Storia senza gloria
Le verità nascoste del Risorgimento
Movimento Studentesco Padano
&
Movimento Universitario Padano
A cura di:
- FILIPPO FRIGERIO
- MATTEO LAZZARO
- FABIO MOLINARI
A
TUTTI I GIOVANI LIBERI DI PENSARE, DI STUDIARE, DI RISCOPRIRE UNA STORIA
CHE CI APPARTIENE E CHE A VOLTE QUALCUNO HA TENTATO DI NASCONDERE.
«SI
È CURIOSI SOLTANTO NELLA MISURA IN CUI SI È ISTRUITI.»
Jean-Jacques Rousseau
INDICE
- INTRODUZIONE ........................
- CONTESTO INTERNAZIONALE .....
- CAVOUR
E IL
REGNO
- GARIBALDI
E I
GRANDE RECITA
DEL
NORD
MILLE: LA
.........................
4
5
7
9
- 1866: IL PLEBISCITO TRUFFA IN
VENETO .................................... 16
- DOMANDE & RISPOSTE ............
- DEVOLUTION
NEL
- FEDERALISMO
2006 ...........
NEL
2011 ..........
- BIBLIOGRAFIA .........................
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
20
25
27
29
INTRODUZIONE
«Il Risorgimento era stato, come oggi si
direbbe, una “operazione di vertice”, che
seguitava ad interessare soltanto il vertice,
cioè l'esigua minoranza che lo aveva fatto.
[…] Così nacque l'Italia dei notabili»
I. Montanelli – Storia d'Italia, VOL VI
Cominciò in questo modo il connubio fra i
popoli della penisola italiana e della pianura
padana, in un misto fra la Romantica
esaltazione di un ideale nazionale, dettata
più dalle contingenze storiche che dalla
volontà socioeconomica di unirsi sotto
un'unica bandiera, e l'esperimento di
un’inedita unità sociale che cercasse di
creare un popolo ed allo stesso tempo un
collante, solo rifacendosi ad un’unità
amministrativa. Tutto ciò portò, dopo 150
anni, all’Italia come la vediamo oggi;
capiamo come alcune scelte, che noi
crediamo errate, siano la radice di molti
problemi dell’Italia unita. L’Italia, lo stato
che primo fra tutti avrebbe avuto la
vocazione di stato federale avendo delle
fortissime
realtà
locali
–
come
da
disposizioni di Cavour – all’indomani
dell’unificazione, a causa della prematura
morte dello statista piemontese, si trovò
unita centralisticamente.
Inoltre, se altri stati, altri popoli, altre
nazioni ebbero esempi di manifestazioni di
sentimento nazionale, che unissero in modo
panclassista tutta la popolazione, lo stato
italiano non ne ebbe mai. E fu così che nel
1861 ventidue milioni di persone si
trovarono unite sotto una stessa bandiera e
sotto la stessa legge, per la prima volta
dopo quindici secoli, senza aver la minima
idea di dove questo cambiamento li avrebbe
condotti. Uno stato che, appunto, cercò di
creare gli italiani (lo disse lo stesso D'Azeglio
all'indomani dell'unità) con mezzi come
l’indottrinamento scolastico, la televisione, i
mezzi di comunicazione di massa, e non
ultimo, la massiccia immigrazione interna.
Tali
parole
verranno
adeguatamente
motivate nei capitoli a venire, giustificate,
ampliate ed illustrate in un viaggio
attraverso i secoli che ha avuto come nobile
scopo il fornire, in modo gratuito,
accessibile e pensato per i giovani, quella
cosiddetta “controstoria” che i libri –
perlomeno quelli accademici – non ci hanno
mai svelato circa l'Unità dello stato italiano.
Noi, giovani del Carroccio, non ci
attribuiamo l'arrogante prerogativa di voler
ridisegnare la Storia, che – il lettore ce lo
permetta – fu abbondantemente farcita,
ridisegnata ed edulcorata dalle classi
dirigenti centralistiche dell'ultimo secolo e
mezzo, quanto invece vorremmo raccontare
essa in maniera oggettiva, servendoci di
austeri storici, lodevoli scrittori e cronache
contemporanee.
Faremo ciò, per riprendere echi del
serenissimo Ugo Foscolo, con quella calma
che più si addice ai ragionamenti da
condursi scientificamente.
Quasi mai nelle scuole viene affrontato
questo tema né dibattuto né degnato della
corretta importanza. Tenteremo di dare un
contributo a quanti vorranno aprire dibattiti,
tavoli di discussione o, più semplicemente,
voler raccontare, per onor del vero, ciò che
accadde veramente centocinquanta anni fa
dall'Alpe a Sicilia.
«Bisogna saldare i conti con la storia,
riannodare i fili smarriti e non visti,
riscoprire la grande ricchezza policentrica
che abita nella varietà e nella differenza:
questo è il “baricentro” politico e culturale
che proietta il paese verso una “meta”,
quella del federalismo. Questa è la “scossa”
che bisogna dare al Paese per la sua
rigenerazione sotto mutate sembianze
istituzionali, quelle federali»
Prof. S.B. Galli – La Padania, 25/7/2008
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
CONTESTO INTERNAZIONALE
Per comprendere gli eventi che hanno
dato origine al Risorgimento e hanno
portato nel 1861 alla formazione dello
Stato italiano è necessario considerare
brevemente
il
contesto
politico
internazionale
della
prima
metà
dell’Ottocento.
L'Ottocento è un secolo importante per
la storia moderna e per gli eventi che
sarebbero seguiti; è possibile dire che in
questo periodo era in corso una
battaglia fra il nuovo ordine politico di
natura democratico liberale contro i
vecchi regimi monarchico-aristocratici,
governati con la forma dell'assolutismo;
sullo sfondo iniziavano a farsi largo
anche le prime rivendicazioni di
carattere socialista. Le conquiste di
inizio secolo di Napoleone Bonaparte
avevano consentito agli ideali nati con
l’Illuminismo e la Rivoluzione francese
una rapida diffusione in tutta Europa.
L’Italia del Nord costituì il laboratorio di
prova per il genio militare del generale
corso e, nei fatti, l’esordio per le
baionette francesi che solo pochi anni
dopo avrebbero conquistato la gran
parte
del
Vecchio
Continente.
L’avanzata napoleonica però non si
concretizzò soltanto nella conquista
militare dei singoli territori, ma per un
opera sistematica di smantellamento
delle vecchie istituzioni e per la
diffusione degli ideali e di nuovi simboli
(il Tricolore italiano fu un'invenzione
napoleonica
ispirata
al
Tricolore
francese) che avevano animato la fase
iniziale della Rivoluzione. Si trattava di
principi ed ideali che puntavano
all’abbattimento
delle
vecchie
monarchie assolute e di cui la borghesia
europea
seppe
servirsi
poi
per
svincolarsi dall’antico sistema a base
aristocratica e porre le fondamenta per i
più moderni stati liberali, maggiormente
accondiscendenti verso i loro affari.
DI
MATTEO LAZZARO
Questo fu il contesto nel quale si
svilupparono, esattamente a metà del
secolo, i moti del 1848 e quindi anche
le Dieci Giornate di Brescia e le Cinque
Giornale di Milano; si trattava di un
fenomeno di natura europea, che non
aveva nulla a che vedere con
sentimenti di carattere nazionalistico o
patriottico. Gli abitanti della Lombardia
e del Veneto, che si ribellarono
all'ordine
costituito
avanzavano
rivendicazioni contro lo straniero, di
natura assolutamente indipendentista o
perlomeno volte all'ottenimento di una
costituzione, seguendo il trend del
momento. A Venezia venne infatti
riproclamata da Daniele Manin (nipote
dell'ultimo Doge) la repubblica, mentre
a Milano, Carlo Cattaneo – fra i capi
della rivolta – voleva una Lombardia
autonoma che si autogovernasse con
un sistema federale ispirato al modello
svizzero e si oppose fermamente ai
potentati locali quando decisero di
chiamare in causa il Piemonte di Carlo
Alberto. La propaganda patriottica però
ci ha lasciato un'immagine di questi
moti differente dalla realtà dei fatti: si è
sempre
parlato
di
sollevazioni
spontanee “per fare l'Italia”, nel
tentativo di attribuire al Risorgimento
almeno un unico momento di reale
partecipazione popolare, che però nei
fatti non è mai esistito.
Sul piano delle potenze in gioco lo
scenario era complesso. Da una parte
c'era una Francia che risollevava la
testa dopo anni di confusione sotto la
guida di Napolone III, nipote del grande
conquistatore e che era fortemente
interessata a contenere il potere
dell'Impero
Austro-ungarico
sul
continente. Sul teatro marittimo invece
vi era l'Inghilterra, desiderosa di
detronizzare i Borbone da Napoli per
una serie di questioni, sia economiche
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
che personali. Henry John Temple di
Palmerston, a capo del Governo inglese,
odiava infatti Ferdinando II di Borbone
per una faccenda privata concernente
la nipote, Penelope Smith. La ragazza
lasciò la buia Inghilterra per approdare
nella soleggiata Napoli e non ci mise
molto tempo ad ambientarsi, tanto che
le dame di corte la soprannominarono –
poco simpaticamente - “a' zoccola”. In
effetti pare che la giovane saltasse di
letto in letto fin quando non riuscì ad
arrivare in quello di Carlo, fratello del
sovrano che se ne invaghì e decise di
sposarla. Al rifiuto di Federinando
nell'acconsentire alle nozze i due
iniziarono a girovagare per l'Europa,
accumulando un mare di debiti. Quando
Palmerston
chiese
al
monarca
duosiciliano di onorare i debiti della
coppia ricevette un secco rifiuto. Al di là
delle questioni private però, ciò che
incrinò definitivamente i rapporti fra i
due Stati furono i contenzioni sull'Isola
Ferdinandea – apparsa e scomparsa nel
mediterraneo nel giro di pochi mesi - e
la questione dello zolfo. La Sicilia di
allora possedeva alcuni dei giacimenti
più cospicui al mondo dell'importante
minerale
e
i
Borbone
avevano
inizialmente concesso il monopolio
sull'estrazione agli inglesi. Quando però
si accorsero che le condizioni erano
svantaggiose
mutarono
i
termini
dell'accordo, cosa che il Governo di Sua
Maestà britannica non gradì affatto. La
guerra
commerciale
rischiò
di
tramutarsi in guerra aperta e solo
l'intervento degli Stati della Santa
Alleanza scongiurò il conflitto, che
comunque compromise definitivamente
i rapporti fra l'Inghilterra e le Due
Sicilie. Fu in quel frangente che i
britannici
decisero
di
aspettare
l'occasione propizia per spodestare i
Borbone dal trono di Napoli, occasione
che prenderà forma concreta nella
Spedizione dei Mille guidata da
Garibaldi, ben noto negli ambienti
massonici inglesi e persona gradita al
Governo britannico.
Infine vi era il piccolo Regno di
Sardegna
guidato
dai
Savoia,
desideroso di realizzare il sogno di
sempre:
estendere
i
propri
possedimenti a tutto il Nord Italia. Un
Sovrano ambizioso e un Primo ministro
capace di tessere rapporti internazionali
impensati per uno Stato irrilevante sul
piano internazionale, come era il
Piemonte di allora, costituirono –
assieme a tutta una serie di circostanze
dovute alla contingenza storica e ad un
clima romantico e ideologicamente
fertile – la miscela giusta che porterà
all'unificazione
della
Penisola.
Un
processo che coinvolgerà le elite ma
non il popolo, se non come attore
passivo in una serie di plebisciti
palesemente artefatti.
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
CAVOUR
E IL
REGNO
Il progetto di Cavour era chiaro e
definito: suddividere
amministrativamente il Regno in tre
macroregioni, indicativamente
rappresentabili come Nord (con la
Sardegna), Centro e Sud.
Ma partiamo dall’inizio. Nel 1846
quando era ancora sindaco di Grinzane
e nascente imprenditore agricolo,
scrisse un saggio sulle ferrovie (Des
chemins de fer en Italie). Fin qui tutto
potrebbe
sembrare
stranamente
normale. Senonché argomentò che le
ferrovie erano un importante strumento
di modernizzazione, ed ipotizzava che
avrebbero dato al territorio fra Torino e
Venezia quella connotazione moderna
ed industriale che era già scandita dalla
vocazione europeista della Valle del Po.
Immaginava,
quindi,
un’unità
geopolitica forte per il Nord Italia.
In un secondo tempo, quando il
mandato di sindaco era un lontano
ricordo che aveva lasciato spazio a ruoli
ben più influenti, il 21 Luglio del 1858
Cavour si incontrò in gran segreto con
Napoleone III nella località termale di
Plombières-les-Bains (da cui il nome ai
celebri “Accordi”). La volontà comune
era di colpire l’Austria: Napoleone III la
voleva indebolire, Cavour allontanare
dal Lombardo-Veneto. Si discusse,
dunque,
anche
dell’eventuale
sistemazione geografica e politica una
volta cacciati dalla penisola. Si prese
spunto dall’idea di confederazione, sulla
falsa
riga
della
Confederazione
Germanica,
alla
cui
guida
(espressamente simbolica) ci sarebbe
stato il Papa. Si prefigurarono, così, tre
macroregioni, più la città di Roma,
decretate in tal maniera:
- La Pianura Padana fino all’alveo del
fiume Isonzo, la Sardegna e la Romagna
pontificia, sotto la guida di Vittorio
Emanuele II, avrebbero costituito il
DEL
NORD
DI
FABIO MOLINARI
Regno del Nord
- I territori pontifici (ad esclusione di
Roma) sarebbero stati controllati dal
Granducato di Toscana, formando un
Regno dell’Italia centrale. Nel caso in
cui Leopoldo II, di origini viennesi,
reggente del Granducato, per la paura
di finire in una morsa anti-austriaca,
fosse fuggito al di là delle Alpi, avrebbe
preso il comando del Regno centrale
una certa Luisa Maria dei Borbone,
duchessa di Parma, molto gradita al
sovrano parigino.
- Il Regno delle Due Sicilie come era
già allora, governato da Ferdinando II.
Qualora
anch’egli
fosse
fuggito,
Napoleone III vedeva di buon occhio la
salita di Luciano Murat (figlio di
Gioacchino).
- La città di Roma, sede del Papa.
Un progetto “sostenibile” perché
avrebbe attutito l’impatto che le
popolazioni invece ebbero con lo stato
centralista.
Un
progetto,
inoltre,
“perspicace”, perché avrebbe stimolato
maggiormente
l’economia,
allontanando lo spettro che secondo
Cavour, cresciuto con ideali liberali e
liberisti, poteva essere rappresentato
dall’eccessiva intromissione dello stato
in materia economica. Un progetto
chiaro, dicevamo; fu talmente chiaro,
quanto inapplicato. E la causa di ciò
non fu imputabile direttamente allo
statista torinese, quanto invece alla sua
morte. Una crisi malarica, infatti, lo
colse verso la fine di maggio del 1861,
non lasciandogli scampo.
Il bolognese Minghetti, nominato
all’inizio della legislatura Ministro degli
Interni del regno e poi suggerito come
naturale successore, aveva il compito di
portare a compimento tale progetto.
Purtroppo, però, venne messo in
minoranza da coloro che prediligevano
uno stato unito e centralista, che fecero
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
PP R f i - F F 9 1 - PR f i
una coalizione trasversale sostenendo
la candidatura di Bettino Ricasoli.
Quest’ultimo, riconoscente verso i suoi
“elettori”, scelse di ritirare il progetto
federativo. Era il 1865 quando si
decretò con una legge che gli
ordinamenti del Regno di Piemonte
venissero estesi a tutto il paese.
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
GARIBALDI
E I
MILLE:
L’impresa dei Mille, che fu guidata da
Giuseppe Garibaldi, viene dipinta da
sempre come l’episodio più importante
del Risorgimento, il fatto storico che ha
condotto, in ultima istanza, alla
creazione dell’unità nazionale e alla
proclamazione, il 17 marzo del 1861,
del Regno d’Italia.
La storia ufficiale, quella che è
possibile leggere anche in molti
sussidiari della scuola dell’obbligo, ci ha
tramandato un’immagine romantica ed
eroica dell’avvenimento, raccontando a
generazioni di italiani le gesta dell’eroe
dei due mondi e delle sue mille camicie
rosse che, da sole e accolte a furor di
popolo, avrebbero liberato il Meridione
d’Italia dall’oppressivo giogo della
retrograda e reazionaria monarchia
borbonica.
In realtà le cose non andarono proprio
così. La narrazione tradizionale si è
sempre contraddistinta per una serie di
omissioni e falsificazioni finalizzate alla
costruzione del mito fondativo della
nazione, elemento indispensabile per
creare, a posteriori, una qualche forma
di sentimento nazionale. Nonostante
ciò, e malgrado l’impegno delle classi
dirigenti di tutte le epoche – da quella
liberale passando per quella fascista e
continuando in età repubblicana – il
sentimento patriottico in l'Italia ha
sempre trovato parecchie difficoltà ad
assumere forma concreta.
Nella descrizione a seguire cercheremo
di
ripercorrere,
seppur
con
l’approssimazione imposta dalla brevità
del testo, le tappe salienti dell’impresa
dei Mille, lasciando poi al lettore le
conclusioni finali sulla sua reale natura.
Per
prima
cosa
è
necessario
considerare i principali attori in campo,
protagonisti, più o meno manifesti, di
quella che potrebbe tranquillamente
essere definita come una delle più
LA GRANDE RECITA
DI
MATTEO LAZZARO
grandi recite che la storia moderna
abbia conosciuto.
In tutta la vicenda la posizione del
Regno di Sardegna, e quindi del Conte
Camillo Benso di Cavour e Vittorio
Emanuele
II,
è
certamente
preponderante. Lo Stato piemontese,
forte delle recenti vittorie conseguite ai
danni dell'impero austriaco grazie
all’aiuto
di
Napoleone
III
e
dell’annessione, oltre che dell’area
lombarda anche di gran parte del
centro-Italia,
era
desideroso
di
estendere i propri possedimenti anche
alla zona meridionale della Penisola. Il
problema,
a
quel
punto,
era
rappresentato dalla ricerca di un
pretesto valido. Occorreva trovare una
casus belli per invade il Regno delle
Due
Sicilie,
cercando
contemporaneamente
di
fare
attenzione a non compromettere la
propria
precaria
posizione
internazionale,
in
particolare
nei
riguardi della Francia che iniziava a
temere le mire espansionistiche dei
Savoia. Si decise quindi di agire di
nascosto,
arrivando
infine
alla
conclusione che per ottenere il controllo
del Mezzogiorno, e allo stesso tempo
salvare la faccia, era necessaria una
sollevazione spontanea del popolo. Solo
a quel punto l’esercito piemontese
avrebbe potuto intervenire e, con la
scusa di ripristinare l’ordine, prendere il
controllo
dello
Stato
duosiciliano.
L’anello debole del Regno dei Borbone
era rappresentato certamente dalla
Sicilia, le cui pulsioni indipendentiste si
erano apertamente manifestate nei
moti di Palermo del 1848. Occorreva
quindi l'intervento di un fattore esterno,
qualcuno che potesse essere in grado di
far sollevare il popolo contro il proprio
sovrano. Giuseppe Garibaldi, la cui
fama era già ampiamente diffusa,
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
rappresentava la persona più adatta
allo scopo.
L’altro attore su cui vale la pena
soffermarsi è l’Inghilterra. In questo
caso i protagonisti sono il Primo
ministro Henry John Temple, visconte di
Palmerston e Lord William Gladstone,
politico inglese e membro di spicco
della massoneria. Questi signori si
adoperarono in maniera tutt’altro che
marginale per fare in modo che la
spedizione dei Mille andasse a buon
fine. Gli interessi dell’Inghilterra e della
massoneria
internazionale,
di
cui
entrambi i due signori sopraccitati
erano illustri esponenti, erano chiari: da
una parte detronizzare i Borbone,
impossessandosi del mercato dello zolfo
e facendogli pagare a caro prezzo il
contenzioso avvenuto solo pochi anni
prima, dall’altra – per quanto concerne
la massoneria – arrivare a colpire il
nemico giurato di sempre: la Chiesa
cattolica,
accerchiandola
territorialmente e, se fosse stato
possibile, facendo arrivare Garibaldi
(anch’esso massone) fino a Roma.
La massoneria di Edimburgo in
particolare si diede da fare con grande
efficienza nella raccolta dei fondi: con
un’operazione che coinvolgeva anche i
coloni del New England,
riuscì a
raccogliere una cifra superiore ai tre
milioni di franchi francesi, convertiti
successivamente in un milione di
piastre
turche,
le
monete
maggiormente
utilizzate
nelle
transazioni
commerciali
nel
Mediterraneo di allora.
Oltre a questi il governo piemontese
riuscì a racimolare una cifra di due
milioni di franchi d’oro, in aggiunta ad
un fondo di novantamila lire affidate ad
Agostino Bertani, garibaldino, che da
Genova avrebbe gestito i soldi destinati
alla “buona riuscita della missione”.
Tradotto: quel denaro sarebbe servito al
generale
nizzardo
(ma
anche
all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano e
ad alti ufficiali della marina inglese) per
la meticolosa e sistematica opera di
corruzione degli ufficiali borbonici che,
ben farciti di pecunia e forti della
promessa di essere ricollocati con
medesimo grado nel nuovo esercito
unitario, avrebbero permesso a mille
volontari male in armi di “sconfiggere”
un esercito addestrato e bene armato di
oltre 90.000 uomini.
Il 5 maggio del 1860 i Mille si
imbarcarono a Quarto per iniziare la
loro discesa via mare verso la Sicilia. Il
giorno della partenza venne simulato il
sequestro di due piroscafi, il Lombardo
e il Piemonte, in realtà regolarmente
acquistati per conto di Cavour e Vittorio
Emanuele II dall'armatore Raffaele
Rubattino. La compagnia che salpò
dalla
Liguria
era
variopinta
ed
eterogenea:
c'erano
intellettuali,
idealisti, persone appartenenti a ceti
sociali medio-alti, e non mancavano
anche delinquenti
e impostori che
fuggivano da qualcosa o da qualcuno;
quello che è certo però è che operai,
contadini e braccianti – che in quegli
anni
costituivano
la
stragrande
maggioranza della popolazione – erano
pochissimi. Garibaldi nelle sue memorie
li definirà in questi termini: “Belli! Eran
belli quei miei giovani veterani della
libertà italiana.” Ciononostante lo
stesso Garibaldi, in un suo discorso
durante la seduta del Parlamento di
Torino del 5 dicembre 1861, ne tracciò
una descrizione decisamente differente:
“Tutti generalmente di origine pessima
e per lo più ladra, e tranne poche
eccezioni, con radici genealogiche nel
letamaio della violenza e del delitto.”
La partenza riservò a quella singolare
spedizione qualche imprevisto: i motori
del Lombardo non ne volevano sapere
di partire e così fu trascinato a
rimorchio dal Piemonte.
Anche sul viaggio che i due vapori
dovettero affrontare per arrivare in
Sicilia c'è sempre stato un certo
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
silenzio. Pochi sanno di un certo
malumore che correva fra la ciurma del
Lombardo, energicamente stroncato da
Nino Bixio, braccio destro del generale
di Nizza e, naturalmente, influente
membro della loggia massonica Trionfo
ligure. Altro “dettaglio” non poco
irrilevante sta nella tranquillità con cui i
Mille arrivarono a Marsala. E non fu una
cosa normale perché, ed è bene
specificarlo, il Regno delle Due Sicilie
disponeva di una delle flotte più
numerose
e
meglio
equipaggiate
dell'intero Mediterraneo. Come è stato
possibile quindi, per due piroscafi
piuttosto
sgangherati,
sfuggire
ai
pattugliamenti
delle
corvette
borboniche per un tratto di mare così
lungo? La storia delle scuole italiane
anche su questo non si fa troppe
domande e tace.
Naturalmente la spiegazione sta, come
di consueto, nell'azione coordinata dei
protettori occulti dell'impresa. Da un
lato infatti c'era l'ammiraglio Persano
della flotta piemontese, che ricevette
nel medesimo giorno due lettere di
Cavour: la prima, quella ufficiale,
conteneva l'ordine di fermare Garibaldi;
la seconda, segreta, forniva indicazioni
diametralmente
opposte,
ovvero
chiedeva al comandante di navigare fra
i barconi dei garibaldini e gli incrociatori
napoletani per evitare che questi
venissero affondati. Dall'alta parte
invece c'era l'utile sostegno del
Contrammiraglio Mundy, della marina
inglese, che inviò due navi da guerra,
l'Intrepid e l'Argus nel porto di Marsala,
per scortare e fornire protezione a
Garibaldi e ai suoi uomini durante le
operazioni di sbarco. Sbarcare i
garibaldini proprio a Marsala non fu una
causalità e nemmeno una scelta dovuta
a qualche tatticismo bellico. La città era
– di fatto – una colonia inglese e
praticamente tutti quelli che erano al
corrente del complotto sapevano che
dovevano farsi trovare pronti. Ufficiali
napoletani precedentemente corrotti
compresi.
Quattro giorni dopo lo sbarco, il 15
maggio del 1860, si svolse a Pianto
Romano quella che passerà alla storia
come la battaglia di Calatafimi, che
rappresenta il primo scontro fra le
camicie rosse e le truppe borboniche,
comandate in quell'occasione dal
generale ultrasettantenne Francesco
Landi. In realtà però non avvenne
nessuno scontro degno di questo nome
in quanto l'alto ufficiale duosiciliano,
nonostante la sovverchiante superiorità
numerica decise ad un certo punto –
dopo una blanda guerriglia – di suonare
la ritirata. Pare che il prezzo per il
tradimento di Landi ammontasse a 14
mila ducati d'oro, che il generale cercò
di riscuotere a guerra terminata.
Quando però scoprì che il titolo di
pagamento era falso, proprio davanti al
funzionario di banca che glie ne dava
notizia, venne colto da un ictus che nel
giro di un anno l'avrebbe ucciso. Ciò
che è importante evidenziare è che
questa prima “battaglia” permise
l'entrata in scena di nuovi soggetti. In
primo luogo i baroni, dietro i quali si
celava la massoneria locale, e che si
erano ormai persuasi che il copione era
già stato scritto. Poi c'erano i contadini,
ammaliati dalle promesse di Garibaldi
su
una futura redistribuzione delle
terre. E infine la mafia, sempre
combattuta dai Borbone, e che vedeva
nei nuovi arrivati un buon pretesto per
sbarazzarsene. I picciotti, fornirono
nuove forze alle truppe di Garibaldi e gli
spianarono la strada, paese per paese,
verso Palermo. Nei giorni precedenti lo
scontro e lo sbarco gli esponenti più
importanti della mala siciliana erano
stati contattati da Giovanni Corrao,
mafioso
e
contemporaneamente
patriota e proprio lui convinse i capi
locali che era giunta l'ora di dare una
spallata
al
vecchio
regime
per
abbracciare la causa di quello nuovo,
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
con un centro di potere (Torino) più
lontano a cui sarebbe stato più
complicato controllare il territorio.
Successivamente si mossero a migliaia
da oltre 30 paesi della provincia di
Palermo per unirsi alla marcia dei
garibaldini e preparare la loro avanzata:
mano a mano che Garibaldi proseguiva
veniva accolto da folle festanti che lo
accoglievano come un liberatore, gli
preparavano banchetti, ma soprattutto
gli aprivano le casse dei municipi.
Un’euforia
che
presto
però
si
trasformerà in rabbia, come provato dai
fatti di Bronte.
Nella difesa di Palermo i borbonici non
diedero una prova migliore rispetto a
quanto dimostrato durante la battaglia
di Calatafimi. Il generale Ferdinando
Lanza, al comando di 18 mila uomini
avrebbe potuto facilmente ricacciare
l'invasore; ai Mille si erano aggiunti altri
2200 volontari, fra picciotti e contadini
raccolti strada facendo,
una cifra
nettamente inferiore rispetto all'esercito
comandato dal generale napoletano. La
situazione a Palermo era stata resa
difficoltosa dallo scoppio di una rivolta,
fomentata dai mafiosi che si presero la
briga di aprire le porte delle carceri
della Vicaria permettendo ad oltre 2
mila tagliagole di mettere a ferro e
fuoco la città. Furono tre giorni di
disordini in cui, anche stavolta gli
ufficiali borbonici non brillarono per
efficienza,
salvo
poche
eccezioni.
Mentre infatti i generali Colonna e Sury
stavano iniziando il contrattacco e si
apprestavano a spezzare le fila delle
camicie rosse, accadde qualcosa di
incredibile: con un ordine il generale
Lanza aveva intimato ai suoi ufficiali la
ritirata. Era appena stata firmata la
resa.
In effetti pare che Ferdinando Lanza
fece tutto il possibile per agevolare la
vittoria del proprio nemico: non impiegò
tutte le sue forze, diede ordine di
bombardare i quartieri popolari di
Palermo e questo ebbe come unica
conseguenza di guadagnare il popolo
alla causa di Garibaldi e infine – come
se non bastasse – fra le concessioni
contenute
nella
tregua,
vi
era
l'occupazione del Banco delle Due
Sicilie,
da
cui
Garibaldi
farà
subitaneamente prelevare 1 milione di
ducati d'oro, quantificabili in circa 230
milioni degli odierni euro. Infine vanno
notate le pressioni fatte da Lanza,
prima dello sbarco dei Mille, per
l'assunzione al telegrafo di Napoli di
tale Bozza, piemontese, che aveva il
compito di ritardare la consegna delle
missive dal fronte, omettere passaggi
delle comunicazioni e probabilmente, in
qualche caso, anche di ribaltarne
completamente il senso. Con la presa di
Palermo, con la vittoria di Milazzo e con
l’inspiegabile ritirata di 18 mila soldati
borbonici
da
Messina,
Garibaldi
controllava l'isola e si proclamò
dittatore della Sicilia; adesso era pronto
per lo sbarco verso il continente.
Quando l'eco delle vittorie di Garibaldi
arrivò a Napoli la situazione iniziò a
sfuggire di mano e il panico e la
confusione la fecero da padroni. Il
sovrano, Francesco II di Borbone, che
non aveva certamente il polso del
padre Ferdinando, non riusciva a
prendere decisioni chiare sul da farsi e
preferiva, da fervente credente quale
era, affidarsi a Dio. Oltre a ciò la
presenza di una corte pullulante di
traditori, doppiogiochisti, di vili e di
incapaci e non ha certamente aiutato
un sovrano giovane e inesperto in una
situazione che iniziava a divenire
critica. Contemporaneamente le notizie
che giungevano dalla Sicilia avevano
galvanizzato i liberali napoletani e
iniziarono a verificarsi i primi tumulti
nelle piazze. A questo punto Francesco,
su pressione del Pontefice, emanò una
nuova costituzione che però non venne
accolta dai napoletani con grande
entusiasmo e quindi non sortì gli effetti
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
desiderati. Intimorito dal perdurare
delle rivolte il re decise di proclamare lo
stato d'assedio e di nominare come
prefetto e ministro della polizia don
Liborio Romano. Questo pugliese astuto
e spregiudicato non ci mise molto a
rendersi conto che le forze di polizia
non bastavano per prendere in mano la
situazione; decise quindi di rivolgersi
all'unica organizzazione in grado di
mantenere l'ordine in città: la camorra.
Mastro Tredici, Torè Crescenzo e altri
importanti nomi della malavita locale
furono nominati a capo della milizia
cittadina e, nonostante le violenze
arbitrarie e le angherie perpetrare ai
danni
dei
civili,
riuscirono
effettivamente a sedare le rivolte
permettendo alla città partenopea di
non cadere nell'anarchia.
Sul piano internazionale, l'Austria
accusava il Piemonte di essere il
principale
mandante
di
Garibaldi
mentre Napoleone III, sempre più
preoccupato degli avvenimenti che si
stavano verificando e convinto che la
conquista della Sicilia facesse parte del
disegno inglese di costruire una “Malta
più grande”, fece pressione su Cavour
perché fermasse l'avanzata di Garibaldi.
Dal canto suo il Primo ministro
piemontese non desiderava affatto che
il generale nizzardo riuscisse ad arrivare
a Napoli. Il suo progetto non era
cambiato rispetto al passato e temeva
che Garibaldi, una volta conquistato
tutto il Regno delle Due Sicilie, potesse
proclamare la repubblica. Decise quindi
che la cosa migliore da fare era
fomentare una ribellione “spontanea”
fra la popolazione napoletana prima
dell'arrivo dei garibaldini, in modo tale
da permettere la creazione di un
governo di moderati manovrato a
distanza da Torino. Per fare ciò diede
attente
disposizioni
all'ammiraglio
Persano, ordinandogli di attraccare a
Napoli e di fare opera di corruzione
degli ufficiali duosiciliani e spianare la
strada al suo progetto. Nel contempo il
Conte
piemontese,
sollecitato
da
Napoleone III, fece pressione su Vittorio
Emanuele II perché ordinasse a
Garibaldi di fermarsi. Venne quindi
inviata una lettera ufficiale in cui il Re di
Sardegna chiedeva al generale di non
sbarcare sul continente e conservare la
posizione in Sicilia. A questo punto ci fu
un altro colpo di scena: Garibaldi, con
grande sorpresa di Cavour, decise di
disobbedire agli ordini del sovrano e di
continuare la sua impresa. Quello che il
Primo ministro piemontese non sapeva
però era che assieme alla lettera
ufficiale in cui il Re chiedeva al generale
di arrestare l'avanzata, ne era stata
recapitata un altra – segreta – dove
invece lo esortava a proseguire con le
proprie truppe alla volta di Napoli.
Vittorio Emanuele aveva stavolta deciso
di disattendere le indicazioni del
“grande tessitore” per perseguire il suo
personalissimo disegno di conquista.
L'avanzata di Garibaldi dalla Calabria
non incontrò resistenze di rilievo, i
generali napoletani ordinavano la
ritirata e questo provocò non pochi
incidenti
nelle
file
dell'esercito
borbonico. La truppa e gli ufficiali più
giovani, fedeli alla corona, iniziarono a
contestare pesantemente i propri
comandanti, e in qualche caso non
esitarono a passarli sotto il ferro delle
armi. Un esempio fra i tanti è quello
della sorte che spettò al generale Fileno
Briganti che venne aggredito dai suoi
stessi uomini che gli rimproverarono di
essersi arreso senza combattere: venne
ammazzato a fucilate e ne straziarono il
cadavere.
Intanto a Napoli la situazione era
nuovamente sfuggita di mano, anche a
causa
della
presenza
di
3000
bersaglieri al comando di Persano
stazionati
nel
porto.
In
questa
confusione era Liborio Romano, grazie
alla camorra, a detenere il controllo
effettivo della città. Francesco II, dopo
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
tanti tentennamenti prese la decisione
di assumere direttamente il controllo
dell'esercito (gli restavano ancora
diverse decine di migliaia di uomini
fedeli) e di lasciare Napoli per trasferirsi
a Gaeta e costruire una linea difensiva
tra le fortezze di Gaeta e di Capua e fra
i fiumi Volturno e Garigliano. Dopo
appena due ore dopo la partenza del
monarca, Romano (che formalmente
era ancora un ministro dei Borbone)
telegrafava a Garibaldi: “con maggior
impazienza Napoli attende il vostro
arrivo per salutare il redentore d'Italia e
mettere nelle vostre mani i poteri dello
Stato e i propri destini.”
L'ingresso di Garibaldi in città, il 7
settembre,
segnò
l'inizio
di
un'amministrazione provvisoria con lo
stesso Liborio Romano, ora nella veste
di ministro garibaldino, ad occuparsi
dell'ordine
pubblico;
nuovamente
saranno i suoi buoni uffici con Toré De
Crescenzo a permettere alla camorra di
occuparsi della “sicurezza cittadina”,
nell'attesa che Bixio arrivasse con il
grosso delle camice rosse; in questo
frangente i regolamenti di conti fra
camorristi e funzionari di polizia
divennero quotidiani. L'amministrazione
provvisoria di Garibaldi fu discutibile
anche per quanto riguardava la
gestione delle risorse economiche dello
Stato. Il giorno stesso del suo ingresso
in città – con decreto firmato da se
stesso – si attribuì pieni poteri sui
depositi del Banco delle Due Sicilie. Al
momento della conquista, le casse del
Regno di Napoli erano quelle con la
maggiore quantità di denaro liquido fra
tutti gli Stati della Penisola: si parla di
circa 33 milioni di ducati, quantificabili
in 750 miliardi di odierni euro che nel
giro di pochi mesi sparirono nel nulla,
dilapidati da una gestione decisamente
scriteriata
del
denaro
altrui.
L'ambasciatore inglese a Napoli, Sir
Elliot, in un rapporto al suo governo,
parlava della gestione garibaldina in
questi termini: “ le condizioni del Paese
sono le peggiori immaginabili. Tutti i
vecchi soprusi continuano, a volte
esagerati dai nuovi funzionari, i quali
gettano in carcere la gente o la fanno
fustigare per il minimo sospetto, per il
più lieve indizio di cattiva condotta
politica, mentre i vari crimini rimangono
affatto impuniti (…) esiste una spiccata
inclinazione ad accaparrarsi le proprietà
altrui.”
Nel frattempo l'esercito sabaudo varcò
i
confini
dello
Stato
Pontificio,
naturalmente – come da prassi – senza
una formale dichiarazione di guerra, e
si apprestava a raggiungere il Regno
delle Due Sicilie passando da terra. Alla
vigilia della battaglia “finale”, il 30
settembre del 1860 le forze in campo
sul Volturno erano a favore dei
napoletani: da un lato 28 mila soldati e
dall'altro 23 mila garibaldini, su
posizioni
svantaggiate
rispetto
al
nemico. I borbonici erano assediati: a
sud c'erano i volontari in camicia rossa
del generale nizzardo, a nord si stava
avvicinando
velocemente
Vittorio
Emanuele II alla guida del suo esercito.
In effetti la battaglia fu molto dura, e
l'esito rimase incerto fino alla fine;
Francesco II dal canto suo dimostrò
molto più coraggio di quanto non si
potesse immaginare ma, dopo 12 ore e
grazie ai rinforzi giunti da Napoli, la
vittoria fu dell'esercito di Garibaldi. Si
trattò dell'ultima battaglia effettiva del
generale nell'ambito della spedizione
dei Mille; dell'assedio alla fortezza di
Gaeta, che durò per un centinaio di
giorni, fino al febbraio dell'anno
successivo, si occuparono direttamente
le truppe piemontesi.
La consegna diretta dei territori
“conquistati” da Garibaldi a Vittorio
Emanuele avvenne infine la mattina del
26 ottobre, in una cittadina vicina a
Casera, Teano. Questa fu la data che
segnò la fine ufficiale del Regno delle
Due Sicilie. Quello che seguì dopo
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
saranno un susseguirsi di rivolte locali
che getteranno il Meridione d'Italia nel
caos e che diedero vita al fenomeno
noto impropriamente con il nome di
“brigantaggio”. Si trattava in realtà di
una vera e propria guerra di secessione
combattuta da ex militari borbonici e da
larga parte del popolo per acquistare
indipendenza
dal
nuovo
padrone,
rivelatosi, in ultima istanza, peggiore
del primo, perché più oppressivo e
maggiormente crudele. Per sedare le
rivolte continue vennero inviati oltre
100 mila soldati piemontesi in pianta
stabile, che per oltre un decennio
utilizzeranno violenza inaudita con
esecuzioni sommarie e saccheggi nel
tentativo di ripristinare l'ordine nel
Mezzogiorno. Un modo decisamente
insolito di trattare i propri “fratelli
italiani”.
Molti dei militari napoletani che
decidettero di non indossare l'uniforme
italiana alla fine del conflitto furono
deportati in campi di prigionia in
Lombardia e in Piemonte. Alla fine del
1861 si calcolava la presenza di circa 32
mila prigionieri in condizioni disumane,
dislocati fra le fortezze di Alessandria,
Milano, Bergamo e nelle prigioni di
Fenestrelle e di San Maurizio Canavese.
Per chi non si era schierato con i Savoia
la punizione doveva essere esemplare;
non c'era alcuna pietà, ne rispetto, per
chi non collaborava e non abbracciava
la causa dei nuovi padroni. Si trattò del
lato più oscuro e vergognoso del
Risorgimento, quello di cui è meglio non
parlare e quello su cui – in effetti – si è
sempre taciuto.
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
1866:
IL
PLEBISCITO TRUFFA
Quante volte a scuola ci hanno
indottrinato dicendoci che il plebiscito
del 1866 in Veneto si svolse tra grandi
festeggiamenti e in un clima di festa?
Fu davvero così? La Serenissima
Repubblica era stata indipendente per
più di un millennio e si accingeva a
passare sotto il dominio italiano, i cui
eserciti erano stati battuti "per terra",
ma soprattutto "per mare", al grido di
"Viva San Marco". Davvero il Popolo
Veneto
desiderava
sottomettersi
"festosamente" al conquistatore che
aveva sconfitto? E perché nonostante la
sconfitta su tutti i fronti, l'Italia ottenne
comunque il Veneto?
A partire dal 1861, dopo la II guerra
d'indipendenza, l'Italia, ancora priva del
Veneto, aveva iniziato a progettare la
conquista delle Venezie per completare
la tanto agognata unità. L'occasione
d'oro intervenne nel 1865 quando la
Prussia contattò l'Italia per condurre
una guerra parallela contro l'Austria.
Spinta dalle pressioni della Francia,
l'Italia concluse le trattative e stipulò
un'alleanza militare. La Prussia assicurò
che, in caso di vittoria, avrebbe
ottenuto il Veneto, ma non il Trentino,
salvo che riuscisse a conquistarselo.
Preoccupato dal reale pericolo di un
nostro possibile, quanto probabile,
voltafaccia, che sarebbe stato il primo
di una lunga serie, Bismarck prese
l'iniziativa: il 12 giugno 1866 ruppe le
relazioni diplomatiche con l'Impero
Austriaco e il 16 giugno diede inizio alle
manovre militari. Nonostante varie
richieste di intervento da parte del capo
del governo prussiano, diversamente da
quanto previsto nel trattato, l'Italia
dichiarò guerra con 4 giorni di ritardo.
Come se non bastasse, l'inizio delle
operazioni militari subì altri 3 giorni di
ritardo, in quanto era sorta una disputa
tra i generali La Marmora e Cialdini, alla
IN
VENETO
DI
FILIPPPO FRIGERIO
testa rispettivamente di 12 e 8 divisioni
dell'esercito italiano, circa l'attribuzione
del comando dell'intera operazione. Il
piano d'attacco era stato scritto
all'ultimo momento e conteneva una
serie di errori strategici che ebbero
effetti tragici.
Le divisioni italiane al comando di La
Marmora, dopo una breve avanzata in
territorio Veneto, furono fermate dagli
austriaci e, nella piana di Custoza
ricevettero una sconfitta colossale. Gli
austriaci, inferiori per numero e dopo
aver subito perdite doppie rispetto a
quelle degli italiani, rimasero fermi ai
loro posti, mentre gli italiani fuggirono
oltrepassando il Mincio in una ritirata
disordinata. Nel frattempo i prussiani
stavano ottenendo schiaccianti successi
e i soldati austriaci impegnati nella
Pianura Padana, ricevettero l'ordine di
tornare in Patria per difendere Vienna.
Tutto questo mentre Garibaldi, con le
sue truppe mal equipaggiate, era
riuscito a penetrare in Trentino e
arrivare, senza tante preoccupazioni,
alla vista delle mura della città di
Trento.
Non andò meglio per mare il 20 Luglio
1866 dove, a Lissa, la Regia Marina
Militare, notevolmente superiore in
quanto a numero e qualità delle navi,
venne sconfitta dalla Marina AustroVeneta, comandata da Tegetthoff il
quale, nonostante fosse austriaco,
impartì gli ordini ai marinai in Lingua
Veneta. Dopo l'affondamento della Re
d'Italia, si levò un grido: "Viva San
Marco!". La cocente disfatta fu dovuta
alla scarsa considerazione nutrita
dall'ammiraglio Persano nei confronti
dei suoi subalterni; questa sfiducia era
adeguatamente ricambiata da questi
ultimi.
Senza più un avversario contro cui
combattere, Cialdini stava intanto
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
penetrando nel Veneto e arrivò presto
fino all'Isonzo, dove ricevette un
telegramma che gli intimava di
fermarsi, in quanto la Prussia aveva
concluso un armistizio separato con
l'Austria.
Il trattato di pace, stipulato a Vienna il
3 Ottobre 1866, prevedeva, come da
richiesta
dello
sconfitto
Impero
Austriaco, che il Veneto non passasse
direttamente nelle mani del Regno
d'Italia,
ma
dovessero
essere
preventivamente
consultate
le
popolazioni
locali
mediante
un
plebiscito. Nel frattempo il Veneto
sarebbe stato ceduto alla Francia.
Benché il plebiscito fosse previsto il 2122 Ottobre 1866, 2 giorni prima, il 19
Ottobre,
nell'Hotel
Europa
sul
Canal Grande
di
Venezia,
come riportano
le fonti e anche
molti
giornali
dell'epoca,
la
Francia,
per
mano
del
Generale
Le
Bouef,
consegnò
il
Veneto nelle mani del Commissario
Regio. La cessione ufficiale del Veneto
avvenne 2 giorni prima del plebiscito e
la Francia rifiutò il suo ruolo di garante
internazionale.
Le operazioni di voto si svolsero in un
modo che, definire da regime totalitario,
farebbe impallidire sia l'Italia fascista
che il Terzo Reich nazista. La regione
era occupata, nel vero senso del
termine, da truppe italiane, che, in quel
contesto, erano truppe straniere e
avrebbero
dovuto
vigilare
sulla
regolarità delle operazioni. Invece di
fare ciò, l'esercito si rese colpevole di
diverse ingerenze: le fonti riportano che
i militari fecero di tutto per assicurarsi
la più ampia collaborazione delle
autorità cittadine e del clero affinché il
popolo votasse compatto per l'unione al
"tanto sospirato Regno d'Italia".
Le elezioni si svolsero con il suffragio
universale maschile (si ricordi che la
maggiore età si acquisiva a 21 anni).
Ammesse a votare erano, quindi, circa
2.500.000 persone. La campagna
elettorale
fu
condotta
mediante
l'utilizzo di manifesti che intimidivano il
popolo facendo credere che il voto al SI
fosse un gesto di dimostrazione di
libertà mentre votare NO era da
vigliacchi. Il 15 luglio 1866 la "Gazzetta
di Firenze scriveva: "Supponiamo un
momento che i Veneti si pronunziassero
per regno separato. Potrebbe l'Italia
permettere
cotesta
diserzione?
O
non dovrebbe
invece ritenere
per forza d'armi
una
provincia
che
è
necessaria alla
politica
esistente della
nazione?".
La
"Gazzetta
di
Verona" del 17
Ottobre dice: "...SI vuol dire essere
italiano ed adempiere al voto dell'Italia.
NO, vuol dire restare veneto e
contraddire al voto dell'Italia". Alcune
persone
che
dichiaratamente
si
battevano per il NO, furono presto
mandate in esilio, salvo poi farle
rientrare dopo la "vittoria" del SI nel
plebiscito.
Le schede elettorali erano 2: in una vi
era un SI grande con scritto sotto:
"Dichiariamo la nostra unione al Regno
d'Italia sotto il governo monarchico
costituzionale del Re Vittorio Emanuele
II e de' suoi successori", mentre nella
scheda del NO vi era solo scritto NO.
Nel seggio elettorale vi erano due urne,
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
una per il SI e una per il NO, poste su un
tavolo. L'elettore entrava nel seggio,
pronunciava ad alta voce il suo nome e
consegnava la scheda nelle mani del
presidente che la depositava nell'urna.
C'erano due registri: in uno venivano
segnati i nomi dei votanti e nell'altro
venivano segnati i nomi di coloro che
votavano NO. Registri separati? Urne
separate? Che esempio di democrazia.
Tutto si svolgeva sotto il controllo vigile
di un carabiniere in alta uniforme e di
una foto gigante del Re Vittorio
Emanuele II. Con un clima intimidatorio
siffatto, non stupisce il risultato, a dir
poco, bulgaro: 641.758 SI, 69 NO, 243
NULLE; un simile risultato non si ricorda
nemmeno sotto i regimi totalitari più
feroci.
"Tutto si svolse con mirabile ordine e
fra universali manifestazioni di gioia",
affermò nel 1966 Achille Saitta. Basta
leggere le, seppur esigue, fonti
dell'epoca per capire che i Veneti
vissero il plebiscito non come una gioia,
ma come un'imposizione calata dall'alto
e di cui si disinteressarono totalmente,
riconoscendo che i giochi fossero già
fatti. A Valdagno, un paese in provincia
di Vicenza, alcune fonti riportano che
moltissimi contadini si rifiutarono di
andare a votare convinti che non
servisse sprecare il tempo perché i
risultati erano già decisi; preferirono
non perdere una giornata che si poteva
dedicare al lavoro nei campi. Infatti su
2.500.000 circa ammessi al voto è
significativo
notare
che
votò
effettivamente solo il 25,5% circa della
popolazione.
Nel 1903 lo storico Luigi Sutto di
Rovigo, incaricato di raccogliere i dati
per il Museo del Risorgimento, fece
notare che né i comuni né le prefetture
avevano, o dicevano di avere, le schede
del plebiscito. Dove sono finite le
schede? Secondo il trattato, i seggi
dovevano trasmetterle alle prefetture,
le quali poi avrebbero confermato
l'efficacia o meno della votazione.
Le "universali manifestazioni di gioia",
se anche ci fossero state, sarebbero
state presto dimenticate dal Popolo
Veneto oppresso dal regime fiscale
dello Stato Italiano, da una mole di
burocrazia e di forze dell'ordine
sconosciuta sotto le precedenti gestioni
francese e austriaca. Basti pensare che
le manifestazioni religiose, momento di
festa paesana e fulcro della vita
cittadina, furono annullate in quanto
potenzialmente pericolose per l'ordine
pubblico.
La coscrizione obbligatoria, ossia il
reclutamento nelle forze armate dei
giovani per un periodo di 6 anni,
introdotta dal Regno d'Italia ed estesa
anche al Veneto, privò le famiglie dei
giovani forti che contribuivano al lavoro
nei campi, causando un impoverimento
delle condizioni di vita, già duramente
inasprite dall'aspra tassazione. Ad
aggravare la situazione, nel 1869 il
Governo introdusse la tanto contestata
"tassa sul macinato", la quale doveva
essere pagata direttamente al mugnaio.
Considerando che l'alimentazione delle
famiglie era soprattutto fatta dalla
polenta, la nuova imposta impoverì
notevolmente
e
ulteriormente
le
famiglie stremate e contribuì ad
accrescere la conflittualità sociale. Le
tensioni fecero scoppiare numerose
rivolte a Thiene, S. Germano, Vicenza,
Cavarzere, Cadore, Legnago, Polesine.
Di queste manifestazioni non si trova
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
traccia nella letteratura storica per le
scuole. Qualcuno ha forse paura della
verità?
Oppressi, sfruttati e spremuti fino
all'osso, i nostri avi Veneti non
trovarono altra alternativa se non quella
di emigrare lontano dalla neo-patria
che, secondo la storiografia ufficiale,
avevano così festeggiato fino al giorno
prima.
Nel
periodo
1876-1900,
contrariamente a quanto si pensa,
fuoriuscirono più emigranti dal Veneto
che da tutte le altre regioni. L'arrivo
degli italiani ebbe come diretta
conseguenza la partenza dei Veneti: in
totale ben 940.711 persone, una grossa
fetta della popolazione, cercarono
fortuna altrove tra USA, Brasile,
Argentina
e
via dicendo. In
Brasile
esistono
ancora adesso
dei paesi e
delle
città
fondate
dai
Veneti: Nova
Vicenza, Nova
Padova e Nova
Bassano;
in
queste
comunità
la
Lingua Veneta
è
ancora
correntemente
parlata.
L'astio del Popolo Veneto, nei confronti
del
conquistatore
oppressore,
lo
ritroviamo anche in alcune filastrocche
che vengono tramandate dalle fonti
(scarse) dell'epoca:
"Co san Marco comandava (quando
comandava San Marco)
se disnava e se senava (si faceva
pranzo e si cenava)
Soto Franza, brava gente (sotto la
Francia che era brava gente)
se disnava solamente (si cenava
solamente)
Soto Casa de Lorena (sotto la casa
Lorena)
non se disna e no se sena (niente
pranzo e niente cena)
Soto Casa de Savoia (mentre sotto
Casa Savoia)
de magnar te ga voja (di mangiar hai
solo voglia)."
Oppure un altro detto molto famoso,
riguardo alla grande mole di emigranti:
"Savoja,
Savoja,
intanto
noaltri...andemo via... vaca troja..".
La storia vera, quella attinta dalle
fonti, dimostra che i libri scolastici sono
stati costruiti in modo da fornire una
ricostruzione
parziale
e
tesa
a
dimostrare che gli eventi si svolsero tra
la gioia e le acclamazioni popolari, ma
non fu così. Fortunatamente, la
storiografia italiana non è riuscita a
cancellare tutte le tracce di quella che
fu, a tutti gli effetti, una guerra di
conquista
di
un
territorio
utile
economicamente e prestigioso. Lo
scotto di quel periodo lo paghiamo
ancora oggi: siamo costretti a lavorare
e a vedere i frutti delle tante fatiche
sottratti al nostro Popolo per mantenere
chi è stato abituato a pretendere e
ricevere soltanto.
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
CHI
DOMANDE & RISPOSTE
SI CELAVA DIETRO L'IMPRESA GARIBALDINA?
Lo stesso Giuseppe Garibaldi – come conferma
l’avvocato Gustavo Raffi, odierno Gran Maestro
del
Grande
Oriente
d’Italia
–
fu
un’importantissima colonna portante della
Massoneria preunitaria. Non ci appare dunque
difficile evidenziare i legami che la sua impresa
ebbe con gli ambienti massonici dell’epoca. Tali
collegamenti
non
si
fermarono
solo
“localmente” alle logge Siciliane e Calabresi,
ma andarono ben oltre: lo sbarco e la relativa
conquista
del
Regno
Borbonico
furono
supervisionati, e coadiuvati dall’impegno della
stessa Inghilterra. A largo di Marsala, nel 1860,
vi erano le navi “Intrepid” e “H.M.S. Argus”, che
battevano
bandiera
inglese.
Lo
stesso
Garibaldi, infatti, qualche mese prima della sua
spedizione incontrò in Gran Bretagna i
rappresentanti della massoneria inglese e li
persuase a
sostenere,
militarmente ed
economicamente, l’impresa. Possiamo leggere
ciò da alcuni documenti storici. Per esempio
uno, edito nel 1868 a Livorno con titolo “Roma,
Napoleone III e i ministeri italiani sguardo al
passato e all'avvenire”, racconta «Senza l'aiuto
di
Palmerston,
Napoli
sarebbe
ancora
Borbonica, senza I' Ammiraglio Mundy, non
avrei potuto giammai passare lo stretto di
Messina». Queste parole sono a firma dello
stesso “eroe dei due mondi”. Com’è possibile,
dunque, che un esercito organizzato e di
professionisti, come quello Borbonico, di ben
25000 uomini a disposizione solo per il fronte
garibaldino, abbia perso contro un contingente
di 1000 volontari? Ad esempio, fonti storiche ci
tramandano che il Generale Landi, uno dei capi
della milizia Borbonica in Sicilia, fu comprato
dagli inglesi con titoli di credito addirittura falsi.
Prima che ovviamente potesse scoprirlo, diede
ai suoi luogotenenti l’ordine di non combattere
l’invasione. Inoltre l’impresa fu finanziata con
una somma spaventosa di “piastre turche”
(equivalente a molti odierni milioni di euro),
con i quali il generale nizzardo poté corrompere
generali, alti funzionari e ministri borbonici.
Accadde dunque che il soldo sconfisse la
libertà di un popolo.
Cavour rese pubblico il suo disegno di un’Italia
divisa in tre autonome macroregioni (nord,
centro e sud) ben prima degli accordi di
Plombieres. Infatti nel 1846, quando era ancora
un emergente imprenditore agricolo e sindaco
di Grinzane, parlava di un Nord Italia, affacciato
sul Po, come una forte entità geopolitica dalla
vocazione europeista. Il territorio che andava
da Torino a Venezia doveva essere, secondo
Cavour, valorizzato (Cavour parla di una fitta
rette ferroviaria) andando ad estendersi pian
piano fino all’Emilia e alle Marche.
Fu però nel 1858 con gli Accordi di Plombieres
che questa idea prendeva forma “ufficiale”:
veniva lasciata a Napoleone III la possibilità di
esercitare direttamente la propria influenza sul
regno dell’Italia centrale (Stato Pontificio in
aggiunta al Granducato di Toscana) e sul regno
meridionale, affidato a Luciano Murat, lontano
cugino del sovrano francese. In cambio, Cavour
avrebbe ottenuto il lasciapassare per costituire
un regno del Nord, comprendente i territori
dello stato sabaudo, il lombardo-veneto,
l’Emilia e la Romagna. Per questo disegno,
Napoleone III avrebbe ottenuto dal conte
piemontese i territori di Nizza e la Savoia. Gli
scopi
dei
due
sottoscriventi
erano
diametralmente opposti: con il Nord, Cavour
contava di poter giungere ad avere il totale
controllo economico del mercato a sud delle
alpi, mentre Napoleone III pensava che
possedendo, più o meno direttamente, l’Italia
centro-meridionale, avrebbe esercitato una
fortissima influenza anche su Torino, andando,
de facto, a costituire nell’odierna Italia uno
stato satellite di Parigi. Tutto il progetto sfumò
quando – con rivolte di tipo insurrezionale a
cavallo della Seconda Guerra d’Indipendenza –
si palesò la indisponibilità di realtà come
Firenze a passare sotto il dominio francese.
Napoleone III capì la difficoltà di realizzare un
disegno in chiave francese (infatti la tradizione
parigina, centralista per antonomasia, era
incompatibile con la realtà italiana) desistette
e, complice l’alto costo in vite umane della
guerra, firmò l’armistizio di Villafranca. Prima
che ciò succedesse, come si può leggere in
maniera molto piacevole nel libro “Il Regno del
Nord” di A. Petacco, il progetto di Cavour, tanto
chiaro quanto perfetto nella sua essenza, si
modificò, memore delle insurrezioni e della
totale impossibilità di calare un progetto
totalmente dall’alto, cercando di spostare
l’asse interlocutorio da Parigi alle medesime
realtà locali. Nel 1859 Cavour strinse
segretissimi accordi, prima della fine della
Seconda Guerra d’Indipendenza, quando gli
accordi di Plombieres sembravano sfumati, con
il governo borbonico: il Regno di Sardegna
avrebbe inglobato il Lombardo-Veneto, l’Emilia
e la Toscana. Il Regno delle due Sicilie avrebbe
annesso l’Umbria e le Marche, tolte allo Stato
della Chiesa mentre Roma sarebbe diventata
capitale dell’Italia federale. Benché il piano
fosse pronto ed attuabile, mancava soltanto
l’approvazione di Francesco II di Borbone, re di
Napoli, che però, da devoto e timorato di Dio
qual era, quando fu informato che il suo Regno
si sarebbe arricchito delle due regioni pontificie
gridò al sacrilegio. E il piano andò in fumo. Quel
che gli accordi non riuscirono a fare, lasciò il
passo all’impresa dei Mille.
COSA
INTENDEVA
CAVOUR
PER ITALIA?
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
QUALE RUOLO HA
RISORGIMENTO?
AVUTO LA
MAFIA
NEL CORSO DEL
L’impresa Garibaldina fu in gran parte aiutata
dalla discesa sul campo di battaglia di
personaggi quali i “picciotti” in Sicilia e i
“lazzari” in Campania, delle sorte di “capi
bastone”, che guidavano delle masse inermi di
«cafoni», contadini assoggettati al potere
feudale, ai quali paradossalmente veniva
promessa una riforma agraria (dai generali
della spedizione) e soldi, protezione e lavoro
(dai loro sfruttatori). «Garibaldi in Sicilia, dopo
lo sbarco delle sue mille camicie rosse, si vide
venire incontro uomini con i mantelli neri, le
barbe e gli occhi neri, i fucili a due canne sulle
spalle. Erano uomini tristi, silenziosi, e astuti; in
ogni paese che Garibaldi conquistava, insieme
alle migliaia di contadini, braccianti, infelici,
che accorrevano a combattere per lui con le
falci e le roncole, egli si trovava accanto quegli
uomini tristi, con i mantelli neri ed il fucile a
due canne. Gli giuravano fedeltà per il nuovo
Stato italiano e gli chiedevano in cambio di
proteggere la loro proprietà dalla rivoluzione, le
loro case, i loro feudi» (G. Fava – Mafia 1982).
L’organizzazione sociale in tal senso si richiama
a quella della futura mafia. Questi «cafoni»
erano stati illusi che l’esito positivo della
spedizione avrebbe dato loro un’imponente
riforma agraria, che, oltre che abolire la tassa
sul macinato ed abbassare i canoni per le terre
demaniali, avrebbe ridistribuito equamente il
latifondo; praticamente un sogno per i poveri
braccianti. Man mano che però la conquista si
estendeva, fra le milizie volontarie arruolate
iniziarono a comparire criminali di ogni genere.
Lo stesso Garibaldi in una nota storica scrisse:
«Francesco Crispi arruola chiunque: ladri,
assassini e criminali di ogni sorta». Il 2 Giugno
del 1860, necessitando di una carica da parte
della popolazione intera che respingesse i
borbonici dall’isola, firmò un falso decreto che
assegnava le terre demaniali ai contadini. Ai
“capi bastone” diede invece “pacchetti” di
posti di lavoro nei futuri incarichi burocratici ed
istituzionali – promessi una volta cacciati i
borbonici – che loro prontamente avrebbero
distribuito ai loro subalterni. Fu questo il
periodo in cui la malavita siciliana (e quella
campana poi) iniziò a saldare forti legami con
le nascenti istituzioni. In molti credettero alla
promessa e si riversarono nelle strade in una
rivolta totale contro il regime borbonico che fu
respinto verso Milazzo. Garibaldi era sempre
più vicino all’Italia unita e i latifondisti-mafiosi
al controllo della popolazione, senza che
questa lo sapesse. Infatti una volta che i
garibaldini
occuparono
l’isola
con
il
fondamentale aiuto di questi “picciotti”,
Garibaldi si dimenticò delle promesse fatte ai
miseri «cafoni», lasciandoli in una situazione
peggiore della precedente. Come emerse più
tardi, essi lottarono in nome della libertà, ma
non ottennero altro che l’assoggettamento
sempre più profondo alla forza dei ricchi
latifondisti. Questi ultimi infatti persuasero
Garibaldi a non firmare il decreto di
liberalizzazione demaniale; in conseguenza a
ciò i contadini si riversarono nelle piazze. Il
generale nizzardo incaricò il suo braccio destro
Nino Bixio di reprimere nel sangue le rivolte (si
veda la “strage di Bronte”). Garibaldi si rivelò
essere quello in molti temevano: un generale al
servizio degli inglesi e degli interessi dei grandi
latifondisti.
Appena
pochi
giorni
dopo
l’inscenata “liberazione”, si palesava già la
lontananza fra il nascituro stato centralista e le
realtà locali meridionali, ufficialmente in mano
a Garibaldi, ma nella pratica, comandate dai
ricchi possidenti terrieri, che per mano dei
“capi bastone” ridistribuivano denari, lavoro e
favori. È dunque corretto affermare che la
Mafia si sviluppò in seno allo stato stesso,
unica causa del suo più grande male.
Il 21 e 22 Ottobre 1866 si tenne un plebiscito,
previsto dal Trattato di pace con l'Impero
Austro-Ungarico, per annettere i territori
grossomodo corrispondenti al Veneto attuale. Il
plebiscito fu preceduto da una serie di mosse
volte a metterlo al riparo da un eventuale
risultato negativo, una tra tutte l'espulsione di
gruppi di persone che dichiaratamente si
battevano per il NO, cosa già vista nei
precedenti plebisciti svoltisi in Toscana e nelle
regioni Meridionali, per citare due esempi.
Curioso è come furono allestiti i seggi: infatti vi
era, dietro il tavolo dove erano posizionate
un'urna con la scritta grande SI e un'urna con
la scritta NO, un carabiniere in alta uniforme e,
sul muro, appesa una fotografia grande del Re
Vittorio Emanuele II. Vi erano due registri: in
uno venivano annotati i votanti e nell'altro
coloro che votavano NO; inoltre le schede per il
voto erano due, di differenti colori. Come è
facile intuire, il voto fu tutt'altro che libero e
segreto. Infatti i SI furono 641.758, i NO 69 e le
schede nulle 243. Un po' pochi se si pensa che
la Serenissima Repubblica e sopravvissuta,
indipendente, per più di un millennio.
Veramente solo 69 persone hanno voluto
sottomettere la propria libertà in nome
dell'annessione al Regno d'Italia? Dove sono
finiti tutti i soldati e i marinai di Custoza e
Lissa? Da segnalare, inoltre, che votarono circa
642.000 su 2.500.000 di aventi diritto,
corrispondenti a grossomodo il 25,5%. Di
queste schede elettorali, però, non vi è alcuna
traccia. Dove sono finite le schede del
plebiscito?
PERCHÈ
NEL
1866
CI FU IL
"PLEBISCITO-TRUFFA"
IN
VENETO?
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
COME
SI È COMPORTATA LA STORIOGRAFIA ITALIANA NEI
CONFRONTI DELLA STORIA
VENETA?
La storiografia Italiana si è comportata come il
Minitrue orwelliano, ossia ha sistematicamente
tentato di cancellare o sminuire la storia
millenaria della Serenissima dai libri scolastici.
Della battaglia navale di Lissa non viene
riportata la gravità della sconfitta, riassumibile
nella celeberrima frase attribuita all'ammiraglio
austriaco Tegetthoff: “Uomini di ferro su navi di
legno avevano sconfitto teste di legno su navi
di ferro”. Per paura di risvegliare lo spirito
PERCHÈ
SONO EMIGRATI CIRCA
PLEBISCITO
(ANCHE
940.000 VENETI
DOPO IL
SE PASSÒ A LARGA MAGGIORANZA)?
Tra le prime misure introdotte nella neo-Italia,
alla quale si era da pochi anni aggiunto il
Veneto,
troviamo
l'introduzione
della
famigerata "tassa sul macinato", la quale colpi
duramente i contadini e le famiglie che
basavano la loro alimentazione sulla polenta
(circa 1 kg al giorno a testa). Ogni famiglia era
costretta a sborsare all'incirca 20 lire all'anno in
più, una cifra elevata per l'epoca, rispetto agli
anni precedenti. La politica centralista e
autoritaria dello Stato fu diretta a soffocare
qualsiasi rimembranza del passato: le misure
con cui si confiscavano i beni ecclesiastici
COME
comune dei popoli veneti, o per rendere meno
evidente che le condizioni di vita della
popolazione nel periodo pre-unitario erano ben
migliori del periodo post-unità, la storiografia
italiana ha fatto piazza pulita dello spirito e
della storia di cui rimane un ricordo solo nei
libri non scolastici e nella memoria di qualche
anziano che, pur non vivendo direttamente la
Serenissima, ne ha sentito parlare dai suoi
padri e nonni.
tolsero quel carattere assistenzialistico ai
poveri e ai non abbienti e l'introduzione della
leva obbligatoria dei sei anni prelevarono dalle
campagne Venete migliaia di giovani che
contribuivano in maniera importante alla
coltivazione di ciò che si mangiava in famiglia.
Tutt'altro che entusiasti del processo unitario,
nonostante la storiografia dica esattamente il
contrario,
fuoriuscirono
940.711
Veneti,
corrispondenti al 17,9% circa degli “italiani”
emigranti. Un dato che non sempre viene
riportato nonostante se ne abbia piena
consapevolezza.
LE SCELTE AMMINISTRATIVE SUCCESSIVE ALL'UNITÀ HANNO
PORTATO AL FASCISMO?
L’avvento del fascismo è fortemente collegato
alla struttura centralizzata dello Stato e alla
vecchia Costituzione del Regno d’Italia: lo
Statuto Albertino, entrambi elementi che
affondano le loro radici all’interno del processo
risorgimentale. Nel 1861 si decise di respingere
le proposte del ministro Minghetti che
prevedevano la creazione di forti autonomie
locali, per abbracciare invece la scelta di creare
un sistema fortemente accentrato, dove le
singole comunità erano obbligate ad eseguire
gli ordini provenienti dal centro. Questo
accadde perché la classe politica di allora
riteneva che fosse più facile controllare un
territorio molto diversificato con leggi uniche e
per il timore che un modello federale e
rispettoso delle diverse culture sarebbe stato
pericoloso per l’unità del Paese. Il secondo
elemento riguarda invece lo Statuto Albertino:
questa Costituzione, a differenza delle altre
carte liberali di quel periodo, prevedeva per il
sovrano forti poteri, fra i quali quello di
nominare, a sua discrezione e senza vincoli,
chiunque egli ritenesse valido per la carica di
Presidente del Consiglio. Il forte accentramento
amministrativo e politico permise la nascita di
forze come il partito fascista in quanto i
territori non avevano una vera rappresentanza
nel Parlamento; lo Statuto Albertino invece
rese perfettamente legale la decisione di
Vittorio Emanuele III di assegnare pieni poteri a
Mussolini dopo la Marcia su Roma. Il fascismo,
nel corso del Ventennio, provvederà poi a
rafforzare ulteriormente con figure come il
prefetto, il sistema di controllo del centro sulle
comunità locali.
E’ vero che, nel corso della storia, il Nord è
stato a sua volta frammentato in diverse entità
statali autonome. Ma è altrettanto vero che
durante i 1500 anni di divisione, questi Stati
hanno sempre interagito fra loro con grande
frequenza e certamente in misura molto
maggiore rispetto a quanto non avvenisse con
la parte meridionale della Penisola. Le riprove
sono rintracciabili nelle testimonianze e nelle
reazioni dei primi viaggiatori che, ad
unificazione compiuta, percorrevano per la
prima volta il Paese da Nord a Sud. E’ vero
inoltre che, nel corso del tempo, ci furono
contrasti tra i diversi Stati della Val Padana, ma
COME
CONCILIATE REALTÀ PREUNITARIE CON L'IDEA DI
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
PADANIA?
non si possono scordare anche collaborazioni
importanti di fronte all’esigenza di difendersi da
nemici esterni, come nel caso della Lega
lombarda e della Lega veronese. A voler ben
vedere il Settentrione ha avuto molti periodi di
unità, con i longobardi, sotto il Sacro Romano
Impero, con la Repubblica cisalpina prima e con
il napoleonico Regno d’Italia (che nonostante il
nome comprendeva solo il Centro-Nord). Ma più
importante, la Valle del Po, fu la culla di un
particolare modello politico che per diversi
secoli risultò vincente: si trattava del sistema
comunale che accumunò tutta la parte
settentrionale del Paese (e parte di quella
centrale) e che costituiva qualcosa di inedito e
assolutamente originale per l’epoca: un
sistema che, nel buio del feudalesimo,
garantiva libertà uniche in Europa e risultava
molto vicino alle antiche democrazie delle Polis
greche. E’ dalla civiltà comunale che nasce
quel senso civico che accomuna e rende unita
negli interessi e nella mentalità quella che oggi
chiamiamo
Padania,
come
fu
notato
dall’americano Robert Putnam nel suo studio
degli anni 80 sulle regioni italiane . Oltre a ciò
non si possono scordare il ceppo linguistico
comune (quello delle cosiddette Lingue galloromanze) e un sistema economico e di scambi
commerciali che già nel 700 appariva
omogeneo.
Nei 150 anni di storia unitaria dell’Italia, a
causa delle scelte scellerate in campo politico,
amministrativo ed economico, la spaccatura fra
Nord e Sud del Paese si è accentuata
assumendo proporzioni uniche in tutto il mondo
occidentale. Per quanto riguarda il Nord gli
effetti più negativi si sono avuti certamente nel
campo
economico.
L’inefficienza
e
il
clientelismo del sistema politico nel Meridione
hanno portato, nel corso del tempo, ad uno
sperpero sempre maggiore di risorse, causando
un enorme debito pubblico. I governi romani,
dal canto loro, non hanno fatto nulla per
mutare la situazione, hanno anzi ottenuto di
aggravarla ulteriormente. Per non combattere
le mafie che impedivano (e impediscono)
qualsiasi forma di sviluppo economico, ma al
tempo stesso garantire livelli decenti di vita al
Meridione
con
l’assistenzialismo,
hanno
aumentato in maniera esponenziale il livello
delle tasse al Nord. Con questi soldi, prodotti e
sottratti alla Padania, i diversi governi hanno
creato un sistema parassitario e ingiusto che
vive e si nutre del lavoro di altre persone. Le
conseguenze
sono
state
gravi
per
il
Settentrione: mancanza di fondi per le opere
infrastrutturali e per i servizi che spetterebbero
di diritto ai cittadini. Oltre a ciò, il sistema
politico ha trasformato nel tempo la pubblica
amministrazione
in
un
immenso
ammortizzatore sociale per diminuire la
disoccupazione al Sud; questo ha avuto come
risultato, oltre alle sue spropositate dimensioni,
una sistematica discriminazione dei cittadini
del Nord nei concorsi pubblici, dai livelli più
umili a quelli dirigenziali.
L'Unità d'Italia fece sentire i suoi funesti effetti
anche sulle regioni meridionali. La coscrizione
obbligatoria di minimo 5 anni, si vedano a
questo proposito i Malavoglia di Verga, strappò
molti giovani dalle loro famiglie, costringendole
a sacrifici economici difficilmente sostenibili
all'epoca. Coloro che si rifiutarono di partire
andarono ad ingrossare le fila dei cosiddetti
briganti. Inoltre la filosofia del libero mercato,
applicata indistintamente a regioni molto
industrializzate, come la Lombardia, e a regioni
molto più arretrate come il Mezzogiorno, fece sì
che la concorrenza estera annientasse quelle
poche avventure industriali esistenti nel Sud,
caratterizzate da prezzi decisamente poco
competitivi. La tassazione e il nuovo regime
finanziario, applicato senza tener conto delle
differenze esistenti tra le varie realtà, causò un
impoverimento senza precedenti. Migliaia di
famiglie furono costrette ad emigrare e quelli
che rimasero furono costrette a darsi al
brigantaggio. Approfittando di alcune rivolte
scoppiate in quei tempi (ad esempio
Castellammare del Golfo in Sicilia il 1° Gennaio
1862) le autorità piemontesi, attraverso
addirittura la proclamazione dello Stato
d'Assedio in tutto il Mezzogiorno, stroncarono
nel sangue le manifestazioni di malcontento
del popolo. Più preoccupato del brigantaggio in
sé che della risoluzione dei problemi per cui
esso era così presente e radicato nella
struttura societaria del Mezzogiorno, il Senato
del Regno emanò una legge che istituiva una
spesa supplementare di 230.000.000 lire
(dell'epoca) per l'acquisto di armamenti per la
Guardia Nazionale.
CHE
EFFETTI NEGATIVI PORTÒ L'UNITÀ D'ITALIA PER IL
NORD?
CHE
EFFETTI NEGATIVI PORTÒ L'UNITÀ D'ITALIA PER IL
SUD?
COME
HA INFLUITO IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE SULL'IMMAGINE
ITALIANA?
«L’uomo non aveva valore, riferendosi al
Medioevo, se non come membro di una
famiglia, di un popolo, di un partito, di una
corporazione, di cui quasi interamente viveva
la vita. L’Italia è la prima a squarciare questo
velo e a considerare lo Stato e tutte le cose
terrene da un punto di vista oggettivo; ma al
tempo stesso si sveglia potente nell’italiano il
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
sentimento di sé e del suo valore personale o
soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo, e
come tale si afferma» (J. Burckhardt). L’Italia
pre-risorgimentale godeva di notevole prestigio
nel vecchio continente: faro di cultura, di
sapienza, di arte. Le differenze nazionali fra le
varie realtà della penisola avevano valorizzato
egregiamente la competizione e ne erano nate
forme artistiche e sociali senza paragoni in
Europa. L’Italia fu un punto di riferimento nel
Rinascimento, e anche successivamente, per la
forza della tradizione, rimase un’area peculiare
di genesi artistiche particolari e senza paragoni
nell’Europa. Il processo unitario, andando a
creare uno stato fortemente centralista, erose
la possibilità che vi fosse competizione fra gli
stati e di conseguenza quell’evoluzione che
avrebbe consentito al paese di rimanere
nell’Europa civile. La nascita delle mafie, le
scellerate politiche fiscali, estere e di welfare,
l’emigrazione forzata nell’ottica di creare gli
italiani (a detta di D’Azeglio), ha contribuito a
creare l’immagine dell’italiano all’estero, non
più faro di cultura, ma “pizza, mandolino e
mafia”.
La soluzione è una sola: il federalismo, fiscale
ed istituzionale. Non esiste altro sistema per
salvare il Paese. Se questo non verrà applicato
è probabile che lo Stato, alla fine, si spaccherà
da solo. Il federalismo rappresenta la soluzione
più naturale per un Paese con tante differenze
interne come l’Italia. Cavour, Cattaneo,
Minghetti e molti altri avevano capito già
all’epoca dell’unificazione che l’unica via per
uno sviluppo sano dell’Italia passava dal
federalismo.
Ogni
territorio
deve
poter
mantenere le proprie tasse dove sono state
prodotte ed avere la possibilità di esercitare
l’autogoverno. Più l’istituzione è vicina al
cittadino e meglio funziona. Questo servirà non
solo al Nord, ma anche al Sud che in questa
maniera potrà responsabilizzarsi e risolvere i
suoi problemi. Il federalismo rappresenta la
forza di governo più evoluta e rispettosa delle
differenze, lo riprova il fatto che tutti gli stati
più civili e progrediti del mondo, hanno
adottato un sistema federale.
QUALI
SOLUZIONI PROSPETTATE?
ANALISI
ECONOMICA DELLE CONSEGUENZE DEL PROCESSO
UNITARIO
Il processo unitario in sé comporto delle spese
straordinarie che furono finanziate mediante
prestiti contratti dal Piemonte, il quale
spremette la neo-Italia con una pesantissima
tassazione al fine di far fronte ai debiti. Ciò
ebbe come conseguenza quella di far diminuire
le risorse destinante alla crescita. Cosi facendo,
le importazioni, nel primo triennio unitario,
aumentarono del 14,5% mentre l'export fece
registrare un aumento solo del 3,3%, con
conseguenze ben note per quanto riguarda il
Debito Pubblico. Un'inchiesta promossa dalla
Camera e affidata a Stefano Jacini dimostro che
l'Italia era ancora molto arretrata sotto il profilo
dello sviluppo agricolo e industriale. Vicino a
realtà allineate agli esempi virtuosi europei e
statunitensi, come il Nord Italia, esistevano
realtà dove i governatori locali avevano paura
di qualsiasi cambiamento che intaccasse i
privilegi pseudo-feudali dei signori locali, come
la Sicilia e in generale le regioni del
Mezzogiorno. Il PIL era composto al 50% di
proventi derivanti dall'agricoltura, la quale era
praticata con tecniche obsolete e poco
redditizie. Ciò espose l'Italia ai gravi effetti
della crisi agricola europea del 1881 ed ebbe
come conseguenza diretta l'accentuarsi del
flusso migratorio diretto soprattutto verso le
Americhe.
I concetti di Stato e di Nazione vengono spesso
confusi e utilizzati come sinonimi, ma ciò non è
esatto. In diritto pubblico Stato e Nazione
possono coincidere, ma questo non è sempre
vero.
Lo
Stato
rappresenta
l’apparato
istituzionale
mentre
la
Nazione
è
da
considerarsi in realtà come il complesso di
persone che hanno in comune la storia, la
cultura, la lingua e più in generale un
sentimento di “comune identità”. Esistono Stati
che si possono definire come “plurinazionali”,
perché vantano differenti tradizioni al proprio
interno, come ad esempio la Svizzera o il
Canada e questo genere di modelli si configura
normalmente come Stati federali. Nonostante
l’Italia sia unita da 150 anni, non si possono
cancellare 1500 anni di divisione che hanno
generato storie e tradizioni differenti nelle
diverse aree del Paese. Non riteniamo quindi
improprio parlare, anche per l’Italia, di “realtà
plurinazionale”, perché se è vero che tutti oggi
parliamo la medesima lingua (fino a pochi
decenni fa però non era così), è altrettanto
vero che abbiamo tutti percorsi, usanze e
abitudini diverse. Nel 2011 quindi non si
celebra certamente l’unità di una Nazione, ma
solo la nascita di uno Stato.
DIFFERENZA
TRA
STATO
E
NAZIONE
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
COSA
PREVEDEVA LA DEVOLUTION,
BOCCIATA NEL REFERENDUM DEL 2006?
DI LUCIO BRIGNOLI
CAMERA DEI DEPUTATI: La Camera
sarà l'organo politico e sarà costituito
da 518 deputati (oggi sono 630), di cui
18 eletti nelle circoscrizioni estere, oltre
ai deputati a vita, nominati dal capo
dello Stato, che potranno essere al
massimo tre. Di diritto gli ex presidenti
della Repubblica. L'età minima per
essere eletti scende a 21 anni (adesso è
25). La Camera è eletta per cinque anni.
Le Commissioni d'inchiesta istituite
dalla Camera avranno gli stessi poteri
dell'autorità
giudiziaria;
la
loro
presidenza
sarà
assegnata
all'opposizione.
SENATO FEDERALE: I senatori saranno
252 (oggi sono 315), eletti in ciascuna
Regione
insieme
all'elezione
dei
rispettivi consigli regionali. A questo
numero si sommeranno i 42 delegati
delle Regioni, che partecipano ai lavori
del Senato federale senza diritto di
voto: due rappresentanti per ogni
regione più due per le Province
autonome di Trento e Bolzano. Sarà
eleggibile chi ha 25 anni (oggi 40 anni).
Con la proroga dei Consigli regionali e
delle province autonome sono prorogati
anche i senatori in carica.
CAPO DELLO STATO: Il presidente della
Repubblica non è più il rappresentante
dell'unità nazionale, ma «rappresenta la
Nazione ed è garante della Costituzione
e dell'unità federale della Repubblica».
Sarà
eletto
dall'Assemblea
della
Repubblica, presieduta dal presidente
della Camera dei deputati e composta
da tutti i parlamentari, i governatori e i
delegati
regionali.
Può
diventare
presidente della Repubblica chi ha
compiuto 40 anni (oggi 50). Il capo dello
Stato è eletto a scrutinio segreto con la
maggioranza
dei
due
terzi
dei
componenti
l'Assemblea della Repubblica. Dopo il
terzo
scrutinio
è
sufficiente
la
maggioranza
dei
tre
quinti
dei
componenti. Dopo il quinto scrutinio è
sufficiente la maggioranza assoluta. Il
capo dello Stato indice le elezioni della
Camera e quelle dei senatori. Nomina i
presidenti delle Autorità indipendenti, il
presidente del Cnel e il vicepresidente
del
Consiglio
superiore
della
magistratura (Csm) nell'ambito dei
componenti eletti dalle Camere.
PREMIERATO: Non c'è più il presidente
del Consiglio, ma il Primo ministro.
Nomina e revoca i ministri (adesso
spetta al capo dello Stato, su proposta
del premier), determina (e non più
«dirige») la politica generale del
governo e dirigerà l'attività dei ministri.
Il Primo ministro non dovrà più ottenere
la fiducia dalla Camera, ma dovrà
soltanto illustrare il suo programma sul
quale la Camera dei deputati esprimerà
un voto. Inoltre potrà porre la questione
di fiducia e chiedere che la Camera si
esprima «con priorità su ogni altra
proposta, con voto conforme alle
proposte del governo». In caso di
bocciatura deve dimettersi. Il Primo
ministro
viene
eletto
mediante
collegamento con i candidati ovvero
con una o più liste di candidati, norma
che consente l'adattamento sia al
sistema maggioritario che a quello
proporzionale.
NORMA ANTI-RIBALTONE E SFIDUCIA
COSTRUTTIVA: In qualsiasi momento la
Camera potrà obbligare il Primo
ministro
alle
dimissioni,
con
l'approvazione di una mozione di
sfiducia firmata almeno da un quinto
dei componenti (ora è un decimo). Nel
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
caso di approvazione, il Primo ministro
si dimette e il presidente della
Repubblica decreta lo scioglimento della
Camera. Il Primo ministro si dimette
anche se la mozione di sfiducia è stata
respinta con il voto determinante di
deputati
non
appartenenti
alla
maggioranza espressa dalle elezioni.
Garante di questa maggioranza sarà il
presidente
della
Repubblica,
che
richiederà le dimissioni del Primo
ministro anche nel caso in cui per il voto
favorevole a una questione di fiducia
posta dal Primo ministro sia stata
determinante una maggioranza diversa
da quella uscita dalle urne. Entra in
Costituzione anche la mozione di
sfiducia
costruttiva:
i
deputati
appartenenti alla maggioranza uscita
dalle urne, infatti, possono presentare
una mozione di sfiducia con la
designazione di un nuovo Primo
ministro. In tal caso il premier in carica
si dimette e il capo dello Stato nomina il
Primo ministro designato nella mozione.
DEVOLUTION: Le Regioni avranno
potestà legislativa esclusiva su alcune
materie
come
assistenza
e
organizzazione sanitaria; organizzazione
scolastica,
gestione
degli
istituti
scolastici e di formazione, salva
l'autonomia delle istituzioni scolastiche;
definizione della parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse
specifico
della
Regione;
polizia
amministrativa regionale e locale.
Tornano a essere di competenza dello
Stato la tutela della salute, le grandi reti
strategiche di trasporto e di navigazione
di interesse nazionale, l'ordinamento
della
comunicazione,
l'ordinamento
delle
professioni
intellettuali,
la
produzione,
il
trasporto
e
la
distribuzione
nazionali
dell'energia,
l'ordinamento di Roma; la promozione
internazionale del made in Italy.
ITER LEGISLATIVO: La Camera esamina
i disegni di legge riguardanti le materie
che il nuovo articolo 117 affida alla
legislazione esclusiva dello Stato. Dopo
l'approvazione il Senato federale può
proporre modifiche entro trenta giorni
sulle quali sarà comunque la Camera a
decidere in via definitiva. All'Assemblea
di Palazzo Madama spetterà l'esame e
la
parola
definitiva,
invece,
sui
provvedimenti riguardanti le materie
concorrenti. Le questioni di competenza
tra le due Camere sono risolte dai
presidenti delle Camere o da un
comitato
paritetico,
composto
da
quattro deputati e da quattro senatori,
designati dai rispettivi presidenti. La
decisione dei presidenti o del comitato
non è sindacabile in alcuna sede. Per
alcune materie comunque resta il
procedimento bicamerale. In caso di
disaccordo tra le due Camere, il testo
sarà proposto da una commissione,
composta da trenta deputati e da trenta
senatori, convocata dai presidenti delle
Camere, e sottoposto al voto finale
delle Assemblee.
CLAUSOLA DI ESSENZIALITÀ: Se il
governo ritiene che proprie modifiche a
un disegno di legge, sottoposto
all'esame del Senato, siano essenziali
per l'attuazione del suo programma
approvato dalla Camera, il presidente
della Repubblica, verificati i presupposti
costituzionali, può autorizzare il Primo
ministro a esporne le motivazioni al
Senato federale che decide entro trenta
giorni. Se tali modifiche non sono
accolte dal Senato, il disegno di legge è
trasmesso alla Camera dei deputati che
decide in via definitiva a maggioranza
assoluta dei suoi componenti sulle
modifiche proposte. I disegni di legge
del governo avranno comunque una via
preferenziale nel calendario dei lavori
delle Camere. Se l'esecutivo lo richiede,
verranno iscritti all'ordine del giorno e
votati entro tempi certi.
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
PRINCIPIO
DI
SUSSIDIARIETÀ:
La
Repubblica è costituita dai Comuni,
dalle
Province,
dalle
Città
metropolitane, dalle Regioni e dallo
Stato, che esercitano le loro funzioni
secondo
i
principi
di
leale
collaborazione e sussidiarietà.
FEDERALISMO FISCALE: Entro tre anni
dalla data di entrata in vigore della
legge di riforma costituzionale sarà
assicurata l'attuazione del federalismo
fiscale. Sono fissati dei limiti per cui in
nessun
caso
l'attribuzione
dell'autonomia impositiva alle Regioni,
alle Province, alle città metropolitane e
ai
Comuni
può
determinare
un
incremento della pressione fiscale
complessiva. Inoltre, viene inserito il
concetto di sussidiarietà fiscale: il
cittadino su alcune spese come a
esempio quelle di mantenimento dei
figli, invece di pagare le tasse per
richiedere poi il rimborso a livello
regionale, può detrarle direttamente
dalla dichiarazione dei redditi.
Repubblica, quattro dalle supreme
magistrature
ordinaria
e
amministrative;
tre
giudici
sono
nominati dalla Camera dei deputati e
quattro dal Senato federale della
Repubblica integrato dai governatori. È
previsto che, concluso il mandato, nei
successivi tre anni non si possano
ricoprire incarichi di governo, cariche
pubbliche
elettive
o
di
nomina
governativa o svolgere funzioni in
organi o enti pubblici individuati dalla
legge.
CSM: I componenti del Csm, oltre a
quelli eletti per due terzi da tutti i
magistrati ordinari tra gli appartenenti
alle varie categorie, sono eletti per un
sesto dalla Camera dei deputati e per
un sesto dal Senato federale della
Repubblica tra professori ordinari di
università in materie giuridiche e
avvocati dopo quindici anni di esercizio.
La Costituzione attualmente, invece,
prevede che siano eletti per un terzo
dal Parlamento in seduta comune. Il
presidente della Repubblica nomina il
CORTE COSTITUZIONALE: Aumentano i vice presidente del Csm nell'ambito dei
giudici di nomina parlamentare nella componenti eletti dalle Camere.
Corte Costituzionale. La Consulta sarà
composta da 15 giudici: quattro Il testo completo della riforma:
nominati
dal
presidente
della http://bit.ly/devsenato2006
RISULTATI
DEL
REFERENDUM:
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
COSA PREVEDE IL FEDERALISMO
FISCALE OGGI, NEL 2011? L
Il cammino del federalismo fiscale
inizia con l'approvazione del disegno di
legge delega, da parte del Consiglio dei
ministri dell'11 settembre 2008. La
delega
diventerà
legge
l'anno
successivo (legge delega n.42 del 5
maggio 2009).
Dalla legge delega sono scaturiti 8
decreti attuativi:
1. Federalismo demaniale
2. Fabbisogni standard
3. Federalismo municipale
4. Autonomia tributaria di regioni e
province
5. Perequazione e rimozione squilibri
6. Sanzioni e premi per regioni,
province e comuni
7. Armonizzazione sistemi contabili
IL CONTESTO DELLA RIFORMA
Il federalismo fiscale mira a dare
attuazione all'art.119 della Costituzione
che sancisce l'autonomia finanziaria di
entrata e di spesa per i Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le
Regioni.
L'attuazione
dell'art.119
completa il processo di revisione
costituzionale contenuto nella legge
costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001
(riforma del Titolo V della Costituzione)
che ha dato un nuovo assetto al
sistema delle autonomie territoriali,
collocando gli enti territoriali al fianco
dello Stato come elementi costitutivi
della Repubblica come recita l'art. 114
della Costituzione (Comuni, Province,
Città metropolitane, Regioni e Stato
hanno pari dignità, pur nella diversità
delle rispettive competenze).
PROCEDURA
DI
ADOZIONE
DEI
DECRETI ATTUATIVI (Fonte: Camera dei
deputati)
DI
UCIO
BRIGNOLI
La legge n. 42/2009
delinea la procedura di adozione ed
esame
parlamentare
dei
decreti
legislativi attuativi, fissando il termine
per l’adozione di almeno uno di essi
entro dodici mesi dalla data di entrata
in vigore della legge stessa (21 maggio
2009) e in ventiquattro mesi il termine
generale per l’adozione degli altri
decreti. Entro il 30 giugno 2010, il
Governo è chiamato a trasmettere alle
Camere la relazione contenente dati
sulle implicazioni e le ricadute di
carattere
finanziario
conseguenti
all’attuazione della delega, nel quale
fornire
un
quadro
generale
del
finanziamento degli enti territoriali e
sulla struttura dei rapporti finanziari tra
i diversi livelli di governo. La relazione è
stata presentata alle Camere il 30
giugno 2010.
Gli schemi di decreto, ciascuno dei
quali deve essere corredato di una
relazione tecnica che ne evidenzi gli
effetti finanziari, sono adottati dal
Governo, previa intesa in sede di
Conferenza
unificata
Stato-regioniautonomie locali e successivamente
trasmessi alle Camere per l’espressione
del parere da parte: della Commissione
bicamerale;
delle
Commissioni
parlamentari competenti per i profili
finanziari (vale a dire le Commissioni
bilancio delle due Camere).
All’adozione dei decreti si può peraltro
procedere anche qualora non venga
raggiunta l’intesa in sede di Conferenza
unificata: in tal caso, e trascorsi trenta
giorni
dalla
prima
seduta
della
Conferenza in cui gli schemi di decreto
legislativo sono posti all’ordine del
giorno, il Consiglio dei ministri può
comunque deliberare la trasmissione
alle
Camere,
approvando
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
contestualmente una relazione in cui
vengono motivate le ragioni per cui
l’intesa non è stata raggiunta.
Sia la Commissione bicamerale che le
Commissioni bilancio sono chiamate a
esprimersi entro 60 giorni (prorogabili di
ulteriori 20 giorni) dalla trasmissione dei
testi; decorso tale termine, i decreti
possono essere comunque adottati. E’
inoltre prevista l'ipotesi in cui il Governo
non intenda conformarsi ai pareri
parlamentari: in tal caso esso trasmette
nuovamente gli schemi alle Camere con
le relative osservazioni ed eventuali
modificazioni, rendendo a tal fine
comunicazioni davanti a ciascuna
Camera; trascorsi 30 giorni da tale
trasmissione,
i
decreti
legislativi
possono essere adottati.
Il 2 marzo 2011 la Camera dei
Deputati ha approvato in via
definitiva il decreto legislativo sul
federalismo municipale con 313
voti a favore (Lega Nord e Popolo
della Libertà), 291 voti contrari
(Partito Democratico, Italia dei
Valori, Unione di Centro e Futuro
Libertà) e 2 astenuti.
Il 31 marzo 2011 il Consiglio dei
Ministri ha approvato il decreto
legislativo
sul
Federalismo
Regionale.
Il sito del Governo:
http://bit.ly/fedfiscgoverno2011
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
BIBLIOGRAFIA
- Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale. Unità e unificazione dell'Italia,
Guida Editori, 2002
- Angela Pellicciari, L'altro Risorgimento, Piemme, 2000
- Arrigo Petacco, Il Regno del Nord, Mondadori, 2009
- Elena Bianchini Braglia, La verità sugli uomini e sulle cose del regno
d'Italia – Rivelazioni di J.A. Antico agente segreto del Conte Cavour, Tabula
Fati, 2005
- Ettore Beggiato, 1866: La grande Truffa – Il plebiscito di annessione del
Veneto all'Italia, Editoria Universitaria Venezia, 1999
- Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, Controcorrente, 1999
- Gigi di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia: fatti e misfatti del
Risorgimento, Rizzoli, 2007
- Gilberto Oneto, L'Iperitaliano. Eroe o cialtrone? - Biografia senza censure
di Giuseppe Garibaldi, Il Cerchio, 2006
- Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Storia contemporanea: l'Ottocento,
Laterza, 2002
- Giuseppe Cesare Abba, Da quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille,
Sellerio, 1993
- Harold Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Giunti Editore, 1997
- Indro Montanelli, Marco Nozza, Garibaldi. Ritratto dell'eroe dei due
mondi, BUR, 2007
- Indro Montanelli, L'Italia del Risorgimento – 1831-1861, Rizzoli Editore,
1972
- Indro Montanelli, L'Italia dei Notabili – 1861-1900, Rizzoli Editore, 1973
- Lorenzo del Boca, Indietro Savoia, Piemme, 2003
- Lorenzo del Boca, Emanuele Filiberto di Savoia, Maledetti Savoia –
Savoia Benedetti, Piemme, 2010
- Luciano Salera, Garibaldi, Fauchè e i predatori del Regno del Sud,
Controcorrente, 2006
- Luigi Zanon, 1866 Anno della Vergogna,
http://www.raixevenete.com/materiale/1866/vergogna_1866.pdf
- Nicola Leoni, Istoria politica della Unità Nazionale d'Italia – dalla sua
origine fino a'tempi nostri, Napoli, Tipografia Militare, 1864
- Pietro Maestri, L'Italia Economica nel 1868, Civelli, 1868
- Raffaele De Cesare, La fine di un Regno: Regno di Ferdinando II, S. Lapi,
1900
- Rivista militare italiana, anno XI, volume IV, La Campagna del 1866 in
Italia, G. Cassone e comp., 1866
- Ruggiero Bonghi, Storia della Finanza Italiana dal 1864 al 1868,
Successori Le Monnier, 1868
- Stefano B. Galli, Quante Italie? La suddivisione territoriale della Penisola
dal Risorgimento ai nostri giorni, Rivista Politica, n. 1/2010
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
RINGRAZIAMENTI
Desideriamo ringraziare tutti coloro che a vario titolo ci hanno permesso di
portare a termine questo lavoro: il Coordinamento Federale dell'MSP (Emanuele
Monti, Francesca Manzotti, Lucio Brignoli e tutti coloro che, per brevità, non
possono essere qui citati) per averci dato l'idea di realizzare il phamplet. Un
ringraziamento davvero particolare a Federica Epis per averci aiutato con la
ricerca delle fonti e nella correzione dell'elaborato e a Samuel Sottoriva per
l'aiuto fondamentale nella ricerca delle fonti per quanto riguarda le parti dedicate
al Veneto. Ringraziamo inoltre il Coordinamento Federale del Movimento Giovani
Padani per l'entusiasmo e per il sostegno dimostratoci, in particolare il
Coordinatore Federale Paolo Grimoldi.
Infine, ma non certo per importanza, ci pare doveroso ringraziare tutti coloro
che pazientemente leggeranno questo documento, il quale non si prefigge altro
obiettivo che quello di essere un paladino al servizio della verità storica e della
lettura critica di un periodo tanto importante quanto oscuro quale è il
Risorgimento.
Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento
Scarica

Storia senza Gloria - Le verità nascoste del