…) si è proceduto alla esumazione delle salme dei gloriosi Martiri Patrioti
barbaramente uccisi, nel decorso mese di marzo, dai sicari fascisti». La bara viene portata a spalla dai Partigiani e deposta su un autocarro, messo a disposizione dal comune di Montichiari. Nel nostro paese verrà celebrato il funerale e quindi il corpo di Ferruccio
sarà tumulato nel cimitero cittadino, dove riposa tuttora.
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Fin da subito, il salice nel campo di Cesane diviene meta di pellegrinaggio. Gente che va a rendere omaggio a quei 9 sfortunati ragazzi,
ammazzati a soli 50 giorni dalla Liberazione. Parti del tronco di quel
salice, ora si trovano in due musei. Uno, nel Museo della Resistenza
di Forno d’Ono, l’altro, nel Museo Storico A. Bianchi di Montichiari. Al posto del salice, già nel 1945, fu collocato un cippo, recante
i nomi dei caduti. Nel 1949, tutta Provaglio, si mobilita per la costruzione della “Chiesetta della Resistenza”, eretta sulla sommità
del Besume, i bambini avranno il compito di portare i “coppi”. Nel
1967, grazie ad alcune associazioni combattentistiche e ad alcuni
antifascisti, si decide di erigere un monumento ai Partigiani della
7a Brigata Matteotti. L’opera è dello scultore Moretti di Rezzato. Vi
è raffigurato un Partigiano che impugna la fiaccola della Libertà, accesa dal sacrificio dei 10 giovani patrioti caduti: Amilcare Baronchelli di Carpenedolo, anni 23; Arnoldo Bellini di Roè Volciano, anni 23;
Teodoro Capponi di Gavardo, anni 19; Bruno Cocca di Prandaglio, Cesane: Cippo ai caduti della 7a Brigata Matteotti
anni 20; Luigi Cocca di Prandaglio, anni 19; Pierre Lanoy di Bruxelles
(Belgio), anni 26; Alfredo Poli di Vobarno, anni 18; Gaetano Resa di
Catania, anni 20; Domenico Signori di Roè Volciano, anni 25; Ferruccio Vignoni di Montichiari, anni 21.
Ferruccio, come gli altri, saranno insigniti della Croce di Guerra al Valor Militare alla “memoria”, con la seguente motivazione:
«Rimasto accerchiato con il proprio reparto nel corso di un duro rastrellamento avversario si batteva eroicamente anziché tentare la
fuga, fino all’esaurimento delle munizioni. Catturato, torturato e condannato a morte, cadeva per la Libertà della Patria». Cesane
(Provaglio Val Sabbia) 4 marzo 1945.
La sera del 3 aprile 2013, i componenti dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Montichiari, dedicano la sezione
locale alla memoria di questo giovane monteclarense che, di fronte alla scelta più difficile della sua vita, decise di “parteggiare”
per la Libertà.
Cosa ci lascia il gesto compiuto da quei ragazzi? Cosa volevano dirci con quella loro “scelta” fatta più di 70 anni fa? Basta guardare
la foto per capire cosa ci hanno lasciato, il “nostro” Ferruccio ed i tanti Ferruccio sparsi per l’Italia. La piccola giostra in primo piano, rappresenta la rinascita di una nuova vita, grazie alla quale i bambini hanno potuto tornare a giocare e a divertirsi, il cippo in
lontananza è come una sentinella protettrice, osserva ed ascolta le loro voci gioiose.
Il futuro sognato ed il passato che l’ha costruito.
Le notizie riguardanti l’eccidio dei Partigiani della 7a Brigata Matteotti, sono tratte da: «L’eclissi della ragione», a cura della Comunità Montana Valle Sabbia.
Monumento al Partigiano, eretto a Cesane di
Provaglio Val Sabbia
Parte del basamento del Monumento al Partigiano
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Il valore dei martiri
L’infamia dei carnefici
La memoria di chi resta
Nel ricordo di tutti i fratelli che sacrificarono le loro vite sull’altare della libertà conquistata.
edito da [email protected]
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Opuscolo - Comune di Montichiari