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il nobile vegliardo, che ha consacrata l’intera
sua vita alla rivendicazione sociale. E questo
disprezzo deve poi associarsi ad un senso di
meraviglia profonda in tutti coloro i quali hanno avuto occasione di leggere l’opuscolo del
Marx; perché questo, lunge dal meritare tanto
disdegno, dovrebbe essere salutato con gioia
dagli economisti e dagli stessi socialisti di parte sua. Infatti, se i primi veggono esposte in
quel lavoro le opinioni del Marx sulla costituzione economica dell’avvenire, che nelle altre
sue opere venivano completamente taciute, i
socialisti medesimi ne trarranno argomento a
correggere e modificare alcune erronee vedute
ed a ritemprare le loro convinzioni, in parecchie parti vacillanti, alla fiamma viva del genio e della scienza.
A noi interessano specialmente le osservazioni del Marx sulla ripartizione del prodotto
in uno stato socialista, le quali rivelano per la
prima volta il sistema di riparto che il grande
pensatore aveva ideato. La divisione del prodotto sociale in ragione del lavoro, che da molti
socialisti è considerata come l’ultima Thule
della sapienza egualitaria, viene designata da
Marx come un semplice stadio transitorio nel
sistema di riparto dei prodotti, che avrà vita
soltanto nel periodo immediatamente successivo alla forma economica capitalista. Questo
criterio di ripartizione arreca infatti con sé le
più gravi ingiustizie, poiché al più robusto lavoratore accorda un maggior compenso, perché vantaggia il lavoratore celibe sull’ammogliato e, generalmente, quello che ha minori bisogni di fronte a quello che ne ha maggiori. Ma
« in una fase più elevata della società comunista, dopoché l’oppressione asserviente degli individui sotto la divisione del lavoro e quindi il
contrasto fra il lavoro intellettuale ed il lavoro
muscolare è scomparso, dopoché il lavoro non
è più un mezzo di vita ma è divenuto esso stesso il primo bisogno dell’ esistenza; dopoché
collo sviluppo complesso degli individui sono
cresciute anche le forze produttive, e tutte le
fonti della ricchezza collettiva scorrono più abbondanti - solo allora può valicarsi il ristretto
orizzonte borghese e la società può scrivere sul
proprio vessillo: ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.» - Bellamy nel Looking backward sostiene a un dipresso la medesima tesi, che già era stata difesa
da Louis Blane, sino dal 1848.
Un’altra affermazione assai importante, che
si trova nell’opuscolo «incriminato », è quella
relativa alle sorti dell’Internazionale, la cui dissoluzione, da molti considerata come una prova
della fallacia del sistema, è considerata da Marx
come un fenomeno necessario e conforme alle
sue stesse teorie. «La attività internazionale della classe lavoratrice (contro il capitale) non dipende punto dalla esistenza della Associazione
internazionale dei lavoratori. Questo non fu che
il primo tentativo, inteso a dare a quella attività
un organo accentratore; un tentativo il quale,
per l’impulso che esso diede, ebbe un risultato
durevole, ma che, nella sua prima forma storica,
non era più a lungo attuabile dopo la caduta della Comune di Parigi».
I paragrafi successivi, in cui Marx combatte
la legge ferrea del salario di Lassalle e le sue
associazioni produttive, ci interessano meno,
perché la prima è già criticata nel Capitale e
le seconde, ricopiatura di una proposta di Louis Blanc, trovarono già nella Francia potenti
e decisive obbiezioni. Assai viva è la critica
del Marx alle pie aspirazioni del Congresso di
Gotha verso una costituzione libera dello Stato, di uno Stato il quale sarebbe – egli dice –
nulla più che la repubblica svizzera o francese,
ossia il regno della borghesia. Secondo Marx
lo Stato libero non può assidersi che sulla base
di una economia socialista; esso dunque non
può istituirsi nell’epoca nostra, in cui predo-
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mina la proprietà ed il capitale, e nemmeno nel
periodo immediatamente successivo alla soppressione della proprietà capitalista, in cui si
avrà una dittatura politica del proletariato; ma
si inizierà soltanto in un periodo ulteriore, quale prodotto di una forma economica perfettamente egualitaria. Quali saranno i lineamenti
generali e le leggi di questo Stato avvenire, è
secondo il Marx un problema scientifico di altissimo rilievo, che esso però, nello scritto che
ci sta innanzi, non fa più che accennare.
Straordinariamente profonda è la replica che
oppone il Marx alla parte del programma, in
cui si domanda una proibizione generale del
lavoro dei fanciulli. «Una proibizione generale
del lavoro dei fanciulli, egli risponde, non è
solo inconciliabile colla esistenza della grande
industria, ma, se pur fosse possibile, sarebbe
reazionaria, perché, con una severa disciplina
della durata del lavoro secondo le varie classi
di età e colle numerose regole a tutela dei fanciulli, si inizia il connubio fra il lavoro produttivo e l’istruzione, che dev’essere uno dei più
potenti mezzi di trasformazione dell’odierna
società». Secondo questo concetto, il sistema
degli half-times, ossia del lavoro infantile limitato ad una sola parte della giornata, di cui
la rimanente è occupata nelle scuole, preparerebbe quella alternazione del lavoro mentale e
muscolare, che i socialisti preconizzano come
uno dei più fecondi caratteri della forma economica avvenire.
Infine – last not least - la richiesta soppressione del lavoro nelle carceri viene dal Marx
censurata e la temuta concorrenza del lavoro
carcerario al lavoro libero viene esclusa categoricamente; la quale critica del grande socialista trova ai giorni nostri un formidabile appoggio, dopoché il Congresso penitenziario di
Pietroburgo ha negata la pretesa realtà di una
concorrenza dei carcerati al lavoro degli operai
liberi.
Da questi rapidi cenni, che tracciano nulla
più che le linee essenziali dell’opuscolo del
Marx, è facile scorgere quanto sia assurda l’indignazione che questo opuscolo ha suscitato
fra i successori di Alessandro. Giudicandolo
da lunge e perciò stesso con maggiore serenità,
noi lo troviamo un capolavoro di critica profonda, che se al primo gusto potrà riuscire molesto agli accoliti, recherà loro in processo di
tempo vital nutrimento e ne correggerà lo perniciose deviazioni. s
ACHILLE LORIA
NOTA
(1) Veggasi l’articolo precedente della Direzione.
■ 1892 FASCICOLO 8 PAGINA 113
A PROPOSITO DELLA LOTTA DI CLASSE
(DEDICATO AI NOSTRI SOCIALISTI «RAGIONEVOLI»)
Federico Engels
I
l consueto zelo del nostro operoso amico Pasquale Martignetti
da Benevento, che dell’Engels
già tradusse vari lavori (1), ci pone in grado di
dare, come primizie, la versione di alcuni brani
della nuova prefazione dell’Engels stesso a
una riedizione, che egli terminò or ora di allestire, della sua classica opera Sulla condizione
della classe operaia inglese. Quest’opera, della quale chi ha letto il Capitale ricorda quanto
pregio facesse e quanto vi attingesse il Marx
per la sua poderosa, rivelatrice ed invincibile
analisi, uscì la prima volta in Germania nel
1845; l’autore non aveva che 24 anni.
Nel 1886, per cura di una traduttrice americana, ne uscì a Nuova York un’edizione inglese, che fu rapidamente esaurita. Quanto sarebbe utile - ci scrive il Martignetti - (ma forse è
follia sperarlo) che di quest’altra edizione, che
esce ora a Londra, si potesse anche pubblicare
una traduzione italiana!
Frattanto diamo questi brani, quali il Martignetti ce li invia, della nuova prefazione, che
fa splendida testimonianza della coerenza
scientifica – a distanza di quasi mezzo secolo
– e del vigore intellettuale che anima tuttora,
con grande nostra letizia, il venerato e generoso vegliardo che fu uno dei più strenui precursori ed è ancora una forza viva e luminosa
del socialismo europeo. E li dedichiamo ai nostri dolci ed azzimati amici, i socialisti ragionevoli e sentimentali, a questa giovane, anzi
lattante scuola di Kathèder-sozialisten che
proprio ora vien fiorendo in Italia, e non è a
dire quanto il molle e dilettoso clima paesano
è propizio al suo tardivo e pur giocondo fiorire. Brava gente che sogna un socialismo per
bene e senza proclamata lotta di classi, o una
lotta di classe in emulsione edulcorata che, a
guisa di certe tisane, se non giova, non possa
nemmeno far del danno a nessuno; una redenzione del proletariato manipolata da’ suoi nemici, o almeno apparecchiata d’amore e d’accordo con essi; i quali, quanto vi si prestino,
basta aver gli occhi aperti ed ogni giorno si vede. E se noi, per rispetto alla logica, a noi stessi, alla brutale ma schietta eloquenza dei fatti,
ripudiamo questa pagliacciata e denudiamo
questa insidia, ci gridano allora esclusivisti e
partigiani arrabbiati e ci accusano che vogliam
porre una classe in luogo e sede d’un’altra,
scambio di volerle abolire tutte quante in nome della «giustizia» e dell’«umanità».
A così sofistiche piacenterie risponde, con
pochi tratti vibrati, Federico Engels; dalle cui
parole i nostri neonati socialistoidi – se il loro
accorto eclettismo non avesse radice, meglio
che nella semplicità dell’ingegno, nella fiacchezza e doppiezza del carattere – potrebbero
apprendere, ci sembra, molte cose. Potrebbero
tentare di apprendervi, non foss’altro i,più giovani tra essi, ad essere «giovani»... almeno
quanto l’Engels, che ha settantun’anni!
... Lo sviluppo della produzione sulla base
del sistema capitalistico rende sempre più evidente il gran fatto che la causa della misera
condizione della classe operaia dev’essere cercata nello stesso sistema capitalistico, non già
in inconvenienti accessori.
Il lavoratore salariato vende al capitalista la
sua forza di lavoro per un certo salario giornaliero. Dopo poche ore di lavoro egli ha ripro-
dotto il valore di quel salario, ma la sostanza
del suo contratto è che egli deve lavorare un
altro numero di ore per completare la sua giornata di lavoro, e il valore che egli produce, durante queste ore addizionali di pluslavoro, è
plusvalore che, sebbene non costi nulla al capitalista, viene nondimeno intascato da lui.
È questa la base del sistema che tende a dividere sempre più la società civilizzata in pochi Rothschild e Vanderbilt, quali proprietari
di tutt’i mezzi di produzione e di sussistenza,
da una parte, e in un immenso numero di operai salariati, che non possiedono altro che la
loro forza di lavoro, dall’altra. E che questo risultato sia prodotto, non da questo o quell’incon veniente secondario, ma dallo stesso sistema, lo mostra chiaramente lo sviluppo del capitalismo in Inghilterra dal 1847.
Le ripetute visite del colera, del tifo, del vaiuolo e di altre epidemie hanno convinta la
borghesia inglese della urgente necessità di
misure sanitarie nelle sue città industriali, se
essa voleva salvarsi dal cadere vittima di siffatte epidemie. Quindi i più rivoltanti abusi descritti in questo libro o sono scomparsi o sono
stati mitigati... Ma mentre l’Inghilterra ha così
superato lo stato giovanile dello sfruttamento
capitalistico da me descritto, altre contrade lo
hanno appena raggiunto. La Francia, la Germania e specialmente l’America sono i formidabili competitori che in questo momento, come io previdi nel 1844, infrangono il monopolio industriale dell’Inghilterra. Le loro manifatture sono giovani, paragonate con quelle
dell’Inghilterra, e nonostante il loro più rapido
incremento, esse hanno raggiunto solo ora a
un dipresso Ia stessa fase di sviluppo della manifattura inglese nel 1844...
È appena necessario di rilevare che il punto
di vista teoretico generale di questo libro - filosofico, economico e politico - non coincide
esattamente col mio punto di vista di oggi. Il
moderno socialismo internazionale, dopo che
esso fu completamente sviluppato come scienza, principalmente e quasi esclusivamente cogli sforzi di Marx, non esisteva ancora nel
1844. Il mio libro rappresenta una delle fasi
del suo sviluppo embrionale; e come l’embrione umano riproduce nel suo primo stadio le
pinne branchiali dei pesci nostri antecessori,
così questo libro mostra dappertutto le tracce
della discendenza del moderno socialismo da
uno dei suoi antenati, la filosofia tedesca. Così
esso attribuisce grande importanza all’aforisma che il comunismo non è una semplice dottrina di partito della classe operaia, ma una
teoria abbracciante l’emancipazione di tutta la
società, inclusavi la classe capitalistica, dalle
sue anguste condizioni presenti. Questo è abbastanza vero in astratto, ma assolutamente
inutile, e qualche volta peggio, nella pratica.
Finché le classi ricche non solo non sentono il
bisogno di qualsiasi emancipazione, ma si oppongono strenuamente alla emancipazione
della classe operaia, la rivoluzione sociale dovrà essere preparata e combattuta esclusivamente dalla classe operaia.
Anche il borghese di Francia del 1789 dichiarò che l’emancipazione della borghesia era
l’emancipazione di tutta la razza umana; ma la
nobiltà e il clero non vollero comprenderlo. La
frase - sebbene per quel tempo fosse una verità
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storica, in astratto, rispetto al feudalismo - divenne presto una fiera sentimentalità e fu perduta di vista dappertutto nel fuoco della lotta
rivoluzionaria. E oggi, coloro che, dalla «imparzialità» del loro punto di vista superiore,
predicano agli operai un socialismo etereo, che
si eleva al di sopra dei loro interessi e delle loro lotte di classe, e che tende a riconciliare in
una umanità superiore gl’interessi delle due
classi contendenti - questa gente, o sono neofiti che devono ancora imparar molto, o sono
i peggiori nemici degli operai - lupi in veste di
agnelli...
Fatta poi rapidamente la storia della classe
operaia inglese dal 1845 al 1885, e dimostrato
come la necessità di espansione continua, che è
il tallone d’Achille della produzione capitalistica, urtando nella inevitabile stagnazione prodotta dalle crisi crescenti, ponga ormai l’Inghilterra nel dilemma o di perire essa medesima o
di spezzare lo stesso suo sistema attuale di produzione; Federico Engels così conchiude:
... È superfluo dire che oggi il socialismo rifiorisce in Inghilterra, copioso e di tutte le gradazioni: socialismo cosciente ed incosciente,
socialismo prosaico e poetico, socialismo della
classe operaia e della classe media, perciocché,
in verità, quell’abominazione delle abominazioni, il socialismo, non solo è divenuto rispettabile, ma «ha veramente infilato il frak e si
adagia mollemente sulle poltrone dei salotti».
Ciò dimostra l’incurabile incostanza di quel
terribile despota della «società», che è l’opinione pubblica del medio ceto, e giustifica ancora una volta il disprezzo nel quale noi, socialisti della passata generazione, la abbiamo sempre tenuta. Ma al tempo stesso non vediamo ragione per dolerci di codesto sintomo.
Ciò ch’io considero ben più importante di
questa momentanea moda fra i circoli borghesi
di affettare un’addolcita diluizione del socialismo, e ancora più dell’effettivo progresso che
il socialismo ha fatto in generale in Inghilterra,
è la rinascenza della East End di Londra. Questo immenso ricovero di miseria non è più la
morta gora di sei anni fa. Esso ha scosso la sua
torpida disperazione, è ritornato in vita ed è divenuto il centro di ciò che si chiama il «Nuovo
Unionismo», il centro cioè della organizzazione
della gran massa degli operai non qualificati
(unskilled). Questa organizzazione può adottare
su larga estensione la forma delle vecchie Unioni degli operai qualificati (skilled), ma il carattere ne è essenzialmente diverso.
Le vecchie Unioni serbano le tradizioni del
tempo in cui furono fondate e considerano il
sistema dei salari come stabilito una volta per
sempre, come un fatto definitivo, che esse possono al più modificare nell’interesse dei loro
membri. Le nuove Unioni invece vennero fondate in un tempo in cui la fede nell’eternità del
sistema dei salari era seriamente scossa; i loro
fondatori e promotori erano socialisti, o coscienti o di sentimento; le masse, la cui adesione le rese forti, erano rozze, neglette, guardate con diffidenza dall’aristocrazia della classe operaia, ma esse avevano l’immenso vantaggio, che le loro menti erano terreno vergine, intieramente libero dai «rispettabili» pregiudizi ereditati dai borghesi, che ingombravano i cervelli dei «vecchi Unionisti», E così
noi vediamo ora queste nuove Unioni mettersi
in generale alla testa del movimento della classe operaia e rimorchiare sempre più le ricche
e altiere «vecchie» Unioni.
Senza dubbio, gli East Enders hanno commesso errori colossali; come li commisero i loro predecessori e come li commettono i socialisti dottrinari che ne hanno un sacro orrore.
Una gran classe come una grande nazione non,
impara mai meglio e più presto che col subire
le conseguenze dei suoi propri errori. Ma, con
tutti gli errori commessi nel passato, nel presente e che si commetteranno nel futuro, la rinascenza dell’East End di Londra rimane uno
dei più grandi e più fecondi fatti di questo scorcio di secolo, e io sono lieto e fiero di essere
vissuto abbastanza per esserne spettatore. s
NOTA
(1) Fra l’altro Il Socialismo utopico e il Socialismo scientifico (Benevento, 1883, cent.
60), di cui ha ancora un tenue deposito la Libreria Fratelli Bocca di Torino; e l’Origine
della famiglia, della proprietà privata e dello
Stato (Benevento, 1885, L. 2).
■ 1892 FASCICOLO 19 PAGINA 375
SOCIALISMO DI STATO
E SOCIALISMO DEMOCRATICO
Carlo Kautzky
L
e dispute, onde echeggiarono
a volte anche i giornali italiani,
fra Vollmar e gli altri membri
della frazione parlamentare del partito socialista tedesco, dispute che determinarono una
scissione nel partito non ancora del tutto cicatrizzata, offrono occasione a Carlo Kautzky, il
valoroso direttore della Neue Zeit di Stuttgart,
di formulare quel che debba pensarsi della differenza - anzi, secondo lui, dell’antagonismo
essenziale - che passa fra il socialismo di stato
(accettato più o meno dal Vollmar) e il vero
Socialismo democratico. Cotesta analisi, toltone solo ciò che ha troppo stretto riferimento
a polemiche e a cose tedesche, ci sembra conservi il suo valore anche fuori del confine germanico e possa giovare a snebbiare le idee
malsicure e a guardarci da una confusione di
termini che spesso anche in Italia si fa. Stralciamo perciò alcuni brani dalla fedele versione
che dell’articolo del Kautzky ci manda il solerte nostro amico P. Martignetti.
Il Kautzky premette che, per indagare il vero
carattere del Socialismo di Stato, non bisogna
cercare quale forma esso dovrebbe o potrebbe
avere, ma quale forma ha realmente assunto
presso i suoi più distinti settatori teorici. Il più
eminente rappresentante della teoria del socialismo di Stato fu senza dubbio il Rodbertus. E’
perciò dal Rodbertus che il Kautzky prende le
mosse.
Se noi - scrive il Kautzky - paragoniamo i
concetti di Rodbertus con quelli dei teoretici
del socialismo democratico, troviamo anzitutto fra quello e questi una grande concordanza
nella veemenza con cui essi criticarono la società odierna: ma essi si separano e vanno per
vie opposte appena si tratta di tirare le conse-
guenze di cotesta critica; perché mentre la democrazia socialista dalla critica della società
capitalistica deduce la necessità del suo tracollo, conchiude invece Rodbertus che, appunto
perché questo tracollo si avvicina sempre più
minaccioso, devesi far di tutto per impedirlo.
Rodbertus si dichiara bensì convinto che, se
mai il dritto e la libertà debbano regnare completamente sulla terra, sarà necessaria «l’abolizione della proprietà privata della terra e del
capitale»; ma «io sono ben lungi - egli soggiunge - dal proporre una siffatta organizzazione», cioè la organizzazione comunistica
(1). Il comunismo verrà dopo alcuni secoli, ma
noi non vi siamo ancora maturi; perciò il lavoro pratico dell’oggi non dev’essere diretto
ad accelerare l’avvento del comunismo, preparando le classi operaie alla maturità e al potere ad esso necessari. Il lavoro pratico dell’oggi deve invece proporsi il compito di viemeglio consolidare la proprietà della terra e
del capitale, eliminandone quei più rivoltanti
inconvenienti, che inaspriscono oggi le classi
operaie. Non abolizione, ma conciliazione delle classi sociali sotto l’egida e con la norma
del suum cuique (a ciascuno il suo), è questo
il compito che si pone Rodbertus, e dice egli
stesso non potersene trovare un altro più conservatore di questo.
«La divisione economica delle classi - lavoro, capitale, proprietà fondiaria - deve conservarsi con tutta l’energia, e bisogna soltanto
portare dei rimedi nella distribuzione del prodotto del lavoro », è detto in una lettera di
Rodbertus al dottor R. Meyer.
E la sola forza, che possa eseguire le riforme
sociali da lui chieste, è a suo avviso un forte
potere monarchico, indipendente dai singoli
partiti e dalle singole classi. La lotta di classe,
per Rodbertus, era un’abominazione.
Noi non abbiamo ragione di dubitare della
sincerità del suo amore per gli operai, perché
egli si studiava seriamente di escogitare mezzi
atti a migliorarne la sorte, ma egli rigettava decisamente qualsiasi riforma che abilitasse gli
operai a combattere con energia la lotta di
classe, e non voleva saperne né della organizzazione per arti e mestieri né della giornata
normale di lavoro.
La sua «soluzione della questione sociale»
consisteva nella fissazione del salario, che doveva essere imposta dalle autorità agli operai
ed agli imprenditori, i quali dovevano accettarla senza mormorare. Con ciò egli sperava
porre un termine a quelle lotte tra capitalisti ed
operai che minacciano l’esistenza della società
odierna. «Non è nella strada, cogli scioperi,
colle barricate o col petrolio che si risolve la
questione sociale», esclama Rodbertus nella
sua dissertazione sulla giornata normale di lavoro, e continua:
«La costante pace sociale, un forte potere politico del governo, la più completa fiducia delle
classi operaie in questo potere, grandi intraprese e lavori formanti una serie di profonde combinazioni effettuabili soltanto con la pace, con
l’ordine e con l’energia - sono queste le condizioni per la soluzione della questione sociale.
Esse escludono tanto uno stato disordinato
quanto una popolazione operaia turbolenta».
Le addotte citazioni, che potrebbero essere
facilmente aumentate, bastano a mostrare l’essenza del socialismo di stato. Non qualsiasi intervento dello stato nei rapporti economici può
qualificarsi come Socialismo di stato. Questo
nome compete solo a quell’intervento che ha
il compito di porre un termine alla lotta di classe tra borghesia e proletariato, e di conseguire
la «pace sociale», la «conciliazione delle classi
sociali», con un forte potere monarchico al di
sopra delle classi medesime, indipendente da
esse, e che dia a ciascuno il suo. Questo intervento deve rendere superfluo o addirittura im-
possibile al proletariato di rappresentare esso
stesso, i suoi propri interessi, la cui difesa
dev’essere affidata ciecamente al governo.
È questo il pensiero del socialismo di stato
laddove esso ha assunto una forma palpabile
negli scritti del più autorizzato suo rappresentante. Ma se si concepisce in questo modo il
socialismo di stato, non è esatta allora l’affermazione che le misure richieste dai socialistidemocratici pel graduale avviamento ad una
migliore organizzazione sociale, possano qualificarsi socialismo di Stato. A nessuna delle
domande del nostro programma si conviene
una siffatta qualifica.
Q
ui il Kautzky entra a parlare assai diffusamente del diverso modo col quale il socialismo di stato e il socialismo democratico intendono ed apprezzano i cosiddetti «esercizi di
stato». Rodbertus non li ammetteva - per ora che eccezionalmente, per ovviare a mali straordinari, per esempio per le Strade ferrate che,
abbandonate all’esercizio privato, strozzano i
mittenti di merci, e per le Banche, come quelle
che non hanno alcun riguardo per la produzione agricola. Ma in tutto ciò l’interesse e il diritto dei lavoratori è l’ultima delle preoccupazioni. Se qualche discepolo di Rodbertus si
preoccupò dell’interesse dei lavoratori - approvando, per es., la giornata normale di lavoro fu una concessione al socialismo democratico,
non una legittima conseguenza del socialismo
di Stato.
Il programma invece dei socialisti democratici ripudia «l’esercizio di Stato a scopi fiscali,
che pone lo Stato al posto dell’imprenditore
privato e riunisce così in una sola mano il potere dello sfruttamento economico e della oppressione politica degli operai», Non è sul terreno del capitalismo, ma è bensì in uno Stato
al servizio del proletariato, che il socialismo
democratico concepisce l’esercizio di stato; il
quale naturalmente comincerebbe dalle produzioni nelle quali lo stato stesso è consumatore.
A questo proposito egli aggiunge però alcune distinzioni che ci sembrano interessanti.
T
ra esercizio di Stato ed esercizio di Stato egli scrive - intercedono grandi differenze. Sonovi già oggi Stati, il cui governo è così dipendente dal popolo in generale e nei quali anche
la classe operaia ha conseguita tale forza ed influenza, che non c’è da temere che un’estensione dei mezzi e delle funzioni economiche
del governo possa condurre ad aumentare l’oppressione e lo sfruttamento del popolo. E d’altra parte vi sono già oggi dei rami d’industria
nei quali l’accentramento è tanto progredito,
che essi formano effettivamente già dei monopoli, e sovente molto oppressivi. Allora l’esercizio da parte dello Stato di siffatti rami d’industria, invece di condurre ad un aumento, può
condurre ad una diminuzione dello sfruttamento e dell’oppressione della popolazione in generale e dei singoli operai in particolare; l’esercizio di Stato quindi, già nello Stato odierno,
nonostante la fiscalità di questo come imprenditore capitalistico, può essere in date circostanze vantaggioso pel proletariato in lotta, e
un tale esercizio di stato di rami d’industria
economicamente importanti può benissimo essere considerato come stadio di preparazione e
transizione alla società socialistica.
Ma questo esercizio di Stato favorisce gl’interessi del proletariato solo negli Stati nei quali
manca ciò che è la condizione e la nota caratteristica essenziale del socialismo di Stato,
cioè: un potere dello Stato indipendente dalla
massa della popolazione. L’incontro della democrazia sociale col Socialismo di Stato nel
senso di Vollmar è soltanto possibile laddove
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