Il Bosco degli Eroi
Arte, Natura e Storia sul campo di battaglia
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Presentazione
In copertina: La tomba di un soldato austroungarico a
Malga Cima – Massiccio del Grappa (Museo Fotografico
della Grande Guerra “Eugenio Secco” - Seren del
Grappa)
I testi sono stati curati e scelti da Marco Rech
Avendo la presente “pubblicazione” unicamente scopo
didattico, i testi riportati sull’opuscolo e sulle tabelle del
percorso Il Bosco degli Eroi sono da ritenersi ad uso
antologia “educativa”.
È una novità respirare un modo nuovo di fare la Storia. Di
solito i libri ci parlano di fatti e di numeri. Questa volta chi si
è dato da fare a pensare qualcosa di nuovo (Dante e Marco
Rech, Beppino Lorenzet, Costantino Scopel e Stefano Lezzi)
ha tracciato un nuovo “sentiero” di sensazioni. Lungo un
itinerario di 9 chilometri ci verranno offerti spunti per “sentire”
la necessità della pace nel ricordo di chi è caduto su questa
montagna, in questi boschi.
Col tempo si completeranno le idee che spaziano dall’arte
della scultura, alla letteratura, alla botanica. “isole” di
meditazione, immersi nella natura, con sculture in legno,
tabelle con poesie da leggere e aree botaniche con fiori rossi
o con cespugli che producono bacche rosse. Tutto servirà a
riflettere e, speriamo, si possa completare il percorso.
Ringrazio quanti ci offrono questa nuova possibilità di godere
della natura.
Il Sindaco di Seren del Grappa
Loris Scopel
L’impaginazione e l’impostazione grafica sono a cura di
Daniela Prigol.
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Prefazione
Quando si parla della Grande Guerra e delle guerre in
generale, si è portati a mitizzare i contenuti ideali, senza tener
presenti i sentimenti e le paure dei semplici soldati, spinti sui
campi di battaglia da obblighi dettati da forze superiori. Questo
Bosco degli Eroi altro non è che il tentativo di sfatare i miti
creati per mettere a tacere le coscienze e le voci “stonate”
che operano fuori dal contesto tessuto da politici, filosofi,
anche da poeti ed eroi con la e minuscola. Qui è Eroe colui
che ha i sentimenti del bravo ragazzo, del padre di famiglia,
dell’operatore di pace che, preferisce farsi colpire piuttosto di
uccidere chi gli sta di fronte.
I fiori vermigli del monte, che fioriscono su quelle che furono
tombe di centinaia, di migliaia di combattenti, ci ricordino
queste persone mandate a morire su monti brulli, coperti di
neve, senz’acqua e senza comodità, soli contro le mitragliatrici
e i cannoni.
Cerchiamo di avere per loro un ricordo di affetto, un pensiero
che dia pace a noi e a loro. Che non siano morti invano!
Marco Rech
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Il Bosco degli Eroi
Sono stato qui
La guerra passa e normalmente non ci si sofferma a meditare
sul fatto che tanti giovani sono morti sul campo di battaglia.
L’Amministrazione Comunale ha pensato di dedicare un
percorso - un intreccio di Arte, Natura e Storia - al tema della
guerra, considerata in un’ottica di pace. Il percorso ad anello,
che si sviluppa per 9 km, toccando luoghi significativi, tra
le trincee italiane e quelle austroungariche, sui luoghi dove
combatterono, morirono e furono sepolti migliaia di sfortunati
soldati dell’uno e dell’altro fronte. Il tracciato, nel bosco, segue
la mulattiera Cadorna per diramarsi lungo sentieri di guerra
Si è cominciato con l’iniziativa di coinvolgere artisti del legno
per rappresentare il loro “Bosco degli Eroi”, con l’intendimento
di continuare negli anni ad aggiungere Opere.
Il tracciato verrà corredato di piccole tabelle, recanti scritti e
poesie di autori di tutti i tempi, che parlano dell’Eroe e della
guerra sotto vari punti di vista, in una meditazione di pace.
Tutto servirà a riflettere, mentre si gode la natura circostante.
Notevole è anche l’idea di sfruttare le piante autoctone
che recano fiori o bacche rosse, raccogliendole in “aiuole
botaniche” quasi a rammentare il sangue che ha bagnato
questa terra di pascoli carsici.
Come a Bergen Belsen, anche qui, ai piedi del Grappa,
qualcuno ha scritto parole per noi… parole di sofferenza,
parole di chi si è sentito come un numero scandito ad alta
voce dalla vecchia signora con la falce; parole per scrivere i
desideri degli uomini semplici, parole di chi vuole la pace ed
un pensiero:
«Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia».
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Il logo
Beppino Lorenzet, in un attimo, ha raccolto e fatto sue le
idee discusse assieme, a proposito di Bosco degli Eroi,
raccogliendo in un disegno numerose impressioni. Il rosso
dei fiori ricorda il sangue di tanti caduti e feriti; il reticolato
richiama il sacrificio e le difficoltà della guerra e a poco a
poco si fa croce sulla fossa dei giovani morti sotto i colpi della
mitragliatrice; la penna è un invito a noi tutti a raccontare la
sofferenza patita da tanti in questo Bosco. Ovunque troviamo
scritto, in natura: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la
mia storia”.
Noi NON vogliamo dimenticare e racconteremo.
Gli Artisti del 1° Simposio del Bosco degli Eroi
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Andrea Gaspari
Nato a Cortina d’Ampezzo (Belluno) il 9 giugno 1961. Laurea
in Scienze Forestali all’Università di Padova, intraprende ,
l’attività di scultore professionista, seguendo le orme del padre
e iniziando come da tradizione a scolpire il legno.
Trasferitosi in Brianza, inizia a collaborare con diversi
laboratori per realizzazioni di scenografie per spettacoli teatrali
o intervenendo in attrazioni di parchi divertimenti.
Sue realizzazioni si trovano nei principali parchi divertimento in
Italia e in Europa (Mirabilandia –Ravenna - Gardaland - lago
di Garda - Canevaworld e Mister Movie park - Zoopark Le
Cornelle, acquapark Aquaneva, acquapark Le Vele - Tibidabo Barcellona - Eurodisneyland - Parigi).
Responsabile del reparto scultura per la realizzazione di tutte
le parti scultoree del castello principale di Eurodisneyland a
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Parigi, intraprende la carriera di freeland, offrendo la propria
opera a parchi divertimento, teatri (Ultime collaborazioni: La
Scala e Piccolo Teatro - Milano - Teatro Sociale - Rovigo);
collabora con ditte di allestimento stand.
Produce sculture con diversi materiali (legno, cemento,
polistirolo, vetroresina, neve e ghiaccio e perfino cioccolato.)
È presidente dell’Associazione Italiana Sculture in Neve e
Ghiaccio.
Partecipa e organizza concorsi di scultura in neve da circa 25
anni.
Beppino Lorenzet
Nasce a Mel nel 1955. Inizia la carriera di scultore nel 1980,
formandosi, incontrando grandi artisti quali Augusto Murer.
Ha frequentato vari corsi di scultura, entrando in contatto con
realtà culturali ed artistiche internazionali, arricchendo la sua
forma espressiva.
Ha partecipato a decine di concorsi nazionali ed internazionali
e sue opere sono state esposte in Europa, Stati Uniti, Brasile,
Giappone. La produzione tocca gli oggetti più svariati,
passando dagli angeli ai diavoli, dalle ballerine a volti trafitti
sofferenti.
Negli ultimi tempi trascura il tutto tondo dedicandosi con
impegno al basso e altorilievo in grandi dimensioni. I lavori, in
noce, olmo, cirmolo, castagno, lasciano emergere personaggi
unici. Estro e fantasia, luci ed ombre fanno respirare di vita
propria le sue opere.
Notevole è la produzione religiosa improntata ad un’analisi
approfondita delle figure ricche di sentire.
A coronamento della sua attività, il Lorenzet ha conseguito vari
riconoscimenti, quali il 1° premio al concorso internazionale
di scultura su neve nel 1996 a San Candido (Bolzano); il 1º
premio al concorso internazionale Scalpello d’oro di Sestriere
(Torino) nel 1998; il 1º premio al concorso internazionale di
scultura su neve di Najoro (Giappone) nel 2002; il 1º premio
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al concorso nazionale di scultura su legno a Milano nel
2003; 1º premio al III concorso internazionale di scultura di
Castello Tesino (Trento) nel 2004; il 1º premio al XX concorso
internazionale di scultura di Asiago (Vicenza), sempre nel
2004; il premio della stampa, opera Epifania del Volto, alla Ex
Tempore nazionale di scultura su legno a Belluno nel 2004.
Per il Bosco degli Eroi funge da direttore artistico e
“stimolatore” di idee.
Costantino Scopel
È nato a Feltre il 24 ottobre 1964.
Si è diplomato presso l’Istituto Carlo Rizzarda di Feltre.
Viste la sua grande manualità e la capacità realizzativa, è
sempre stato ricercato in ambito lavorativo da molte aziende
meccaniche, in particolare del settore stampi occhialeria.
Già dalla fine della scuola e fino al 2004, si dedica anima e
corpo alla ricerca e interessi di tutt’altro genere, indirizzandosi
verso lo studio di tutto ciò che riguarda il territorio, le culture,
la storia, le tradizioni e le pratiche contadine. Nel 2004 ha
così lasciato l’ambiente industriale per dedicarsi alle terre
“affidategli” dai suoi antenati, oramai abbandonate. Il forte
legame con le pratiche manuali e l’attenzione ai dettagli lo
hanno portato ad occuparsi professionalmente del recupero
di grandi piante secolari (in particolare castagni) e delle
pratiche di propagazione delle piante, dell’arredo di giardini,
della sistemazione di sentieri e boschi e di manufatti in legno,
non trascurando né l’agricoltura né la frutticultura. È titolare
di un azienda agricola forestale che cura lavori di tutela del
territorio e di miglioramento di esso. Il sapersi destreggiare
artisticamente con gli utensili da boscaiolo e da giardiniere
gli consente di realizzare lavori complessi legati alla storia
della cultura contadina feltrina. Contribuirà, nell’ambito del
“progetto” Bosco degli Eroi svolgendo mansioni coordinative,
di giardinaggio e realizzative, proponendo lavori quali isole
botaniche con cespugli con bacche e con fiori rossi, a ricordo
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dei tanti caduti nella zona del Grappa, e allestimenti di
recinzioni e arredi artistici utili a riflettere sui temi della pace e
del ricordo.
Stefano Lezzi
Nato a Feltre il 28 ottobre 1973, per passione e per scelta
professionale, ha frequentato la Scuola del Legno dell’ENAIP
a Longarone (BL), passando poi alla Scuola del Legno di
Sedico per specializzarsi in falegnameria. Ha prestato servizio
militare quale falegname, professione a cui ha cominciato
subito a dedicarsi nella vita civile. Dal 2008 presta servizio da
falegname presso il Corpo Forestale dello Stato.
Ha frequentato a più riprese corsi di specializzazione e
simposi artistici, in particolare, dando poi una mano all’amico
e maestro Beppino Lorenzet e praticando con successo anche
la “strada artistica”.
Ha conseguito premi e riconoscimenti, quali un primo e
secondo posto al concorso di falegnameria alla Mostra
dell’Artigianato di Feltre, rispettivamente nel 2009 e nel 2010.
Ha affrontato diversi materiali nelle sue sculture: legno, creta,
cioccolato. Nel 2013 si è presentato come Artista al Simposio
di Scultura tenutosi a Trichiana, presso il Centro Commerciale.
Nel 1° Simposio del Bosco degli Eroi svolge la duplice
funzione di Artista e di falegname di appoggio.
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In Flanders fields di John McCrae
Scritta dal tenente colonnello canadese John McCrae, il 3
maggio 1915, dopo aver assistito al funerale dell’amico
soldato Alexis Helmer morto nella seconda battaglia di Ypres.
In Flanders Fields parla dei papaveri rosso sangue, tanto
amati dalla letteratura di guerra inglese, e della necessità di
ricordare.
In Flanders fields
In Flanders fields the poppies
blow
Between the crosses, row on
row,
That mark our place; and in the
sky
The larks, still bravely singing,
fly
Scarce heard amid the guns
below.
We are the Dead. Short days
ago
We lived, felt dawn, saw sunset
glow,
Loved and were loved, and now
we lie
In Flanders fields.
Take up our quarrel with the foe:
To you from failing hands we
throw
The torch; be yours to hold it
high.
If ye break faith with us who die
We shall not sleep, though
poppies grow
In Flanders fields.
Sui campi delle Fiandre
Sui campi delle Fiandre
spuntano i papaveri
tra le croci, fila dopo fila,
segnano il nostro posto; e in
cielo
le allodole volano, cantando
ancora coraggiosamente,
le sentite appena sotto il rombo
dei cannoni.
Noi siamo i morti. Pochi giorni fa
eravamo vivi, sentivamo l’alba,
vedevamo
risplendere il tramonto, amanti e
amati.
Ma adesso giacciamo sui campi
delle Fiandre.
Riprendete voi la lotta col
nemico:
con le nostre mani cadenti
vi passiamo la torcia, siano le
vostre mani a tenerla alta.
Non dormiremo, se non ci
ricorderete,
noi che moriamo, anche se i
papaveri
cresceranno sui campi di
Fiandra.
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Le dormeur du val di Arthur Rimbaud
Sonetto che si ispira alla guerra franco-prussiana del 1870,
scritto da Rimbaud negli anni successivi. Non si nomina
neppure la morte e il soldato dorme… nella natura.
Le dormeur du val
C’est un trou de verdure où
chante une rivière,
Accrochant follement aux
herbes des haillons
D’argent; où le soleil, de la
montagne fière,
Luit : c’est un petit val qui
mousse de rayons.
Un soldat jeune, bouche
ouverte, tête nue,
Et la nuque baignant dans le
frais cresson bleu,
Dort; il est étendu dans l’herbe,
sous la nue,
Pâle dans son lit vert où la
lumière pleut.
Les pieds dans les glaïeuls, il
dort. Souriant comme
Sourirait un enfant malade, il fait
un somme:
Nature, berce-le chaudement: il
a froid.
Les parfums ne font pas
frissonner sa narine;
Il dort dans le soleil, la main sur
sa poitrine,
Tranquille. Il a deux trous
rouges au côté droit.
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L’addormentato della valle È un angolo di verde dove il
fiume canta,
impigliando follemente alle erbe
stracci
d’argento: dove il sole, dalla
fiera montagna
risplende: è una piccola valle
che spumeggia di raggi.
Un giovane soldato, bocca
aperta, testa nuda,
bagna la nuca nel fresco
crescione azzurro,
dorme; è disteso nell’erba, sotto
la nuvola,
pallido nel suo verde letto dove
piove la luce.
I piedi tra i gladioli, dorme.
Sorridente come
sorriderebbe un bimbo malato,
fa un sonno.
O natura, cullalo e fagli caldo:
ha freddo..
I profumi non fanno più fremere
la sua narice;
dorme nel sole, la mano sul suo
petto
tranquillo. Ha due rosse ferite
sul fianco destro
Non gridate più
di Giuseppe Ungaretti
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
Soldato Caduto
di Renzo Pezzani
Nessuno forse sa più
perché sei sepolto lassù
nel camposanto sperduto
sull’Alpe, soldato caduto.
Nessuno sa più chi tu sia
soldato di fanteria
coperto di erbe e di terra,
vestito del saio di guerra.
l’elmetto sulle ventitré
nessuno ricorda perché
posata la vanga e il badile
portando a tracolla il fucile
salivi sull’Alpe, salivi
cantavi e di piombo morivi
ed altri morivano con te
ed ora sei tutto di Dio.
Il sole, la pioggia, l’oblio
t’han tolto anche il nome d’in
fronte
non sei che una croce sul monte
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che dura nei turbini e tace
custode di gloria e di pace.
Ho dipinto la pace
di Tali Sorek
Tali Sorek, bambina israeliana,
ai tempi dodicenne, scrisse
questa poesia, ormai famosa
in tutto il mondo, invitandoci a
riflettere, per dipingere la pace.
Avevo una scatola di colori
brillanti, decisi, vivi.
Avevo una scatola di colori,
alcuni caldi, altri molto freddi.
Non avevo il rosso
per il sangue dei feriti.
Non avevo il nero
per il pianto degli orfani.
Non avevo il bianco
per le mani e il volto dei morti.
Non avevo il giallo
per la sabbia ardente,
ma avevo l’arancio
per la gioia della vita,
e il verde per i germogli e i nidi,
e il celeste dei chiari cieli
splendenti,
e il rosa per i sogni e il riposo.
Mi sono seduta e ho dipinto la
pace.
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Erster Schnee di Gottfried Keller
Gottfried Keller, scrittore e poeta svizzero compone questa
poesia nel 1845. Il testo è stato più volte musicato da compositori quali Wilhelm Reinhard Berger, Leopold Heinrich Picot de
Peccaduc, Paul Hindemith e Friedrich Niggl. Due nemici muoiono ed hanno la tomba vicina. Aspettano la primavera di pace.
Erster Schnee
Wie nun alles stirbt und endet
Und das letzte Lindenblatt
Müd sich an die Erde wendet
In die warme Ruhestatt,
So auch unser Tun und Lassen,
Was uns zügellos erregt,
Unser Lieben, unser Hassen
Sei zum welken Laub gelegt.
Reiner weißer Schnee, o
schneie,
Decke beide Gräber zu,
Dass die Seele uns gedeihe
Still und kühl in Wintersruh!
Bald kommt jene
Frühlingswende,
Die allein die Liebe weckt,
Wo der Hass umsonst die
Hände
Dräuend aus dem Grabe
streckt.
Prima neve
Come ormai tutto muore e
finisce
E l’ultima foglia di tiglio
stanca si volge alla terra
verso il caldo tepore del posto
del riposo,
Così anche il nostro fare e
lasciare,
Quello che ci emoziona in modo
sfrenato,
Il nostro amare, il nostro odio
sia chioma d’albero deposta ad
appassire.
Neve bianca e pura, su nevica,
copri entrambe le tombe,
Che l’anima ci dia silenzio e
fresco nella pace invernale!
Presto torna il momento del
cambiamento di primavera,
che soltanto può risvegliare
l’amore,
Dove invano l’odio le mani
stende minacciosamente fuori
dalla tomba.
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Der gute Kamerad di Ludwig Uhland
Il testo fu scritto dal poeta tedesco nel 1809, mentre nel 1825
fu scritta la musica del brano dal compositore Friedrich Silcher.
Un soldato si sofferma a pensare al compagno d’armi colpito
vicino a lui, accompagnandolo nell’ultimo attimo di vita. La
versione musicata viene eseguita nei paesi di lingua tedesca
quale esequie per militari e per ricordare i caduti di tutte le
guerre.
Ich hatt’ einen Kameraden,
Einen bessern findst du nit.
Die Trommel schlug zum Streite,
Er ging an meiner Seite.
In gleichem Schritt und Tritt.
Eine Kugel kam geflogen:
Gilt sie mir oder gilt sie dir?
Sie hat ihn weggerissen,
Er liegt zu meinen Füßen
Als wär’s ein Stück von mir.
Will mir die Hand noch reichen,
Derweil ich eben lad’.
“Kann dir die Hand nicht geben,
Bleib du im ew’gen Leben
Mein guter Kamerad!”.
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Avevo un camerata,
uno migliore non lo trovi.
Il tamburo invitava rullando alla
battaglia
Lui camminava vicino a me,
con lo stesso passo.
Arrivò una pallottola in volo
è per me oppure per te?
Lo ha strappato via,
ora giace ai miei piedi
come fosse parte di me
Mi vuole tendere ancor la mano,
mentre sto caricando il fucile
La mano non te la posso dare,
rimani nella vita eterna,
Mio buon Camerata,
O viandante, annuncia agli Spartani che noi
riposiamo qui di Simonide di Ceo
(Erodoto, Storie, VII, 228)
Simonide fu l’autore dell’epigramma che si poteva leggere un
tempo scolpito su di una pietra alle Termopili:
« ὦ ξεῖν’, ἀγγέλλειν
Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε
κείμεθα τοῖς κείνων ῥήμασι
πειθόμενοι »
«O viandante, annuncia agli
Spartani che noi riposiamo qui
per aver obbedito alle loro
parole.»
Lo stesso Simonide di Ceo (VI-V sec. a.C.) scrisse l’encomio
ai caduti delle Termopili.
«τῶν ἐν Θερμοπύλαις
θανόντων
εὐκλεὴς μέν ἁ τύχα, καλός
δ’ὁ πότμος,
βωμὸς δ’ὁ τάφος, πρὸ γόων
δὲ μνᾶστις, ὁ δ’οἶκτος
ἔπαινος·
ἐτάφιον δὲ τοιοῦτον
οὔτ’εὐρὼς
οὔθ’ὁ πανδαμάτωρ
ἀμαυρώσει χρόνος.
ἀνδρῶν ἀγαθῶν ὅδε σηκὸς
οἰκέταν εὐδοξίαν
Ἑλλάδος εἵλετο· μαρτυρεῖ δὲ
καὶ Λεωνίδας,
Σπάρτας βασιλεύς, ἀρετᾶς
μέγαν λελοιπὼς
κόσμον ἀέναόν τε κλέος.»
«Dei morti alle Termopili
gloriosa la sorte, bella la fine,
la tomba un’ara, invece di pianti,
il ricordo, il compianto è lode.
Un tal sudario non lo
oscureranno né ruggine
né il tempo che divora tutto.
La gloria della Grecia si prese
questo sacello d’eroi valorosi
per abitarvi. Anche Leonida,
il re di Sparta, che ha lasciato
grande
ornamento e imperitura gloria
del valore ne fa fede.»
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Il fiore purpureo piange…
Saffo, frammento D. 117
οἴαν τὰν ὐάκινθον ἐν ὤρεσι
ποίμενες ἄνδρες
πόσσι καταστείβοισι, χάμαι δέ
τε πόρφυρον ἄνθος . . . Come, sui monti, i pastori
calpestano il giacinto con i piedi,
e a terra il fiore purpureo…
Der sterbende Soldat di Karl Kraus
Karl Kraus, (1874 – 1936), poeta e scrittore viennese, nato in Boemia, nel suo capolavoro Gli ultimi giorni dell’umanità dà la parola a
coloro che vissero la guerra: a personaggi umili e dignitari di corte,
a generali e soldati di fanteria; parla delle trincee, dei cadaveri, dei
gas e della morte.
Il soldato morente
“Capitano porta qua la Corte marziale!
Io non muoio per alcun Imperatore
Capitano, tu sei il tirapiedi dell’Imperatore!
Una volta morto, io non ti saluto.
Quando abiterò presso il mio Signore
Il trono dell’Imperatore starà sotto di me.
Ho scherno per i suoi ordini!
Dov’è il mio paese? Là gioca mio figlio.
Quando mi addormenterò nel mio Signore
arriverà ai miei l’ultima lettera della posta da campo.
Gridava, invocava, gridava, invocava!
Quanto è profondo il mio amore.
Capitano, tu non stai ragionando,
perché mi hai mandato qui,
Nel fuoco è bruciato il mio cuore
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io non muoio per nessuna patria.
Voi non mi costringete, voi non mi costringete!
Guardate come la morte rompe le catene
Portate la morte davanti alla Corte marziale!
Io muoio, ma non per l’Imperatore”
Quelle lunghe marce
di Mario Rigoni Stern da Ritorno sul Don
Quelle lunghe marce, eterne, senza soste, senza cibo,
con i congelati che restavano ai lati della pista,
con i feriti che morivano sulle slitte,
con i sopravvissuti che si trascinavano.
Neve, cielo, notte, giorno, neve, cielo.
Ma come abbiamo potuto?
E giungendo a piedi a Nikolajevka, Mario Rigoni Stern ricorda
i suoi compagni perduti, piangendo coloro che non poterono
tornare:
«Dormite in pace amici valtellinesi ,in questo silenzio, in
questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa
e poi faccio un cenno con la mano: «Ci ritroveremo un giorno.
Arrivederci.»
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Perché non t’uccisi
Di Fausto Maria Martini Testo secondo: Tutte le poesie, Milano,
I.P.L., 1969
Fausto Maria Martini il 17 novembre del 1916 fu ferito alla testa,
sul Pal Grande: per la seconda era la seconda volta. La ferita era
grave e qualcuno lo diede anche per morto. Un amico giornalista
volle scrivere un suo saluto a Fausto Maria Martini, redattore de La
Tribuna, morto in guerra;
a morte confermata, I’ articolo sarebbe stato pubblicato il giorno
successivo. Il Martini però non era morto e, una volta guarito, ebbe
in regalo il manoscritto del proprio necrologio: Da allora lo portò
sempre con sé come un talismano.
Nella poesia qui riportata il poeta ricorda l’episodio del suo
ferimento: non voleva uccidere un altro faustomariamartini.
Non per viltà, - né tu lo avrai creduto,
tu che la sera stessa, sotto un folle
riso di stelle, dopo me caduto,
fosti zolla di sangue tra le zolle, non per viltà mancai la giusta impresa
di colpirti per primo: fu perché
sullo sfondo inumano vidi te
così biondo, te dalla faccia accesa
d’una vampa improvvisa come un velo
di pudor fanciullesco, avido, eretto
di mezzo il busto sopra il parapetto
della trincea, con due goccie di cielo
per occhi (chi mai spegnerà quegli occhi,
visti un attimo solo e senza tregua
ribalenanti, se il mio sguardo tocchi
qualcuno in ombra che appare e dilegua?)
ti vidi profilato sul cobalto
lontano e pur così miracolosamente vicino, che d’oltre lo spalto
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di sassi e ferro scoloriva in rosa...
Non per viltà; né fu perché io pensassi
in un borgo lontano una sorella
tua dolce e grave, vigilante i passi
del fratello, se torni: come quella
che m’attese gran tempo e a me giungeva
ogni alba in sogno con un suo nepente
e, sostando al mio letto, suadeva
al sereno trapasso il moriente...
Non t’uccisi perché nella stessa ora
entrambi ci sporgemmo sopra il muto
mare del nulla insieme, o sconosciuto
compagno, e quello che pur sempre affiora
al ricordo, tuo volto somigliava
già questo uno più macilento e vecchio;
o l’aria di nessuno era lo specchio
non anche frantumato dalla lava
degli shrapnell? ... Insieme sulla morte
noi, vivi, ci sporgemmo, ed un fanciullo
tu m’apparisti come me: trastullo
sì l’uno come l’altro d’una sorte
comune e l’uno e l’altro dal fluire
di questa trascinati sull’estrema
riva. Non dunque, ignoto, fu per tema
ch’io non t’uccisi, fu per non morire.
Per non morire in te: m’eri l’eguale,
o apparso sulla gemina trincea,
e tutt’e due la stessa sospingea
Necessità di là dal bene e il male.
Io non sapevo, o mio nemico biondo,
da qual terra lontana o qual paese
fossi tu qui venuto, ma palese
m’era la via da questa vetta al mondo.
Oh, somigliava a vie dell’aria, ed era
tutta contesta di spirituale
luce, strada da battersi con l’ale,
scavata in cuore ad una primavera
di mandorli: un ritaglio, su la terra,
di cielo: come il nastro d’una gonna
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cilestrina, lanciato da una donna
amata a questa tua casa di guerra.
Un attimo, e mi parve d’aver colto
nel tuo sguardo una lene nostalgia
d’altri cieli e una, insonne tuttavia,
ansia di canti a fiore del tuo volto
muto... O tu, ch’io conobbi sol nei chiari
grandi occhi e i forti tuoi zigomi rossi,
io mi credei, nemico, che tu fossi
un convitato di conviti rari,
mendicante d’azzurro, impenitente
vagabondo, assetato sognatore,
più che pensiero, cuore, cuore, cuore,
Faustomariamartini d’altra gente…
E non t’uccisi, o tu che mi colpisti
in fronte, non t’uccisi sol perché,
nemico ignoto dai grandi occhi tristi,
ebbi paura di morire in te
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Lettera del Dottor Oskar Koref
Questo medico di Praga, già sottotenente medico del 69°
reggimento di fanteria imperiale e regio, scrive nell’immediato
dopoguerra al padre di Vittorio Biolato, morto a Ca. Tasson
il 18 maggio 1918 e medaglia d’argento al valor militare
quell’azione. Aveva poco più di vent’anni ed era più di una
semplice promessa nel ciclismo.
Illustrissimo signore,
un pietoso dovere desidero compiere con questa mia, un dovere
di cameratismo, che, quantunque già lungamente rimandato, io
riguardo pur sempre, anche dopo così lungo tempo, come a me
delegato e come sacro, nella speranza che le comunicazioni che
seguono non debbano inasprire il Suo dolore, un po’ quietato dal
corso degli anni.
Si tratta della morte di Suo figlio, intorno alla quale Ella certo è
soltanto in grado di presumere che accadde in prossimità delle
nostre linee, cioè delle linee austro-ungheresi. Ma io, come
testimonio oculare, posso darLe precisi ragguagli della eroica e
per lui e per la sua famiglia sempre gloriosa condotta dell’eroe
Suo figliuolo. Io credo di non riaccendere l’antico e certo già un po’
temprato Suo dolore: al contrario di lenirlo con la precisa descrizione
del fatto. L’incertezza in cui Ella finora era costretta a vivere per mia
colpa desidero distruggerla, per poter anche in tal modo reagire
confortevolmente contro il duro destino. II conforto completo, se un
tale conforto è mai in questi casi possibile, potrà il tempo arrecarlo:
l’ombra che avviluppa ogni cosa lenirà anche a Lei il peso del Suo
dolore, in modo da lasciare soltanto più il ricordo e la memoria del
caro scomparso.
In un giorno di maggio (credo fosse il 23: le mie precise indicazioni
sono andate perdute durante le successive vicende di guerra) del
1918, improvvisamente davanti alle nostre posizioni apparve un
gruppo d’assalto italiano, e, davanti a tutti Suo figlio, e colse i nostri
completamente sorpresi. Dopo che l’assalto era brillantemente
riuscito e lo scopo probabilmente anche altrove pienamente
raggiunto, gli italiani si disposero ad operare il ritorno. Tuttavia
Suo figlio, per cogliere anche i segni ed i trofei della vittoria, saltò
risolutamente sopra un vicino posto di mitragliatrici, abbatté due
24
ungheresi là accorsi, s’impadronì dell’arma, cercando soltanto allora
di ricongiungersi al suo gruppo già distanziato. Ma, impedito dalla
pesantezza del bottino, non poté affrettare abbastanza la corsa ed
il piombo mortale lo raggiunse, attraversandogli a mezzo il cuore e,
silenziosamente, come colpito dal fulmine, cadde l’eroe, spirando,
senza tormento e senza dolore, la grande anima sua.
La salma del caduto venne sepolta, con tutti gli onori dovuti ai
nemici valorosi, lassù, alle Bocchette di Fondo, ad uno sbocco del
Grappa, tra Monte Pertica e Monte Prassolan. Egli dorme in una
tomba segnata col suo nome. Sia pace alle sue ceneri!
La lettera qui unita io la presi dagli effetti tolti da lui, per poterglieLa
inviare. Di più non ho potuto salvare per Lei di quanto gli
apparteneva. Le altre cose, oggetti di valore e notizie, dovettero
essere consegnate al superiore comando. Queste poche righe,
trovate sul suo cuore, come l’immagine di lui, scolpita nel cuore dei
rimasti, non lasceranno mai cadere in dimenticanza la sua memoria.
Mentre spero, anche dopo così lungo tempo, di aver fatto un’opera
buona, mi segno con ossequio.
Oscar Koref, già sottotenente di sanità al 69° reggimento di fanteria
austroungarico, ora medico in Praga.
Indirizzo: presso Ia signora Bermann, Mariauska Ulice, 4
25
Per ogni cosa c’è il suo momento
Dal libro di Qoelet (Ecclesiaste - Bibbia), capitolo 3 vv. 1-12
Per ogni cosa c’è il suo
momento
Per ogni cosa c’è il suo
momento, il suo tempo per ogni
faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un
tempo per morire,
un tempo per piantare e un
tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un
tempo per guarire,
un tempo per demolire e un
tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un
tempo per ridere,
un tempo per gemere e un
tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un
tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e
un tempo per astenersi dagli
abbracci.
Un tempo per cercare e un
tempo per perdere,
un tempo per serbare e un
tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un
tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo
per parlare.
Un tempo per amare e un tempo
per odiare,
un tempo per la guerra e un
tempo per la pace.
Che vantaggio ha chi si dà da
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27
fare con fatica?
Ho considerato l’occupazione
che Dio ha dato agli uomini,
perché si occupino in essa.
Egli ha fatto bella ogni cosa a
suo tempo, ma egli ha messo
la nozione dell’eternità nel loro
cuore, senza però che gli uomini
possano capire l’opera compiuta
da Dio dal principio alla fine.
La guerra di Piero
di Fabrizio de André
Gengis Khan, imperatore e condottiero mongolo, conquistò
un vastissimo impero. La leggenda vuole che avesse sempre
con sé sui campi di battaglia dei semi di papavero, per onorare i caduti, amici e nemici. Ad ogni primavera il rosso fiore
macchiava nuovamente quei campi di sangue: E nel tempo il
rito del ricordo del loro sacrificio sarebbe stato perpetuato dai
papaveri, rammentando a tutti il luogo della battaglia.
In Inghilterra nel Remembrance Day – il giorno della memoria
-, tutti portano un papavero rosso all’occhiello, quasi a richiamare l’insegnamento di Gengis Khan.
Lo stesso Fabrizio De André nei versi della sua fondamentale
“La guerra di Piero”) si rifà a questa usanza; Qui nascono fiori
rossi, i fiori del ricordo dei caduti
Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi
28
lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente
così dicevi ed era inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve
fermati Piero, fermati adesso
lascia che il vento ti passi un po’ addosso
dei morti in battaglia ti porti la voce
chi diede la vita ebbe in cambio una croce
ma tu non lo udisti e il tempo passava
con le stagioni a passo di giava
ed arrivasti a varcar la frontiera
in un bel giorno di primavera
e mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore
sparagli Piero, sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra a coprire il suo sangue
e se gli sparo in fronte o nel cuore
soltanto il tempo avrà per morire
ma il tempo a me resterà per vedere
vedere gli occhi di un uomo che muore
e mentre gli usi questa premura
quello si volta, ti vede e ha paura
ed imbracciata l’artiglieria
non ti ricambia la cortesia
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che il tempo non ti sarebbe bastato
a chiedere perdono per ogni peccato
cadesti in terra senza un lamento
e ti accorgesti in un solo momento
che la tua vita finiva quel giorno
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e non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia crepare di maggio
ci vuole tanto troppo coraggio
Ninetta bella dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno
e mentre il grano ti stava a sentire
dentro alle mani stringevi un fucile
dentro alla bocca stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole
dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.
30
Blowin In The Wind
di Bob Dylan
Blowin In The Wind
How many roads must a man
walk down
Before you call him a man? Yes, ‘n’ how many seas must a
white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, ‘n’ how many times must
the cannon balls fly
Before they’re forever banned?
The answer, my friend, is blowin’
in the wind,
The answer is blowin’ in the
wind.
How many times must a man
look up
Before he can see the sky?
Yes, ‘n’ how many ears must
one man have
Before he can hear people cry?
Yes, ‘n’ how many deaths will it
take till he knows
That too many people have
died?
The answer, my friend, is blowin’
in the wind,
The answer is blowin’ in the
wind.
How many years can a
mountain exist
Before it’s washed to the sea?
Yes, ‘n’ how many years can
some people exist
Perduta nel vento
Quanta strada dovrà camminare
un uomo
Prima di poterlo chiamare
uomo?
Sì, e su quanti mari dovrà
veleggiare una bianca colomba
Prima di poter riposare sulla
sabbia?
Sì, e quanto tempo ancora
dovranno volare le granate del
cannone
Prima di essere abolite per
sempre?
La risposta, amico, sta soffiando
nel vento
La risposta sta soffiando nel
vento
Quante volte un uomo dovrà
guardare in alto
Prima di poter vedere il cielo? Sì, e quante orecchie dovrà
avere l’uomo
Prima di sentire la gente che
piange?
Sì, e quanti morti ci vorranno
ancora perché egli sappia
Che sono morte già troppe
persone?
La risposta, amico, sta soffiando
nel vento
La risposta sta soffiando nel
vento
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Before they’re allowed to be
free?
Yes, ‘n’ how many times can a
man turn his head,
Pretending he just doesn’t see?
The answer, my friend, is blowin’
in the wind,
The answer is blowin’ in the
wind.
Quanti anni potrà esistere una
montagna
Prima di essere dilavato giù fino
al mare?
Sì, e quanti anni dovrà vivere la
gente
Prima di essere finalmente
libera?
Sì, e quante volte un uomo
girerà la testa
Fingendo di non vedere?
La risposta, amico, sta soffiando
nel vento
La risposta sta soffiando nel
vento
Felder von Verdun
Testo di M. Kunze, musica di R. Siegel Jr.
La canzone “Felder von Verdun” (I Campi di Verdun) risale agli
anni ‘60 e tratta l’argomento prima guerra mondiale. La zona
Verdun, città francese della Champagne, ebbe il record dei
soldati caduti.
Felder von Verdun
Die Felder von Verdun, die
tragen keine Ähren,
dort blüht nur roter Mohn.
Die Gräber von Verdun, wem
immer sie gehören,
sind längst vergessen schon.
Sie dachten, sie kämen im
Herbst schon zurück
und zogen mit Fahnen hinaus.
Sie dachten, es gäbe für sie
einen Sieg,
den brächten sie bald schon
nach Haus!
Doch auf den Feldern von
Verdun
war alle Hoffnung hin,
und Krieg und Sieg und Not und
Tod
verloren ihren Sinn.
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I campi di Verdun
I campi di Verdun non reggono
spighe,
là sboccia soltanto il papavero
rosso.
Le tombe di Verdun, a chiunque
appartengano,
sono dimenticate da tempo.
Pensavano che sarebbero
tornati già in autunno
e uscirono con le bandiere.
Pensavano che per loro ci
sarebbe stata una vittoria
e che presto la avrebbero
portata a casa!
Ma sui campi di Verdun
ogni speranza se n’era andata,
e guerra e vittoria e necessità e
morte
persero il loro senso.
(Refrain)
(Refrain)
Sie wollten den Krieg noch
führen wie einst.
Was kam, das ahnten sie nie.
Doch hatten sie kaum die Marne
erreicht,
Volevano condurre la guerra
come un tempo.
Quello che sarebbe capitato,
mai lo avrebbero immaginato.
Avevano appena raggiunto la
33
da führte der Krieg schon sie.
Und auf den Feldern von Verdun
war alle Hoffnung hin,
und Krieg und Sieg und Not und
Tod
verloren ihren Sinn.
(Sprechgesang zur Melodie des
Refr.)
Das Blut der Soldaten war rot
wie der Mohn,
im Feuer verbrannte das Gras.
Nur wenige kamen damals
davon,
von denen keiner jemals
vergaß.
Marna
che la guerra li portva già via
con sé.
Ma sui campi di Verdun
ogni speranza se n’era andata,
e guerra e vittoria e necessità e
morte
persero il loro senso.
(Parlato, sulla melodia del
ritornello)
Il sangue dei soldati era rosso
come il papavero,
l’erba bruciava nel fuoco.
Allora solo pochi ne uscirono,
nessuno di loro ha mai
dimenticato.
(Refrain)
(Refrain)
Wer sagt mir, warum sie
gestorben sind,
warum dieses Morden geschah.
Denn wenn man nicht endlich
zu fragen beginnt,
dann droht erneut die Gefahr,
und wie die Felder von Verdun
ist dann die ganze Welt,
wenn Du und ich und
Jedermann
die Frage jetzt nicht stellt.
Chi mi chiede: perché loro sono
morti,
perché è accaduto questo
massacro?
Se alla fine non si comincia a
chiedere,
saremo di8 nuovo in pericolo,
e come i campi di Verdun
sarà il mondo intero,
se tu, io e qualsiasi altro
non pone proprio adesso questa
domanda.
(Refrain)
(Refrain)
34
ORRIBILE OMBRA DI POLIDORO (3. 13- 68)
Virgilio, Eneide
Basta un rintocco di campana!
Tu, che vai nella Selva degli Eroi,
tocca la campana del Ricordo!
La tua sarà una carezza…
di mamma, padre,
fratello, sorella o fidanzata,
fatta ad un soldato morente.
Va’ e cammina sulla strada
Della Pace!
Se incontri un fiore rosso
O una bacca del colore
Del sangue,
sappi che
qui sono caduti soldati di tutta Europa.
I loro compagni avevano con sé
E hanno sparso al vento
I semi dei fiori rossi.
Non coglierli…
Accarezzali!
Sono i Fiori degli Eroi!
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Uccidere un uomo
di Emilio Lussu da Un anno sull’altipiano, Einaudi Editore
Io facevo la guerra fin dall’inizio. Far la guerra, per anni, significa
acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa
fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non
vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese,
tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia
era ben riuscita.
Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma
così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. (...) Poggiai bene i
gomiti a terra e cominciai a puntare.
L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella
sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi
il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio
mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il
mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti
pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che
toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato
a pensare. (...)
E intanto non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non
ero affatto nervoso. (...)
Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla
guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo
che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei
potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno.
Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo.
Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla
mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva
più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare
così, a pochi passi, su un uomo... come su un
cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre
all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una
cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire:
“Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido” è un’altra. E’ assolutamente
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un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è
un’altra cosa.
Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. (...)
Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si
stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di
labbra:
- Sai... così... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi?
Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
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Sei un uomo come me
Il brano che segue è tratto dal romanzo Niente di nuovo sul
fronte occidentale (A. Mondadori, Milano, 2004) dello scrittore
tedesco Erich Maria Remarque
Si è fatto un poco chiaro. Sto per voltarmi un poco e cambiar
posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un
corpo pesante è cascato nella buca, addosso a me...
Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo
sussulta, e poi si affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la
mano bagnata, viscida...
L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un
grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei
tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere,
mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono a un tratto così
debole, che non posso più alzar la mano contro di lui.
Mi trascino dunque nell’angolo più lontano, e resto là, con gli occhi
sbarrati, il coltello in pugno, pronto, se si muove, a saltargli addosso
un’altra volta... Ma non farà più nulla, lo sento dal suo rantolare.
In confuso posso vederlo. E provo un desiderio solo, venirmene via.
Se non parto subito, diventerà troppo chiaro: già ora è difficile. Ma
quando tento di alzare la testa, vedo già che è impossibile. Il fuoco
delle mitragliatrici è così fitto, che sarei crivellato prima di fare un sol
balzo.
Faccio la prova col mio elmo, sollevandolo un poco per constatare
la radenza del tiro. Dopo un istante una pallottola me lo strappa
di mano: dunque il fuoco passa proprio a fior di terra. E non sono
abbastanza lontano dalla posizione nemica perché qualche tiratore
scelto non mi colga subito, al primo tentativo di fuga.
L’aria schiarisce sempre più. Aspetto febbrilmente2 un attacco dei
nostri. Le nocche delle dita sembrano voler bucare la pelle, con
tanto spasimo stringo i pugni, supplicando che il fuoco cessi e che i
miei compagni arrivino.
I minuti stillano3 a uno a uno. Non oso più guardare l’oscura fi gura
dell’altro, che è con me nella buca. Guardo fissamente più in là, e
aspetto, aspetto.
I colpi sibilano, formano una rete d’acciaio sopra il mio capo, e non
cessano mai, non cessano mai.
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Guardo la mia mano insanguinata e all’improvviso provo un senso di
nausea: prendo un po’ di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si
sporca e non vedo più il sangue.
Il fuoco non diminuisce: ora è egualmente intenso dalle due parti.
Certo i nostri mi hanno dato per morto da un pezzo.
È giorno, un mattino chiaro e grigio. Il rantolo continua. Io mi tappo
le orecchie, ma poi subito riapro le mani, perché altrimenti non odo
più gli altri rumori.
La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e
involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono
fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti;
la testa
gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra
mano preme il petto, nero di sangue.
È morto, dico a me stesso: deve esser morto, non sente più nulla;
chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il
gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio.
L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino
verso di
lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto
ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio.
Finalmente eccomi presso di lui.
Allora apre gli occhi: deve avermi sentito e mi fissa con
un’espressione di indicibile orrore. Il corpo è immobile,
perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato;
ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo
immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della
morte... e di me.
Io mi accascio a terra, sui gomiti: «No, no» mormoro.
I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi
fissano così.
Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto,
pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di
quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: «No,
no, no» e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli
sfioro la fronte.
A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità,
le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il
bavero e cerco di poggiare più comodamente la sua testa.
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La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra
sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma
c’è dell’acqua fangosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto,
lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne
filtra.
Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per
bendarlo se si può.
Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La
camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta
che tagliarla.
Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare
la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in
essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a
tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro: «Ma no, ma ti voglio
soccorrere,
compagno, camarade, camarade...». E ripeto con insistenza la
parola, perché la capisca.
Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il
sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme.
È tutto quello che posso fare. Ora non resta altro che aspettare,
aspettare...
Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo!
Perché lo so: salvarlo non è possibile.
È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che
io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia.
Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene
qui, doverlo vedere, doverlo udire...
Alle tre del pomeriggio è morto.
Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche
più insopportabile che quel gemere di prima. Il silenzio diventa lungo
e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto
e gli dico: «Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi
un’altra
volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi
ragionevole.
Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti del mio
cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato
codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me.
Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue
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armi; ora vedo il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami,
compagno! Noi
vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai
detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme
sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo
stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire... Perdonami,
compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via
queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come
Kat, come Albert. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e
alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare».
Silenzio. Il fronte è tranquillo, salvo il crepitare della fucileria. Il tiro
è fitto, non si spara a caso, si mira bene da ambe le parti. Uscire è
impossibile.
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Comune di Seren del Grappa
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