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Dello stesso autore
nel catalogo Sonzogno
Non sarà mai inverno
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Andrew Nicoll
La vita segreta e la strana morte
della signorina Milne
traduzione di Marinella Magrì
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La traduzione di questo volume è stata realizzata
con il contributo di Publishing Scotland.
Titolo originale: The Secret Life and Curious Death of Miss Jean Milne
Copyright © Andrew Nicoll 2015
First published 2015 by Black & White Publishing Ltd
Copyright © 2016 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Pubblicato in accordo con Il Caduceo Agenzia Letteraria
Prima edizione: febbraio 2016
ISBN 978-88-454-2610-0
www.sonzognoeditori.it
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LA VITA SEGRETA E LA STRANA MORTE
DELLA SIGNORINA MILNE
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Ad Alexander Samuel Valentine,
tieni i piedi al caldo ecc.
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E
ra il primo inverno di guerra, e non avevamo idea di
quanti altri inverni sarebbero trascorsi prima di riuscire a saldare i conti con il Kaiser, quanti altri lutti, quanti altri morti.
Superai la volta sotto le nostre stanze, salii la scala di legno
che piegava su se stessa come quella di un alto patibolo, su
fino alla porta e al dipinto del Pile Light, il faro su palafitta,
appeso sulla parete a fianco. È un gran bel dipinto. Mi sono
fermato spesso a osservarlo, sia la notte durante le ore di servizio, sia passando di tanto in tanto per strada. Guardate dal
molo o dalla spiaggia e potrete vederlo laggiù, il Pile Light, a
un miglio dalla costa. L’artista l’ha catturato a perfezione, ben
solido sulle gambe tozze e squadrate, capaci di resistere alle
maree e al montare delle onde. Un simbolo degno della nostra Loggia, impreziosito soltanto dall’aggiunta della squadra,
del compasso e dell’occhio onniveggente. Nessuna firma, naturalmente. Nessuno può conoscere il nome dell’artista, poiché ha offerto generosamente il proprio lavoro in segno di
carità, e alla mano destra non è concesso sapere ciò che fa la
sinistra. È opera del Fratello Petrie. Il solo pittore di insegne
della confraternita.
Entrai e percorsi il passaggio fra le pareti di legno fino
alla stanza della vestizione. Mi sembra di risentire in bocca il
sapore umido e freddo della pioggia e l’aroma caldo e caramelloso del legno bruciato proveniente da dietro le lampade
a gas.
Posai la valigia sul tavolo. Quella di Fratello Cameron era
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già lì. La mia è di legno rivestito in pelle. Ha cerniere d’ottone
e le iniziali del mio nome impresse in lamina d’oro. La considero confacente e appropriata, visto che contiene così tanti
oggetti per me preziosi: i polsini e il grembiale, e altri accessori di cui non è conveniente parlare. La valigia di Fratello Cameron è fatta di quello spesso cartone rosso e lucido che chiamano “pelle di balena” – che di certo non ha mai visto una
balena da vicino – tutto intagliato e piegato in una forma tenuta insieme da rivetti di piombo opaco. Sicuramente adeguata allo scopo.
«Vedo che il tuo luogotenente Trench si è nuovamente
cacciato nei guai» mi disse Fratello Cameron.
Fratello Cameron non mi piace. So che appartiene alla Gilda e che meriterebbe tutto il mio affetto e la mia lealtà, ma
non riesco proprio ad affezionarmi a lui. Apprezzo la compagnia della Loggia, naturalmente, ma con moderazione e solo
dopo aver svolto l’opera. Sempre dopo. Fratello Cameron ha
l’abitudine di andare a ristorarsi al Royal Arch perfino prima
del nostro incontro al Tempio. Non approvo questo genere di
cose. Il nostro è un rito solenne e vi si deve partecipare con la
massima sobrietà. Lui non mi piace, tuttavia dobbiamo andare d’accordo.
Non ricevendo risposta, disse: «L’ho letto nel Courier, perciò sarà vero. Ha parlato a favore di quel giovane ebreo di
Glasgow. Cercando di convincere che non è stato lui a uccidere quella vecchia, quando chiunque sano di mente riuscirebbe
a capire che quell’uomo è colpevole come il peccato.»
«Non è il “mio” luogotenente Trench.»
«L’avevi preso in simpatia, se ben ricordo. Ha combinato
un bel puttanaio quando è stato qui, cos’era, tre anni fa?»
«Due.»
«Soltanto? Avrei detto di più.» Fratello Cameron, in piedi
di fronte allo specchio, armeggiava con la cravatta. «In ogni
caso, un tempo sufficiente per acchiappare quella canaglia, se
tu e il luogotenente Trench ne aveste avuta l’intenzione. Se l’è
svignata a Valparaíso, oh accidenti!» Ricominciò daccapo con
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la cravatta. «Valparaíso o Costantinopoli o Timbuktu o qualche altro posto lontano. Magari, Kirriemuir. Ho sentito dire
che è un borgo abbastanza selvaggio da accogliere qualsiasi
disperato. Ed ecco che adesso il tuo luogotenente Trench s’inventa delle storie per far assolvere un assassino.»
«Quali storie?» Mi sarei morsicato la lingua. Non avevo
alcuna intenzione di ascoltare quello che Fratello Cameron
aveva da dire, ma ero curioso di sapere del luogotenente
Trench. Su questo aveva ragione.
«Diamine, ma non li leggi i giornali? Leggi il Courier. È un
giornale serio. Trench ha raccontato certe storie agli investigatori ingaggiati dalla polizia metropolitana, dicendo che si è
commesso un grave errore giudiziario e sostenendo che la
polizia ha coperto tutta una serie di prove di vario tipo capaci
di dimostrare che il giovane ebreo non avrebbe mai potuto
uccidere quella povera vecchia d’una vedova, né tagliarle la
gola o cacciarle la testa nella stufa, e che nonostante lo sapesse bene ha cospirato per insabbiare tutto quanto. Gli costerà il
posto. Anzi, è già fortunato se per una cosa simile non lo sbatteranno in galera, strappandogli molto probabilmente i gradi
nella pubblica piazza e umiliandolo di fronte a tutti. Dovresti
sentirlo come un oltraggio il fatto che abbia osato dire cose
simili sui tuoi colleghi.»
«Lui fa parte delle forze dell’ordine di Glasgow.»
«Sono pur sempre rappresentanti della legge, agenti di polizia che hanno giurato di difendere la giustizia.»
«Anche lui lo è.»
«Ci avrei giurato che saresti stato proprio tu a levarti in sua
difesa. Non capisci che questo peggiora soltanto le cose? Lui
si è rivoltato contro i suoi. È un tradimento, uno sporco tradimento. Gli dovrebbero tagliare la gola, strappare la lingua alla
radice e seppellire il corpo nella sabbia nel punto più basso
della marea. Sai che cosa dice? Dice che il confronto di persona, dove il giovane assassino ebreo è stato individuato fra decine di altri, è stato del tutto fasullo. Ci crederesti mai? Ed è
finito sul giornale!»
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Il confronto di persona. Già, il confronto. Era stato effettuato un confronto di persona. Due anni prima, organizzato
dal nostro commissario capo. Lo ricordavo bene, quel confronto. Scostai Fratello Cameron con una spallata e mi piazzai
al suo posto di fronte allo specchio. «Se uno dice “nero” e
l’altro dice “bianco”, uno soltanto può avere ragione. Non
spetta a me giudicare, grazie a Dio, ma ho la forte sensazione
che il luogotenente Trench parli dal profondo della coscienza.
Che cosa avrebbe da guadagnare da questa sua accusa? Niente. Avrebbe tutto da perdere. È un uomo di grande coraggio.»
«O un amico dell’ebreo. O un suo debitore. Oppure è stato
corrotto da lui.»
Poi la porta della stanza della vestizione si aprì e, riflesso
nello specchio, vidi alle mie spalle Fratello Slidders, Slidders il
postino, che mi guardò e mi disse: «Salve, John» proprio come aveva fatto quella terribile mattina.
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N
on sono uno di quei tipi cui piace dire che si ricordano
quando qui non c’era altro da vedere, se non la spiaggia. Suppongo sia vero, ma cerco di non pensarci. Qui le cose sono
cambiate molto dai tempi in cui ero bambino. Il castello è ancora al suo posto, dov’è rimasto per questi quattrocento anni
a guardia del piccolo porto, con il tetto ricostruito e tutti i danni prodotti da Cromwell riparati, e le batterie presidiate da
valorosi volontari con uniformi dai bottoni d’argento. I capanni dei pescatori se ne stanno tutti in fila con le barchette tirate
a riva fino all’uscio e le corde per il bucato sventolanti e danzanti nella brezza. Ma dove un tempo c’erano soltanto dune
accidentate e ciuffetti di ammofila arenaria con qua e là qualche storto alberello selvatico, adesso abbiamo una passeggiata costellata di ville imponenti e uno yacht club voluto dalla
vecchia Regina in persona, e grandi magioni torreggianti lungo il crinale della collina, a competere l’un l’altra in magnificenza e bellezza per i loro parchi e giardini.
Dicono (e chi sono io per confutarlo?) che ci siano più milionari a Broughty Ferry che in qualsiasi altro chilometro quadrato di suolo che Dio ha creato. Sono fuggiti qui da Dundee,
quella fogna di malvagità e depravazione, per respirare a
grandi polmoni la nostra pulita brezza di mare, ben lontani
dallo strepito degli opifici che li hanno resi ricchi e via dalla
vista delle maleodoranti case popolari dove ammassano gli
operai quasi fossero legna da ardere per le loro fornaci.
A Broughty Ferry abbiamo ogni tipo di attrazione: eleganti
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giardini pubblici e campi da bocce per la ricreazione; chiese
ben sovvenzionate con eccellenti predicatori legati sia alla tradizione stabilita sia alla Libera Chiesa di Scozia, e perfino una
cappella inglese frequentata da persone della buona società; e
i pub, ben sovvenzionati anch’essi. Abbiamo un tranvai che
serve molte zone del borgo, e la nostra stazione ferroviaria di
cui dirò altro a breve. Abbiamo passeggiate a dorso d’asino e
pagliacci sulla spiaggia per i villeggianti estivi. Abbiamo un
ufficio postale di prim’ordine con le cifre reali scolpite in pietra sul muro, e molte delle case più abbienti possiedono una
linea telefonica. C’è ogni tipo di negozio a soddisfare qualsiasi necessità, droghieri, macellai e fornai di qualità, pesciaioli,
ortolani, venditori di abiti per signore e gentiluomini, e ferramenta, tutto è a portata di mano.
E poi c’è la nostra stazione di polizia. Una volta, non troppo tempo fa, avevamo anche il nostro corpo di polizia, dieci
uomini onesti guidati dal nostro commissario capo, e avevamo il nostro sindaco con gli assessori comunali e una nostra
corte con delle belle aule di tribunale, ma Dundee, che ci
guardava con occhi d’invidia, inviò alla nostra piccola stazione ferroviaria delle spie a prender nota del numero dei pendolari che ogni giorno viaggiavano lungo la linea per andare
al lavoro. E l’usò come prova per giustificare una legge del
Parlamento che le permettesse di incorporare il nostro piccolo
borgo.
Ma all’epoca alla quale mi riferisco, tutto questo doveva
ancora accadere.
Era novembre, la fine di una breve giornata luminosa giunta come una sorta di dono prima che su di noi piombasse l’inverno. Stavo passeggiando insieme all’agente Brown lungo
Duntrune Terrace, una di quelle belle strade ampie che alla
fine del secolo scorso avevano cominciato a impreziosire il
borgo con carreggiate lastricate di ciottoli e viali di terra perfettamente battuta per separare, su entrambi i lati, i pedoni
dal traffico delle vetture e dalle ville, e che dovevano essere
costate Dio solo sa quante centinaia di sterline. Camminava14
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mo lentamente. Che è come ci si aspetta da noi. Mentre camminiamo dobbiamo essere visti. Dobbiamo essere riconosciuti, perché nostro primo dovere è scoraggiare il crimine e renderci disponibili in modo che chiunque, dal più autorevole al
più umile, possa richiedere la nostra assistenza.
Mentre discendevamo la collina verso Claypotts Pond, incontrammo Slidders il postino, con la borsa sulle spalle e
un’espressione afflitta in viso. Ci raggiunse, mi afferrò il braccio e mi chiamò per nome. In quanto sergente della polizia di
Broughty Ferry non avrei mai incoraggiato un comportamento simile nelle normali ore di servizio, ma il postino Slidders e
io abbiamo cominciato a frequentare la scuola parrocchiale lo
stesso giorno, oltre a essere confratelli della Loggia, pertanto
con lui non posso far valere troppo il mio rango.
«John Fraser» disse. «Temo che ci sia qualcosa che non va
proprio per niente con la signorina Milne, su a Elmgrove.»
Tolsi la sua mano dalla mia manica. «Perché dici una cosa
del genere?» domandai.
«Perché ogni giorno attraverso il suo cancello tre o quattro
volte, scendo i gradini che portano al giardino sul retro e lì
fissata al muro c’è una cassetta di ferro dove devo infilarle la
posta. Ebbene, sono tre settimane che non viene svuotata.
Quella cassetta è piena zeppa. Dubito che riuscirei a infilarci
anche solo un altro foglietto di carta.
«E che Dio mi sia testimone, per giorni e giorni quella porta non si è mai aperta una sola volta. C’è un opuscolo della
Chiesa di Scozia ancora appeso alla maniglia ed è lì dalla scorsa settimana. È una persona piuttosto bislacca ed evito sempre di suonare il campanello a meno che non ci sia una raccomandata, tipo quelle che hanno bisogno della sua firma, e
anche in quel caso odia venire alla porta, ma in quella casa c’è
proprio qualcosa che non va. Non sono certo tipo da insegnare il mestiere alla polizia, ma se fosse per me, quella porta la
butterei giù.»
L’agente Brown e io conoscevamo bene Elmgrove, così come la signorina Milne sua proprietaria. Suo padre aveva fatto
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i soldi vendendo tabacco e, seguendo l’esempio di molti altri,
aveva lasciato Dundee per stabilirsi insieme alla famiglia a
Ferry.
Ma poi lui era morto, ed era morto anche il resto della famiglia oppure si era trasferito altrove, e da lì a poco la signorina Milne si era ritrovata a vivere da sola in quella grande
casa.
Probabilmente direste che lei si fosse infiacchita e che la
casa si fosse infiacchita insieme a lei. Elmgrove era una dimora di ventitré stanze, oltre a tutte quelle di servizio che ci si
aspetterebbe di trovare in una casa di quelle dimensioni e stile. È situata all’inizio di Grove Road, a pochi metri dalla fermata del tranvai di Strathern Road, un angolo interamente
destinato ai suoi due acri di giardini, alberi e cespugli, suddivisi in bellissimi parchi, orti e frutteti. O, per meglio dire, lo
era un tempo. Poiché, quando aveva rinunciato alla manutenzione della casa e si era ritirata in alcune piccole stanze del
pianterreno, la signorina Milne aveva trascurato anche il parco finché si era ridotto a un semplice prato ricoperto di muschio all’ombra di alberi e di alcuni cespugli sparsi di rose.
Tutto il resto versava in un vergognoso stato di selvatichezza.
Ci sarebbe stato di che farne una predica.
Invitai il postino Slidders a riprendere la sua strada e io ripercorsi la collina verso Strathern Road diretto a Elmgrove.
Dalla via è difficile scorgere la casa, inoltre eravamo a novembre e il buio calava presto, ma Brown e io conoscevamo la
strada. La signorina Milne aveva abbastanza denaro per concedersi ogni capriccio, e non faceva che assentarsi per brevi
viaggi. Ma ogni volta che la casa restava disabitata, qualsiasi
fosse il lasso di tempo, lei si presentava alla stazione di polizia
per informarci della sua partenza e far sì che tenessimo gli
occhi un po’ più aperti.
La proprietà è cinta tutt’intorno da un muro alto – supererà
i due metri – un cancello a doppio battente per le vetture e,
accanto, fra due pilastri, un portoncino più stretto per i visitatori che giungono a piedi. Entrambi erano chiusi, ma in questo
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non c’era nulla di insolito, e il postino Slidders aveva affermato
di essere passato dal portoncino più piccolo per settimane.
Questo si aprì al semplice tocco e l’agente Brown e io accendemmo le lanterne e le lasciammo scoperte, poiché la sera di
novembre era alquanto tetra sotto il folto degli alberi incolti
della signorina Milne. La casa era buia. Mi diressi con audacia
all’ingresso principale e premetti il campanello. Lo udii squillare nel vestibolo, ma in una sorta di eco deserta e solitaria. La
casa suonava vuota. Guardai Brown, Brown guardò me.
«Coraggio, giriamo da dietro» dissi, e puntandoci la luce
sui piedi trovammo la strada per i gradini che scendevano
verso la porta posteriore. Tutto era esattamente come John
Slidders l’aveva descritto: una cassetta di ferro sul muro del
retro colma fino a scoppiare di lettere e carte, e quell’opuscolo
aperto a metà e avvolto sulla maniglia della porta. Un soffio di
vento avrebbe potuto buttarlo giù.
Cercammo di vedere attraverso i vetri, ma l’interno era nero come l’inferno e non riuscivamo a scorgere altro se non il
riflesso luminoso delle nostre lanterne.
Brown picchiò sulla porta con il pugno. «Signorina Milne,
è in casa? È l’agente Broon, signorina Milne. C’è nessuno in
casa?» gridò.
Lo lasciai fare. Un uomo che aveva superato gli esami da
sergente poteva capire benissimo ciò che l’agente Brown – o
Broon, come diceva lui – non riusciva ad afferrare: se durante
le ultime tre settimane non aveva aperto la porta per ritirare la
posta, era difficile che la povera donna si sarebbe mai potuta
alzare per andare a rispondere alla sua bussata.
Ma dovevo riconoscergli una certa tenacia, visto che quando tornai dopo aver percorso l’intero perimetro della casa, lo
ritrovai ancora lì, intento a picchiare sulla porta.
«Vieni via, Broon» dissi. «Qui non c’è niente da vedere.»
«E se fosse caduta? E se fosse a letto che si sente poco bene?»
«L’hai sentita gridare?»
«Come faccio a dirlo? Sono rimasto a picchiare sulla porta
per dieci minuti.»
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«Zitto e mosca, allora, e restiamo in ascolto.»
Restammo lì insieme nel buio, e tutta l’oscurità e il silenzio
del luogo parvero darsi rumorosamente convegno nelle nostre orecchie, e ci guardammo per un po’ finché Brown chiamò di nuovo: «Signorina Milne, è in casa?» Ma lì non c’era
nessuno. Solo il sospirare del vento fra gli alberi e il suono di
foglie secche sgattaiolanti qua e là fra i nostri piedi come topi.
Broon fece per estrarre il manganello. «Adesso spacco il
vetro» annunciò.
Ma glielo proibii. «Non c’è stata segnalata alcuna infrazione. La casa è in ordine. Non abbiamo nulla da fare qui.»
Restò a guardarmi come un toro attraverso un cancello,
con quell’espressione da mezzo scemo in faccia, vuota come
la luna, in attesa che gli dicessi cosa fare, il che era cosa sicuramente appropriata e rispettosa, ciò nonostante deludente.
Broon non sarebbe mai diventato sergente.
Gli dissi: «Il signor Swan di Westlea, qui di fronte, ha fatto
installare il telefono. Andremo a chiedergli di poterlo usare.»
E quello facemmo.
Dunque, Westlea è una bellissima casa. Per molti versi non
imponente quanto Elmgrove, ma non ha patito tutti quegli anni di incuria. Ha un frontone che guarda sul cancello della signorina Milne e una finestra alta dai vetri colorati da cui vidi
bruciare una luce. Westlea non possiede un elegante viale d’ingresso per le vetture, ma soltanto un grazioso e modesto cancello fra due solidi pilastri di pietra con delle sfere scolpite sulla
cima, il tutto elegantemente intonacato e dipinto di bianco.
A quel punto penso fossero quasi le nove di sera, non certo
l’ora adatta per una visita, ma dato che ero un sergente della
polizia di Broughty Ferry, ed ero lì per ragioni di servizio, non
ebbi esitazioni. Varcai il cancello, percorsi il sentiero di ghiaia
e suonai al campanello – un campanello elettrico, a voler essere precisi. Il signor Swan non era tipo da lesinare sulle comodità per sé e per la sua famiglia. E questa volta, quando
suonai al campanello, lo squillo restituì l’eco di una casa piena
di gente e di luce, di calore e di gioia.
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La servetta del signor Swan venne alla porta in grembiulino e cuffietta di pizzo, e come vide me e l’agente Broon la
faccia le crollò e si fece pallida come la parete, che fosse per
cattiva coscienza o per timore di brutte notizie non avrei saputo dirlo. Non so mai dirlo, ma è un genere di sguardo che
facendo il mio mestiere ho visto spesso. Un sergente di polizia
è di rado un benvenuto.
Stavo per enunciare le ragioni della mia visita, quando, prima ancora di riuscire ad aprire bocca, udii l’aprirsi di una porta e il suono di una voce: «Chi è, Maggie? A quest’ora!»
La povera Maggie, lì impalata e boccheggiante come un’allocca, mi dava la netta impressione di non avere più cervello
fra le orecchie di quanto ne avesse l’agente Broon. Avevo il
forte dubbio che nemmeno messi insieme sarebbero stati in
grado di superare gli esami da sergente, e mentre lei se ne
stava lì in piedi, muta come un pesce, dissi a voce alta: «È il
sergente Fraser della polizia, signore, qui per chiederle la cortesia di usare il suo telefono.»
Il signor Swan si precipitò fuori, in maniche di camicia,
panciotto e senza colletto, così come aveva il diritto di stare in
casa sua e a quell’ora della sera: «La polizia? Venga dentro,
sergente, entri. Maggie, togliti dalla porta e lascia entrare il
signore» e poi, naturalmente, poiché non era che ordinariamente curioso, domandò: «C’è qualche problema?»
L’agente Broon ebbe abbastanza buon senso di tacere, tenendosi rispettosamente a un paio di passi indietro mentre
entravamo nella casa, e io risposi: «Non c’è ragione di allarmarsi, signore, ma le sarei grato se mi permettesse di usare il
telefono affinché possa consultarmi con il commissario capo.»
«Ma certo, naturalmente» e il signor Swan ci fece strada, di
nuovo con solerte agitazione, lungo il passaggio che portava
alla cucina dove, sulla parete, nella sua lucida custodia di
quercia, era appeso il telefono. «Ecco qui, sergente.»
Guardai lui e guardai la custodia, e poi il signor Swan aggiunse: «Mi permetta.» Sollevò il ricevitore, agitò su e giù la
forcella e un momento dopo, con voce chiara e precisa, gridò
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nel microfono: «Mi passi la stazione di polizia di Broughty
Ferry.» Dopodiché indietreggiò di un passo nell’angusto corridoio e mi porse il ricevitore. «È collegato» disse, con la stessa voce chiara e precisa.
Restammo lì in attesa, tutti e tre in mezzo al passaggio, io,
Broon e il signor Swan, con la signora Swan che sbirciava da
dietro la cornice della porta e la servetta Maggie di sicuro in
ascolto nei paraggi. Ma visto che ero alle prese con il telefono,
per quanto appaia bizzarro io non facevo più parte della compagnia, sicché il signor Swan si rivolse a Broon e con voce
assai sommessa disse: «Ma lei è certo che non ci sia nulla di
cui preoccuparsi?»
Broon scrollò il suo testone da bue. “No” mimò con le labbra.
«Pronto» dissi. «Qui è il sergente Fraser. Mi faccia parlare
con il commissario capo Sempill.» Trascorsero alcuni momenti di silenzio prima che il commissario capo prendesse la
linea.
«Abbiamo ricevuto una segnalazione» annunciai, e gli raccontai l’intera vicenda.
«E siete certi che non ci siano segni di infrazione?»
«L’intera residenza è tranquilla.»
«Avete verificato con cura?»
«Tutt’intorno all’immobile e nel giardino, e per quanto ce
l’ha permesso il buio, abbiamo esaminato anche le finestre
superiori.»
«Non vedo cos’altro potremmo fare a quest’ora della notte» disse il signor Sempill. «Per ora lasci stare e domattina si
porti dietro un falegname, in caso fosse necessario forzare la
porta.»
«Molto bene, signore» risposi. «L’agente Brown e io domattina riprenderemo la perlustrazione e ingaggerò Coullie.»
«D’accordo.» E la comunicazione s’interruppe con uno
scatto secco.
Restituii la cornetta del telefono al signor Swan, che la ricollocò sul suo gancio. «La signorina Milne?» disse, discretamente.
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«La signorina Milne?» ripeté la signora Swan.
«E io che pensavo...» disse Maggie.
Ma prima che potessi domandarle cos’è che pensava, la
signora Swan l’aveva zittita e minacciata con un’occhiataccia,
ricordandole di assicurarsi che «quei camini siano ben accesi
quando l’orologio del salotto segnerà le sei e mezza», e l’aveva spedita a dormire.
Quella sera non vi furono altri eventi di rilievo.
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A
lla stazione di polizia, la mattina dopo, aprii il grande
cassetto sotto il bancone d’ingresso ed estrassi un mazzo di
chiavi. Dio solo sa come ce le fossimo procurate, ma a poco a
poco, lentamente e con costanza, nell’ufficio di polizia avevano cominciato ad accumularsi chiavi di ogni foggia e misura.
Qualcuno trovava una chiave, la consegnava e quella, non reclamata, restava lì, dentro il cassetto. Altre due o tre la raggiungevano finché, dopo qualche mese, qualcuno si stufava di
vederle sbatacchiare in giro, occupare spazio e infilarsi dappertutto. E così finivano riunite alle altre nel grosso anello
d’acciaio, e dimenticate.
Ma una chiave è un oggetto utile e di tanto in tanto, quando qualcuno si ritrovava chiuso fuori, intervenivamo noi con
la nostra collezione. E dato che di tanto in tanto funzionava,
decisi che le avrei portate con me a Elmgrove.
Dapprima dovetti percorrere a piedi tutta la strada fino
all’abitazione di Coullie, più di mezzo chilometro. Aveva – e
ha tutt’ora – una bella bottega da ebanista dietro casa, all’estremità di Brook Street, di fronte alla chiesa di St Aidan, con
una bell’insegna bianca e ben disegnata appesa allo steccato
con su scritto “Carpentieri ed Ebanisti” e, su un altro rigo, con
calligrafia obliqua, “Pompe Funebri”.
A casa non rispose nessuno perciò percorsi il vicolo lì accanto fino al grosso capanno di lamiera dove svolgeva l’attività. Sulle prime non mi udì bussare e chiamare per via del frastuono della sega, cosa che mi parve inappropriata visto che
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era un sabato mattina di buon’ora. Quando finalmente sollevò lo sguardo dal suo lavoro, agitai le chiavi verso di lui e dissi: «Abbiamo bisogno di aprire la porta di una casa.»
«Dove?»
«Elmgrove, in cima a Grove Road.»
«Una bella camminata.»
«La tariffa abituale.» Tirai fuori l’orologio dalla tasca. «Si
consideri già in servizio, signor Coullie.»
«In tal caso, sergente, sono più che felice di fare il mio dovere. Il tempo di prendere il cappotto.»
Coullie aveva ragione, era una bella camminata. Percorremmo fianco a fianco le strade deserte, con fare piuttosto
gioviale, due rispettabili cittadini impegnati a svolgere il
proprio dovere, io con il mio anello di chiavi che risuonavano a ogni passo, Coullie con i suoi utensili raccolti in un sacco degli attrezzi, un grosso drappo di iuta ripiegato con manici su ogni lato che camminando gli rimbalzava sulle ginocchia. Rifacemmo insieme tutta la strada su per Brook Street,
fino alla stazione di polizia e poi quasi altrettanta lungo la
Dundee Road fino al ponte della ferrovia, e un tratto ancora
fino alla stazione ferroviaria di West Ferry per poi prendere
su per la collina, fino all’imbocco di Grove Road. Ma Elmgrove sorge in cima alla strada e, non ho problemi ad ammettere, il mio fiato caldo si aggrappava già all’aria fredda di novembre molto prima che raggiungessimo il cancello. A quel
punto avevo raccontato a Coullie tutti i dettagli della storia
che gli spettasse sapere.
L’agente Broon ci stava attendendo davanti al portoncino
come un fedele cane da caccia e, dopo aver ruotato la maniglia, pronunciò i suoi rispettosi «Buongiorno» facendosi da
parte per farci entrare.
Coullie andò alla porta d’ingresso e nella luce del mattino
vide subito ciò che io non avevo notato nel buio. «Non si disturbi a usare le sue chiavi qui, sergente.» Indicò qualcosa oltre il vetro dell’elegante porta d’ingresso. «Ce n’è già una infilata nella toppa dall’interno. Non ne accetterà una seconda.»
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«C’è un’altra entrata là sotto» disse Broon, e cominciò a
fare strada verso la scala sul retro della casa della signorina
Milne.
Alla maniglia della porta era ancora appeso l’opuscolo, anche se tristemente floscio e spiegazzato dopo la gelida nebbiolina della notte. Coullie lo sfilò e lo tenne fra due dita – cosa che non avrebbe mai dovuto fare – dicendo: «Vuole che
spacchi la serratura?»
«Non occorre tutta questa fretta» risposi. «Lei è qui solo in
caso di emergenza.» E, detto questo, tirai fuori il mio anello di
chiavi e cominciai a provarle sulla porta, ma alcune erano
troppo grosse e altre troppo piccole, alcune avevano un fusto
massiccio mentre la serratura della signorina Milne necessitava di una chiave con un foro nel fusto per accogliere il perno
presente nel meccanismo. Insomma, per farla breve, dell’intero parco di chiavi del commissariato di Broughty Ferry non ce
n’era una che fosse all’altezza del compito.
«Spaccherò la serratura» disse Coullie.
«Aprirà la finestra» ribattei io.
Coullie parve deluso, non perché fosse stato defraudato
della possibilità di distruggere per il gusto di farlo, ma perché
il conto per la riparazione sarebbe stato assai inferiore. Tuttavia, si tolse ubbidientemente il berretto, lo fissò contro il pannello superiore della finestra e lo colpì con un martello che
aveva estratto dalla sua sacca. Alcuni piccoli frammenti gelati
si erano impigliati nel tessuto del copricapo che scrollò facendoli cadere ai suoi piedi, poi si rimise il berretto in testa e buttò giù a colpi di martello i pezzi di vetro rimasti pericolosamente attaccati al telaio di legno.
«E se la vernice avesse sigillato la finestra?» disse.
«In quel caso potrà spaccare la serratura.»
Ma non c’era il sigillo di alcuna vernice alla finestra. Coullie infilò un braccio nell’apertura, girò il piccolo fermo in ottone e la finestra scivolò su sulle guide con un gemito appena.
«E adesso?» domandò Coullie.
«Entri senza toccare niente... niente, se lo ricordi. Noi an24
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diamo all’ingresso principale. Venga a farci entrare. Broon,
aiutalo.»
L’agente Brown unì le mani a mo’ di staffa e sollevò Coullie fino al davanzale di pietra. Da lì entrare in casa fu un gioco
da niente. Ci sarebbe riuscito anche un bambino.
Avevamo a malapena raggiunto la porta d’ingresso – Broon
e io – quando udimmo Coullie gridare. «È qui per terra nell’atrio. Oh, poveretta! Dio ci salvi e ci protegga.» E poi, attraverso il vetro della porta esterna vedemmo la porta interna spalancarsi di colpo e apparire Coullie con il suo sciarpone tirato
fuori dalla camicia e premuto sulla faccia come la maschera di
un ladro, uno sguardo d’orrore negli occhi e la mano libera
che tastava avanti a sé come quella di un cieco, afferrandosi
all’aria, finché il palmo non urtò il vetro della porta d’ingresso, scivolò giù e prese ad agitarsi senza senso qua e là fintantoché trovò il pomello, girò la chiave, aprì la porta e si precipitò fuori con il rantolo di un annegato.
E come potevo biasimarlo, visto che quando si spalancò la
porta Coullie venne fuori seguito dal tipico tanfo di cadavere,
quel dolciastro, sulfureo e ardente puzzo di gallina morta che
proviene sempre e soltanto dalla carne insepolta. Presi un
profondo respiro, spinsi la porta di lato e attraversai il piccolo
ingresso verso la porta interna.
Scostai anche quella, con delicatezza, spingendone il centro con il gomito in modo da non rovinare eventuali impronte
digitali che Coullie non avesse già distrutto nella sua fuga
precipitosa.
Non fingerò con voi di aver notato ogni dettaglio in quei
pochi momenti, ma notai dannatamente bene tutti i dettagli
in seguito, e mi rimangono dentro tutt’ora, più chiari di qualsiasi appunto annotato sul taccuino. C’è l’entrata principale
da cui siamo passati, con un guardaroba sulla sinistra, da lì un
paio di passi vi condurranno alla porta a vetri che immette nel
vestibolo. Oltre a queste non ci sono altre porte che danno
sull’atrio della casa, ma c’è una pesante tenda di velluto verde
sulla destra e una di pizzo sulla sinistra. Qualcuno si era preso
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il disturbo di legarle insieme con un pezzo di fune, circa ad
altezza vita; a quanto pareva deliberatamente, per oscurare la
vista dall’esterno della finestra.
Tirai fuori il mio orologio e annotai l’ora. Erano le nove e
venti del mattino. Jean Milne giaceva lì, distesa sul tappeto,
con ciò che restava della testa puntato verso di me e i piedi
nella direzione opposta. Chiunque avrebbe visto subito che
alla poveretta ormai non avrebbe giovato alcun aiuto terreno.
La cima del cranio era schiacciata e deformata, nient’altro
che un ammasso di capelli arruffati e sangue annerito, e il viso
era livido e gonfio, tra il verdognolo e il giallastro, il colore di
un pesce. Era rimasta lì a terra per un bel pezzo.
La signorina Milne era sdraiata sul lato destro, le braccia
tese come nel tentativo di raggiungere la porta, il braccio sinistro sopra al destro.
Un tessuto piegato, come un lenzuolo a metà, le copriva la
base del cranio, ma la quantità di sangue era sbalorditiva: ne
aveva tutti i vestiti incrostati, rappresi, e ce n’era altro sulle
pareti e sul tappeto. Avanzai camminando con cautela intorno al corpo. Aveva i piedi legati con la fusciacca verde di una
tenda e accanto a lei sul pavimento c’era una piccola valigia
aperta colma di indumenti femminili, comprese biancheria
intima e un paio di borsette da signora; altri oggetti senza valore erano sparsi qua e là, oltre a un gran numero di fiammiferi bruciati. Sulla parete c’era un telefono con i fili tagliati e
penzolanti; sul pavimento, un paio di cesoie da giardino.
Con encomiabile coraggio, Broon mi aveva seguito dentro la
casa. Esibiva un colorito verdastro e nessuno poteva certo biasimarlo per questo. Il puzzo avrebbe soffocato un cavallo. «Non
toccare niente» gli dissi, «anzi, mettiti proprio le mani in tasca.»
Io feci altrettanto perché, a volte, la tentazione di allungare
una mano e sistemare un oggetto o raccogliere qualcosa per
esaminarlo meglio può essere quasi irrefrenabile. Passammo
insieme di stanza in stanza, con Broon alle mie spalle, come
una coppia di idioti erranti con le mani infilate nelle tasche dei
calzoni, e so che anche lui come me non perse mai la presa sul
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manganello, come se da un momento all’altro potessimo trovare l’assassino seduto nel bel mezzo di quel suo lavoro di
devastazione pronto a balzar fuori per farci paura.
Il posto sembrava sorprendentemente in ordine. La credenza della sala da pranzo aveva i suoi tre cassetti tirati fuori,
ma a parte questo, e quell’orribile macello nell’atrio, non c’era
traccia di saccheggio o di rapina. La maggior parte della casa
aveva l’aria di essere stata abbandonata per anni. In alcune
stanze c’erano pochi pezzi sparsi di mobilio, ma perlopiù queste erano vuote e ridotte al nudo pavimento. Il luogo echeggiava sotto i nostri stivali di quello stesso suono cavo e triste
prodotto dal campanello la sera prima.
Da quanto potevamo vedere, sembrava che la signorina
Milne si fosse ritirata in due sole stanze del pianterreno: la
camera da letto e la sala da pranzo, che usava anche come
salotto. Sul tavolo c’era un pasticcio di carne mangiato per
metà e, lì accanto, una focaccina da tè e un pezzo di pane nero. Erano posati su una copia dell’Evening Telegraph che aveva
tutta l’aria di non essere mai stato aperto.
Broon lesse la data: «Lunedì 14 ottobre.»
«Quasi tre settimane fa. Bene, questo ci dice qualcosa. Possiamo confrontarlo con i francobolli sulle sue lettere.»
Con prudenza e senza pronunciare altra sillaba, tornammo
sui nostri passi e uscimmo alla luce del sole e all’aria fresca e
pulita.
Coullie era lì a sfregarsi con ostentazione gli occhi arrossati, tirando su col naso, schiarendosi la voce e sputando ripetutamente su uno striminzito roseto di fronte alla casa, come se
sperasse che i contribuenti di Broughty Ferry potessero aumentargli i compensi in considerazione dell’angoscia sofferta,
ma io non gli prestai alcuna attenzione.
«Resta su quel gradino» dissi a Broon, e lo afferrai per le
spalle finché non fu esattamente dove lo volevo, ma con il
naso puntato ben distante dalla porta socchiusa. «Non muoverti da questo punto, per nessuna ragione al mondo. Vado
dalla signora Swan a chiedere di poter utilizzare nuovamente
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il telefono. Coullie, lei è un testimone. Le proibisco di spostarsi da qui.»
In verità, quando oltrepassai il portoncino ci avevo già ripensato sul fatto di disturbare di nuovo la signora Swan. Immaginai che sarebbe rimasta sconvolta nell’origliare le nuove
sull’assassinio della signorina Milne, sconvolta al punto che
probabilmente avrebbe afferrato il telefono non appena io lo
avessi posato per condividere la sua angoscia con poche amiche fidate. Naturalmente, ne sarebbero rimaste sconvolte anche loro, e quasi certamente ne sarebbe rimasta sconvolta anche la ragazza addetta al centralino dell’ufficio postale, e in
men che non si dica dell’angoscia superflua si sarebbe diffusa
in ogni strada di Ferry, raggiungendo perfino Dundee. Confidavo nella facoltà di Broom di star fermo in un punto e speravo che avrebbe mantenuto la posizione fino al mio ritorno,
così decisi di raggiungere in fretta e furia la stazione di polizia
per avvertire il commissario capo Sempill di persona.
Non potevo correre, ovviamente. Un ufficiale di polizia
non corre se non in risposta a una gravissima emergenza. Ma
potevo camminare tanto rapidamente quanto la dignità mi
permettesse, inoltre la strada era tutta in discesa, sicché per
arrivare non mi ci vollero che dieci minuti. Per qualche ragione, quando entrai il signor Sempill non era chiuso nel suo
ufficio, ma in piedi dietro il bancone d’ingresso, intento a raccogliere alcune carte.
«Farebbe bene a venire con me a Elmgrove, signore» dissi.
«Certo, Fraser, se lo crede. Qualche problema?»
«La signorina Milne è stata uccisa.»
«Intende sicuramente dire che è morta. Poveretta. Non ha
fatto una bella fine, da sola in quella casa in rovina senza nessuno che le tenesse la mano nel momento più estremo, ma
così è la vita a volte.»
Non risposi e il commissario capo Sempill mi guardò e impallidì. «Ha detto uccisa. Che cos’è successo?»
«È sdraiata nell’atrio con il cranio sfondato. Non uno spettacolo grazioso.»
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«Maledizione! Ha provveduto a isolare il luogo?»
«Ho lasciato lì John Brown e il falegname Coullie.»
«E quello che ci fa lì? È un civile. È forse sospettato?»
«Signore, mi aveva dato istruzione di ingaggiarlo per forzare la porta.»
«Certo, naturalmente. Mi ricordo.» Restò lì per un momento, una mano sul fianco e l’altra fra i capelli. «È stata oggetto di... di qualche spiacevolezza?»
«Qualcuno l’ha legata e le ha spaccato la testa, signore.»
«Sì ma, capisce cosa intendo, diamine. Sto cercando di stabilire con esattezza con che cosa abbiamo a che fare.»
«Dovrei telefonare al medico, signore?»
«Sì, Fraser, stavo proprio per dirglielo. Chiami il dottor
Sturrock e gli chieda di intervenire. E...» Si protese in avanti e,
rivolto al fondo del corridoio verso le celle, urlò: «Agente Suttie! Chi abbiamo con noi stamattina?»
«George Watson, signore, sbronzo e rimbambito... di nuovo.»
«È ancora rimbambito?»
«No, signore.»
«Allora buttalo fuori dalla porta sul retro e chiudi a chiave
subito dopo. Raggiungimi, ho bisogno di te. Sergente Fraser,
telefoni al signor Rodger, il fotografo, e gli dica che richiediamo i suoi servizi. Voglio che tutto questo sia messo a verbale
con il massimo della precisione... anzi, no» in corridoio apparve l’agente Suttie, pulendosi le mani con uno straccio, «fatelo fare a Suttie. Capito? Abbiamo bisogno del medico, del
fotografo, e poi passa a trovare il signor Roddan, il geometra
del municipio, e porgigli i miei ossequi. Digli che abbiamo
bisogno della sua assistenza per mettere la scena a verbale.»
Suttie mi guardò inarcando un sopracciglio.
«Omicidio» dissi. «La signorina Milne di Elmgrove.»
Suttie increspò le labbra in un fischio silenzioso.
Il signor Sempill indossò il cappello sistemandoselo bene
sulla testa. «Hai capito perfettamente le istruzioni, agente?»
Suttie scattò sull’attenti e disse: «Sissignore!»
«Molto bene, andiamo.»
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È
parte della mia indole propendere per la quiete, soprattutto quando vengo messo di fronte alla nostra stessa umana fragilità. Un ministro della Chiesa incontra le persone
nell’abisso della disperazione, ma almeno le incontra anche
nei momenti di gioia. Un poliziotto è invece un ministro della pena. Di rado noi incontriamo gente felice. Non siamo
mai i benvenuti. Se un uomo è felice di vederci, è solo perché vede in noi i soccorritori che lo salveranno da qualche
guaio, o gli angeli vendicatori che faranno giustizia di qualche torto da lui subito, ma in primo luogo non avrebbe mai
voluto patire quel guaio, né subire quel torto. In realtà, sarebbe perfino suo diritto biasimarci per aver fallito nell’adempiere il nostro dovere, che è innanzitutto prevenire il
crimine e mantenere la pace.
Coloro che commettono un crimine e violano l’ordine
pubblico ci odiano perché siamo gli agenti della loro punizione e del loro disonore. Perlopiù si vergognano. Uomini e donne trascinati nel fango dalle circostanze o dal bere o dalla povertà. Si vergognano, ed è per questo che ci odiano. Ci guardiamo in volto e sappiamo che se le carte fossero state distribuite diversamente, ciascuno di noi potrebbe stare nei panni
dell’altro.
Alcuni del mio stesso mestiere ne hanno paura, e questo li
rende boriosi. Amano vantarsi sui vinti. Credono di rendersi
più grandi rendendo gli altri più piccoli. Ritengo che ogni professione ne abbia la propria dose, di fanfaroni e smargiassi,
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ma, come dicevo, propendo per la quiete, cosa che non mi ha
impedito di raggiungere il grado di sergente presso la polizia
di Broughty Ferry.
Ero calmo quando raggiunsi Elmgrove insieme al signor
Sempill. Il signor Sempill, invece, indulse in un linguaggio
considerevolmente blasfemo. Vi furono blasfemie dal primo
momento in cui vide il corpo. Blasfemie quando si portò il
fazzoletto alla bocca e blasfemie mentre con cautela percorreva l’atrio. Blasfemie pronunciate da dietro la mano mentre
esaminava la scena. Poi, quando passò nelle altre stanze, si
espresse invece in frettolosi bisbigli che, a mio parere, avrebbe
fatto meglio a riservare per quando si era trovato alla presenza
di quella povera donna.
«Quel giornale fornisce un’indicazione sulla tempistica»
disse. «Una quinta edizione. Scopra quando viene stampata,
a quale ora del giorno. Scopra se le era stato consegnato a
domicilio o se era stato acquistato qui o a Dundee.»
«Non è stato consegnato a domicilio» risposi. «Se fosse
stato consegnato a domicilio, ce ne sarebbero altri alla porta
sul retro.»
«Esatto, per l’appunto. Quindi quel giorno doveva essere
uscita. Ma tre settimane fa! Chi potrebbe mai ricordarsene?»
Il signor Sempill si coprì nuovamente la bocca, lasciò la
stanza, attraversò l’atrio e imboccò il corridoio verso la cucina.
C’era una dispensa, ma era quasi priva di cibo, un barattolo di
tè, un po’ di zucchero, una piccola scorta di mele colte dalle sue
stesse piante e un sacchetto di carta con dentro una focaccina,
ormai dura come pietra. Nel retrocucina, il signor Sempill indicò un pezzo di canovaccio penzolante dal ripiano di scolo accanto al lavello. Mostrava segni di utilizzo; c’era una chiazza
umida e sbiadita e alcune macchie che parevano sangue.
«Ecco» disse, «è stato qui e si è lavato dal sangue. Era sporco di sangue. E non c’è da stupirsi dopo quel lavoro là fuori.»
Non eravamo da molto tempo nella casa quando Broon
chiamò dalla porta per avvertirci che Suttie era arrivato.
«Restate fuori!» ordinò il signor Sempill, e nuovamente at31
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traversammo l’atrio con circospezione, passando oltre la povera donna morta per uscire dove gli altri ci stavano aspettando.
Il falegname Coullie era seduto sui gradini con aria abbattuta, e il commissario capo disse: «Signor Coullie, i suoi servizi qui non sono più richiesti... per il momento. Può tornare a
casa, ma con l’ordine tassativo di non fare parola con nessuno
di quanto ha visto qui, per timore che ciò possa pregiudicare
lo svolgimento delle indagini. E le ordino di ritornare al più
presto con una bara e un decoroso mezzo di trasporto per il
trasferimento delle spoglie all’obitorio di Dundee.»
Coullie si colpì il berretto con insolenza e se ne andò, ma
prima ancora di raggiungere il portoncino che dava sulla strada, questo si aprì mostrando l’arrivo del fotografo, il signor
Rodger, e del geometra, il signor Roddan, entrambi gravati
degli strumenti del proprio mestiere e, oltre a loro, un piccolo
capannello di passanti che si era fermato a osservare la scena
mentre si recava a messa.
Il signor Sempill rivolse un cenno all’agente Suttie e gli
disse: «Metti in sicurezza quel cancello!» Suttie sgattaiolò come un coniglio, facendo crocchiare le suole dei grossi stivali
sul sentiero di ghiaia.
Il commissario capo diede il benvenuto ai due gentiluomini e li ringraziò per l’assistenza. «Dovrete corazzarvi» disse.
«È una scena infernale, ma sono convinto che se applichiamo
i più moderni metodi d’investigazione, riusciremo in brevissimo tempo a inchiodare il colpevole e a metterlo di fronte alla
terribile punizione della legge.
«Signor Roddan, mi farà la cortesia di uno schizzo completo ed esatto dell’atrio dove giace la vittima e lei, signor Rodger, di una documentazione fotografica: una documentazione
fotografica precisa è essenziale. Il cadavere di quella donna
deve essere esaminato. È la sola testimone del proprio assassinio e abbiamo bisogno anche del più piccolo indizio che lei
possa offrirci, ma questo lavoro non può cominciare finché il
seppur minimo reperto ritrovato sulla scena del delitto non
sarà recuperato e messo a verbale.»
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E poi si rivolse a me: «Sergente Fraser» disse, «dovrò andare a informare il signor procuratore Mackintosh.»
Gli dissi del telefono degli Swan.
«No. Questo è compito della polizia. Faccio assegnamento
su di lei affinché prenda in mano le redini della situazione qui.
Perquisisca il posto: si faccia aiutare dagli agenti se necessario. Sia scrupoloso ma delicato. Dappertutto. Voglio i pavimenti spazzati e i rifiuti conservati. Metta tutto a verbale. Moderna metodologia, accuratezza, ecco di cosa abbiamo bisogno. Conto su di lei.»
Pertanto, spinsi il petto in fuori, salutai e procedetti.
E questo è quanto rinvenni. Sul pavimento, a trenta centimetri dal piede del cadavere, c’era parte di un orecchino d’oro, e una piccola spilla a un braccio dal corpo verso sud, accanto alla porta; un paio di occhiali giaceva a terra molto vicino alla sua schiena, e un’altra spilla d’oro si trovava sulla stoffa dietro di lei.
Girando per quella stanza, a furia di osservare, annotare,
misurare – non troppo esattamente, poiché sapevo che il signor Roddan avrebbe svolto quel compito con molta più efficacia – cominciai a vedere, quasi fosse la prima volta. I piccoli
brani di quella devastazione presi singolarmente non significavano nulla, ma messi insieme esponevano l’intera storia
agli occhi di chiunque fosse disposto a leggerla.
L’arcata superiore di una dentiera giaceva sull’angolo destro dello zerbino all’ingresso del salotto. Che razza di colpo
poteva aver prodotto un effetto simile. Mentre l’arcata inferiore era volata dritta dall’altra parte dell’atrio, finendo sul
terzo gradino della scala. Due colpi in rapida successione,
avanti e indietro, est e ovest, il piroettare del viso, lo schioccare del collo – mi bastava guardare per vederlo accadere nuovamente davanti ai miei occhi.
Una sagoma di spugna imbottita avvolta in fili di seta, del
genere usato dalle signore per raccogliervi intorno i capelli e
suggerire così l’ingannevole impressione di una capigliatura
più folta e ricca di quanto sia in realtà, giaceva alle sue spalle,
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in parte coperta dal lenzuolo. Lì accanto c’era un occhialino
con la catenella attaccata, prova della debolezza della sua vista. Un vaso di vetro riposava integro, senza nemmeno una
scheggiatura o un’incrinatura, sul pavimento dov’era caduto
dal tavolo dell’atrio accanto alla porta d’ingresso.
Dal lampadario a gas appeso al soffitto proprio dove il vestibolo si apriva sull’atrio mancava uno dei globi di vetro.
Com’era potuto accadere? L’oscillazione di un colpo così forte da ridurlo a pezzi? Magari urtato durante la colluttazione, e
poi finito in frantumi nella caduta? In ogni caso, giaceva sul
pavimento, rotto ma accuratamente sistemato da una parte,
su un vassoio d’ottone posto proprio sulla soglia che dava nel
salotto della signorina Milne.
Lì accanto, un viluppo di rametti di alloro, destinati evidentemente all’addobbo. Ce n’era un altro fascio sistemato
elegantemente in un altro vassoio di ottone sul tavolo dell’atrio, e in cima ai rami era posato un cappello da signora. Intriso di sangue. Aveva lo spillone inserito ed era piegato e modellato sulla forma della sua testa. La passamaneria era strappata. La si poteva notare spuntar fuori da sotto il corpo, alle
sue spalle. Quasi del tutto ricoperta di sangue.
C’era sangue ovunque sul tappeto, quattro pozze distinte,
una dove il sangue le era uscito dalla testa e dal volto, e le altre
le scorgemmo quando il cadavere fu sollevato. Inoltre, sembrava che qualcuno avesse rovistato tutt’intorno; due bagagli
da viaggio, aperti, uno era un baule di Saratoga – uno di quegli oggetti che sembrano la cassa di un tesoro di pirati nelle
storie d’avventura – e l’altro un baule guardaroba di stagno
incernierato in due metà, una per appendervi gli abiti e l’altra
fornita di cassetti. Poi c’erano due borsette, un bicchiere da
vino – intatto – rovesciato sul pavimento insieme a una scatola di cartone da cui spuntavano brandelli di merletto, e un
attizzatoio rotto. Un attizzatoio rotto con del sangue e dei capelli appiccicati, il pomo luccicava dal viluppo di rami per terra, mentre l’asta di ferro era posata su un piccolo tavolo rotondo alla base delle scale. Sporco di sangue un po’ ovunque,
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ma in verità il grosso era sul pomello di ottone. L’aveva sollevato al contrario e l’aveva colpita con il pomo finché questo
non era volato via, poi aveva posato l’attizzatoio sul tavolino.
Era chiaro come il giorno. Chiunque lo avrebbe visto. Dalla
credenza era finito a terra il forchettone, quel genere di utensile che si trova in una custodia insieme alla coltella e all’affilatoio. Li ritrovammo più tardi, una serie assortita, con manico in corno.
Il sangue aveva risalito le scale. Ce n’era sul tappeto all’altezza del terzo gradino, e più su ancora, su un ampio ballatoio, rinvenni un altro pezzo di cordone verde da tenda, come
quello che le era stato avvolto attorno alle caviglie. Ovunque
si guardasse, ovunque, l’intero pavimento era cosparso di
fiammiferi bruciati, decine e decine.
E c’era anche un’altra cosa. Nel punto di svolta della scala,
nell’angolo, c’era un alto vaso di ottone. Era pieno di piscio e
cominciava a puzzare. Lo svuotai nel lavello, lo sciacquai e lo
rimisi esattamente dove l’avevo trovato.
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