Ancora a mia
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Impaginazione e Grafica: Anna Lo Porto per Tundesign
Illustrazione di copertina: Mauro Maraschi
Edizione 2010
Tutti i diritti riservati. Nessuna perte di testo di questo libro
può essere riprodotta o utilizzata in altre forme, elettroniche o
meccaniche, inclusa la fotocopiatura o la ricerca, senza il
permesso scritto dell’editore.
Joan Viborg
MARINEIDE
Pax et bonum
Epopea semiseria dell’ispettore Marineo
dal bronzeo viso
Tutto quanto raccontato nelle mie storie è frutto puramente della mia invenzione.
Tutti i lettori che dovessero riconoscersi nei personaggi
descritti se ne facciano una ragione.
Quelli che dovessero riconoscersi nei panni del commissario Guccione riflettano sulla loro condizione.
Quelli che si dovessero riconoscere negli autori dei delitti si costituiscano, se non sono già in galera.
Se ci fosse qualche lettrice che si riconosca in Stella mi
contatti. Qualora rispondesse mia moglie faccia finta di
essere un’operatrice della Telecom.
Nell’ipotesi che qualcuno si riconosca in due o più personaggi contemporaneamente pensi seriamente all’eventualità di contattare un bravo specialista.
Prologo
Marineo era temporaneamente assente dal proprio
corpo. L’effetto che gli faceva ascoltare un brano di
musica coinvolgente era quello di farlo accedere a
dimensioni diverse da quelle alle quali, chiunque non
avesse provato le medesime sensazioni, fosse solitamente abituato. Il suo inconscio stava viaggiando attraverso
lo spazio siderale, verso una destinazione ignota a cavallo della sonda spaziale Pioneer, lanciata negli anni ‘70,
per mettere in contatto la civiltà umana con un’altra ipotetica forma di vita che avrebbe potuto intercettarla
durante il suo lungo viaggio. Alla suddetta sonda, gli
scienziati che ne avevano curato la missione, avevano
applicato un disco d’oro sul quale erano state incise alcune informazioni che avrebbero dovuto svelare, agli ipotetici abitanti di altre zone del cosmo, chi fosse a mettersi in contatto con loro. Il contenuto del disco, infatti, riportava registrate al proprio interno alcune immagini che illustravano le diverse forme di vita presenti sulla terra. Altre immagini, di natura più scientifica, mostravano la struttura e il funzionamento del DNA, il nostro sistema solare e altre informazioni di carattere generale atte ad approfondire la conoscenza
del mittente. Ampia porzione del supporto era riservata ad
informazioni sonore. Vi erano registrati suoni di origine naturale quali il rumore del mare, lo scroscio della pioggia, lo stormire di fronde al vento e, per ultimo, i suoni creati dall’uomo.
Il brano di presentazione di quest’ultima sezione era rappresentato dal primo movimento del secondo dei sei concerti
brandeburghesi composti da Johan Sebastian Bach. Forse
quello con lo stile più italiano dell’intera sestina.
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Era proprio quel frutto dell’ingegno del compositore
tedesco che aveva permesso a Marineo l’accesso alla
dimensione in cui si trovava. Lo scambio di frasi tra la
chiarina, il flauto, l’oboe e il violino, limpido e perfetto,
avveniva con matematica precisione, completandosi con
l’accompagnamento dell’orchestra e del basso continuo.
Similmente all’incastro di tanti tasselli di un puzzle
che andavano agganciati in maniera univoca a quelli
complementari per raggiungere il risultato finale, tutto
l’insieme creava una melodia senza pari, resa ancora più
gradita al fine palato musicale dell’ispettore dal timbro
argentino della piccola tromba in fa che svettava su tutti
gli altri strumenti. Marineo pensava che qualsiasi forma
di vita avesse trovato quel messaggio musicale e avesse
avuto i mezzi per ascoltarlo, avrebbe sicuramente affrontato un viaggio verso la terra solo per venirci a stringere
la mano e farci i complimenti per i risultati.
La musica era forse l’unico linguaggio veramente
universale che avrebbe potuto mettere in contatto
simultaneo, senza diaframmi di sorta, un umano con un
alieno. A patto ovviamente che quest’ultimo disponesse
di organi appositi per la ricezione dei suoni.
Un incontro simile avvenne dopo nemmeno cinque
minuti, quando il commissario Guccione fece il suo
ingresso nella stanza di Marineo. L’ispettore non si accorse
del superiore per un duplice motivo.Questi non bussava mai,
perché riteneva che la sua posizione lo esentasse dall’osservanza delle principali norme di buona educazione, e
in secondo luogo perché Marineo era rapito dall’ascolto
del brano.
Guccione si avvicinò lentamente alla scrivania di
Marineo, quindi la oltrepassò e si mise alle spalle del
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subalterno che, tra l’altro, aveva pure gli occhi chiusi.
Dopo averlo osservato in assoluto silenzio per un paio di
minuti, staccò lo spinotto che alimentava il riproduttore
di compact disc dell’ispettore e contemporaneamente
emise un sonoro colpo di tosse. L’anima di Marineo tornò
rapidamente dal luogo in cui si trovava all’interno del
corpo che solitamente la ospitava e lo rimise in moto
partendo dalla lingua.
– Cu fu? – disse Marineo, preso alla sprovvista,
reagendo con un sussulto che lo fece quasi cadere dalla
sedia sulla quale stava sdraiato reclinato all’indietro.
– Buongiorno ispettore, mi scusi se l’ho spaventata,
sa... ho un po’ di tosse. Comunque, l’ho fatta chiamare
più di mezz’ora fa e lei, invece di precipitarsi nella mia
stanza, se ne sta qui beato a fare i suoi comodi, – esordì
Guccione, venendo subito al dunque.
– Ma non mi ha avvisato nessuno della sua chiamata.
– Probabilmente è lei a non aver sentito niente dato
che era addormentato.
Era inutile spiegare ad uno come Guccione che
non stava affatto dormendo e così abbandonò
istantaneamente tale proposito.
– Cosa è venuto a dirmi, commissario? – chiese
Marineo, cercando di togliersi dalle scatole il superiore
nel più breve lasso di tempo possibile.
– Ero venuto a comunicarle... ma come fa a tenere il
suo ufficio in tale disordine? Non sa che l’ordine è alla
base dell’efficienza? – si interruppe il commissario,
gettando lo sguardo sulla scrivania di Marineo.
– Commissario, quello che a lei sembra semplicemente
caos è in realtà un disordine funzionale. Vi sono studi che
smentiscono categoricamente la sua affermazione.
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Esiste, infatti, la possibilità che con l’ufficio in questo
stato io riesca a svolgere gli incarichi affidatimi più velocemente e proficuamente che se tenessi tutto perfettamente in ordine. Partiamo da un dato di fatto. Per mantenere
l’ordine è logico che occorra spendere del tempo. Tempo che
va sottratto ad altre occupazioni. Quindi, se il tempo che
io devo spendere per tenere tutto in ordine è superiore al
tempo che mi occorre a muovermi nel mio “disordine”,
è più vantaggioso per me, e quindi per chi mi paga, che
io non riordini affatto. Viceversa, se non ho mai niente da
fare e quel poco che ho non lo so fare, o lo faccio fare ad
altri, tengo il mio ufficio perfettamente in ordine e con il
tempo che mi avanza vado a scassare i passuluna a chi
mi sta intorno.
Guccione impiegò un po’ di tempo per seguire il
ragionamento di Marineo. Quando riuscì ad afferrarlo,
non fu sicuro di aver capito e non ribatté. Continuò semplicemente da dove aveva interrotto.
– Bando alle ciance, ispettore. Torniamo a ciò che
volevo dirle. Risulta, ad oggi, che lei abbia preso negli
ultimi undici mesi solamente due giorni di ferie. Devo
quindi chiederle di godere del suo periodo di riposo
immediatamente, per essere in regola con il contratto sindacale.
– E da quando partono queste ferie coatte?
– Da subito, ne prenda almeno una decina di giorni.
– Ma dove vado a novembre in ferie?
– A me non interessa affatto. Per quello che mi
riguarda può anche tapparsi in casa tutto il tempo.
– Beh, se devo proprio, vuol dire che me ne andrò al mare.
– Al mare? A novembre? Che ci va a fare al mare a
novembre, che non c’è più nessuno?
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– Proprio per questo ci vado ora, quando ci devo
andare? Quando ci sono quaranta gradi, un milione di
persone che fanno casino di giorno e di notte e ti vendono una granita dodici euro? Ci vado adesso e me lo godo
tutto da solo. Tanto, io, il bagno non me lo faccio quasi
mai. Me ne vado sempre a pescare.
– Ci vediamo tra dieci giorni allora, ispettore.
Marineo lasciò uscire Guccione dalla stanza e prese
il telefono. Compose un numero e attese che gli rispondessero mentre contraffaceva il proprio timbro di voce:
– Pronto? – rispose una voce all’altro capo.
– Buongiorno, mi potrebbe passare, cortesemente,
Concettina?
– Come ha detto, prego?
– Potrebbe passarmi Concettina che le devo parlare?
– Ma quale Concettina, qui non c’è nessuna
Concettina?
– È già uscita?
– No. Non c’è e non c’è mai stata, forse ha sbagliato numero.
– Va bene grazie lo stesso.
Chiuse la comunicazione e attese qualche minuto,
poi rifece lo stesso numero.
– Pronto?
– Buongiorno, mi chiamo Concettina, per caso ha
telefonato qualcuno che mi cercava?
– Concettina? Ma quale Concettina? Ma poi chi sei
che hai la voce da uomo? – ribadì l’interlocutore, cominciando a subodorare una presa per i fondelli.
– Sono un uomo, Concettina è uno pseudonimo.
– E il tuo vero nome qual è, Concettina, che ti vengo
a rompere le corna?
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– Santacroce, che villano che sei diventato. Ma così
ci si esprime al telefono?
– Marineo? Tu sei? Allora veramente le vuoi rotte le
corna. Ma possibile che non hai mai niente da fare?
Ma perché non lavori?
– Sono in ferie.
– Tu? In ferie? E da quando?
– Da adesso. L’ho appena saputo. Che fa ci vieni a
pescare con me?
– Ora?
– No. Domani. Ce ne andiamo una settimana nella
casa a mare di Guzzo, a pescare per tutto il tempo.
– Non posso Marineo, domenica prossima devo battezzare mio nipote. Ho anch’io un sacco di ferie arretrate
ma questa settimana proprio non posso. Mi dispiace.
– Devi battezzare tuo nipote? Quale nipote?
– Il figlio di mia sorella Serafina, quella che ti vuole
tanto bene, – precisò con sarcasmo Santacroce.
– Mi ci devi fare andare da solo? Vedi che poi te ne
penti.
– Me ne sono già pentito ma, in questo momento,
non posso. Ciao.
– Se ci ripensi sai dove trovarmi, – concluse
Marineo, con un tantino di disappunto.
– Sì, sì. Va bene, adesso lasciami lavorare.
Marineo riagganciò, deluso. Raccolse alcune carabattole dalla scrivania e, prima di incamminarsi verso
casa, andò in cerca di Guzzo. Lo trovò nella stanza dei
computer intento a trafficare davanti al monitor assieme ad
altri tre colleghi. Nessuno dei quattro si accorse del suo arrivo.
Rimasero concentrati su quello che stavano facendo.
Marineo si avvicinò alla postazione di Guzzo e chiese:
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– Tanino, ti dovrei chiedere una cosa.
Guzzo, sentendo dietro di sé la voce dell’ispettore,
trasalì. Scattò in piedi e si mise col corpo davanti al
monitor per impedire che Marineo vedesse la schermata.
– Ispettore, che c’è? Che le serve?
– Ti ricordi che mi avevi detto che potevo usare la
tua casa al mare?
– Sì, ma mi sembra un poco in ritardo, ispettore.
– A me ora serve, se l’offerta è ancora valida.
– Era valida d’estate e non lo deve essere a novembre? Le do la chiave. C’è l’ho qui, in tasca.
Guzzo nell’estrarre dalla tasca la chiave si scostò
leggermente, dando a Marineo la possibilità di leggere
quello che si trovava sullo schermo alle sue spalle.
Quindi porse la chiave all’ispettore.
– Grazie Tanino, penso di starci una decina di giorni.
– Ci può stare quanto vuole, a me per adesso non
serve.
– Va bene, ciao Mandingo, salutami anche la tua
amica di chat, Candy.
Gli voltò le spalle, lasciandolo ad arrossire da solo.
Intascata la chiave di Guzzo, Marineo uscì dal commissariato e si diresse a piedi verso casa. L’aria di novembre era
fresca ma un tiepido raggio di sole, che non era stato schermato dal massiccio roccioso che sovrasta il paese, gli sfiorava piacevolmente la faccia di bronzo. Si incamminò fra le
stradine anguste e pressoché deserte, pregustando già i prossimi dieci giorni di solitudine. Si augurò che la pesca fosse
proficua ma si disse che, anche se non lo fosse stata, avrebbe trascorso ugualmente un periodo rilassante.
Arrivato a casa aprì il ripostiglio e cominciò a cercare l’attrezzatura da pesca. Muovendosi come un
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furetto dentro la tana di un coniglio, trovò in poco
tempo la sua vecchia canna, malconcia ma ancora utilizzabile, seppellita sotto alcuni grossi scatoloni sul
ripiano più alto di un mobile. Il resto dell’attrezzatura
fu rinvenuto poco distante, racchiuso in una cassetta
per gli attrezzi riadattata a cassetta per le minuterie da
pesca.
Per controllare se vi fosse ciò di cui avrebbe potuto
avere bisogno, portò tutto sul tavolo della cucina. Esaminò
attentamente il contenuto della cassetta e, ritenutosi soddisfatto, mise tutto da parte.
Pregustando già le scorpacciate di pesce che lo attendevano nei giorni a venire, si apprestò a cenare. Decise di
cucinare le poche cose già presenti nel frigorifero, in
maniera da non lasciare nulla di deteriorabile durante l’assenza.
Finito che ebbe di mangiare il poco che aveva, si ricordò che il giorno prima aveva acquistato al mercato una
ventina di fichi d’India scuzzulati. Erano i primi che si procurava quell’anno ed erano la sua passione. Andò sul terrazzino adiacente alla cucina e su un cartone steso a terra
giaceva l’oggetto dei suoi desideri. Si armò di secchio e
coltello. Riempì il secchio d’acqua e vi immerse i frutti,
così da allontanarne le spine. Indossò un guanto e li sbucciò ponendoli con cura, tutti in piedi sulla base maggiore,
su un capiente vassoio. A lui non piaceva mangiarli ad uno
ad uno mentre li sbucciava ma piuttosto sedersi comodo,
con davanti un piatto colmo di frutti di ogni colore: bianchi, gialli e rossi, e mangiarne quanti poteva a pieni bocconi, senza soste. Quando fu sazio si alzò, mettendo i pochi
rimanenti in frigorifero per mangiarli a colazione l’indomani mattina, quindi decide di andare a letto.
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Aveva già indossato un consunto pigiama quando si
rammentò che in dispensa doveva trovarsi ancora mezza
bottiglia di Marsala e una ventina di biscotti di san
Martino acquistati qualche giorno prima, in occasione dell’omonima festività religiosa.
Così come avevano fatto i suoi nonni e i suoi genitori
fin quando non avevano tirato le cuoia, anche Marineo si
sforzava di mantenere vive le tradizioni religiose, soprattutto quelle legate alla sfera gastronomica. In tale maniera, era uso festeggiare Carnevale con dolci di ogni sorta;
san Giuseppe con la pasta con le sarde e con sfinci alla
ricotta da mezzo chilo l’una; della Quaresima se ne stracatafotteva e passava direttamente a Pasqua, con un agnello di pasta di mandorle da tre chili e mezzo e una colomba che sembrava un’aquila. Il lunedì dell’Angelo, o
Pasquetta che dir si voglia, lo festeggiava in campagna
con un agnello vero sulla brace. Si passava al Corpus
Domini, con un chilo di pane benedetto, condito con olio
e sarde salate; per l’ascensione si sbafava una cassa di
sarde appena scottate sulla brace; si arrivava così all’8 di
settembre con una scampagnata che prevedeva sette metri
di salsiccia arrostita su una pira di tralci di vite secchi; per
santa Lucia si strafogava di arancine, cuccìa, panelle e
ceci, e arrivava così a Natale per il gran cenone.
Da qualche anno era uso festeggiare anche il giorno
del Ringraziamento, come gli americani, con l’unico
movente di sbafarsi un tacchino ripieno da diciotto chili.
Stava studiando, inoltre, come sfruttare il Ramadan a
proprio favore ma gli riusciva difficile rimanere tutto
il giorno digiuno, anche se, al calare del sole, avrebbe
potuto trasformarsi in un licantropo e fare incetta di
ogni cosa commestibile gli capitasse a tiro.
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Ritornando al momento attuale, reputando inopportuno gravare il suo scarno bagaglio anche dei due
articoli di cui sopra, decise di depennarli subito dalla
lista di cose da portare con sé l’indomani. Andò in
cucina e si fece una zabbinata di Marsala e biscotti di
san Martino, che solo l’intervento divino gli consentì
di digerire.
Andò a letto mezzo sbronzo ma pago.
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