Il Bosco degli Eroi Arte, Natura e Storia sul campo di battaglia 1 Presentazione In copertina: La tomba di un soldato austroungarico a Malga Cima – Massiccio del Grappa (Museo Fotografico della Grande Guerra “Eugenio Secco” - Seren del Grappa) I testi sono stati curati e scelti da Marco Rech Avendo la presente “pubblicazione” unicamente scopo didattico, i testi riportati sull’opuscolo e sulle tabelle del percorso Il Bosco degli Eroi sono da ritenersi ad uso antologia “educativa”. È una novità respirare un modo nuovo di fare la Storia. Di solito i libri ci parlano di fatti e di numeri. Questa volta chi si è dato da fare a pensare qualcosa di nuovo (Dante e Marco Rech, Beppino Lorenzet, Costantino Scopel e Stefano Lezzi) ha tracciato un nuovo “sentiero” di sensazioni. Lungo un itinerario di 9 chilometri ci verranno offerti spunti per “sentire” la necessità della pace nel ricordo di chi è caduto su questa montagna, in questi boschi. Col tempo si completeranno le idee che spaziano dall’arte della scultura, alla letteratura, alla botanica. “isole” di meditazione, immersi nella natura, con sculture in legno, tabelle con poesie da leggere e aree botaniche con fiori rossi o con cespugli che producono bacche rosse. Tutto servirà a riflettere e, speriamo, si possa completare il percorso. Ringrazio quanti ci offrono questa nuova possibilità di godere della natura. Il Sindaco di Seren del Grappa Loris Scopel L’impaginazione e l’impostazione grafica sono a cura di Daniela Prigol. 1 Prefazione Quando si parla della Grande Guerra e delle guerre in generale, si è portati a mitizzare i contenuti ideali, senza tener presenti i sentimenti e le paure dei semplici soldati, spinti sui campi di battaglia da obblighi dettati da forze superiori. Questo Bosco degli Eroi altro non è che il tentativo di sfatare i miti creati per mettere a tacere le coscienze e le voci “stonate” che operano fuori dal contesto tessuto da politici, filosofi, anche da poeti ed eroi con la e minuscola. Qui è Eroe colui che ha i sentimenti del bravo ragazzo, del padre di famiglia, dell’operatore di pace che, preferisce farsi colpire piuttosto di uccidere chi gli sta di fronte. I fiori vermigli del monte, che fioriscono su quelle che furono tombe di centinaia, di migliaia di combattenti, ci ricordino queste persone mandate a morire su monti brulli, coperti di neve, senz’acqua e senza comodità, soli contro le mitragliatrici e i cannoni. Cerchiamo di avere per loro un ricordo di affetto, un pensiero che dia pace a noi e a loro. Che non siano morti invano! Marco Rech 2 4 Il Bosco degli Eroi Sono stato qui La guerra passa e normalmente non ci si sofferma a meditare sul fatto che tanti giovani sono morti sul campo di battaglia. L’Amministrazione Comunale ha pensato di dedicare un percorso - un intreccio di Arte, Natura e Storia - al tema della guerra, considerata in un’ottica di pace. Il percorso ad anello, che si sviluppa per 9 km, toccando luoghi significativi, tra le trincee italiane e quelle austroungariche, sui luoghi dove combatterono, morirono e furono sepolti migliaia di sfortunati soldati dell’uno e dell’altro fronte. Il tracciato, nel bosco, segue la mulattiera Cadorna per diramarsi lungo sentieri di guerra Si è cominciato con l’iniziativa di coinvolgere artisti del legno per rappresentare il loro “Bosco degli Eroi”, con l’intendimento di continuare negli anni ad aggiungere Opere. Il tracciato verrà corredato di piccole tabelle, recanti scritti e poesie di autori di tutti i tempi, che parlano dell’Eroe e della guerra sotto vari punti di vista, in una meditazione di pace. Tutto servirà a riflettere, mentre si gode la natura circostante. Notevole è anche l’idea di sfruttare le piante autoctone che recano fiori o bacche rosse, raccogliendole in “aiuole botaniche” quasi a rammentare il sangue che ha bagnato questa terra di pascoli carsici. Come a Bergen Belsen, anche qui, ai piedi del Grappa, qualcuno ha scritto parole per noi… parole di sofferenza, parole di chi si è sentito come un numero scandito ad alta voce dalla vecchia signora con la falce; parole per scrivere i desideri degli uomini semplici, parole di chi vuole la pace ed un pensiero: «Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia». 5 Il logo Beppino Lorenzet, in un attimo, ha raccolto e fatto sue le idee discusse assieme, a proposito di Bosco degli Eroi, raccogliendo in un disegno numerose impressioni. Il rosso dei fiori ricorda il sangue di tanti caduti e feriti; il reticolato richiama il sacrificio e le difficoltà della guerra e a poco a poco si fa croce sulla fossa dei giovani morti sotto i colpi della mitragliatrice; la penna è un invito a noi tutti a raccontare la sofferenza patita da tanti in questo Bosco. Ovunque troviamo scritto, in natura: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”. Noi NON vogliamo dimenticare e racconteremo. Gli Artisti del 1° Simposio del Bosco degli Eroi 6 Andrea Gaspari Nato a Cortina d’Ampezzo (Belluno) il 9 giugno 1961. Laurea in Scienze Forestali all’Università di Padova, intraprende , l’attività di scultore professionista, seguendo le orme del padre e iniziando come da tradizione a scolpire il legno. Trasferitosi in Brianza, inizia a collaborare con diversi laboratori per realizzazioni di scenografie per spettacoli teatrali o intervenendo in attrazioni di parchi divertimenti. Sue realizzazioni si trovano nei principali parchi divertimento in Italia e in Europa (Mirabilandia –Ravenna - Gardaland - lago di Garda - Canevaworld e Mister Movie park - Zoopark Le Cornelle, acquapark Aquaneva, acquapark Le Vele - Tibidabo Barcellona - Eurodisneyland - Parigi). Responsabile del reparto scultura per la realizzazione di tutte le parti scultoree del castello principale di Eurodisneyland a 7 Parigi, intraprende la carriera di freeland, offrendo la propria opera a parchi divertimento, teatri (Ultime collaborazioni: La Scala e Piccolo Teatro - Milano - Teatro Sociale - Rovigo); collabora con ditte di allestimento stand. Produce sculture con diversi materiali (legno, cemento, polistirolo, vetroresina, neve e ghiaccio e perfino cioccolato.) È presidente dell’Associazione Italiana Sculture in Neve e Ghiaccio. Partecipa e organizza concorsi di scultura in neve da circa 25 anni. Beppino Lorenzet Nasce a Mel nel 1955. Inizia la carriera di scultore nel 1980, formandosi, incontrando grandi artisti quali Augusto Murer. Ha frequentato vari corsi di scultura, entrando in contatto con realtà culturali ed artistiche internazionali, arricchendo la sua forma espressiva. Ha partecipato a decine di concorsi nazionali ed internazionali e sue opere sono state esposte in Europa, Stati Uniti, Brasile, Giappone. La produzione tocca gli oggetti più svariati, passando dagli angeli ai diavoli, dalle ballerine a volti trafitti sofferenti. Negli ultimi tempi trascura il tutto tondo dedicandosi con impegno al basso e altorilievo in grandi dimensioni. I lavori, in noce, olmo, cirmolo, castagno, lasciano emergere personaggi unici. Estro e fantasia, luci ed ombre fanno respirare di vita propria le sue opere. Notevole è la produzione religiosa improntata ad un’analisi approfondita delle figure ricche di sentire. A coronamento della sua attività, il Lorenzet ha conseguito vari riconoscimenti, quali il 1° premio al concorso internazionale di scultura su neve nel 1996 a San Candido (Bolzano); il 1º premio al concorso internazionale Scalpello d’oro di Sestriere (Torino) nel 1998; il 1º premio al concorso internazionale di scultura su neve di Najoro (Giappone) nel 2002; il 1º premio 8 al concorso nazionale di scultura su legno a Milano nel 2003; 1º premio al III concorso internazionale di scultura di Castello Tesino (Trento) nel 2004; il 1º premio al XX concorso internazionale di scultura di Asiago (Vicenza), sempre nel 2004; il premio della stampa, opera Epifania del Volto, alla Ex Tempore nazionale di scultura su legno a Belluno nel 2004. Per il Bosco degli Eroi funge da direttore artistico e “stimolatore” di idee. Costantino Scopel È nato a Feltre il 24 ottobre 1964. Si è diplomato presso l’Istituto Carlo Rizzarda di Feltre. Viste la sua grande manualità e la capacità realizzativa, è sempre stato ricercato in ambito lavorativo da molte aziende meccaniche, in particolare del settore stampi occhialeria. Già dalla fine della scuola e fino al 2004, si dedica anima e corpo alla ricerca e interessi di tutt’altro genere, indirizzandosi verso lo studio di tutto ciò che riguarda il territorio, le culture, la storia, le tradizioni e le pratiche contadine. Nel 2004 ha così lasciato l’ambiente industriale per dedicarsi alle terre “affidategli” dai suoi antenati, oramai abbandonate. Il forte legame con le pratiche manuali e l’attenzione ai dettagli lo hanno portato ad occuparsi professionalmente del recupero di grandi piante secolari (in particolare castagni) e delle pratiche di propagazione delle piante, dell’arredo di giardini, della sistemazione di sentieri e boschi e di manufatti in legno, non trascurando né l’agricoltura né la frutticultura. È titolare di un azienda agricola forestale che cura lavori di tutela del territorio e di miglioramento di esso. Il sapersi destreggiare artisticamente con gli utensili da boscaiolo e da giardiniere gli consente di realizzare lavori complessi legati alla storia della cultura contadina feltrina. Contribuirà, nell’ambito del “progetto” Bosco degli Eroi svolgendo mansioni coordinative, di giardinaggio e realizzative, proponendo lavori quali isole botaniche con cespugli con bacche e con fiori rossi, a ricordo 9 dei tanti caduti nella zona del Grappa, e allestimenti di recinzioni e arredi artistici utili a riflettere sui temi della pace e del ricordo. Stefano Lezzi Nato a Feltre il 28 ottobre 1973, per passione e per scelta professionale, ha frequentato la Scuola del Legno dell’ENAIP a Longarone (BL), passando poi alla Scuola del Legno di Sedico per specializzarsi in falegnameria. Ha prestato servizio militare quale falegname, professione a cui ha cominciato subito a dedicarsi nella vita civile. Dal 2008 presta servizio da falegname presso il Corpo Forestale dello Stato. Ha frequentato a più riprese corsi di specializzazione e simposi artistici, in particolare, dando poi una mano all’amico e maestro Beppino Lorenzet e praticando con successo anche la “strada artistica”. Ha conseguito premi e riconoscimenti, quali un primo e secondo posto al concorso di falegnameria alla Mostra dell’Artigianato di Feltre, rispettivamente nel 2009 e nel 2010. Ha affrontato diversi materiali nelle sue sculture: legno, creta, cioccolato. Nel 2013 si è presentato come Artista al Simposio di Scultura tenutosi a Trichiana, presso il Centro Commerciale. Nel 1° Simposio del Bosco degli Eroi svolge la duplice funzione di Artista e di falegname di appoggio. 10 In Flanders fields di John McCrae Scritta dal tenente colonnello canadese John McCrae, il 3 maggio 1915, dopo aver assistito al funerale dell’amico soldato Alexis Helmer morto nella seconda battaglia di Ypres. In Flanders Fields parla dei papaveri rosso sangue, tanto amati dalla letteratura di guerra inglese, e della necessità di ricordare. In Flanders fields In Flanders fields the poppies blow Between the crosses, row on row, That mark our place; and in the sky The larks, still bravely singing, fly Scarce heard amid the guns below. We are the Dead. Short days ago We lived, felt dawn, saw sunset glow, Loved and were loved, and now we lie In Flanders fields. Take up our quarrel with the foe: To you from failing hands we throw The torch; be yours to hold it high. If ye break faith with us who die We shall not sleep, though poppies grow In Flanders fields. Sui campi delle Fiandre Sui campi delle Fiandre spuntano i papaveri tra le croci, fila dopo fila, segnano il nostro posto; e in cielo le allodole volano, cantando ancora coraggiosamente, le sentite appena sotto il rombo dei cannoni. Noi siamo i morti. Pochi giorni fa eravamo vivi, sentivamo l’alba, vedevamo risplendere il tramonto, amanti e amati. Ma adesso giacciamo sui campi delle Fiandre. Riprendete voi la lotta col nemico: con le nostre mani cadenti vi passiamo la torcia, siano le vostre mani a tenerla alta. Non dormiremo, se non ci ricorderete, noi che moriamo, anche se i papaveri cresceranno sui campi di Fiandra. 11 Le dormeur du val di Arthur Rimbaud Sonetto che si ispira alla guerra franco-prussiana del 1870, scritto da Rimbaud negli anni successivi. Non si nomina neppure la morte e il soldato dorme… nella natura. Le dormeur du val C’est un trou de verdure où chante une rivière, Accrochant follement aux herbes des haillons D’argent; où le soleil, de la montagne fière, Luit : c’est un petit val qui mousse de rayons. Un soldat jeune, bouche ouverte, tête nue, Et la nuque baignant dans le frais cresson bleu, Dort; il est étendu dans l’herbe, sous la nue, Pâle dans son lit vert où la lumière pleut. Les pieds dans les glaïeuls, il dort. Souriant comme Sourirait un enfant malade, il fait un somme: Nature, berce-le chaudement: il a froid. Les parfums ne font pas frissonner sa narine; Il dort dans le soleil, la main sur sa poitrine, Tranquille. Il a deux trous rouges au côté droit. 12 L’addormentato della valle È un angolo di verde dove il fiume canta, impigliando follemente alle erbe stracci d’argento: dove il sole, dalla fiera montagna risplende: è una piccola valle che spumeggia di raggi. Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda, bagna la nuca nel fresco crescione azzurro, dorme; è disteso nell’erba, sotto la nuvola, pallido nel suo verde letto dove piove la luce. I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno. O natura, cullalo e fagli caldo: ha freddo.. I profumi non fanno più fremere la sua narice; dorme nel sole, la mano sul suo petto tranquillo. Ha due rosse ferite sul fianco destro Non gridate più di Giuseppe Ungaretti Cessate d’uccidere i morti, Non gridate più, non gridate Se li volete ancora udire, Se sperate di non perire. Hanno l’impercettibile sussurro, Non fanno più rumore Del crescere dell’erba, Lieta dove non passa l’uomo. Soldato Caduto di Renzo Pezzani Nessuno forse sa più perché sei sepolto lassù nel camposanto sperduto sull’Alpe, soldato caduto. Nessuno sa più chi tu sia soldato di fanteria coperto di erbe e di terra, vestito del saio di guerra. l’elmetto sulle ventitré nessuno ricorda perché posata la vanga e il badile portando a tracolla il fucile salivi sull’Alpe, salivi cantavi e di piombo morivi ed altri morivano con te ed ora sei tutto di Dio. Il sole, la pioggia, l’oblio t’han tolto anche il nome d’in fronte non sei che una croce sul monte 13 che dura nei turbini e tace custode di gloria e di pace. Ho dipinto la pace di Tali Sorek Tali Sorek, bambina israeliana, ai tempi dodicenne, scrisse questa poesia, ormai famosa in tutto il mondo, invitandoci a riflettere, per dipingere la pace. Avevo una scatola di colori brillanti, decisi, vivi. Avevo una scatola di colori, alcuni caldi, altri molto freddi. Non avevo il rosso per il sangue dei feriti. Non avevo il nero per il pianto degli orfani. Non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti. Non avevo il giallo per la sabbia ardente, ma avevo l’arancio per la gioia della vita, e il verde per i germogli e i nidi, e il celeste dei chiari cieli splendenti, e il rosa per i sogni e il riposo. Mi sono seduta e ho dipinto la pace. 14 Erster Schnee di Gottfried Keller Gottfried Keller, scrittore e poeta svizzero compone questa poesia nel 1845. Il testo è stato più volte musicato da compositori quali Wilhelm Reinhard Berger, Leopold Heinrich Picot de Peccaduc, Paul Hindemith e Friedrich Niggl. Due nemici muoiono ed hanno la tomba vicina. Aspettano la primavera di pace. Erster Schnee Wie nun alles stirbt und endet Und das letzte Lindenblatt Müd sich an die Erde wendet In die warme Ruhestatt, So auch unser Tun und Lassen, Was uns zügellos erregt, Unser Lieben, unser Hassen Sei zum welken Laub gelegt. Reiner weißer Schnee, o schneie, Decke beide Gräber zu, Dass die Seele uns gedeihe Still und kühl in Wintersruh! Bald kommt jene Frühlingswende, Die allein die Liebe weckt, Wo der Hass umsonst die Hände Dräuend aus dem Grabe streckt. Prima neve Come ormai tutto muore e finisce E l’ultima foglia di tiglio stanca si volge alla terra verso il caldo tepore del posto del riposo, Così anche il nostro fare e lasciare, Quello che ci emoziona in modo sfrenato, Il nostro amare, il nostro odio sia chioma d’albero deposta ad appassire. Neve bianca e pura, su nevica, copri entrambe le tombe, Che l’anima ci dia silenzio e fresco nella pace invernale! Presto torna il momento del cambiamento di primavera, che soltanto può risvegliare l’amore, Dove invano l’odio le mani stende minacciosamente fuori dalla tomba. 15 Der gute Kamerad di Ludwig Uhland Il testo fu scritto dal poeta tedesco nel 1809, mentre nel 1825 fu scritta la musica del brano dal compositore Friedrich Silcher. Un soldato si sofferma a pensare al compagno d’armi colpito vicino a lui, accompagnandolo nell’ultimo attimo di vita. La versione musicata viene eseguita nei paesi di lingua tedesca quale esequie per militari e per ricordare i caduti di tutte le guerre. Ich hatt’ einen Kameraden, Einen bessern findst du nit. Die Trommel schlug zum Streite, Er ging an meiner Seite. In gleichem Schritt und Tritt. Eine Kugel kam geflogen: Gilt sie mir oder gilt sie dir? Sie hat ihn weggerissen, Er liegt zu meinen Füßen Als wär’s ein Stück von mir. Will mir die Hand noch reichen, Derweil ich eben lad’. “Kann dir die Hand nicht geben, Bleib du im ew’gen Leben Mein guter Kamerad!”. 16 Avevo un camerata, uno migliore non lo trovi. Il tamburo invitava rullando alla battaglia Lui camminava vicino a me, con lo stesso passo. Arrivò una pallottola in volo è per me oppure per te? Lo ha strappato via, ora giace ai miei piedi come fosse parte di me Mi vuole tendere ancor la mano, mentre sto caricando il fucile La mano non te la posso dare, rimani nella vita eterna, Mio buon Camerata, O viandante, annuncia agli Spartani che noi riposiamo qui di Simonide di Ceo (Erodoto, Storie, VII, 228) Simonide fu l’autore dell’epigramma che si poteva leggere un tempo scolpito su di una pietra alle Termopili: « ὦ ξεῖν’, ἀγγέλλειν Λακεδαιμονίοις ὅτι τῇδε κείμεθα τοῖς κείνων ῥήμασι πειθόμενοι » «O viandante, annuncia agli Spartani che noi riposiamo qui per aver obbedito alle loro parole.» Lo stesso Simonide di Ceo (VI-V sec. a.C.) scrisse l’encomio ai caduti delle Termopili. «τῶν ἐν Θερμοπύλαις θανόντων εὐκλεὴς μέν ἁ τύχα, καλός δ’ὁ πότμος, βωμὸς δ’ὁ τάφος, πρὸ γόων δὲ μνᾶστις, ὁ δ’οἶκτος ἔπαινος· ἐτάφιον δὲ τοιοῦτον οὔτ’εὐρὼς οὔθ’ὁ πανδαμάτωρ ἀμαυρώσει χρόνος. ἀνδρῶν ἀγαθῶν ὅδε σηκὸς οἰκέταν εὐδοξίαν Ἑλλάδος εἵλετο· μαρτυρεῖ δὲ καὶ Λεωνίδας, Σπάρτας βασιλεύς, ἀρετᾶς μέγαν λελοιπὼς κόσμον ἀέναόν τε κλέος.» «Dei morti alle Termopili gloriosa la sorte, bella la fine, la tomba un’ara, invece di pianti, il ricordo, il compianto è lode. Un tal sudario non lo oscureranno né ruggine né il tempo che divora tutto. La gloria della Grecia si prese questo sacello d’eroi valorosi per abitarvi. Anche Leonida, il re di Sparta, che ha lasciato grande ornamento e imperitura gloria del valore ne fa fede.» 17 Il fiore purpureo piange… Saffo, frammento D. 117 οἴαν τὰν ὐάκινθον ἐν ὤρεσι ποίμενες ἄνδρες πόσσι καταστείβοισι, χάμαι δέ τε πόρφυρον ἄνθος . . . Come, sui monti, i pastori calpestano il giacinto con i piedi, e a terra il fiore purpureo… Der sterbende Soldat di Karl Kraus Karl Kraus, (1874 – 1936), poeta e scrittore viennese, nato in Boemia, nel suo capolavoro Gli ultimi giorni dell’umanità dà la parola a coloro che vissero la guerra: a personaggi umili e dignitari di corte, a generali e soldati di fanteria; parla delle trincee, dei cadaveri, dei gas e della morte. Il soldato morente “Capitano porta qua la Corte marziale! Io non muoio per alcun Imperatore Capitano, tu sei il tirapiedi dell’Imperatore! Una volta morto, io non ti saluto. Quando abiterò presso il mio Signore Il trono dell’Imperatore starà sotto di me. Ho scherno per i suoi ordini! Dov’è il mio paese? Là gioca mio figlio. Quando mi addormenterò nel mio Signore arriverà ai miei l’ultima lettera della posta da campo. Gridava, invocava, gridava, invocava! Quanto è profondo il mio amore. Capitano, tu non stai ragionando, perché mi hai mandato qui, Nel fuoco è bruciato il mio cuore 18 io non muoio per nessuna patria. Voi non mi costringete, voi non mi costringete! Guardate come la morte rompe le catene Portate la morte davanti alla Corte marziale! Io muoio, ma non per l’Imperatore” Quelle lunghe marce di Mario Rigoni Stern da Ritorno sul Don Quelle lunghe marce, eterne, senza soste, senza cibo, con i congelati che restavano ai lati della pista, con i feriti che morivano sulle slitte, con i sopravvissuti che si trascinavano. Neve, cielo, notte, giorno, neve, cielo. Ma come abbiamo potuto? E giungendo a piedi a Nikolajevka, Mario Rigoni Stern ricorda i suoi compagni perduti, piangendo coloro che non poterono tornare: «Dormite in pace amici valtellinesi ,in questo silenzio, in questa terra nera, in questo autunno dolcissimo. Chino la testa e poi faccio un cenno con la mano: «Ci ritroveremo un giorno. Arrivederci.» 19 Perché non t’uccisi Di Fausto Maria Martini Testo secondo: Tutte le poesie, Milano, I.P.L., 1969 Fausto Maria Martini il 17 novembre del 1916 fu ferito alla testa, sul Pal Grande: per la seconda era la seconda volta. La ferita era grave e qualcuno lo diede anche per morto. Un amico giornalista volle scrivere un suo saluto a Fausto Maria Martini, redattore de La Tribuna, morto in guerra; a morte confermata, I’ articolo sarebbe stato pubblicato il giorno successivo. Il Martini però non era morto e, una volta guarito, ebbe in regalo il manoscritto del proprio necrologio: Da allora lo portò sempre con sé come un talismano. Nella poesia qui riportata il poeta ricorda l’episodio del suo ferimento: non voleva uccidere un altro faustomariamartini. Non per viltà, - né tu lo avrai creduto, tu che la sera stessa, sotto un folle riso di stelle, dopo me caduto, fosti zolla di sangue tra le zolle, non per viltà mancai la giusta impresa di colpirti per primo: fu perché sullo sfondo inumano vidi te così biondo, te dalla faccia accesa d’una vampa improvvisa come un velo di pudor fanciullesco, avido, eretto di mezzo il busto sopra il parapetto della trincea, con due goccie di cielo per occhi (chi mai spegnerà quegli occhi, visti un attimo solo e senza tregua ribalenanti, se il mio sguardo tocchi qualcuno in ombra che appare e dilegua?) ti vidi profilato sul cobalto lontano e pur così miracolosamente vicino, che d’oltre lo spalto 20 di sassi e ferro scoloriva in rosa... Non per viltà; né fu perché io pensassi in un borgo lontano una sorella tua dolce e grave, vigilante i passi del fratello, se torni: come quella che m’attese gran tempo e a me giungeva ogni alba in sogno con un suo nepente e, sostando al mio letto, suadeva al sereno trapasso il moriente... Non t’uccisi perché nella stessa ora entrambi ci sporgemmo sopra il muto mare del nulla insieme, o sconosciuto compagno, e quello che pur sempre affiora al ricordo, tuo volto somigliava già questo uno più macilento e vecchio; o l’aria di nessuno era lo specchio non anche frantumato dalla lava degli shrapnell? ... Insieme sulla morte noi, vivi, ci sporgemmo, ed un fanciullo tu m’apparisti come me: trastullo sì l’uno come l’altro d’una sorte comune e l’uno e l’altro dal fluire di questa trascinati sull’estrema riva. Non dunque, ignoto, fu per tema ch’io non t’uccisi, fu per non morire. Per non morire in te: m’eri l’eguale, o apparso sulla gemina trincea, e tutt’e due la stessa sospingea Necessità di là dal bene e il male. Io non sapevo, o mio nemico biondo, da qual terra lontana o qual paese fossi tu qui venuto, ma palese m’era la via da questa vetta al mondo. Oh, somigliava a vie dell’aria, ed era tutta contesta di spirituale luce, strada da battersi con l’ale, scavata in cuore ad una primavera di mandorli: un ritaglio, su la terra, di cielo: come il nastro d’una gonna 21 cilestrina, lanciato da una donna amata a questa tua casa di guerra. Un attimo, e mi parve d’aver colto nel tuo sguardo una lene nostalgia d’altri cieli e una, insonne tuttavia, ansia di canti a fiore del tuo volto muto... O tu, ch’io conobbi sol nei chiari grandi occhi e i forti tuoi zigomi rossi, io mi credei, nemico, che tu fossi un convitato di conviti rari, mendicante d’azzurro, impenitente vagabondo, assetato sognatore, più che pensiero, cuore, cuore, cuore, Faustomariamartini d’altra gente… E non t’uccisi, o tu che mi colpisti in fronte, non t’uccisi sol perché, nemico ignoto dai grandi occhi tristi, ebbi paura di morire in te 22 23 Lettera del Dottor Oskar Koref Questo medico di Praga, già sottotenente medico del 69° reggimento di fanteria imperiale e regio, scrive nell’immediato dopoguerra al padre di Vittorio Biolato, morto a Ca. Tasson il 18 maggio 1918 e medaglia d’argento al valor militare quell’azione. Aveva poco più di vent’anni ed era più di una semplice promessa nel ciclismo. Illustrissimo signore, un pietoso dovere desidero compiere con questa mia, un dovere di cameratismo, che, quantunque già lungamente rimandato, io riguardo pur sempre, anche dopo così lungo tempo, come a me delegato e come sacro, nella speranza che le comunicazioni che seguono non debbano inasprire il Suo dolore, un po’ quietato dal corso degli anni. Si tratta della morte di Suo figlio, intorno alla quale Ella certo è soltanto in grado di presumere che accadde in prossimità delle nostre linee, cioè delle linee austro-ungheresi. Ma io, come testimonio oculare, posso darLe precisi ragguagli della eroica e per lui e per la sua famiglia sempre gloriosa condotta dell’eroe Suo figliuolo. Io credo di non riaccendere l’antico e certo già un po’ temprato Suo dolore: al contrario di lenirlo con la precisa descrizione del fatto. L’incertezza in cui Ella finora era costretta a vivere per mia colpa desidero distruggerla, per poter anche in tal modo reagire confortevolmente contro il duro destino. II conforto completo, se un tale conforto è mai in questi casi possibile, potrà il tempo arrecarlo: l’ombra che avviluppa ogni cosa lenirà anche a Lei il peso del Suo dolore, in modo da lasciare soltanto più il ricordo e la memoria del caro scomparso. In un giorno di maggio (credo fosse il 23: le mie precise indicazioni sono andate perdute durante le successive vicende di guerra) del 1918, improvvisamente davanti alle nostre posizioni apparve un gruppo d’assalto italiano, e, davanti a tutti Suo figlio, e colse i nostri completamente sorpresi. Dopo che l’assalto era brillantemente riuscito e lo scopo probabilmente anche altrove pienamente raggiunto, gli italiani si disposero ad operare il ritorno. Tuttavia Suo figlio, per cogliere anche i segni ed i trofei della vittoria, saltò risolutamente sopra un vicino posto di mitragliatrici, abbatté due 24 ungheresi là accorsi, s’impadronì dell’arma, cercando soltanto allora di ricongiungersi al suo gruppo già distanziato. Ma, impedito dalla pesantezza del bottino, non poté affrettare abbastanza la corsa ed il piombo mortale lo raggiunse, attraversandogli a mezzo il cuore e, silenziosamente, come colpito dal fulmine, cadde l’eroe, spirando, senza tormento e senza dolore, la grande anima sua. La salma del caduto venne sepolta, con tutti gli onori dovuti ai nemici valorosi, lassù, alle Bocchette di Fondo, ad uno sbocco del Grappa, tra Monte Pertica e Monte Prassolan. Egli dorme in una tomba segnata col suo nome. Sia pace alle sue ceneri! La lettera qui unita io la presi dagli effetti tolti da lui, per poterglieLa inviare. Di più non ho potuto salvare per Lei di quanto gli apparteneva. Le altre cose, oggetti di valore e notizie, dovettero essere consegnate al superiore comando. Queste poche righe, trovate sul suo cuore, come l’immagine di lui, scolpita nel cuore dei rimasti, non lasceranno mai cadere in dimenticanza la sua memoria. Mentre spero, anche dopo così lungo tempo, di aver fatto un’opera buona, mi segno con ossequio. Oscar Koref, già sottotenente di sanità al 69° reggimento di fanteria austroungarico, ora medico in Praga. Indirizzo: presso Ia signora Bermann, Mariauska Ulice, 4 25 Per ogni cosa c’è il suo momento Dal libro di Qoelet (Ecclesiaste - Bibbia), capitolo 3 vv. 1-12 Per ogni cosa c’è il suo momento Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. Che vantaggio ha chi si dà da 26 27 fare con fatica? Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine. La guerra di Piero di Fabrizio de André Gengis Khan, imperatore e condottiero mongolo, conquistò un vastissimo impero. La leggenda vuole che avesse sempre con sé sui campi di battaglia dei semi di papavero, per onorare i caduti, amici e nemici. Ad ogni primavera il rosso fiore macchiava nuovamente quei campi di sangue: E nel tempo il rito del ricordo del loro sacrificio sarebbe stato perpetuato dai papaveri, rammentando a tutti il luogo della battaglia. In Inghilterra nel Remembrance Day – il giorno della memoria -, tutti portano un papavero rosso all’occhiello, quasi a richiamare l’insegnamento di Gengis Khan. Lo stesso Fabrizio De André nei versi della sua fondamentale “La guerra di Piero”) si rifà a questa usanza; Qui nascono fiori rossi, i fiori del ricordo dei caduti Dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall’ombra dei fossi ma son mille papaveri rossi 28 lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente così dicevi ed era inverno e come gli altri verso l’inferno te ne vai triste come chi deve il vento ti sputa in faccia la neve fermati Piero, fermati adesso lascia che il vento ti passi un po’ addosso dei morti in battaglia ti porti la voce chi diede la vita ebbe in cambio una croce ma tu non lo udisti e il tempo passava con le stagioni a passo di giava ed arrivasti a varcar la frontiera in un bel giorno di primavera e mentre marciavi con l’anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore sparagli Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai esangue cadere in terra a coprire il suo sangue e se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a me resterà per vedere vedere gli occhi di un uomo che muore e mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede e ha paura ed imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia cadesti in terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chiedere perdono per ogni peccato cadesti in terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno 29 e non ci sarebbe stato un ritorno Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio Ninetta bella dritto all’inferno avrei preferito andarci in inverno e mentre il grano ti stava a sentire dentro alle mani stringevi un fucile dentro alla bocca stringevi parole troppo gelate per sciogliersi al sole dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa non è il tulipano che ti fan veglia dall’ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi. 30 Blowin In The Wind di Bob Dylan Blowin In The Wind How many roads must a man walk down Before you call him a man? Yes, ‘n’ how many seas must a white dove sail Before she sleeps in the sand? Yes, ‘n’ how many times must the cannon balls fly Before they’re forever banned? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind. How many times must a man look up Before he can see the sky? Yes, ‘n’ how many ears must one man have Before he can hear people cry? Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows That too many people have died? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind. How many years can a mountain exist Before it’s washed to the sea? Yes, ‘n’ how many years can some people exist Perduta nel vento Quanta strada dovrà camminare un uomo Prima di poterlo chiamare uomo? Sì, e su quanti mari dovrà veleggiare una bianca colomba Prima di poter riposare sulla sabbia? Sì, e quanto tempo ancora dovranno volare le granate del cannone Prima di essere abolite per sempre? La risposta, amico, sta soffiando nel vento La risposta sta soffiando nel vento Quante volte un uomo dovrà guardare in alto Prima di poter vedere il cielo? Sì, e quante orecchie dovrà avere l’uomo Prima di sentire la gente che piange? Sì, e quanti morti ci vorranno ancora perché egli sappia Che sono morte già troppe persone? La risposta, amico, sta soffiando nel vento La risposta sta soffiando nel vento 31 Before they’re allowed to be free? Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head, Pretending he just doesn’t see? The answer, my friend, is blowin’ in the wind, The answer is blowin’ in the wind. Quanti anni potrà esistere una montagna Prima di essere dilavato giù fino al mare? Sì, e quanti anni dovrà vivere la gente Prima di essere finalmente libera? Sì, e quante volte un uomo girerà la testa Fingendo di non vedere? La risposta, amico, sta soffiando nel vento La risposta sta soffiando nel vento Felder von Verdun Testo di M. Kunze, musica di R. Siegel Jr. La canzone “Felder von Verdun” (I Campi di Verdun) risale agli anni ‘60 e tratta l’argomento prima guerra mondiale. La zona Verdun, città francese della Champagne, ebbe il record dei soldati caduti. Felder von Verdun Die Felder von Verdun, die tragen keine Ähren, dort blüht nur roter Mohn. Die Gräber von Verdun, wem immer sie gehören, sind längst vergessen schon. Sie dachten, sie kämen im Herbst schon zurück und zogen mit Fahnen hinaus. Sie dachten, es gäbe für sie einen Sieg, den brächten sie bald schon nach Haus! Doch auf den Feldern von Verdun war alle Hoffnung hin, und Krieg und Sieg und Not und Tod verloren ihren Sinn. 32 I campi di Verdun I campi di Verdun non reggono spighe, là sboccia soltanto il papavero rosso. Le tombe di Verdun, a chiunque appartengano, sono dimenticate da tempo. Pensavano che sarebbero tornati già in autunno e uscirono con le bandiere. Pensavano che per loro ci sarebbe stata una vittoria e che presto la avrebbero portata a casa! Ma sui campi di Verdun ogni speranza se n’era andata, e guerra e vittoria e necessità e morte persero il loro senso. (Refrain) (Refrain) Sie wollten den Krieg noch führen wie einst. Was kam, das ahnten sie nie. Doch hatten sie kaum die Marne erreicht, Volevano condurre la guerra come un tempo. Quello che sarebbe capitato, mai lo avrebbero immaginato. Avevano appena raggiunto la 33 da führte der Krieg schon sie. Und auf den Feldern von Verdun war alle Hoffnung hin, und Krieg und Sieg und Not und Tod verloren ihren Sinn. (Sprechgesang zur Melodie des Refr.) Das Blut der Soldaten war rot wie der Mohn, im Feuer verbrannte das Gras. Nur wenige kamen damals davon, von denen keiner jemals vergaß. Marna che la guerra li portva già via con sé. Ma sui campi di Verdun ogni speranza se n’era andata, e guerra e vittoria e necessità e morte persero il loro senso. (Parlato, sulla melodia del ritornello) Il sangue dei soldati era rosso come il papavero, l’erba bruciava nel fuoco. Allora solo pochi ne uscirono, nessuno di loro ha mai dimenticato. (Refrain) (Refrain) Wer sagt mir, warum sie gestorben sind, warum dieses Morden geschah. Denn wenn man nicht endlich zu fragen beginnt, dann droht erneut die Gefahr, und wie die Felder von Verdun ist dann die ganze Welt, wenn Du und ich und Jedermann die Frage jetzt nicht stellt. Chi mi chiede: perché loro sono morti, perché è accaduto questo massacro? Se alla fine non si comincia a chiedere, saremo di8 nuovo in pericolo, e come i campi di Verdun sarà il mondo intero, se tu, io e qualsiasi altro non pone proprio adesso questa domanda. (Refrain) (Refrain) 34 ORRIBILE OMBRA DI POLIDORO (3. 13- 68) Virgilio, Eneide Basta un rintocco di campana! Tu, che vai nella Selva degli Eroi, tocca la campana del Ricordo! La tua sarà una carezza… di mamma, padre, fratello, sorella o fidanzata, fatta ad un soldato morente. Va’ e cammina sulla strada Della Pace! Se incontri un fiore rosso O una bacca del colore Del sangue, sappi che qui sono caduti soldati di tutta Europa. I loro compagni avevano con sé E hanno sparso al vento I semi dei fiori rossi. Non coglierli… Accarezzali! Sono i Fiori degli Eroi! 35 Uccidere un uomo di Emilio Lussu da Un anno sull’altipiano, Einaudi Editore Io facevo la guerra fin dall’inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. (...) Poggiai bene i gomiti a terra e cominciai a puntare. L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. (...) E intanto non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. (...) Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido” è un’altra. E’ assolutamente 36 un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. (...) Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: - Sai... così... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: - Neppure io. 37 Sei un uomo come me Il brano che segue è tratto dal romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (A. Mondadori, Milano, 2004) dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque Si è fatto un poco chiaro. Sto per voltarmi un poco e cambiar posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo pesante è cascato nella buca, addosso a me... Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida... L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere, mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono a un tratto così debole, che non posso più alzar la mano contro di lui. Mi trascino dunque nell’angolo più lontano, e resto là, con gli occhi sbarrati, il coltello in pugno, pronto, se si muove, a saltargli addosso un’altra volta... Ma non farà più nulla, lo sento dal suo rantolare. In confuso posso vederlo. E provo un desiderio solo, venirmene via. Se non parto subito, diventerà troppo chiaro: già ora è difficile. Ma quando tento di alzare la testa, vedo già che è impossibile. Il fuoco delle mitragliatrici è così fitto, che sarei crivellato prima di fare un sol balzo. Faccio la prova col mio elmo, sollevandolo un poco per constatare la radenza del tiro. Dopo un istante una pallottola me lo strappa di mano: dunque il fuoco passa proprio a fior di terra. E non sono abbastanza lontano dalla posizione nemica perché qualche tiratore scelto non mi colga subito, al primo tentativo di fuga. L’aria schiarisce sempre più. Aspetto febbrilmente2 un attacco dei nostri. Le nocche delle dita sembrano voler bucare la pelle, con tanto spasimo stringo i pugni, supplicando che il fuoco cessi e che i miei compagni arrivino. I minuti stillano3 a uno a uno. Non oso più guardare l’oscura fi gura dell’altro, che è con me nella buca. Guardo fissamente più in là, e aspetto, aspetto. I colpi sibilano, formano una rete d’acciaio sopra il mio capo, e non cessano mai, non cessano mai. 38 Guardo la mia mano insanguinata e all’improvviso provo un senso di nausea: prendo un po’ di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca e non vedo più il sangue. Il fuoco non diminuisce: ora è egualmente intenso dalle due parti. Certo i nostri mi hanno dato per morto da un pezzo. È giorno, un mattino chiaro e grigio. Il rantolo continua. Io mi tappo le orecchie, ma poi subito riapro le mani, perché altrimenti non odo più gli altri rumori. La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue. È morto, dico a me stesso: deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio. Finalmente eccomi presso di lui. Allora apre gli occhi: deve avermi sentito e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della morte... e di me. Io mi accascio a terra, sui gomiti: «No, no» mormoro. I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così. Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: «No, no, no» e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte. A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero e cerco di poggiare più comodamente la sua testa. 39 La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua fangosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo se si può. Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla. Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro: «Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade...». E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca. Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme. È tutto quello che posso fare. Ora non resta altro che aspettare, aspettare... Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un uomo! Perché lo so: salvarlo non è possibile. È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia. Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire... Alle tre del pomeriggio è morto. Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di prima. Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al morto e gli dico: «Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti del mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue 40 armi; ora vedo il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire... Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Albert. Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare». Silenzio. Il fronte è tranquillo, salvo il crepitare della fucileria. Il tiro è fitto, non si spara a caso, si mira bene da ambe le parti. Uscire è impossibile. 41 Comune di Seren del Grappa