Fondazione Antonio Ratti, Villa Sucota, Via per Cernobbio, 19, 22100 Como, Italia. www.fondazioneratti.org
Sabato, 23 ottobre 2010 dalle 17 alle 20
I. The centres for contemporary art and the European cities
BIBLIOGRAFIA
VIDEO
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Kunsthalle Bern: http://www.kunsthalle-bern.
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Kunsthalle Zürich: http://www.kunsthallezurich.ch/
Curating Architecture: http://old.gold.ac.uk/
art/curating-architecture/index2.html
1˜A
PREMESSA
Le istituzioni dedicate all’arte contemporanea si sono cimentate con il tema dello spazio nei modi
più svariati, spesso in maniera sottile e stimolante ma altre volte anche imponendo la propria visione. Eppure, il profondo legame che unisce i luoghi dell’arte (quei luoghi che la ospitano, la tutelano,
la esibiscono e la producono) e gli spazi circostanti non sempre è stato adeguatamente riconosciuto
né attentamente esaminato.
The centres for contemporary art and the European cities parte dal presupposto secondo cui un
luogo corrisponde a uno spazio abitato e vissuto, dove l’individuo crea la misura di una soggettività
posta in opera e definita dalla memoria. Sotto questo profilo, i luoghi dell’arte giocano un ruolo ancor più significativo, in quanto generatori di esperienza e di impressioni soggettive per eccellenza.
Un giorno, mentre attraversava il Kirchenfeldbrücke - il ponte che collega il centro di Berna all’edificio che ospita la Kunsthalle - il suo attuale direttore, Philippe Pirotte, ripensò a tutti gli artisti
che, da Andy Warhol a On Kawara, avevano percorso esattamente lo stesso tragitto con la mente
colma di aspettative e desideri per la mostra che stavano allestendo in quella storica istituzione.
Grazie a questa rievocazione, la tranquilla città di Berna si trasformava nel palcoscenico di una
effervescente creatività, che sembra aver in qualche modo permeato le sue dinamiche urbane e la
vita. Il legame che unisce un centro espositivo alla città che lo ospita è soltanto uno della miriade di
esempi dell’enorme potenziale di un’istituzione nell’attivare una nuova percezione degli spazi che la
circondano.
In effetti, se ideata e gestita per alimentare un dialogo continuo con il proprio contesto fisico e
umano, una casa della cultura – sia essa un museo, una galleria o un centro d’ arte contemporanea – gioca un ruolo fondamentale nel produrre l’immagine e la visione di un determinato luogo.
Diventa un hub, uno spazio dove regnano efficienza ed efficacia. Tale capacità è stata ben evidenziata dall’architetto Nikolaus Hirsch nel suo progetto Cybermohalla, per il quale ha utilizzato proprio
il termine hub per descrivere una struttura continuamente in divenire, un ibrido fra una scuola,
un archivio, un centro comunitario e una galleria; il Cybermohalla Hub è dunque un’ istituzione il
cui bisogno primario è quello di interagire e dialogare con lo spazio virtuale e fisico che la ospita.
Un’istituzione ben funzionante è, dunque, in grado non soltanto di alimentare diverse forme di
ricordo e aggiungere nuovo carisma al territorio dove è collocato, ma anche di aprire questo spazio
a una rete del tutto nuova di luoghi e geografie, che va oltre l’orizzonte spaziale, per dar vita a un
dialogo ininterrotto fra le città ospitanti e milioni di visitatori sparsi in tutto il mondo.
Ci sono casi in cui l’istituzione apre le porte della città a tipologie completamente nuove di visitatori
e di attenzione pubblica, come è avvenuto per la Kunsthalle di Zurigo che, sotto la direzione di
Beatrix Ruf, ha confermato il ruolo di questa città elvetica, come una delle tappe obbligate per chi
desidera confrontarsi con le mostre e gli artisti più brillanti e interessanti del momento in Europa.
La direttrice/curatrice ha infatti dimostrato di essere perfettamente conscia dell’importanza del
proprio ruolo per spingere la Svizzera al centro della scena artistica internazionale proprio attraverso l’attività della Kunsthalle, come si evince dalle dichiarazioni rilasciate alla rivista Artforum
dalla stessa Ruf all’indomani della sua nomina: “Abbiamo sempre avuto collezionisti di arte contemporanea che per conoscere nuove opere, persino quelle di artisti svizzeri, erano invariabilmente
costretti ad andare all’estero. Ora invece possono rimanere in Svizzera”.
Anche Marta Kuzma, che da quattro anni dirige l’Office for Contemporary Art Norway, ha lavorato
nella direzione dell’internazionalizzazione. L’OCA si autodefinisce un “luogo d’incontro culturale
per norvegesi e cittadini provenienti da tutto il mondo. In quanto istituzione multidisciplinare con
un’ampia piattaforma pubblica, l’OCA si propone di valorizzare al meglio l’arte contemporanea norvegese attraverso una serie di corsi di specializzazione, programmi di scambio e progetti espositivi,
incentrati sulle tendenze artistiche e intellettuali più attuali, in Norvegia e all’estero e collaborando
con istituzioni culturali e accademiche di altri paesi. ” Uno degli esempi più riusciti della generosa
capacità di dialogare con il contesto nazionale norvegese e nello specifico con la vivacità urbana di
Oslo, è l’ International Visitor Programme, che consente a curatori, critici e operatori culturali di
tutto il mondo di visitare la Norvegia per incontrarvi artisti, curatori e scrittori, generando in questo
modo flussi di dialogo e discussione tra persone provenienti da contesti geografici e ambiti disciplinari del tutto diversi. Essi portano in Norvegia le loro visioni, le idee e i peculiari modi di lavorare e
spingono la città alla scoperta dell’altro, producendo benefici straordinari e tangibili per la città di
Oslo.
Essere la sede della più longeva e famosa Biennale internazionale del mondo, espone Venezia
in maniera del tutto particolare all’impatto dell’arte contemporanea. Trattandosi di un evento
periodico ed effimero, la Biennale crea un profondo senso di vuoto nella popolazione veneziana,
che rappresenta il pubblico periodicamente esposto alle sue sperimentazioni artistiche continuamente cangianti, ma al tempo stesso percepisce con disagio lo iato che si crea nel periodo in cui
questo evento non si tiene. In questo contesto, la Fondazione Bevilacqua La Masa gioca un ruolo di
primaria importanza, in quanto offre ai Veneziani un continuum di attività culturali. Alla Fondazione
Bevilacqua spetta l’enorme responsabilità di offrire agli abitanti di Venezia (e al gran numero di
studenti universitari che vivono in città durante l’anno accademico) un elevato standard di attività e
di residenze per giovani artisti, che hanno così l’opportunità di realizzare le proprie sperimentazioni
grazie a un dialogo intenso e diretto con la città.
Partendo dal presupposto che la pluralità e la diversità delle esperienze consentono di cogliere il
dinamismo intrinseco alla creazione di spazi sociali, l’incontro dedicato a The centres for contemporary art and the European cities rappresenta l’occasione per riunire un gruppo di specialisti il
cui lavoro si è rivelato di cruciale importanza per discutere dei rapporti fra istituzioni artistiche e
territorio. Invitandoli a condividere le loro esperienze, l’obiettivo è quello di identificare possibili
forme di dialogo e di scambio e di discutere su come i luoghi della cultura possono influenzare
positivamente le città che li ospitano.
Fondazione Antonio Ratti, Villa Sucota, Via per Cernobbio, 19, 22100 Como, Italia. www.fondazioneratti.org
Sabato, 23 ottobre 2010 dalle 17 alle 20
I. The centres for contemporary art and the European cities
NIKOLAUS HIRSCH
Nikolaus Hirsch (*1964) è un architetto che vive
a Francoforte. Ha insegnato alla Architectural
Association a Londra (2000-2005), è stato visiting
professor all’Institute of Applied Theater Studies alla Giessen University, alla Hochschule für
Gestaltung Karlsruhe e alla University of Pennsylvania a Philadelphia. I suoi lavori, acclamati
a livello internazionale, includono la Sinagoga di
Dresda, l’Hinzert Document Center, la Kunsthalle
Europea a Colonia, unitednationsplaza (progettato
con Anton Vidokle) a Berlino, e il laboratorio artistico Cybermohalla Hub a Delhi, un progetto per
Rags Media Collective, presentato a Manifesta 7.
Nikolaus Hirsch ha curato ErsatzStadt: Repräsentationen des Urbanen al Volksbühne di Berlino.
Il suo lavoro è stato insignito di numerosi premi,
fra cui il German Critics Award 2001, il World
Architecture Award 2002 e il BDA-Prize nel 2006,
ed è stato esposto in esibizioni quali Neue Welt alla
Frankfurter Kunstverein nel 2001, New German
Architecture a Berlino nel 2003, Utopia Station alla
Biennale di Venezia nel 2003 e Can Buildings Curate (Architectural Association London/Storefront
Gallery a New York nel 2005).
BIBLIOGRAFIA
On Boundaries, Sternberg Press, 2007
On Boundaries è una collezione di saggi, riflessioni sul proprio lavoro e dialoghi riguardanti i
progetti di collaborazione in cui Hirsch esplora le
trasformazioni critiche dello spazio contemporaneo e il loro effetto sul modo di rapportarsi ad
esso. Sfiorando la soglia di discipline quali le arti
visive e performative, Hirsch discute il concetto
di “boundary”, confine: esso viene visto come un
fenomeno del discorso sociale e politico, come un
conflitto fra collaborazione e autorialità e come un
limite fisico (che negozia) costantemente in bilico
fra condizioni stabili e instabili.
STÄDELSCHULE/PORTIKUS
Nikolaus Hirsch è stato nominato successore di Daniel Birnbaum nel ruolo di rettore
alla Städelschule.
L’accademia possiede uno spazio espositivo, il Portikus - creato nel 1987 da Kaspar
König - che ha portato alla scuola una reputazione internazionale per la sua importanza come centro per arte sperimentale.
Hirsch sta dando una lettura del padiglione
in luce dei suoi ultimi progetti. Facendo
riferimento a Exquisite Corpse, un modello
istituzionale crescente da lui ideato per
la Kunsthalle Europea, e a Cybermohalla
Hub, l’architetto mette in discussione la
relazione fra configurazioni spaziali stabili
e instabili.
Institution Building Artists, Curators, Architects
in the Struggle for Institutional Space, Nikolaus
Hirsch, Philipp Misselwitz, Markus Miessen, Matthias Görlich (Eds.), Sternberg Press, 2007
Institution building è uno studio che concettualizza,
verifica e applica nuovi modelli per le istituzioni di
arte contemporanea. Gli autori discutono l’idea di
“stabilità” e “instabilità” proponendo una strategia specifica per la Kunsthalle Europea che la
posiziona all’interno di un discorso contemporaneo
locale, regionale, nazionale e internazionale.
Hirsch, Misselwitz, Miessen, e Görlich, hanno
sviluppato tre strategie spaziali: una configurazione instabile, una strategia stabile e un modello
che combina i potenziali di entrambe le varianti,
verso il consolidamento di un’istituzione in lenta
ma costante crescita. Gli autori propongono una
struttura collettiva con numerose configurazioni
spaziali, frutto della combinazione di numerose
componenti individuali create da autori diversi.
1˜B
INSTITUTION BUILDING AS CURATORIAL PRACTICE
by Nikolaus Hirsch
What defines the contemporary art institution? Who are the authors in the construction of institutional space? Is it possible to built an institution while producing art? In times in which artists create
buildings, architects contribute
to art exhibitions, and curators act like artists, it seems to be possible to rethink the classical role
models, and thus to renegotiate the relation between art production, the exhibition and its spatial
envelope.
In the following I present four projects that I have been working on in the past years: firstly European Kunsthalle, secondly Exquisite Corpse which is a contribution to the ‘Curating Architecture’
program at Goldsmiths College in London, thirdly unitednationsplaza in Berlin, and lastly Cybermohalla Hub in Delhi. All these works can be understood as attempts that not only concentrate on the
spatial presentation of art but that understand the institution as
a medium in its own right.
European Kunsthalle
Spaces of production è uno studio volto a verificare sul piano teorico e pratico una strategia spaziale
per la Kunsthalle Europea. L’indagine si è svolta attraverso una “ricerca applicata” durata due anni,
dal 2005 al 2007, sulle istituzioni contemporanee Europee. Oltre alle tipologie tradizionali, quali le
gallerie, i musei e le kunsthalle, la ricerca considera anche quelle istituzioni che hanno consapevolmente evitato di adottare i modelli istituzionali convenzionali. Dallo studio risulta che le istituzioni
artistiche stanno diventando, nella grande maggioranza, dei luoghi di produzione.
Il cuore della ricerca diviene, quindi, la relazione fra la configurazione fisico-spaziale dell’istituzione
e il suo approccio programmatico. Un confronto fra le istituzioni analizzate apre un nuovo campo di
considerazioni basate sui concetti contraddittori di “stabilità” e “instabilità”.
Le istituzioni identificate con il modello della kunsthalle tradizionale sono caratterizzate da un
ambiente molto controllato. Le istituzioni spazialmente instabili, invece, cercano una fusione con
i dintorni urbani quotidiani. Esse sono definite da confini flessibili, dinamici e adoperano temporaneamente i territori esistenti e gli spazi liberi nella città, correndo però il rischio di trasformarsi in
attività event-based.
L’approccio sviluppato da Spaces of Production cerca di ripensare e ricombinare in maniera
costruttiva i concetti di “stabilità” e “instabilità”, implementando un modello di azione che fonda
inestricabilmente l’architettura con l’organismo curatoriale. Il punto di partenza consiste nel trovare una strategia architettonica che garantisca sia la presenza fisica su un sito specifico, che una
variabilità temporale.
Le analisi condotte per questo studio mostrano che la kunsthalle, anche quella di stampo tradizionale, è costantemente soggetta a processi di cambiamento strutturale. Per la costruzione della
futura Kunsthalle Europea, la negoziazione permanente fra stabilità e instabilità non deve essere
considerata come un problema o come una deviazione da una condizione ideale, quanto piuttosto
(come) la possibilità per sviluppare una nuova tipologia di istituzione: una kunsthalle che prende
alla lettera le cambiate condizioni artistiche, sociali ed economiche, usandole come punti di partenza per la sua strategia spaziale ed architettonica.
All’interno della nuova Kunsthalle Europea i ruoli si aprono: gli artisti potrebbero fungere da architetti, i curatori da artisti e gli architetti da curatori.
CYBERMOHALLA
Cybermohalla inizia nel maggio 2001 come un progetto educativo di quartiere curato dal Sarai /
CSDS e dall’Ankur Society for Alternatives in Education. Ad esso partecipano settanta giovani scrittori e tecnici mediatici, inseriti nel proprio contesto urbano.
Nelle lingue Urdu e Hindi, la parola “mohalla” viene tradotta con quartiere; Cybermohalla, quindi,
combina il ciberspazio con la realtà quotidiana e locale dei partecipanti.
Il progetto nasce come laboratorio digitale a LJNP a Delhi, un insediamento abusivo densamente
popolato, presente da quaranta anni. Lo studio è poi allargato a tre laboratori in diversi quartieri
della città. I laboratori hanno tessuto un complesso intreccio di pratiche di conversazione, e sono
stati in grado di generare un vocabolario adatto ad articolare esperienze difficili grazie all’uso di
soluzioni riflessive e giocose e alla grande varietà di stili narrativi usati: l’animazione, il suono, la
fotografia, il wall writing, così come le piattaforme online.
Nel 2006 il laboratorio nel quartiere di Nangla Manchi viene distrutto dopo aver sfrattato l’intera popolazione, che si disperde in tutta la città. I partecipanti di Cybermohalla registrano questa enorme
turbolenza utilizzando diverse forme di espressione.
Nel maggio del 2007 Nikolaus Hirsch e Michel Müller si inseriscono nel progetto, analizzando i
parametri spaziali utilizzati e mettendo in moto il nuovo Cybermohalla Hub. Studiano gli unici due
laboratori rimasti e insieme a venti partecipanti del Cybermohalla e iniziano a disegnare quello che
diventerà un ibrido fra scuola, centro comunitario, galleria e studio. Il Centro (Hub) diventerà uno
spazio di mediazione, in una dinamica che comprenderà momenti di reinvenzione dello stesso, e
partecipando alla costruzione di un nuovo quartiere, Ghevra, dove verrà riallocata la popolazione
sfrattata da Nangla Manchi.
Essendo situato in un’area il cui utilizzo stesso è incerto, il Centro inizia il suo viaggio attraverso
percorso inesplorato.
Il prototipo del Cybermohalla Hub, esposto a Vienna e precedentemente a Manifesta 7 a Bolzano, è
il risultato di un lungo processo volto a mostrare come un edificio possa diventare uno strumento di
produzione del sapere.
Fondazione Antonio Ratti, Villa Sucota, Via per Cernobbio, 19, 22100 Como, Italia. www.fondazioneratti.org
Sabato, 23 ottobre 2010 dalle 17 alle 20
I. The centres for contemporary art and the European cities
BEATRIX RUF
Beatrix Ruf (*1960) ha studiato a Vienna, New York
e Zurigo. Dal settembre 2001 è la Direttrice/Curatrice della Kunsthalle di Zurigo. Nel 2008 ha fatto
parte del gruppo di curatori della terza Yokohama
Triennal, a tema “Time Crevasse”. Nel 2006 è stata
curatrice della Tate Triennal a Londra, un’esposizione che ha sottolineato e annunciato il progressivo consolidarsi delle tendenze artistiche intorno
all’appropriazione e al riutilizzo di forme e idee.
Precedentemente era stata Direttrice/Curatrice
della Kunsthaus Glarus e, tra il 1994 e il 1998,
curatrice al Kunstmuseum del Canton Turghau.
Dal 1995 è curatrice della collezione Ringier, una
delle più importanti collezioni d’arte in Svizzera,
e nel 2003 diviene Editore Associato della casa
editrice JRP|Ringier. Oltre ad essere una curatrice estremamente attiva, Beatrix Ruf è anche una
scrittrice prolifica: ha pubblicato saggi e cataloghi
su molti artisti contemporanei di differenti generazioni e provenienti da contesti dissimili, quali
Jenny Holzer, Marina Abramovic, Peter Land, Liam
Gillick, Urs Fischer, Emmanuelle Antille, Angela
Bulloch, Ugo Rondinone, Richard Prince, Keith
Tyson, Elmgreen&Dragset, Monica Bonvicini, EijaLiisa Ahtila, Pierre Huyghe/Philippe Parreno - “No
Ghost just a Shell”, Rodney Graham, Isa Genzken,
Doug Aitken, Wilhelm Sasnal, de Rijke / de Rooij,
Eva Rothschild, Rebecca Warren, Carol Bove,
Oliver Payne & Nick Relph, Dominique GonzalezFoerster, Sean Landers, John Armleder, Catherine
Sullivan, Daria Martin, Trisha Donnelly, Wade
Guyton, Seth Price, Kelley Walker, Josh Smith,
General Idea, Elad Lassry, Rosemarie Trockel e
Christodoulos Panayiotou tra molti altri.
Quest’anno era tra i membri della giuria del Premio Enel Contemporanea.
Il programma che ha sviluppato per la Kunsthalle
di Zurigo è stato considerato dalla rivista Art Review: hip but never shallow, and almost certainly
the sharpest on the kunsthalle circuit: if you’re an
artist at midcareer or before, under Ruf’s roof is
where you want to be.
KUNSTHALLE ZÜRICH
Fondata nel 1985, la Kunsthalle di Zurigo
ospita ogni anno cinque esibizioni collettive o monografiche di larga scala e, nello
spazio espositivo addizionale “Kunsthalle
Zürich Parallel”, dalle tre alle cinque esibizioni, di dimensioni minori e organizzate
secondo format espositivi alternati.
Nonostante la sua breve storia, la Kunsthalle di Zurigo si è stabilita come una
delle più rinomate sedi per l’arte contemporanea internazionale. E’ un’istituzione
attiva con un ampio network, ed in quanto
tale occupa una posizione eminente nella
sfera culturale locale, nazionale ed internazionale.
Dal 1996 la Kunsthalle è stata al cuore e
centro del complesso Löwenbräu – una ex
fabbrica di birra - vicino al Migros Museum
für Gegenwartskunst, alla Collezione Daros
e ad importanti gallerie di arte contemporanea.
Foto: Mathias Braschler, courtesy Kunsthalle Zürich, 2004.
BIBLIOGRAFIA SELEZIONATA
MONOGRAFIE
Blasted Allegories, works from the Ringier
Collection (edited by Beatrix Ruf), JRP|Ringier,
2008
Announcements (edited by Beatrix Ruf, Christoph Schenker, texts by Monica Bonvicini,
Ute Meta Bauer, Hans Reck, and Beatrix Ruf),
JRP|Ringier, 2007
Tate Triennial – New British Art (Edited by
Beatrix Ruf and Clarrie Wallis), Tate Publishing, 2006
John Baldessari: Parse (editeb by Beatrix Ruf),
JRP|Ringier, 2010
Luke Fowler edited by Hans-Ulrich Obrist, Julia Peyton-Jones, Beatrix Ruf, text by
Will Bradley, interview by Stewart Comer),
JRP|Ringier, 2010
Seth Price: Price, Seth (edited by Beatrix Ruf,
text by Michael Newman), JRP|Ringier, 2010
Josh Smith (edited by Beatrix Ruf),
JRP|Ringier, 2009
General Idea: File Megazine (ed. Beatrix Ruf),
JRPRingier, 2008
Peter Fischli & David Weiss: Sonne, Mond und
Sterne (ed. Beatrix Ruf), JRP|Ringier, 2008
Laura OWens, (ed. Beatrix Ruf, text by Rod
Mangham, Beatrix Ruf, Gloria Sutton. Interviews by Alex Katz, Elizabeth Peyton, Mary
Heilmann, Scott Rothkopf), JRP|Ringier, 2007
Jeroen de Rijke & Willem de Rooij (texts by
David Bussel, Sven Lütticken, Beatrix Ruf, Jan
Verwoert, Onno Ydema), JRP|Ringier/Kunsthalle Zurich, 2007
Urs Fischer: Good Smell Make-Up Tree
(ed. Beatrix Ruf, essay by Garrick Jones),
JRP|Ringier, 2005
Eva Rothschild (ed. Beatrix Ruf, essays by Will
Bradley and Beatrix Ruf), JRP|Ringier, 2005
Sean Landers (ed. Beatrix Ruf, essay by Alex
Farquharson, interview with Beatrix Ruf and
Caoimhín Mac Giolla Léith), JRP|Ringier, 2005
Isa Genzken: Catalogue Raisonné 1992-2003
(edited by Veit Loers and Beatrix Ruf, essays
by Diedrich Diederichsen, Vanessa Joan Müller and Joseph Strau), Walter König, 2004
Taking Place: The Works of Michael Elmgree
& Ingar Dragset (ed. Beatrix Ruf, essays by
Markus Brüderlin and Dan Cameron), Hatje
Cantz, 2002
Richard Prince: Paintings-Photographs,
(essays by Bernard Mendes Bürgi, Beatrix Ruf,
Bruce Hainley), Hatje Cantz, 2002
Ugo Rondinone: Hell, Yes (ed. Christina Bechtler, essay by Beatrix Ruf), Hatje Cantz, 2001
Il Löwenbräu è una piattaforma complessa
e pulsante che si pone come modello unico
al mondo di un sito che unisce sotto uno
stesso tetto domini dell’arte contemporanea pubblici, privati e commerciali,.
Le prime mostre vengono in genere pianificate in stretto dialogo con gli stessi. Nuovi
tipi di percezione e produzioni per lo più
di giovani artisti vengono introdotte ad un
pubblico più ampio e gli sviluppi artisticamente creativi del presente sono mostrati
in maniera esemplare.
Insieme ad un esteso programma di conferenze, conversazioni con gli artisti, simposi,
visite guidate pubbliche e un programma
educativo per bambini e giovani adulti, la
Kunsthalle cerca di rendere visibili nuovi
modi di vedere attraverso l’arte, creando
perciò una piattaforma per il discorso intellettuale e per lo scambio di nuovi pensieri
ed idee.
1˜E
Estratto da PUBLIC/PRIVATE – PUBLIC AND PRIVATE ART CLUSTERS
Conversazione con Erika Hoffmann, Wilfried Lentz, Beatrix Ruf e moderata da James Rondeau
Art Basel Conversations, Basel, Sabato, 19 giugno 2004.
When I started to work the Kunsthalle Zürich, two and a half years ago, I came into what is called an
Art Cluster, which is literally covering everything connected to the distribution and representation of
contemporary art. It developed slowly, since 1996 when the Kunsthalle moved. And from that time,
until 2002 when I started, everything came together; beginning from the public institution, which
is the Kunsthalle, to the private mu- seums, which was Migros Museum, and now also included
the Daros collection, to galleries, working with international contemporary art of the highest level,
to even an auction house with gallery, de Pury Luxembourg, who moved in about two years ago. I
remember very well, that one big discussion in the interviews I had to give at the time was how the
Kunsthalle, as a public institution identifies itself in this Cluster. And this is an ongoing discussion
because the Kunsthalle has a public mission, but as is the case for most of the Swiss art institutions, was privately initiated and is still mostly privately funded. The fact is 60% of our budget still
has to come from private sources, like members, as we are an art society and sponsors and foundations, and other supporters of the arts.
The Cluster Löwenbräu was initiated by Bernhard Mendes Bürgi, who I am sure you all know as
the director of the Kunstmuseum of Basel. It was an initiative motivated by practical or pragmatic
reasons. In the early 90s the Kunsthalle had originally been located in one of the more industrial
area of Zurich, the Hardturmstrasse.
You have to imagine that Zurich in those days, as opposed to Basel, did not have a contemporary
art scene. There was no Kunsthalle twenty years ago. There was a project dedicated to contemporary art, a kind of Kunsthalle project, end of the 70s called INK. It was a collaboration between the
Migros and Urs Raussmüller. After INK closed down Raussmüller went to Schaffhausen to open
the Hallen für neue Kunst. In 1990 the Kunsthalle moved into its first permanent exhibition spaces
the Hardturmstrasse, and a few new, young galleries gathered around there like Peter Kilchmann,
and Bob van Orsouw, Marc Jancou, who is not in Zurich any more and Iwan Wirth, who did not have
a gallery then but more of a semi-hybrid space, showing collections and getting into secondary
markets.
When this whole area was torn down and Bernhard Mendes Bürgi had to look for another space,
and he found the Löwenbräu, he wanted to initiate a kind of art cluster just for practical reasons,
because the owners wanted to rent out the whole building. Luckily, the Migros then decided to
install a place to show their collection, and in- vest in presenting contemporary art. So the Migros
Museum and the Kunsthalle were obliged to rent one full floor in the building to secure the rental of
the building complex. Everybody who moved in 1996 made their own individual renovations.
Meanwhile, and this is really a 90s phenomenon, clusters one knows about, like Chelsea, of former
Soho, or Mitte, just to name a few, were always part of a highly commercialized or in danger of
being part of (or even a driver of) the commercialization or gentrification of the urban areas they
served.
In the 90s, Zurich kind of ended at the railway tracks, which is very close to the centre of the city,
and Löwenbräu is outside the railway tracks which at that time was just an industrial area.
Today, this has become a very developed area of town. There is housing, and offices and huge
complexes, so we are kind of “victims,” as we are assimilated into the gentrification process which
was initiated by the development of the Löwenbräu-Areal. The huge CINEAMAX complex added to
this phenomenon, along with the new, second venue of the Theater. All of this has created a new
cultural city centre. For the group, which formed the Löwenbräu cluster in the beginning, what was
of vital importance – and this also makes a big difference to clusters in general – was that all the
institutions and galleries that came together shared the same emphasis on and vision of quality.
This is something we also have to consider for the future development of the complex.
The owners of the Löwenbräu building have changed in the meantime, for the third time, and we
spoke briefly about the idea of how the city of Zurich or the state officials view the idea of culture as
part of the city development. In the beginning there was no interest what so ever in having culture
perceived as a driving force. With regards to the Löwenbräu complex, however, this process is actually reversed. These considerations have changed, and the city now recognizes that the integration of culture is moving to the forefront, and this is partially due to the changes in ownership of
industrial complexes in this area. Today, we are considering the interplay between the commercial
galleries, public institutions, and private collections on show in the Löwenbräu but we should not
forget that this is also about how to maintain an influence or control – sounds horrible – on the constellation of the galleries and public institutions that are located in this “post-commune” developed
Löwenbräu-Areal.
(…)
Funnily enough our public tours are very poorly attended, but on the other hand, the Cluster creates
numbers that are unusually high for a contemporary art space that would be sitting in the city alone.
Fortunately we do not have to look so much for visitors’ numbers. The city is aware of the situation
for contemporary art and we are still highly privately funded and therefore, public pres- sure is
lower than if we had to reach a certain visitor number. Attendance is quite high when it comes to
exhibitions but the education project that has just started, which was not established and the public
tours and lectures and symposium are perceived in a totally different way as compared to the
events Kunsthaus Zürich would do in this field. Partly, this is due to the Cluster in general; the
audience finds it maybe difficult to differentiate what the Kunsthalle is supposed to be doing, as opposed to other commercial spaces. However, sometimes these discrepancies can become a source
of irritation or misunderstanding. This is an interesting aspect, but at the same time it is not easy to
handle. For example, in former times, an institution would do a show of an artist, and it could happen that a gallery in the same town would decide to do a show of the same artist in parallel, which
would have been seen as a great situation of being able to see more aspects of this artists work. If
we did that in the Löwenbräu Cluster it would be perceived that the commercial part is influencing
the public part.
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ANGELA VETTESE
Angela Vettese è una curatrice e critica dell’arte. Si
è laureata in Filosofia Medievale presso l’Università degli Studi di Milano, conseguendo poi il perfezionamento in Storia dell’Arte presso l’Università
Cattolica del Sacro Cuore. Ha insegnato Storia
dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Milano e Venezia, all’Accademia Carrara di Bergamo, presso
l’Università Bocconi di Milano e il Politecnico de
la Universidad de Valencia, Spagna. Ha progettato insieme a Marino Folin, Marco de Michelis e
Germano Celant la Facoltà delle Arti dell’Università IUAV di Venezia, dove dal 2001 dirige il CLASAV
(Corso di Laurea Specialistica in Arte Visiva). Ha
fatto parte del Comitato Scientifico della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (1995-1997). E’ stata
co-curatrice del Premio Furla-Querini Stampalia
(1993-1996) e curatrice del Corso Superiore di Arti
Visive della Fondazione Antonio Ratti (1995-2003).
Ha diretto la Galleria Civica di Modena (2005-2009).
Dal 2002 è presidente della Fondazione Bevilacqua
La Masa di Venezia e dal 2007 co-fondatrice del
Festival di Arte Contemporanea di Faenza. Nel
2009 è stata presidente della Giuria Internazionale
della Biennale di Arti visive di Venezia. Fa parte
del Comitato scientifico di Palazzo Grassi-Punta
della Dogana a Venezia. Angela Vettese è una delle
più note critiche d’arte italiane: dal 1986 collabora
abitualmente al supplemento domenicale del Sole
24 ore e ha pubblicato diversi libri e articoli in
cataloghi.
BIBLIOGRAFIA
Investire in Arte: produzione, promozione, e
mercato dell’arte contemporanea, ed. Il Sole 24
ore,1991
Capire l’arte contemporanea, Allemandi,1996
Guardare l’Arte. Cultura visiva contemporanea: le
recensioni, i temi e gli appuntamenti, (con Anna
Detheridge) Il Sole 24 Ore,1999
FONDAZIONE BEVILACQUA LA MASA
La Fondazione Bevilacqua La Masa, fondata
nel 1898.
si occupa dell’organizzazione di mostre ed
incontri con gli artisti contemporanei ed altri operatori del settore, dando particolare
attenzione alle ricerche dei giovani artisti,
a cui viene data l’opportunità di partecipare
nella mostra collettiva annuale e di ricevere
una borsa di studio e una residenza all’interno della Fondazione.
Inoltre, la Fondazione propone momenti di
riflessione storica sul Novecento, aprendo
i propri spazi ad esposizioni dedicate ad
artisti internazionali affermati.
La Fondazione assume un punto di osservazione privilegiato sulle esperienze artistiche
più interessanti del territorio del Triveneto,
dove si pone come incubatore di progetti che coinvolgono la comunità artistica
locale, facendo da mediatore fra realtà
nazionali e internazionali di qualità.
Il Novecento, movimenti e protagonisti (con Gillo
Dorfles), Atlas, 2000
A cosa serve l’arte contemporanea, Allemandi,
2001
Ma questo è un quadro? Carocci, 2006
Artisti si diventa, Carocci, 1996
1˜F
Fieramente in vendita pubblicato in Domenica del Sole 24 Ore, 18.01.2009
“Ma è meglio – mi dirai – spendere soldi per comperare libri, piuttosto che per accogliere bronzi di
Corinto o Quadri”. Così recitava Seneca, fingendo un contraddittorio, nel IX capitolo de La tranquillità dell’animo. Già dai tempi della romanità, chi comperasse opere d’arte con la smania di accumularne veniva visto come persona fatua.
In altri tempi, Andy Warhol fu un bulimico dell’acquisto, nell’arte così come nelle manifatture pregiate, e si narra che avesse un intero palazzo pieno di casse e imballi con opere mai guardate dopo
averle pagate.
E uno stesso disagio che assume mille volti: dai collezionisti che nascondono i loro averi, agli artisti
che fanno ironia sulla loro propensione alla vendita. Banksy, lo Street artist più noto del momento,
si fa beffe dei suoi eventuali acquirenti sul suo sito ufficiale, dove appare una vetrina in cui legge:
«Attenzione, nessuno degli oggetti qui in vendita è stato realizzato o autorizzato da Banksy, con
l’eccezione di questo cartello». Un simile sarcastico vituperio del mercato lo realizzò del resto in
altri tempi il francese Vautier, coni suoi chioschi carichi di souvenir firmati Ben per collezionisti
avidi e polli.
Ma c’è poco da ridere. Tutti sanno che avere un mercato è sempre stato necessario.
Per concedergli i «quindece ducati al mese de provisione», Lodovico Gonzaga pretendeva da Mantegna che ritraesse persino «due galine de India del naturale che le voressimo far mettere suxo la
tapezaria nostra». Tra i motivi più cogenti per cui nacquero i Salon des Independents a Parigi, le
Secessioni dell’area germanica, le fondazioni italiane come l’opera Bevilacqua La Masa di Venezia
che si opponeva alla coetanea Biennale, ci fu la necessità di trovare luoghi di vendita alternativa a
quelli del mercato ufficiale non appena i rapporti di compravendita iniziarono a nascere sulla base
di opere “pret à apporter”: non più fatte su commissione ma esposte in una rassegna periodica,
possibilmente statale e convalidate da una critica capace di costituire una garanzia. Se un artista
non veniva accettato dalle mostre ufficiali, la sua possibilità di vendere (quindi di vivere del proprio
lavoro) era bassissima. Unica alternativa al morir di fame e di depressione, come più o meno capitò
a Van Gogh, a Modigliani e ad altri eroi, era lasciare colori e scalpelli per dedicarsi a mestieri più
prosaici.
Le mostre, è notorio, sono nate quasi tutte sul modello delle fiere, da quelle agricole agli Expo internazionali. La Biénnale ebbe il suo ufficio vendite fino agli anni della contestazione, con un Ettore
Gianferraxi deus ex machina dietro al bancone che non soltanto incassava, ma consigliava e quindi
condizionava. Fu sapendo che non c’era speranza di spuntarla in luoghi di vendita ufficiale che quei
monelli dei dadaisti si inventarono nel 1920 la Erste internationale Dada Messe di Berlino, con tanto
di catalogo con grafica di John Heartfield e dichiarazione ufficiale di Raoul Haussmann.
Il confine tra mostra e fiera è così sottile da non balzare chiaramente agli occhi nemmeno tra le fila
delle più accese avanguardie storiche. Solo con la mercificazione galoppante degli anni Sessanta si
raggiunsero eccessi che imposero di cambiare le cose o almeno di guardarle in faccia. La forte bora
anticapitalista di quegli anni cercò di togliere di mezzo l’idea che l’opera potesse essere un investimento speculativo. È appunto per indidicare l’anomalia di un plusvalore che cresce senza motivo
– e anche senza l’artista ne possa godere – che l’artista Hans Haacke ha preteso di avere, per ogni
vendita di una sua opera, una parte di proventi per sé alla stregua di diritti d’autore.
Cercando di fuggire ogni versante borghese del successo, molti artisti hanno cercato escamotages
come mettere la propria vecchia automobile in un’opera ( lo fece Mario Merz in una famosa installazione ambientale) in modo da scoraggiarne la vendita. Tranne poi immettere sul mercato disegni
e altre piccole cose, spesso richieste da quei mediatori pazienti, imploranti e solo apparentemente
bastonati che sono i galleristi più scaltri.
Tra Fiera e mostra il posto dove si vende e dove si espone, si è cercato di mettere barriere che non
agiscono nelle gallerie private ma che oggi, dopo un processo di demonizzazione del mercato che
va di pari passo con l’aumento delle cose vendute per volume e per prezzi, sono la norma per tutti i
musei pubblici. Vendere nei nuovi templi è proibito, tranne in quegli angoli di concessione alla bassa
materialità che sono i bookshop e gli art shop. Ma il denaro si vendica.
Le fiere che riuniscono le gallerie private (organismi tanto nomadi e duttili quanto invece sono
stanziali i musei) per essere competitive tra loro e attirare un pubblico vasto hanno raggiunto un’articolazione culturale difficilmente reversibile. La crisi ne asciugherà certo il numero, l’euforia e i
prezzi, ma non pare possa toccare le iniziative collaterali che hanno iniziato ad animarle. E a farle
diventare anche luoghi dove il mercato può essere anche messo sotto accusa: accade nei numerosi
dibattiti collaterali e soprattutto nelle nuove tipologie di opere. La vasta gamma di video, siti, opere
in rete figlie o cugine dei video di Youtube ci domandano come si possa trarre un profitto da questi
nuovi sviluppi della tecnologia. E ci offrono una inedita via di uscita dall’antico senso di colpa insito
in chi compera o in chi – succede! – vorrebbe collezionare ma non può.
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I. The centres for contemporary art and the European cities