BLOBIENNALE
2009 - Papiro Arte - Venezia/Torino
2013 - Edizione speciale per Il Gazzettino
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Enzo Di Martino
BLOBIENNALE
Aneddoti, scandali, curiosità e incidenti
alla Biennale di Venezia
dal 1895 al 2013
Prefazione di
Sebastiano Grasso
Il veterano e l’avventuriera
di Sebastiano Grasso
Enzo Di Martino è un fedele veterano della Biennale. Le va dietro
da oltre quarant’anni. Quando l’ha vista per la prima volta, lei era
una bella signora, capace, anche se matura, di fare l’occhiolino
ai giovani cronisti come lui. Vezzosa perfino, aveva il fascino
accattivante delle grandi avventuriere. Enzo, che se n’era un po’
segretamente innamorato, non ha mai mancato un solo appuntamento. Certo, nei decenni trascorsi insieme, l’ha vista trasformarsi del tutto e anche se dall’abito lungo d’un tempo, è stata
costretta a indossare la minigonna, Enzo ha continuato ad andarle
dietro senza accorgersi – come capita quando si vive quotidianamente a contatto con una persona – che il trucco imbrogliava il
tempo e copriva le rughe.
Questo amore per la Biennale s’è concretizzato con ben cinque
libri in 37 anni. Il primo è uscito nel 1982; gli altri, a ruota, nel
’93, nel ’95, nel 2003 e, per chi parlava solo inglese, nel 2005.
Adesso, il sesto.
Enzo Di Martino ha pensato di ricordarla con un occhio un po’
diverso. Al diavolo le commemorazioni che sanno di muffa, deve
aver pensato. Perché non rievocare aneddoti, curiosità, scandali;
insomma tutte quelle cose che l’hanno resa viva e vitale? E, naturalmente, senza giustificare a tutti i costi i suoi comportamenti
nei vari decenni.
D’altronde, nata in una buona famiglia dell’alta borghesia, la
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Biennale col tempo è diventata una magnifica avventuriera.
E come tutte le avventuriere degne di rispetto, che occupano un
posto nella letteratura, ha avuto una vita intensa, straordinariamente ricca di amanti dei quali però, talvolta, l’amore s’è
mutato in rancore o, addirittura, in odio. Ma la vita è fatta anche
di questo.
La prima edizione si apre con uno scandalo: una donna nuda,
piuttosto lasciva, dipinta da Giacomo Grosso. Anno di grazia,
1895. Scende in campo il patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto
(futuro papa Pio X).
Da sempre, Venezia ha dovuto fare i conti con la curia. Nel 1949,
quando Peggy Guggenheim sistema il cavallo di Marino Marini
dietro i cancelli di Ca’ Venier dei Leoni, sul Canal Grande, dato
che il cavaliere ha il sesso eretto, è costretta a farlo modificare:
da fisso a smontabile, per poterlo svitare almeno una volta all’anno, durante le processioni in barca.
Anche la prima raccomandazione riguarda l’esordio della Biennale.
D’Annunzio chiede di esporre un dipinto dell’amico Francesco
Paolo Michetti, suggerendo addirittura dove collocarlo.
S
Venezia è un palcoscenico naturale straordinario, dove tutti i miti
resistono e dove se ne creano continuamente di nuovi. La Biennale è solo uno di essi. Ed è su questo palcoscenico che sfilano
Rodin, Renoir, Courbet (non L’origine del mondo, naturalmente),
Böcklin, Klimt, Picasso (un dipinto del quale, nel 1910, viene
esposto solo tre giorni e tolto perché avrebbe potuto provocare
uno scandalo; l’autore di Guernica tornerà alla Biennale solo nel
1948), Braque, i Futuristi, Morandi, Licini, ecc. ecc. L’elenco,
naturalmente, è sterminato.
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Il libro di Enzo Di Martino puntualmente registra mutamenti,
contestazioni, prese di posizione, incidenti, curiosità (come quando
il re del Siam, avendo visto le decorazioni di Galileo Chini ai
Giardini, lo fa venire per tre anni nel suo Paese ad affrescare la
sala del trono; e per ringraziare Venezia offre in dono due elefanti:
rifiutati per “problemi di gestione”), imbarazzi (Hitler, cui durante
la visita del 1934 ai Giardini, vogliono donare un dipinto di
Seibezzi, lo rifiuta sdegnosamente, scegliendone un altro di Voraggini), litigi con seguiti giudiziari (Giorgio de Chirico), storiche
stroncature (Ugo Ojetti), proteste politiche, manovre dietro le
quinte per l’assegnazioni dei Premi internazionali e relative accuse,
richieste di dimissioni della direzione della Biennale, interpellanze parlamentari, dissensi con rischi di crisi diplomatiche, e
via dicendo. Alla fin fine, tutti episodi che sono la spia di una
vitalità che non ha mai subito cadute di tensione.
S
Con la sua barba bianca, Enzo Di Martino ha l’aspetto di un vecchio signore. Poi, ci si accorge che anche in lui c’è una parte di
finzione, soprattutto quando lo si vede rincorrere i vaporetti o
affrontare a due a due i gradini dei ponti di Venezia.
Ma, come un signore d’altri tempi, Enzo s’è posto il dilemma se
raccontare tutto sino ai nostri giorni. Poi ha deciso di tralasciare
qualche episodio che coinvolge artisti viventi o i loro eredi. In
certi casi, bisognerà aspettare qualche anno ancora, in attesa che
il passare del tempo mitighi, renda accettabile ogni cosa e la
cronaca diventi storia.
Quando, suo malgrado, è coinvolto direttamente negli avvenimenti, la sua narrazione risente – e non poteva essere diversamente –, dei suoi giudizi estetici e delle sue simpatie o antipatie,
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diventando più partecipe e, quindi, necessariamente, meno obiettiva. Ma anche questo è un segno di vitalità della bella avventuriera capace, sempre e comunque, di coinvolgere e di suscitare
emozioni.
S
Tralasciare qualche episodio, s’è detto. Qualche anno addietro, in
un suo intervento sul Corriere della Sera, Enzo Di Martino aveva
ricordato alcune vicende piuttosto curiose sulla Biennale. Fra
queste, quella di un pittore veneziano, vincitore del Gran Premio,
che poco prima della cerimonia si accorge che una sua collezionista
americana, con la quale sta conversando su una panchina ai
Giardini, ha chiuso gli occhi e reclinato il capo. Zitto zitto, l’artista apre la borsetta della donna, tira fuori un po’ di fard e glielo
spalma sul viso per coprirne il pallore. Quindi, ne aggiusta la
postura sulla panchina, lasciandola come se stesse dormendo, e
va a ritirare il premio. Solo un paio d’ore dopo, qualcuno si
accorge che la donna é passata al mondo dei più.
Lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo, su Enzo Di
Martino piombano gli strali della famiglia del pittore (morto un
paio d’anni prima) che avrebbero voluto tenergli a lungo la testa
sott’acqua in Laguna.
Enzo ha preferito non riportare l’episodio in questo libro. Barando,
però. Tanto sapeva che lo avrei fatto io, che vivo a Milano dove é
quasi impossibile affogare qualcuno nelle acque dei Navigli.
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L’inizio di una storia
Un’istituzione artistica internazionale che ha superato un secolo
di vita ne ha viste davvero tante, ha vissuto inevitabilmente molti
episodi curiosi e divertenti, ha registrato necessariamente conflitti, anche politici, accese polemiche culturali, provocazioni
artistiche – a volte perfino scandalose – storici litigi personali,
sottili intrighi di mercato, gaffes memorabili ed incredibili
cantonate storiche.
E’ avvenuto ovviamente anche alla Biennale di Venezia che,
essendo stata fondata nel lontano 1895, ha dunque attraversato
tutto il XX secolo, un secolo convulso e contraddittorio, il tempo
della modernità, si diceva, denso di nuove ricerche espressive e
di radicali mutamenti estetici e formali, spesso non compresi o
male accettati al momento della loro manifestazione. In alcuni
casi per ragioni comprensibili, trattandosi di cose mai viste prima,
in altre occasioni per una cieca resistenza culturale al nuovo, in
altre ancora, per fortuna, accogliendo le novità con un misto di
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cinismo e sensibilità. Tutto ciò è avvenuto in un contesto che, per
la presenza stabile e permanente di numerosi Paesi stranieri, fin
dalla prima edizione, ha avuto un carattere davvero internazionale.
Queste vicende, tuttavia, non hanno mai scalfito il prestigio
culturale della Biennale che, invece, ha sempre saputo trarre da
questi episodi – nonostante le crisi ricorrenti di ogni genere –
una sorta di inattesa fortuna ed ovviamente una straordinaria
notorietà e considerazione tuttora persistenti.
1895: il primo scandalo
Già alla prima edizione del 1895 la Biennale registrò il primo
grande scandalo provocato da un dipinto che scatenò importanti
interventi pubblici ed una clamorosa curiosità popolare.
L’episodio è ormai noto e riguarda il dipinto Supremo convegno
di Giacomo Grosso (1860-1938), un pittore torinese raccomandato dal presidente dell’Accademia Albertina, il conte di Sambuy,
che definiva il quadro “opera di ardita composizione”.
Rappresentava – come lo descrisse efficacemente a suo tempo
Romolo Bazzoni, collaboratore fin dall’inizio del mitico segretario
generale Antonio Fradeletto – “un feretro dal quale emergeva il
volto cadaverico di un uomo irrigidito dalla morte, mentre cinque
donne ignude dalle membra fresche e giovanili lo attorniavano in
pose disperate e voluttuose ad un tempo”: configurava come si
vede un vero scandalo, tenendo conto dei costumi dell’epoca!
A Venezia non si parlava d’altro già prima della inaugurazione ed
il Patriarca Giuseppe Sarto, futuro Papa Pio X, non accettò
l’invito del sindaco Riccardo Selvatico a visitare l’esposizione.
Inviò anzi una lettera nella quale, oltre a rifiutare l’invito, scriveva
che “corre voce in città che tra le opere d’arte da esporsi ve ne
sia una che offende altamente il pudore ed io la prego di adoperarsi
perché non sia messa in mostra”.
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Ancora prima di aprire i battenti la Biennale incappava dunque
nel suo primo incidente storico: sarà una costante di tutta la sua
vita centenaria. Il sindaco Selvatico, temendo forse una scomunica, aveva nel frattempo chiesto un parere sul dipinto ad una
personalità di cultura cattolica e di grande prestigio, lo scrittore
Antonio Fogazzaro.
“Il dipinto del signor Grosso – scrisse Fogazzaro nella sua relazione – rappresenta in modo violento uno stretto e pauroso nesso
tra la libidine e la morte, onde lo spettatore è mosso ad inorridire
delle nudità che vi si ostentano bestialmente. Ma – proseguiva –
ci parrebbe duro condannare questo Supremo convegno in nome
della morale… e quindi, caro Selvatico, rispondiamo che il
dipinto non reca oltraggio alla morale pubblica”.
Giacomo Grosso, Supremo convegno, 1895. L’opera del primo scandalo.
Confortato da questo autorevole parere la Biennale lascerà dunque esposto il dipinto di Grosso, affermando fin da allora una
particolare indipendenza di giudizio che sarà sempre, per quanto
possibile, una sua irrinunciabile caratteristica.
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L’episodio divenne tuttavia di dominio pubblico e se ne discuteva
vivacemente – con torbida morbosità o in nome della libertà di
espressione – in ogni ambiente della città; tutti i giornali, sia
italiani che stranieri, indicavano nello “scandaloso dipinto” la
più clamorosa attrazione della Biennale.
Era dunque inevitabile che il pubblico, sebbene il quadro fosse
stato collocato in una saletta appartata e di difficile accesso,
entrasse in Biennale chiedendo subito informazioni su dove si
trovasse il Supremo convegno.
Come se non bastasse verso la fine dell’Esposizione si verificò un
episodio ancora più clamoroso perché, avendo la Biennale stabilito di assegnare un premio in base ad un referendum popolare,
il riconoscimento, a grande maggioranza, venne assegnato proprio al dipinto di Giacomo Grosso, provocando inevitabilmente
una nuova ondata di discussioni e di polemiche, con
grande indignazione degli ambienti cattolici nei confronti della
presidenza della Biennale che, con la sua idea del premio
popolare, aveva ulteriormente alimentato lo scandalo.
Il clamore suscitato dalla vicenda fu enorme in tutto il mondo
ed attirò l’attenzione di una spregiudicata e misteriosa società
– la Venice Art & Co, forse costituita per l’occasione – che acquistò
il dipinto con l’intenzione di esporlo a pagamento in diverse città
del mondo, confidando nella “pruderie” tipica del tempo.
Non si hanno molte notizie di questa particolare mostra itinerante, ma risulta che la prima tappa sia stata in una città degli
Stati Uniti. Mancano documenti certi, ma pare che l’ambiente
dove era esposto il dipinto abbia preso fuoco e che l’opera sia
andata distrutta in quell’incendio da molti definito, allora,
misterioso e probabilmente doloso. Qualche voce più maliziosa
avanzò persino l’ipotesi di un discreto intervento del Vaticano
nella vicenda.
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D’Annunzio e Michetti: la prima raccomandazione
Il grande clamore suscitato dal Supremo convegno di Giacomo
Grosso oscurò in quel momento il controverso rapporto di
Gabriele D’Annunzio con la Biennale.
Di certo nel 1895, l’anno della prima Biennale, il poeta era già
celebre e però molto discusso in tutti gli ambienti culturali
italiani.
Era peraltro molto amico del pittore Francesco Paolo Michetti,
anch’egli abruzzese e già molto noto, invitato a far parte del
Comitato di Patrocinio della Biennale e ad esporvi quell’anno
due suoi grandi dipinti.
I contatti del pittore con il Segretario generale Fradeletto
erano curati dallo stesso D’Annunzio che promise anche
di tenere una conferenza pubblica su quella prima Biennale,
in particolare sul dipinto che Michetti avrebbe inviato e sul
Trionfo di Venezia.
Esiste perfino una lettera, firmata F. Paolo Michetti, che, per la
sua particolare e riconoscibile calligrafia, era stata invece scritta
dallo stesso D’Annunzio.
La conferenza venne più volte rinviata e fu tenuta solo nel mese
di novembre del 1895, in mezzo a mille polemiche tra conservatori e liberali, quando la Biennale era praticamente già chiusa.
Accanto alle promesse, tuttavia, D’Annunzio raccomandava
caldamente il dipinto La figlia di Jorio di Michetti, che quindici
giorni prima dell’inaugurazione doveva ancora giungere a
Venezia, indicando perfino come esporre l’opera.
Si trattava, scriveva al sindaco Selvatico, di “una immensa tempera
che ha bisogno dell’intera parete di una sala… una parete di
fondo larga circa sette metri… che guardasse verso il nord per
modo che il sole non la toccasse, perché ha bisogno di una luce
calma e misurata, il sole la distruggerebbe”.
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Continuava intanto a promettere la sua famosa conferenza pubblica che sarebbe stata “un inno al trionfo dell’Esposizione di
Venezia” e, nel frattempo, a caldeggiare la buona collocazione
del dipinto, suggerendo perfino allo “spettatore di porsi ad una
certa distanza dal quadro per cogliere gli effetti che da vicino
l’asprezza della superficie distrugge interamente”.
Si trattava, come si può vedere, della più accurata preparazione
all’arrivo del quadro di Michetti per la prima Biennale.
Il risultato di tutta questa attenta promozione, al di là delle qualità dell’opera, fu che a Francesco Paolo Michetti venne assegnato
il Premio Città di Venezia, di fatto il primo premio, consistente in
ben 10.000 lire di allora.
Forse Michetti non ne aveva bisogno, ma l’episodio configura un
caso di evidente “raccomandazione”, il primo nella lunga storia
della Biennale.
Le occasioni mancate ed il Picasso rifiutato
La falsa lettera di D’Annunzio firmata F. P. Michetti, 1895.
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Francesco Paolo Michetti, La figlia di Jorio, Premio Città di Venezia alla Biennale del 1895.
Le occasioni mancate ed il Picasso rifiutato
La storia delle occasioni mancate nelle acquisizioni alla
Biennale appare oggi davvero clamorosa, specialmente per la
Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia – ma non solo –
costituita ed aperta proprio nel 1902.
Del resto la Biennale era allora dominata dal gusto estetico e
dalla scelte dei grandi pittori accademici del tempo e per i
giovani ed il nuovo non c’era alcuna possibilità di esporre.
Al punto che già nel 1898, tre anni dopo la prima Esposizione, la
duchessa Felicita Bevilacqua La Masa lasciava in eredità il suo
maestoso Palazzo Pesaro sul Canal Grande al Comune di Venezia,
purchè, scrisse con grande acume e preveggenza, fosse “destinato ai giovani artisti ai quali è interdetto l’accesso alle grandi
mostre”, con un evidente accenno polemico alla neonata Biennale.
Non di meno nei primi anni del ‘900, la Francia aveva presentato ai Giardini mostre di Rodin, Renoir e Courbet, la Svizzera di
Arnold Böcklin e l’Austria di Gustav Klimt. Ed i prezzi delle loro
opere erano davvero accessibili perché Il giardino delle Tuileries
di Renoir, per fare un solo esempio, costava diecimila lire, quanto
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un discreto artista italiano del tempo. Ma gli acquisti e le donazioni
per la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, per importi anche
superiori, erano tuttavia indirizzati verso pittori di maniera quali
Dall’Oca Bianca, Sartorio o Ettore Tito.
La distanza culturale dell’Italia, in particolare nei confronti di
quanto avveniva a Parigi negli anni immediatamente prima
dell’apertura della Biennale, appare oggi davvero un’esempio di
“cecità storica”, com’è stata definita.
Eppure il mito di Venezia era forte e persistente e sicuramente gli
artisti avrebbero donato una loro opera alla città, bastava chiederlo.
Ancora più clamoroso – anche se per certi versi più comprensibile – appare in questo contesto il rifiuto di tenere esposto un dipinto di Picasso perché, scrisse il segretario generale Fradeletto,
“con la sua novità avrebbe potuto scandalizzare il pubblico”.
L’episodio, in altre occasioni riportato come avvenuto nel 1905,
si è invece verificato più comprensibilmente nel 1910, forse con
un dipinto cubista, come ha ben documentato lo storico Jean
François Rodriguez.
Il giornale La Voce, del resto, in un articolo del 28 aprile 1910,
scriveva infatti che “anche a Venezia cominciano ad accorgersi di
quel che è stato detto Impressionismo francese… e forse tra un
paio d’anni vedremo Cézanne e chissà, tra quattro anni, anche
quel Picasso che, esposto per tre giorni, fu cacciato via dal
prudente Fradeletto”.
Il rapporto di Picasso con la Biennale, come peraltro quello di
De Chirico e di altri grandi protagonisti dell’arte, è stato quanto
meno difficile e non a caso vi esporrà la prima volta soltanto nel
1948, quando cioè l’artista aveva già sessantasette anni ed aveva
praticamente già fatto tutto. Saranno i giovani artisti di Ca’ Pesaro,
le cui collettive annuali iniziarono nel 1908, a portare il nuovo
ed il moderno a Venezia.
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1910 L’arrivo dei Futuristi a Venezia
Nei suoi primi quindici anni di vita la Biennale sonnecchiava
rassicurata sui suoi allori accademici e non avvertiva le tensioni
e le inquietudini sociali ed artistiche che percorrevano l’Europa.
Alla fine dell’Ottocento Vienna viveva le conturbanti presenze di
Klimt, Schiele e Kokoschka, ad esempio, mentre nel 1905
nasceva a Dresda l’Espressionismo tedesco.
In Francia nel 1905 comparivano al Salon d’Automne i Fauves e
l’anno dopo Picasso e Braque elaboravano la concezione del
Cubismo.
I Futuristi di Marinetti, che nel 1909 avevano pubblicato su
Le Figaro il loro manifesto ideologico, nell’aprile del 1910
– dopo l’uscita l’anno precedente sulla Gazzetta dell’Emilia a
Bologna – sbarcano rumorosamente a Venezia.
La città e la sua trionfante Biennale venivano avvertite come
segni del passato e del vecchio.
“Bruciamo le gondole sedie a dondolo per cretini – scrivevano
sui volantini lanciati dalla Torre dell’Orologio in Piazza San
Marco – e venga finalmente la Divina Luce Elettrica a liberare
Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata”.
Un gesto clamoroso e rivoluzionario che, mentre la Biennale
ignorò deliberatamente, venne invece raccolto ed apprezzato dai
giovani ribelli di Ca’ Pesaro che invitarono immediatamente
Boccioni ad allestire una mostra nella loro sede dove, come
abbiamo già detto, era iniziata nel 1908 l’attività espositiva con le
ormai storiche e tuttora attive esposizioni collettive annuali.
La mostra, che presentava in effetti un Boccioni ancora Divisionista, costituì però un grande incoraggiamento per l’artista a
proseguire per la strada annunciata. Nella seconda metà del
1910, anche per gli incitamenti di Nino Barbantini, coordinatore
dell’attività dei giovani ribelli di Ca’ Pesaro, com’è documentato
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Umberto Boccioni, Nonna, 1905-1906, esposto a Ca’ Pesaro nel 1910
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nella corrispondenza, realizzerà infatti alcuni dei suoi più importanti capolavori futuristi come Rissa in Galleria, Stati d’animo
e La città che sale.
Qualcuno ha perciò scritto, tenuto conto degli interessi preminentemente letterari di Marinetti, e della fatale caduta da cavallo
nel 1916 nei pressi di Verona, che senza questa mostra veneziana
di Boccioni forse non vi sarebbe stato il Futurismo in pittura.
Il clamoroso lancio dei volantini dalla Torre dell’Orologio e la
mostra di Boccioni a Ca’Pesaro, costituirono comunque una forte
spinta all’apertura e al rinnovamento della stessa Biennale, anche
se essa aveva ostentatamente ignorato i due eventi.
Non a caso nel 1914 i giovani artisti di Ca’ Pesaro, tra i quali
spiccavano le figure di Gino Rossi ed Arturo Martini, che tentavano
da anni e senza successo di partecipare sotto giuria di accettazione alla Biennale, organizzarono clamorosamente all’Hotel
Excelsior al Lido, una “Esposizione di alcuni artisti rifiutati alla
Biennale Veneziana”.
Manifesto per la I Esposizione alla
Bevilacqua La Masa del 1908
Gino Rossi, La fanciulla del fiore, 1909,
esposta a Ca’ Pesaro nel 1910
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La mostra ebbe molto successo e fu “copiata” anche dai giovani
artisti di Bologna che, rifiutati anch’essi dalla Biennale, allestirono una mostra presso l’Hotel Baglioni.
Tra quegli espositori, va notato, figuravano anche Giorgio
Morandi, futuro Gran Premio nel 1948, ed Osvaldo Licini, Gran
Premio nel 1958.
Del resto lo scontro tra La Biennale ed i giovani artisti di Ca’
Pesaro era ormai frontale tanto che Nino Barbantini scrisse nel
1912 una lettera durissima a Fradeletto: “Lei sempre disse e fa
giurare e spergiurare dalla falange dei critici ufficiosi pendenti
dalle sue labbra, che l’arte di tutto il mondo di ieri e di oggi fu
riassunta dalle tredici mostre che si sono succedute dal 1895. Lei
invece – proseguiva con asprezza Barbantini – ha fatto pochissimo e quel poco l’ha fatto male… Metta da parte i Lembach,
Stuck, Zorn, Bernard, Roll ed i troppi monsignori di quella risma
che da quasi un ventennio sono sempre gli stessi… vezzeggiati
dalle loro clientele borghesi… e ci indennizzi in fretta delle omis-
L’arrivo della contessa Wladimiro all’inaugurazione del Padiglione russo, 1914.
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sioni e degli equivoci, provvedendo ad informarci biennalmente,
senza reticenze e ritardi, di quanto si è fatto nel biennio di veramente vivo e di seriamente discutibile in Europa”.
Una lettera, anzi una presa di posizione, una denuncia dura e coraggiosa, come si vede, di un giovane curatore nei confronti di un
personaggio molto potente, forse impensabile anche ai nostri giorni.
Un’idea “bizantina”, i padiglioni stranieri
Giunta alla sua settima edizione, nel 1907, nonostante le aspre
polemiche che dovrà sostenere con i giovani ribelli di Ca’ Pesaro,
e non solo, la Biennale sembrava ormai giunta ad una situazione
di sicuro consolidamento.
E’ stata tuttavia la geniale idea di Fradeletto, – onore al merito –
di creare i padiglioni stranieri, a determinarne il definitivo rafforzamento internazionale e l’assetto organizzativo che l’istituzione
ha sostanzialmente ancora oggi.
L’idea aveva qualcosa di bizantino perché consisteva nel concedere gratuitamente a ciascun Paese un piccolo terreno ai Giardini
di Castello, attorno al padiglione espositivo centrale che allora si
chiamava Pro Arte, affinché vi costruisse a sue spese un padiglione nel quale presentare i propri artisti. Naturalmente anche
le spese di manutenzione e quelle relative all’allestimento della
propria mostra erano a carico di ogni rispettivo Paese.
Cominciò il Belgio nel 1907, seguito, nel 1909, da Germania,
Ungheria e Gran Bretagna, dalla Francia nel 1912, dall’Olanda
nel 1914, dagli Stati Uniti nel 1930, e via via da tutti gli altri fino
a giungere, nel 1995, all’ultimo Padiglione realizzato, quello
della Corea del Sud.
La Russia, che con i suoi artisti aveva partecipato alla Biennale
fin dalla prima edizione, realizzò il suo padiglione nel 1914.
Il promotore dell’iniziativa fu Serge Diaghilev, innamorato di
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Venezia e oggi sepolto nel cimitero dell’isola di San
Michele.
Fu lo stesso Diaghilev, amico di artisti importanti quali Matisse
e Derain, a illustrare la mostra d’esordio, allestita nel nuovo
padiglione che venne chiamato la “Casa d’arte” dell’Accademia
imperiale di San Pietroburgo.
All’inaugurazione – la cui solenne benedizione fu affidata ad un
Pope vestito con un ricco piviale d’oro – partecipò il 29 aprile del
1914 anche la Granduchessa Wladimiro accompagnata dal figlio,
il Granduca Andrea. Il padiglione ebbe però vita breve perché
venne chiuso nell’agosto dello stesso anno per lo scoppio della
prima guerra mondiale.
Alla sua riapertura, nel 1924, portava sulla facciata la grande
scritta URSS mentre sul tetto dell’edificio sventolava la bandiera
rossa con la falce ed il martello dell’Unione Sovietica.
Questo è però solo uno delle molte vicende storico-politiche che
hanno coinvolto i padiglioni dei vari Paesi nel corso di oltre un
secolo.
Conta rimarcare, tuttavia, che la formula dei “padiglioni stranieri”, cioè delle partecipazioni nazionali, spesso considerata vecchia e superata da commentatori che non ne conoscono la storia,
è ancora oggi la forza indistruttibile della Biennale, anche perché consente di scaricare forse l’80% dei costi complessivi sui
vari Paesi.
1895-1914 Qualche piccola curiosità
Il primo incidente della storia della Biennale avvenne forse
prima dell’inaugurazione.
Infatti anche se il primo manifesto fissa la data al 22 aprile 1895,
sappiamo bene che la grande esposizione – pensata anche come
omaggio al re Umberto I° ed alla regina Margherita di Savoia
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Galileo Chini, Fregio dal ciclo Arte del sogno, Biennale 1907
per i 25 anni del loro matrimonio – venne aperta al pubblico
solo il giorno 30, forse per una indisponibilità dello stesso re, o
perché l’esposizione non era pronta. Un ritardo che non portò
fortuna al Re perché, come è noto, venne assassinato pochi anni
dopo, il 29 luglio del 1900, a Monza, dall’anarchico Gaetano
Bresci.
La manifestazione, ad ogni buon conto, attirò a Venezia tutto il
cosiddetto “bel mondo” internazionale, nobili da tutta Europa, ed
anche molti artisti e personaggi stravaganti.
Sarebbe divertente ricordarli come ha fatto, almeno in parte,
Romolo Bazzoni nel suo fondamentale 60 anni della Biennale
di Venezia del 1962. Libro nel quale racconta ad esempio del
fuoriuscito russo Wladimiro Scherevschevski che, invitato ad
esporre alla Biennale del 1897, si trasferì a Venezia per l’occasione e vi rimase tutta la vita. O del danese Peter Severin Kroyer
che girava per la città con un elegante bastone al cui interno era
nascosto un sottile contenitore di vetro contenente alcol, o,
ancora, della vicenda del Re Rama V del Siam – l’odierna
Thailandia – che nel 1909, innammoratosi delle decorazioni
permanenti che Galileo Chini (1873-1956) aveva realizzato
per la Biennale, volle a tutti i costi portarlo a Bangkok per
affrescare la sala del trono del suo palazzo. Offrì all’artista
italiano, peraltro già molto noto, oltre naturalmente al viaggio,
vitto e alloggio, la considerevole ricompensa di centomila lire.
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Una somma notevole per il tempo, che permise all’artista, al suo
ritorno in Italia, di acquistare una villa in Versilia.
Naturalmente Chini accettò l’offerta partendo nel 1911 per il
Siam dove rimase circa tre anni.
Per ricompensare il personale della Biennale, che l’aveva aiutato
a realizzare il suo desiderio, il Re del Siam, voleva inviare in
dono a Venezia due elefanti. Il dono venne in effetti rifiutato
dalla Biennale perchè avrebbe creato certamente qualche
problema di gestione.
Tra i visitatori illustri – come ha raccontato nel libro già citato
Romolo Bazzoni – vanno ricordati, tra gli altri, anche l’ex
Regina Maria Pia del Portogallo, che nel 1901, acquistò un’opera
di Aristide Sartorio, e l’Imperatore di Germania Guglielmo II che,
giunto a Venezia con la sua nave Hohenzollern, nel 1905 comprò
alcune opere tra cui una scultura del napoletano Francesco
Jerace ed un acquerello del veneziano Emanuele Brugnoli.
Tra le “perle” di questo periodo storico vanno certamente
collocati i giudizi di Ugo Ojetti, il più autorevole critico d’arte del
tempo, da sempre molto vicino alla Biennale, che nel 1910
definì “senza anima” la pittura di Renoir, mentre la sala dedicata a
Klimt veniva paragonata ad “un carnevale in una camera
mortuaria”. Dimostrerà la sua “acutezza critica” anche più tardi,
nel 1922, in occasione della mostra dedicata dalla Biennale a
Modigliani, inesorabilmente stroncato.
Ojetti non era il solo perché molta parte della critica italiana
appare in ritardo rispetto alla ricerca dell’arte europea del
tempo.
Tanto vale ricordarlo allora per la sua celebre frase
– “un quadro senza cornice è come una persona senz’anima” –
esposta ancora oggi in vetrina da molti corniciai d’Italia.
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1920 – 1942 Un ventennio difficile
La ripresa dell’attività della Biennale dopo la prima guerra mondiale portò all’avvicendamento dello storico segretario generale
Antonio Fradeletto, ormai anziano, con il più giovane Vittorio
Pica, esperto di arte francese.
Il quale già nel 1922, perciò con grande tempismo, dopo soli due
anni dalla morte dell’artista, allestì una piccola mostra di Amedeo
Modigliani, che naturalmente non aveva mai esposto in vita
alla Biennale di Venezia.
Il pittore livornese aveva peraltro frequentato la locale Accademia di Belle Arti all’inizio del secolo, prima di trasferirsi
definitivamente a Parigi.
L’accoglienza che la sua opera ebbe in questa occasione risulta
chiara nelle parole del sindaco della città Giovanni Bordiga che
si chiese nel suo discorso ufficiale, senza alcuna ironia, “se non
era più opportuno sistemare quei dipinti nella vicina sezione
della scultura negra”.
La Biennale in questo ventennio
sarà caratterizzata dall’imperversare delle mostre dedicate
da Filippo Tommaso Marinetti
al secondo Futurismo e, nello
stesso momento, dal susseguirsi
nelle esposizioni di numerosi
ritratti celebrativi di Mussolini,
anche di artisti “insospettabili”.
Tutti in soccorso del vincitore,
dunque.
La sequenza delle riproduzioni
nel catalogo del 1924 si apre,
Amedeo Modigliani, Lunia Czechowska, 1917,
esposto alla Biennale del 1922
non a caso, con un fiero ritratto
25
in marmo di Mussolini di Adolfo Wildt.
Anche Prampolini e tanti altri, nel corso del ventennio, non mancarono di dedicare un omaggio al Duce e al Fascismo.
Nel 1930 si attua una grande rivoluzione organizzativa, perchè
la Biennale diventa ente dello Stato e la presidenza viene assunta
dal conte Volpi di Misurata, il quale, per favorire la promozione
turistica del Lido, inventa nel 1932 il Festival del Cinema, il
primo del genere al mondo. Si trattava della proiezione di una
quarantina di lavori, tra film a soggetto e documentari, sulla
terrazza dell’Hotel Excelsior di cui Volpi era proprietario…
Poteva mancare anche in questo caso un piccolo scandalo? Uno
dei film proiettati era Estasi – con la bellissima Edy Lamarr – in
cui, per la prima volta nella storia del cinema, appariva su di uno
schermo il seno nudo di una donna.
La Biennale risentì ovviamente della situazione politica in
Europa: il Fascismo in Italia ed il Nazismo in Germania.
Nel 1934 sia Mussolini che Hitler visitarono ufficialmente, ma
separatamente, la Biennale ai Giardini. Ma se la visita del Duce
Enrico Prampolini, Mussolini sintesi plastica,
XV Biennale, 1926
Adolfo Wildt, Benito Mussolini,
XIV Biennale, 1924
26
Hitler alla Biennale del 1934
avvenne senza particolari problemi, quella di Hitler, come
racconta Bazzoni che era presente, provocò invece qualche
episodio imbarazzante.
Il Fürher si piccava infatti di essere pittore egli stesso, ma aveva
gusti, racconta Bazzoni, che “portavano l’impronta dell’estetica
nazista, sostanzialmente oleografica, categoricamente ostile a
quella che in Germania veniva chiamata “arte degenerata”. Nella
sua visita” prosegue Bazzoni “Hitler era accompagnato dal
presidente e dal segretario generale della Biennale che decisero
di dare in omaggio all’ospite un dipinto di Fioravante Seibezzi,
una sognante veduta di Venezia, che egli tuttavia si peritò di
rifiutare dicendo seccamente che non gli piaceva. Aveva invece
“fermata la sua attenzione su di un quadro senza sfumature di
Memo Varaggini – dal titolo Barche – e ne accolse soddisfattissimo il dono”.
Si racconta che all’incirca negli stessi anni anche Vittorio
Emanuele III avesse visitato la Biennale e che, davanti ad alcuni
paesaggi, non mancasse di chiedere all’artista, evidentemente non
avendo altri argomenti, l’altitudine della località, il numero di
27
Mussolini alla Biennale del 1934
abitanti e la loro occupazione.
Il catalogo del 1938, tanto per essere chiari, riporta in apertura
la dichiarazione che “il programma della XXI Esposizione Internazionale d’Arte è stato approvato da S.E. il Capo del Governo
nell’udienza concessa il 16 febbraio XVI al Segretario Generale
della Biennale e attuato secondo le direttive impartite”.
I Gran Premi vennero istituiti proprio nel 1938 e, due anni dopo,
quello per la scultura venne assegnato non a caso ad Arno
Brecker, il “pomposo e retorico” artista preferito di Hitler.
Il conte Volpi con il Re Vittorio Emanuele III
e la Regina alla Biennale del 1932
Il Re Vittorio Emanuele III alla Biennale, 1934
28
Lo stesso anno, il 1940, venne dedicata una mostra retrospettiva a Giacomo Grosso, morto due anni prima, al pittore cioè
che aveva provocato nel 1895, con il suo Supremo convegno, il
primo scandalo storico alla Biennale.
Ma quelli erano ormai anni di guerra e non deve stupire
allora che la Biennale abbia riservato, nel 1942, una mostra speciale agli “artisti militari e combattenti”.
La pubblicità nei cataloghi tra le due guerre
Il catalogo della Biennale ha sempre ospitato pagine di pubblicità
concernente soprattutto eventi espositivi ed editoriali.
Ma fin dall’inizio l’istituzione cercò un sostegno finanziario dal proprio catalogo.
Interessante ed anche molto divertente è, però, scoprire
che cosa la Biennale consentisse di pubblicizzare, evidentemente senza alcun imbarazzo, sulla propria pubblicazione ufficiale.
In tali pagine, c’è di tutto, troviamo infatti le offerte di biciclette austriache Meteor, la biancheria della Vedova Baroncini o le bambole marcianti, casalinghi, le casseforti del
Cav. F. Vago di Milano, i Pianoforti- Armonium, la reclame
di collegi convitto, marche di birra, grappe, liquori, acque
minerali, il Curaçao Pizzolotto e vini di ogni tipo.
Non mancano alcuni prodotti davvero inusuali e sorprendenti per un catalogo d’arte, come ad esempio l’elisir universel Ocean contro il mal di mare.
O pillole purgative anti-emorroidali, e quelle antimalariche Pomelo, studi di medici specialisti in varie malattie,
Coiffeurs specialistes de dames, estratti di carne, il gas acetilene della ditta Mayrargues-Tozzi, lucido da stivali,
marmi artificiali e lumini da notte.
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Pubblicità delle “Bambole marcianti”, catalogo della III Biennale, 1899
30
Pubblicità dello “Zabaione ricostituente Vov”, catalogo della XVIII Biennale, 1932
31
Nel catalogo del 1926, l’Università di Ca’ Foscari pubblicizzava i corsi per studenti stranieri con la possibilità di “usare
un campo da tennis”, mentre in quello del 1928 l’albergo Cappello segnala che le sue stanze erano “riscaldate a termosifone”,
come si fa oggi con l’aria condizionata. Nel 1934 Gabriele D’Annunzio promuoveva con una scritta autografa il liquore Select ed
infine il Paradiso, peraltro ancora esistente all’ingresso dei Giardini, si vanta di essere il “ristorante ufficiale della Biennale”.
Il “gioiello” di tutte queste incredibili inserzioni pubblicitarie è
tuttavia quella, collocata in seconda di copertina, del 1932, della
Pezziol di Padova che vantava le qualità del suo “Vov zabajone ricostituente”. Lo faceva infatti con un delizioso disegno
verde in cui si vedono davanti ad una porta chiusa, appoggiate
per terra, un paio di scarpe da uomo accanto a un paio da donna,
mentre un amorino, con una bottiglia del ricostiuente Vov
tra le braccia, si appresta con sguardo malizioso a bussare
per entrare.
1948 La ripresa dopo la guerra
I primi clamorosi incidenti, che per la verità riguardarono la
Biennale solo di riflesso, si verificarono qualche tempo prima
della riapertura della Biennale nel dopoguerra.
Nel 1946 si tenne, infatti, il primo premio dopo il conflitto mondiale in Italia, il Premio Burano. Alcuni dei giovani che a Venezia, Roma e Milano stavano lo stesso anno formando il Fronte
Nuovo delle Arti – tra i quali i veneziani Santomaso, Pizzinato e
Vedova – vi parteciparono speranzosi.
Il premio venne però assegnato a Carlo Dalla Zorza, un esponente della vecchia pittura lagunare, provocando la reazione
rabbiosa di Emilio Vedova che, per protesta, alla sua maniera,
gettò il suo dipinto in un canale. Dipinto per fortuna recu32
perato amorevolmente da
Romano – titolare dell’omonima celebre trattoria – e tuttora esposto alle pareti del
locale dell’isola lagunare.
Il secondo incidente avvenne,
invece, prima che la Biennale aprisse l’esposizione
a cui partecipavano, in
un’apposita sala, proprio gli
artisti del Fronte Nuovo, alcuni dei quali, come Vedova,
Pizzinato, Corpora e Turcato,
erano tesi ormai verso
l’astrattismo. Gli stessi esponevano anche nella Mostra
Picasso a Venezia, 1947-1948
dell’Alleanza della Cultura a
Bologna che Togliatti, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, aveva pesantemente definito sulla rivista Rinascita una
“esposizione di orrori e di scemenze”. Contribuì così a fare
esplodere defintivamente le tensioni ed i contrasti, peraltro già
esistenti nel gruppo, che infatti si sciolse nel momento stesso in
cui esso veniva consacrato autorevolmente dalla Biennale.
Tra le cose particolari da segnalare alla Biennale del 1948 c’era
innanzitutto, finalmente, l’accettazione di Picasso, dopo il clamoroso incidente del 1910. Nella sala L venne infatti presentata,
per la prima volta in Italia, una sua mostra antologica con ventidue dipinti eseguiti tra il 1907 ed il 1942, introdotta in catalogo
da uno stringato “saluto” di Renato Guttuso. Suscitò anche allora
molte perplessità sul valore della sua opera, evidentemente non
ancora del tutto accettata.
33
Molto poetica appare invece la piccola mostra dedicata a Paola
Consolo (1909-1933), morta dunque a soli ventiquattro anni,
presentata da Diego Valeri.
Fu lei, quando era appena ventenne, a dare inizio alla grande
storia di “ristorante dell’arte” della Colomba del mitico Arturo
Deana a Venezia.
Lo stesso Deana raccontava di averla vista passare davanti alla
sua “osteria” con la cassetta dei colori sulle spalle e di averla invitata a dipingere una sala in cambio di pasti gratuiti. Non sapeva allora che la giovane pittrice era amica, tra gli altri, di
Margherita Sarfatti, a sua volta amica dei maggiori artisti del
Novecento che avrebbero poi frequentato quella sconosciuta trattoria. Iniziava così, per caso, la grande storia di uno dei ristoranti
più celebri d’Europa.
1948 Il gran litigio di De Chirico
L’avvenimento che fece più scalpore, tuttavia, è stato certamente
lo storico litigio tra Giorgio De Chirico e la Biennale. Con un
lungo seguito di vertenze giudiziarie, insulti verbali e stampati e
perfino contro mostre.
Tutto nacque dal fatto che il “Pictor Optimus” non si riconosceva
nella mostra che la Biennale dedicava quell’anno a “Tre pittori
italiani dal 1910 al 1920”, vale a dire Carrà, Morandi e allo stesso
De Chirico, tre pittori “metafisici” in sostanza.
L’artista citò in giudizio la Biennale perchè, secondo lui, non era
stato interpellato ed i suoi dipinti, tutti del periodo metafisico e
provenienti da una collezione privata, erano stati messi in concorso a sua insaputa per un premio di 500.000 lire, che venne in
effetti assegnato a Giorgio Morandi.
De Chirico aveva un conto aperto con quelli che lui chiamava i
“professori modernisti” Lionello Venturi e Roberto Longhi
34
– quest’ultimo autore della definizione del “dio ortopetico” – che
egli tacciava di “enorme ignoranza, diseducazione e scorrettezza”.
Pubblicò addirittura il foglio unico Ai Giardini, ferocemente
polemico nei confronti della Biennale.
La vertenza durò diversi anni e nel 1951 il Tribunale diede
ragione all’artista condannando la Biennale al “pagamento di
250.000 lire di risarcimento ed alle spese di lite”. Ma la Corte
d’appello, ormai nel 1955, diede però torto a De Chirico, almeno
per quanto riguardava il diritto ad esporre i dipinti, perché, sottolineava la sentenza, “la Biennale, con la mostra della pittura
metafisica perseguiva un fine culturale”. La verità, sostenevano
già allora alcuni commentatori, era che De Chirico riconosceva
solo a se stesso, e non agli altri due, la definizione di pittore
metafisico.
Nel corso di quegli anni l’artista, sebbene invitato, aveva sempre
rifiutato di esporre alla Biennale ed allestiva invece, nello stesso
periodo e con la collaborazione del mercante veneziano Zamberlan, una sua mostra nella
sede della Canottieri Bucintoro ai giardinetti reali.
Stampava in queste occasioni
numeri unici, significativamente titolati Biennale a
fuoco.
La riappacificazione di
D e Chirico con la Biennale
avvenne solo nell’edizione del
1956, quando l’artista accettò
finalmente di presentare ai
Giardini una sua vasta mostra
personale.
La mostra polemica di Giorgio de Chirico, 1950
35
Sdegnando però ancora i “professori modernisti ed ignoranti” e
affidando la presentazione in catalogo alla moglie Isabella Far,
che nel testo paragona De Chirico “a quei famosi moschettieri i
quali, attaccati da tutte le parti, si addossavano ad un muro e da
soli tenevano testa a dieci avversari sbaragliandoli tutti”.
In catalogo, sotto l’elenco dei 36 dipinti, compare la scritta: “Per
espressa dichiarazione dell’artista le opere non hanno indicazione di data”, dando così inizio, per gli anni a venire, alla discussione infinita circa la datazione delle sue opere.
1948 L’arrivo a Venezia di Peggy Guggenheim
L’evento più importante di quella Biennale del 1948, anche
per le conseguenze che determinò nell’ambiente artistico, fu certamente l’arrivo a Venezia di Peggy Guggenheim e della sua collezione di capolavori dell’arte del XX secolo, mai esposti prima
di allora in Italia.
“Fu attraverso Giuseppe Santomaso – ricorda Peggy nelle sue
memorie – che venni invitata ad esporre la mia collezione alla
Biennale… presentata nel padiglione della Grecia, libero a causa
della partecipazione di quel Paese alla guerra”.
Siccome il padiglione americano aprì quell’anno con qualche
giorno di ritardo, Peggy ha ricordato che quel contrattempo le
fece sembrare di rappresentare gli Stati Uniti con la sua
collezione.
R a c c o n t ò i n o l t r e ch e i l g i o r n o d e l l ’ i n a u g u r a z i o n e ,
accogliendo la visita del Presidente della Repubblica Italiana
Luigi Einaudi, era molto impressionata nel vedere il suo nome
che veniva accostato a quello delle altre nazioni, quasi rappresentasse “un nuovo paese”.
Nel suo libro Out of this Century la grande collezionista racconta
anche della visita che le fece Bernard Berenson, disgustato
36
dinanzi ad una sua scultura di Henry Moore, perchè il grande
storico trovava “che era storta”. Non mancando però di proporsi
come consulente dicendole: ”avrebbe dovuto venire da me, mia
cara, ed io le avrei fatto fare buoni affari”. Un’attività, concludeva sarcasticamente Peggy, nella quale “Berenson era certamente un grande specialista”.
L’arrivo a Venezia cambiò letteralmente la vita della Guggenheim
che decise infatti di restarvi fino alla sua scomparsa avvenuta nel
1979, lasciando per sua espressa volontà alla città – “fortunatamente” affidata però alla gestione del Solomon Guggenheim di
New York – la sua prestigiosa raccolta.
La Peggy Guggenheim Collection di Venezia, con la direzione di
Philip Rylands, ha infatti
ampliato gli spazi, fa mostre di grande interesse,
ed è uno dei musei d’arte
moderna più visitati
d’Italia.
Il Comune di Venezia
aveva rifiutato la donazione per non pagare le
tasse sulle opere entrate
in “temporanea esportazione”. Meglio così, perché adesso la Collezione
funzionerebbe come gli
altri musei italiani, cioè
male, o sarebbe addirittura chiusa per restauri.
Anche l’ASAC, l’archivio
Peggy Guggenheim, 1970
storico della
37
Biennale, chiuso da anni, sarà riaperto quest’anno, in parte
al Vega e con la biblioteca collocata ai Giardini.
Peggy trovò già l’anno dopo un posto adeguato per viverci e conservare
tutta la sua collezione, Ca’ Venier dei Leoni, un palazzo incompiuto
sul Canal Grande la cui costruzione era iniziata nel 1748.
Apriva al pubblico la sua raccolta due volte la settimana ed ospitò
anche alcune mostre, la prima delle quali – alcune sculture in
giardino – curata nel 1949 da Giuseppe Marchiori.
Lo stesso anno acquistò da Marino Marini la grande scultura in
bronzo L’angelo della città, un’opera del 1948, un bellissimo
cavallo e cavaliere che collocò all’ingresso d’acqua del suo
Palazzo, rivolto cioè verso il Canal Grande.
La scultura sollevò anche alcune discussioni ed un certo scandalo
perché il cavaliere era dotato di un fiero fallo in posizione eretta.
Peggy risolse brillantemente il problema chiedendo a Marino di
realizzarlo in modo che fosse smontabile, lasciandolo al suo posto
quando aveva ospiti spregiudicati, togliendolo invece quando doveva ricevere persone, come dire, più “impressionabili” o quando
si teneva la regata storica in Canal Grande.
1950-1972 Tra Pop Art e contestazione
Il periodo subito successivo alla ripresa dell’attività fu caratterizzato dalle eccellenti edizioni curate da Rodolfo Pallucchini,
dalla sempre più insistente richiesta di riforma della Biennale
– e dunque delle inevitabili polemiche – per rispondere alle esigenze di una società civile profondamente cambiata.
Si discuteva ad esempio la formula che prevedeva la partecipazione sotto esame di una giuria; nel 1952, infatti, gli artisti italiani
che esponevano alla Biennale erano stati tutti invitati.
Ma quando nel 1954 e 1956 si tornò al vecchio sistema della
38
Marino Marini, L’Angelo della città, Fondazione Guggenheim
39
giuria, le accuse di privilegiare le “raccomandazioni” furono feroci
perché solo il 3-4% degli
artisti fu ammesso.
Il clima era comunque
da polemica continua,
anche per l’assegnazione
dei Gran Premi, soprattutto di natura politica:
“Biennale fascista e dei
padroni”, era lo slogan
più ricorrente.
L’incidente più clamoroso avvenne nel 1950
quando l’Italia rifiutò
i l visto di ingresso a
Bertoldt Brecht ed al
Salvador Dalì a Venezia, 1961
suo Berliner Ensemble,
invitati dalla Biennale a rappresentare a Venezia nell’ambito del
Festival del Teatro, Madre Coraggio e La resistibile ascesa di
Arturo Ui. Venivano dalla Repubblica Democratica di Germania
ed erano perciò necessariamente comunisti. Ne risultò un vero
scandalo politico, che suscitò molte polemiche e violente proteste
in tutta Europa.
La Spagna, ancora sotto il regime di Franco, presentava nel 1952,
per non scontentare nessuno, una mostra del “moderno”
Francisco Goya (1746-1828), mentre la Biennale faceva scoprire
al mondo, con una mostra retrospettiva, la “terribile” grandezza
di Chaim Soutine (1894-1943).
Il 1954 resterà invece nella storia degli incidenti alla Biennale
40
per la clamorosa “gazzarra” – così venne definita dalla stampa,
con insulti e minacce – avvenuta nella sala grande del Palazzo
del cinema. Era stata provocata da Franco Zeffirelli, allora assistente di Luchino Visconti, per protesta contro il premio assegnato alla Strada di Federico Fellini.
Da alcune lettere venute alla luce solo di recente, conosciamo
anche le proteste che nel 1954 il grande pittore inglese Lucian
Freud, oggi uno degli artisti viventi più importanti, inviava al
British Council perché i suoi dipinti venivano regolarmente
scartati al momento di scegliere la partecipazione della Gran
Bretagna alla Biennale.
In Italia le proteste per uno “Statuto democratico della
Biennale” aumentavano ogni giorno e dopo un durissimo ordine
del giorno del Consiglio Comunale di Venezia nel novembre dell’anno 1956, il Governo sciolse il Consiglio direttivo nominando un Commissario.
Nel 1958 la Biennale si tenne comunque ed il Gran Premio per
la pittura venne assegnato a Osvaldo Licini (1894-1958): “glielo
danno perché sta morendo” era il commento ricorrente, come
in effetti avvenne poco dopo.
Il Gran Premio nel 1962 andò invece al francese Alfred
M a n e s sier che gran parte della critica internazionale
riteneva un “artista modesto ed astrattista in ritardo”.
Apprezzata, invece, la mostra che nel 1958 la Biennale dedicò
ad un gruppo di giovani tra i quali Jasper Johns, insignito del
Leone d’Oro nel 1988, trent’anni dopo.
Era un’anticipazione dell’esplosione della Pop Art americana,
che avvenne sulla scena internazionale della Biennale nel
1 9 6 4 , vissuta in Europa come un vero e proprio scandalo, u n a sorta di “prepotenza del mercato dell’arte
statunitense”.
41
Ed in effetti i quadri di
Rauschenberg non erano
neanche nel padiglione
USA ai Giardini, ma
esposti a San Gregorio
nell’ex sede del consolato
americano e trasferiti
nottetempo in Biennale.
In Italia la protesta
contro “l’imperialismo
politico e culturale
americano” aveva anche
un accento patetico, perché negli stessi giorni
Robert Rauschenberg Gran Premio Biennale del 1964 dell’inaugurazione della
Biennale moriva Giorgio
Morandi. “Viene premiata la tendenza più rumorosa dell’arte
– scrisse un giornale – mentre scompare il più silenzioso pittore
contemporaneo”.
Anche le proteste inglesi si fecero sentire, perché l’entrata in
scena della Pop Art americana oscurava completamente la stessa
e forse precedente tendenza dell’arte britannica, rappresentata
in Biennale dalle opere di Joe Tilson.
Qualcuno ricorda ancora come nei giorni della vernice il famoso
gallerista newyorkese Leo Castelli era a Venezia e – come si dice –
fosse stato lui ad architettare l’assegnazione del Gran Premio a
Rauschenberg. Salvo scoprire qualche anno dopo, che era la
moglie Ileana Sonnabend il vero genio della coppia di mercanti.
Una delle cose più curiose avvenute quell’anno fu la mostra
galleggiante, allestita su di un barcone, dalla gallerista parigina
Iris Clert.
42
Ma ormai la crisi della Biennale aumentava ogni giorno e la contestazione del 1968, esplosa in tutta Europa, non poteva essere
evitata.
Artisti, studenti e sfaccendati di tutto il mondo scesero a Venezia
mettendo in scena dimostrazioni non sempre pacifiche ai Giardini e in Piazza San Marco. Il pittore Emilio Vedova, assieme al
musicista Luigi Nono, era uno dei più scatenati e vi sono fotografie in cui lo si vede in Piazza San Marco mentre lancia una sedia
contro la polizia.
Quasi tutti gli artisti coprirono per protesta le loro opere o voltarono i quadri verso la parete e l’inaugurazione sembrava,
scrisse qualche cronista, “la festa annuale della polizia”.
Venne naturalmente abolito lo storico Ufficio vendite gestito fin
dagli anni Trenta dallo stimato gallerista milanese Ettore Gianferrari perché, si diceva a quel tempo, esso era “uno strumento
della mercificazione dell’arte”.
Iris Clert e la mostra in barca, 1964
L’occupazione della Biennale nel 1968
43
Nell’anno 1972, in quella situazione di crisi, giunse un vice Commissario, Mario Penelope, che organizzò una mostra a tema,
Opera e comportamento, che provocò diversi “incidenti” e qualche scandalo.
Il primo, davvero spettacolare, fu provocato dal gruppo belga
Mass Moving Project che aveva installato in piazza San Marco
un’enorme cassa di legno contenente una tenda di plastica e nessuno sapeva cosa vi fosse dentro. Nei giorni della vernice si seppe
infine che conteneva 10.000 farfalle in incubazione che sarebbero state fatte uscire il giorno dopo. Scoppiò un putiferio perché gli animalisti protestavano ed il Prefetto non voleva dare il
permesso alla manifestazione. Il pomeriggio dell’11 giugno una
grande folla aspettava in piazza: l’incubatrice venne aperta facendo uscire una miriade di farfalline bianche stordite e svolazzanti, molte delle quali andavano a finire tra i capelli degli
spettatori. Al di là delle polemiche, quello fu forse uno degli
happening più interessanti e poetici visti in tutta la storia della
Biennale di Venezia.
Diverso il caso verificatosi due giorni prima ai Giardini della
Biennale. Gino De Dominicis (1947-1998), invitato nella sezione
italiana, aveva infatti annunciato la proiezione di un filmato dal
titolo Terza ipotesi di immortalità. Presentò invece, con lo stesso
titolo, un vero ragazzo down abitante nelle vicinanze e reclutato
per l’occasione con un compenso ai famigliari. Scatenò uno scandalo enorme, indignazione, violente proteste, accuse di nazismo
e perfino un’interrogazione parlamentare. La stampa definiva
l’episodio “vergognoso” nella migliore delle ipotesi e la stessa direzione della Biennale venne invitata a dimettersi.
Resta il fatto che la notorietà internazionale di Gino De Domicis,
allora appena venticinquenne, si deve forse soprattutto a
quell’episodio.
44
Dimostrazione in Piazza San Marco, 1968
Ma anche un’altra polemica, riguardante l’ambiente della critica,
fece molto discutere alla vernice della Biennale di quell’anno.
Venne infatti distribuito un libretto dal titolo: “Enea Ferrari e
Piero Manzoni, ovvero come si costruisce e si lancia (a livello di
mafia) un falso prodotto artistico”.
Nel libello si sosteneva infatti che “un anziano pittore cremonese, Enea Ferrari, che fu maestro di Manzoni, aveva dipinto
alcuni anni prima di Manzoni, si ritiene addirittura intorno al
1934, dei quadri anch’essi tutti bianchi”. A sostegno della storia,
venivano citati scritti di Maurizio Calvesi e Palma Bucarelli.
Quest’ultima aveva scritto, come riportava il libretto, che Enea
Ferrari aveva portato avanti “anche nel campo materico e
oggettuale ricerche e sperimentazioni indubbiamente precoci e
forse anticipatrici”. Calvesi, invece, rimarcava in Ferrari “la
libertà del bianco, cioè nell’indefinito spaziale e nella felicità
della memoria azzerata”.
Il libretto, che non ebbe tuttavia alcun seguito, sollevò comunque un piccolo vespaio, anche perché Piero Manzoni – celebre
per le sue scatolette di “merda d’artista” – era morto già dal 1963.
45
Gino De Dominicis, Prima soluzione d’immortalità, 1972
Mass Moving Project, 1972: 10.000
farfalle in Piazza San Marco
1974 – 1978 Dal Cile al Dissenso sovietico
Dopo le tumultuose ed eccitate Giornate del Cinema italiano
– tenute nel 1973 in Campo Santa Margherita in sostituzione del
Festival cancellato – e l’approvazione lo stesso anno del nuovo
statuto, si apre in Biennale, sotto la presidenza di Carlo Ripa di
Meana, una stagione fortemente politicizzata.
La Biennale del 1974 venne infatti interamente dedicata al Cile che
l’anno prima aveva subito il drammatico golpe del generale Pinochet.
L’inaugurazione, alla presenza di Ortensia Allende vedova del
leader cileno assassinato, si tenne solennemente nella Sala del
Maggior Consiglio in Palazzo Ducale. Non venne pubblicato il
catalogo ma una serie di opuscoli fotocopiati intitolati Per una
cultura democratica e antifascista. Naturalmente non fu allestita neanche la grande mostra internazionale, ma un certo numero di artisti costituirono la “Brigada Allende” e dipingevano
all’aperto, in mezzo alla gente, specialmente in Campo San Polo,
manifesti e cartelli con figure e slogan politici contro Pinochet e a favore del Cile.
46
La Brigada Salvador Allende, Campo San Polo, 1974
Vi parteciparono il cileno Sebastian Matta, i veneziani Vedova,
Basaglia ed Eulisse, lo spagnolo Eduardo Arroyo, tutti molto attivi politicamente.
La Biennale era pervasa da un eccitato clima di entusiasmo e di
partecipazione, rafforzato dai coinvolgenti canti del mitico
gruppo degli Inti Illimani, giunto a Venezia in quella occasione.
Rimase in Italia per alcuni anni, riscuotendo peraltro un certo
successo.
L’edizione dell’anno 1976 passò senza problemi e polemiche, a
parte i cavalli fatti entrare nella sala di SolLewit nella mostra
Ambiente-Arte.
L’anno successivo, invece, la Biennale corse il rischio di una crisi
diplomatica senza precedenti.
Presentò infatti una mostra con il titolo: La nuova arte sovietica,
una prospettiva non ufficiale che venne non a caso chiamata la
Biennale del “dissenso”. Si trattava di una mostra che esponeva
le opere, piuttosto modeste, di un gruppo di artisti, peraltro già
da tempo fuoriusciti dall’Unione Sovietica, che provocò un
47
Sol LeWitt, Ambient-Art, 1976
acceso dibattito tra comunisti ed anticomunisti italiani e violente
proteste in tutta Europa, con il rischio di una crisi diplomatica da
parte dei russi.
Più divertente appare invece la Biennale del 1978 titolata Dalla
natura all’arte, dall’arte alla natura, che voleva essere uno dei
primi segnali ambientalisti nel mondo dell’arte.
Tra le cose da ricordare lo scheletro con i pattini nella sala di
Gino De Dominicis, ancora lui; le pecore vive con il pelo dipinto con macchie di colore blù di Menashe Kadisham nel padiglione di Israele; la capanna vera per affumicare il pesce,
anch’esso vero, dell’olandese Giezen; e la copertura completa
della Piazza San Marco con migliaia di giornali appallottolati.
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Era la performance di un artista tedesco che voleva anticipare
forse quella che chiamiamo oggi “raccolta differenziata”; o
suggerire, chissà – è durata un solo giorno– , l’equivalenza tra
stampa e spazzatura.
Un altro artista, purtroppo restato anonimo, forse per paura di
sanzioni amministrative, aveva colorato di blu l’acqua di molti
canali di Venezia, anticipando di anni la recente performance
di Graziano Cecchini alla Fontana di Trevi a Roma.
L’avvenimento più curioso, che nei giorni della vernice attirava
una vera folla all’ora stabilita, era però costituita dalla cosiddetta
“opera” di Antonio Paradiso.
L’artista aveva infatti installato ai Giardini una mucca meccanica,
una sorta di simulacro, che, una volta al giorno, veniva montata
da un toro vero, come si fa peraltro nei normali allevamenti.
Menashe Kadishman, Sheeps, Padiglione israeliano, 1978
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L’episodio più incredibile e sconcertante si verificò tuttavia alla chiusura della Biennale, quando un
gruppo di operai addetti al disallestimento pensò bene di dare una
mano di colore ad una vecchia porta
mal ridotta che doveva essere rispedita al prestatore.
Evidentemente non sapevano che si
trattava di un’opera famosa di Marcel Duchamp, titolata Porte, 11, rue
Larrey, Paris.
Ne venne fuori un lungo e discusso
Gino De Dominicis, 1978
contenzioso giudiziario – la questione era davvero difficile da dirimere per i giudici – dal quale
la Biennale uscì perdente perché nel 1991 essa fu condannata a
pagare ben 133 milioni di vecchie lire di danni al proprietario
dell’opera.
In effetti si trattava per davvero di una vecchia porta scrostata,
ma era però uno storico “ready made”, era cioè la porta della
casa parigina del mitico Marcel Duchamp.
1980 – 1993 Dal Carnevale al Centenario
La Biennale del 1980 va ricordata soprattutto per l’idea geniale
di Maurizio Scaparro di far coincidere il Festival del Teatro con
il Carnevale.
La Compagnia di Calza I Antichi, un’associazione culturale nata
proprio in quella occasione, collaborò con molte iniziative.
Ad esempio ripubblicando le poesie erotiche di Giorgio Baffo
(Venezia 1694-1768), distribuendole anche su foglietti volanti agli
sbalorditi e divertiti passanti – Lode della mona, Lode delle tette,
50
Antonio Paradiso, Toro e mucca meccanica, 1978
51
Giorgio Baffo, Lode alla mona, Carnevale 1985
52
Elogio del culo, tanto per citare qualche titolo – e riuscendo
perfino a collocare una lapide commemorativa in Campo San
Maurizio sul palazzo dove il poeta era vissuto, ma che si scoprì
essere, più tardi, di proprietà del Patriarcato, sollevando perciò
alcune polemiche e qualche problema politico.
La Compagnia di Calza I Antichi, la cui attività era di fatto entrata
nell’ambito del Festival del Teatro della Biennale, diede vita negli
anni successivi ad altre manifestazioni molto divertenti. Come il
Festival della Poesia erotica e la realizzazione di un enorme cavallo
di cioccolato – tre metri di altezza – disegnato da Ludovico De
Luigi e “costruito” da un chocolatier francese, frantumato poi in
un pomeriggio e letteralmente divorato dalla folla che assisteva
all’evento in Campo San Maurizio.
Il 1980 va ricordato anche perché vide la prima partecipazione
ufficiale della Cina popolare alla Biennale, nonché l’inedita
edizione della sezione Aperto, ideata da Achille Bonito Oliva ed
Harald Szeemann, in cui, anche se tra mille discussioni, apparvero sulla scena internazionale i cinque artisti della cosiddetta
Transavanguardia.
Più complicata risulta la situazione nel 1982 perchè il direttore
Luigi Carluccio morì in viaggio pochi mesi prima dell’apertura.
Aveva progettato, tra le altre cose, una mostra di Egon Schiele e
nessuno in Biennale sapeva come realizzarla perché l’Albertina di
Vienna non avrebbe di certo concesso il prestito in così breve tempo.
Qualcuno propose allora di rivolgersi al discusso mercante e collezionista austro-americano Serge Sabarsky a New York, che per
fortuna accettò subito di inviare le opere, chiedendo solo di pubblicare un suo piccolo testo presente in un vecchio catalogo in tedesco. Naturalmente la Biennale acconsentì, ma quando il testo
venne tradotto si scoprì che Sabarsky scriveva, all’incirca, che i giudici non dovrebbero occuparsi di arte perché “sono degli imbecilli
53
– diceva di peggio in realtà – perchè
hanno più volte fatto sequestrare per
oscenità le opere di Schiele”. Il Segretario generale della Biennale, allora
Sisto Dalla Palma, dichiarò di non
poter pubblicare quel testo, incaricando qualcuno di comunicarlo a Sabarsky. “E’ una sua opinione”, rispose
semplicemente il grande collezionistamercante. “E cosa facciamo?” chiese
allora l’incaricato della Biennale
“Semplice” rispose imperturbabile SaJames Lee Byars, performance in
barsky “lui si tiene la sua legittima opiPiazza San Marco, 1975
nione ed io mi tengo i miei Schiele”.
La mostra si fece comunque, risolvendo il problema con una trovata “all’italiana”: un certo numero di cataloghi riportavano il
testo di Sabarsky ed altri, forse la maggior parte, ne erano privi.
Il padiglione dell’Italia presentava quell’anno diversi artisti di rilievo tra i quali Fontana, Licini, Turcato e Vedova. Memorabile
in quella occasione la “guerra” scoppiata tra questi ultimi due
nel presentare opere più grandi di quelle dell’altro e occupare lo
spazio più importante.
Si racconta anche di furtivi spostamenti notturni dei dipinti, per
guadagnare posizioni più visibili.
Una delle performance più clamorose e divertenti, fuori degli
spazi espositivi, fu tuttavia quella della stilista veneziana Fiorella
Mancini.
Aveva infatti camuffato un barcone da trasporto come nave militare dotata di cannoni e mitragliatrici finti. Vestita in tuta mimetica assieme ad un’amica, andò all’assalto della Biennale ai
Giardini nei tre giorni della vernice per la stampa, sparando
54
Fiorella Mancini, Assalto alla Biennale, 1982
suoni registrati di colpi di cannone al grido “Liberazione della
Biennale”.
Nel 1984 arrivò alla direzione della Biennale lo storico dell’arte
Maurizio Calvesi sostenitore da qualche anno di quei pittori –
definiti Anacronisti o Citazionisti – che guardavano, in alcuni
casi in maniera perfino pedissequa, alla pittura del passato. Progettò infatti un’esposizione dal titolo Arte allo specchio nella
quale, accanto a grandi protagonisti storici (Picasso, Dalì, De Chirico, Duchamp, Picabia etc.), esponeva le opere dei pittori di questa tendenza dell’arte.
Fulminante il giudizio di Achille Bonito Oliva in occasione dei
giorni della vernice: “Credevo che la Biennale dell’antiquariato
si tenesse a Firenze”, commentò con sarcasmo ad un cronista.
L’edizione del 1986, dedicata ad Arte e Scienza, sarà probabilmente ricordata per la clamorosa beffa messa in atto dal pittore
55
Eulisse, finto Padiglione del Sud Africa, 1986
56
veneziano Vincenzo Eulisse. Aveva affittato una vecchia macelleria dismessa nel quartiere di Sant’Elena, molto prossima ai
Giardini della Biennale, l’aveva riempita di figure nere di cartapesta appese ai vecchi ganci e aveva quindi invitato – con la complicità di un cronista locale che aveva dato rilievo alla notizia sul
suo giornale – tutti i giornalisti internazionali in quel momento
a Venezia a presenziare all’inaugurazione di un inesistente padiglione del Sud Africa.
Molti andarono e la singolare protesta di Eulisse contro la discriminazione razziale in quel Paese, ebbe dunque un’incredibile risonanza in molte parti del mondo.
L’artista veneziano non era nuovo a tale tipo di iniziative e già in
precedenza aveva realizzato un libro, titolato Fantabiennale, in
cui mescolava gli eventi storici, mettendo in evidenza le opere
dedicate al Fascismo da numerosi ed insospettabili artisti italiani
del tempo.
Il suo maggior divertimento, negli anni precedenti, consisteva
nell’andare al centro interfono della Biennale ai Giardini chiedendo – ed avveniva regolarmente – di diffondere messaggi del
tipo: “il signor Trosky è desiderato urgentemente nel padiglione
dell’Unione Sovietica”.
Quell’anno Fabrizio Plessi presentava un’opera molto forte e
drammatica, titolata Bronx. Si trattava di una video installazione
con numerosi televisori, ciascuno con una pala conficcata nel
monitor, il tutto contornato da un’arrugginita rete metallica. Un
critico d’arte l’aveva definita “divertente” nella sua recensione e
l’artista lo cercava tra i padiglioni ai Giardini, assolutamente
determinato a picchiarlo.
“E’ come considerare divertente la Deposizione del Mantegna
perché vista con i piedi in primo piano”, commentava furioso
l’artista.
57
Giovanni Carandente arrivò alla direzione della Biennale nel 1988
per due edizioni, e vi restò svolgendo un ottimo lavoro. Anche se
molte critiche gli vennero rivolte
per l’assegnazione dei Leoni d’oro
nel 1990.
Quello della “scultura” andò infatti
a Bernd e Hilla Becher per le loro
“fotografie” di archeologia industriale, mentre quello per la “pittura” venne assegnato ai “marmi”
Bernd e Hilla Becher, Potsdam, 1934;
Gran Premio alla Biennale del 1990
di Giovanni Anselmo. Come dire: il
rispetto dei linguaggi, innanzitutto.
Per la verità nel 1990 gli incidenti e le polemiche furono davvero
numerosi, tutti verificatisi nella sezione Aperto dei giovani, allestita nei grandi spazi delle Corderie dell’Arsenale.
Gli animalisti protestarono vivacemente per un’installazione che
utilizzava formiche vive, ma il vero incidente “diplomatico”
venne provocato dal gruppo americano Grand Fury. Esponeva
infatti un’opera che, nelle intenzioni, voleva essere una protesta
contro l’atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti del
problema dell’Aids: ritraeva Papa Giovanni Paolo II accostato ad
un enorme fallo.
Il grande scandalo dell’anno, tuttavia, fu causato dall’allora emergente fenomeno americano Jeff Koons, che aveva da poco sposato la porno star Llona Star, in arte Cicciolina.
Esponeva una scultura policroma a grandezza naturale e molto
realistica nella quale ritraeva se stesso e Cicciolina, entrambi nudi
ed in atteggiamento assolutamente inequivocabile.
Si racconta inoltre che, durante quell’estate molto afosa, i guar58
Fabrizio Plessi, Bronx, 1985; Biennale del 1986
59
dasala utilizzassero l’impianto refrigerante di una complessa
opera di Pier Paolo Calzolari per tenere in fresco le bevande da
bere nei giorni più caldi.
Una vera curiosità, infine, era costituita dal fatto che l’americano
Robert Rauschenberg esponesse un grande lavoro nel padiglione
della ex Unione Sovietica assieme ad un gruppo di giovani artisti russi, segnale che il muro di Berlino era davvero definitivamente caduto.
La successiva Biennale, che avrebbe dovuto tenersi nel 1992,
saltò e si tenne invece nel 1993, a cura di Achille Bonito Oliva:
l’obiettivo era giungere nell’anno “giusto” per l’edizione del centenario nel 1995.
Per la verità la Biennale organizzò una mostra anche nel 1991,
allestita nello storico androne di Ca’ Corner della Regina, sede
dell’Archivio Storico.
La mostra – Quattro maestri della grafica contemporanea: Hayter, Friedlander, Goetz e Vedova – era proposta in concomitanza
con un importante convegno internazionale, che faceva seguito
ad un ampio “mail crongress”, che produsse alla fine l’ormai nota
“Dichiarazione di Venezia”.
Vi parteciparono parecchi personaggi autorevoli quali Renè
Berger, Maurizio Calvesi, Jean Clair, Miguel Rodriguez Acosta e
Zoran Krizsnik.
La dichiarazione suscitò un vero e proprio vespaio tra gli incisori
tradizionalisti, tanto che la rivista Grafica d’arte dedicò per due
numeri alcune pagine di proteste contro il curatore del progetto.
La rivista organizzò perfino un apposito convegno, tenuto nella
sede della Raccolta Bertarelli nel Palazzo Sforzesco di Milano,
in cui ebbero modo di sfogarsi tutti i “piccoli incisori del bianco
e nero”, scandalizzati dalla spregiudicata ma storica visione che
60
Jeff Koons e Cicciolina, 1990
61
Damien Hirst, Mother and child divided, 1993
la Dichiarazione aveva della grafica d’arte.
La Biennale del 1993, curata da Achille Bonito Oliva, fu una
buona Biennale e non di meno venne segnata da piccoli e significativi episodi.
Innanzitutto perché compariva sulla scena internazionale dell’arte l’inglese Damien Hirst, che esponeva una vera mucca sezionata in un contenitore di plastica trasparente pieno di
formaldeide. Il problema creato dall’opera era la lenta, ma inesorabile perdita di liquido dal contenitore, per cui si dovette intervenire precipitosamente, riportandolo a una tenuta stagna.
Due padiglioni stranieri in particolare testimoniavano la nuova
e drammatica situazione socio-politica creatasi in Europa.
Hans Haacke aveva infatti completamente distrutto il pavimento
del padiglione della Germania, riducendolo a macerie, allo scopo
di rappresentare simbolicamente la condizione del suo paese
dopo la riunificazione.
62
Altrettanto impressionante appariva il padiglione della ex Unione
Sovietica, la cui partecipazione era sotto la denominazione di
“Comunità di Stati di Indipendenti”. Quasi tutte le sale sembravano abbandonate, cioè piene di polvere e rifiuti e sembrava che
la Russia, dopo la caduta dell’Unione, non partecipasse quell’anno alla Biennale. Ma, giunti alla fine del percorso, praticamente all’uscita del padiglione, si incontrava inaspettatamente
una piccola garitta ben dipinta dalla quale, a tutto volume, uscivano le note trionfali dell’inno dell’Internazionale. Era un lavoro
di Ilja Kabakov, al quale venne attribuito il Premio dei Paesi, un
personaggio allora pressoché sconosciuto che irrompeva così clamorosamente sulla scena internazionale dell’arte.
Uno dei Premi acquisto a disposizione della giuria internazionale, offerto dalla Fondazione Marino Marini per un’opera da
destinare al Museo veneziano di Ca’ Pesaro, venne assegnato a
Luca Quartana. Consisteva in una stanza illuminata da circa un
centinaio di neon: venne rifiutata dal direttore del museo perché, disse, avrebbe comportato una spesa esagerata di energia
elettrica.
1995 L’anno del centenario
La “vecchia signora” dell’arte arrivava così, seppure “malconcia
ed acciaccata”, come scrisse Fiorella Minervino sul Corriere della
Sera, al suo 100° anno di vita.
E, con un guizzo inatteso e formidabile, colse di sorpresa tutti
rinnovando completamente le sue direzioni di settore, chiamando l’austriaco Hans Hollein ad Architettura, lo spagnolo Luis
Pasqual per il Teatro ed il francese Jean Clair, direttore del
Museo Picasso di Parigi, per le Arti Visive.
Una scelta sconcertante –per la prima volta tutti direttori stranieri– specie per gli italiani che aspettavano gli interventi dei
63
rispettivi “padrini politici”, ma che rendeva finalmente e concretamente internazionale la vecchia Biennale di Venezia.
Anche nel 1995 ci furono naturalmente alcune polemiche e Jean
Clair –che aveva ordinato una Biennale storica, prevalentemente
figurativa– venne accusato, senza alcuna novità, di “accondiscendenza con il mercato dell’arte”.
L’unico vero “incidente” venne provocato dallo scultore francese
César (1921-1998), che presentava la grande “compressione” di
un’autentica auto nel padiglione della Francia.
Appena saputo che non gli era stato assegnato il Gran Premio
–del quale era evidentemente sicuro, come aveva incautamente accennato nell’intervista ad un giornale locale– abbandonò immediatamente e polemicamente Venezia prima dell’inaugurazione.
1997-2001 da Celant a Szeemann
Dopo la scadenza del centenario, come al solito, la Biennale
pensò al suo rinnovamento ipotizzando di trasformarsi in “Società di Cultura” per facilitare l’ingresso di soci privati, peraltro
mai arrivati.
La direzione dell’edizione del 1997 fu affidata a Germano
Celant, curatore del Solomon Guggenheim di New York, padre
e teorico dell’Arte Povera.
La sua Biennale venne perciò definita “povera e amerikana”, con
la K, provocando una certa perplessità e polemiche soprattutto
per l’inserimento nella giuria internazionale di Thomas Krens, il
mega direttore del Guggenheim di New York, ritenuto non uno
storico dell’arte ma piuttosto un “uomo di finanza e di mercato”,
secondo la definizione di molti commentatori.
Celant fu in effetti molto criticato da tutti: Gillo Dorfles definì la
mostra un “magazzino di oggetti trovati” e Piero Dorazio “una
mostra già vista negli anni Novanta a Madrid”.
64
Hans Haacke, Padiglione Tedesco, 1993
65
Più pesante l’articolo di Sebastiano Grasso sul Corriere della Sera
nel quale, tra l’altro, rimproverava a Celant “lo storno di 200 mila
dollari dalle sponsorizzazioni destinate alla Biennale per realizzare un’opera di Oldenburg”, non a caso suo amico personale.
Lo stesso critico del New York Times definì quella edizione “imbarazzante… evidentemente condizionata dal mercato… una
delle peggiori Biennali mai viste”.
Quell’anno partecipò alla Biennale anche la Repubblica di
Macedonia, un ex Stato della scomparsa Jugoslavia, suscitando
le violente proteste della Grecia che non riconosceva quella
denominazione.
Per la prima volta vi esponeva anche Maurizio Cattelan che presentava dei piccioni impagliati, collocati sul soffitto, che avevano
depositato i loro escrementi su alcune biciclette appoggiate per
terra. Tutti i commentatori si chiedevano cosa volesse significare!
Tra le annotazioni più curiose vanno citate quella riguardante il
giapponese Rei Naito, che consentiva l’entrata nel padiglione a
soli dodici visitatori ogni ora e l’altra concernente il video dell’ucraino Oleg Kulik, esposto nelle sale della Bevilacqua La Masa,
nel quale si vedeva l’artista sodomizzato da un cane.
Ancora una volta Eulisse mise in atto una delle sue provocazioni
facendo circolare una falsa lettera di Emilio Vedova – del quale
era stato assistente alla Sommerakademie a Salisburgo – in cui
l’artista dichiarava di rinunciare ad ogni premio per protesta contro la “Biennale dei padroni e degli americani”.
A Vedova, che si era molto affannato in quei giorni per smentire
più o meno discretamente la lettera, venne invece attribuito il
Leone d’Oro alla carriera.
L’episodio più divertente fu tuttavia quello provocato dall’artista
tedesco Tobias Rehberger.
La sua opera consisteva infatti, come recitavano le apposite istru66
zioni, in un paio di mutandine da donna in “puro nailon anni
Cinquanta” che dovevano essere indossate, per tutto il tempo dell’esposizione, da una ragazza addetta alla sorveglianza della sala.
La quale, alla chiusura della mostra, era pressoché stremata dalle
innumerevoli richieste dei visitatori di mostrarle.
A quell’opera – in teoria destinata al Museo d’Arte Moderna di
Ca’ Pesaro, dove naturalmente non è mai arrivata – la Giuria
Internazionale pensò bene di assegnare un particolare Premio
acquisto di 25 milioni di lire, messo generosamente, ma improvvidamente a disposizione dalla Fondazione Cassa di Risparmio
di Venezia, che naturalmente negli anni successivi si guardò bene
dall’offrire altri soldi per un nuovo premio.
Nominato presidente nel 1998, Paolo Baratta scelse subito
Harald Szeemann, che godeva di una grande reputazione sulla
scena internazionale, come direttore delle Arti Visive per la Biennale del 1999, la cui edizione si rivelerà molto interessante e che
verrà ricordata come “la Biennale dei cinesi”, soprattutto per due
artisti di grande impatto visivo ed emotivo, entrambi presentati
all’Arsenale.
Il primo, Chen Zen (1955-2000), purtroppo ormai scomparso,
presentò un’installazione costituita da una serie di grandi tamburi, fatti anche di mobili, sedie e sgabelli, invitando il pubblico
a percuoterli liberamente con appositi bastoni di legno. Accadeva che i visitatori, dapprima timidamente e poi con un crescendo sempre più frenetico e perfino violento, davano sfogo a
chissà quali impulsi, facendo emergere le più segrete repressioni.
Il secondo era invece Cai Cuo Gang, al quale venne assegnato il
Leone d’Oro.
Aveva realizzato sul posto, in pochi giorni ma aiutato da un gruppo
di assistenti, un numero incredibile di realistiche figure di argilla
che “celebravano”, forse ironicamente, le realizzazioni della rivo67
luzione di Mao Tse Tung.
Alla chiusura della Biennale
l’artista abbandonò nell’Arsenale le sculture che, essendo
di argilla fresca, sarebbero andate certamente distrutte.
Lo scultore Alessio Tasca ottene dalla Biennale il permesso di ritirarne almeno
alcune per cuocerle in un apGregor Schneider, Progetto (mai realizzato)
posito forno, facendole divendi Kaaba in Piazza San Marco, 2001
tare terra cotta. Le sculture,
così salvate, sono ora esposte
nel Museo della ceramica di Nove a Bassano del Grappa.
Per la verità la Biennale di Szeemann presentava molte curiosità, a cominciare dal fachiro di Maurizio Cattelan che ogni due
ore, nei tre giorni della vernice, veniva realmente sepolto nella
sabbia lasciando fuori solo due mani giunte.
Katharina Fritsch esponeva una serie di topi neri giganteschi,
Paola Pivi un vero aereo da guerra rovesciato, un artista israeliano dei veri orinatoi ed il cinese Soo-Ja Kim un camion pieno
di fagotti colorati, per ricordare la fuga dalla guerra delle popolazioni balcaniche.
Molto divertente era poi il padiglione russo. Vi erano infatti esposti dipinti eseguiti da veri elefanti ed una serie di fotografie realizzate da uno scimpanzè di nome Mizzi, addestrato dall’artista
Vitali Komar. Quest’ultimo diffondeva una nota nella quale giustificava l’assenza di Mizzi all’inaugurazione della Biennale “ perché occupato per lavoro con il circo di Mosca”.
Anche la seconda Biennale di Szeemann, quella del 2001 – il cui
logo resta l’enorme e realistico ragazzo accovacciato di Ron
68
Mueck all’ingresso dell’Arsenale – fu una buona edizione. Ma
forse verrà ricordata solo per le tartarughe del gruppo Cracking
Art che avevano invaso i Giardini.
Il curatore svizzero dovette comunque affrontare molte critiche
per aver soppresso il padiglione Italia. “Gli artisti italiani” si giustificò Szeemann senza molto successo “saranno presenti nella
grande mostra internazionale, dunque in un contesto più importante e più significativo”.
In quella Biennale, infine, Taiwan venne obbligata alla denominazione di Repubblica di Cina “a” Taiwan e non “di” Taiwan.
Tra le curiosità più interessanti possiamo ricordare la coinvolgente danza di un gruppo di Maori neozelandesi all’alba in
Piazza San Marco; la presenza fisica di Verushka che ricamava
per Francesco Vezzoli; l’impressionante “Nona ora” di Maurizio
Cattelan che ritraeva Papa Wojtila colpito da un meteorite; lo spazio espositivo che il bulgaro Nedko Solakov fece dipingere da due
attori, uno con del colore nero
e l’altro con il bianco, alternando continuamente e senza
fine i due colori.
Nel corso dell’anno imperversava con attacchi continui e
polemiche l’allora Sottosegretario ai beni culturali Vittorio
Sgarbi, che proponeva provocatoriamente, tra l’altro, Martin Scorsese per la direzione
del Festival del Cinema ed il
critico del New York Times,
Robert Hughes, alle arti visive.
Il quale, si scoprì nel corso Chen Zen, I tamburi, 2001
69
delle polemiche, chiedeva un compenso stratosferico – si parlava
di un miliardo di lire – che la Biennale certamente non avrebbe
potuto mai dare.
Era evidente l’attacco al presidente Paolo Baratta, colpevole di
una “buona ed autonoma gestione tesa al rafforzamento strutturale dell’ente” – una colpa evidentemente molto grave in Italia –
che venne, infatti, “dimissionato” a sorpresa con una telefonata
dal ministro ai beni culturali Urbani, nel mese di dicembre
dell’anno 2002.
Baratta verrà richiamato a presiedere la Biennale nel 2007.
2003 – La Biennale di Bonami
L’edizione curata da Francesco Bonami è stata forse una delle più
criticate – sarebbe più esatto dire massacrate – dalla stampa di
tutto il mondo, perché risultava frammentata in decine di sezioni
confuse, tanto che ABO la definì una “simulazione del caos”.
Il quotidiano Chicago Sun Times, la città dove Bonami dice di
lavorare scrisse che vi erano esposti “un buon numero di dipinti
scadenti e video in prevalenza noiosi e pretenziosi”.
Oltretutto quella Biennale venne anche accusata di essere
troppo “torinese” ed influenzata dalla Fondazione Re Sandretto
Rebaudengo, forse perché i Leoni d’Oro vennero assegnati a
Michelangelo Pistoletto e Carol Rama, entrambi piemontesi.
Ne risultò una Biennale disastrosa, a detta di molti. Comunque
a Bonami venne poi affidata la cura della mostra Italics a
Palazzo Grassi, con molte polemiche da parte degli artisti e pochi
visitatori; nonché, subito dopo, la sistemazione della collezione
Pinault nei nuovi spazi di Punta della Dogana, sempre a Venezia;
ed infine la realizzazione della Biennale del Whitney Museum a
New York. Perciò qualcuno osservò sarcasticamente che la sua
era “una carriera costruita sull’insuccesso”.
70
Le sculture d’argilla di Cai Guo Qiang, 2001
71
La Cina, di cui era comunicata ufficialmente la partecipazione,
a maggio decise invece di ritirarsi a causa dell’epidemia di Sars,
diffusasi in tutto il mondo. Durante l’estate fu però annunciata,
quasi a voler compensare quella rinuncia, la prima edizione della
Biennale di Pechino.
Tra le curiosità vale la pena di ricordare la “farmacia” di
Damiem Hirst, una gelida sequenza di scaffali in vetro e metallo
ricolmi di migliaia di pillole colorate. E la presenza “telecomandata” di Maurizio Cattelan con un piccolo pupazzo avente le sue
sembianze e chiamato Charlie, che su di un triciclo per bambini
scorrazzava molto divertito all’interno della grande sala del
padiglione Italia.
Alcune presenze furono caratterizzate da un forte significato
politico, come quella del gruppo Blu Noses che in una grande
fotografia mostrava Bush, Putin e Bin Laden, seminudi ed in
atteggiamento lascivo su di un letto; o quella del gruppo che
aveva realizzato e disseminato ai Giardini dei grandi passaporti
in fac simile di cittadini palestinesi.
L’americano Fred Wilson, un artista di colore che rappresentava
gli Stati Uniti, aveva polemicamente collocato nei giorni della
vernice, fuori del padiglione, un vero “vu cumprà”, un ragazzo
nero che vendeva borse contraffatte.
La protesta più clamorosa fu tuttavia quella dello spagnolo
Santiago Serra. La sua “opera” consisteva in un vero muro con
cui aveva chiuso stabilmente la porta del padiglione della Spagna,
facendo distribuire volantini su cui era scritto che l’accesso al
padiglione era consentito ai soli “cittadini spagnoli muniti di
documenti di identità validi”. Un’evidente e feroce polemica nei
confronti dell’accoglienza riservata alla gente di colore in Spagna,
un argomento che l’artista, nella sua maniera dissacrante, aveva
già affrontato nel 2001, quando aveva cercato 133 giovani immi72
Maurizio Cattelan, Charlie, Biennale del 2003
73
grati di colore disposti, naturalmente con un’adeguata retribuzione, a diventare “biondi”.
2005 – L’anno delle due “signore spagnole”
Due donne chiamate alla direzione della Biennale. E’ la prima
grande curiosità di questa edizione perchè non era mai successo:
né due, né tanto meno donne. Le due spagnole, peraltro molto
reputate nell’ambiente internazionale dell’arte, erano Maria de
Corral e Rosa Martinez che si divisero con precisione compiti e
spazi: la prima curava la mostra ai Giardini – una rassegna
prevalentemente storica – la seconda all’Arsenale, con maggiore
attenzione al contemporaneo.
Le curiosità e gli “incidenti” furono numerosi quell’anno a partire
dal fatto che, per la prima volta nella storia della Biennale, venne
assegnato un Leone d’Oro alla memoria di un direttore. Fu attribuito ad Harald Szeemann che aveva curato la mostra internazionale di arti visive del 1999 e 2001, con grandi ed unanimi
apprezzamenti.
Tra le piccole curiosità va ricordato un misterioso Padiglione
Marte, peraltro introvabile, ed i pinguini rossi – disseminati in
tutta la città, anche sul Canal Grande – portati dal gruppo
Craking Art, lo stesso delle tartarughe, un gruppo animalista,
evidentemente.
A proposito di animali, erano molto divertenti le cabine telefoniche, coloratissime ed a forma di pappagallo, dell’argentino
Sergio Vega.
Nel capitolo degli incidenti va invece inserita la mostra della
video artista svizzera Pipilotti Rist, allestita nella Chiesa di San
Stae e chiusa prudentemente anzitempo perché accusata di
“vilipendio della religione”, forse quella islamica.
Un incidente evitato è stato invece quello del tedesco Gregor
74
Guerrilla Girls, Manifesto, 2005
Schneider che, nel progetto presentato, prevedeva di costruire
un grande cubo nero in Piazza San Marco, con tutta evidenza
somigliante ad una “Kaaba” sacra agli islamici.
Non gli fu concesso – anche se si dice che in Biennale non c’è
censura – e l’artista, per protesta, fece pubblicare nel catalogo
ufficiale della mostra sei pagine completamente nere.
Molto discussa e criticata, la video ripresa del Caligola di Gore
Vidal fatta da Francesco Vezzoli. Venne definita un “porno gay
storico”, che infatti attirò molte persone, come dire, interessate.
Molta curiosità suscitò invece la performance, titolata Emendatio,
dell’artista nativo americano James Luna alla Fondazione
Querini Stampalia.
Si trattava di un vero e proprio rito, una sorta di Messa, in un
ambiente che si avvaleva anche di veri e propri banchi provenienti da una chiesa veneziana.
75
Regina José Galindo, Video della ricostruzione chirurgica di un Imene, 2005
La sezione di Rosa Martinez all’Arsenale, la più discussa, venne
accusata di “tardo femminismo”. Ed in effetti già all’ingresso
spiccavano gli aggressivi manifesti delle Guerrilla Girls, scomparse
da tempo dalla scena dell’arte e forse riesumate per l’occasione.
Uno dei manifesti chiedeva: “Devono essere spogliate nude le
donne per entrare al Met Museum?”. Un po’ patetico e certamente datato.
Più forte l’installazione, sempre all’ingresso, realizzata dalla
portoghese Joanna Vasconcelos. Esponeva infatti un enorme
lampadario neo classico fatto da 14.000 assorbenti “Tampax”.
76
Divertente il caso dell’italiana Micol Assael, la cui “installazione”
prevedeva una voce proveniente dall’alto: il ragazzo assoldato
per la voce si rifiutò, ad un certo punto, di continuare a urlare e
telefonò a tutti i giornalisti presenti a Venezia asserendo che “era
lui l’opera d’arte”. Ma forse anche questo diversivo faceva parte
dell’opera di Assael.
Drammatico e raccapricciante fu invece il video della guatemalteca Regina Josè Galindo nel quale si vedeva la vera e propria
ricostruzione chirurgica di un imene. Dovette impressionare
molto la stessa giuria internazionale che le assegnò infatti il
Leone d’Oro per un giovane artista.
Ma, in questo revival del femminismo anni settanta, pochi si
accorsero della sorprendente e significativa opera di una giovane
artista iraniana, Mandana Moghaddan, che esponeva “defilata”
negli spazi della Fondazione Levi a San Samuele.
Il suo lavoro consisteva in un grande blocco di cemento (naturalmente in vetro resina) sospeso in aria a quattro grandi trecce di
capelli femminili. Era forse l’opera più bella e rappresentativa
della condizione della donna, specie considerando il paese di
provenienza dell’artista.
2007 – La biennale dell’americano Storr
Già l’anno precedente, alla mostra internazionale di architettura
aveva suscitato una certa curiosità il padiglione degli zingari di
Romania, Bulgaria e Moldova allestito ai Granai alla Giudecca.
Ma anche nel 2007, nell’ambito delle partecipazioni nazionali,
spiccava il ”Padiglione Rom” allestito nel nobile Palazzo Pisani
a Santa Marina, sostenuto dal noto finanziere internazionale
Georges Soros.
La Biennale di Robert Storr, la prima volta di un direttore americano,
era molto ordinata, ineccepibile e qualcuno disse perfino museale.
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Non presentò dunque incidenti e scandali di rilievo tanto che gli
unici suoi interventi per “rimettere le cose a posto” furono: far
rimuovere le centinaia di coccodrilli dislocati per tutta la città
dal solito gruppo “animalista” Cracking Art; diffidare uno sconosciuto artista piacentino, tale Filippo Biagioli, che sul Web si era
inventata una partecipazione alla Biennale in un improbabile
“Padiglione della Marginalità”.
Molto interessante apparve la partecipazione africana tanto che
il Leone d’Oro venne assegnato al fotografo Malik Sidibè, proveniente dal Mali, per le sue bellissime fotografie in bianco e nero.
Una delle opere più ammirate era invece certamente l’enorme
“tappeto” sospeso del ghanese El Anatsui, fatto di colorate lattine
schiacciate di bevande.
Anche la “favela” in miniatura, ricostruita con mattoni forati dal
giovane brasiliano Renato Dias, riscosse molto interesse.
Importante è notare anche il taglio politico di alcuni riconoscimenti da parte della giuria.
Il Leone d’Oro alla carriera venne infatti assegnato all’argentino
Leon Ferrari, classe 1920, con una installazione in cui un Cristo
appare crocifisso su di un aereo da guerra ed una menzione
speciale andò al bulgaro Nedko Solakov per un’installazione di
modelli di mitra Kalhanshikov, l’arma più famosa al mondo.
Sul fronte delle polemiche, un nutrimento permanente nella
storia della Biennale, queste erano tutte incentrate, seppure in
maniera “diplomatica”, sulla Festa del Cinema di Roma che
certamente costituiva, nonostante le ripetute smentite d’obbligo,
un chiaro attacco al Festival veneziano, fondato nel 1932, il
primo nella storia del cinema.
Il direttore Robert Storr, con grande signorilità, attese la conclusione del suo mandato per rivelare le molte difficoltà incontrate
all’interno della stessa Biennale.
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Joana Vasconcelos, Lampadario composto da 14.000 Tampax, 2005
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2009-2013, viaggio al termine della storia
Nella Biennale del 2009 già si intravedeva qualche segnale che
faceva ben sperare nella continuità di una divertente tradizione
storica fatta di incidenti, provocazioni e scandali.
Come nel celebre romanzo di Celine non sono mancati infatti, già
prima dell’apertura, i “bombardamenti” sull’arte e sugli artisti. In
particolare per il padiglione italiano la cui cura è stata affidata,
con un’evidente scelta politica, a Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli, subito chiamati il Duo Beatrice, oppure Beatrice & Beatrice.
Vincenzo Eulisse, per cominciare o per finire, ha già dichiarato
che quest’anno, per opporsi alle intenzioni di Monsignor Ravasi,
farà finalmente il “suo” padiglione del Vaticano.
E un noto artista veneziano – lamentandosi pubblicamente sui
giornali del fatto che la Biennale avesse invitato nel padiglione
Italia un pittore reo, a suo parere, di aver copiato le sue opere –
ha annunciato che per protesta sta “meditando di suicidarsi platealmente” il giorno dell’inaugurazione. L’annunciato kamikaze
dell’arte manterrà la parola?
Il ministro della cultura Sandro Bondi vuole sdebitarsi in questa
Biennale con chi gli ha fatto conoscere il suo “santo protettore”
Berlusconi.
Ed è noto che l’incontro è stato procurato dallo scultore Pietro
Cascella (1921-2008) negli anni in cui l’artista stava realizzando
il grandioso monumento funebre al presidente del consiglio.
Perciò ha proposto d’autorità – sarà perciò senz’altro realizzata
– che all’artista venga dedicata una grande mostra omaggio.
Infine Andrej Molodkin, che esporrà nel padiglione della Russia,
ha annunciato che nella sua opera, titolata Das Kapital, verrà
pompato sangue e petrolio. “Voglio usare il petrolio grezzo della
Cecenia e il sangue dei soldati russi”, ha dichiarato come spiegazione l’artista russo.
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Leon Ferrari, Crocifissione, 2007
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Renato Figueiredo Dias, Morrinho project, ricostruzione di una “favela” di Rio de Janeiro, 2007
In attesa della Biennale del 2011, ricca di episodi curiosi, anche
nell’anno precedente c’è da registrare qualche fatto divertente.
La Biennale venne condannata ad un risarcimento di 150.000
Euro per l’episodio della storica porta del 1917 di Marcel Duchamp,
esposta nel 1978, e ridipinta dagli addetti allo smontaggio. Curioso
lo stesso anno, nell’ambito della Biennale Architettura, il progetto
del russo Arseny Zhilyaev che aveva installato nella Casa dei Tre
Oci alla Giudecca una vera lavanderia utilizzata da molte donne
del quartiere. Nel 2011 c’è solo l’imbarazzo della scelta tra gli
episodi più curiosi ma vanno prima rimarcati i due fatti più
clamorosi. Uno serio, cioè la scelta coraggiosa della direttrice
Bice Curiger di esporre tre dipinti di Tintoretto nel padiglione
centrale ai Giardini, in dialogo con il contemporaneo.
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L’altro riguarda la decisione di Vittorio Sgarbi, responsabile del
Padiglione Italia all’Arsenale, di invitare qualche centinaio di
artisti, naturalmente buoni e cattivi, troppi, a esporre in Biennale.
Creando un’incredibile confusione sul piano del valore delle
opere esposte e nell’affastellamento delle stesse in un spazio
limitato. Provocando una sequela di proteste, polemiche (che
però a lui piacciono) e illusioni. Ma gli artisti gli perdonavano
tutto: le femmine perché lo considerano bello, i maschi perché
nelle sue visite si faceva accompagnare dalla pornostar Vittoria
Risi, a tratti “esposta” nuda nel padiglione. Tra le cose divertenti
da segnalare la sala fatta di cesti per la spazzatura di Klara Lidèn,
i piccioni di Maurizio Cattelan collocati dappertutto, il grande
blocco di plastilina rossa di Norma Jeane che ognuno poteva
usare per disegnare sulle pareti, la grande scultura del Giambologna, il “Ratto delle Sabine”, fatta di cera da Urs Fischer, che in
cima aveva posto uno stoppino acceso e che si è perciò consumata
durante l’esposizione. Anche nel 2013 non sono naturalmente
mancati i fatti curiosi, le opere strane, le presenze divertenti. A
cominciare dall’esposizione del folle progetto di un Palazzo
Enciclopedico concepito nel 1955 da uno sconosciuto artista
italo-americano, Marino Auriti, che avrebbe dovuto conservare
tutto il sapere dell’umanità e che ha dato il titolo a questa Biennale.
Sarebbe lungo parlare di tutte le curiosità che vi sono – lo faremmo
alla chiusura – ma vale intanto la pena di segnalare il padiglione
posto su una nave dalla portoghese Joana Vasconcelos, lo
scambio di padiglioni tra Francia e Germania, la vasca da bagno
con motore di Wang Du, l’occupazione dello spazio con una
montagna di detriti della spagnola Lara Almarcegui e,
finalmente, l’arrivo del Vaticano, anzi della Santa Sede, in
Biennale.
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Epilogo
Gli incidenti, gli scandali, le provocazioni e le curiosità, l’abbiamo
già detto, sono stati il sale e la fortuna della vita ormai ultra
centenaria della Biennale di Venezia.
Molti di questi episodi non sono ufficiali, fanno cioè parte della
“leggenda” della Biennale, quella trasmessa nei ricordi personali
di artisti e curatori e non li abbiamo perciò riportati, anche se
sarebbe stato molto divertente.
Raccontare la caccia al grande collezionista o al direttore del
museo importante, messa in atto dai vari artisti nei giorni della
vernice della manifestazione, potrebbe da sola riempire centinaia di pagine, ma avrebbe il sapore del “gossip”.
Non li abbiamo inseriti anche se di alcuni episodi siamo stati
testimoni diretti a volte affrontando le risentite smentite dei
famigliari – quando l’artista era scomparso – altre la minaccia di
rompere un’amicizia pluriennale, quando egli era ancora in vita.
Bisogna dire che è questa una regola valida per tutti i Paesi
partecipanti alla Biennale e non propria del solo ambiente
italiano. Ma ciò conferma, infine, la grande attrattiva che la
Biennale, più di ogni altra manifestazione d’arte al mondo,
esercita ancora a livello internazionale.
Del resto la Biennale di Venezia viene ormai definita “la madre
di tutte le Biennali”. Che sono alcune centinaia sparse per il
mondo, tra grandi e piccole, alcune anche interessanti, molte del
tutto insignificanti.
Per chi ama la Biennale di Venezia – la Biennale per antonomasia –
non resta allora che augurare alla Vecchia Signora dell’arte,
ancora molti scandali, mille incidenti e continue polemiche.
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Xu Deqi, Supermao and china girl, Biennale 2013
Loris Gréaud, The Geppetto Pavilion, 2011
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