Storia senza gloria Le verità nascoste del Risorgimento Movimento Studentesco Padano & Movimento Universitario Padano A cura di: - FILIPPO FRIGERIO - MATTEO LAZZARO - FABIO MOLINARI A TUTTI I GIOVANI LIBERI DI PENSARE, DI STUDIARE, DI RISCOPRIRE UNA STORIA CHE CI APPARTIENE E CHE A VOLTE QUALCUNO HA TENTATO DI NASCONDERE. «SI È CURIOSI SOLTANTO NELLA MISURA IN CUI SI È ISTRUITI.» Jean-Jacques Rousseau INDICE - INTRODUZIONE ........................ - CONTESTO INTERNAZIONALE ..... - CAVOUR E IL REGNO - GARIBALDI E I GRANDE RECITA DEL NORD MILLE: LA ......................... 4 5 7 9 - 1866: IL PLEBISCITO TRUFFA IN VENETO .................................... 16 - DOMANDE & RISPOSTE ............ - DEVOLUTION NEL - FEDERALISMO 2006 ........... NEL 2011 .......... - BIBLIOGRAFIA ......................... Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento 20 25 27 29 INTRODUZIONE «Il Risorgimento era stato, come oggi si direbbe, una “operazione di vertice”, che seguitava ad interessare soltanto il vertice, cioè l'esigua minoranza che lo aveva fatto. […] Così nacque l'Italia dei notabili» I. Montanelli – Storia d'Italia, VOL VI Cominciò in questo modo il connubio fra i popoli della penisola italiana e della pianura padana, in un misto fra la Romantica esaltazione di un ideale nazionale, dettata più dalle contingenze storiche che dalla volontà socioeconomica di unirsi sotto un'unica bandiera, e l'esperimento di un’inedita unità sociale che cercasse di creare un popolo ed allo stesso tempo un collante, solo rifacendosi ad un’unità amministrativa. Tutto ciò portò, dopo 150 anni, all’Italia come la vediamo oggi; capiamo come alcune scelte, che noi crediamo errate, siano la radice di molti problemi dell’Italia unita. L’Italia, lo stato che primo fra tutti avrebbe avuto la vocazione di stato federale avendo delle fortissime realtà locali – come da disposizioni di Cavour – all’indomani dell’unificazione, a causa della prematura morte dello statista piemontese, si trovò unita centralisticamente. Inoltre, se altri stati, altri popoli, altre nazioni ebbero esempi di manifestazioni di sentimento nazionale, che unissero in modo panclassista tutta la popolazione, lo stato italiano non ne ebbe mai. E fu così che nel 1861 ventidue milioni di persone si trovarono unite sotto una stessa bandiera e sotto la stessa legge, per la prima volta dopo quindici secoli, senza aver la minima idea di dove questo cambiamento li avrebbe condotti. Uno stato che, appunto, cercò di creare gli italiani (lo disse lo stesso D'Azeglio all'indomani dell'unità) con mezzi come l’indottrinamento scolastico, la televisione, i mezzi di comunicazione di massa, e non ultimo, la massiccia immigrazione interna. Tali parole verranno adeguatamente motivate nei capitoli a venire, giustificate, ampliate ed illustrate in un viaggio attraverso i secoli che ha avuto come nobile scopo il fornire, in modo gratuito, accessibile e pensato per i giovani, quella cosiddetta “controstoria” che i libri – perlomeno quelli accademici – non ci hanno mai svelato circa l'Unità dello stato italiano. Noi, giovani del Carroccio, non ci attribuiamo l'arrogante prerogativa di voler ridisegnare la Storia, che – il lettore ce lo permetta – fu abbondantemente farcita, ridisegnata ed edulcorata dalle classi dirigenti centralistiche dell'ultimo secolo e mezzo, quanto invece vorremmo raccontare essa in maniera oggettiva, servendoci di austeri storici, lodevoli scrittori e cronache contemporanee. Faremo ciò, per riprendere echi del serenissimo Ugo Foscolo, con quella calma che più si addice ai ragionamenti da condursi scientificamente. Quasi mai nelle scuole viene affrontato questo tema né dibattuto né degnato della corretta importanza. Tenteremo di dare un contributo a quanti vorranno aprire dibattiti, tavoli di discussione o, più semplicemente, voler raccontare, per onor del vero, ciò che accadde veramente centocinquanta anni fa dall'Alpe a Sicilia. «Bisogna saldare i conti con la storia, riannodare i fili smarriti e non visti, riscoprire la grande ricchezza policentrica che abita nella varietà e nella differenza: questo è il “baricentro” politico e culturale che proietta il paese verso una “meta”, quella del federalismo. Questa è la “scossa” che bisogna dare al Paese per la sua rigenerazione sotto mutate sembianze istituzionali, quelle federali» Prof. S.B. Galli – La Padania, 25/7/2008 Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento CONTESTO INTERNAZIONALE Per comprendere gli eventi che hanno dato origine al Risorgimento e hanno portato nel 1861 alla formazione dello Stato italiano è necessario considerare brevemente il contesto politico internazionale della prima metà dell’Ottocento. L'Ottocento è un secolo importante per la storia moderna e per gli eventi che sarebbero seguiti; è possibile dire che in questo periodo era in corso una battaglia fra il nuovo ordine politico di natura democratico liberale contro i vecchi regimi monarchico-aristocratici, governati con la forma dell'assolutismo; sullo sfondo iniziavano a farsi largo anche le prime rivendicazioni di carattere socialista. Le conquiste di inizio secolo di Napoleone Bonaparte avevano consentito agli ideali nati con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese una rapida diffusione in tutta Europa. L’Italia del Nord costituì il laboratorio di prova per il genio militare del generale corso e, nei fatti, l’esordio per le baionette francesi che solo pochi anni dopo avrebbero conquistato la gran parte del Vecchio Continente. L’avanzata napoleonica però non si concretizzò soltanto nella conquista militare dei singoli territori, ma per un opera sistematica di smantellamento delle vecchie istituzioni e per la diffusione degli ideali e di nuovi simboli (il Tricolore italiano fu un'invenzione napoleonica ispirata al Tricolore francese) che avevano animato la fase iniziale della Rivoluzione. Si trattava di principi ed ideali che puntavano all’abbattimento delle vecchie monarchie assolute e di cui la borghesia europea seppe servirsi poi per svincolarsi dall’antico sistema a base aristocratica e porre le fondamenta per i più moderni stati liberali, maggiormente accondiscendenti verso i loro affari. DI MATTEO LAZZARO Questo fu il contesto nel quale si svilupparono, esattamente a metà del secolo, i moti del 1848 e quindi anche le Dieci Giornate di Brescia e le Cinque Giornale di Milano; si trattava di un fenomeno di natura europea, che non aveva nulla a che vedere con sentimenti di carattere nazionalistico o patriottico. Gli abitanti della Lombardia e del Veneto, che si ribellarono all'ordine costituito avanzavano rivendicazioni contro lo straniero, di natura assolutamente indipendentista o perlomeno volte all'ottenimento di una costituzione, seguendo il trend del momento. A Venezia venne infatti riproclamata da Daniele Manin (nipote dell'ultimo Doge) la repubblica, mentre a Milano, Carlo Cattaneo – fra i capi della rivolta – voleva una Lombardia autonoma che si autogovernasse con un sistema federale ispirato al modello svizzero e si oppose fermamente ai potentati locali quando decisero di chiamare in causa il Piemonte di Carlo Alberto. La propaganda patriottica però ci ha lasciato un'immagine di questi moti differente dalla realtà dei fatti: si è sempre parlato di sollevazioni spontanee “per fare l'Italia”, nel tentativo di attribuire al Risorgimento almeno un unico momento di reale partecipazione popolare, che però nei fatti non è mai esistito. Sul piano delle potenze in gioco lo scenario era complesso. Da una parte c'era una Francia che risollevava la testa dopo anni di confusione sotto la guida di Napolone III, nipote del grande conquistatore e che era fortemente interessata a contenere il potere dell'Impero Austro-ungarico sul continente. Sul teatro marittimo invece vi era l'Inghilterra, desiderosa di detronizzare i Borbone da Napoli per una serie di questioni, sia economiche Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento che personali. Henry John Temple di Palmerston, a capo del Governo inglese, odiava infatti Ferdinando II di Borbone per una faccenda privata concernente la nipote, Penelope Smith. La ragazza lasciò la buia Inghilterra per approdare nella soleggiata Napoli e non ci mise molto tempo ad ambientarsi, tanto che le dame di corte la soprannominarono – poco simpaticamente - “a' zoccola”. In effetti pare che la giovane saltasse di letto in letto fin quando non riuscì ad arrivare in quello di Carlo, fratello del sovrano che se ne invaghì e decise di sposarla. Al rifiuto di Federinando nell'acconsentire alle nozze i due iniziarono a girovagare per l'Europa, accumulando un mare di debiti. Quando Palmerston chiese al monarca duosiciliano di onorare i debiti della coppia ricevette un secco rifiuto. Al di là delle questioni private però, ciò che incrinò definitivamente i rapporti fra i due Stati furono i contenzioni sull'Isola Ferdinandea – apparsa e scomparsa nel mediterraneo nel giro di pochi mesi - e la questione dello zolfo. La Sicilia di allora possedeva alcuni dei giacimenti più cospicui al mondo dell'importante minerale e i Borbone avevano inizialmente concesso il monopolio sull'estrazione agli inglesi. Quando però si accorsero che le condizioni erano svantaggiose mutarono i termini dell'accordo, cosa che il Governo di Sua Maestà britannica non gradì affatto. La guerra commerciale rischiò di tramutarsi in guerra aperta e solo l'intervento degli Stati della Santa Alleanza scongiurò il conflitto, che comunque compromise definitivamente i rapporti fra l'Inghilterra e le Due Sicilie. Fu in quel frangente che i britannici decisero di aspettare l'occasione propizia per spodestare i Borbone dal trono di Napoli, occasione che prenderà forma concreta nella Spedizione dei Mille guidata da Garibaldi, ben noto negli ambienti massonici inglesi e persona gradita al Governo britannico. Infine vi era il piccolo Regno di Sardegna guidato dai Savoia, desideroso di realizzare il sogno di sempre: estendere i propri possedimenti a tutto il Nord Italia. Un Sovrano ambizioso e un Primo ministro capace di tessere rapporti internazionali impensati per uno Stato irrilevante sul piano internazionale, come era il Piemonte di allora, costituirono – assieme a tutta una serie di circostanze dovute alla contingenza storica e ad un clima romantico e ideologicamente fertile – la miscela giusta che porterà all'unificazione della Penisola. Un processo che coinvolgerà le elite ma non il popolo, se non come attore passivo in una serie di plebisciti palesemente artefatti. Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento CAVOUR E IL REGNO Il progetto di Cavour era chiaro e definito: suddividere amministrativamente il Regno in tre macroregioni, indicativamente rappresentabili come Nord (con la Sardegna), Centro e Sud. Ma partiamo dall’inizio. Nel 1846 quando era ancora sindaco di Grinzane e nascente imprenditore agricolo, scrisse un saggio sulle ferrovie (Des chemins de fer en Italie). Fin qui tutto potrebbe sembrare stranamente normale. Senonché argomentò che le ferrovie erano un importante strumento di modernizzazione, ed ipotizzava che avrebbero dato al territorio fra Torino e Venezia quella connotazione moderna ed industriale che era già scandita dalla vocazione europeista della Valle del Po. Immaginava, quindi, un’unità geopolitica forte per il Nord Italia. In un secondo tempo, quando il mandato di sindaco era un lontano ricordo che aveva lasciato spazio a ruoli ben più influenti, il 21 Luglio del 1858 Cavour si incontrò in gran segreto con Napoleone III nella località termale di Plombières-les-Bains (da cui il nome ai celebri “Accordi”). La volontà comune era di colpire l’Austria: Napoleone III la voleva indebolire, Cavour allontanare dal Lombardo-Veneto. Si discusse, dunque, anche dell’eventuale sistemazione geografica e politica una volta cacciati dalla penisola. Si prese spunto dall’idea di confederazione, sulla falsa riga della Confederazione Germanica, alla cui guida (espressamente simbolica) ci sarebbe stato il Papa. Si prefigurarono, così, tre macroregioni, più la città di Roma, decretate in tal maniera: - La Pianura Padana fino all’alveo del fiume Isonzo, la Sardegna e la Romagna pontificia, sotto la guida di Vittorio Emanuele II, avrebbero costituito il DEL NORD DI FABIO MOLINARI Regno del Nord - I territori pontifici (ad esclusione di Roma) sarebbero stati controllati dal Granducato di Toscana, formando un Regno dell’Italia centrale. Nel caso in cui Leopoldo II, di origini viennesi, reggente del Granducato, per la paura di finire in una morsa anti-austriaca, fosse fuggito al di là delle Alpi, avrebbe preso il comando del Regno centrale una certa Luisa Maria dei Borbone, duchessa di Parma, molto gradita al sovrano parigino. - Il Regno delle Due Sicilie come era già allora, governato da Ferdinando II. Qualora anch’egli fosse fuggito, Napoleone III vedeva di buon occhio la salita di Luciano Murat (figlio di Gioacchino). - La città di Roma, sede del Papa. Un progetto “sostenibile” perché avrebbe attutito l’impatto che le popolazioni invece ebbero con lo stato centralista. Un progetto, inoltre, “perspicace”, perché avrebbe stimolato maggiormente l’economia, allontanando lo spettro che secondo Cavour, cresciuto con ideali liberali e liberisti, poteva essere rappresentato dall’eccessiva intromissione dello stato in materia economica. Un progetto chiaro, dicevamo; fu talmente chiaro, quanto inapplicato. E la causa di ciò non fu imputabile direttamente allo statista torinese, quanto invece alla sua morte. Una crisi malarica, infatti, lo colse verso la fine di maggio del 1861, non lasciandogli scampo. Il bolognese Minghetti, nominato all’inizio della legislatura Ministro degli Interni del regno e poi suggerito come naturale successore, aveva il compito di portare a compimento tale progetto. Purtroppo, però, venne messo in minoranza da coloro che prediligevano uno stato unito e centralista, che fecero Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento PP R f i - F F 9 1 - PR f i una coalizione trasversale sostenendo la candidatura di Bettino Ricasoli. Quest’ultimo, riconoscente verso i suoi “elettori”, scelse di ritirare il progetto federativo. Era il 1865 quando si decretò con una legge che gli ordinamenti del Regno di Piemonte venissero estesi a tutto il paese. Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento GARIBALDI E I MILLE: L’impresa dei Mille, che fu guidata da Giuseppe Garibaldi, viene dipinta da sempre come l’episodio più importante del Risorgimento, il fatto storico che ha condotto, in ultima istanza, alla creazione dell’unità nazionale e alla proclamazione, il 17 marzo del 1861, del Regno d’Italia. La storia ufficiale, quella che è possibile leggere anche in molti sussidiari della scuola dell’obbligo, ci ha tramandato un’immagine romantica ed eroica dell’avvenimento, raccontando a generazioni di italiani le gesta dell’eroe dei due mondi e delle sue mille camicie rosse che, da sole e accolte a furor di popolo, avrebbero liberato il Meridione d’Italia dall’oppressivo giogo della retrograda e reazionaria monarchia borbonica. In realtà le cose non andarono proprio così. La narrazione tradizionale si è sempre contraddistinta per una serie di omissioni e falsificazioni finalizzate alla costruzione del mito fondativo della nazione, elemento indispensabile per creare, a posteriori, una qualche forma di sentimento nazionale. Nonostante ciò, e malgrado l’impegno delle classi dirigenti di tutte le epoche – da quella liberale passando per quella fascista e continuando in età repubblicana – il sentimento patriottico in l'Italia ha sempre trovato parecchie difficoltà ad assumere forma concreta. Nella descrizione a seguire cercheremo di ripercorrere, seppur con l’approssimazione imposta dalla brevità del testo, le tappe salienti dell’impresa dei Mille, lasciando poi al lettore le conclusioni finali sulla sua reale natura. Per prima cosa è necessario considerare i principali attori in campo, protagonisti, più o meno manifesti, di quella che potrebbe tranquillamente essere definita come una delle più LA GRANDE RECITA DI MATTEO LAZZARO grandi recite che la storia moderna abbia conosciuto. In tutta la vicenda la posizione del Regno di Sardegna, e quindi del Conte Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II, è certamente preponderante. Lo Stato piemontese, forte delle recenti vittorie conseguite ai danni dell'impero austriaco grazie all’aiuto di Napoleone III e dell’annessione, oltre che dell’area lombarda anche di gran parte del centro-Italia, era desideroso di estendere i propri possedimenti anche alla zona meridionale della Penisola. Il problema, a quel punto, era rappresentato dalla ricerca di un pretesto valido. Occorreva trovare una casus belli per invade il Regno delle Due Sicilie, cercando contemporaneamente di fare attenzione a non compromettere la propria precaria posizione internazionale, in particolare nei riguardi della Francia che iniziava a temere le mire espansionistiche dei Savoia. Si decise quindi di agire di nascosto, arrivando infine alla conclusione che per ottenere il controllo del Mezzogiorno, e allo stesso tempo salvare la faccia, era necessaria una sollevazione spontanea del popolo. Solo a quel punto l’esercito piemontese avrebbe potuto intervenire e, con la scusa di ripristinare l’ordine, prendere il controllo dello Stato duosiciliano. L’anello debole del Regno dei Borbone era rappresentato certamente dalla Sicilia, le cui pulsioni indipendentiste si erano apertamente manifestate nei moti di Palermo del 1848. Occorreva quindi l'intervento di un fattore esterno, qualcuno che potesse essere in grado di far sollevare il popolo contro il proprio sovrano. Giuseppe Garibaldi, la cui fama era già ampiamente diffusa, Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento rappresentava la persona più adatta allo scopo. L’altro attore su cui vale la pena soffermarsi è l’Inghilterra. In questo caso i protagonisti sono il Primo ministro Henry John Temple, visconte di Palmerston e Lord William Gladstone, politico inglese e membro di spicco della massoneria. Questi signori si adoperarono in maniera tutt’altro che marginale per fare in modo che la spedizione dei Mille andasse a buon fine. Gli interessi dell’Inghilterra e della massoneria internazionale, di cui entrambi i due signori sopraccitati erano illustri esponenti, erano chiari: da una parte detronizzare i Borbone, impossessandosi del mercato dello zolfo e facendogli pagare a caro prezzo il contenzioso avvenuto solo pochi anni prima, dall’altra – per quanto concerne la massoneria – arrivare a colpire il nemico giurato di sempre: la Chiesa cattolica, accerchiandola territorialmente e, se fosse stato possibile, facendo arrivare Garibaldi (anch’esso massone) fino a Roma. La massoneria di Edimburgo in particolare si diede da fare con grande efficienza nella raccolta dei fondi: con un’operazione che coinvolgeva anche i coloni del New England, riuscì a raccogliere una cifra superiore ai tre milioni di franchi francesi, convertiti successivamente in un milione di piastre turche, le monete maggiormente utilizzate nelle transazioni commerciali nel Mediterraneo di allora. Oltre a questi il governo piemontese riuscì a racimolare una cifra di due milioni di franchi d’oro, in aggiunta ad un fondo di novantamila lire affidate ad Agostino Bertani, garibaldino, che da Genova avrebbe gestito i soldi destinati alla “buona riuscita della missione”. Tradotto: quel denaro sarebbe servito al generale nizzardo (ma anche all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano e ad alti ufficiali della marina inglese) per la meticolosa e sistematica opera di corruzione degli ufficiali borbonici che, ben farciti di pecunia e forti della promessa di essere ricollocati con medesimo grado nel nuovo esercito unitario, avrebbero permesso a mille volontari male in armi di “sconfiggere” un esercito addestrato e bene armato di oltre 90.000 uomini. Il 5 maggio del 1860 i Mille si imbarcarono a Quarto per iniziare la loro discesa via mare verso la Sicilia. Il giorno della partenza venne simulato il sequestro di due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, in realtà regolarmente acquistati per conto di Cavour e Vittorio Emanuele II dall'armatore Raffaele Rubattino. La compagnia che salpò dalla Liguria era variopinta ed eterogenea: c'erano intellettuali, idealisti, persone appartenenti a ceti sociali medio-alti, e non mancavano anche delinquenti e impostori che fuggivano da qualcosa o da qualcuno; quello che è certo però è che operai, contadini e braccianti – che in quegli anni costituivano la stragrande maggioranza della popolazione – erano pochissimi. Garibaldi nelle sue memorie li definirà in questi termini: “Belli! Eran belli quei miei giovani veterani della libertà italiana.” Ciononostante lo stesso Garibaldi, in un suo discorso durante la seduta del Parlamento di Torino del 5 dicembre 1861, ne tracciò una descrizione decisamente differente: “Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra, e tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto.” La partenza riservò a quella singolare spedizione qualche imprevisto: i motori del Lombardo non ne volevano sapere di partire e così fu trascinato a rimorchio dal Piemonte. Anche sul viaggio che i due vapori dovettero affrontare per arrivare in Sicilia c'è sempre stato un certo Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento silenzio. Pochi sanno di un certo malumore che correva fra la ciurma del Lombardo, energicamente stroncato da Nino Bixio, braccio destro del generale di Nizza e, naturalmente, influente membro della loggia massonica Trionfo ligure. Altro “dettaglio” non poco irrilevante sta nella tranquillità con cui i Mille arrivarono a Marsala. E non fu una cosa normale perché, ed è bene specificarlo, il Regno delle Due Sicilie disponeva di una delle flotte più numerose e meglio equipaggiate dell'intero Mediterraneo. Come è stato possibile quindi, per due piroscafi piuttosto sgangherati, sfuggire ai pattugliamenti delle corvette borboniche per un tratto di mare così lungo? La storia delle scuole italiane anche su questo non si fa troppe domande e tace. Naturalmente la spiegazione sta, come di consueto, nell'azione coordinata dei protettori occulti dell'impresa. Da un lato infatti c'era l'ammiraglio Persano della flotta piemontese, che ricevette nel medesimo giorno due lettere di Cavour: la prima, quella ufficiale, conteneva l'ordine di fermare Garibaldi; la seconda, segreta, forniva indicazioni diametralmente opposte, ovvero chiedeva al comandante di navigare fra i barconi dei garibaldini e gli incrociatori napoletani per evitare che questi venissero affondati. Dall'alta parte invece c'era l'utile sostegno del Contrammiraglio Mundy, della marina inglese, che inviò due navi da guerra, l'Intrepid e l'Argus nel porto di Marsala, per scortare e fornire protezione a Garibaldi e ai suoi uomini durante le operazioni di sbarco. Sbarcare i garibaldini proprio a Marsala non fu una causalità e nemmeno una scelta dovuta a qualche tatticismo bellico. La città era – di fatto – una colonia inglese e praticamente tutti quelli che erano al corrente del complotto sapevano che dovevano farsi trovare pronti. Ufficiali napoletani precedentemente corrotti compresi. Quattro giorni dopo lo sbarco, il 15 maggio del 1860, si svolse a Pianto Romano quella che passerà alla storia come la battaglia di Calatafimi, che rappresenta il primo scontro fra le camicie rosse e le truppe borboniche, comandate in quell'occasione dal generale ultrasettantenne Francesco Landi. In realtà però non avvenne nessuno scontro degno di questo nome in quanto l'alto ufficiale duosiciliano, nonostante la sovverchiante superiorità numerica decise ad un certo punto – dopo una blanda guerriglia – di suonare la ritirata. Pare che il prezzo per il tradimento di Landi ammontasse a 14 mila ducati d'oro, che il generale cercò di riscuotere a guerra terminata. Quando però scoprì che il titolo di pagamento era falso, proprio davanti al funzionario di banca che glie ne dava notizia, venne colto da un ictus che nel giro di un anno l'avrebbe ucciso. Ciò che è importante evidenziare è che questa prima “battaglia” permise l'entrata in scena di nuovi soggetti. In primo luogo i baroni, dietro i quali si celava la massoneria locale, e che si erano ormai persuasi che il copione era già stato scritto. Poi c'erano i contadini, ammaliati dalle promesse di Garibaldi su una futura redistribuzione delle terre. E infine la mafia, sempre combattuta dai Borbone, e che vedeva nei nuovi arrivati un buon pretesto per sbarazzarsene. I picciotti, fornirono nuove forze alle truppe di Garibaldi e gli spianarono la strada, paese per paese, verso Palermo. Nei giorni precedenti lo scontro e lo sbarco gli esponenti più importanti della mala siciliana erano stati contattati da Giovanni Corrao, mafioso e contemporaneamente patriota e proprio lui convinse i capi locali che era giunta l'ora di dare una spallata al vecchio regime per abbracciare la causa di quello nuovo, Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento con un centro di potere (Torino) più lontano a cui sarebbe stato più complicato controllare il territorio. Successivamente si mossero a migliaia da oltre 30 paesi della provincia di Palermo per unirsi alla marcia dei garibaldini e preparare la loro avanzata: mano a mano che Garibaldi proseguiva veniva accolto da folle festanti che lo accoglievano come un liberatore, gli preparavano banchetti, ma soprattutto gli aprivano le casse dei municipi. Un’euforia che presto però si trasformerà in rabbia, come provato dai fatti di Bronte. Nella difesa di Palermo i borbonici non diedero una prova migliore rispetto a quanto dimostrato durante la battaglia di Calatafimi. Il generale Ferdinando Lanza, al comando di 18 mila uomini avrebbe potuto facilmente ricacciare l'invasore; ai Mille si erano aggiunti altri 2200 volontari, fra picciotti e contadini raccolti strada facendo, una cifra nettamente inferiore rispetto all'esercito comandato dal generale napoletano. La situazione a Palermo era stata resa difficoltosa dallo scoppio di una rivolta, fomentata dai mafiosi che si presero la briga di aprire le porte delle carceri della Vicaria permettendo ad oltre 2 mila tagliagole di mettere a ferro e fuoco la città. Furono tre giorni di disordini in cui, anche stavolta gli ufficiali borbonici non brillarono per efficienza, salvo poche eccezioni. Mentre infatti i generali Colonna e Sury stavano iniziando il contrattacco e si apprestavano a spezzare le fila delle camicie rosse, accadde qualcosa di incredibile: con un ordine il generale Lanza aveva intimato ai suoi ufficiali la ritirata. Era appena stata firmata la resa. In effetti pare che Ferdinando Lanza fece tutto il possibile per agevolare la vittoria del proprio nemico: non impiegò tutte le sue forze, diede ordine di bombardare i quartieri popolari di Palermo e questo ebbe come unica conseguenza di guadagnare il popolo alla causa di Garibaldi e infine – come se non bastasse – fra le concessioni contenute nella tregua, vi era l'occupazione del Banco delle Due Sicilie, da cui Garibaldi farà subitaneamente prelevare 1 milione di ducati d'oro, quantificabili in circa 230 milioni degli odierni euro. Infine vanno notate le pressioni fatte da Lanza, prima dello sbarco dei Mille, per l'assunzione al telegrafo di Napoli di tale Bozza, piemontese, che aveva il compito di ritardare la consegna delle missive dal fronte, omettere passaggi delle comunicazioni e probabilmente, in qualche caso, anche di ribaltarne completamente il senso. Con la presa di Palermo, con la vittoria di Milazzo e con l’inspiegabile ritirata di 18 mila soldati borbonici da Messina, Garibaldi controllava l'isola e si proclamò dittatore della Sicilia; adesso era pronto per lo sbarco verso il continente. Quando l'eco delle vittorie di Garibaldi arrivò a Napoli la situazione iniziò a sfuggire di mano e il panico e la confusione la fecero da padroni. Il sovrano, Francesco II di Borbone, che non aveva certamente il polso del padre Ferdinando, non riusciva a prendere decisioni chiare sul da farsi e preferiva, da fervente credente quale era, affidarsi a Dio. Oltre a ciò la presenza di una corte pullulante di traditori, doppiogiochisti, di vili e di incapaci e non ha certamente aiutato un sovrano giovane e inesperto in una situazione che iniziava a divenire critica. Contemporaneamente le notizie che giungevano dalla Sicilia avevano galvanizzato i liberali napoletani e iniziarono a verificarsi i primi tumulti nelle piazze. A questo punto Francesco, su pressione del Pontefice, emanò una nuova costituzione che però non venne accolta dai napoletani con grande entusiasmo e quindi non sortì gli effetti Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento desiderati. Intimorito dal perdurare delle rivolte il re decise di proclamare lo stato d'assedio e di nominare come prefetto e ministro della polizia don Liborio Romano. Questo pugliese astuto e spregiudicato non ci mise molto a rendersi conto che le forze di polizia non bastavano per prendere in mano la situazione; decise quindi di rivolgersi all'unica organizzazione in grado di mantenere l'ordine in città: la camorra. Mastro Tredici, Torè Crescenzo e altri importanti nomi della malavita locale furono nominati a capo della milizia cittadina e, nonostante le violenze arbitrarie e le angherie perpetrare ai danni dei civili, riuscirono effettivamente a sedare le rivolte permettendo alla città partenopea di non cadere nell'anarchia. Sul piano internazionale, l'Austria accusava il Piemonte di essere il principale mandante di Garibaldi mentre Napoleone III, sempre più preoccupato degli avvenimenti che si stavano verificando e convinto che la conquista della Sicilia facesse parte del disegno inglese di costruire una “Malta più grande”, fece pressione su Cavour perché fermasse l'avanzata di Garibaldi. Dal canto suo il Primo ministro piemontese non desiderava affatto che il generale nizzardo riuscisse ad arrivare a Napoli. Il suo progetto non era cambiato rispetto al passato e temeva che Garibaldi, una volta conquistato tutto il Regno delle Due Sicilie, potesse proclamare la repubblica. Decise quindi che la cosa migliore da fare era fomentare una ribellione “spontanea” fra la popolazione napoletana prima dell'arrivo dei garibaldini, in modo tale da permettere la creazione di un governo di moderati manovrato a distanza da Torino. Per fare ciò diede attente disposizioni all'ammiraglio Persano, ordinandogli di attraccare a Napoli e di fare opera di corruzione degli ufficiali duosiciliani e spianare la strada al suo progetto. Nel contempo il Conte piemontese, sollecitato da Napoleone III, fece pressione su Vittorio Emanuele II perché ordinasse a Garibaldi di fermarsi. Venne quindi inviata una lettera ufficiale in cui il Re di Sardegna chiedeva al generale di non sbarcare sul continente e conservare la posizione in Sicilia. A questo punto ci fu un altro colpo di scena: Garibaldi, con grande sorpresa di Cavour, decise di disobbedire agli ordini del sovrano e di continuare la sua impresa. Quello che il Primo ministro piemontese non sapeva però era che assieme alla lettera ufficiale in cui il Re chiedeva al generale di arrestare l'avanzata, ne era stata recapitata un altra – segreta – dove invece lo esortava a proseguire con le proprie truppe alla volta di Napoli. Vittorio Emanuele aveva stavolta deciso di disattendere le indicazioni del “grande tessitore” per perseguire il suo personalissimo disegno di conquista. L'avanzata di Garibaldi dalla Calabria non incontrò resistenze di rilievo, i generali napoletani ordinavano la ritirata e questo provocò non pochi incidenti nelle file dell'esercito borbonico. La truppa e gli ufficiali più giovani, fedeli alla corona, iniziarono a contestare pesantemente i propri comandanti, e in qualche caso non esitarono a passarli sotto il ferro delle armi. Un esempio fra i tanti è quello della sorte che spettò al generale Fileno Briganti che venne aggredito dai suoi stessi uomini che gli rimproverarono di essersi arreso senza combattere: venne ammazzato a fucilate e ne straziarono il cadavere. Intanto a Napoli la situazione era nuovamente sfuggita di mano, anche a causa della presenza di 3000 bersaglieri al comando di Persano stazionati nel porto. In questa confusione era Liborio Romano, grazie alla camorra, a detenere il controllo effettivo della città. Francesco II, dopo Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento tanti tentennamenti prese la decisione di assumere direttamente il controllo dell'esercito (gli restavano ancora diverse decine di migliaia di uomini fedeli) e di lasciare Napoli per trasferirsi a Gaeta e costruire una linea difensiva tra le fortezze di Gaeta e di Capua e fra i fiumi Volturno e Garigliano. Dopo appena due ore dopo la partenza del monarca, Romano (che formalmente era ancora un ministro dei Borbone) telegrafava a Garibaldi: “con maggior impazienza Napoli attende il vostro arrivo per salutare il redentore d'Italia e mettere nelle vostre mani i poteri dello Stato e i propri destini.” L'ingresso di Garibaldi in città, il 7 settembre, segnò l'inizio di un'amministrazione provvisoria con lo stesso Liborio Romano, ora nella veste di ministro garibaldino, ad occuparsi dell'ordine pubblico; nuovamente saranno i suoi buoni uffici con Toré De Crescenzo a permettere alla camorra di occuparsi della “sicurezza cittadina”, nell'attesa che Bixio arrivasse con il grosso delle camice rosse; in questo frangente i regolamenti di conti fra camorristi e funzionari di polizia divennero quotidiani. L'amministrazione provvisoria di Garibaldi fu discutibile anche per quanto riguardava la gestione delle risorse economiche dello Stato. Il giorno stesso del suo ingresso in città – con decreto firmato da se stesso – si attribuì pieni poteri sui depositi del Banco delle Due Sicilie. Al momento della conquista, le casse del Regno di Napoli erano quelle con la maggiore quantità di denaro liquido fra tutti gli Stati della Penisola: si parla di circa 33 milioni di ducati, quantificabili in 750 miliardi di odierni euro che nel giro di pochi mesi sparirono nel nulla, dilapidati da una gestione decisamente scriteriata del denaro altrui. L'ambasciatore inglese a Napoli, Sir Elliot, in un rapporto al suo governo, parlava della gestione garibaldina in questi termini: “ le condizioni del Paese sono le peggiori immaginabili. Tutti i vecchi soprusi continuano, a volte esagerati dai nuovi funzionari, i quali gettano in carcere la gente o la fanno fustigare per il minimo sospetto, per il più lieve indizio di cattiva condotta politica, mentre i vari crimini rimangono affatto impuniti (…) esiste una spiccata inclinazione ad accaparrarsi le proprietà altrui.” Nel frattempo l'esercito sabaudo varcò i confini dello Stato Pontificio, naturalmente – come da prassi – senza una formale dichiarazione di guerra, e si apprestava a raggiungere il Regno delle Due Sicilie passando da terra. Alla vigilia della battaglia “finale”, il 30 settembre del 1860 le forze in campo sul Volturno erano a favore dei napoletani: da un lato 28 mila soldati e dall'altro 23 mila garibaldini, su posizioni svantaggiate rispetto al nemico. I borbonici erano assediati: a sud c'erano i volontari in camicia rossa del generale nizzardo, a nord si stava avvicinando velocemente Vittorio Emanuele II alla guida del suo esercito. In effetti la battaglia fu molto dura, e l'esito rimase incerto fino alla fine; Francesco II dal canto suo dimostrò molto più coraggio di quanto non si potesse immaginare ma, dopo 12 ore e grazie ai rinforzi giunti da Napoli, la vittoria fu dell'esercito di Garibaldi. Si trattò dell'ultima battaglia effettiva del generale nell'ambito della spedizione dei Mille; dell'assedio alla fortezza di Gaeta, che durò per un centinaio di giorni, fino al febbraio dell'anno successivo, si occuparono direttamente le truppe piemontesi. La consegna diretta dei territori “conquistati” da Garibaldi a Vittorio Emanuele avvenne infine la mattina del 26 ottobre, in una cittadina vicina a Casera, Teano. Questa fu la data che segnò la fine ufficiale del Regno delle Due Sicilie. Quello che seguì dopo Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento saranno un susseguirsi di rivolte locali che getteranno il Meridione d'Italia nel caos e che diedero vita al fenomeno noto impropriamente con il nome di “brigantaggio”. Si trattava in realtà di una vera e propria guerra di secessione combattuta da ex militari borbonici e da larga parte del popolo per acquistare indipendenza dal nuovo padrone, rivelatosi, in ultima istanza, peggiore del primo, perché più oppressivo e maggiormente crudele. Per sedare le rivolte continue vennero inviati oltre 100 mila soldati piemontesi in pianta stabile, che per oltre un decennio utilizzeranno violenza inaudita con esecuzioni sommarie e saccheggi nel tentativo di ripristinare l'ordine nel Mezzogiorno. Un modo decisamente insolito di trattare i propri “fratelli italiani”. Molti dei militari napoletani che decidettero di non indossare l'uniforme italiana alla fine del conflitto furono deportati in campi di prigionia in Lombardia e in Piemonte. Alla fine del 1861 si calcolava la presenza di circa 32 mila prigionieri in condizioni disumane, dislocati fra le fortezze di Alessandria, Milano, Bergamo e nelle prigioni di Fenestrelle e di San Maurizio Canavese. Per chi non si era schierato con i Savoia la punizione doveva essere esemplare; non c'era alcuna pietà, ne rispetto, per chi non collaborava e non abbracciava la causa dei nuovi padroni. Si trattò del lato più oscuro e vergognoso del Risorgimento, quello di cui è meglio non parlare e quello su cui – in effetti – si è sempre taciuto. Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento 1866: IL PLEBISCITO TRUFFA Quante volte a scuola ci hanno indottrinato dicendoci che il plebiscito del 1866 in Veneto si svolse tra grandi festeggiamenti e in un clima di festa? Fu davvero così? La Serenissima Repubblica era stata indipendente per più di un millennio e si accingeva a passare sotto il dominio italiano, i cui eserciti erano stati battuti "per terra", ma soprattutto "per mare", al grido di "Viva San Marco". Davvero il Popolo Veneto desiderava sottomettersi "festosamente" al conquistatore che aveva sconfitto? E perché nonostante la sconfitta su tutti i fronti, l'Italia ottenne comunque il Veneto? A partire dal 1861, dopo la II guerra d'indipendenza, l'Italia, ancora priva del Veneto, aveva iniziato a progettare la conquista delle Venezie per completare la tanto agognata unità. L'occasione d'oro intervenne nel 1865 quando la Prussia contattò l'Italia per condurre una guerra parallela contro l'Austria. Spinta dalle pressioni della Francia, l'Italia concluse le trattative e stipulò un'alleanza militare. La Prussia assicurò che, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Veneto, ma non il Trentino, salvo che riuscisse a conquistarselo. Preoccupato dal reale pericolo di un nostro possibile, quanto probabile, voltafaccia, che sarebbe stato il primo di una lunga serie, Bismarck prese l'iniziativa: il 12 giugno 1866 ruppe le relazioni diplomatiche con l'Impero Austriaco e il 16 giugno diede inizio alle manovre militari. Nonostante varie richieste di intervento da parte del capo del governo prussiano, diversamente da quanto previsto nel trattato, l'Italia dichiarò guerra con 4 giorni di ritardo. Come se non bastasse, l'inizio delle operazioni militari subì altri 3 giorni di ritardo, in quanto era sorta una disputa tra i generali La Marmora e Cialdini, alla IN VENETO DI FILIPPPO FRIGERIO testa rispettivamente di 12 e 8 divisioni dell'esercito italiano, circa l'attribuzione del comando dell'intera operazione. Il piano d'attacco era stato scritto all'ultimo momento e conteneva una serie di errori strategici che ebbero effetti tragici. Le divisioni italiane al comando di La Marmora, dopo una breve avanzata in territorio Veneto, furono fermate dagli austriaci e, nella piana di Custoza ricevettero una sconfitta colossale. Gli austriaci, inferiori per numero e dopo aver subito perdite doppie rispetto a quelle degli italiani, rimasero fermi ai loro posti, mentre gli italiani fuggirono oltrepassando il Mincio in una ritirata disordinata. Nel frattempo i prussiani stavano ottenendo schiaccianti successi e i soldati austriaci impegnati nella Pianura Padana, ricevettero l'ordine di tornare in Patria per difendere Vienna. Tutto questo mentre Garibaldi, con le sue truppe mal equipaggiate, era riuscito a penetrare in Trentino e arrivare, senza tante preoccupazioni, alla vista delle mura della città di Trento. Non andò meglio per mare il 20 Luglio 1866 dove, a Lissa, la Regia Marina Militare, notevolmente superiore in quanto a numero e qualità delle navi, venne sconfitta dalla Marina AustroVeneta, comandata da Tegetthoff il quale, nonostante fosse austriaco, impartì gli ordini ai marinai in Lingua Veneta. Dopo l'affondamento della Re d'Italia, si levò un grido: "Viva San Marco!". La cocente disfatta fu dovuta alla scarsa considerazione nutrita dall'ammiraglio Persano nei confronti dei suoi subalterni; questa sfiducia era adeguatamente ricambiata da questi ultimi. Senza più un avversario contro cui combattere, Cialdini stava intanto Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento penetrando nel Veneto e arrivò presto fino all'Isonzo, dove ricevette un telegramma che gli intimava di fermarsi, in quanto la Prussia aveva concluso un armistizio separato con l'Austria. Il trattato di pace, stipulato a Vienna il 3 Ottobre 1866, prevedeva, come da richiesta dello sconfitto Impero Austriaco, che il Veneto non passasse direttamente nelle mani del Regno d'Italia, ma dovessero essere preventivamente consultate le popolazioni locali mediante un plebiscito. Nel frattempo il Veneto sarebbe stato ceduto alla Francia. Benché il plebiscito fosse previsto il 2122 Ottobre 1866, 2 giorni prima, il 19 Ottobre, nell'Hotel Europa sul Canal Grande di Venezia, come riportano le fonti e anche molti giornali dell'epoca, la Francia, per mano del Generale Le Bouef, consegnò il Veneto nelle mani del Commissario Regio. La cessione ufficiale del Veneto avvenne 2 giorni prima del plebiscito e la Francia rifiutò il suo ruolo di garante internazionale. Le operazioni di voto si svolsero in un modo che, definire da regime totalitario, farebbe impallidire sia l'Italia fascista che il Terzo Reich nazista. La regione era occupata, nel vero senso del termine, da truppe italiane, che, in quel contesto, erano truppe straniere e avrebbero dovuto vigilare sulla regolarità delle operazioni. Invece di fare ciò, l'esercito si rese colpevole di diverse ingerenze: le fonti riportano che i militari fecero di tutto per assicurarsi la più ampia collaborazione delle autorità cittadine e del clero affinché il popolo votasse compatto per l'unione al "tanto sospirato Regno d'Italia". Le elezioni si svolsero con il suffragio universale maschile (si ricordi che la maggiore età si acquisiva a 21 anni). Ammesse a votare erano, quindi, circa 2.500.000 persone. La campagna elettorale fu condotta mediante l'utilizzo di manifesti che intimidivano il popolo facendo credere che il voto al SI fosse un gesto di dimostrazione di libertà mentre votare NO era da vigliacchi. Il 15 luglio 1866 la "Gazzetta di Firenze scriveva: "Supponiamo un momento che i Veneti si pronunziassero per regno separato. Potrebbe l'Italia permettere cotesta diserzione? O non dovrebbe invece ritenere per forza d'armi una provincia che è necessaria alla politica esistente della nazione?". La "Gazzetta di Verona" del 17 Ottobre dice: "...SI vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell'Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia". Alcune persone che dichiaratamente si battevano per il NO, furono presto mandate in esilio, salvo poi farle rientrare dopo la "vittoria" del SI nel plebiscito. Le schede elettorali erano 2: in una vi era un SI grande con scritto sotto: "Dichiariamo la nostra unione al Regno d'Italia sotto il governo monarchico costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e de' suoi successori", mentre nella scheda del NO vi era solo scritto NO. Nel seggio elettorale vi erano due urne, Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento una per il SI e una per il NO, poste su un tavolo. L'elettore entrava nel seggio, pronunciava ad alta voce il suo nome e consegnava la scheda nelle mani del presidente che la depositava nell'urna. C'erano due registri: in uno venivano segnati i nomi dei votanti e nell'altro venivano segnati i nomi di coloro che votavano NO. Registri separati? Urne separate? Che esempio di democrazia. Tutto si svolgeva sotto il controllo vigile di un carabiniere in alta uniforme e di una foto gigante del Re Vittorio Emanuele II. Con un clima intimidatorio siffatto, non stupisce il risultato, a dir poco, bulgaro: 641.758 SI, 69 NO, 243 NULLE; un simile risultato non si ricorda nemmeno sotto i regimi totalitari più feroci. "Tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia", affermò nel 1966 Achille Saitta. Basta leggere le, seppur esigue, fonti dell'epoca per capire che i Veneti vissero il plebiscito non come una gioia, ma come un'imposizione calata dall'alto e di cui si disinteressarono totalmente, riconoscendo che i giochi fossero già fatti. A Valdagno, un paese in provincia di Vicenza, alcune fonti riportano che moltissimi contadini si rifiutarono di andare a votare convinti che non servisse sprecare il tempo perché i risultati erano già decisi; preferirono non perdere una giornata che si poteva dedicare al lavoro nei campi. Infatti su 2.500.000 circa ammessi al voto è significativo notare che votò effettivamente solo il 25,5% circa della popolazione. Nel 1903 lo storico Luigi Sutto di Rovigo, incaricato di raccogliere i dati per il Museo del Risorgimento, fece notare che né i comuni né le prefetture avevano, o dicevano di avere, le schede del plebiscito. Dove sono finite le schede? Secondo il trattato, i seggi dovevano trasmetterle alle prefetture, le quali poi avrebbero confermato l'efficacia o meno della votazione. Le "universali manifestazioni di gioia", se anche ci fossero state, sarebbero state presto dimenticate dal Popolo Veneto oppresso dal regime fiscale dello Stato Italiano, da una mole di burocrazia e di forze dell'ordine sconosciuta sotto le precedenti gestioni francese e austriaca. Basti pensare che le manifestazioni religiose, momento di festa paesana e fulcro della vita cittadina, furono annullate in quanto potenzialmente pericolose per l'ordine pubblico. La coscrizione obbligatoria, ossia il reclutamento nelle forze armate dei giovani per un periodo di 6 anni, introdotta dal Regno d'Italia ed estesa anche al Veneto, privò le famiglie dei giovani forti che contribuivano al lavoro nei campi, causando un impoverimento delle condizioni di vita, già duramente inasprite dall'aspra tassazione. Ad aggravare la situazione, nel 1869 il Governo introdusse la tanto contestata "tassa sul macinato", la quale doveva essere pagata direttamente al mugnaio. Considerando che l'alimentazione delle famiglie era soprattutto fatta dalla polenta, la nuova imposta impoverì notevolmente e ulteriormente le famiglie stremate e contribuì ad accrescere la conflittualità sociale. Le tensioni fecero scoppiare numerose rivolte a Thiene, S. Germano, Vicenza, Cavarzere, Cadore, Legnago, Polesine. Di queste manifestazioni non si trova Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento traccia nella letteratura storica per le scuole. Qualcuno ha forse paura della verità? Oppressi, sfruttati e spremuti fino all'osso, i nostri avi Veneti non trovarono altra alternativa se non quella di emigrare lontano dalla neo-patria che, secondo la storiografia ufficiale, avevano così festeggiato fino al giorno prima. Nel periodo 1876-1900, contrariamente a quanto si pensa, fuoriuscirono più emigranti dal Veneto che da tutte le altre regioni. L'arrivo degli italiani ebbe come diretta conseguenza la partenza dei Veneti: in totale ben 940.711 persone, una grossa fetta della popolazione, cercarono fortuna altrove tra USA, Brasile, Argentina e via dicendo. In Brasile esistono ancora adesso dei paesi e delle città fondate dai Veneti: Nova Vicenza, Nova Padova e Nova Bassano; in queste comunità la Lingua Veneta è ancora correntemente parlata. L'astio del Popolo Veneto, nei confronti del conquistatore oppressore, lo ritroviamo anche in alcune filastrocche che vengono tramandate dalle fonti (scarse) dell'epoca: "Co san Marco comandava (quando comandava San Marco) se disnava e se senava (si faceva pranzo e si cenava) Soto Franza, brava gente (sotto la Francia che era brava gente) se disnava solamente (si cenava solamente) Soto Casa de Lorena (sotto la casa Lorena) non se disna e no se sena (niente pranzo e niente cena) Soto Casa de Savoia (mentre sotto Casa Savoia) de magnar te ga voja (di mangiar hai solo voglia)." Oppure un altro detto molto famoso, riguardo alla grande mole di emigranti: "Savoja, Savoja, intanto noaltri...andemo via... vaca troja..". La storia vera, quella attinta dalle fonti, dimostra che i libri scolastici sono stati costruiti in modo da fornire una ricostruzione parziale e tesa a dimostrare che gli eventi si svolsero tra la gioia e le acclamazioni popolari, ma non fu così. Fortunatamente, la storiografia italiana non è riuscita a cancellare tutte le tracce di quella che fu, a tutti gli effetti, una guerra di conquista di un territorio utile economicamente e prestigioso. Lo scotto di quel periodo lo paghiamo ancora oggi: siamo costretti a lavorare e a vedere i frutti delle tante fatiche sottratti al nostro Popolo per mantenere chi è stato abituato a pretendere e ricevere soltanto. Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento CHI DOMANDE & RISPOSTE SI CELAVA DIETRO L'IMPRESA GARIBALDINA? Lo stesso Giuseppe Garibaldi – come conferma l’avvocato Gustavo Raffi, odierno Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia – fu un’importantissima colonna portante della Massoneria preunitaria. Non ci appare dunque difficile evidenziare i legami che la sua impresa ebbe con gli ambienti massonici dell’epoca. Tali collegamenti non si fermarono solo “localmente” alle logge Siciliane e Calabresi, ma andarono ben oltre: lo sbarco e la relativa conquista del Regno Borbonico furono supervisionati, e coadiuvati dall’impegno della stessa Inghilterra. A largo di Marsala, nel 1860, vi erano le navi “Intrepid” e “H.M.S. Argus”, che battevano bandiera inglese. Lo stesso Garibaldi, infatti, qualche mese prima della sua spedizione incontrò in Gran Bretagna i rappresentanti della massoneria inglese e li persuase a sostenere, militarmente ed economicamente, l’impresa. Possiamo leggere ciò da alcuni documenti storici. Per esempio uno, edito nel 1868 a Livorno con titolo “Roma, Napoleone III e i ministeri italiani sguardo al passato e all'avvenire”, racconta «Senza l'aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora Borbonica, senza I' Ammiraglio Mundy, non avrei potuto giammai passare lo stretto di Messina». Queste parole sono a firma dello stesso “eroe dei due mondi”. Com’è possibile, dunque, che un esercito organizzato e di professionisti, come quello Borbonico, di ben 25000 uomini a disposizione solo per il fronte garibaldino, abbia perso contro un contingente di 1000 volontari? Ad esempio, fonti storiche ci tramandano che il Generale Landi, uno dei capi della milizia Borbonica in Sicilia, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito addirittura falsi. Prima che ovviamente potesse scoprirlo, diede ai suoi luogotenenti l’ordine di non combattere l’invasione. Inoltre l’impresa fu finanziata con una somma spaventosa di “piastre turche” (equivalente a molti odierni milioni di euro), con i quali il generale nizzardo poté corrompere generali, alti funzionari e ministri borbonici. Accadde dunque che il soldo sconfisse la libertà di un popolo. Cavour rese pubblico il suo disegno di un’Italia divisa in tre autonome macroregioni (nord, centro e sud) ben prima degli accordi di Plombieres. Infatti nel 1846, quando era ancora un emergente imprenditore agricolo e sindaco di Grinzane, parlava di un Nord Italia, affacciato sul Po, come una forte entità geopolitica dalla vocazione europeista. Il territorio che andava da Torino a Venezia doveva essere, secondo Cavour, valorizzato (Cavour parla di una fitta rette ferroviaria) andando ad estendersi pian piano fino all’Emilia e alle Marche. Fu però nel 1858 con gli Accordi di Plombieres che questa idea prendeva forma “ufficiale”: veniva lasciata a Napoleone III la possibilità di esercitare direttamente la propria influenza sul regno dell’Italia centrale (Stato Pontificio in aggiunta al Granducato di Toscana) e sul regno meridionale, affidato a Luciano Murat, lontano cugino del sovrano francese. In cambio, Cavour avrebbe ottenuto il lasciapassare per costituire un regno del Nord, comprendente i territori dello stato sabaudo, il lombardo-veneto, l’Emilia e la Romagna. Per questo disegno, Napoleone III avrebbe ottenuto dal conte piemontese i territori di Nizza e la Savoia. Gli scopi dei due sottoscriventi erano diametralmente opposti: con il Nord, Cavour contava di poter giungere ad avere il totale controllo economico del mercato a sud delle alpi, mentre Napoleone III pensava che possedendo, più o meno direttamente, l’Italia centro-meridionale, avrebbe esercitato una fortissima influenza anche su Torino, andando, de facto, a costituire nell’odierna Italia uno stato satellite di Parigi. Tutto il progetto sfumò quando – con rivolte di tipo insurrezionale a cavallo della Seconda Guerra d’Indipendenza – si palesò la indisponibilità di realtà come Firenze a passare sotto il dominio francese. Napoleone III capì la difficoltà di realizzare un disegno in chiave francese (infatti la tradizione parigina, centralista per antonomasia, era incompatibile con la realtà italiana) desistette e, complice l’alto costo in vite umane della guerra, firmò l’armistizio di Villafranca. Prima che ciò succedesse, come si può leggere in maniera molto piacevole nel libro “Il Regno del Nord” di A. Petacco, il progetto di Cavour, tanto chiaro quanto perfetto nella sua essenza, si modificò, memore delle insurrezioni e della totale impossibilità di calare un progetto totalmente dall’alto, cercando di spostare l’asse interlocutorio da Parigi alle medesime realtà locali. Nel 1859 Cavour strinse segretissimi accordi, prima della fine della Seconda Guerra d’Indipendenza, quando gli accordi di Plombieres sembravano sfumati, con il governo borbonico: il Regno di Sardegna avrebbe inglobato il Lombardo-Veneto, l’Emilia e la Toscana. Il Regno delle due Sicilie avrebbe annesso l’Umbria e le Marche, tolte allo Stato della Chiesa mentre Roma sarebbe diventata capitale dell’Italia federale. Benché il piano fosse pronto ed attuabile, mancava soltanto l’approvazione di Francesco II di Borbone, re di Napoli, che però, da devoto e timorato di Dio qual era, quando fu informato che il suo Regno si sarebbe arricchito delle due regioni pontificie gridò al sacrilegio. E il piano andò in fumo. Quel che gli accordi non riuscirono a fare, lasciò il passo all’impresa dei Mille. COSA INTENDEVA CAVOUR PER ITALIA? Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento QUALE RUOLO HA RISORGIMENTO? AVUTO LA MAFIA NEL CORSO DEL L’impresa Garibaldina fu in gran parte aiutata dalla discesa sul campo di battaglia di personaggi quali i “picciotti” in Sicilia e i “lazzari” in Campania, delle sorte di “capi bastone”, che guidavano delle masse inermi di «cafoni», contadini assoggettati al potere feudale, ai quali paradossalmente veniva promessa una riforma agraria (dai generali della spedizione) e soldi, protezione e lavoro (dai loro sfruttatori). «Garibaldi in Sicilia, dopo lo sbarco delle sue mille camicie rosse, si vide venire incontro uomini con i mantelli neri, le barbe e gli occhi neri, i fucili a due canne sulle spalle. Erano uomini tristi, silenziosi, e astuti; in ogni paese che Garibaldi conquistava, insieme alle migliaia di contadini, braccianti, infelici, che accorrevano a combattere per lui con le falci e le roncole, egli si trovava accanto quegli uomini tristi, con i mantelli neri ed il fucile a due canne. Gli giuravano fedeltà per il nuovo Stato italiano e gli chiedevano in cambio di proteggere la loro proprietà dalla rivoluzione, le loro case, i loro feudi» (G. Fava – Mafia 1982). L’organizzazione sociale in tal senso si richiama a quella della futura mafia. Questi «cafoni» erano stati illusi che l’esito positivo della spedizione avrebbe dato loro un’imponente riforma agraria, che, oltre che abolire la tassa sul macinato ed abbassare i canoni per le terre demaniali, avrebbe ridistribuito equamente il latifondo; praticamente un sogno per i poveri braccianti. Man mano che però la conquista si estendeva, fra le milizie volontarie arruolate iniziarono a comparire criminali di ogni genere. Lo stesso Garibaldi in una nota storica scrisse: «Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini e criminali di ogni sorta». Il 2 Giugno del 1860, necessitando di una carica da parte della popolazione intera che respingesse i borbonici dall’isola, firmò un falso decreto che assegnava le terre demaniali ai contadini. Ai “capi bastone” diede invece “pacchetti” di posti di lavoro nei futuri incarichi burocratici ed istituzionali – promessi una volta cacciati i borbonici – che loro prontamente avrebbero distribuito ai loro subalterni. Fu questo il periodo in cui la malavita siciliana (e quella campana poi) iniziò a saldare forti legami con le nascenti istituzioni. In molti credettero alla promessa e si riversarono nelle strade in una rivolta totale contro il regime borbonico che fu respinto verso Milazzo. Garibaldi era sempre più vicino all’Italia unita e i latifondisti-mafiosi al controllo della popolazione, senza che questa lo sapesse. Infatti una volta che i garibaldini occuparono l’isola con il fondamentale aiuto di questi “picciotti”, Garibaldi si dimenticò delle promesse fatte ai miseri «cafoni», lasciandoli in una situazione peggiore della precedente. Come emerse più tardi, essi lottarono in nome della libertà, ma non ottennero altro che l’assoggettamento sempre più profondo alla forza dei ricchi latifondisti. Questi ultimi infatti persuasero Garibaldi a non firmare il decreto di liberalizzazione demaniale; in conseguenza a ciò i contadini si riversarono nelle piazze. Il generale nizzardo incaricò il suo braccio destro Nino Bixio di reprimere nel sangue le rivolte (si veda la “strage di Bronte”). Garibaldi si rivelò essere quello in molti temevano: un generale al servizio degli inglesi e degli interessi dei grandi latifondisti. Appena pochi giorni dopo l’inscenata “liberazione”, si palesava già la lontananza fra il nascituro stato centralista e le realtà locali meridionali, ufficialmente in mano a Garibaldi, ma nella pratica, comandate dai ricchi possidenti terrieri, che per mano dei “capi bastone” ridistribuivano denari, lavoro e favori. È dunque corretto affermare che la Mafia si sviluppò in seno allo stato stesso, unica causa del suo più grande male. Il 21 e 22 Ottobre 1866 si tenne un plebiscito, previsto dal Trattato di pace con l'Impero Austro-Ungarico, per annettere i territori grossomodo corrispondenti al Veneto attuale. Il plebiscito fu preceduto da una serie di mosse volte a metterlo al riparo da un eventuale risultato negativo, una tra tutte l'espulsione di gruppi di persone che dichiaratamente si battevano per il NO, cosa già vista nei precedenti plebisciti svoltisi in Toscana e nelle regioni Meridionali, per citare due esempi. Curioso è come furono allestiti i seggi: infatti vi era, dietro il tavolo dove erano posizionate un'urna con la scritta grande SI e un'urna con la scritta NO, un carabiniere in alta uniforme e, sul muro, appesa una fotografia grande del Re Vittorio Emanuele II. Vi erano due registri: in uno venivano annotati i votanti e nell'altro coloro che votavano NO; inoltre le schede per il voto erano due, di differenti colori. Come è facile intuire, il voto fu tutt'altro che libero e segreto. Infatti i SI furono 641.758, i NO 69 e le schede nulle 243. Un po' pochi se si pensa che la Serenissima Repubblica e sopravvissuta, indipendente, per più di un millennio. Veramente solo 69 persone hanno voluto sottomettere la propria libertà in nome dell'annessione al Regno d'Italia? Dove sono finiti tutti i soldati e i marinai di Custoza e Lissa? Da segnalare, inoltre, che votarono circa 642.000 su 2.500.000 di aventi diritto, corrispondenti a grossomodo il 25,5%. Di queste schede elettorali, però, non vi è alcuna traccia. Dove sono finite le schede del plebiscito? PERCHÈ NEL 1866 CI FU IL "PLEBISCITO-TRUFFA" IN VENETO? Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento COME SI È COMPORTATA LA STORIOGRAFIA ITALIANA NEI CONFRONTI DELLA STORIA VENETA? La storiografia Italiana si è comportata come il Minitrue orwelliano, ossia ha sistematicamente tentato di cancellare o sminuire la storia millenaria della Serenissima dai libri scolastici. Della battaglia navale di Lissa non viene riportata la gravità della sconfitta, riassumibile nella celeberrima frase attribuita all'ammiraglio austriaco Tegetthoff: “Uomini di ferro su navi di legno avevano sconfitto teste di legno su navi di ferro”. Per paura di risvegliare lo spirito PERCHÈ SONO EMIGRATI CIRCA PLEBISCITO (ANCHE 940.000 VENETI DOPO IL SE PASSÒ A LARGA MAGGIORANZA)? Tra le prime misure introdotte nella neo-Italia, alla quale si era da pochi anni aggiunto il Veneto, troviamo l'introduzione della famigerata "tassa sul macinato", la quale colpi duramente i contadini e le famiglie che basavano la loro alimentazione sulla polenta (circa 1 kg al giorno a testa). Ogni famiglia era costretta a sborsare all'incirca 20 lire all'anno in più, una cifra elevata per l'epoca, rispetto agli anni precedenti. La politica centralista e autoritaria dello Stato fu diretta a soffocare qualsiasi rimembranza del passato: le misure con cui si confiscavano i beni ecclesiastici COME comune dei popoli veneti, o per rendere meno evidente che le condizioni di vita della popolazione nel periodo pre-unitario erano ben migliori del periodo post-unità, la storiografia italiana ha fatto piazza pulita dello spirito e della storia di cui rimane un ricordo solo nei libri non scolastici e nella memoria di qualche anziano che, pur non vivendo direttamente la Serenissima, ne ha sentito parlare dai suoi padri e nonni. tolsero quel carattere assistenzialistico ai poveri e ai non abbienti e l'introduzione della leva obbligatoria dei sei anni prelevarono dalle campagne Venete migliaia di giovani che contribuivano in maniera importante alla coltivazione di ciò che si mangiava in famiglia. Tutt'altro che entusiasti del processo unitario, nonostante la storiografia dica esattamente il contrario, fuoriuscirono 940.711 Veneti, corrispondenti al 17,9% circa degli “italiani” emigranti. Un dato che non sempre viene riportato nonostante se ne abbia piena consapevolezza. LE SCELTE AMMINISTRATIVE SUCCESSIVE ALL'UNITÀ HANNO PORTATO AL FASCISMO? L’avvento del fascismo è fortemente collegato alla struttura centralizzata dello Stato e alla vecchia Costituzione del Regno d’Italia: lo Statuto Albertino, entrambi elementi che affondano le loro radici all’interno del processo risorgimentale. Nel 1861 si decise di respingere le proposte del ministro Minghetti che prevedevano la creazione di forti autonomie locali, per abbracciare invece la scelta di creare un sistema fortemente accentrato, dove le singole comunità erano obbligate ad eseguire gli ordini provenienti dal centro. Questo accadde perché la classe politica di allora riteneva che fosse più facile controllare un territorio molto diversificato con leggi uniche e per il timore che un modello federale e rispettoso delle diverse culture sarebbe stato pericoloso per l’unità del Paese. Il secondo elemento riguarda invece lo Statuto Albertino: questa Costituzione, a differenza delle altre carte liberali di quel periodo, prevedeva per il sovrano forti poteri, fra i quali quello di nominare, a sua discrezione e senza vincoli, chiunque egli ritenesse valido per la carica di Presidente del Consiglio. Il forte accentramento amministrativo e politico permise la nascita di forze come il partito fascista in quanto i territori non avevano una vera rappresentanza nel Parlamento; lo Statuto Albertino invece rese perfettamente legale la decisione di Vittorio Emanuele III di assegnare pieni poteri a Mussolini dopo la Marcia su Roma. Il fascismo, nel corso del Ventennio, provvederà poi a rafforzare ulteriormente con figure come il prefetto, il sistema di controllo del centro sulle comunità locali. E’ vero che, nel corso della storia, il Nord è stato a sua volta frammentato in diverse entità statali autonome. Ma è altrettanto vero che durante i 1500 anni di divisione, questi Stati hanno sempre interagito fra loro con grande frequenza e certamente in misura molto maggiore rispetto a quanto non avvenisse con la parte meridionale della Penisola. Le riprove sono rintracciabili nelle testimonianze e nelle reazioni dei primi viaggiatori che, ad unificazione compiuta, percorrevano per la prima volta il Paese da Nord a Sud. E’ vero inoltre che, nel corso del tempo, ci furono contrasti tra i diversi Stati della Val Padana, ma COME CONCILIATE REALTÀ PREUNITARIE CON L'IDEA DI Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento PADANIA? non si possono scordare anche collaborazioni importanti di fronte all’esigenza di difendersi da nemici esterni, come nel caso della Lega lombarda e della Lega veronese. A voler ben vedere il Settentrione ha avuto molti periodi di unità, con i longobardi, sotto il Sacro Romano Impero, con la Repubblica cisalpina prima e con il napoleonico Regno d’Italia (che nonostante il nome comprendeva solo il Centro-Nord). Ma più importante, la Valle del Po, fu la culla di un particolare modello politico che per diversi secoli risultò vincente: si trattava del sistema comunale che accumunò tutta la parte settentrionale del Paese (e parte di quella centrale) e che costituiva qualcosa di inedito e assolutamente originale per l’epoca: un sistema che, nel buio del feudalesimo, garantiva libertà uniche in Europa e risultava molto vicino alle antiche democrazie delle Polis greche. E’ dalla civiltà comunale che nasce quel senso civico che accomuna e rende unita negli interessi e nella mentalità quella che oggi chiamiamo Padania, come fu notato dall’americano Robert Putnam nel suo studio degli anni 80 sulle regioni italiane . Oltre a ciò non si possono scordare il ceppo linguistico comune (quello delle cosiddette Lingue galloromanze) e un sistema economico e di scambi commerciali che già nel 700 appariva omogeneo. Nei 150 anni di storia unitaria dell’Italia, a causa delle scelte scellerate in campo politico, amministrativo ed economico, la spaccatura fra Nord e Sud del Paese si è accentuata assumendo proporzioni uniche in tutto il mondo occidentale. Per quanto riguarda il Nord gli effetti più negativi si sono avuti certamente nel campo economico. L’inefficienza e il clientelismo del sistema politico nel Meridione hanno portato, nel corso del tempo, ad uno sperpero sempre maggiore di risorse, causando un enorme debito pubblico. I governi romani, dal canto loro, non hanno fatto nulla per mutare la situazione, hanno anzi ottenuto di aggravarla ulteriormente. Per non combattere le mafie che impedivano (e impediscono) qualsiasi forma di sviluppo economico, ma al tempo stesso garantire livelli decenti di vita al Meridione con l’assistenzialismo, hanno aumentato in maniera esponenziale il livello delle tasse al Nord. Con questi soldi, prodotti e sottratti alla Padania, i diversi governi hanno creato un sistema parassitario e ingiusto che vive e si nutre del lavoro di altre persone. Le conseguenze sono state gravi per il Settentrione: mancanza di fondi per le opere infrastrutturali e per i servizi che spetterebbero di diritto ai cittadini. Oltre a ciò, il sistema politico ha trasformato nel tempo la pubblica amministrazione in un immenso ammortizzatore sociale per diminuire la disoccupazione al Sud; questo ha avuto come risultato, oltre alle sue spropositate dimensioni, una sistematica discriminazione dei cittadini del Nord nei concorsi pubblici, dai livelli più umili a quelli dirigenziali. L'Unità d'Italia fece sentire i suoi funesti effetti anche sulle regioni meridionali. La coscrizione obbligatoria di minimo 5 anni, si vedano a questo proposito i Malavoglia di Verga, strappò molti giovani dalle loro famiglie, costringendole a sacrifici economici difficilmente sostenibili all'epoca. Coloro che si rifiutarono di partire andarono ad ingrossare le fila dei cosiddetti briganti. Inoltre la filosofia del libero mercato, applicata indistintamente a regioni molto industrializzate, come la Lombardia, e a regioni molto più arretrate come il Mezzogiorno, fece sì che la concorrenza estera annientasse quelle poche avventure industriali esistenti nel Sud, caratterizzate da prezzi decisamente poco competitivi. La tassazione e il nuovo regime finanziario, applicato senza tener conto delle differenze esistenti tra le varie realtà, causò un impoverimento senza precedenti. Migliaia di famiglie furono costrette ad emigrare e quelli che rimasero furono costrette a darsi al brigantaggio. Approfittando di alcune rivolte scoppiate in quei tempi (ad esempio Castellammare del Golfo in Sicilia il 1° Gennaio 1862) le autorità piemontesi, attraverso addirittura la proclamazione dello Stato d'Assedio in tutto il Mezzogiorno, stroncarono nel sangue le manifestazioni di malcontento del popolo. Più preoccupato del brigantaggio in sé che della risoluzione dei problemi per cui esso era così presente e radicato nella struttura societaria del Mezzogiorno, il Senato del Regno emanò una legge che istituiva una spesa supplementare di 230.000.000 lire (dell'epoca) per l'acquisto di armamenti per la Guardia Nazionale. CHE EFFETTI NEGATIVI PORTÒ L'UNITÀ D'ITALIA PER IL NORD? CHE EFFETTI NEGATIVI PORTÒ L'UNITÀ D'ITALIA PER IL SUD? COME HA INFLUITO IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE SULL'IMMAGINE ITALIANA? «L’uomo non aveva valore, riferendosi al Medioevo, se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di cui quasi interamente viveva la vita. L’Italia è la prima a squarciare questo velo e a considerare lo Stato e tutte le cose terrene da un punto di vista oggettivo; ma al tempo stesso si sveglia potente nell’italiano il Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento sentimento di sé e del suo valore personale o soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo, e come tale si afferma» (J. Burckhardt). L’Italia pre-risorgimentale godeva di notevole prestigio nel vecchio continente: faro di cultura, di sapienza, di arte. Le differenze nazionali fra le varie realtà della penisola avevano valorizzato egregiamente la competizione e ne erano nate forme artistiche e sociali senza paragoni in Europa. L’Italia fu un punto di riferimento nel Rinascimento, e anche successivamente, per la forza della tradizione, rimase un’area peculiare di genesi artistiche particolari e senza paragoni nell’Europa. Il processo unitario, andando a creare uno stato fortemente centralista, erose la possibilità che vi fosse competizione fra gli stati e di conseguenza quell’evoluzione che avrebbe consentito al paese di rimanere nell’Europa civile. La nascita delle mafie, le scellerate politiche fiscali, estere e di welfare, l’emigrazione forzata nell’ottica di creare gli italiani (a detta di D’Azeglio), ha contribuito a creare l’immagine dell’italiano all’estero, non più faro di cultura, ma “pizza, mandolino e mafia”. La soluzione è una sola: il federalismo, fiscale ed istituzionale. Non esiste altro sistema per salvare il Paese. Se questo non verrà applicato è probabile che lo Stato, alla fine, si spaccherà da solo. Il federalismo rappresenta la soluzione più naturale per un Paese con tante differenze interne come l’Italia. Cavour, Cattaneo, Minghetti e molti altri avevano capito già all’epoca dell’unificazione che l’unica via per uno sviluppo sano dell’Italia passava dal federalismo. Ogni territorio deve poter mantenere le proprie tasse dove sono state prodotte ed avere la possibilità di esercitare l’autogoverno. Più l’istituzione è vicina al cittadino e meglio funziona. Questo servirà non solo al Nord, ma anche al Sud che in questa maniera potrà responsabilizzarsi e risolvere i suoi problemi. Il federalismo rappresenta la forza di governo più evoluta e rispettosa delle differenze, lo riprova il fatto che tutti gli stati più civili e progrediti del mondo, hanno adottato un sistema federale. QUALI SOLUZIONI PROSPETTATE? ANALISI ECONOMICA DELLE CONSEGUENZE DEL PROCESSO UNITARIO Il processo unitario in sé comporto delle spese straordinarie che furono finanziate mediante prestiti contratti dal Piemonte, il quale spremette la neo-Italia con una pesantissima tassazione al fine di far fronte ai debiti. Ciò ebbe come conseguenza quella di far diminuire le risorse destinante alla crescita. Cosi facendo, le importazioni, nel primo triennio unitario, aumentarono del 14,5% mentre l'export fece registrare un aumento solo del 3,3%, con conseguenze ben note per quanto riguarda il Debito Pubblico. Un'inchiesta promossa dalla Camera e affidata a Stefano Jacini dimostro che l'Italia era ancora molto arretrata sotto il profilo dello sviluppo agricolo e industriale. Vicino a realtà allineate agli esempi virtuosi europei e statunitensi, come il Nord Italia, esistevano realtà dove i governatori locali avevano paura di qualsiasi cambiamento che intaccasse i privilegi pseudo-feudali dei signori locali, come la Sicilia e in generale le regioni del Mezzogiorno. Il PIL era composto al 50% di proventi derivanti dall'agricoltura, la quale era praticata con tecniche obsolete e poco redditizie. Ciò espose l'Italia ai gravi effetti della crisi agricola europea del 1881 ed ebbe come conseguenza diretta l'accentuarsi del flusso migratorio diretto soprattutto verso le Americhe. I concetti di Stato e di Nazione vengono spesso confusi e utilizzati come sinonimi, ma ciò non è esatto. In diritto pubblico Stato e Nazione possono coincidere, ma questo non è sempre vero. Lo Stato rappresenta l’apparato istituzionale mentre la Nazione è da considerarsi in realtà come il complesso di persone che hanno in comune la storia, la cultura, la lingua e più in generale un sentimento di “comune identità”. Esistono Stati che si possono definire come “plurinazionali”, perché vantano differenti tradizioni al proprio interno, come ad esempio la Svizzera o il Canada e questo genere di modelli si configura normalmente come Stati federali. Nonostante l’Italia sia unita da 150 anni, non si possono cancellare 1500 anni di divisione che hanno generato storie e tradizioni differenti nelle diverse aree del Paese. Non riteniamo quindi improprio parlare, anche per l’Italia, di “realtà plurinazionale”, perché se è vero che tutti oggi parliamo la medesima lingua (fino a pochi decenni fa però non era così), è altrettanto vero che abbiamo tutti percorsi, usanze e abitudini diverse. Nel 2011 quindi non si celebra certamente l’unità di una Nazione, ma solo la nascita di uno Stato. DIFFERENZA TRA STATO E NAZIONE Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento COSA PREVEDEVA LA DEVOLUTION, BOCCIATA NEL REFERENDUM DEL 2006? DI LUCIO BRIGNOLI CAMERA DEI DEPUTATI: La Camera sarà l'organo politico e sarà costituito da 518 deputati (oggi sono 630), di cui 18 eletti nelle circoscrizioni estere, oltre ai deputati a vita, nominati dal capo dello Stato, che potranno essere al massimo tre. Di diritto gli ex presidenti della Repubblica. L'età minima per essere eletti scende a 21 anni (adesso è 25). La Camera è eletta per cinque anni. Le Commissioni d'inchiesta istituite dalla Camera avranno gli stessi poteri dell'autorità giudiziaria; la loro presidenza sarà assegnata all'opposizione. SENATO FEDERALE: I senatori saranno 252 (oggi sono 315), eletti in ciascuna Regione insieme all'elezione dei rispettivi consigli regionali. A questo numero si sommeranno i 42 delegati delle Regioni, che partecipano ai lavori del Senato federale senza diritto di voto: due rappresentanti per ogni regione più due per le Province autonome di Trento e Bolzano. Sarà eleggibile chi ha 25 anni (oggi 40 anni). Con la proroga dei Consigli regionali e delle province autonome sono prorogati anche i senatori in carica. CAPO DELLO STATO: Il presidente della Repubblica non è più il rappresentante dell'unità nazionale, ma «rappresenta la Nazione ed è garante della Costituzione e dell'unità federale della Repubblica». Sarà eletto dall'Assemblea della Repubblica, presieduta dal presidente della Camera dei deputati e composta da tutti i parlamentari, i governatori e i delegati regionali. Può diventare presidente della Repubblica chi ha compiuto 40 anni (oggi 50). Il capo dello Stato è eletto a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti l'Assemblea della Repubblica. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti. Dopo il quinto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. Il capo dello Stato indice le elezioni della Camera e quelle dei senatori. Nomina i presidenti delle Autorità indipendenti, il presidente del Cnel e il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm) nell'ambito dei componenti eletti dalle Camere. PREMIERATO: Non c'è più il presidente del Consiglio, ma il Primo ministro. Nomina e revoca i ministri (adesso spetta al capo dello Stato, su proposta del premier), determina (e non più «dirige») la politica generale del governo e dirigerà l'attività dei ministri. Il Primo ministro non dovrà più ottenere la fiducia dalla Camera, ma dovrà soltanto illustrare il suo programma sul quale la Camera dei deputati esprimerà un voto. Inoltre potrà porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera si esprima «con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del governo». In caso di bocciatura deve dimettersi. Il Primo ministro viene eletto mediante collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati, norma che consente l'adattamento sia al sistema maggioritario che a quello proporzionale. NORMA ANTI-RIBALTONE E SFIDUCIA COSTRUTTIVA: In qualsiasi momento la Camera potrà obbligare il Primo ministro alle dimissioni, con l'approvazione di una mozione di sfiducia firmata almeno da un quinto dei componenti (ora è un decimo). Nel Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento caso di approvazione, il Primo ministro si dimette e il presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera. Il Primo ministro si dimette anche se la mozione di sfiducia è stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. Garante di questa maggioranza sarà il presidente della Repubblica, che richiederà le dimissioni del Primo ministro anche nel caso in cui per il voto favorevole a una questione di fiducia posta dal Primo ministro sia stata determinante una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne. Entra in Costituzione anche la mozione di sfiducia costruttiva: i deputati appartenenti alla maggioranza uscita dalle urne, infatti, possono presentare una mozione di sfiducia con la designazione di un nuovo Primo ministro. In tal caso il premier in carica si dimette e il capo dello Stato nomina il Primo ministro designato nella mozione. DEVOLUTION: Le Regioni avranno potestà legislativa esclusiva su alcune materie come assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale. Tornano a essere di competenza dello Stato la tutela della salute, le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale, l'ordinamento della comunicazione, l'ordinamento delle professioni intellettuali, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell'energia, l'ordinamento di Roma; la promozione internazionale del made in Italy. ITER LEGISLATIVO: La Camera esamina i disegni di legge riguardanti le materie che il nuovo articolo 117 affida alla legislazione esclusiva dello Stato. Dopo l'approvazione il Senato federale può proporre modifiche entro trenta giorni sulle quali sarà comunque la Camera a decidere in via definitiva. All'Assemblea di Palazzo Madama spetterà l'esame e la parola definitiva, invece, sui provvedimenti riguardanti le materie concorrenti. Le questioni di competenza tra le due Camere sono risolte dai presidenti delle Camere o da un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi presidenti. La decisione dei presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. Per alcune materie comunque resta il procedimento bicamerale. In caso di disaccordo tra le due Camere, il testo sarà proposto da una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, convocata dai presidenti delle Camere, e sottoposto al voto finale delle Assemblee. CLAUSOLA DI ESSENZIALITÀ: Se il governo ritiene che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all'esame del Senato, siano essenziali per l'attuazione del suo programma approvato dalla Camera, il presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro a esporne le motivazioni al Senato federale che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera dei deputati che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte. I disegni di legge del governo avranno comunque una via preferenziale nel calendario dei lavori delle Camere. Se l'esecutivo lo richiede, verranno iscritti all'ordine del giorno e votati entro tempi certi. Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ: La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, che esercitano le loro funzioni secondo i principi di leale collaborazione e sussidiarietà. FEDERALISMO FISCALE: Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge di riforma costituzionale sarà assicurata l'attuazione del federalismo fiscale. Sono fissati dei limiti per cui in nessun caso l'attribuzione dell'autonomia impositiva alle Regioni, alle Province, alle città metropolitane e ai Comuni può determinare un incremento della pressione fiscale complessiva. Inoltre, viene inserito il concetto di sussidiarietà fiscale: il cittadino su alcune spese come a esempio quelle di mantenimento dei figli, invece di pagare le tasse per richiedere poi il rimborso a livello regionale, può detrarle direttamente dalla dichiarazione dei redditi. Repubblica, quattro dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative; tre giudici sono nominati dalla Camera dei deputati e quattro dal Senato federale della Repubblica integrato dai governatori. È previsto che, concluso il mandato, nei successivi tre anni non si possano ricoprire incarichi di governo, cariche pubbliche elettive o di nomina governativa o svolgere funzioni in organi o enti pubblici individuati dalla legge. CSM: I componenti del Csm, oltre a quelli eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, sono eletti per un sesto dalla Camera dei deputati e per un sesto dal Senato federale della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio. La Costituzione attualmente, invece, prevede che siano eletti per un terzo dal Parlamento in seduta comune. Il presidente della Repubblica nomina il CORTE COSTITUZIONALE: Aumentano i vice presidente del Csm nell'ambito dei giudici di nomina parlamentare nella componenti eletti dalle Camere. Corte Costituzionale. La Consulta sarà composta da 15 giudici: quattro Il testo completo della riforma: nominati dal presidente della http://bit.ly/devsenato2006 RISULTATI DEL REFERENDUM: Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento COSA PREVEDE IL FEDERALISMO FISCALE OGGI, NEL 2011? L Il cammino del federalismo fiscale inizia con l'approvazione del disegno di legge delega, da parte del Consiglio dei ministri dell'11 settembre 2008. La delega diventerà legge l'anno successivo (legge delega n.42 del 5 maggio 2009). Dalla legge delega sono scaturiti 8 decreti attuativi: 1. Federalismo demaniale 2. Fabbisogni standard 3. Federalismo municipale 4. Autonomia tributaria di regioni e province 5. Perequazione e rimozione squilibri 6. Sanzioni e premi per regioni, province e comuni 7. Armonizzazione sistemi contabili IL CONTESTO DELLA RIFORMA Il federalismo fiscale mira a dare attuazione all'art.119 della Costituzione che sancisce l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa per i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni. L'attuazione dell'art.119 completa il processo di revisione costituzionale contenuto nella legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001 (riforma del Titolo V della Costituzione) che ha dato un nuovo assetto al sistema delle autonomie territoriali, collocando gli enti territoriali al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica come recita l'art. 114 della Costituzione (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato hanno pari dignità, pur nella diversità delle rispettive competenze). PROCEDURA DI ADOZIONE DEI DECRETI ATTUATIVI (Fonte: Camera dei deputati) DI UCIO BRIGNOLI La legge n. 42/2009 delinea la procedura di adozione ed esame parlamentare dei decreti legislativi attuativi, fissando il termine per l’adozione di almeno uno di essi entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge stessa (21 maggio 2009) e in ventiquattro mesi il termine generale per l’adozione degli altri decreti. Entro il 30 giugno 2010, il Governo è chiamato a trasmettere alle Camere la relazione contenente dati sulle implicazioni e le ricadute di carattere finanziario conseguenti all’attuazione della delega, nel quale fornire un quadro generale del finanziamento degli enti territoriali e sulla struttura dei rapporti finanziari tra i diversi livelli di governo. La relazione è stata presentata alle Camere il 30 giugno 2010. Gli schemi di decreto, ciascuno dei quali deve essere corredato di una relazione tecnica che ne evidenzi gli effetti finanziari, sono adottati dal Governo, previa intesa in sede di Conferenza unificata Stato-regioniautonomie locali e successivamente trasmessi alle Camere per l’espressione del parere da parte: della Commissione bicamerale; delle Commissioni parlamentari competenti per i profili finanziari (vale a dire le Commissioni bilancio delle due Camere). All’adozione dei decreti si può peraltro procedere anche qualora non venga raggiunta l’intesa in sede di Conferenza unificata: in tal caso, e trascorsi trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza in cui gli schemi di decreto legislativo sono posti all’ordine del giorno, il Consiglio dei ministri può comunque deliberare la trasmissione alle Camere, approvando Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento contestualmente una relazione in cui vengono motivate le ragioni per cui l’intesa non è stata raggiunta. Sia la Commissione bicamerale che le Commissioni bilancio sono chiamate a esprimersi entro 60 giorni (prorogabili di ulteriori 20 giorni) dalla trasmissione dei testi; decorso tale termine, i decreti possono essere comunque adottati. E’ inoltre prevista l'ipotesi in cui il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari: in tal caso esso trasmette nuovamente gli schemi alle Camere con le relative osservazioni ed eventuali modificazioni, rendendo a tal fine comunicazioni davanti a ciascuna Camera; trascorsi 30 giorni da tale trasmissione, i decreti legislativi possono essere adottati. Il 2 marzo 2011 la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il decreto legislativo sul federalismo municipale con 313 voti a favore (Lega Nord e Popolo della Libertà), 291 voti contrari (Partito Democratico, Italia dei Valori, Unione di Centro e Futuro Libertà) e 2 astenuti. Il 31 marzo 2011 il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo sul Federalismo Regionale. Il sito del Governo: http://bit.ly/fedfiscgoverno2011 Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento BIBLIOGRAFIA - Aldo Servidio, L'imbroglio nazionale. Unità e unificazione dell'Italia, Guida Editori, 2002 - Angela Pellicciari, L'altro Risorgimento, Piemme, 2000 - Arrigo Petacco, Il Regno del Nord, Mondadori, 2009 - Elena Bianchini Braglia, La verità sugli uomini e sulle cose del regno d'Italia – Rivelazioni di J.A. Antico agente segreto del Conte Cavour, Tabula Fati, 2005 - Ettore Beggiato, 1866: La grande Truffa – Il plebiscito di annessione del Veneto all'Italia, Editoria Universitaria Venezia, 1999 - Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, Controcorrente, 1999 - Gigi di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, 2007 - Gilberto Oneto, L'Iperitaliano. Eroe o cialtrone? - Biografia senza censure di Giuseppe Garibaldi, Il Cerchio, 2006 - Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Storia contemporanea: l'Ottocento, Laterza, 2002 - Giuseppe Cesare Abba, Da quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, Sellerio, 1993 - Harold Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Giunti Editore, 1997 - Indro Montanelli, Marco Nozza, Garibaldi. Ritratto dell'eroe dei due mondi, BUR, 2007 - Indro Montanelli, L'Italia del Risorgimento – 1831-1861, Rizzoli Editore, 1972 - Indro Montanelli, L'Italia dei Notabili – 1861-1900, Rizzoli Editore, 1973 - Lorenzo del Boca, Indietro Savoia, Piemme, 2003 - Lorenzo del Boca, Emanuele Filiberto di Savoia, Maledetti Savoia – Savoia Benedetti, Piemme, 2010 - Luciano Salera, Garibaldi, Fauchè e i predatori del Regno del Sud, Controcorrente, 2006 - Luigi Zanon, 1866 Anno della Vergogna, http://www.raixevenete.com/materiale/1866/vergogna_1866.pdf - Nicola Leoni, Istoria politica della Unità Nazionale d'Italia – dalla sua origine fino a'tempi nostri, Napoli, Tipografia Militare, 1864 - Pietro Maestri, L'Italia Economica nel 1868, Civelli, 1868 - Raffaele De Cesare, La fine di un Regno: Regno di Ferdinando II, S. Lapi, 1900 - Rivista militare italiana, anno XI, volume IV, La Campagna del 1866 in Italia, G. Cassone e comp., 1866 - Ruggiero Bonghi, Storia della Finanza Italiana dal 1864 al 1868, Successori Le Monnier, 1868 - Stefano B. Galli, Quante Italie? La suddivisione territoriale della Penisola dal Risorgimento ai nostri giorni, Rivista Politica, n. 1/2010 Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento RINGRAZIAMENTI Desideriamo ringraziare tutti coloro che a vario titolo ci hanno permesso di portare a termine questo lavoro: il Coordinamento Federale dell'MSP (Emanuele Monti, Francesca Manzotti, Lucio Brignoli e tutti coloro che, per brevità, non possono essere qui citati) per averci dato l'idea di realizzare il phamplet. Un ringraziamento davvero particolare a Federica Epis per averci aiutato con la ricerca delle fonti e nella correzione dell'elaborato e a Samuel Sottoriva per l'aiuto fondamentale nella ricerca delle fonti per quanto riguarda le parti dedicate al Veneto. Ringraziamo inoltre il Coordinamento Federale del Movimento Giovani Padani per l'entusiasmo e per il sostegno dimostratoci, in particolare il Coordinatore Federale Paolo Grimoldi. Infine, ma non certo per importanza, ci pare doveroso ringraziare tutti coloro che pazientemente leggeranno questo documento, il quale non si prefigge altro obiettivo che quello di essere un paladino al servizio della verità storica e della lettura critica di un periodo tanto importante quanto oscuro quale è il Risorgimento. Storia senza gloria ~ Le verità nascoste del Risorgimento