Provenienza: il testo è elaborato dal Laboratorio teologico Massa
e Meriba, di cui Amilcare è un animatore. Stampato pro-manuscripto
a Bra (CN), nel febbraio 1984.
CREDERE
NEL TEMPO DEL
SILENZIO
Laboratorio teologico Massa e Meriba
Prefazione
La riflessione teologica di queste pagine si colloca come approfondimento dei temi della
nostra ricerca, già precedentemente abbozzati nell'opuscolo RADICALITA' DI UNA FEDE
POVERA », ediz. Tempi di Fraternità.
Abbiamo proseguito su questa pista che comunque ci offriva sollecitazioni ad una
riflessione insolita, anche stimolati da segnali di interesse e attesa che abbiamo recepito da
lettori diversi. In particolare ci riferiamo al VI Convegno nazionale delle Comunità di Base
di ottobre-novembre '82, dove le nostre ipotesi hanno trovato udienza, attenzione, consensi e
critiche stimolanti.
Il punto di partenza è, ancora, l'esperienza quotidiana su cui riflettere e da cui partire per
costruire un discorso teologico aperto, privo di pretese definitive.
Non deve stupire una certa discontinuità nel tono e nel taglio dei capitoli; essi non vanno
letti come tappe in successione, bensì come spazi di riflessione nati in momenti diversi o
elaborati da persone diverse. Si avvicendano infatti testi di più chiara connotazione
esistenziale, altri di specifico impegno biblico, altri ancora con più marcato carattere
antropologico o sociologico.
Siamo persuasi che proposte di riflessioni teologiche di questo genere non incontrino un
diffuso consenso; ciononostante abbiamo la speranza di far emergere risonanze, forse
proprio laddove il religioso si mantiene nell'inespresso.
Laboratorio Teologico Massa e Meriba (*)
(*) Alcuni amici delle Comunità di base ci hanno fatto notare l'ambiguità che avrebbe
comportato la nostra precedente denominazione (gruppo di ricerca teologica del Piemonte
e della Lombardia): noi non abbiamo mai preteso di rappresentare la ricerca teologica di
Piemonte e Lombardia (!). Abbiamo comunque cambiato la nostra sigla non per avvalorare
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questa tesi, ma per rendere lo stile «artigianale» del nostro lavoro, ricongiungendoci alla
tappa iniziale della nostra storia di cui tuttora riconosciamo il senso.
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Indice
Prefazione
1) ESPERIENZE DI FEDE
Il senso di una memoria
I giorni corti
2) DENTRO IL SILENZIO
3) VERSO IL SILENZIO TEOLOGICO
4) SILENZIO E FEDE
5) IL SIMBOLICO RELIGIOSO
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Esperienze di fede
IL SENSO DI UNA MEMORIA
Procedendo nel nostro cammino di ricerca sul tema della fede povera, abbiamo
sperimentato alcuni passaggi che hanno deter-minato una continua verifica all'interno della
nostra vita comunitaria.
La crisi della religione ci ha portato alla consapevolezza di essere in una situazione
oscura, di fronte ad un destino comune . a credenti e non credenti di assenza di Dio dal
mondo.
Si tratta dunque di vivere davanti a Dio pur sperimentando la sua inutilità, per poterlo
poi ritrovare sotto il segno della gratuità.
Conseguentemente la religione, sia intesa come autoglorificazione dell'uomo sia
interpretata come fuga dal mondo o vissuta come merce di scambio, mostra la sua
incapacità a rispondere alle domande di senso.
Ma questo vuoto lasciato dalla parola religione deve essere colmato da una nuova
parola umana e politica che parli, nei fatti, di solidarietà e di liberazione e che cerchi una
preghiera fatta di silenzio e di ascolto.
In questa prospettiva continua ad avere senso parlare di comunità.
In verità noi tutti siamo debitori ad una comunità, sia per quanto riguarda il dono
della fede sia per quanto riguarda vari altri aspetti della nostra vita, delle nostre idee, del
nostro assetto morale e sentimentale.
E certamente qualsiasi espressione di fede non può che fare i conti con una
dimensione comunitaria, per ragioni storiche, per coerenza biblica, per esigenze individuali.
La passione di Cristo e la sua resurrezione richiedono testimoni che trasmettano tale
ricordo, che rinnovino, nella vita, quel gesto e ritrovino il coraggio di spezzare ancora il
pane insieme.
A questo punto si impongono alcune serie considerazioni:
— In primo luogo l'umanità intera è destinataria della spoliazione di Dio in Cristo, ed il
mondo è il luogo dove la croce di Cristo, segno supremo di abbandono e di solitudine, è
stata piantata.
— La natura, proprio questa natura così sconquassata dalla crisi ecologica e dal rischio di
catastrofe nucleare, questa natura a cui siamo indissolubilmente legati, è il luogo dove si
radica il percorso di una storia fatta di croce e di resurrezione: la croce che incombe su ogni
progetto ottimistico come duro richiamo al non-ancora e come consapevolezza delle
sofferenze che sono in ciascuno di noi... la resurrezione come apertura alla speranza, già
presente in forma di anticipazione, come le doglie di un parto di cui parla la Scrittura,
nell'attesa di cieli nuovi e terre nuove.
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— La solidarietà con l'uomo e con il mondo, la capacità di stabilire un nuovo rapporto con
le cose e con i sentimenti, la volontà di vincere l'ingiustizia e la possibilità di vibrare di gioia
davanti a nuove sensazioni sono il terreno comunitario, su cui giocare la propria esistenza e
scoprire nuovi linguaggi, in un alternarsi continuo di speranze e sconfitte, di fiducia e di
disperazione.
A partire da questa sofferta ma vitale solidarietà matura l'esigenza di un confronto più
stretto tra i testimoni del Risorto; ma sono sempre l'umanità ed il mondo a fissare i confini e
a stabilire gli obbiettivi delle successive esperienze.
— Una comunità, dunque, intesa come luogo dove fermarsi per un confronto e non come un
comodo rifugio in cui nascondersi, un'occasione di verifica e non un fulcro fervente di
nuove conversioni, una parentesi di fiducia per i dubbiosi e non un'infallibile fortezza di
sicuri.
— Un gruppo in ricerca che non si pone obbiettivi a lungo termine, ma che accetta di vivere
nella quotidianità derivando la propria spiritualità dal confronto con l'uomo della strada e
facendo della terra la materia dei propri gesti sacramentali.
— Una comunità del pane spezzato e della fede povera, fatta di gente al confine, non una
chiesa al centro del mondo e custode del Libro.
— Una comunità che non assolve, ma che è in grado di vivere accanto ai propri fallimenti,
che non innalza steccati morali, ma accompagna con gioia ogni piccolo passo.
— Una comunità che non ha paura di piangere, né teme di sorridere o cantare, una comunità
dove l'attesa del Regno non si tra-duce in ansia spasmodica, ma in coraggio e
consapevolezza del proprio limite.
I GIORNI CORTI
Forse le culture della catastrofe imminente (atomica - ecologica - altro) esprimono
una porzione non piccola dell'angoscia del futuro nell'eventualità, non già dello scomparire,
ma del sopravvivere.
Noi, come credenti, stiamo facendo un'esperienza in qualche modo simile: la
catastrofe per noi non è un evento imminente, ma un continuo, una condizione durevole in
cui siamo drammaticamente immersi.
La perdita della chiarezza del senso e della direzione del progetto ci fa, e fa di tanti
altri uomini e donne del nostro tempo, ospiti dell'esperienza del «nulla». II mondo delle cose
quotidiane e della storia in grande è perduto come armonia razionale, o come spazio aperto
ad impegni coerenti di lunga gittata; una presenza di Dio capace di orientare ed illuminare
scelte, significati e valori ci sembra rarefatta e inoperante; quanto gli uomini vanno proponendo, rischiando, creando, è frutto di intuizioni e di esperienze non maturate
nell'esperienza religiosa, e mostra comunque i segni della precarietà.
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Una fede sempre più povera, nel senso che è sempre meno spendibile e meno
riconoscibile in termini di coerenza culturale e sociale, si fa anche sempre più difficilmente
esprimibile e comunicabile.
Abbiamo scelto di assumere come credenti, senza illusioni, questa condizione di
notte oscura, disposti a rielaborarla con onesta lucidità, consapevoli che essa ci accomuna a
molte altre persone che, pur restando estranee alle forme comunicative e sociali
dell'esperienza religiosa, non lo sono alla domanda implicita di fede e senso globale.
La notte oscura di chi non riscontra più la presenza o l'intervento di Dio nella sua vita
personale o comunitaria, coincide paradossalmente con una luce abbagliante, la luce cruda
del mezzogiorno che denuda le cose.
Essa cioè porta a massima chiarezza la condizione di insignificanza ultima dei
sistemi ordinati e organizzati con cui fa i conti la nostra razionalità quotidiana (lavoro,
scienza, salute, socialità eccetera).
Essa svela le trappole e le insidie anche di quelle volontà di incontro e di
comunicazione che sembrano puntare alla pienezza e alla profondità della relazione
interpersonale (linguaggi, vita di coppia - di gruppo).
Essa frantuma sicurezza sulla vita e sulla morte e ci restituisce l'immagine disgregata
e frammentaria di una nuova e incerta sensibilità religiosa; si tratta di una dimensione
terrestre: sa aprirsi al senso del limite, ma si rifiuta di riconoscerlo nei termini della
perfezione da raggiungere o dell'ideale che si giustappone alla concretezza dell'esperienza
reale.
Terrestrità significa perciò assumere il corpo come il luogo della nostra finitezza,
ambigua e contrastante, come il linguaggio in cui si impone il qualitativo, la modalità
personale.
E il corpo ti riempie il presente; i suoi ritmi inceppano quelli del lavoro e del
consumo, che erodono impietosamente il nostro quotidiano.
In quest'ottica anche la morte ti si annuncia come ricchezza: ci si ritrova più forti e
sereni quando si riesce a non occultarne l'incombenza nel nostro cammino e in quello di chi
ci sta accanto.
La si riconosce nemica e insieme amica in tante nostre morti parziali, stimolo a
ridimensionarci e a rielaborare con intensità progetti e possessi; non se ne baratta il senso
con illusorie proiezioni nell'eterno.
Il dopo e l'altrove restano una domanda che, proprio perché aperta angosciosamente
sul nulla, dà significato all'affidarsi incerto alla Promessa.
Terrestrità è fare spazio alle differenze: riconoscere, cioè, che le espressioni più
autentiche dei modi di essere di ciascuno sono irriducibili a criteri, modelli, forme di
comprensione di qualsivoglia razionalità, anche dialettica; non possono che essere accettate.
Terrestrità è prendere sul serio le situazioni aperte, tempi brevi e interrotti, le
dimensioni di rischiosa eventualità, di cui è insidiata ormai quasi ogni nostra scelta
quotidiana (quanto facciamo potrebbe anche essere sempre tutto diverso) : lì diventa
davvero difficile codificare valori e significati; lì il bene e il male non esistono se non
confusamente intrecciati; ma, in queste condizioni, si libera e si fa palese negli eventi quella
misura di imprevedibilità che annuncia il limite e l'ulteriore.
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L'ambivalenza di gioco tirannico e di dono gratuito contrassegna queste esperienze, e
non si lascia imprigionare in definizioni, si condensa piuttosto in un silenzio ora smarrito,
ora allusivo, ora pregnante.
Porre allora il dato non confondibile del nostro voler comunque parlare di Dio
significa porre in preventivo che, in luogo di discorsi coerenti, disciplinati da regole di
verità e correttezza già date, fecondi nel commentare o nell'amplificare il già detto, si faccia
posto a una pratica di riflessione e di comunicazione discontinua:
— più che costruire intese o dipanare argomenti, si acconsente a stati di esperienza, — al
che fare si sostituisce il come stare: finalmente si incontra Dio coscientemente solo là dove
stanno gli uomini, i cui percorsi si affiancano, si incrociano, e anche si ignorano...
—Il ricorso all'immagine, alla metafora, a termini allusivi e magari poetici diventa una
risorsa, ma non smette di- presentare limiti specifici: tiranna e iniqua l'immagine simbolica
ti prende assai più di una enunciazione, ma non sa e non vuole essere univoca, quindi non si
presta ad argomentazioni e forse, nei momenti di maggiore difficoltà comunicativa, esprime
proprio la crisi del dialogo, che è sempre stato ritenuto la culla della verità.
—Ma in fondo anche la teologia, in questa prospettiva, assume consapevolmente il dato
comune a tante altre pratiche comunicative: non è il quanto e il che cosa si dice che
costituisce messaggio, ma l'atto per cui si riprende la parola su questo, il proporsi come
soggetti ancora parlanti.
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Dentro il silenzio
Ogni tanto succede che le parole sembrano perdere vigore e si riducono ad armi
spuntate, incapaci di aggredire la realtà che circonda l'uomo. Ogni tanto l'universo
comunicativo si mostra paurosamente come un semplice complesso convenzionale che vale
per una sola giornata, dove una cosa si chiama così ma potrebbe anche chiamarsi in un
modo diverso. Allora la parola si svigorisce e invece di collegare attivamente l'uomo con il
mondo che lo circonda, lo confonde in un gioco magico, dove le cose anziché presentarsi si
nascondono dietro la parola che le nomina.
Ma non si tratta di un semplice inghippo di comunicazione né si tratta di una
semplice inflazione del valore delle parole. Si tratta di una rottura dell'uomo nei confronti
del mondo, nei confronti dei valori e nei confronti di se stesso.
La parola codifica un rapporto ed essa tanto più vale quanto più il rapporto è solido,
sicuro, garantito, privo di ambiguità. Quando questo rapporto entra in crisi la parola diventa
un contratto vecchio, un abito fuori moda, un orpello che viene mantenuto solo per
convenienza sociale, per evitare il caos anarchico degli inizi.
Ecco: la crisi della parola è la crisi della collocazione esistenziale dell'uomo, quando
l'uomo non sa più bene chi è, quando non capisce più bene il mondo che Io circonda e
quando non sa più definire in un modo partecipato i grandi e i piccoli valori della vita.
Credo che più o meno sia proprio questa la situazione media dell'uomo occidentale
dopo la reale caduta delle ideologie — che custodiscono i valori della vita individuale e
sociale —, dopo che il mondo fisico e politico è tornato ad essere un enigma ambiguo e
minaccioso e dopo che — anche per conseguenza dei due punti precedenti — l'uomo è
tornato ad essere uno che deve gestire se stesso come un estraneo, come si gestisce uno
straniero che parla un'altra lingua, non del tutto sconosciuta ma neppur perfettamente
posseduta.
Definiamo questa situazione storica con il termine silenzio, volendo indicare sia la
rottura comunicativa descritta, sia un conseguente atteggiamento antropologico che
dobbiamo illustrare. Qui allora silenzio non è un semplice vuoto, una nuda assenza, uno
spazio senza confini: esso è una posizione esistenziale, è una situazione di vita a suo modo
carica e impegnativa.
Silenzio è un altro modo di comunicare con le cose e con le persone: un comunicare
che non prende la via della parola, ma quella degli occhi e delle mani.
Silenzio è una comunicazione recettiva, è un interrogarsi da capo dopo il fallimento
delle parole esaustive.
Silenzio è un atteggiamento disincantato eppure poetico, un tornar bambini con la
maturità di un vecchio.
Silenzio è una esistenza purificata dalle verbosità e dalle illusioni esorcizzanti.
Silenzio è saper godere di istanti pieni, aperti all'accadere delle cose.
Ma il silenzio è anche la verità dell'uomo come creatura che appunto non crea ma
trova le cose già create, è la verità dell'uomo come essere finito e consegnato in tutto e per
tutto al limite e alla morte.
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Questa verità sull'uomo, prima di essere una verità filosofica o mistica, prima di
essere in qualche modo una bella verità, è oggi una dura verità storica, una necessità che si
impone alla coscienza intellettualmente onesta: quando non si ha nulla da dire bisogna
tacere. Il silenzio di cui parliamo ci si è innanzitutto imposto come impotenza storica che in
questo momento abbiamo dovuto subire. Prima di essere una scelta esistenziale il silenzio ci
sembra un dovere storico verso la verità.
Non tutti accettano il silenzio.
Molti continuano a ripetere le cose vecchie e lo fanno con tanta forza che riescono ad
autoconvincersi che si tratta di cose nuove, mai udite.
Altri continuano a ripetere cose meno vecchie ma ugualmente obsolete e lo fanno
perché non possono accettare di essere ridotti alla stessa impotenza dei tradizionali che
combattono.
Il silenzio è la posizione esistenziale che chiede maggior coraggio; quelli che non lo
reggono hanno bisogno di agitare continuamente le acque in modo da non poter guardare in
faccia la nuda verità di se stessi: sono più deboli pur mantenendo posizioni di forza.
I poveri e gli indifesi conoscono da sempre questo silenzio, per esservi a volte stati
costretti loro malgrado: anche per questo essi sono beati (Mt. 5,3) e anche per questo
l'umana verità si è rifugiata presso di loro (I. Silone).
Eppure in questa verità storica che si impone c'è lo spazio per qualcosa di nuovo che
avverrà dopo, che avverrà tra un po', forse dopo di noi.
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Verso il silenzio teologico
Nel silenzio antropologico descritto si colloca il silenzio teologico di cui vogliamo
parlare: l'incapacità a nominare Dio è insieme il risultato e la causa dell'incapacità a
nominare se stessi e il mondo.
Che l'uomo ne sia o no cosciente la crisi della comunicazione è una sola e coinvolge
nello stesso tempo il rapporto con il mondo, il rapporto con se stessi e il rapporto con i
valori e/o con Dio.
1. L'impotenza e l'inflazione della teologia
Nonostante l'apparente vivacità della teologia post-conciliare e nonostante il pullulare di una
ricerca teologica in molti gruppi di base, riteniamo di trovarci in una stagione di decadenza
teologica.
—L'uomo della strada non ha più riferimenti religiosi nel senso che non riesce a collegare la
sua esistenza a valori e a significati in qualche maniera transtorici. Per quanto persista, e
anzi paradossalmente si accentui un bisogno di parole sostanziali e vere proprio sul terreno
della trascendenza, la crisi della cultura attuale si rende più evidente che altrove nel
vanificarsi del linguaggio teologico.
Anche l'uomo della pratica religiosa sembra non attingere dal suo comportamento una
ragione di vita. Tanto meno ciò può avvenire per la società nel suo insieme, dato che non ha
più punti di riferimento religioso in comune.
—L'impotenza della parola teologica appare più evidente nella struttura religiosa, proprio
perché essa è per consuetudine il luogo privilegiato della parola religiosa, sia nel bene che
nel male.
Da alcuni anni nessuna parola significativa e valida sui problemi emergenti e drammatici
della società attuale viene più da questo pulpito, che mantiene solo la maestosità di un
monumento storico.
—Il vecchio discorso della morte di Dio non è stato altro che una delle prime espressioni
dell'aporia a pensare e a parlare di Dio. «In un modo o nell'altro la morte di Dio era per la
teologia un partner oggettivo del colloquio. Successivamente però divenne una moda. E non
pochi teologi che cominciarono a vergognarsi sempre più del loro compito, usarono qūesta
espressione come una specie di foglia di fico dietro a cui nascondere la nudità della propria
teologia» (E. Júngel, Dio mistero del mondo, Brescia 1982, pag. 76).
Secondo molti studiosi l'esperienza religiosa fondamentale che l'uomo compie oggi è
l'esperienza dell'assenza di Dio e questo conferma il discorso che andiamo facendo: si veda
tra l'altro l'ipotesi di B. Welte in La luce del nulla, Brescia 1983.
— Successivamente a quest'epoca teologica, infatti, la crisi teologica si manifesta nella
molteplicità delle cosiddette teologie del genitivo (teologia della speranza, del mondo, della
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liberazione ecc.) che non indica una ricchezza, ma esprime l'incapacità a dire una a dire una
parola che valga e duri più di una stagione culturale.
Ulteriore prova di questa sonnolenza teologica (E. Júngel, o.c., pag. 67) è la
massiccia importazione, da parte della teologia ufficiale e dei gruppi di base della teologia
latino-americana. Analogamente si continua a importare esperienze religiose principalmente
dall'Oriente,ma anche da altre parti del mondo.
2. Alcune considerazioni sulla crisi teologica
Il mondo ha fatto l'esperienza della non-necessità di Dio: è a partire da qui che la
teologia e la religione sono apparse come insignificanti, come non utilizzabili in alcun
modo.
Per farci capire dobbiamo aprire un ampio discorso sulla natura della teologia.
— Ogni teologia che abbia ignorato il suo condizionamento antropologico ha finito per
usare Dio in modalità e strutture che oggi siamo in grado di demistificare.
E' normale che la teologia sia comunque e sempre una proiezione del modo con cui
l'uomo si comprende.
Anormale sarebbe eventualmente una ingenua, indiscriminata proiezione di
contingenze storiche precarie.
Nella nostra situazione storica, dominata e invasa dal valore di scambio, si è finito
col proiettare e con l'assolutizzare in Dio il valore di scambio.
In questo circuito l'onnipotenza di Dio non è altro che l'aspirazione dell'uomo a
essere onnipotente e a superare la sua finitudine.
L'uomo, da sempre, non riuscendo a conciliarsi col proprio limite (la morte), tenta
continuamente di trovare un luogo simbolico dove questo limite viene cancellato e superato.
Tra parentesi, l'onnipotenza di Dio appare invece anche come un'imperfezione: un
Dio incapace di amare e di soffrire sembra essere più povero dell'ultimo uomo.
Con questo non intendiamo porre una stretta correlazione tra amore e sofferenza,
anche se ci sembra che amare sia comunque un farsi carico delle situazioni dell'altro.
— A partire da questa legge fondamentale che regola la relazione tra antropologia e teologia
deriva il sistema religioso, che nella nostra cultura finisce con l'essere un sistema economico
di scam-bio. Un atto religioso serve a ottenere un bene spirituale.
Il punto centrale di questa transazione economico-religiosa è il sacrificio. Essendo
infatti il rapporto tra uomo e Dio completa-mente disuguale e mai pareggiabile con
prestazioni religiose, solo il sacrificio di se stessi (anche se simbolico) appare come il
prezzo adeguato per poter superare il proprio limite. E d'altra parte il superamento del limite
merita un costo così alto.
La struttura religiosa può allora sintetizzare questo scambio simbolico collocando il
sacrificio in modalità, tempi e luoghi precisi: la religione è l'apparato amministrativoierocratico e burocratico del sacro (cfr. F. Ferrarotti, Il paradosso del sacro, Bari 1983, pag.
49 e altrove).
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Ci sembra invece che la crisi teologica descritta sia riconducibile proprio alla fine
della possibilità dello scambio religioso: si sgretola in modo sempre più vistoso nella
mentalità dei nostri contemporanei l'illusione che la transazione religiosa possa essere
operante, valida ed efficace.
3. Riflettendo più a fondo
La merce dello scambio religioso non si limita alle banalità quotidiane (la candela per
superare un esame!), ma coinvolge i pilastri fondamentali della persona e della società: il
potere e la morte.
— «... in realtà il potere è tale soltanto se può indurre gli uomini ad uccidere e a farsi
uccidere. Qualsiasi istituzione che sia in grado di spingere gli uomini ad affrontare la morte,
propria ed altrui è un potere che trascende gli individui, e la forza trascendente la trova
proprio nella sua connessione col sacro. Non è un caso se i poteri che non si camuffano, che
non si nascondono, che si autoproclamano tali, come le dittature, instaurano subito a proprio
simbolo la condanna a morte di stato. Questa è soltanto la dimostrazione che non usano
simboli che non siano anche visibilmente concreti. Ma ogni potere è tale perché riesce a
spingere alla morte» (I. Magli, Gesù di Nazareth - Tabù e trasgressione, pag. 130, Milano
1982).
— Ogni potere è tale veramente solo se sa fare i conti con la morte e se ci ancora alla morte
come al suo sostentamento. D'altra parte la religione sorge e si mantiene per la sua
possibilità di affrontare la morte. La religione trova il suo specifico nel dominare la morte e
la paura: la morte viene tolta all'umano e rinviata a una sfera soprannaturale. Da qui il
conseguente nesso tra religione e potere: entrambi hanno il loro punto d'incontro nella
gestione della morte.
Ne consegue che ogni potere tende a sposare la religione e ogni religione s'invaghisce
del potere.
— Ma come si articola oggi questa dinamica in una situazione di esaurimento dello scambio
religioso?
In tale situazione gli uomini non reggono il pensiero di essere destinati alla morte.
Perciò si diffonde un occultamento della morte come tragica storia personale. Di contro
viene ostentatamente, attraverso i mass-media, celebrata la Morte; ma quale? Quella
generale, collettiva, catastrofica, di fronte alla quale il soggetto è impotente e
deresponsabilizzato. Su queste immagini simbolico-sacrali (vedi uso ideologico del rischio
atomico, vicenda del terrorismo, ...) il potere politico gioca il suo rafforzamento,
appropriandosi di un campo lasciato libero dalla tutela religiosa senza tuttavia riuscire a
surrogarne il senso.
4. «Mangerai l'erba campestre» (Gen. 3.18)
Volendo tirare alcune provvisorie conclusioni al discorso che andiamo facendo, ci
sembra di dover chiaramente affermare la necessità di assumere la descritta crisi teologica
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come punto. di partenza per una nuova elaborazione religiosa. Siamo contrari sia
all'occultamento della crisi sia al maldestro tentativo di riportarsi a monte di questa stagione
storica, per farsi illuminare dai tempi medievali.
Siamo però coscienti che c'è in .qualche modo un persistere della religione come
luogo dove il soggetto trova un riconoscimento sociale e come momento di ricerca di valori
comuni: operazione del tutto comprensibile in questa situazione storica, per molti addirittura
necessaria sempre e comunque.
D'altra parte c'è anche un persistere del rito religioso come rito effimero e
consumistico.
— Se invece assumiamo il silenzio teologico come terreno esistenziale da cui partire,
pensiamo si debba:
• parlare di Dio con le parole comuni, quelle di tutti i giorni e di tutte le azioni;
• tradurlo senza neppure nominarlo, nella carne dei problemi quotidiani.
Questa è la logica conseguenza del fatto che Dio esuli completamente dal valore di
scambio.
In altre parole questo significa dare dignità teologica al discorso laico.
—Bisogna allora pensare alla teologia non come scienza intellettuale che sfonda il mistero,
ma come scienza mistica che indica solo come ci si possa rapportare al mistero di Dio:
teologia come scienza pratica, come strumento della comunità, come scienza di tutti.
Si tratta di una teologia pratica, morale, mistica: «di Dio non si può parlare, ma a Dio
si può parlare» (Martin Buber).
—C'è anche il rovescio della medaglia: una nuova e vera laicità pone anche un'inversione
antropologica e metodologica. Si tratta anche di dare dignità laica al discorso teologico.
Nel silenzio religioso la teologia non può essere che un altro parlare dell'uomo e della
sua avventura: come sempre del resto!
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Silenzio e fede
Nel campo religioso il silenzio non è nessuna posizione religiosa. Non è neppure un
silenzio religioso, come un mero vuoto dettato dal semplice non sapere che sconfina nel non
mi interessa di sapere. Invece il silenzio è a suo modo una posizione religiosa.
Se il silenzio antropologico è un interrogarsi da capo, perché le vecchie parole non
servono più e se l'atteggiamento dell'ascolto è la quintessenza dell'uomo religioso, allora è
facile capire come il silenzio di cui andiamo parlando sia una precisa posizione religiosa.
Il silenzio non uccide la speranza, ma la custodisce e la nutre perché possa fiorire.
Ma procediamo con ordine.
1. Silenzio come rottura
Ciò che è mancato al nostro tentativo di cambiare le cose nel campo religioso è stata
l'assenza di una rottura che ci permettesse di porre una distanza creatrice tra il vecchio che
volevamo contestare e il nuovo che volevamo progettare. Senza questa distanza — meglio:
senza una sospensione! — siamo rimasti una dinamica interna, una componente del sistema,
perfino un appoggio, tutto sommato importante, alla conservazione del vecchio.
Ciò che noi non abbiamo capito si impone, per fortuna, nelle masse, senza la guida di
alcuno.
Eppure non vi è crescita religiosa che non sia scandita da rotture profonde: la crescita
religiosa non è un processo evolutivo graduale, è un processo che avanza per rotture
— Il deserto è l'immagine obbligata di questa rottura e di questo silenzio: ogni cammino
religioso lo dovrebbe attraversare. Per la bibbia il deserto è la scuola religiosa fondamentale
sia per il popolo (esodo) sia per il singolo (il profeta), tanto che gli scrittori neotestamentari
ci hanno mandato — forzando palesemente la storia — anche Gesù, che non poteva
laurearsi profeta senza di questo.
Ma il deserto è un'esperienza pesante: non si esce mai come si era entrati. In questo
senso non è uno stadio che arrivi a tempo opportuno, ma una rottura violenta, durante la
quale si rimpiange la pur misera tranquillità precedente («Nel deserto tutta la comunità degli
Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: "Fossimo morti
per mano del Signore nel paese d'Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della
carne, mangiando pane a sazietà!"» Esodo 16, 2-3).
II deserto è l'azzeramento dell'esperienza religiosa precedente, per la scoperta di una
nuova divinità: nel deserto Mosè scopre il nome di Dio (Es. 3, 13-15) e riceve la nuova
legge (Es. 20, 1-21).
—«Allora uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi ed Egli mi disse: "Va' e
rinchiuditi in casa. Ed ecco, figlio dell'uomo, ti saranno messe addosso delle funi, sarai
legato e non potrai più uscire in mezzo a loro. Ti farò aderire la lingua al palato e resterai
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muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genia di ribelli»
(Ezechiele 3, 24-27).
E ancora: »Com'è vero ch'io vivo, non mi lascerò consultare da voi. Oracolo del
Signore Dio» (Ezechiele 20,3).
Al di là del genere letterario del rimprovero e del castigo, qui viene messa in atto una
tecnica speciale che forse ha un'importanza teologica decisiva: Dio si ritira nel silenzio per
incontrare l'uomo.
Cessando di essere un comodo rifugio il silenzio diventa il luogo della suprema
aggressione, il luogo dell'aggressione del Silenzio verso l'uomo in silenzio!
Qui il silenzio non è la fine della comunicazione (la fine dell'oracolo) ma un luogo
teologico che rompendo un rito religioso crea uno spazio nuovo per l'uomo e per Dio.
«Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose
avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempieranno a loro tempo»
(Lc. 1, 20).
Zaccaria per affacciarsi, anche solo di striscio, alla nuova realtà che irrompe nella
storia ha bisogno di un periodo di gestazione, affinché nasca anche in lui qualcosa. Il suo
lungo essere muto partorirà il canto del Benedictus, dove l'esperienza storica del vecchio
testamento si consegna e si inchina agli eventi del nuovo testamento. Ed è grazie a questo
forzato silenzio che Zaccaria può trapassare dal vecchio al nuovo testamento; è grazie a
questa rottura durata solo nove mesi che egli può mettere simbolicamente i piedi nella
nuova situazione salvifica.
Gli esempi potrebbero continuare, ma l'importante sta nel cogliere una specie di
legge teologica essenziale: il divino si sperimenta in fasi discontinue e non omogenee tra
loro, separate da una rottura che abbiamo chiamato silenzio. II divino che muove queste
diverse fasi non è un dato che si comprende sempre meglio, ma è una novità creatrice che si
ripropone ogni volta come nuova.
Tutta la storia della mistica cristiana non è forse trapassata in continuità da queste
rotture-silenzio? Non esistono, proprio in questa tradizione, infiniti nomi diversi per
chiamare o definire questo semplice fatto del silenzio, dove impotenza e distruzione si
annunciano assieme a un'attesa e a una speranza?
Nella tradizione storica cristiana l'esperienza della notte oscura segna il passaggio dal
sacro al mistico, ossia il passaggio da una religione piena di parole-riti-gesti-codificazioni a
un rapporto diverso con il divino, che si libera da questi strumenti per rivestirsi di silenzio.
2. Silenzio come maturità religiosa
A differenza della religione — la quale rimane costituzionalmente pervasa dalla legge
dello scambio, con la tendenza ad occultare la morte nell'orientarsi e nell'impossessarsi dei
divino — il silenzio introduce una dinamica completamente opposta.
Nel silenzio si abbandona la pretesa religiosa, proprio mentre si abbandona l'uso e la
fiducia negli strumenti religiosi: il silenzio è prima di tutto silenzio religioso, assenza di
pratiche, inutilità di tutte quelle cose che riempiono la vita religiosa più esemplare.
Il silenzio non aggredisce il divino, ma caso mai tenta di ascoltarlo e di contemplarlo,
senza invischiarlo nelle leggi del reale, quotidiano o politico che sia.
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Il silenzio gestisce, se così si può dire, l'esperienza mistica, quell'esperienza che si
annuncia dopo — e solo dopo! — l'adolescenza religiosa, che è invece pienamente il tempo
delle parole religiose.
Vediamo anche qui di fare qualche esemplificazione che chiarisca l'intuizione di fondo.
— «Dopo queste cose ad Abramo fu portata questa notizia: "Ecco Milca ha partorito figli a
Nacor tuo fratello"» (Gen. 22, 20). Queste cose sono immediatamente la prova religiosa che
Abramo subisce sul monte Moria con l'invito a uccidere il figlio !sacco. Ma queste cose
sono anche tutta l'esperienza religiosa che ci sta dietro, sono la vita religiosa di Abramo,
segnata sempre e continuamente dalla parola di Dio: dalla prima chiamata (cap. 12), alla
promessa dell'alleanza (cap. 15), alla disputa sulla situazione di Sodoma (cap. 19) e fino
all'invito di sacrificare !sacco. Fino a questo punto la vita di Abramo è stata la più bella vita
religiosa che si possa pensare, una specie di idillio amoroso, tessuto di incontri numerosi e
confidenziali.
Ma da qui in poi le cose cambiano completamente: «Fu dopo queste parole che
Abramo si chiuse nel silenzio verticale e che Dio lo accompagnò in tale silenzio. Fu dopo
queste parole che Abramo, l'inventore della parola, scelse e ottenne il silenzio per dedicarsi
all'opera» (A. Neher, L'esilio della parola, Torino 1983, pag. 201).
Dopo queste cose inizia una storia profana, una storia laica: la bella notizia che viene
dopo queste cose è che «Milca ha partorito». Inizia qui una storia carnale, fatta di amori, di
donne, di discendenti, di liti e di eredità.
La laicità matura è lo spazio liberato dalla parola religiosa. Il tempo della religione,
come tempo della parola, è il tempo delle prove: l'esperienza di Abramo lo conferma. Anche
per questo il tempo della parola religiosa è il tempo della crescita, ma la maturità sta altrove.
La vita di Abramo che viene dopo queste cose è una vita priva della parola di Dio e
avvolta nel silenzio religioso. In questa seconda fase della sua vita Abramo vive solitario e
si nutre del suo proprio silenzio, cui fa eco il silenzio di Dio, ma da lontano, da spettatore
esterno al dramma silenzioso di Abramo.
— «Che parte mi assegna Dio di lassù e che porzione mi assegna l'Onnipotente dall'alto?
Non forse la rovina riservata all'iniquo e la sventura per chi compie il male?» (Gb. 31, 2-3).
«lo grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta» (Gb. 30 20).
In modo ugualmente drammatico avviene l'evoluzione religiosa di Giobbe: egli
constata sulla propria pelle che lo scambio religioso non funziona. A un agire onesto non
corrisponde infatti un essere benedetti da Dio, nel senso di conseguire una certa felicità e/o
tranquillità.
Per di più, quando crede di potersene lamentare si accorge che l'Interlocutore tace:
Giobbe è così ridotto al silenzio in un modo forzato e sembra che la lezione sia troppo dura
per conseguire un qualche positivo risultato.
Ma Giobbe passa dal suo complicato mondo religioso a un silenzio duro e ostinato,
che lo pianta per terra e gli dà una maggiore dignità secolare.
Questa parabola di Giobbe è indubbiamente molto vicina alla esperienza religiosa
moderna!
Per comprendere fino in fondo la lezione di Giobbe bisogna pensare che l'ultima
parte di questo libro (i discorsi di Jahve con la successiva risposta di Giobbe da 38,1 a 42,6)
è stata probabilmente aggiunta, in un secondo tempo, da alcuni teologi che ritenevano il
racconto di Giobbe troppo avanzato, un po' scandaloso o comunque un attacco pesante alla
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struttura religiosa (e avevano indubbiamente ragione!). Senza questa aggiunta l'avventura di
Giobbe terminerebbe nel silenzio religioso, imposto a forza a un uomo disincantato e adulto.
L'ipotesi dell'aggiunta ha una certa fondatezza critica in quanto, tra l'altro, i discorsi di Jahve
in questione non rispondono in alcun modo alle domande poste nella parte centrale del
racconto da parte di Giobbe.
—«Ecco, Sono ben piccino: che ti posso rispondere?
Mi metto la mano sulla bocca.
Ho parlato una volta, ma non replicherò,
ho parlato due volte, ma non continuerò» (Gb. 40,4-5).
Nella seconda parte del libro di Giobbe — nella parte aggiunta in un secondo tempo
secondo l'ipotesi che abbiamo formulato — compare un altro Giobbe, che giunge
ugualmente al silenzio, anche se si tratta di un silenzio più riverente e più accettabile. Si
tratta di un silenzio che ha scoperto la distanza che separa Dio dall'uomo e che ha,
soprattutto, scoperto l'ingenuità infantile della parola religiosa.
«Ho parlato... ma non continuerò», come dire «capisco che è stato un errore di gioventù! ».
Anche qui la maturità è segnata dal silenzio, un silenzio che sostituisce e supera le parole
dell'adolescenza religiosa.
—Forse, ma qui i dubbi sono veramente molti, qualcosa di simile a un intoppo di
comunicazione è avvenuto anche nella seconda parte della vita di Mosè, di quel Mosè di cui
la Bibbia scrive che «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il
Signore parlava faccia a faccia...» (Deut. 34, 10).
La seconda parte della sua vita, e in particolare la sua morte, sono circondate dal
mistero, al punto che Freud può ipotizzare che sia stato ucciso da quello stesso popolo che
egli aveva liberato dalla schiavitù egiziana.
A parte questo, sembra certo che il rapporto tra questo gigante religioso e il suo Dio
si sia incrinato: a partire da un certo punto si spegne il loro dialogo.
Infatti il divieto di entrare nella terra promessa si rifà ad un supposto incidente, non
completamente chiarito dagli esegeti. II fatto che possediamo due spiegazioni diverse di
questo incidente (l'episodio di Massa e Meriba in Nm. 20, 10 e la colpa collettiva in Dt. 1,
37) ci autorizza a pensare che si cerchino giustificazioni plausibili per qualcosa che non si
vuoi dire apertamente.
—Certamente questo tema trova conferma e sviluppo anche nell'esperienza e nella
testimonianza dell'uomo Gesù.
Della portata della sua crisi religiosa parleremo più avanti e più estesamente.
3. Silenzio religioso come vocazione dell'umanità
—«La Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre che noi continuiamo ad
occuparci di voci celesti» (I nostri maestri insegnavano, Brescia 1983, pag. 85).
In questo quadro l'uomo abbandonato dalla presenza sacra della divinità può e deve
procedere autonomamente. Alla sua opera di trasformare il mondo e al compito dignitoso di
vivere la propria vita, con tutto quello che questo comporta, egli è necessariamente
aggiogato da solo. L'accettazione dell'opera significa per l'uomo la piena assunzione della
17
sua responsabilità. «La legge dell'autentico dialogo esige che quando uno dei partners
risponde, l'altro taccia. La responsabilità dell'uomo comporta così, mediante il gioco quasi
automatico del dialogo, il silenzio di Dio» (A. Neher, o.c., pag. 198).
— «II Messia, insegna Maimonide, dopo aver radunato gli esiliati in Israele sulla Terra
santa e stabilito la pace nel mondo, morirà della morte naturale di ogni uomo e, dopo di lui,
il mondo continuerà a vivere secondo le leggi naturali della sua storia».
L'utopia ebraica, rifiutandosi di essere illuminata da una parola dell'aldilà, chiede di
realizzarsi nel silenzio della solitudine umana. Per questa utopia la morte di Dio non è solo
un'ipotesi possibile, ma in certo qual modo una necessità. Qui non importa tanto dare a
questo silenzio lo sbocco delle teologie della morte di Dio quanto esplorare l'ipotesi
teologica di un rapporto con Dio completamente diverso da quello gestito dalla religione.
— Non sta forse emergendo — con tutti i contraccolpi del caso — nel vecchio mondo
occidentale un'assenza religiosa che non è semplicisticamente riconducibile a una forma
strisciante di materialismo ateo, ma contiene in nuce un rapporto qualitativamente diverso
con il divino? Si ricordi che il silenzio religioso non è un vuoto religioso, ma è una precisa
posizione religiosa.
Quella che è finora rimasta un'esperienza di pochi privilegiati, i quali attraverso la
notte oscura sono giunti a un'esperienza mistica dei tutto libera dai paludamenti religiosi,
può forse diventare, con modalità ovviamente diverse, fenomeno culturale raggiunto da
molti.
Con buona pace di tutti i sociologi schierati pro o contro l'eclissi del sacro bisogna
ricordare che l'avvenimento del secolo in materia religiosa sta nell'esplosione dell'ateismo di
massa.
Non si può negare che il cristianesimo stesso spinga proprio verso la posizione del
silenzio secondo alcune sue dinamiche interne che sono tutt'altro che secondarie o
marginali. E' pensabile che anche altre religioni ottengano presto risultati analoghi.
Non è necessario pensare che sia questa l'ultima tappa dell'umanità, è sufficiente
riuscire a capire il nostro tempo!
4. Conseguenti modificazioni antropologiche
Può essere utile schizzare brevemente la tipologia di questo credente nel tempo del
silenzio, se non altro per esemplificare il discorso che andiamo facendo e per renderlo in
qualche modo più concreto.
—L'uomo del silenzio religioso è un uomo laico, nel senso migliore della parola: laico come
libero dalla religione e non semplicemente sottilmente prevenuto contro di essa.
La laicità non è uno stato naturale, si nasce «naturalmente» religiosi, coma la storia
dell'umanità insegna, e se si fa una buona esperienza religiosa si diventa laici.
La laicità autentica è il frutto più maturo della religione. La laicità è anch'essa
un'esperienza globale del reale e della vita.
La presunta laicità si autodistrugge mentre si pone come tesi che nega il divino:
l'affermazione e la negazione (teismo e ateismo) ruotano attorno al medesimo punto.
18
— L'uomo del silenzio religioso è un uomo che accetta la morte, contro tutte le religioni e le
para-religioni che sorgono per negare la morte. Accettando la morte quest'uomo si attacca
responsabilmente e autonomamente al presente, visto come l'unica possibilità che gli è data.
—L'uomo del silenzio religioso è massimamente tollerante, perché non ha nessuna missione
da compiere, non ha alcuna verità da difendere: le religioni sono la prima divisione
dell'umanità e forse la più profonda.
19
Il simbolico religioso
I Gesù come epifania di Dio
La nostra ricerca di Dio e su Dio non può che rifarsi a un luogo storico che si chiama
Gesù: la nostra teologia non può essere che cristologica.
Questo nostro rifarci a Gesù non deve però essere inteso come una scappatoia
fideistica, come se avessimo un'uscita di sicurezza dalle dinamiche di proiezione e un
surrogato alle illusioni ideologiche.
Rifarsi a Gesù è invece da una parte tornare alle radici storiche della nostra fede e
dall'altra rimanere ancorati, come vedremo, ad un evento-silenzio.
1. Non ci sembra il caso di ritornare su un'ipotesi, per altro già affermata e già ampiamente
documentata perfino nella teologia tradizionale, se non in modo molto schematico per dare i
riferimenti essenziali del nostro discorso.
L'ipotesi è che Gesù abbia voluto decisamente rompere con la religione sacrificale di
scambio e che nella sua persona sia quindi apparsa la fine della religione.
Questa interpretazione si fonda su numerosi testi e, in sintesi, su una visione globale
dei fatti e dei detti di Gesù.
Basti qui citarne, a mo' d'esempio, solo alcuni:
a) la rottura di Gesù con il suo maestro Giovanni Battista, rottura che si evidenzia nel
concetto di Dio (giudice per Giovanni, «padre» per Gesù) e nel concetto di comunità
(comunità di puri per Giovanni, comunità aperta e dilatata all'intera umanità per Gesù) ;
b) la polemica (si veda per esempio il capitolo Il di Marco e i luoghi paralleli) sul perdono
dei peccati, sul digiuno, sull'osservanza e sul significato del sabato, elementi questi che
costituiscono assieme l'ossatura della religione in quanto tale;
c) l'insegnamento di Gesù che prende di mira e stravolge l'impianto religioso dello scambio.
Si veda:
—la lezione sui peccati nella chiamata di Matteo e nel successivo pasto con peccatori:
«Vennero molti esattori di tasse e peccatori pubblici e si misero a tavola con lui» (Mt. 9, 913)
— la parabola degli operai mandati all'ultima ora nella vigna, dove gli ultimi ricevono la
stessa ricompensa dei lavoratori della prima ora (Mt. 20, 1-16) ;
—la diatriba del figlio maggiore - immagine della religione ebraica e della religione in
quanto tale - con il padre nella parabola del figliuol prodigo: «Ma quello gli rispose: Ecco,
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da tanti anni io ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi desti mai
neppure un capretto per far festa con i miei amici. Ma appena tornato cotesto tuo figlio che
ha mangiato tutti i tuoi beni con le prostitute, hai ammazzato per lui il vitello ingrassato»
(Lc. 15, 25-32) ;
— la radicale inversione delle posizioni religiose nella parabola del fariseo e del pubblicano,
che rappresenta il nuovo credente a cui Gesù fa riferimento: il fariseo si ritiene giusto per le
opere che ha compiuto, mentre il pubblicano, da peccatore, tenta un rapporto con Dio (Lc.
18,9-14).
2. La fine di questa religione non fu solo un discorso, ma diventò per Gesù stesso
un'esperienza consumata nella propria persona.
Il rapporto di Gesù con il padre non può essere un rapporto efficientistico che
produca miracoli spettacolari: magistrali a questo proposito sono le tre «tentazioni» riportate
dalla tradizione sinottica:
— «Se sei figlio di Dio, comanda a queste pietre che diventino pane»
— «Se sei figlio di Dio, gettati giù...»
— «Tutto questo io te lo darò, se ti getti ai miei piedi e mi adori» (Mt. 4, 1-11 e paralleli).
Un simile rapporto, basato in fondo sul ricatto, viene classificato come diabolico.
Nei momenti più tragici della sua vita Gesù non può contare su quel Dio che pur
chiama suo padre: la crisi che sta dietro il racconto del Getsemani («Abbà, padre! Tutto è
possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi
tu», Mc. 14, 36) prova questo in modo esistenzialmente inequivocabile
Di fronte alla sua stessa morte Gesù non può «utilizzare» Dio, neppure per riempire
di senso il suo morire.
Illuminanti sono le insinuazioni dei beffeggiatori: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo
riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!... Ha salvato altri, non può
salvar se stesso! Il Cristo, il Re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e
crediamo» (Mc. 15, 29-32).
Gesù invece sembra avere piena coscienza di essere abbandonato da Dio proprio
mentre muore: «Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc. 15,34).
Il racconto di Marco della morte di Gesù appariva così intollerabile, che le successive
redazioni dei Vangeli ne hanno in diverso modo corretto l'immagine.
3. Se prendiamo la croce non solo come fatto personale di Gesù, ma come evento di una
manifestazione di Dio, abbiamo la proclamazione dell'impotenza e del silenzio di Dio.
Paradossalmente la croce è il prezzo della gratuità di un Dio che si colloca tragica-mente
oltre l'ambito religioso dello scambio: nella croce si annienta il Dio della religione per
lasciare il posto a un Dio gratuito che si fa sconfiggere dalla morte.
La croce è così l'ultima «parola» di Dio, una parola che non viene pronunciata, ma si
consuma nel silenzio, perché tutte le possibili parole sono qui inadeguate: il fatto della croce
sorpassa e annulla la parola.
21
II. Il discorso religioso delle prime comunità
Ma la croce-silenzio non è stata la fine di tutto: alcuni uomini/donne sono partiti
proprio da qui per costruire un rapporto diverso con Dio. Anche queste prime esperienze di
fede appartengono ai testi del Nuovo Testamento e fanno corpo unico con l'epifania di Dio
in Gesù.
1. Teologicamente la croce è la fine della religione:
«il velo del tempio si squarciò in due, dall’ «alto in basso» (Mc. 15, 3 )
Ma davanti a un Dio crocifisso si può credere in un modo diverso:
«Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse:
"veramente quest'uomo era Figlio di Dio!"» (Mc. 15, 39).
E' in questa prospettiva che nascono e si muovono alcune delle prime comunità.
2. La controprova storica che il messaggio di Gesù, sintetizzato nell'evento della croce, sia
da interpretare come un superamento qualitativo del mondo religioso è oggettivamente data
dalla con-seguente rottura del nascente cristianesimo con la religione ebraica.
La ben nota polemica che si evidenzia attorno alla figura di Paolo, già a partire dal
48-49, contiene tra le altre cose sicura-mente anche questa impossibilità a una coesistenza
pacifica.
In seguito, come si sa, lo stesso cristianesimo prese altre direzioni, ma questa è
un'altra questione.
3. Per queste comunità cristiane la conversione culmina quasi sempre in un «ritorno» che
spezza il sogno evasivo e glorioso del sacro, per ricondurre alla terrestrità più sorda, fatta
quasi sempre da piccole cose normali.
«Torna a casa tua e racconta quello che Dio ti ha fatto» (Lc. 8, 39).
«Alzati, prendi la tua brandina e vai a casa» (Mt. 9, 6).
I discepoli di Emmaus, dopo la sfolgorante visione mistica, ritornano in fretta a
quella Gerusalemme che volevano abbandonare per la delusione subitavi (Lc. 24, 33).
E ancora: nell'esperienza mistica della trasfigurazione («Maestro, è bello per noi stare
qui... Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano presi dallo spavento» Mc. 9, 5-6) Gesù
deve ricondurre i discepoli alla realtà della sua morte imminente.
Ma forse la lezione più esplicita è ancor quella di Luca nel racconto mitico
dell'ascensione, dove gli angeli rimproverano gli attoniti discepoli: «Uomini di Galilea,
perché state a guardare il cielo?» (Atti, 1, 10-11T
In conclusione ci sembra che la nuova fede, che nasce di fronte alla croce, non può
essere una illusione proiettiva dell'onnipotenza umana.
In questa fede siamo subito ridimensionati, ricondotti alla nostra morte, riconsegnati
a una vita che deve essere vissuta in autonomia e in libertà.
III. Di fronte a Dio
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Dopo aver ripercorso brevemente il segmento storico di Gesù, come luogo
privilegiato nella nostra tradizione per una ricerca su Dio, vogliamo ora affrontare il
problema di Dio nella nostra situazione storica, per concludere con qualche possibile
indicazione costruttiva.
Abbiamo già detto prima che vi è sempre uno stretto rapporto tra teologia (immagine
di Dio) e antropologia, come autocomprensione che l'uomo ha di se stesso.
Abbiamo anche accennato che in questa speculare corrispondenza sono da evitare
due estremi:
a) Da una parte bisogna evitare una ingenua e acritica proiezione, per cui l'uomo trasferisce
in modo meccanico e rozzo le sue aspi-razioni e frustrazioni nella simbolica religiosa.
Può essere questo il pericolo corso dalla tradizione cattolica.
b) Dall'altra parte bisogna evitare una sofisticata presunzione, ugualmente acritica, e non
realistica, secondo la quale sarebbe possibile pensare il divino a prescindere da ogni
immagine antropologica. II divino, secondo questa posizione, irromperebbe autonomamente
nella storia con caratteri separabili e puri nel marasma del cammino storico dell'umanità.
E' forse questo il pericolo corso, proprio per contrapporsi alla corrente cattolica, dalla
riforma protestante che isola e assolutizza la Parola biblica, come luogo specifico e unico
della manifestazione di Dio.
La nostra posizione si colloca in uno spazio intermedio: bisogna cioè essere coscienti
che un tipo di proiezione è da una parte ineliminabile e dall'altra deve essere portato a un
livello critico riflesso.
1. Dio come mistero o la funzione della religione
In questa impostazione pensiamo che l'immaginario religioso debba — forse sempre, ma
soprattutto oggi — essere un elemento di rottura all'interno del costante tentativo di
chiudere in modo sistematico e consumisticamente riposato il cerchio
dell'autocomprensione umana. Il divino, in ragione del suo essere altro, è il luogo dove mi
riconosco (necessaria proiezione) e insieme è il luogo che mi sollecita sempre (necessaria
rottura).
In altre parole: il mistero di Dio custodisce il mistero dell'uomo ed esso solo lo
conserva proprio come mistero.
E' questo il compito che potrebbe svolgere una religione liberata.
Nella sua finitudine e nella coscienza dei suoi limiti l'uomo cerca continuamente se
stesso cercando Dio: l'assenza di Dio innesca un meccanismo di ricerca antropologica.
Già il salmo esprimeva questi pensieri:
«Le lacrime sono mio pane giorno e notte,
mentre mi dicono sempre: "dov'è il tuo Dio?"» (42, 4).
Questo compito del mistero di Dio risulta di particolare attualità nella crisi odierna
del pensiero occidentale:
«Siamo stati abituati a pensare che tutti i problemi siano tecnicamente solubili, che
sia sufficiente conoscere la formula e applicarla. Ma i problemi propriamente umani non
sono solubili una volta per tutte. Sono tensioni permanenti. Esigono sospensione epocale,
ascolto, accettazione, attesa. Esigono in altre parole un atteggiamento religioso. L'homo
religiosus non è l'uomo di una chiesa; è l'uomo dell'ascolto e dell'attesa; ha due capacità
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pressoché infinite di attendere che si manifesti l'essere...» (F. Ferrarotti, Il paradosso del
sacro, Laterza 1983, pag. 103).
La crisi ripropone il problema religioso come problema che non può essere
dogmaticamente risolto, ma con cui dobbiamo imparare a coesistere.
Per questo le chiese, che si ritengono depositarie di verità assolute, sono in assoluto
ritardo perché si pongono al di là della possibilità di entrare in crisi. Anzi,
«II paradosso è che la religione organizzata è intimamente dissacrante e che
l'esperienza pura del sacro anche nel suo rapporto con il divino, è bloccata, invece che
aiutata dalla ierocrazia religiosa» (F. Ferrarotti, op. cit., pag. 53).
O, per dirla con un altro autore:
«II diavolo è la verità che non viene mai presa dal dubbio» (U. Eco, Il nome della
rosa, Bompiani 1980, pag. 481).
2. Dio come «gratuità»
Se proviamo a spogliare Dio del valore di scambio, la seconda immagine
significativa che ci viene in mente è la gratuità.
Dio è pensabile come il gratuito, che sta oltre la dinamica dello scambio che
attanaglia l'essere finito dei nostri giorni.
In questo senso Dio rappresenta un altro ordine, una sorpresa rispetto all'esistente,
una scommessa: è qualcosa di totalmente altro e di assolutamente diverso.
Il segno della sua presenza o il seme della sua stagione è, nell'esistere umano, quello
che si chiama l'amore con le ovvie e necessarie demistificazioni psicologiche.
3. Dio come possibile
Nell'ordine del gratuito Dio può essere, può avvenire, può accadere: non appartiene
alla dinamica del necessario, come causa ed effetto, ma alla dinamica del possibile.
Non appartiene alla legge cosmologica della fondazione di senso, ma alla logica di
un'altra possibile pienezza, una pienezza non completamente capricciosa perché in qualche
modo presente come aspirazione infinita dello stesso amore umano.
II sogno c'è ancora, ma è un altro sogno: «Dio diventa Dio quando le creature dicono
Dio» (maestro Eckart).
4. Dio come presenza-assenza
L'immagine della gratuità si correla a un binomio dialettica-mente scaltro, ma
ugualmente illuminante: quello della presenza-assenza.
Dio è un'assenza che si fa presente proprio come tale: un'assenza di cui si parla
perché percepita come assenza. Facciamo esperienza di Dio, facendo l'esperienza del nulla a
cui siamo esposti e con il quale tentiamo invano di riconciliarci nell'accettazione della
morte.
«Perciò ci mettiamo a porre questioni ultime sul senso ultimo e sul fondamento
ultimo della nostra esistenza. A queste non troviamo però una risposta, e siamo circondati
24
soltanto dall'oscurità. Proprio questa è la situazione e proprio questa è 'l'esperienza
religiosa... Non si deve dimenticare che fare esperienza del nulla è diverso dal non fare
alcuna esperienza. Chi fa esperienza del nulla fa veramente un'esperienza, cioè incontra
qualcosa che lo colpisce, lo sconvolge e lo trasforma» (B. Welte, La luce del nulla,
Queriniana 1983, pagg. 31 e 37).
Ci sembra che questo binomio (presenza-assenza) sia, sotto altri termini, una polarità
fondamentale della vita di Gesù: da una parte sente Dio come una presenza paterna (anzi è
questa la sua peculiare novità nella tradizione religiosa del suo tempo, si veda la tradizione
relativa al Padre Nostro) , dall'altra Gesù testimonia pesantemente l'assenza di questa
paternità nei momenti cruciali della sua vita, quali quelli correlati con la sua morte.
5. Dio non è tutto per l'uomo
L uomo ha molte altre cose da fare oltre che pensare a Dio!
Dio stesso sembra volere questa autonomia dell'uomo e sembra volersi riservare una
certa solitudine. E' l'uomo che probabilmente non riesce ad accettarsi come spazio finito e
non protetto sempre dal divino.
6. Dio come silenziosa compagnia
In questa prospettiva Dio si annuncia come compagnia silenziosa che sta accanto all'uomo e
all'uomo peccatore, ossia religiosamente libero dall'illusione di potersi giustificare.
«Mentre Gesù stava a mensa in casa di lui, molti pubblicani e peccatori si misero a
mensa insieme a Gesù» (Mc. 2, 15).
La moltiplicazione dei pani, lungo il deserto della storia, è il simbolo privilegiato
della presenza di Dio.
Questo tema, sempre legato in qualche modo al banchetto eucaristico, è
ripetutamente sottolineato dalle moltiplicazioni dei pani nei sinottici, dalla cosiddetta
istituzione dell'Eucarestia, dal banchetto dei discepoli di Emmaus.
Ed è addirittura il tema della conclusione finale della storia. Si veda la parabola del
banchetto finale: «Andate dunque agli in-croci delle strade e chiamate alle nozze quanti
troverete» (Mt. 22, 1-10), e il miracolo di Cana: «Tutti servono il. vino migliore all'inizio, e
quando gli invitati sono alticci il meno buono: e tu invece hai conservato il migliore sino ad
ora» (Giov. 2, 1-12).
In quest'ultima parabola la compagnia di Dio sembra esplodere in una consumazione
gioiosa e perfino goliardica.
Ma questo non è il tempo della storia: per ora la compagnia di Dio è molto discreta!
7. Le diverse immagini o il politeismo
La molteplicità delle immagini che nella stessa tradizione cristiana hanno delineato,
lungo i secoli, la figura di Dio, ci autorizza a crearne altre.
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In particolare si potrebbe vedere nella stessa codificazione trinitaria — dogma
fondamentale del cristianesimo — un tentativo, neppure tanto sottile, di mettere insieme
diverse immagini di Dio.
E qui le immagini implicate svolgono un ruolo proprio di presenza-assenza: il Padre
salvaguardia l’alterità o l'assenza, lo Spirito è invece la presenza sepolta nel cuore del
singolo e della storia, il Figlio è sia il risultato che il luogo epifanico di questa dinamica di
occultamento e di manifestazione.
La stessa cosa si potrebbe dire anche per tutte le religioni non cristiane: le simboliche
utilizzate tendono a evidenziare una poliformità del divino. Ma nello stesso tempo puntano
tutte verso la sottolineatura di un mistero interessante, anzi il più interessante, per la vita
dell'uomo.
Ogni segno contiene indubbiamente una verità: i segni sono la sola cosa di cui l'uomo
dispone per orientarsi nel mondo. Ma non è possibile organizzare i segni in un sistema
teologico capace di catturare il divino.
«Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» (conclusione finale del romanzo
citato di U. Eco).
DICEMBRE 1983
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