ALBERTO SPEGIS IL VUOTO INDICE 1. Premessa: Perché il vuoto pag. 2 2. Vuoto scientifico: Cos'è il vuoto: I. Cosa era il vuoto Aristotele (greco-filosofia) Galileo (filosofia) II. Cosa è oggi il vuoto (fisica) la meccanica quantistica (fisica) il vuoto secondo le teorie contemporanee Epicuro: il vuoto come negazione del finalismo (greco-filosofia) Lucrezio e il clinamen (latino) il vuoto in Hegel (filosofia) "buchi neri", supernovae, nane bianche e stelle di neutroni (scienze) la "terra cava": la ricerca di Agarthi (scienze-storia) Hitler e i "superiori sconosciuti" (storia) il calcolo combinatorio e l'insieme vuoto (matematica) pag. 5 pag. 5 pag. 5 pag. 6 pag. 8 pag. 8 pag. 11 pag. 17 pag. 17 pag. 17 pag. 22 pag. 26 pag. 30 pag. 30 pag. 3 pag. 32 3. Vuoto interiore: Lo spleen: Baudelaire (italiano) Lucrezio (latino) Orazio (latino) Seneca (latino) T.S. Eliot e la "terra desolata" (inglese) pag. 39 pag. 39 pag. 40 pag. 41 pag. 42 pag. 45 4. Vuoto di senso: il Santo Graal: alla ricerca di cosa? (religione-storia) Hitler e la ricerca del Santo Graal (storia) * Jarry e la patafisica (italiano) il Dadaismo (storia dell'arte) Ionesco, La cantatrice calva (italiano) * Beckett, Aspettando Godot (inglese) Aldo Palazzeschi: (italiano) Visita alla Contessa Eva Pizzardini Ba E lasciatemi divertire! Achille Campanile, La lettera di Ramesse (italiano) pag. 52 pag. 52 pag. 71 pag. 82 pag. 86 pag. 91 pag. 99 pag. 103 pag. 106 pag. 110 pag. 112 Appendice: T.S. Eliot, The Waste Land (testo e traduzione in italiano e in sardo) pag. 117 Bibliografia e sitografia pag. 147 N.B.: gli argomenti contrassegnati con un asterisco sono stati svolti tramite un lavoro di gruppo. 1 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO 1. PREMESSA PERCHÉ IL VUOTO Il vuoto mi affascina. Quale vuoto? Tutto. Perché? Non lo so. Sarà perché lo si sente, li si vede, lo si vive tutti i giorni. Sarà perché è un segno dei tempi. Sarà perché, se non ci fosse il vuoto di senso, non esisterebbe la comicità che amo. Sarà perché sul vuoto si costruisce una parte interessante dell'arte. Sarà perché ci sentiamo ripetere che "siamo vuoti", noi giovani. Sarà perché se il pieno è quello ci viene proposto da certi modelli del mondo adulto, è meglio il vuoto. Sarà perché le teste vuote mi riempiono di stupore. 2 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Sarà perché il vuoto è anche silenzio, e il silenzio è il presupposto per: a) ascoltare; b) evitare di dire idiozie. Sarà perché nel vuoto si galleggia. Sarà perché il vuoto è pieno di vita nascosta. Sarà perché nulla è più triste e bello di una casa vuota. Sarà perché chi vuole diventare saggio non guarda la tv: si ritira nel deserto o in un eremo. Sarà perché ho sempre invidiato chi fa il navigatore solitario o l'esploratore in Antartide, mentre io tutt'al più vado al mare o in montagna con gli amici. Sarà perché non riesco a fare a meno del pieno. Sarà perché siamo tutti figli del vuoto cosmico. Sarà perché quando alzo gli occhi al cielo, di notte, resto senza fiato. 3 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO In fondo la risposta è molto semplice: il vuoto mi affascina perché è bellissimo. Ma esiste il vuoto? O è soltanto un'astrazione della mente umana? 4 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO 2. VUOTO SCIENTIFICO COS'È IL VUOTO Che cos'è il vuoto? Naturalmente intendo qui il vuoto in senso reale e fisico, non traslato. Nelle pagine che seguono cercherò anzitutto di ripercorrere l'evoluzione di questo concetto attraverso i secoli, per poi tentarne una definizione scientifica valendomi dell'autorevole contributo del matematico e fisico Tullio Regge. I. COSA ERA IL VUOTO Il concetto di vuoto è cambiato profondamente nel corso del tempo: per Aristotele, ad esempio, il vuoto non esisteva affatto. "La natura - egli diceva - aborre il vuoto". Il filosofo greco era giunto a questa conclusione dopo aver osservato che quando da un luogo veniva tolta tutta la materia, producendo appunto il vuoto, immediatamente nuova materia vi si precipitava a colmarlo; per Aristotele quindi la materia doveva essere ovunque. Aristotele Ancora oggi, nella pratica di tutti i giorni, tendiamo a identificare il vuoto con il nulla. Se ad esempio un bicchiere contiene solo aria diciamo che è vuoto, pur sapendo che l'affermazione non è corretta, perché l'aria è materia anch'essa, seppure molto poco densa. Il fatto che l'aria abbia una massa e sia quindi soggetta all'attrazione gravitazionale terrestre fu riconosciuto solo verso la metà del diciassettesimo secolo quando il fisico italiano Evangelista Torricelli (1608-1647) eseguì il famoso esperimento del tubo di vetro pieno di mercurio con l'estremità aperta posta all’interno di una vaschetta, anch'essa piena di mercurio. Fino a quel tempo era rimasta in auge la teoria aristotelica dell'«horror vacui». Questa, come abbiamo detto, sosteneva che il vuoto non poteva esistere e che ovunque si fosse tentato di crearlo, immediatamente quel luogo sarebbe stato invaso dalla materia. In realtà molti fatti dell'esperienza 5 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO quotidiana confermavano questa teoria, ma ogni tanto si verificava qualche fenomeno al quale la stessa teoria non era in grado di dare risposta. Uno di questi era la mancata estrazione dell'acqua da pozzi molto profondi per mezzo delle pompe aspiranti che erano costituite da un cilindro all'interno del quale, mosso da una leva, era libero di scorrere uno stantuffo che aderiva perfettamente alle pareti del suo contenitore. Abbassando la leva della pompa lo stantuffo veniva tirato verso l'alto lasciando uno spazio vuoto nella parte inferiore del cilindro. Pertanto, poiché la natura ha orrore del vuoto, se il tubo fosse stato collegato con una cisterna piena d'acqua, quest'ultima avrebbe dovuto innalzarsi in esso. E in effetti l'acqua si precipitava nel vuoto creato dallo stantuffo che si era alzato ma, qualora il dislivello fra l'acqua contenuta nella cisterna e la sommità del tubo fosse stata superiore ai 10 metri, l'acqua non sarebbe riuscita a superarlo, anche se la macchina aspirante fosse stata in perfetto stato e l’operatore si fosse impegnato a pompare con forza e a lungo. Per quanto la cosa fosse nota da tempo, questa anomalia venne presa in seria considerazione solo agli inizi del Seicento, quando se ne occupò Galileo Galilei. L'occasione gliela offrì, nell'estate del 1630, un certo Giambattista Buliani, il quale gli scrisse da Genova per chiedergli lumi su di un fatto che gli era capitato di osservare. Egli raccontò in quella lettera di aver costruito un sifone che doveva servire per portare l'acqua al di là di un monte, ma questo sifone non funzionava. Riempitolo d'acqua, infatti, la stessa poi ricadeva da ambo le parti del tubo ricurvo, lasciando un vuoto all'interno della zona superiore, il quale non veniva più riempito dall'acqua. Galilei gli rispose che a lui era capitato di assistere a qualche cosa di simile e che se gli fosse stato chiesto il parere prima della costruzione dell'impianto, avrebbe potuto fargli risparmiare la spesa, mostrandogli "l'impossibilità del quesito". Galileo Galilei In realtà lo scienziato pisano, per spiegare l'anomalia del fenomeno osservato, aveva elaborato una teoria (sbagliata) la quale null’altro era che un ampliamento dell'idea aristotelica dell'«horror vacui». Egli pensava infatti che una colonna d'acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l'azione del suo stesso peso, 6 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in alto, viene tirata dal basso. Fu quindi proprio questa analogia fondata sull'esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada. La questione venne risolta, come abbiamo accennato, qualche anno più tardi, dal fisico Evangelista Torricelli, un discepolo di Galilei, il quale, in seguito alla sua famosissima “esperienza dell'argento vivo", "ebbe concetto" che la forza che reggeva la colonna di mercurio all'interno del tubo di vetro non fosse dovuta all'«horror vacui», ma al peso dell'aria che gravava sul mercurio contenuto nella vaschetta sottostante. Allo stesso modo, l'acqua che sale nel tubo dal quale viene aspirata l'aria, vi sale non già perché deve andare a colmare il vuoto che la natura teme, ma perché viene spinta dalla pressione dell'aria che agisce sull'acqua contenuta nel pozzo. Antica stampa raffigurante Torricelli che inventa il barometro a mercurio Poiché si trattava semplicemente di stabilire un’uguaglianza tra pesi, Torricelli pensò che non fosse indispensabile usare l’acqua e infatti giudicò più comodo sperimentare con il mercurio: riempì quindi con questa sostanza una provetta lunga un metro e con la sezione di un centimetro quadrato che poi rovesciò, tenendola ben chiusa con il pollice, in una vaschetta piena dello stesso metallo liquido. Tolto il dito dall'apertura del tubo, il mercurio scese fino a raggiungere l’altezza di circa 75 cm. Nei restanti 25 centimetri della provetta si era creato il vuoto, quello che ancora oggi si chiama “vuoto torricelliano”, anche se non si tratta di un vuoto vero e proprio poiché quello spazio contiene una piccola quantità di vapori di mercurio. Torricelli non si limitò tuttavia a proporre una nuova ipotesi per spiegare il fenomeno che aveva osservato, ma suggerì anche un esperimento (che poi verrà realizzato da altri), che avrebbe potuto avvalorare o dimostrare falsa la sua idea. L'esperimento consisteva nel misurare l'altezza del mercurio all'interno del tubo di vetro in alta montagna. Se era vero che era l'aria che premeva sul mercurio contenuto nella vaschetta ad innalzare quello presente nel tubo di vetro, diminuendo il peso dell'aria sovrastante avrebbe 7 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO dovuto diminuire anche il livello del mercurio all'interno del tubo di vetro. L'esperimento venne realizzato per la prima volta nel 1648 dal matematico francese Blaise Pascal e confermò la previsione del fisico italiano. Questo è il vero significato di una teoria scientifica: essa non solo deve spiegare in modo chiaro e coerente i fatti da cui ha tratto origine, ma deve anche poter avanzare previsioni su comportamenti che saranno eventualmente verificati in un secondo momento. Con la nuova teoria proposta da Torricelli l'uomo fu in grado di giustificare correttamente i fenomeni fino ad allora conosciuti e inoltre di spiegarne un numero sempre più vasto di nuovi. II. COSA E’ OGGI IL VUOTO Oggi l’idea di una natura che ha orrore del vuoto è cambiata radicalmente: la natura non aborre affatto il vuoto, anzi, l’Universo è quasi ovunque vuoto ed è semmai la materia che ora costituisce l’eccezione. In verità è la materia stessa ad essere praticamente vuota, essendo la sua massa quasi interamente concentrata nei piccolissimi nuclei degli atomi che la costituiscono. Non solo, ma la vecchia idea di vuoto che veniva assimilato al nulla è cambiata pure essa. La meccanica quantistica, ossia la teoria che descrive il comportamento originale e imprevedibile delle particelle subatomiche (elettroni, fotoni, quark, ecc.) ha una visione del tutto nuova del vuoto: essa lo immagina pervaso da continue fluttuazioni energetiche dalle quali si genera materia. Si può dunque dedurre che la materia e l’energia derivino dal nulla? Sì, purché materia ed energia che emergono dal nulla, in modo spontaneo e senza motivo, un istante dopo essere apparse vengano distrutte e ritornino nel nulla. Come è possibile? Uno dei risultati più straordinari della fisica del microcosmo è l’avere scoperto che lo spazio vuoto non è affatto vuoto: appare tale solo perché la creazione e la distruzione incessante di particelle ed altre strane entità si verifica in esso su intervalli temporali brevissimi e tali comunque da non lasciare allo sperimentatore il tempo materiale per la loro rilevazione. Il vuoto sembra tranquillo su scala macroscopica come appare piatto e uniforme il mare visto da un aereo che vola ad alta quota, mentre se si stesse su una barchetta esso si mostrerebbe ben diverso, con onde e flutti anche di notevoli proporzioni. Allo stesso modo, se lo potessimo guardare da vicino, il vuoto apparirebbe un mare in tempesta ribollente di ogni sorta di manifestazioni stravaganti, fenomeni che avverrebbero da sempre e in ogni dove. Oggi si ritiene non solo che la natura non abbia affatto paura del vuoto, ma che ogni cosa che esiste e che esisterà in futuro è stata ed è tuttora presente in forma virtuale nel nulla dello spazio. Questa incredibile proprietà del vuoto scaturisce dalla combinazione della meccanica quantistica con la relatività di Einstein. Una conseguenza diretta della meccanica quantistica (o fisica dei quanti) è il principio di indeterminazione di Heisenberg, il quale afferma che il mondo microscopico possiede un’incertezza di fondo: l’impossibilità di determinare con precisione assoluta i parametri fisici delle particelle di piccole dimensioni. Nel vuoto questa incertezza si manifesta sotto forma di piccole fluttuazioni energetiche che vanno e vengono senza sosta e che in parte si convertono in entità materiali. La teoria della relatività, attraverso la famosa equazione E=mc² (energia uguale massa per velocità della luce al quadrato), suggerisce infatti che l’energia possa trasformarsi in materia e viceversa. Per la precisione la materia si genera a partire dall’energia sotto forma di particella e antiparticella (ad esempio elettrone e positone insieme) dalla vita brevissima: per tale motivo esse vengono chiamate "virtuali". Le particelle virtuali quanto più sono grandi tanto meno vivono, ma in quel breve lasso di tempo potrebbero anche diventare reali (cioè particelle effettive) se potessero disporre di una fonte di energia adeguata. Ma se le particelle virtuali non possono essere viste, come facciamo a sapere che esistono? Ce lo garantisce la teoria, ancorché per la scienza la teoria non basti. Inoltre l’esistenza di coppie effimere particella-antiparticella nel vuoto può essere verificata, sia pure indirettamente, mediante esperimenti di alta precisione: vediamo come. E' indispensabile innanzitutto cercare uno spazio vuoto entro il quale condurre l’esperimento. Il vuoto che riusciamo a creare con le tecniche disponibili non è sufficiente perché quello spazio non è affatto vuoto. Con la classica pompa per vuoto, in funzione nei gabinetti scientifici di molte scuole, si ottiene solo aria rarefatta. Un risultato migliore si ottiene con pompe rotative o con le più moderne pompe criogeniche che condensano 8 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO i gas su superfici freddissime e poi li eliminano. Tuttavia, per quanto ci si impegni, all’interno del recipiente nel quale si cerca di creare il vuoto resterebbero sempre alcune decine di migliaia di particelle per centimetro cubo, poche rispetto ai miliardi di miliardi che affollano lo stesso volume in condizioni normali ma sempre troppe per considerare vuoto quello spazio. Per ottenere qualche cosa di meglio ci si dovrebbe trasferire nello spazio, dove il vuoto è molto più spinto di quello ottenibile in qualsiasi laboratorio terrestre. Anche il vuoto cosmico tuttavia non è del tutto vuoto: qualche elettrone, qualche atomo o rari granellini di polvere finissima si incontrano anche da quelle parti. Tuttavia nello spazio interstellare vi è molto poca materia, tanto che per raggranellarne un grammo si dovrebbe rastrellare uno spazio grande come il nostro pianeta. Per il nostro esperimento nemmeno lo spazio cosmico andrebbe bene: servirebbe un vuoto assoluto, e uno spazio con quelle caratteristiche è stato individuato all’interno dell’atomo le cui particelle costitutive 9 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO (nucleo ed elettroni che gli girano intorno) sono migliaia di volte più piccole dell’atomo intero: ragione per cui l’edificio nel suo complesso appare vuoto. Ebbene, proprio nel vuoto presente fra il nucleo centrale e gli elettroni che si muovono intorno ad esso si vengono a creare particelle virtuali che, come abbiamo detto, è impossibile vedere direttamente ma i cui effetti sono misurabili sugli elettroni periferici dell’atomo stesso. L’esperimento venne portato a termine, nell’immediato dopo guerra, utilizzando alcune tecniche di precisione che furono messe a punto nel corso del secondo conflitto mondiale dal fisico sperimentale Willis Lamb. Egli misurò piccole variazioni orbitali dell’elettrone dell’atomo di idrogeno le quali venivano poi confrontate con i calcoli teorici basati sulla elettrodinamica quantistica. Se i calcoli non avessero tenuto conto della comparsa e della successiva scomparsa di una coppia particella-antiparticella virtuale, ci sarebbe stata discordanza fra predizioni teoriche e osservazioni sperimentali. Questa discordanza invece non c’era e l’orbita dell’elettrone calcolata sulla carta si accordava perfettamente con le misurazioni effettuate da Lamb, a dimostrazione del fatto che le particelle virtuali che affollano il vuoto producono effetti reali sulla materia. L'interno del tunnel del LHC, il super-acceleratore di particelle del CERN di Ginevra Una seconda convalida del nuovo modo di concepire il vuoto si ebbe all’interno dei ciclotroni, le macchine nelle quali vengono accelerate le particelle subatomiche per poi farle scontrare fra di loro. Lanciando gli uni contro gli altri, elettroni e positoni (cioè materia ed antimateria), l'energia che scaturisce dalla loro annichilazione è sufficiente per rendere reali le particelle virtuali fluttuanti nel vuoto. In questo modo venne creato uno dei tre quark esistenti (il charm) con il corrispondente antiquark. I fisici confidano con queste tecniche di tirare fuori dal vuoto nuove forme di materia ancora sconosciute. Dal vuoto sarebbe addirittura nato l’Universo intero: non è infatti da escludere che anche il Cosmo si sia materializzato dal nulla in seguito ad una gigantesca fluttuazione quantistica del vuoto: le leggi della fisica, come abbiamo visto, non escludono una simile eventualità. 10 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO IL VUOTO SECONDO LE TEORIE FISICHE CONTEMPORANEE Che cos'è il vuoto in senso propriamente scientifico, alla luce delle teorie fisiche più recenti? La definizione data dai fisici è oltremodo complessa e molto distante da quello che pensa l'uomo della strada: leggiamo nel sito del C.A.S.T. che il vuoto è "lo stato in cui tutti gli oscillatori quantistici sono sul livello più basso di energia." Un profano non riesce neppure a comprendere di cosa si stia parlando. A tale proposito ritengo opportuno riportare il tecnicissimo articolo di Tullio Regge intitolato Il vuoto dei fisici pubblicato su l'Astronomia n° 18 settembre-ottobre 1982 e leggibile per intero qui: http://www.castfvg.it/articoli/fisica/vuoto_01.htm, integrandolo all'occorrenza con altri contributi. "Cosa intendiamo noi fisici quando parliamo di vuoto? L'uomo della strada quando sente parlare di vuoto pensa istintivamente ad un recipiente da cui sia stata evacuata la materia con opportune pompe. Io vorrei portare la discussione su questioni di principio e mostrare la relazione tra il concetto di vuoto e quello di etere che lo ha preceduto storicamente e dal quale ha tratto origine." In fisica l'etere luminifero era l'ipotetico mezzo attraverso il quale, fino al XIX secolo, si pensava si propagassero le onde elettromagnetiche. Sebbene il termine e le prime ipotesi sulla sua esistenza e la sua natura risalgano già al XVIII secolo, quando l'ipotesi più accreditata sulla natura della luce era quella corpuscolare di Newton, è nel secolo successivo, con l'affermarsi della teoria ondulatoria della luce di Young e Fresnel, che l'esigenza di postulare un mezzo materiale per la loro propagazione si fa più stringente. La natura di questo mezzo materiale fu sin dall'inizio fonte di numerosi problemi. Il fatto che le onde luminose fossero onde trasversali richiedeva un etere solido, invece che liquido o gassoso; l'elevatissima velocità di propagazione della luce richiedeva una rigidità corrispondentemente elevata per l'etere; il fenomeno astronomico dell'aberrazione della luce delle stelle indicava che l'etere dovesse restare immobile su distanze, appunto, astronomiche. 11 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO E tuttavia, in apparente contrasto con tutto ciò, non si poteva rivelare alcuna resistenza al moto dei corpi da poter attribuire all'etere. La Terra - il sistema solare nel suo complesso - orbita attorno al centro della propria galassia ad una velocità di 217 km/s. Un vento d'etere con quella velocità avrebbe dunque dovuto investire la Terra in direzione opposta al proprio moto di rivoluzione galattica. Il moto del sistema solare nella galassia non era ben noto nel XIX secolo, ma era noto il moto di rotazione intorno al proprio asse, dato che si conosceva con precisione il diametro terrestre: il suo effetto sarebbe stato un vento d'etere variabile con la latitudine, con un picco di 460 m/s all'equatore. Inoltre era noto il moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole, alla velocità di circa 30 km/s. Nel 1887, Michelson e Morley hanno fornito quello che, a posteriori, viene dai più considerato come l'esperimento cruciale sulla questione. In realtà non esistevano modelli alternativi capaci di inquadrare coerentemente i dati sperimentali e il risultato venne interpretato semplicemente come la prova dell'assenza di vento d'etere, da spiegare con eventuali altri meccanismi come ad esempio il trascinamento vicino alla superficie terrestre di un etere non più pensato fisso nello spazio. Bisognerà aspettare i primi anni del nuovo secolo quando Hendrik Lorentz e Henri Poincaré proporranno le loro teorie ed Albert Einstein pubblicherà la sua derivazione da principi primi, poi diventata famosa come teoria della relatività ristretta, in cui si fa completamente a meno di qualsiasi ipotesi sull'etere, sebbene a tutt'oggi il termine sia utilizzato nel linguaggio comune per indicare in maniera generalista la trasmissione di dati senza cavo, emissioni radio televisive comprese. Albert Einstein "Secondo molti testi di fisica - prosegue Tullio Regge - l'avvento della relatività avrebbe cancellato il concetto di etere dalla fisica. Einstein cambiò più volte opinione su questo soggetto. In qualche modo i fisici teorici sono d'accordo sul concepire il vuoto come un etere dotato di proprietà molto particolari. Torniamo al recipiente da cui viene pompata via l'aria. Così facendo diminuiamo la quantità di materia, quindi la massa contenuta nel recipiente. Dunque, se pensiamo alla famosa relazione E = Mc2, che esprime l'equivalenza tra massa M ed energia E, dove c è la velocità della luce, stiamo anche diminuendo l'energia. Sotto questo punto di vista il vuoto appare come la configurazione di energia minima. Per ottenere veramente il vuoto dobbiamo quindi togliere tutta l'energia, sotto qualunque forma essa appaia. 12 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Anche la luce possiede energia: gli "atomi" di luce, i fotoni, si comportano come delle particelle dotate di energia secondo la formula di Planck E = h . Se vogliamo davvero un vuoto debbono sparire anche i fotoni. Il vuoto deve essere anche un "buio". Lo stato di energia minima di un sistema qualsiasi dicesi stato fondamentale. Il vuoto è dunque lo stato fondamentale dell'interno del recipiente. I fisici teorici usano un vuoto ancora più estremo, quello in cui il recipiente è tutto l'universo, uno "stato" dunque in cui neppure noi abbiamo il diritto di esistere. Tutti i sistemi meccanici possiedono uno stato fondamentale. Un pendolo classico lo raggiunge nella posizione verticale di riposo. In questo caso avrebbe energia cinetica nulla e quella potenziale minima. Un pendolo classico (A = accelerazione, V = velocità) Diversa è la situazione per un pendolo quantistico. A causa del principio di indeterminazione di Heisenberg non è possibile attribuire simultaneamente una posizione ed una velocità precisa al pendolo. Lo stato fondamentale sopra descritto non è più accettabile. Ne subentra uno in cui sia la posizione sia la velocità del pendolo sono diverse da zero." Un caso di rilevante interesse viene poi dalla teoria di Hawkins del buco nero. Un buco nero è una configurazione limite della materia in cui la forza gravitazionale predomina su tutte le altre e conduce ad una soluzione del campo einsteiniano il cui raggio vale circa R=2MG/c2. In questa formula G è la costante di gravitazione universale di Newton e abbiamo G/c2 = 0,74 * 10-28 cm/g. Un buco nero ha dunque un raggio proporzionale alla sua massa. La Terra formerebbe un buco nero del diametro di pochi centimetri. Un buco nero può accelerare una qualunque particella a velocità prossime a quella della luce entro il suo raggio e in un tempo circa uguale a R/c. L'accelerazione di gravità indotta dal buco nero cresce con il diminuire della sua massa. Una coppia virtuale nelle vicinanze del buco nero diventa reale se almeno una delle sue componenti può essere inghiottita dal buco in un tempo più breve del valore limite h/2mc2 tipico della coppia (con M indichiamo la massa del buco nero, con m la massa delle componenti della coppia). Questo impone che MG/c3 sia molto minore di h/mc2. Più la particella è pesante, minore deve essere la massa del buco nero. Si tratta dunque di una situazione instabile. Un buco nero può sempre emettere fotoni, poiché questi hanno massa nulla. Così facendo perde energia e quindi massa, fino al punto in cui può emettere elettroni, indi mesoni, protoni e così via. Secondo i calcoli la fine del buco nero è catastrofica, le ultime tonnellate di massa vengono emesse in una frazione di secondo sotto forma di particelle ad alta energia. Vediamo dunque che campi sufficientemente intensi possono rivelare la struttura del vuoto e le sue fluttuazioni. 13 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO La galassia Sombrero, che secondo gli scienziati contiene al suo interno un enorme buco nero Veniamo ora ad un altro argomento molto importante, quello delle simmetrie del vuoto. In generale un sistema fisico possiede uno stato fondamentale di elevata simmetria. Un pendolo oscilla attorno alla configurazione verticale, l'atomo di idrogeno mostra una simmetria sferica, una membrana vibrante nel tono più basso non ha né nodi né ventri che potrebbero diminuire la simmetria. Non a caso dunque il vuoto globale, quello dei fisici teorici, mostra tutta la simmetria possibile. Se noi ruotiamo o trasliamo questo vuoto, esso non cambia. Ma anche muovendoci di moto uniforme rispetto ad esso, agendo cioè con delle trasformazioni di Lorentz, il vuoto rimane immutato. Nella maggioranza delle teorie fisiche proposte finora il vuoto è appunto distinto da queste proprietà. E si potrebbe anche dire che in fondo non è assolutamente possibile distinguere un etere invariante sotto tutte le operazioni sopra descritte da un vuoto vero e proprio; la distinzione diventa semantica. La vecchia polemica pro o contro l'etere originava da una concezione troppo ristretta di etere, come fluido dotato di proprietà simili ai fluidi materiali conosciuti. Di qui la polemica sul "vento d'etere". Per quanto detto, il vuoto parrebbe essere lo stato di massima simmetria di un sistema. L'esistenza delle cosiddette "rotture spontanee" di simmetria pone dei limiti a questa caratterizzazione. Cercherò di spiegare di cosa si tratta ricorrendo a modelli classici molto semplici. Un oscillatore classico a due dimensioni può immaginarsi come una pallina appesa ad un filo oppure come una biglia posata entro una buca di potenziale a forma di coppa semisferica. In questo caso la posizione di energia minima è anche quella di massima simmetria; possiamo ruotare infatti la configurazione attorno ad un asse verticale senza che essa cambi. Le oscillazioni della pallina non sono simmetriche ma l'insieme di tutte le oscillazioni possibili è simmetrico. Invece di una coppa semisferica, consideriamo il fondo di un bottiglione oppure un catino che poggi sul tavolo lungo tutta una circonferenza. Il punto centrale diventa una posizione di equilibrio instabile, il minimo viene invece raggiunto lungo la circonferenza di contatto. Tutte le posizioni minime della pallina sono dei "vuoti" possibili, nessuno dei vuoti è simmetrico ma l'insieme globale lo è. Si parla in questi casi di rottura spontanea della simmetria. Si veda l'immagine sottostante: 14 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Nel caso (a) la pallina si adagerà al centro, e quindi il suo stato fondamentale è ancora simmetrico. Nel caso (b), se poniamo la pallina al centro, vediamo che rotolerà via e sarà costretta a scegliere un punto lontano dal centro: la simmetria è rotta. La rottura è stata spontanea, poiché la particella ha dovuto scegliere una certa direzione per poter raggiungere lo stato fondamentale. Ma la simmetria è ancora presente; muovendo la palla lungo l'avvallamento si resta nello stato fondamentale. Le piccole oscillazioni intorno a uno di questi diversi vuoti non vedono la simmetria completa del recipiente, quelle più energetiche invece esplorano tutto il catino e si accorgono che ha simmetria circolare. Nella teoria di Weinberg-Salam viene introdotta una struttura di campo simile al catino da me descritto, il vuoto non risulta simmetrico e così pure le piccole oscillazioni attorno al vuoto, ossia le particelle elementari descritte dalla teoria. Solo nelle collisioni ad altissime energie è possibile vedere, in regioni ristrette dello spazio e per brevissimi istanti, tutta la splendida simmetria della teoria. E' possibile immaginare teorie in cui esistono configurazioni simili al vuoto ma che raggiungono solamente dei minimi relativi di energia. Una particella che sia costretta a viaggiare in una buca di potenziale con molti minimi e massimi potrebbe possedere molti tipi diversi di vuoti relativi. Classicamente sarebbe molto difficile distinguere tra un vuoto e l'altro. Se non diamo una spinta sufficiente, una pallina contenuta entro una buca non va ad esplorare altri minimi di sua spontanea volontà. Quantisticamente invece una fluttuazione potrebbe indurre una transizione (detta effetto tunnel) tra un minimo e un altro minimo più basso. I vuoti relativi sarebbero instabili. Se tuttavia la vita media per una transizione del genere risulta lunghissima, un vuoto relativo può apparire assoluto ad una osservazione incompleta. Le particelle elementari sono le piccole oscillazioni attorno al vuoto; se questo cambia cambiano pure le particelle che vengono osservate. E' dunque il vuoto che determina le proprietà della materia, noi stessi siamo delle piccole fluttuazioni attorno al vuoto consueto. Ed in fondo lo chiamiamo "vuoto" proprio perché siamo delle piccole oscillazioni attorno a questo vuoto. Una zona di spazio che venga ad essere occupata da un altro tipo di vuoto ci apparirebbe pienissima. Inversamente, degli esseri nati dalle eccitazioni attorno a questo vuoto penserebbero a noi come a delle oscillazioni di un fluido estremamente denso. Esistono altri vuoti? E' il nostro veramente lo stato di minima energia? La risposta a questa domanda è probabilmente affermativa; se esistesse un supervuoto più basso del nostro potremmo correre dei rischi molto seri giocando con gli atomi. Una volta iniziata, la transizione potrebbe propagarsi alla velocità della luce facendo scomparire noi e tutte le cose conosciute per instaurare un nuovo tipo di materia totalmente diverso da quello attuale. E' molto improbabile che questo avvenga: infatti i raggi cosmici continuano a bombardare tutta la materia dell'universo da miliardi di anni senza che si siano verificati casi del genere nonostante essi raggiungano energie miliardi di volte più elevate di quelle dei nostri acceleratori. Niente paura dunque. 15 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Una stupefacente immagine dello "spazio vuoto" Esiste un divertente esempio di vuoto relativo rispetto al nostro. Raffreddando l'elio liquido otteniamo un superfluido. Se si potesse arrivare allo zero assoluto otterremmo un vuoto relativo. Allo zero assoluto l'elio contenuto in un recipiente forma un singolo stato quantico che rappresenta un minimo relativo di energia. Se potessimo aspettare oltre 1040 anni i nuclei di elio finirebbero per fondersi in nuclei più pesanti e formare ad esempio del ferro. L'elio liquido è dunque metastabile (si ricordi che in fisica la metastabilità è una condizione di equilibrio che, a differenza dell'equilibrio stabile, non corrisponde ad un minimo assoluto di energia. Un sistema in equilibrio metastabile si mantiene in condizione di equilibrio (meta)stabile nel tempo, fintanto che non viene fornito al sistema un quantitativo sufficiente di energia che ne perturba il suddetto equilibrio: se l'energia fornita è sufficiente allora questa spezza la condizione di stabilità del sistema conducendolo in un'altra condizione di equilibrio (meta)stabile). Attorno a questo minimo il sistema può effettuare delle oscillazioni che consistono essenzialmente di onde sonore propagantesi attraverso il fluido. Queste onde sono quantizzate, i loro quanti si chiamano fononi. Dunque questo tipo di vuoto ha le sue particelle. I fononi possono aggregarsi in strutture più complicate, delle rozze molecole fononiche. L'elio liquido non mostra la spettacolare varietà di particelle che caratterizzano il nostro vuoto e che rendono possibile l'esistenza di complesse strutture organiche e della vita. Se così fosse, esisterebbero degli esseri viventi che considerano l'elio liquido come assolutamente vuoto ed i fononi come una forma di materia. Per essi la materia ordinaria sarebbe inconcepibile o perlomeno il frutto fantasioso di speculazioni teoriche quali appunto quelle che stiamo facendo. Le pareti del recipiente sarebbero una barriera insormontabile: come potrebbe il suono uscire fuori dal fluido in cui si propaga? Allo stesso modo un altro vuoto potrebbe essere presente in questo universo al di là di qualche barriera non ancora incontrata. Alcuni fisici hanno discusso possibilità del genere (tra di essi Coleman) e l'idea che il nostro vuoto sia in qualche modo metastabile. Tutti vorremmo che il nostro vuoto fosse assoluto, il miglior vuoto esistente e che gli altri fossero metastabili come l'elio liquido. Dovrebbe essere chiaro dalla discussione che il particolare minimo dell'energia attorno a cui viviamo ci sembra vuoto nel senso usuale della parola, proprio perché noi siamo delle oscillazioni attorno a questo stato. Diamo quindi ad esso un significato particolare perché in fondo la densità media della materia è bassissima. In realtà il vuoto potrebbe essere relativo, oltre che fluttuante, e poco simmetrico e meno ancora elementare. Diamoci quindi da fare a studiare il vuoto: ci attendono delle sorprese. 16 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO EPICURO: IL VUOTO COME NEGAZIONE DEL FINALISMO I primi atomisti, com'è noto, sono Leucippo ed il suo allievo Democrito, con i quali l'atomismo di Epicuro non può evidentemente non fare i conti, sebbene egli neghi (poco credibilmente) ogni dipendenza dai due pensatori ed ammetta un debito soltanto nei confronti di Anassagora e dei suoi σπέρματα ("semi"). E' interessante confrontare la concezione del vuoto di Democrito (a noi meglio noto di Leucippo) e di Epicuro. Democrito chiama il pieno "essere" e il vuoto "non essere". Questo potrebbe sembrare strano: se il vuoto esiste, se lo spazio è reale, perché Democrito lo chiama "non essere"? Come chiarisce Gabriele Giannantoni, "lo chiama "non essere" perché è "privo di essere", cioè privo di atomi, tant'è vero che lui usa una formula che è caratteristica, che in italiano non è facilmente traducibile: "l'ente non esiste a maggior ragione del niente", cioè l'affermazione non esiste a maggior ragione della negazione. Questo modo di esprimersi, questo modo di presentare le cose sul piano linguistico, non può non richiamare Parmenide e l'eleatismo: la contrapposizione di essere e di non essere era tipica dell'eleatismo. Democrito in qualche modo la riprende, ma sempre tenendo fermo il principio costante dei pluralisti che la caratteristica dell'essere è quella di rimanere eternamente identico a se stesso, mentre tutto ciò che diviene, che nasce, che muore e si trasforma è soltanto mera opinione. Democrito dice che gli atomi esistono eternamente identici a se stessi e quindi sono l'"essere". Il vuoto, che consente il movimento degli atomi e quindi dà luogo al divenire, al nascere, al morire e al trasformarsi, Democrito lo considera altrettanto reale dell'"essere": linguisticamente lo designa con il termine che la tradizione eleatica ci ha trasmesso, cioè quello di "non essere". Quindi, da questo punto di vista, il rapporto tra l'atomismo e l'eleatismo è forse più consistente e anche più sicuramente accertabile che non quello dei rapporti tra l'atomismo e la matematica e la scienza greca. Raffaello, dettaglio dalla Scuola di Atene (Stanze Vaticane), 1509-10. L'identificazione dei 13 personaggi è oltremodo malsicura: l'unica certezza è che il numero 8 sia Pitagora. Secondo lo Starke Epicuro è il numero 3 e Democrito il numero 12; secondo il Passavant il numero 3 è invece Democrito, il 12 è Eraclito ed Epicuro non c'è. Epicuro riprende l'ipotesi atomistica di Democrito e introduce due elementi di novità sostanziale: il primo - più congetturale - è quello del peso degli atomi, che spiegherebbe la causa per cui cadono dall'alto verso il basso. Questo aspetto, però, poneva anche un altro problema: se gli atomi pesano e cadono tutti 17 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO verticalmente non si incontrano mai, e allora come si formano le aggregazioni? A questa obiezione o a questo inconveniente doveva far fronte la cosiddetta "teoria della declinazione", cioè quello che Lucrezio chiama il "clinamen". Questa teoria non è documentata direttamente nei testi che noi possediamo di Epicuro, ma nella versione lucreziana questa teoria è chiaramente espressa e consiste sostanzialmente nel fatto che nelle loro traiettorie verticali gli atomi a un certo momento indeterminato compiono dei salti ed in questo modo si intercettano altre traiettorie e così si formano i composti atomici. Come mai si verifica questo "clinamen", questa declinazione degli atomi? Qui i testi epicurei non ci soccorrono, si può pensare che sia una declinazione spontanea, casuale, ma quello che è certo è che Epicuro e l'epicureismo legavano a questa dottrina del "clinamen" la possibilità di ammettere la libertà dell'uomo, perché se tutto fosse stato predeterminato da traiettorie immutabili, l'uomo non avrebbe avuto nessuna libertà di scelta e di azione. Epicuro, che si preoccupava di liberare l'umanità dalla superstizione e dalle paure degli dei, arriva a dire che sarebbe meglio credere negli dei e nei timori conseguenti, piuttosto che rassegnarsi all'idea che tutto è determinato e che non c'è nessuna libertà per l'uomo." Il vuoto ha comunque per Epicuro una enorme rilevanza ideologica, dal momento che è il presupposto che gli consente di ripudiare qualsiasi teleologismo ontico, ovvero la convinzione che tutto quanto esiste esista per uno scopo o sia voluto da una Mente divina. Seguiamo, per quanto possibile, il ragionamento, attraverso il contributo di un articolo di Vittorio Morfino (Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. Un lessico, pubblicato in "Quaderni materialisti", n. 1, 2002). Riporto anzitutto i brani della Epistola ad Erodoto in cui Epicuro parla della costituzione dell'universo: Πρῶτον μὲν οὐδὲν γίνεται ἐκ τοῦ μὴ ὄντος. Πᾶν γὰρ ἐκ παντὸς ἐγίνετ' ἂν σπερμάτων γε οὐθὲν προσδεόμενον. Καὶ εἰ ἐφθείρετο δὲ τὸ ἀφανιζόμενον εἰς τὸ μὴ ὄν, πάντα ἂν ἀπωλώλει τὰ πράγματα, οὐκ ὄντων τῶν εἰς ἃ διελύετο. Καὶ μὴν καὶ τὸ πᾶν ἀεὶ τοιοῦτον ἦν οἷον νῦν ἐστι, καὶ ἀεὶ τοιοῦτον ἔσται. οὐθὲν γάρ ἐστιν εἰς ὃ μεταβαλεῖ. παρὰ γὰρ τὸ πᾶν οὐθέν ἐστιν ὃ ἂν εἰσελθὸν εἰς αὐτὸ τὴν μεταβολὴν ποιήσαιτο. Ἀλλὰ μὴν καὶ τὸ πᾶν ἐστι σώματα καὶ κενόν· σώματα μὲν γὰρ ὡς ἔστιν, αὐτὴ ἡ αἴσθησις ἐπὶ πάντων μαρτυρεῖ, καθ' ἣν ἀναγκαῖον τὸ ἄδηλον τῷ λογισμῷ τεκμαίρεσθαι, ὥσπερ προεῖπον τὸ πρόσθεν· εἰ δὲ μὴ ἦν ὃ κενὸν καὶ χώραν καὶ ἀναφῆ φύσιν ὀνομάζομεν, οὐκ ἂν εἶχε τὰ σώματα ὅπου ἦν οὐδὲ δι' οὗ ἐκινεῖτο, καθάπερ φαίνεται κινούμενα. Prima di tutto nulla nasce dal nulla; perché qualsiasi cosa nascerebbe da qualsiasi cosa, senza aver bisogno di semi generatori; e se ciò che scompare avesse fine nel nulla tutto sarebbe già distrutto, non esistendo piú ciò in cui si è dissolto. Inoltre il tutto sempre fu come è ora, e sempre sarà, poiché nulla esiste in cui possa tramutarsi, né oltre il tutto vi è nulla che penetrandovi possa produrre mutazione. E inoltre il tutto è costituito di corpi e di vuoto. Che i corpi esistano infatti lo attesta di per sé in ogni occasione la sensazione in base alla quale bisogna, con la ragione, giudicare di ciò che sotto i sensi non cade, come abbiamo detto prima; se poi non esistesse ciò che noi chiamiamo vuoto o luogo o natura intattile, i corpi non avrebbero né dove stare né dove muoversi, come vediamo che si muovono. (Epistola a Erodoto, 39-40, in Epicuro, Opere, Einaudi, Torino, 1970, pagg. 22-23) Scrive Morfino, riprendendo Althusser: "Il vuoto è in Epicuro come il concetto che permette di pensare la caduta a pioggia degli atomi ed il nulla prende la figura del clinamen, quella "deviazione infinitesimale, 'la più piccola possibile', che ha luogo 'non si sa dove né quando, né come' e fa sì che un atomo 'devii' dalla sua caduta a picco nel vuoto e, spezzando in maniera quasi nulla il parallelismo su un punto, provochi un incontro con l'atomo vicino e di incontro in incontro una carambola e la nascita di un mondo, vale a dire dell'aggregato di atomi provocato in catena dalla prima deviazione e dal primo incontro". Ciò fa sì che Epicuro, secondo la lettura di Althusser, pensi il mondo come effetto di un nulla prima di cui non c'era che il vuoto nel quale cadevano atomi parallelamente: "Epicuro ci spiega che prima della formazione del mondo un'infinità di atomi cadevano parallelamente nel vuoto. Essi cadono sempre. Il che 18 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO implica che prima del mondo non c'era nulla e, nello stesso tempo, che tutti gli elementi del mondo esistevano dall'eternità prima che vi fosse alcun mondo. Il che implica anche che prima della formazione del mondo non esisteva alcun Senso, né Causa, né Fine, né Ragione né follia. La non anteriorità del Senso è una tesi fondamentale di Epicuro, con la quale egli si oppone tanto a Platone quanto ad Aristotele". Epicuro Non c'è senso prima del mondo, nel vuoto, e non c'è senso nemmeno nella genesi, in quella deviazione infinitesimale, che si approssima al nulla, che è stata interpretata e, secondo Althusser, fraintesa come la fondazione ontologica della libertà umana nel mondo della necessità." Circa la dipendenza di Epicuro dalla dottrina atomistica di Anassagora, occorre precisare che essa, per quanto ammessa dal filosofo stesso, è solo parziale, per i motivi che cercherò di chiarire. Anassagora, in un certo senso, rappresenta il ponte tra la vecchia speculazione filosofica e la nuova, tra l’idea di un’omogeneità e un’unità del tutto di stampo parmenideo (fr. 17: “…niente nasce né perisce, ma da ciò che esiste si riunisce e si separa”) e il pluralismo di Empedocle come degli atomisti. Per Anassagora l’essere non è immobile né privo di determinazioni, ma è una totalità che originariamente prende avvio da una mescolanza (migma) in cui si trovano i princìpi, un numero infinito di semi (σπέρματα), di particelle qualitative infinitamente divisibili che, proprio attraverso la loro combinazione, la loro unione, costituiscono le cose. Il nome di omeomerìe con cui si definirono queste particelle similari, parti omogenee, deriva dalla definizione di Aristotele (in De generatione I, 1, 314 a 18). A differenza di quello leucippeo e democriteo, il pluralismo ontologico anassagoreo non prevede elementi neutri, gli atomi, che acquistano qualità evidenti e percepibili solo nei loro aggregati: per Anassagora gli elementi primi ed ultimi di ogni genere di cose reali sono già “qualificati”, in quanto semi delle cose stesse. La nascita è una riunione, una mescolanza di queste parti, la morte una separazione, una disgregazione delle stesse. 19 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Eduard Lebiedzki, Anassagora, circa 1888 “In ogni (cosa) c’è una particella di ogni (cosa)” (fr. 11), il tutto è in tutto, ossia in ciascun elemento si rinvengono le frazioni minutissime delle parti omogenee di altri futuri elementi che si generano dal primo, come afferma anche Lucrezio in De rerum natura I 830-837, un brano dedicato appunto ad Anassagora: Principio, rerum quam dicit homoeomerian, ossa videlicet e pauxillis atque minutis ossibus hic et de pauxillis atque minutis visceribus viscus gigni sanguenque creari sanguinis inter se multis coeuntibus guttis ex aurique putat micis consistere posse aurum et de terris terram concrescere parvis, ignibus ex ignis, umorem umoribus esse. Dapprima, quando egli parla di omeomerie delle cose, è evidente che ritiene che le ossa derivino da particelle minute di ossa, e da particelle minute di viscere nascono le viscere, e che il sangue è formato da gocce di sangue tra di loro molto coese e che da scaglie auree possa consistere l’oro, e la terra concresca da piccole parti di terra, e il fuoco dal fuoco, l’umore acqueo dall’umore. In effetti l'atomismo epicureo diverge sostanzialmente da quello leucippeo-democriteo proprio nell'identificazione di una qualità nativa per gli atomi: concetto desunto, come si vede, da Anassagora. 20 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Epicuro si differenzia però da tutti i suoi predecessori, incluso Anassagora, nella già citata attribuzione agli atomi di un peso e nel ritenere che essi siano sì divisibili, ma non all'infinito: se infatti fossero divisibili all'infinito, si ridurrebbero a zero, cioè al nulla; il che non è possibile, perché "nulla nasce dal nulla e nulla ritorna nel nulla". Dove però l'atomismo epicureo è in radicale contrasto con quello anassagoreo è proprio nella concezione del vuoto: esso infatti per Epicuro, come s'è visto, è ciò che consente di eliminare ogni principio di causalità, mentre Anassagora "riempie" il vuoto con una Mente divina che è la causa di tutto. La suprema organizzazione di questa mescolanza è infatti opera dell’Intelletto o Nous, l’autocrate che non si mischia alle altre cose, essendo esso la materia più leggera e più sottile dotata di conoscenza e di forza di movimento. Con questo Anassagora introduce all’interno della sua dottrina sulla natura un principio finalistico (cfr. fr. 12, 13, 14), il che vanifica completamente il significato stesso della fisica atomistica per Epicuro, il motivo fondamentale per cui egli postula, alla base di tutto, l'esistenza del vuoto. Da questo punto di vista egli è costretto ad operare una drastica correzione di rotta rispetto al predecessore, risultando quindi, come si diceva, solo parzialmente debitore nei suoi confronti. 21 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO IL VUOTO IN HEGEL Sull'argomento spazio-tempo, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel scrive molti meno enunciati di Kant, per la semplice ragione che non si pone il compito di usare quelle due categorie per dimostrare qualcosa di trascendentale per il soggetto. Spazio e tempo sono tali in sé, a prescindere dalla percezione che ne può avere il soggetto. Anche perché, se esse vengono viste sul piano meramente soggettivo-trascendentale, restano soltanto due mere astrazioni, prive di vero significato. Viceversa, spazio e tempo devono servire per costituire la materia, spiegandone il movimento. Sono due modi di vedere le cose, l'hegeliano e il kantiano, completamente diversi. Delle due astrazioni, quella dello spazio - al dire dell'oggettivista Hegel - è la più immediata, cioè la meno significativa. Invece per Kant non vi è differenza sostanziale tra spazio e tempo, anche se, dovendo scegliere a chi concedere un "primato d'onore", avrebbe preferito lo spazio, essendo egli partito da studi scientifici (matematica, fisica, astronomia). Il fatto è che lo spazio "metafisico" (cioè quello oltre la propria visibile fisicità) di cui parla Hegel non è vuoto (come quello kantiano), ma semplicemente assente, sicché il tempo ne è per forza una negazione positiva, che lo rende qualcosa. Georg Wilhelm Friedrich Hegel Hegel non riesce a concepire che si possa immaginare uno spazio senza oggetti (come faceva Kant): uno spazio o non è (nella propria astrattezza o indeterminatezza) oppure è, ma in questo secondo caso un semplice punto lo riempie e quindi ne contraddice la vuotezza, dopodiché la trasformazione del punto in linea è tutta "questione di tempo". Da notare comunque che anche per Hegel, come per Kant, lo spazio infinito non è un attributo specifico della divinità, ma semplicemente della natura. Che caratteristiche abbia questa "natura" non è però dato sapere, poiché se lo spazio è "l'universalità astratta della sua esteriorità... priva di mediazione" (p. 229), e ci si vuole azzardare in ulteriori definizioni di questo livello, inevitabilmente si finisce nelle braccia del misticismo. Non è possibile infatti parlare di "natura" e insieme di uno "spazio" che non la contenga. Hegel è consapevole del rischio, anche perché nella sua metafisica la filosofia della natura è soltanto un aspetto della filosofia dello spirito, sicché la natura non viene pensata in maniera propriamente "fisica", bensì "metafisica". La natura è un sottoprodotto dello spirito, il quale, a sua volta, è una forma laicizzata della 22 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO divinità. Poste le cose in questi termini, può diventare fattibile che possa esistere una "natura" il cui spazio le sia "esterno" e "vuoto". Tuttavia Hegel si guarda bene dallo spiegare come il passaggio da uno spazio vuoto a uno pieno sia potuto avvenire (in nessun luogo parla di "creazione" alla maniera ebraico-cristiana). Nella sua trattazione non è neppur dato sapere se sia lo spazio a precedere la natura o viceversa: nel primo caso infatti lo spazio avrebbe bisogno del tempo, mentre nel secondo si rischia il misticismo. Si ha dunque l'impressione che per lui "natura" voglia proprio dire spazio e tempo indifferenziati, destinati a diventare qualcosa per un impulso interno alla natura stessa. Immanuel Kant Quel che è certo, nella sua trattazione, è che se si vuole ragionare davvero in termini "metafisici", considerando la natura nella sua astrattezza, è impossibile pensare lo spazio come sua "prima" determinazione e il tempo come sua "seconda". Spazio e tempo paiono essere un unicum inscindibile, solo in virtù del quale esiste il cosiddetto "fenomeno". Il "prima" e il "dopo" sono soltanto una convenzione astratta, una semplice congettura per poter far partire l'argomentazione, ma sul piano trascendentale è impossibile immaginare l'esistenza dell'uno senza l'altro. Tant'è che lo stesso Hegel, pur non avendo difficoltà ad ammettere, sulla scia di Kant, che lo spazio e il tempo possano essere oggetto di "intuizione sensibile", per non cadere nell'idealismo soggettivo, decide di fare una precisazione che difficilmente Kant avrebbe condiviso. Per Kant infatti lo spazio e il tempo esistono solo in quanto esiste un soggetto in grado di percepirli. Tutti gli oggetti, incluse le condizioni perché essi siano, dipendono dal soggetto, altrimenti questi non avrebbe alcuna possibilità di conoscerli. Su questo primato assoluto del soggetto che pensa, per lui fondamentale, Kant non aveva dubbi di sorta. Hegel invece è più sfumato, meno drastico, tant'è che afferma che, se è vero che lo spazio è "una mera forma, cioè un'astrazione, quella della esteriorità immediata" (p. 230), è anche vero che tale astrazione non può esser in alcun modo rappresentata, ma soltanto pensata come possibilità. Un qualunque "punto" si usi per definire lo spazio, eo ipso lo nega. Insomma si ha la sensazione che lo spazio hegeliano sia ancora più metafisico di quello kantiano, proprio perché Hegel non vuole avvalersi di altra dimostrazione che dell'idea stessa di "spazio". "Lo spazio è pura 23 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO quantità" (p. 230), in cui tutto resta indifferenziato: una sorta di "continuo" illimitato e, per natura, indefinibile. "La natura perciò comincia non col qualitativo ma col quantitativo" (ib.), cioè inizia con qualcosa che "non è" e "deve diventare" (nel senso che "non può non diventare", poiché la scissione, il diventare altro da sé, è intrinseco all'essere). Essere e Non-essere coincidono - Hegel lo ha sempre detto. Una qualunque "dimostrazione" di ciò che non è, è semplicemente impossibile, almeno finché il Non-essere non diventa qualcosa. L'unica cosa che il soggetto può fare è di prendere atto di uno spazio che si è già negato e, negandosi, ha prodotto la natura, che è lo spirito che si nega, e in questa negazione lo spazio e il tempo prendono progressivamente forma, smettono di essere un'astrazione e cominciano a riempire di contenuto la natura, anzi si fanno essi stessi "natura". Lo spazio quindi non ha, prima di ogni cosa, una propria determinazione sul piano logico, come vuole Kant, che per dimostrarlo si serve della geometria, ma al massimo ne ha una sul piano metafisico, in forma però "immediata ed esteriore" (p. 230), la quale può soltanto essere supposta prima che essa diventi "mediata" come natura. Jakob Schlesinger, Ritratto di Hegel, 1831 In tal senso Hegel si sente autorizzato ad ammettere che tra spazio e tempo non vi sono differenze sostanziali. Se ci si attiene alla astratta immediatezza, in cui l'io è semplicemente uguale a se stesso, spazio e tempo si equivalgono, poiché è solo nel loro estrinsecarsi che si distinguono. Per un dialettico come lui sarebbe stato impensabile non supporre che spazio e tempo nella sostanza coincidono perfettamente. Anche da queste semplici osservazioni, preliminari a tutto il più generale discorso su spazio e tempo, si comprende facilmente come l'idealismo hegeliano si ponga a un livello più evoluto di quello kantiano, il quale al massimo mirava a rifondare i criteri della conoscenza in un soggetto che non aveva più bisogno di dirsi "cristiano". Hegel invece lascia chiaramente intendere che tutti i contenuti dogmatici della teologia vanno riformulati in chiave filosofica, in quanto la logica, la metafisica razionale (la quale non dà per scontata la verità dei propri contenuti), è l'unico modo per arrivare all'assoluto. Hegel contesta a Kant la pretesa d'aver voluto dimostrare l'oggettività dello spazio dalle sue tre dimensioni rilevabili sul piano geometrico. Questo perché la geometria - fa notare Hegel - non è affatto una scienza 24 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO filosofica, dovendo essa supporre lo spazio per poter sussistere, mentre sul piano trascendentale si deve poter dimostrare lo spazio supponendo soltanto se stesso. Questo a prescindere dal fatto che gli stessi concetti di altezza larghezza profondità sono del tutto relativi. L'altezza per esempio ce la immaginiamo non in sé, ma "nella direzione verso il punto centrale della terra" (p. 231), e i concetti di lunghezza e larghezza si potrebbero confondere nello spazio con quello di profondità. La geometria - lascia capire Hegel - è soltanto uno sforzo di rappresentazione matematica dello spazio, ma è lontanissima dal poterlo definire in maniera metafisica. Le tre fondamentali dimensioni dello spazio, immediatamente, nella indifferenza del concetto di spazio, sono "del tutto indeterminate" (p. 230). E quando si cerca di determinarle, il soggetto ha di fronte a sé non lo spazio ma il punto, che è la sua negazione. E' escluso quindi che il soggetto possa avere una intuizione o una percezione pura di ciò che non è (o che è solo indeterminato nella sua immediatezza). Il soggetto può avere una percezione adeguata solo del punto, che è la prima negazione dello spazio. E, a sua volta, il punto che nega se stesso, produce la linea (la sua antitesi), i quali punto e linea possono trovare la loro compiuta sintesi nella figura geometrica, che rappresenta una delimitazione fisica di spazio. La superficie chiusa è il superamento della negazione dello spazio. E la prima figura rettilinea, che a tutte le altre permette di esistere, è il triangolo. E' strano che Hegel non dica che la figura più perfetta è il cerchio, il cui rapporto tra circonferenza e diametro esprime una grandezza irrazionale. E' vero che dai tre vertici di un triangolo si può disegnare un cerchio, ma è anche vero che, dato un cerchio, è possibile disegnare al suo interno qualunque figura piana i cui vertici tocchino la circonferenza (se poi il cerchio è una sfera si parla di qualunque figura solida). E' geometrico che su una superficie piana possa passare, tra due punti, solo una linea retta, ma è anche possibile costruirvi un cerchio. Peraltro a livello tridimensionale le linee curve che passano tra due punti sono praticamente illimitate, anche in considerazione del fatto che i punti nello spazio tenderebbero continuamente a muoversi e non necessariamente nella stessa direzione, o non nello stesso momento e neppure avrebbero la stessa forza centrifuga e centripeta. Anzi, nell'universo, a causa della forza gravitazionale, è più facile vedere cerchi ed ellissi che linee rette. La linea retta - per usare un linguaggio hegeliano - è l'immediatezza che va mediata dall'attrazione reciproca dei corpi celesti. Nello spazio l'assenza di gravità, che potrebbe permettere una traiettoria rettilinea infinita, si scontra col fatto che esiste appunto la legge della gravitazione universale. 25 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO BUCHI NERI, SUPERNOVAE, NANE BIANCHE E STELLE DI NEUTRONI I buchi neri sono dei corpi estremamente compatti, derivati dal collasso gravitazionale di una stella, circondati da un campo gravitazionale così intenso da non lasciare sfuggire nemmeno le radiazioni. Si ipotizza l'esistenza di: mini-buchi neri, oggetti di massa ridotta formatisi alle origini dell'Universo; buchi neri stellari, che si formano dai nuclei di stelle molto grandi esplose come supernovae; buchi neri massicci, generati dalla fusione di più buchi neri stellari: possono avere masse da 100 a 10.000 volte quella del Sole e si trovano nelle galassie esplosive, dove è intensa l'attività di formazione ed esplosione stellare; buchi neri supermassicci, di masse equivalenti a quelle di parecchie centinaia di milioni di stelle, situati nel centro di alcune galassie. Questa è la definizione data nel glossario inserito nell'articolo "L'origine dei raggi cosmici ad alta energia" di Eun-Joo Ahn e Marco Cavaglia (edito su Nuovo Orione n° 112 - settembre 2001). Immagine di un "buco nero" con fasci di raggi gamma e raggi X; fonte: ESA/V. Beckmann (NASA-GSFC) Parlando di buchi neri, Margherita Hack in "L'universo alle soglie del Duemila" (Rizzoli editore, 1995) afferma che quando una stella collassante avrà raggiunto una contrazione tale che nessuna radiazione ne possa uscire si dirà che è caduta sotto "L'orizzonte degli eventi". 26 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Il termine sta a indicare che nessun evento che avvenga sotto tale orizzonte potrà essere visto all'esterno: perciò l'orizzonte degli eventi si può considerare la superficie del buco nero. Tanto più grande è la massa della stella collassata, tanto più grande è questo raggio. Per esempio per una massa pari a 10 masse solari, il raggio sarà di 10 km; ma per una massa pari a 100 milioni di masse solari, il raggio sarà di 350 milioni di km. Un buco nero è uno degli esiti possibili di una supernova. Dicesi supernova un'esplosione stellare catastrofica, che libera una tale quantità d'energia da rendere la supernova più brillante di un'intera galassia (costituita in media da 100 miliardi di stelle). Si tratta di una stella massiccia nelle fasi finali dell'evoluzione, che nell'esplosione espelle i suoi strati piú esterni a velocità di migliaia di chilometri al secondo. Ciò contribuisce ad arricchire il mezzo interstellare con gli elementi chimici (tra cui i metalli pesanti) sintetizzati sia nel corso della vita della stella che durante l'esplosione stessa. I gas espulsi si disperdono a formare una nebulosa, detta resto di supernova, mentre il nucleo subisce un "rinculo" che lo comprime sino a densità altissime. Ciò che rimane del nucleo, in uno stato della materia assai diverso da quello ordinario, può essere una stella di neutroni oppure un buco nero. Alcuni hanno da poco ipotizzato che potrebbe formarsi anche un terzo oggetto, con densità intermedia a questi: una stella di quarks, ma questa rimane per ora solamente una speculazione teorica. Si distinguono due tipi principali di supernovae detti SN di tipo I e SN di tipo II, i quali vengono a loro volta suddivisi in alcune sottoclassi. Si dice stella di neutroni il nucleo imploso di una stella massiccia che ha prodotto un'esplosione di supernova. La massa minima d'una tipica stella di neutroni è di 1,4 masse solari, con un raggio di circa 5 miglia (8 km) e la densità della materia neutronica. Ecco un'altra definizione: una stella di neutroni è una versione ancora più compressa d'una nana bianca. Una nana bianca è una stella che ha completato la fusione dell'idrogeno in elio nel proprio nucleo (core); è lo stadio finale dell'evoluzione d'una stella con una massa minore di circa otto masse solari. Queste stelle perdono gran parte della loro massa, soffiandolo via in un forte getto di gas (vento stellare). Alla fine ne risulta una nebulosa planetaria, e la stella diventa un piccolo oggetto con un'altissima densità (dell'ordine delle tonnellate per centimetro cubo). Quattro "nane bianche" con relativa nebulosa planetaria Gli esempi più noti sono le stelle che accompagnano Sirio e Procione; questi oggetti hanno la massa del nostro Sole compressa alle dimensioni della Terra. Le nane bianche hanno tipicamente un nucleo composto di carbonio, delle dimensioni del nostro pianeta; giunte a questo stadio non evolveranno più in maniera significativa, ma si raffredderanno progressivamente sempre di più. 27 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Una nana bianca inizia con un gran calore, ed è infatti "al calor bianco". Ma a differenza della maggior parte delle stelle, non ha una sorgente di energia. Può rimanere visibile per un lungo periodo di tempo, comparabile con l'età dell'universo, fintanto che il calore prodotto nella sua creazione non si estingua; alla fine si spegnerà nell'oscurità. Una stella con una massa finale sino a 1,4 volte quella del Sole formerà una nana bianca; le stelle più pesanti, dopo l'esplosione di supernova, formeranno stelle di neutroni, stelle di quarks o buchi neri. In questi oggetti, la pressione è talmente elevata da vincere la repulsione elettrica tra elettroni e protoni; essi vengono spinti l'uno contro l'altro a formare neutroni. Nella materia normale è questa repulsione che frena la compressione, ma, in mancanza della repulsione elettrica, la materia può venir compressa fino a 100 milioni di tonnellate per centimetro cubo. Le stelle di neutroni usualmente hanno un diametro compreso tra dieci e venti chilometri, eppure hanno una massa maggiore di quella del Sole. Esse generano immensi campi magnetici e ruotano su se stesse rapidamente, generando così degli impulsi radio che spazzano il cielo lungo una linea come il fascio luminoso di un faro. Talvolta questi fasci intercettano la Terra, e noi vediamo una pulsar. La prima pulsar fu scoperta nel 1967 nella Nebulosa Granchio (M1) e il merito fu della giovane ricercatrice inglese Jocelyn Bell. Quest'oggetto era una stella che si trasformò in supernova nel 1054, e fu visibile in pieno giorno per qualche tempo, registrato anche negli annali degli astronomi cinesi del tempo. Ora M1 è una nebulosa con dentro una pulsar. Qui sotto vediamo una magnifica rappresentazione pittorica tratta dal sito dell'European Space Agency. Essa raffigura un sistema binario con una stella gigante rossa alla quale una stella di neutroni compagna "strappa" materia dagli strati superficiali: Questa materia, spiraleggiando intorno alla stella collassata, la quale ha un diametro approssimativo d'una decina di chilometri, crea turbolenze e attrito, che fanno perdere energia gravitazionale alla materia in rotazione. Questa precipita lungo un percorso a spirale sino sulla superficie della stella di neutroni (che può essere nella fase di pulsar). Come si vede nel disegno, la stella gigante rossa è deformata dalla forza gravitazionale esercitata dalla compagna compatta. 28 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Osservando la parte del disegno centrata sulla stella a destra si vede che la materia del disco d'accrescimento "precipita" sulla stella di neutroni in rotazione lungo il piano equatoriale. La materia in eccesso viene espulsa lungo un cono con asse di simmetria centrato su ciascuno dei poli della "stella degenerata", cioè con materiale così fortemente compresso da trasformare i protoni e elettroni (caricati elettricamente) in neutroni (neutri elettricamente). La materia espulsa lungo il doppio cono viaggia ad altissima velocità, spesso prossima alla velocità della luce nel vuoto "c". Quando la materia (idrogeno) che precipita sulla stella di neutroni raggiunge uno spessore compreso tra i 5 e i 10 metri, la fortissima pressione esercitata su questo gas dalla stella collassata ne provoca l'accensione termonucleare, facendo fondere 4 atomi di idrogeno in uno di elio e producendo energia in eccesso. L'energia prodotta sulla superficie della stella di neutroni è così tanta che si verifica uno scoppio colossale, il quale dura solitamente da alcuni secondi ad alcuni minuti, durante i quali la luminosità della stella di neutroni aumenta enormemente (si verifica una condizione di "stella nova"). E, essendo la situazione ripresentabile dopo un certo lasso di tempo, la stella di neutroni sarà una "nova ricorrente". Noi osserveremo l'impuso di radiazione (gamma, X, visibile o radio) solamente se il cono di radiazione elettromagnetica della pulsar "spazzerà" una regione di cielo dove si trova anche la Terra. In caso contrario, osserveremo solamente la stella di neutroni col disco d'accrescimento che ruota con la gigante rossa attorno al comune centro di massa. Se una stella ha una massa superiore a circa 3.2 masse solari, nel momento che diventa una supernova, può comprimere il suo nucleo ben oltre lo stadio di una stella di neutroni, fino al punto in cui nessuna forza può resistere ad una ulteriore compressione. L'oggetto semplicemente continua a restringersi fino a che scompare dalla vista, diventando così un buco nero. Uscire da un buco nero richiederebbe una energia infinita, e quindi neppure la luce può uscirne. Un buco nero è quindi di per sé invisibile. Tuttavia, un oggetto che vi cadesse dentro sarebbe riscaldato mentre precipita e il bagliore della radiazione così emessa potrebbe essere rivelato. 29 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO LA "TERRA CAVA" E LA RICERCA DI AGARTHI La teoria della "Terra cava", elaborata nel 1818 dall'Americano John Cleves Symmes Jr., ipotizza che la Terra sia costituita da cinque sfere concentriche ed abbia l'interno cavo. Per quanto sorprendente e fantascientifica possa apparire questa ipotesi, non si tratta di una novità: essa infatti ricalca la teoria di Halley (lo scopritore dell'omonima cometa), che nel 1692 era già arrivato ad immaginare un modello planetario assai simile. Si dice che anche il grande matematico Eulero (1707-1783) avesse formulato un'ipotesi analoga. Modello della "Terra cava" di Symmes La sfera più esterna, quella conosciuta da tutti, avrebbe un'apertura al polo nord di 6436 Km di diametro, mentre quella al polo sud addirittura di 9654 Km. La sfera più interna è un sole, avvolto da tre sfere dal diametro sempre maggiore (come le scatole cinesi), capace di riscaldare l'interno ed illuminare il tutto fino a filtrare dalle calotte polari. La teoria di Symmes, nonostante le innumerevoli critiche, ha suggestionato giornalisti e politici americani e scrittori come E.A. Poe (si vedano il romanzo "Gordon Pym" ed i racconti “Manoscritto trovato in una bottiglia” e “Una discesa nel Maelstrom”); non manca chi crede che anche Hitler abbia fatto cercare il "buco di Symmes" per raggiungere Agarthi e mettersi in contatto con i "Superiori Sconosciuti", i rappresentanti della originaria razza ariana. Questa è solo un'ipotesi; si sa per certo invece che Hitler, come s'è detto, fu un grande sostenitore della teoria del "mondo di ghiaccio" di Hörbiger ed appoggiò anche la teoria della "Terra cava" di Bender. Inoltre è sicuro che nell'aprile del 1942 una spedizione comandata dallo scienziato Heinz Fischer, esperto di radiazioni infrarosse, installò sull'isola Rugen, nel Baltico, un gruppo di costosi radar sperimentali, e li puntò a 45° verso il cielo. Qual era lo scopo dell'esperimento? Secondo alcuni rilevare "l'altra parete" della terra cava in cui viviamo; l'obiettivo militare invece sarebbe stato utilizzare "l'altra parete" per farvi rimbalzare raggi infrarossi e localizzare le navi nemiche in qualunque luogo della Terra esse si trovassero. La notizia, incredibile ma vera, è riportata nel volume "Fads and Fallacies in the Name of Science" ("Sciocchezze e menzogne nel nome della Scienza") dello scienziato 30 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO americano Martin Gardner. Secondo altri invece il tentativo aveva come scopo fotografare la flotta britannica attraverso l'interno vuoto della Terra. Impossibile saperne di più: fu una spedizione segreta, come lo furono altre spedizioni naziste nel Tibet, nella Mongolia e nell'Antartide alla ricerca della sapienza ultraterrena. Il "buco di Symmes" in una fotografia dall'aria decisamente... ritoccata Poco dopo la morte di Hitler, nel 1947, l'Ammiraglio Byrd fornì, secondo alcuni, la "prova scientifica" dell'esattezza della teoria della "terra cava": infatti andò in missione aerea sopra il Polo Nord per la seconda volta (egli era stato il primo a sorvolare il Polo Nord nel 1926) e di questa missione lasciò ampia testimonianza in un diario. Questo diario, però, è misteriosamente scomparso. Stando a coloro che dicono di averlo letto, Byrd scoprì l'ingresso del Polo Nord e vi si infilò. Poté così volare all'interno della "terra cava" ed osservare altre civiltà ed enormi mandrie di mammuth giganti. In effetti, quando Robert Cook nel 1908 rinvenne negli strati glaciali i resti di mammuth perfettamente conservati, non mancò chi, come Marshall Gardner, affermò che non era possibile che un reperto fosse rimasto integro così a lungo, e che quelli trovati sarebbero stati i resti di creature morte di recente dopo essere sfuggite dal Continente interno; senza contare il fatto che in bocca ad alcuni mammuth sono state trovate inspiegabili tracce di vegetali freschi. Un'altra spedizione effettuata nel 1956 avrebbe poi individuato il secondo ingresso, quello al Polo Sud. Il governo U.S.A. tenne segreta la scoperta e non permise più a nessuno di attraversare il Polo Sud; il che, ovviamente, non ha fatto altro che aumentare i sospetti. 31 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO IL CALCOLO COMBINATORIO E L'INSIEME VUOTO La branca della matematica che si occupa dei modi in cui si possono formare nuovi oggetti (sequenze, insiemi,…) "combinando" gli elementi di un insieme finito viene chiamata matematica combinatoria o calcolo combinatorio, ed è la base del calcolo delle probabilità. In essa, per quanto possa a prima vista apparire poco intuitivo, ha una grande importanza il concetto di insieme vuoto, indicato convenzionalmente con Ø. Facciamo un semplice esempio: Ho 6 oggetti: chiamiamoli A, B, C, D, E e F. Voglio fare una confezione contenente alcuni di questi oggetti. In quanti modi posso farla? Potrei fare una confezione vuota. Potrei fare una confezione contenente solamente A o solamente B o …. Oppure una confezione contenente A e B o A e C o …. O potrei fare una confezione che li contiene tutti. Insomma, quante sono le possibili confezioni? Una possibile strategia per trovare quante sono è la seguente: per ognuno dei 6 elementi ho 2 possibilità: o lo metto nella confezione o non ce lo metto: 222222 quindi in tutto ho 26 = 64 possibilità. In questo va calcolata anche la possibilità dell'insieme vuoto, che risulta dall'ipotesi "faccio una confezione in cui metto uno o più oggetti che non ho a disposizione" (ipotesi ovviamente assurda e che dà luogo ad una scatola vuota). Più in generale, vale la regola che i possibili sottoinsiemi di un insieme di n elementi sono 2n. Vediamo come si arriva a questo risultato, che è alla base del calcolo combinatorio, a partire dal concetto di insieme. Cos'è un insieme Non è possibile definire matematicamente l'insieme: essendo uno dei concetti primitivi della matematica ognuno di noi dovrebbe possederlo intuitivamente e tale concetto dovrebbe essere lo stesso per ciascuno di noi. Comunque si può dire che quando abbiamo degli oggetti, se riusciamo a considerarli collegati tra loro, allora abbiamo un insieme. La prima cosa da dire è che gli oggetti (elementi) che compongono l'insieme devono sempre essere ben definiti prima ancora di considerare l'insieme stesso. Anzitutto un po' di nomenclatura (simboli): - Useremo le lettere minuscole dell'alfabeto per indicare gli oggetti (elementi) di un insieme a b c d ....... - Useremo le lettere maiuscole per indicare un insieme; ad esempio: A = l'insieme A - Per indicare un insieme utilizzeremo talvolta le parentesi graffe, come ad esempio: { a , b } = insieme formato dagli elementi a e b - Per indicare che un elemento appartiene ad un insieme useremo il simbolo : a A = l'elemento a appartiene all'insieme A. Esistono vari modi per rappresentare un insieme: - Rappresentazione tabulare - Rappresentazione mediante grafico ∈ ∈ 32 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - Rappresentazione mediante caratteristica. Rappresentazione tabulare La rappresentazione tabulare si ottiene enumerando gli oggetti entro parentesi graffe; esempio: voglio considerare l'insieme A composto dai primi quattro numeri naturali 1 2 3 4 posso scrivere A = { 1, 2, 3, 4 } E' una rappresentazione che viene usata se l'insieme e' composto da un numero abbastanza limitato di oggetti. Rappresentazione mediante grafici (grafici di Eulero-Venn) Possiamo racchiudere gli oggetti che ci interessano entro una linea chiusa continua e non intrecciata come dalla figura qui sotto, che rappresenta sempre l'insieme A composto dai primi quattro numeri naturali 1 2 3 4: E' senza dubbio la più immediata ed intuitiva. Rappresentazione mediante caratteristica Possiamo anche rappresentare l'insieme enunciando la caratteristica che tiene "assieme" gli oggetti: ad esempio posso caratterizzare l'insieme A visto qua sopra come l'insieme dei numeri naturali minori di 5: A={x N:x<5} che si legge così: A è l'insieme degli elementi appartenenti ad N tali che l'elemento sia minore di 5. ∈ 33 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Più dettagliatamente: A A è = l'insieme { degli elementi x appartenenti ∈ ad N N tali che : l'elemento x sia minore < di 5 5 chiuso insieme (non si legge) } E' comoda da utilizzare quando gli oggetti dell'insieme sono parecchi. Uguaglianza fra insiemi Diremo che due insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi (l'ordine non conta). Ad esempio se A = { 1, 2, 3, 4 } e B = { 3, 2, 1, 4 } allora A=B Sottoinsiemi di un insieme Definiamo sottoinsieme di un insieme dato un nuovo insieme che abbia come elementi alcuni elementi presenti nell'insieme di partenza: ad esempio, dato A = { 1, 2, 3, 4 } l'insieme B = { 1, 3 } è un sottoinsieme dell'insieme A 34 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Dato un insieme definito mediante caratteristica, per ottenerne un sottoinsieme basta aggiungere una qualunque proprietà: ad esempio, se considero l'insieme dei numeri naturali minori di 5 A = { x N : x < 5 } = { 1, 2, 3, 4 } ed aggiungo la proprietà "non divisibili per 2", ottengo B = { x N : x < 5; x non divisibile per 2 } = { 1, 3 } Per indicare che B e' sottoinsieme dell'insieme A useremo la notazione di inclusione A B che si legge: l'insieme B è contenuto nell'insieme A. Per indicare che A ha come sottoinsieme B useremo invece la notazione A B che si legge: A è un sovrainsieme di B o: l'insieme A contiene l'insieme B. Posso però aggiungere una proprietà impossibile, come ad esempio l'insieme dei numeri naturali minori di 5 e divisibili per 7. A questo punto ottengo un insieme senza elementi: B = { x N : x < 5; x e' divisibile per 7 } = Ø ∈ ∈ ⊂ ⊃ ∈ Ø viene chiamato insieme vuoto. Esso è fondamentale, perché è un sottoinsieme di ogni insieme: per ottenerlo basta aggiungere alla caratteristica dell'insieme una proprietà impossibile. Come abbiamo aggiunto una proprietà impossibile, così possiamo aggiungere una proprietà ovvia: in tal caso otteniamo come sottoinsieme l'insieme di partenza. Ad esempio, se considero l'insieme dei numeri naturali minori di 5 e multipli di 1, ottengo lo stesso insieme di partenza: B = { x N : x < 5; x e' multiplo di 1 } = A ∈ In questo caso, per indicare che si considera l'insieme di partenza come sottoinsieme di se stesso, lo si definisce sottoinsieme improprio. Poiché, quando si indica genericamente un sottoinsieme di un insieme, potrebbe trattarsi anche dell'insieme improprio, allora per considerare anche la possibilità che B sia sottoinsieme di A, si scrive: B ⊆A che si legge: l'insieme B è contenuto od uguale all'insieme A. 35 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Insieme delle parti o Insieme potenza di un insieme Definiamo Insieme delle parti di A oppure Insieme potenza di A A. (A) l'insieme di tutti i sottoinsiemi di Esempio: se considero l'insieme A = { a, b } allora (A) = { ø, { a }, { b }, { a, b}} Devo considerare prima l'insieme vuoto, poi gli insiemi formati da un elemento, poi gli insiemi formati da due elementi (nel nostro caso l'insieme improprio). Sono 4 elementi, cioè 22. Vediamo un esempio con tre elementi A = { 1, 2, 3} allora (A) = { ø, { 1 }, { 2 }, { 3 }, { 1, 2}, { 1, 3}, { 2, 3}, { 1, 2, 3}, } Sono 8 elementi, cioè 23. Da questo si ricava la formula generale, già vista all'inizio, che consente di trovare il numero degli elementi dell'insieme potenza (o insieme delle parti di un insieme) con n elementi, e cioè: 2n In ogni caso è sempre necessario considerare nel computo anche l'insieme vuoto e l'insieme improprio. 36 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Il numero degli elementi della potenza di un insieme e la sua relazione con il triangolo di Tartaglia Non solo gli elementi della potenza di un insieme sono pari a 2n, ma corrispondono anche alla riga del triangolo di Tartaglia corrispondente al numero degli elementi: Consideriamo ad esempio la riga del triangolo di Tartaglia della potenza 4: essa vale 1 4 6 4 1 Infatti l'insieme potenza di un insieme con 4 elementi è composto dai seguenti elementi: 1 insieme con 0 elementi (insieme vuoto) 4 insiemi con 1 elemento 6 insiemi con 2 elementi 4 insiemi con 3 elementi 1 insieme con 4 elementi (l'insieme improprio) e la somma di tutti quanti vale 1 + 4 + 6 + 4 + 1 = 16 = 24 Come corollario ne deriva che la somma degli elementi di ogni riga del triangolo di Tartaglia e' una potenza del 2. 37 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Vediamone l'esempio su un insieme di 4 oggetti: A = { 1, 2, 3, 4} allora (A) = { ø, { 1 }, { 2 }, { 3 }, { 4 }, { 1, 2}, { 1, 3}, { 1, 4}, { 2, 3}, { 2, 4}, { 3, 4}, { 1, 2, 3}, { 1, 2, 4}, { 1, 3, 4}, { 2, 3, 4}, { 1, 2, 3, 4} } Cerchiamo di capire il perché. Siccome negli insiemi, come abbiamo detto, non conta l'ordine, cioe' {a,b}={b,a}, allora per trovare il numero di insiemi che posso formare con un insieme ad esempio di 4 elementi devo considerare le combinazioni semplici di quattro elementi; e precisamente: combinazioni di classe 0 ( 4 ) 0 =1 Ø combinazioni di classe 1 ( 4 ) 1 = 4 { 1 }, { 2 }, { 3 }, { 4 } combinazioni di classe 2 ( 4 ) = 6 { 1, 2}, { 1, 3}, { 1, 4}, { 2, 3}, { 2, 4}, { 3, 4} 2 combinazioni di classe 3 ( 4 ) = 4 { 1, 2, 3}, { 1, 2, 4}, { 1, 3, 4}, { 2, 3, 4} 3 combinazioni di classe 4 ( 4 ) = 1 { 1, 2, 3, 4} 4 Ma le combinazioni su n oggetti non sono altro che i coefficienti dello sviluppo del binomio, cioè i termini della riga corrispondente del triangolo di Tartaglia. Abbiamo quindi una stretta corrispondenza fra righe del triangolo di Tartaglia ed elementi dell'insieme potenza di un insieme. 38 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO 3. VUOTO INTERIORE LO SPLEEN Dal dizionario Garzanti: «Spleen: s.m. invar. nel linguaggio letterario: stato d'animo di profonda malinconia e insoddisfazione, quale soprattutto traspare dalle opere decadentiste». Il vocabolo deriva dal greco σπλήν, che significa "milza", e passa ad indicare la melanconia (o, più esattamente, melancolia) in base alla medicina greca degli umori: uno di questi umori, la bile, prodotta dalla cistifellea, si riteneva avesse un effetto depressivo sulla psiche umana. Il termine spleen è introdotto nella cultura occidentale da Charles Baudelaire (1821-1867) per designare il taedium vitae; esso compare nella raccolta I fiori del male (Les fleurs du Mal), pubblicata nella primavera del 1857, come titolo sia di una sezione che di una lirica. Le cento poesie della raccolta sono infatti divise in sei sezioni: Spleen et idéal, Quadri Parigini, Les fleurs du mal, La revolte, Le vin e La mort. Charles Baudelaire Spleen s'intitola anche, come accennavo, una delle liriche più celebri della raccolta: Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis, Et que de l'horizon embrassant tout le cercle Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits; Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve Sull'anima gemente in preda a lunghi affanni, E in un unico cerchio stringendo l'orizzonte Riversa un giorno nero più triste dell notti; Quand la terre est changée en un cachot humide, Où l'Espérance, comme une chauve-souris, S'en va battant les murs de son aile timide Et se cognant la tête à des plafonds pourris; Quando la terra cambia in un'umida cella, Entro cui la Speranza va, come un pipistrello, Sbattendo la sua timida ala contro i muri E picchiando la testa sul fradicio soffitto; 39 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Quand la pluie étalant ses immenses traînées D'une vaste prison imite les barreaux, Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux, Quando la pioggia stende le sue immense strisce Imitando le sbarre di una vasta prigione, E, muto e ripugnante, un popolo di ragni Tende le proprie reti dentro i nostri cervelli; Des cloches tout à coup sautent avec furie Et lancent vers le ciel un affreux hurlement, Ainsi que des esprits errants et sans patrie Qui se mettent à geindre opiniâtrement. Delle campane a un tratto esplodono con furia Lanciando verso il cielo un urlo spaventoso, Che fa pensare a spiriti erranti e senza patria Che si mettano a gemere in maniera ostinata. - Et de longs corbillards, sans tambours ni musique, Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir, Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique, Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir. - E lunghi funerali, senza tamburi o musica, Sfilano lentamente nel cuore; la Speranza, Vinta, piange, e l'Angoscia, dispotica ed atroce, Infilza sul mio cranio la sua bandiera nera.. Tutta la poesia si articola in due sole proposizioni molto sbilanciate, che creano un'evidente asimmetria compositiva: la prima si sviluppa lungo le prime quattro strofe, ed è composta da tre proposizioni subordinate (strofe 1, 2 e 3) più una proposizione principale. Le subordinate sono molto simili tra loro: tutte cominciano con lo stesso avverbio di tempo (Quando...) e si sviluppano attraverso vivide metafore (il coperchio, il pipistrello, la prigione). Questa somiglianza, la ripetitività di una stessa struttura, insieme al fatto che le subordinate sono poste tutte e tre prima della proposizione principale (strofa 4), crea un clima di attesa, una certa suspense per quanto riguarda il seguito del discorso. Questa "attesa" ha un nome ben preciso nel gergo letterario : si tratta di un climax, per cui la disposizione ascendente di certi elementi sintattici crea un "clima" di tensione, di aspettativa. La tensione accumulata lungo le tre prime strofe, volutamente pesanti in struttura e contenuti, esplode nella quarta strofa, nella proposizione principale. L'ultima strofa, che è anche l'ultima frase della poesia, nonostante abbia una propria indipendenza sintattica (ed anche visiva: c'è uno spazio bianco tra le varie strofe), è legata alle altre dall'uso del segno tipografico " - " e dalla congiunzione con la quale comincia (- E...). Essa rappresenta una conseguenza delle strofe precedenti, una specie di "rilassamento" finale dopo l'esplosione del climax. La cupa disperazione dei temi è in sintonia con il "sublime fosco" dello stile, caratterizzato dalle metafore cupe, angosciose e claustrofobiche, come i ragni nel cervello, le campane che balzano e gemono, il pipistrello che sbatte contro le pareti, le sbarre della prigione, i funerali senza musica, il cranio inclinato dell’uomo vinto dalla paura, la bandiera nera infilzata su di esso. Da quella sensazione di angoscia e insoddisfazione che non lo abbandonerà mai, fino alla morte, Baudelaire cerca una illusoria via di scampo attraverso i “paradisi artificiali” (i "fiori del male", appunto): l’alcool, la droga, ma anche l’amore, sia passionale che spirituale. Sperimentando ognuno di questi espedienti il poeta francese si renderà conto che non c’è via di fuga dallo spleen se non con la morte, che egli arriva alla fine ad invocare come unica salvezza. Ma il tema del teadium vitae e della fuga come via di scampo alla noia, pressoché assente nella letteratura greca (fra le pochissime eccezioni cito Asclepiade di Samo ed il Marc'Aurelio di A se stesso), è già presente in almeno tre autori latini: Lucrezio, Orazio e Seneca. Li accomuna la visione della vita come continuo affanno, senso di vuoto, continua ricerca di qualcosa che non si sa cosa sia e che sempre ci sfugge, e la condanna del viaggio come rimedio inefficace al male di vivere. Lucrezio rappresenta con molta efficacia questa insofferenza, questo odio per la vita, questa noia che fiacca e consuma; memorabile la sua descrizione dell'uomo inquieto, in preda allo spleen, che si agita continuamente alla ricerca di un'impossibile tregua dal suo malessere ed inconsciamente ne attribuisce la colpa al posto in cui si trova, per cui non fa che spostarsi da un luogo all'altro come un folle (De rerum natura III 1060-1070): 40 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Esce spesso fuori del grande palazzo colui che lo stare in casa ha tediato, e sùbito ritorna, giacché sente che fuori non si sta per niente meglio. Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente, come se si affrettasse a recar soccorso alla casa in fiamme; sbadiglia immediatamente, appena ha toccato la soglia della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l'oblio, o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla. Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo 'io', naturalmente, come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato, e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male. La pagina iniziale di un raro manoscritto del De rerum natura risalente al 1483 Il tema della fuga da se stesso è frequente in Orazio. Nell'epistola a Bullazio (Epistulae I 11), alla strenua inertia, l'inguaribile incapacità di vivere, il poeta contrappone l'animus aequus, l'equilibrio che ci fa apprezzare la quotidianità. Così la serenità ci appare come una ricerca più che un'acquisizione. Nelle epistole il poeta svela il suo lato nascosto: malinconia, insoddisfazione, precarietà esistenziale, fino a quella malattia dell'anima che è il funestus veternus della lettera a Celso Albinovano. Orazio, scrivendo a Bullazio, gli manifesta quella depressione inquieta che doveva essere il male del tempo, e nel contempo individua con chiarezza l'origine del male all'interno della psiche umana, dichiarando vano il proposito di guarire dallo spleen viaggiando di terra in terra. 41 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Francobollo dedicato ad Orazio Leggiamone il finale (vv. 20-30): Finché è possibile e la fortuna ti sorride, Samo, Chio e Rodi è bene lodarle da lontano, a Roma. Qualunque ora lieta ti concedano gli dei prendila con riconoscenza, non rimandarne di anno in anno le gioie, e si possa dire che in ogni situazione sei vissuto volentieri. Se la logica della saggezza, e non i luoghi che dominano la distesa del mare, allontana gli affanni, chi solca il mare muta cielo, non natura. Un'inquietudine impotente ci tormenta e andiamo per acque e terre inseguendo la felicità. Ma ciò che insegui è qui, a Úlubre, se non ti manca la ragione. Il binomio strenua inertia va molto al di là del consueto principio oraziano della callida iunctura: esso infatti è un accostamento di parole semanticamente antitetiche ed ossimoriche, giacché strenuus indica dinamismo, al contrario di inertia che vuol dire inattività. Emergono, infine, due facce dell'angoscia esistenziale: se da una parte viaggiare in continuazione testimonia la vita insoddisfatta, dall'altra la ricerca di un angolo tranquillo, costituito di vecchie cose familiari, dimostra la paura del cambiamento. Seneca, infine, scrive su questo tema pagine indimenticabili nel De tranquillitate animi, dedicato all'amico Anneo Sereno, ed un'intera lettera a Lucilio (Epistulae morales ad Lucilium III 28 passim); la riporto di seguito: Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster, "terraeque urbesque recedant", sequentur te quocumque perveneris vitia. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, "Quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? Premit te eadem causa quae expulit". Quid terrarum iuvare novitas potest? Quid cognitio urbium aut locorum? in inritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. [...] Vadis huc illuc ut excutias insidens pondus quod ipsa iactatione incommodius fit, sicut in navi onera inmota minus urgent, inaequaliter convoluta citius eam partem in quam incubuere demergunt. Quidquid facis, contra te facis et motu ipso noces tibi; aegrum enim concutis. At cum istuc exemeris malum, omnis mutatio loci iucunda fiet; in ultimas expellaris terras licebit, in quolibet 42 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO barbariae angulo conloceris, hospitalis tibi illa qualiscumque sedes erit. Magis quis veneris quam quo interest, et ideo nulli loco addicere debemus animum. Cum hac persuasione vivendum est: «non sum uni angulo natus, patria mea totus hic mundus est». Quod si liqueret tibi, non admirareris nil adiuvari te regionum varietatibus in quas subinde priorum taedio migras; prima enim quaeque placuisset si omnem tuam crederes. Nunc non peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum sit. Presunto ritratto di Seneca Pensi che questo sia capitato solo a te, e ti stupisci come di un fatto strano, perché, pur con un viaggio così lungo e con una così grande varietà di luoghi, non ti sei scrollato di dosso la tristezza e la pesantezza del tuo spirito? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia pure che, come dice il nostro Virgilio, "terre e città spariscano all'orizzonte": i tuoi difetti ti seguiranno dovunque andrai. Socrate, a uno che si lamentava per la stessa ragione, disse: "Perché ti stupisci del fatto che i viaggi non ti servano a niente, dal momento che porti in giro te stesso? Ti opprime la medesima causa che ti ha fatto partire". A che può giovare la novità delle terre? A che la conoscenza di città o luoghi? Tutto questo agitarsi cade nel vuoto. Vuoi sapere perché questa fuga non ti sia di aiuto? Perché fuggi con te stesso. È il peso dell'anima che bisogna deporre: prima di allora non ti piacerà nessun posto. [...] Tu vaghi di qua e di là per scuotere il peso che ti sta addosso e che diventa ancor più fastidioso a causa della tua stessa agitazione, come su una nave i pesi ben stabili premono di meno, mentre quelli che si spostano in modo diseguale mandano più rapidamente a fondo quella parte su cui gravano. Qualunque cosa tu faccia, la fai contro di te, e con il movimento stesso ti fai del male: infatti stai sballottando un ammalato. Ma quando ti sarai liberato da questo male, qualsiasi cambiamento di località diventerà piacevole; potranno pure relegarti nelle terre più lontane, costringerti a risiedere in qualsivoglia angolo di una regione barbara: quella sede, quale che sia, ti sarà ospitale. Importa più il "chi" sarai che il "dove" sarai arrivato, e perciò non dobbiamo far dipendere il nostro animo da alcun luogo. Bisogna vivere con questa convinzione: “Non sono nato per un solo angolo di terra, la mia patria è questo intero universo". Se questo ti fosse ben chiaro, non ti 43 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO meraviglieresti di non essere minimamente confortato dalla varietà delle regioni in cui continuamente ti rechi per la noia delle precedenti; infatti ti sarebbe piaciuta una qualsiasi delle prime, se tu considerassi ciascuna terra come tua. Ora non viaggi, ma erri e ti lasci trasportare e cambi un luogo dopo l'altro, benché ciò che cerchi, il vivere bene, si trovi in ogni luogo. Il pensiero di Seneca in proposito è chiaro: il vuoto interiore è una malattia, e di certo lo sballottamento non può giovare al malato; la visione di paesaggi esotici e la conoscenza di nuovi paesi non può sollevarlo dal suo male, poiché si tratta di un male interiore, che non dipende dal luogo in cui si trova, ma dal rapporto che ha con se stesso: è su quello, dunque, che deve lavorare, per poter "guarire". 44 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO T.S. ELIOT E LA "TERRA DESOLATA" The Waste Land is a 434-line modernist poem by T. S. Eliot published in 1922. It has been called "one of the most important poems of the 20th century." Despite what is seen by some as the poem's obscurity – its shifts between satire and prophecy, its abrupt and unannounced changes of speaker, location and time, its elegiac but intimidating summoning up of a vast and dissonant range of cultures and literatures – the poem has nonetheless become a familiar touchstone of modern literature. Among its famous phrases are "April is the cruellest month" (its first line); "I will show you fear in a handful of dust"; and (its last line) the mantra in the Sanskrit language "Shantih shantih shantih." Eliot originally considered titling the poem He do the Police in Different Voices. In the version of the poem Eliot brought back from Switzerland, the first two sections of the poem – 'The Burial of the Dead' and 'A Game of Chess' – appeared under this title, but the poem's original draft was submitted to Ezra Pound, who shortened it considerably and persuaded Eliot to change the title. The strange phrase was taken from Charles Dickens' novel Our Mutual Friend, in which the widow Betty Higden says of her adopted foundling son Sloppy: "You mightn't think it, but Sloppy is a beautiful reader of a newspaper. He do the Police in different voices." T.S. Eliot in 1951 This would help the reader to understand that, while there are many different voices (speakers) in the poem, there is one central consciousness. What was lost by the rejection of this title Eliot might have felt compelled to restore by commenting on the commonalities of his characters in his note about Tiresias. In the end, the title Eliot chose was The Waste Land. In his first note to the poem he attributes the title to Jessie L. Weston's book on the Grail legend, From Ritual to Romance. The allusion is to the wounding of the Fisher King and the subsequent sterility of his lands. To restore the King and make his lands fertile again the Grail questor must ask "What ails you?". 45 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO The poem's title is often mistakenly given as "Waste Land" (as used by Weston) or "Wasteland", omitting the definite article. However, in a letter to Ezra Pound, Eliot politely insisted that the title begin with “The”. Structure The epigraph and dedication to The Waste Land showing some of the languages that Eliot used in the poem: Latin, Greek, English and Italian. The poem is preceded by a Latin and Greek epigraph from The Satyricon of Petronius. In English, it reads: "I saw with my own eyes the Sibyl of Cumae hanging in a jar, and when the boys said to her, Sibyl, what do you want? She replied I want to die." Following the epigraph is a dedication (added in a 1925 republication) that reads "For Ezra Pound: il miglior fabbro". Here Eliot is both quoting line 117 of Canto XXVI of Dante's Purgatorio, the second cantica of The Divine Comedy, where Dante defines the troubadour Arnaut Daniel as "the best smith of the mother tongue" and also Pound's title of chapter 2 of his The Spirit of Romance (1910) where he translated the phrase as "the better craftsman." The five parts of The Waste Land are so entitled: 1. The Burial of the Dead 2. A Game of Chess 3. The Fire Sermon 4. Death by Water 5. What the Thunder Said The text of the poem is followed by several pages of notes, purporting to explain his metaphors, references, and allusions. Some of these notes are helpful in interpreting the poem, but some are arguably even more puzzling, and many of the most opaque passages are left unannotated. The notes were added after Eliot's publisher requested something longer to justify printing The Waste Land in a separate book. There is some question as to whether Eliot originally intended The Waste Land to be a collection of individual poems (additional poems were supplied to Pound for his comments on including them) or to be considered one poem with five sections. Style The style of the work in part grows out of Eliot's interest in exploring the possibilities of dramatic monologue. This interest dates back at least as far as The Love Song of J. Alfred Prufrock. Eliot also enjoyed the music hall, and something of the flavour of this popular form of entertainment gets into the poem. It follows the pattern of the musical fugue, in which many voices enter throughout the piece re-stating the themes. Above all perhaps it is the disjointed nature of the poem, the way it jumps from one adopted manner to another, the way it moves between different voices and makes use of phrases in foreign languages, that is the most distinctive feature of the poem's style. 46 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO The waste land, capolavoro della letteratura novecentesca cosiddetta modernista, fu composto da Thomas Stearn Eliot (1888-1965, premio Nobel per la Letteratura nel 1948) tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era in Svizzera, a Losanna, dove la moglie era ricoverata per problemi di instabilità psichica e dove egli stesso si era sottoposto a cure psicanalitiche. La ballerina Vivienne Haigh-Wood, che aveva sposato nel 1915 contro il parere dei suoi genitori e dalla quale si separerà in seguito all'aggravarsi delle sue condizioni mentali, morirà nel 1947, lasciando un senso di rimorso incancellabile nell'animo del poeta (che tuttavia si risposò nel 1957). Nelle cinque sezioni in cui è diviso il poemetto (La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco, Morte per acqua, Ciò che disse il tuono) ricorrono elementi simbolici e archetipici innestati in accurate descrizioni di situazioni e paesaggi, finestre aperte attraverso cui guardare, ascoltando suoni onomatopeici e dialoghi, osservando l’interno d’una casa, le trattative dei mercanti e degli uomini della City, affari e commerci; una molteplicità di temi che appartengono alla storia dell’uomo, alla sessualità, alla carne e al sangue. Su tutto si staglia il Simbolo per eccellenza, il Santo Graal o coppa del sangue di Cristo, Re pescatore (di uomini) che nella Terra Desolata è diventato il Re Ferito, sofferente della stessa sofferenza della creazione desertificata e impura, immerso nel nonsenso della germinazione dell’aprile, "il mese più crudele", che “genera lillà da terra morta”. T.S. Eliot in una foto giovanile Il poema ebbe lunga e difficile gestazione: solo dopo variazioni e correzioni, espunzioni e riscrittura, e grazie anche ai consigli di Ezra Pound, a cui fu dedicato (A Ezra Pound il miglior fabbro) e che intervenne anche pesantemente sul testo, Eliot lo pubblicò in proprio. Un esempio degli interventi di Pound si trova proprio all'inizio del poemetto: infatti i versi che costituiscono l'epigrafe di apertura del poema dovevano essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound non apprezzava Conrad e convinse Eliot a porre in apertura un frammento dal Satyricon di Petronio (scritto in quel misto di lingue che sarà una caratteristica dell'intero poemetto) che parla della Sibilla Cumana e della sua interminabile agonia: infatti il 47 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO suo desiderio di invecchiare senza mai morire era stato esaudito dal dio Apollo, ma la sua vita dice Petronio - si era trasformata in un'insostenibile noia: Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Σίβυλλα τί θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω. Infatti io stesso con i miei occhi a Cuma vidi la Sibilla appesa in una cesta, e quando i ragazzini le chiedevano: "Sibilla, cosa vuoi?", ella rispondeva: "Voglio morire". Dalla tradizione letteraria al mito, dalla storia all’epica, dalla religione all’antropologia culturale, tutto è confluito in un’opera che attinge anche alle filosofie orientali e ai testi sacri (Veda, Upanishad), ai profeti biblici, all’Ecclesiaste, Sant’Agostino, agli Apostoli, all’Apocalisse: un'allegoria dello spirito smarrito ambientata in una emblematica città europea, Londra agli inizi del XX secolo: essiccata “città irreale” e sporca, il cui fiume trasporta miasmi e relitti, uomini come ectoplasmi emersi dalle nebbie del fiume, spinti da una sorda fame carnale e osservati dal veggente cieco Tiresia. Pieter Bruegel, Il trionfo della morte, 1562 Il primo "movimento" di questa ideale sinfonia, La sepoltura dei morti, si apre con il ritorno della primavera, ma "aprile è il mese più crudele": davanti al rifiorire della natura, l'uomo moderno sente in modo ancor più doloroso la propria sterilità interiore. I lillà sono un correlativo oggettivo (procedimento stilistico caro ad Eliot e a Montale) per indicare il ricordo, il passato, e sono i fiori connessi con i riti della fertilità. Inoltre sono di colore viola, e, come vedremo, questo colore ha una certa importanza all'interno del poema. 48 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Segue un flash-back che ci riporta al clima della prima guerra mondiale. L'eleganza delle persone che frequentano i luoghi più alla moda dell'Europa rivela un'ansia comunicata grazie ai bruschi cambiamenti di sintassi. Le allusioni all'Antico Testamento offrono un parallelo tra la domanda di Ezechiele “Figliuol d'uomo, queste ossa possono vivere?” e quella del poeta che chiede al lettore “quali rami crescono su queste macerie?”, una domanda retorica, dato che quest'ultimo conosce soltanto “un mucchio di frante immagini, dove batte il sole, e l'albero secco non dà riparo, e il canto del grillo non dà ristoro” (si coglie in questi versi un'atmosfera montaliana: in effetti i paralleli fra Montale e Eliot sono spesso stati sottolineati dalla critica). Segue un excursus ironico sulle figure profetiche, personificate da Madame Sosostris, una chiromante dal nome che sembra una pedestre imitazione di qualche dea egiziana, nonostante le sue predizioni si rivelino vere ("non vedo l'impiccato", ella dirà ad un certo punto, con allusione al "re sacrificale" la cui assenza, o latitanza, è la causa della Waste Land). Qui Eliot ha l'opportunità di inserire un altro importante tema del poemetto, quello dei tarocchi e dei loro simboli. L'impiccato o appeso, l'arcano numero XII, mancante fra i tarocchi di Madame Sosostris In seguito la scena si trasferisce alla City, il quartiere finanziario di Londra, simbolo dell'aridità del capitalismo e della società moderna. La critica alla City riprende stilemi provenienti da Baudelaire e Dante. Il poeta paragona i suoi cittadini, bloccati in una routine distruttiva, dapprima agli ignavi dell'Inferno, a causa della loro totale indifferenza nei confronti del prossimo, e successivamente alle anime del limbo che, come loro, sperano in una vita migliore, ma non hanno alcuna speranza di cambiare la loro situazione. Il riferimento alla Prima guerra punica universalizza il problema, che altrimenti rimarrebbe legato alla città di Londra. Questa sezione si conclude con un riferimento alla prefazione de I Fiori del male di Baudelaire, "Au lecteur" che descrive l'uomo affondato nella stupidità, nel peccato e votato al male; tuttavia, il peggior mostro del serraglio infame dei suoi traviamenti è la Noia, definita come "monstre delicat". Ancora Dante (il XIII canto del Purgatorio, dedicato alla lussuria) e Ovidio (Metamorfosi) ci accompagnano poi in un viaggio intorno all’anima, in Ovidio trasmigrata in altre forme per raccontare del desiderio ottuso e brutale che impedisce la piena rinascenza delle stagioni quando la terra e le radici sono aride. Del poeta latino Eliot si professa debitore. Commentando egli stesso i versi 99 segg. di Una partita a scacchi - nella seconda parte del poema - egli rinvia a: “Ovidio, VI Metamorfosi”, cioè al mito di Filomela, violentata dal cognato Tereo, che le mozzò la lingua perché non potesse raccontare della violenza subìta, e della vendetta di lei che gli fece mangiare le carni del figlioletto, per trasformare infine il suo dolore in dolcissimo canto di 49 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO usignolo. Ma la donna sedotta in Una partita a scacchi mostra tutta la sua frustrazione e il malcelato disgusto; al canto melodioso dell’usignolo si sostituisce il lamento sterile e nevrotico di una donna ossessionata dalla solitudine, il silenzio dell’uomo dopo l’amplesso frettoloso: “Ho i nervi a pezzi stasera. (...) Resta con me Parlami. Perché non parli mai? (...) A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa? Non lo so mai a cosa stai pensando”. Poi la scena cambia di colpo, come in un sogno: in un pub la donna si rivolge a un’altra donna (Lil, che alla fine si trasforma in Ofelia, orfana e annegata), esortandola a rimettere i denti mancanti perché se “Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata”, mentre una voce ripete agli avventori “SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE”. La volgarità esistenziale tocca qui il suo culmine. Ne Il sermone del fuoco appare il Tamigi, le foglie che “s’afferrano e affondano dentro la riva umida”: è una visione tardo-autunnale del fiume presso il quale la leggenda del Graal pone la sede del Re Pescatore, con innesti e relazioni tra mito e letteratura. Tiresia è l’indovino in cui i due sessi si riassumono, colui al quale Giove e Giunone pongono il quesito se sia la donna o l’uomo a provare più piacere nella copula. Arbitro della controversia in quanto uomo/donna, Tiresia dà ragione a Giove e viene da Giunone condannato alla completa cecità, a compenso della quale riceve il dono di “vedere” il futuro. Il "calice di Valencia", tra i presunti "Graal" più noti in assoluto Ciò che l’indovino vede è l’eros universale scomposto, disarmonico e da ricomporre: “Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso, impiegato d’una piccola agenzia di locazione, (...) uno di bassa estrazione a cui la sicurezza s’addice come un cilindro a un cafone arricchito. Lui cerca d’impegnarla alle carezze che non sono respinte (...) Eccitato e deciso, (....) le sue mani non trovano difesa; la sua vanità non pretende che vi sia un’intesa.“ 50 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Sterile desolato amore che si affida a un approccio risoluto, una seduzione immediata a soddisfare i sensi: Tiresia, il doppio sessuale, sintetizza il grado di soddisfazione dell’una e dell’altro, con ironia ne sottolinea l’esito nelle parole della dattilografa: “Dopo il fatto egli pianse. Promise ‘un nuovo inizio’. Non feci commento di cosa mi dovrei rammaricare?” I versi finali immettono alla visione di Cartagine bruciante, e introducono la figura del marinaio Phlebas in Morte per acqua (nell’alternanza tra i due elementi simbolo, l’acqua designa l’anima, la condizione dell’umido, il fuoco lo spirito, l’aria secca): “Phlebas il Fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, e il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina gli spolpò le ossa in mormorii. Come affiorava e affondava passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza procedendo nel vortice. Gentile o Giudeo o tu che volgi la ruota e guardi sopravvento, considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te”. In Ciò che disse il tuono assistiamo alla passione e alla resurrezione: “colui che era vivo ora è morto / noi che eravamo vivi ora stiamo morendo / con un po’ di pazienza” sono versi che si riferiscono alla cattura di Gesù nel Getsemani e all’incontro in Emmaus tra il risorto e due discepoli. Viene qui introdotto il simbolo della roccia, la pietra, il “lapis exillis”, l'enigmatico termine con il quale i Rosacroce designano il Cristo, ovvero la “pietra d’angolo” neo-testamentaria: “Qui non c’è acqua ma soltanto roccia roccia e non acqua e la strada di sabbia (...) lassù fra le montagne che sono montagne di roccia senz’acqua se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere (...) Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia vi fosse almeno acqua fra la roccia bocca morta dio montagna dai denti cariati che non può sputare”. Tutto il poema è immerso in una luce livida, violacea (il viola è colore quaresimale, e la quaresima è l'astensione dalla carne); la nebbia è un elemento offuscante, Tiresia è lo spettatore che lega tra loro gli avvenimenti; il poeta è Tiresia, occhio cieco/chiaroveggente, apocalittico. Riporto in Appendice il testo integrale del poemetto seguito dalla traduzione. 51 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO 4. VUOTO DI SENSO IL SANTO GRAAL: ALLA RICERCA DI COSA? Che cos'era il Santo Graal? Qual era il suo potere? E - ammesso che sia mai esistito - dove si trova adesso? Svariate sono le ipotesi in proposito, e nessuna davvero convincente: nessuna infatti rende ragione del mistero che circonda questo oggetto, né della sua natura, né, soprattutto, della enorme potenza ad esso attribuita. A fronte dell'immensa importanza che esso riveste in tanta parte della cultura occidentale, abbiamo il vuoto assoluto delle testimonianze, che sembrano più spesso depistare il ricercatore che condurlo sulla giusta traccia. Dante Gabriel Rossetti, Il Santo Graal, data ignota Tentiamo di far luce sull'argomento partendo dall'etimologia. Il termine Graal deriva, pare, dal latino Gradalis o dal greco κρατήρ, con cui si designa una tazza, un vaso, un calice, un catino (secondo alcuni questa è pure l'etimologia dell'odierno "grolla"). Questi oggetti, nella mitologia (ed anche nella simbologia freudiana), rappresentano il grembo fecondo della Grande Madre, la Terra, e portano vita e abbondanza. La coppa della vita dei Celti è il "Calderone di Dagda", portato nel mondo materiale dai Tuatha De Danaan, rappresentanti ultraterreni del "piccolo popolo" (il magico popolo degli abitatori dei boschi, fate, streghe, gnomi e folletti). Molti eroi celtici hanno avuto a che fare con magici calderoni. 52 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO La tradizione cristiana annovera almeno due sacri contenitori: il Calice dell'Eucarestia e sorprendentemente - la Vergine Maria. Nella "Litania di Loreto", antica preghiera dedicata a Maria, essa è descritta come Vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis, ovvero "vaso spirituale, vaso dell'onore, vaso unico di devozione": nel grembo (vaso) della Madonna, infatti, la divinità era divenuta manifesta. Il primo a nominare il Graal è Chrétien de Troyes nella sua opera "Perceval le Gallois ou le Compte du Graal" del 1190: ma nel poema non si allude mai ad un suo legame con Gesù e non si sa neppure che forma abbia: Chrétien, descrivendo il banchetto nel castello del "Re Pescatore", dice semplicemente che «un graal antre ses deus mains / une dameisele tenoit» (un graal tra le sue due mani / una damigella teneva) e descrive le pietre preziose incastonate nell'oggetto, che è d'oro e illumina tutta la stanza. Che cos'è? Si intuisce che è un contenitore perché "il giovane non domanda a chi lo si serva" e poco dopo "Ma non sa a chi lo si serva". Il Graal viene portato in processione e viene preceduto da altri oggetti simbolici, tra cui la Lancia Sanguinante. Già in questo primo racconto si fa accenno al sangue, ma non si dice che sia quello di Cristo. Il Graal viene citato di nuovo in una delle scene finali, quella in cui un eremita rivela a Perceval che il Graal porta al padre del Re Pescatore un'ostia, suo unico nutrimento (ma secondo alcuni questa scena è spuria). E' nel testo arturiano "Joseph d'Arimathie - Le Roman de l'Estoire du Graal" del 1202, di Robert de Boron, che il Santo Graal viene descritto come il calice dell'Ultima Cena, in cui Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso. Nuovi elementi in merito li ritroviamo in "Le Grand Graal", un testo di autore ignoto che continua e integra il racconto del "Joseph d'Arimathie". Icona raffigurante Giuseppe d'Arimatea a Glastonbury, con il Santo Graal e il bastone fiorito, opera di un monaco della Confraternita di San Seraphim di Sarov. Alcuni credono che il Santo Graal sia seppellito nel cosiddetto "Chalice Well" proprio a Glastonbury. La visione che emerge da questo testo è probabilmente la più interessante: il Santo Graal viene associato a un libro scritto da Gesù Cristo, alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio; le verità che esso contiene, se pronunciate da lingua mortale, sconvolgerebbero i quattro elementi: i cieli diluvierebbero, l'aria tremerebbe, la terra sprofonderebbe e l'acqua cambierebbe colore; insomma, si avrebbe qualcosa di molto simile alla fine del mondo. Il libro-coppa possiede quindi un temibile potere. Comunque sia, il calice fu portato in Inghilterra. Perché? Una risposta scettica potrebbe essere che esso in qualche modo "doveva" essere portato lì, dal momento che proprio in Inghilterra è ambientato il "ciclo arturiano", legato con la ricerca del Graal. 53 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Ma i sostenitori della sua esistenza materiale raccontano a questo proposito una strana storia, notevole quanto meno per la sua disinvolta noncuranza cronologica: durante la sua permanenza in Cornovaglia Gesù aveva ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido convertito al cristianesimo e quell'oggetto gli era particolarmente caro. Dopo la crocifissione, Giuseppe d'Arimatea aveva voluto riportarle la coppa al donatore, ulteriormente santificata dal sangue di Cristo. Orbene, il Druido in questione (con grande sprezzo della verosimiglianza cronologica, giacché ce lo ritroviamo cinquecento anni dopo quale consigliere di Artù!) era Merlino. Le fonti relative alla cosiddetta "Materia di Bretagna" divergono sostanzialmente circa le peripezie subite dal Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra. A grandi linee è possibile ricostruire così il seguito della storia: Giuseppe di Arimatea affida la coppa ad un guardiano soprannominato "Ricco Pescatore" o "Re Pescatore" (detto così perché, come Gesù, ha sfamato un gran numero di persone moltiplicando un solo pesce). Apparizione del Santo Graal, manoscritto del XV secolo (Parigi) Il Re Pescatore o Re Ferito o Re Magagnato viene caratterizzato in modi molto diversi da diversi autori, concordi su un unico dettaglio: ha una menomazione alle gambe o ai genitali e ha difficoltà a muoversi. Il Re passa il suo tempo pescando in un fiume nei pressi del suo castello di Corbenic. Molti cavalieri erranti si recano dal Re Pescatore per guarirlo, ma questo sarà possibile solo al prescelto destinato a trovare il Graal (nelle storie più antiche Parsifal; in seguito anche Galahad e Bors). Molte opere ritraggono però due re feriti, padre e figlio (o nonno e nipote): il più anziano è relegato dalla malattia nel suo castello, tenuto in vita solo dal Graal; il più giovane, anch'egli menomato, riesce invece a incontrare gli ospiti e andare a pesca. Là dove sia necessario distinguere queste due figure, esse vengono chiamate rispettivamente "Re Ferito" e "Re Pescatore". Secoli dopo nessuno sa più dove si trovino il "Re Pescatore" e il "Santo Graal". La menomazione del re si ripercuote ora sul suo regno, che si è trasformato in un luogo deserto e devastato, "La terra desolata", la "terre gaste" (Waste Land). Sulla Bretagna regna dunque uno stato di carestia e devastazione sia fisica che spirituale ("The waste land" s'intitola non a caso un poemetto composto da T.S. Eliot tra il 1921 e il 1922, uno dei capolavori assoluti della letteratura novecentesca, uno dei cui simboli centrali, come si è visto, è proprio la ricerca del Santo Graal). 54 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Merlino dice a Re Artù che per annullare il Wasteland è necessario ritrovare il Santo Graal. Un Cavaliere (Parsifal o Galaad, "il Cavaliere vergine") occupa allora lo "Scranno periglioso", una sedia vuota alla Tavola Rotonda, su cui può sedersi (pena l'annientamento) solo "il Cavaliere più virtuoso del mondo", colui che è stato predestinato a trovare il Santo Graal. Ispirato da sogni e presagi, e superando una serie di prove tremende come il "Cimitero periglioso", il "Ponte periglioso", la "Foresta perigliosa" eccetera, Parsifal rintraccia Corbenic, il Castello del Santo Graal, e giunge al cospetto della Sacra Coppa. Non osa però porre le domande "Che cos'è il Santo Graal? Di chi esso è servitore?". Contravviene così al suggerimento evangelico "Bussate e vi sarà aperto", ed il Santo Graal scompare di nuovo. Dopo che il Cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende e finalmente Parsifal (o Galaad) pone il quesito, a cui viene data questa sconcertante risposta: "È il piatto nel quale Gesù Cristo mangiò l'agnello con i suoi discepoli il giorno di Pasqua. (...) E perché questo piatto fu grato a tutti lo si chiama Santo Graal". A questo punto la maledizione del Wasteland finisce; Re Artù muore a Camlann e Merlino sparisce nella sua tomba di cristallo (o, a seconda delle versioni della leggenda, di aria). Iconografia classica di un cavaliere templare A questo punto - siamo intorno al 540 - il Santo Graal viene riportato da Parsifal a Sarraz, una terra in Medio Oriente impossibile da identificare: essa infatti non è in Egitto, ma "vi si vede da lontano il Grande Nilo", ed il suo Re combatte contro un Tolomeo, mentre è noto che la dinastia tolemaica si estinse prima di Cristo. Per secoli non si parlò più del Santo Graal, finché, verso la fine del XII secolo, esso tornò improvvisamente alla ribalta a causa delle Crociate. A partire dal 1095, molti Cavalieri cristiani si erano recati in Terra Santa, ed erano entrati per forza di cose in contatto con le tradizioni mistiche ed esoteriche del luogo. Qualcuna di esse parlava del Santo Graal, un sacro oggetto dagli straordinari poteri. Grazie ai Crociati, la leggenda raggiunse l'Europa e vi si diffuse. C'è anche chi ritiene che il Santo Graal sia stato rintracciato dai Templari e 55 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO riportato nel Vecchio Continente. Proprio in questa occasione, per proteggerlo e tenerlo al sicuro, i Templari lo avrebbero affidato ai Catari, che, come si è detto, lo avrebbero nascosto a Montségur. Intorno al 1210, nel poema "Parzival" (fonte d'ispirazione di Wagner), il tedesco Wolfram Von Eschembach fornisce una nuova interpretazione della natura del Santo Graal. Nella sua visione esso non è più una coppa, ma una pietra dai poteri misteriosi: "una pietra del genere più puro (...) chiamata lapis exillis. (Se un uomo continuasse a guardare) la pietra per duecento anni, (il suo aspetto) non cambierebbe: forse solo i suoi capelli diventerebbero grigi". Il termine "lapis exillis" è stato interpretato come "lapis ex coelis", ovvero "pietra caduta dal cielo": e difatti Wolfram Von Eschembach scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione. Forse un meteorite dagli strani poteri? Viene in mente, curiosamente, la Kryptonite verde di Nembo Kid, alias Superman (sia pure con poteri opposti)... E se sì, dov'è finito? Anche in seguito la letteratura (soprattutto inglese) si è spesso occupata del Santo Graal, generalmente senza più alcuna pretesa di identificarne la reale natura. Fra gli esempi più celebri cito il romanzo "Le Mort d'Arthur" di Sir Thomas Malory (1405/1416–1471). Scritto anche "Le Morte d'Arthur", è una rielaborazione di tutti i testi francesi e inglesi (tra cui il "Lancillotto" in prosa e il "Brut" di Layamon) che Malory aveva a disposizione sulla vita di re Artù. Terminato nel 1469, fu pubblicato postumo da William Caxton nel 1485. Probabilmente è proprio questo romanzo il testo che ha più influenzato la visione dei posteri della leggenda del re bretone. In seguito Alfred Tennyson (1809–1892), poeta laureato per eccellenza del Regno Unito, scrisse "The Idylls of the King" (1885), una raccolta di poesie interamente basate su Re Artù e sul ciclo bretone, ispirato appunto dai racconti che Sir Thomas Malory aveva precedentemente scritto sul leggendario sovrano. L'opera fu dedicata al Principe Alberto, marito della regina Vittoria. E' noto poi che tutto il best-seller di Dan Brown "Il codice Da Vinci" si basa su una singolare “caccia al tesoro” che ha per oggetto appunto il Santo Graal, condotta da uno studioso di simbologia americano, Robert Langdon, e da una poliziotta francese di nome Sophie Neveu, specializzata in crittologia. Un misterioso sicario uccide il direttore del Louvre, Jacques Saunière, nonno della poliziotta, che si scopre essere stato Gran Maestro del Priorato di Sion, fantomatica setta (la cui reale esistenza non è mai stata accertata) custode di terribili segreti riguardanti Gesù Cristo e il Graal. Nella ricerca i due vengono ostacolati dalla potente associazione dell’Opus Dei (realmente esistente, sia pure con connotazioni diverse) e da un misterioso Maestro. Alla fine si scoprirà che il famoso calice di Cristo altro non sarebbe che Maria Maddalena, che, come affermano i Vangeli apocrifi e in particolare gnostici, avrebbe sposato Gesù e da questi avrebbe anche avuto dei figli. Ma non è tutto qui: i figli di Gesù e della Maddalena, messisi in salvo in Francia, sarebbero divenuti nientemeno che i membri della dinastia dei Merovingi (per l'occultista inglese Dion Fortune addirittura quella dei sacerdoti di Atlantide!). Le stesse parole Santo Graal, lungi dal derivare dal latino Gravalis, non sarebbero che una storpiatura del francese "Sang Real" (= sangue reale). Come si è detto, poi, "The waste land" è il titolo di un poemetto composto da T.S. Eliot tra il 1921 e il 1922, capolavoro assoluto della letteratura modernista, imperniato sulla ricerca simbolica del Santo Graal. 56 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Illustrazione di Gustave Doré per "The Idylls of the King" di Tennyson 57 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Jean Delville, "Parsifal", 1890 La Maddalena sarebbe associabile al calice del Graal perché, come il Graal “tradizionale”, avrebbe accolto il “sangue di Gesù”, ed anche perché uno dei simboli indicanti il sesso femminile è una V detta appunto “calice”; anche la "M" indicante Maria Maddalena è caratteristicamente disegnata con la parte centrale molto accentuata, simile ad una grande "V". I custodi di questo "segreto", nonché difensori della stirpe di Gesù e della Maddalena, sarebbero i membri del suddetto Priorato di Sion. Il percorso seguito da Brown nel suo romanzo non è originale: da un certo punto di vista, anzi, esso si può considerare un vero e proprio plagio. La tesi di fondo, infatti, era già stata sostenuta in termini analoghi, e tutto sommato più convincenti, nel 1982, nel saggio "The Holy Blood and the Holy Grail" di M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln (trad. it. "Il Santo Graal", Milano, Mondadori, 1982). Secondo i tre autori Gesù, salvatosi dalla crocefissione, avrebbe generato dei figli, da cui sarebbe nata, come s'è detto, la dinastia francese dei Merovingi. Il Santo Graal sarebbe stato individuato a Rennes-le-Château dal parroco Bérenger Saunière nel 1891-2. Il sacerdote infatti, durante alcuni lavori di ristrutturazione alla antica chiesa, rinvenne delle misteriose pergamene contenenti messaggi cifrati. Questi messaggi avrebbero portato Bérenger Saunière dapprima ad 58 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO un misterioso dipinto di Poussin (la seconda versione di "Et in Arcadia Ego"), e quindi ad una antica tomba nelle vicinanze di Rennes-le-Château (tomba esistente fino al 1988 e poi misteriosamente distrutta). I tre autori ipotizzano che Bérenger Saunière avesse rinvenuto, magari proprio in quella tomba, il Santo Graal. Naturalmente non ne esiste la benché minima prova. Uscendo però dalla nebbia delle ipotesi, i fatti attestano che il parroco, da una situazione di partenza decisamente modesta, si trovò di colpo a spendere cifre elevatissime: si calcola che abbia speso in totale una somma pari al corrispondente di 30 miliardi dei giorni nostri. Perché? Cos'aveva trovato Saunière? E dov'è finito questo qualcosa? Secondo gli autori l'ipotesi più probabile è che le misteriose carte rinvenute da Berenger Saunière dietro l'altare della chiesa di Rennes-Le-Château siano state il punto di partenza per il ritrovamento di altri documenti i quali proverebbero che, lungi dall'essersi estinti nel 751, i Merovingi (e quindi gli eredi diretti di Cristo) sono ancora tra noi, accuratamente protetti da un'antica società iniziatica denominata "Priorato di Sion". Questo avrebbe dato a Saunière formidabili armi di ricatto nei confronti della Chiesa, "usurpatrice" dei diritti dei Merovingi sia mediante la figura di Pietro, sia per avere avallato l'ascesa al trono dei Carolingi, responsabili dell'assassinio dell'ultimo re dei Merovingi, Dagoberto II. Come i "Superiori Sconosciuti" di Agarthi, i membri del Priorato - di cui sarebbero stati Gran Maestri, tra gli altri, Nicolas Flamel, Leonardo da Vinci, Ferrante Gonzaga, Robert Fludd, Victor Hugo, Claude Debussy, Jean Cocteau - costituiscono una "Sinarchia" o governo occulto che, ormai da quasi un millennio, influisce sulle scelte (politiche o d'altro genere) dei governi ufficiali. Baigent, Leigh e Lincoln, nel seguito di "The Holy Blood and the Holy Grail", intitolato "The Messianic Legacy" (L'eredità messianica, 1986), denunciano che negli ultimi tempi il "Priorato" si è parzialmente corrotto e che alcune sue frange mantengono stretti contatti con la Mafia, la P2 e altre associazioni deviate. Certo bisognerebbe accostarsi al fenomeno con maggiore cautela: si consideri ad esempio che il romanzo di Wolfram Von Eschembach, racconto iniziatico e alchemico al tempo stesso, descrive la ricerca del Santo Graal in termini puramente metaforici: in poche parole si tratta di un simbolo, non di un oggetto materiale. Soltanto il cavaliere che si immerge totalmente nel suo compito, che vi dedica anima e corpo, come Parsifal, può trovare il Santo Graal, ovvero l’unione estatica con Dio, la via della perfezione verso la Gerusalemme Celeste. Se così fosse, sarebbe evidentemente inutile affannarsi ancor oggi in tentativi di rintracciare la reliquia del Santo Graal. Eppure sono in molti a credere il contrario ed a pensare che, al di là delle fantasie letterarie, questo indefinibile oggetto sia realmente esistito. Se dunque ha una consistenza materiale, dove si trova oggi il Santo Graal? Molti sono i luoghi che rivendicano di esserne i depositari: nel corso dei secoli si sono succedute testimonianze della sua presenza in Inghilterra, Francia, Scozia, Galles, Spagna, Iran, Italia etc., e persino a Oak Island, nel New England (USA). Una situazione ben confusa! Cerchiamo di fare un po' di chiarezza. Anzitutto c'è da osservare, piuttosto banalmente, che è ben difficile scoprire dove è custodito qualcosa che non si sa cosa sia. Il Graal infatti è un oggetto che ha proprietà alquanto contraddittorie: permette di abbeverarsi (l'ultima cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso), può guarire le ferite, dona una vita lunghissima, garantisce l'abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri terribili e devastanti. Comprendere di che cosa si tratti, in queste condizioni, è un'impresa disperata. Eppure la tradizione sull'esistenza di un oggetto con questi poteri è antichissima e diffusa in una vasta zona dell'Asia, del Nord Africa e dell'Europa; il Graal è forse stato identificato con nomi diversi (la "Lampada di Aladino", il "Vello d'Oro", l'"Arca dell'Alleanza"). Ricapitoliamo le principali ipotesi sulla sua identità. Il Graal potrebbe essere: - un calice (più o meno sacro, generalmente associato a quello che avrebbe contenuto il sangue di Gesù); - un vassoio (quello dell'Ultima Cena); 59 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - un libro scritto da Gesù Cristo cui può accedere solo chi è in grazia di Dio, la cui lettura potrebbe avere conseguenze terribili (la fine del mondo?); - una pietra dai poteri misteriosi (smeraldo? Meteorite?), secondo la tesi di Wolfram Von Eschenbach; - un simbolo della ricerca interiore (ancora Wolfram Von Eschenbach); - Maria Maddalena e la discendenza di Gesù; Edward Burne Jones, "Il sogno di Lancillotto presso il Santo Graal", 1896 - l'Arca dell'Alleanza, costruita dall'antico popolo israelitico per contenere le tavole dei Dieci Comandamenti, venerata nei secoli come simbolo della presenza di Dio sulle terra, dotata di poteri straordinari, inspiegabilmente scomparsa dal Tempio di Salomone nel sesto secolo prima di Cristo senza lasciare traccia, ma che forse si trova attualmente in Etiopia ad Axum (è la tesi dello scrittore inglese Graham Hancock in "Il mistero del sacro Graal. Alla ricerca dell'Arca dell'Alleanza", 1995); - un corpus di dottrine elaborato attraverso i secoli (è l'ipotesi degli antropologi); - l'evangelizzazione del mondo barbaro, operata dai missionari (Giuseppe d'Arimatea), stroncata dalle persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un sacerdote (Merlino), o ancora, la cacciata dall'Eden (il Wasteland) e la successiva redenzione grazie all'intervento di Gesù (è il punto di vista della tradizione cristiana); - il cuore di Cristo, potente simbolo della religione primordiale praticata ad Agarthi, di cui Gesù sarebbe stato un esponente (tesi degli esoteristi René Guenon e Julius Evola); - la conoscenza, la cui ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell'Elisir di lunga vita (è l'opinione degli alchimisti); - un archetipo dell'inconscio (per Carl Gustav Jung); 60 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - un'apparecchiatura proveniente dallo spazio, o qualcosa che ha a che vedere con i terribili poteri della fusione nucleare (per gli autori di romanzi di fantascienza e i fautori dell'ipotesi extraterrestre); - uno strumento magico con cui ottenere il potere assoluto; è la tesi di Hitler, che lo fece cercare negli anni '30 da Otto Rahn e Alfred Rosenberg; - la Sacra Sindone (recente ipotesi dello storico Daniel Scavone). Supponendo comunque che si tratti di un oggetto materiale, esaminerò di seguito i nascondigli ritenuti più probabili. 61 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Il Castello di Gisors. Secondo questa tesi i Cavalieri Templari avevano stretto rapporti con la "Setta degli Assassini", un gruppo iniziatico ismailita che adorava una misteriosa divinità chiamata Bafometto. Per alcuni il Bafometto altro non era che il Santo Graal; prima di essere sgominati, gli Assassini lo avevano affidato ai Cavalieri Templari, che lo avevano portato in Francia verso la metà del XII secolo. Se le cose fossero davvero andate così, ora il Santo Graal si troverebbe tra i leggendari tesori dei Cavalieri Templari (mai rinvenuti) in qualche sotterraneo del castello di Gisors. Il castello di Gisors 62 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - Castel del Monte. I Cavalieri Teutonici, fondati nel 1190, erano in contatto sia con i mistici Sufi, una setta islamica che adorava il Dio delle tre religioni, Ebraica, Islamica e Cristiana, sia con l'illuminato Imperatore Federico II Hohenstaufen, a sua volta seguace di quella dottrina. Tramite i Cavalieri Teutonici, i Sufi avrebbero affidato il Santo Graal all'Imperatore, affinché lo preservasse dalle distruzioni scatenate dalle Crociate. In tal caso, il Santo Graal si troverebbe in Puglia a Castel del Monte, un palazzo a forma di coppa ottagonale edificato apposta per custodirlo. Castel del Monte 63 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - Takht-I-Sulaiman (Iran). Secondo questa ipotesi il Santo Graal sarebbe il simbolico "Fuoco Reale" fonte della conoscenza, adorato dai seguaci di Zarathustra a Takht-I-Sulaiman, il principale centro del culto di Zoroastro, i cui resti sono stati riportati alla luce nel 1819. Takht-I-Sulaiman potrebbe essere dunque la mitica Sarraz, da cui il Santo Graal (Fuoco Reale) giunse, a cui ritornò e dove forse si trova ancora; Le rovine di Takht-I-Sulaiman 64 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - Montségur. Dopo che il culto di Zoroastro venne soppresso, alcune delle sue dottrine furono ereditate dai Manichei e, di seguito, dai Catari o Albigesi; se avessero portato con loro il Santo Graal durante le loro peregrinazioni, ora esso potrebbe trovarsi insieme al resto del loro tesoro in qualche impenetrabile nascondiglio del castello di Montségur, baluardo della loro ultima resistenza (1244). La rocca di Montségur 65 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Altre ipotesi, considerate secondarie, coinvolgono l'Italia, e precisamente: - Torino. Importato forse dai pellegrini che si spostavano per l'Europa durante il medioevo, o forse dai Savoia insieme alla Sacra Sindone, il Santo Graal sarebbe giunto nel capoluogo piemontese; le statue del sagrato del tempio della Gran Madre di Dio, sulle rive del Po, indicherebbero, a chi è in grado di comprenderne la complessa simbologia, il nascondiglio della Coppa. Torino, Chiesa della Gran Madre 66 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - Bari. Nel 1087, un gruppo di mercanti portò a Bari dalla Turchia le spoglie di San Nicola, e in loro onore venne edificata una basilica. In realtà la translazione del Santo sarebbe stata la copertura di un ritrovamento ben più importante, quello del Santo Graal. I mercanti erano in realtà cavalieri in missione segreta per conto di Papa Gregorio VII. Il Pontefice era al corrente del potere del Calice, ma non intendeva pubblicizzare la sua ricerca né l'eventuale ritrovamento, in quanto esso era un oggetto pagano o comunque il simbolo di una religione ancor più universale di quella cattolica. Gli premeva di recuperarlo da Sarraz perché temeva che la sua presenza sul suolo turco avrebbe aiutato i Saraceni nella loro espansione ai danni dell'Impero Bizantino e avrebbe nociuto al programmato intervento di forze cristiane in Terra Santa a difesa dei pellegrini. Non è dato di sapere dove si trovasse la coppa e chi comandò la spedizione. La scelta di custodire il Santo Graal a Bari anziché a Roma fu determinata da due motivi: da lì si sarebbero imbarcati i cavalieri per la Terra Santa (la prima crociata fu bandita sei anni dopo il ritrovamento) e il Santo Graal avrebbe riversato su di loro i suoi benefici effetti; in più la sua presenza avrebbe protetto Roberto il Guiscardo, Re normanno di Puglie, principale alleato del Papa nella lotta contro l'imperatore Enrico IV. A ricordo dell'avvenimento, sul portale della cattedrale si trova l'immagine di Re Artù e un'indicazione stilizzata del nascondiglio. Bari, Basilica di San Nicola 67 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Dal best-seller "Il codice Da Vinci" in avanti, però, sono in molti a pensare che il rifugio del Graal sia altrove: e precisamente in Scozia, nel piccolo villaggio di Roslin, a circa 11 chilometri da Edimburgo, dove si conserva un incredibile gioiello architettonico: - La Rosslyn Chapel. La Rosslyn Chapel, detta anche Collegiata di San Matteo, è un mistero scolpito nella pietra: riccamente decorata con simboli biblici, massonici, pagani e appartenenti alla tradizione dei templari, presenta elementi decorativi che rappresentano scene della vita di Gesù incomprensibilmente alternati a figure umane, angeli, margherite, rose, gigli, stelle, foglie. Qualcuno l'ha definita un inno alla Massoneria; e in effetti essa fu fatta costruire nel 1446 da William Sinclair, Principe delle Orcadi, membro della nobilissima famiglia Sinclair e supposto fondatore del Rito Scozzese della Massoneria. Fra i vegetali riprodotti ci sono delle piante di mais, e questo è uno dei misteri della cappella, dal momento che al tempo della sua costruzione il mais, notoriamente di origine americana, non era stato ancora scoperto: ma si racconta che Henry St. Clair, nonno di William, abbia raggiunto prima di Cristoforo Colombo, assieme a Sir James Gunn of Clyth e al veneziano Antonio Zeno, le coste americane. E' noto del resto che la scoperta dell'America, negli ambienti esoterici, è attribuita per l'appunto ai Templari. La Rosslyn Chapel Fra le figure umane spiccano i "green men", uomini verdi, considerati figure mitologiche pagane, che non si trovano in nessun'altra cappella risalente al XV secolo: a Rosslyn ce ne dovrebbero essere 109, nascosti tra le varie sculture. La Rosslyn Chapel è sempre stata considerata uno dei luoghi più misteriosi di tutta l'Europa del nord: la leggenda racconta che Sir William la costruì servendosi di templari travestiti da scalpellini, il che 68 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO confermerebbe la tesi secondo la quale alcuni templari erano sfuggiti alla persecuzione del 1307 rifugiandosi per l'appunto in Scozia. Si sa inoltre che sotto la cappella sono custoditi i resti di diciannove signori Sinclair, sepolti senza bara e ricoperti della propria armatura, ma nessuno può saperlo con certezza: nessuno infatti è più entrato nei sotterranei di Rosslyn dal 1650-1652. Circolano varie leggende su Rosslyn: la più celebre sostiene che qui si celi un segno segreto che, una volta decifrato, rivelerebbe l'ubicazione del Santo Graal; gli scettici obiettano che a Rosslyn ci sono milioni di piccoli 'Graal': le croci 'dentellate' presenti sullo stemma della dinastia Sinclair sono dette "engrailed crosses". Altri sostengono che a Rosslyn sia sepolto il tesoro dei Templari; altri ancora che da qui si diramino importanti "lay lines", linee di energia che attraversano la Gran Bretagna. Le leggende che circolano su Rosslyn includono la presenza di fantasmi, in particolare un cavaliere nero e una dama bianca, che frequentano entrambi, si racconta, le rovine del vicino castello di Roslin; ma anche fantasmi di monaci e di templari. Si racconta inoltre che ogni volta che un discendente del Principe delle Orcadi muore, la cappella appare avvolta dalle fiamme, un fenomeno che Walter Scott descrive nel poema "Il Lamento dell'Ultimo Menestrello". Alcuni poi affermano che la Rosslyn Chapel riproduca la pianta del Tempio di Salomone a Gerusalemme; la Colonna dell'Apprendista, la più ornata di tutta la cappella, decorata con figure tratte dalla mitologia nordica, e la Colonna del Maestro, rappresenterebbero le colonne Boaz e Jachim situate nel Tempio di Salomone; anche la storia della Colonna dell'Apprendista (un capomastro invidioso uccise l'apprendista che lo superò in bravura nella costruzione della più bella colonna della Cappella) è simile alla leggenda massonica di Hiram Abif, architetto del re Salomone, ucciso da tre compagni perché negava loro l'avanzamento al grado di maestro (si veda l'interessantissimo libro "La chiave di Hiram" di Knight e Lomas, tr. it. Mondadori 1998). La "colonna dell'apprendista" a Rosslyn I visitatori più attenti possono scoprire tra le altre sculture anche ritratti dell'Apprendista, di sua madre e del Maestro. 69 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Interno della Rosslyn Chapel Sia come sia, l'aspetto più inquietante e storicamente più rilevante della faccenda, a mio parere, è costituito dalla ricerca del Santo Graal da parte di Adolf Hitler: qualunque cosa cercasse, infatti, e dovunque la cercasse, è evidente che il Führer prendeva la cosa terribilmente sul serio. Nella prossima sezione cercheremo di capirne il perché. 70 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO HITLER E LA RICERCA DEL SANTO GRAAL La ricerca di Agarthi e del Santo Graal da parte di Adolf Hitler s'inserisce nel più ampio contesto del cosiddetto "hitlerismo esoterico", il cui principale rappresentante fu Heinrich Himmler ed il cui esito più noto fu la costituzione, nel 1935, della cosiddetta Ahnenerbe ("Società di ricerca ed insegnamento dell'eredità ancestrale"). Ripercorriamo le fasi essenziali del fenomeno. 1. Jörg Lanz Von Liebenfels. Nel 1907 Jörg Lanz Von Liebenfels, un monaco cistercense espulso in seguito dall’Ordine, fondò, in una fortezza sul Danubio, l'Ordine dei Nuovi Templari; al nuovo Ordine affiancò una rivista, Ostara, organo ufficiale per la diffusione di una nuova dottrina, l'Ariofilosofia, che predicava, tra l'altro, la superiorità della razza germanica. Il tutto derivava da una personale interpretazione dei testi biblici in base alla quale il termine Angelo veniva letto Euroariano ed i popoli dei fiumi mesopotamici venivano fatti discendere direttamente da una razza subumana chiamata Pagutu. Jörg Lanz Von Liebenfels L’idea di Von Liebenfels diede lo sprone alla nascita di nuovi gruppi, tutti dai nomi vagamente marziali quali Armen Order, Ordo Novi Templi, Germanen Order e la famigerata Società Thule. Il primo a riconoscere in questi eventi una materializzazione oscura fu Carl Gustav Jung, il quale ribattezzò il proliferare di questi movimenti come "l’Archetipo Wotan", mettendo tutti in guardia contro i pericoli che ne sarebbero potuti derivare. 2. La Thule Gesellschaft, i Superiori Sconosciuti e la Terra cava. I "Nuovi Templari" non erano l'unica società esoterica della Germania prenazista. Tra il 1900 e il 1930, come sempre accade nei periodi di crisi e di confusione ideologica, molti tedeschi cercavano nel soprannaturale quelle certezze e quell'identità venute a mancare nel mondo reale. 71 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Sulla scia delle dottrine predicate dall'americana "Società Teosofica Internazionale" (fondata a New York il 17 Novembre 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, nobildonna russa nonché celebre medium e occultista, e dal colonnello americano H.S. Olcott) e dall'inglese "Golden Dawn" (fondata nel 1887 e diretta in questo periodo dal sinistro Aleister Crowley), e, forse, ispirati anche da una cattiva interpretazione della filosofia del "Superuomo" di Nietzsche, videro la luce molti "ordini" caratterizzati dall'idea ossessiva della necessità della rifondazione di una Razza Superiore originata millenni addietro dai "Superiori (o Maestri) Sconosciuti". Questi ultimi erano concepiti come semidei che controllavano i destini del mondo standosene nascosti - a seconda dei casi - nelle viscere della terra, in profonde gallerie scavate nell'Himalaya o in altri luoghi inaccessibili. Madame Blavatsky Nel 1910 fu fondata la "Società di Thule" (Thule Gesellschaft), la quale identificava l'origine della razza ariana nell'antica Thule di cui parla il geografo greco Pytheas (IV sec. a.C.), forse l'attuale Islanda; questa razza era costituita da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, che un tempo dominavano il mondo, successivamente perso per aver consumato relazioni sessuali con membri di altre razze, inferiori, subumane e in parte animali. In effetti, nel mito thuleano di una terra abitata da una razza umana sotto certi aspetti "superiore", identificata sovente con il popolo degli Iperbòrei, organizzata in una società pressoché perfetta, si possono facilmente ritrovare alcune della basi del mito - accolto e divulgato dal nazismo - della razza ariana, superiore a qualsiasi altra e dunque inevitabilmente dominante sul mondo. Thule (qui indicata come Tile) in una carta di Olao Magno del 1539 La "Società di Thule" attinse a piene mani dalle teorie di Von Liebenfels e di Madame Blavatsky, la quale sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi "Superiori sconosciuti". Essi, che a suo dire erano i 72 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra Tibet e Nepal, si sarebbero rifugiati in seguito a una spaventosa catastrofe nelle viscere della terra, dove avrebbero fondato una straordinaria civiltà sotterranea, la mitica Agarthi. I superstiti rimasti sulla superficie terrestre si sarebbero trasferiti parte in Tibet, parte nel nord Europa, dando origine alla razza ariana (la riprova sarebbe l'analogia tra il nome del regno degli Dei nordici, Asgard, e Agarthi, nome del mitico centro spirituale nascosto in Tibet). Anche per la "Società del Vril" (il Vril è l'enorme quantità di energia che possediamo e di cui non utilizziamo che una piccolissima parte nella vita quotidiana, il nucleo della nostra potenziale divinità) i Superiori Sconosciuti si trovavano nelle viscere della terra, ed era possibile diventare simili a loro soltanto purificando la razza. Un "ingegnere" autodidatta, Hans Hörbiger, formulò nel 1925 una teoria sul "mondo di ghiaccio", secondo la quale l'universo sarebbe nato dalla collisione di blocchi di "ghiaccio cosmico" dotati di movimento a spirale con enormi masse di fuoco. Dal ghiaccio, che tempra corpi e spirito, sarebbero nati sulla terra i Superiori Sconosciuti, dispersi in vari cataclismi tra cui quello di Atlantide, ma destinati a riorganizzarsi in una nazione germanica. Queste società fecero entusiasticamente propria la "teoria della Terra cava" dell'americano Symmes: quale miglior nascondiglio dell'interno della Terra, per una civiltà superiore di origine ariana? Non mancò chi, come Bender, fondatore del gruppo della "Hohl Welt Lehre", sostenne che l'umanità vivrebbe addirittura all'interno di una sfera di cui il Sole costituisce il centro. Sappiamo che Hitler fu un convinto sostenitore delle teorie di Hörbiger e di Bender. Una "mappa della terra cava" realizzata per un gioco da Exile Game Studio nel 2005 73 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO 3. La personalità di Hitler fra mistico e maniaco. Alfredo Castelli, creatore di Martin Mystère, racconta in un suo sito che secondo August Kubizek, uno dei pochi amici di Hitler durante la sua giovinezza a Linz, in Austria, le ossessioni magico-politico-razziali del futuro Führer si rivelarono d'improvviso attorno al 1904, quando Hitler aveva quindici anni. Dopo aver assistito a Rienzi, un'opera di Wagner impregnata d'esoterismo dedicata al tribuno Cola di Rienzo, il giovane Hitler cominciò a parlare di "una missione che il destino gli aveva riservato" e che "avrebbe affrancato la sua razza dalla servitù". Sempre secondo Kubizek, in quell'occasione Hitler parlò per la prima volta con quella voce frammentata e caratterizzata da violenti toni d'ira che sarebbe divenuta tristemente famosa grazie ai suoi discorsi, e che però - fatto singolare, noto solo agli intimi - non era la voce "normale" con cui si esprimeva quotidianamente. "Pareva lui stesso stupito" scrisse Kubizek - "come se sentisse le parole di un altro uscire dalla propria bocca". C'è chi vede in questo i primi sintomi di una forma di schizofrenia che l'avrebbe accompagnato per tutta la vita, chi invece azzarda l'ipotesi di una vera e propria possessione demoniaca. Adolf Hitler Sta di fatto che da quel momento Hitler cominciò a occuparsi, quasi a tempo pieno, di misticismo orientale, di astrologia, di ipnosi, di mitologia germanica, di occultismo. Era morbosamente affascinato dalle tematiche esoteriche delle opere di Wagner, di cui presto scoprì la fonte di ispirazione: la poesia medioevale di Wolfram Von Eschenbach, autore di un Parsifal dalla complessa simbologia ermetica. Un personaggio del poema lo colpì in modo particolare. Si trattava di un certo Klingsor che, secondo Hitler, era la trasposizione letteraria di una persona realmente esistita, il tiranno Landolfo II di Capua, scomunicato nell'875 per aver praticato la magia nera con l'intento di acquisire il potere assoluto. Con ogni probabilità Hitler si identificò con lui, anche perché soffriva della stessa anomalia fisica: erano entrambi monorchidi, ovvero dotati di un solo testicolo (si sa infatti che gli Alleati cantavano una marcetta, "Hitler has only got one ball", su un'aria simile a quella di Colonel Bogey, forse inventata dallo stesso Servizio Segreto Inglese a scopo denigratorio). Hermann Rauschning descrive così le stranezze del comportamento di Hitler: «Una persona di quelle della sua intimità mi disse che egli si sveglia la notte lanciando grida convulse. Chiama aiuto. Seduto sull’orlo del letto, si trova come paralizzato. E’ preso da un panico che lo fa tremare al punto che il letto si scuote. Proferisce vociferazioni confuse e incomprensibili. Si affanna come se fosse sul punto di soffocare. La stessa 74 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO persona mi raccontò di una di queste crisi con particolari che io mi rifiuterei di credere se la fonte non fosse così sicura. Hitler era in piedi in camera sua, barcollando e guardando intorno a sè con un’aria allucinata. "E’ lui! E’ lui! Lo vedo qui!" egli borbottava. Le sue labbra erano azzurre. Il sudore scorreva in grosse gocce. Repentinamente pronunciò delle cifre senza senso alcuno, poi parole, pezzi di frase. Era orribile. Egli impiegava termini bizzarramente allineati, completamente estranei. Dopo tornò nuovamente silenzioso continuando però a muovere le labbra. Gli si fecero frizioni, gli si diede da bere una bevanda. Poi, improvvisamente, egli ruggì: "Lì, lì! Nell’angolo. Cosa c'è lì?" Batteva il piede sul pavimento di legno e urlava. Gli assicurarono che non succedeva niente di straordinario e allora egli, a poco, a poco, si calmò» (Hermann Rauschning, "Hitler m’a dit", in "Hitler et la Tradition Cathare", Parigi 1939). Una celebre fotografia di Adolf Hitler "Seguo il cammino che la provvidenza mi indica con la sicurezza di un sonnambulo", diceva Hitler: il che conferma la sua convinzione di disporre di poteri paranormali. Ma da dove avrebbe egli ricevuto tali poteri? Dalla Società Thule che lo aveva iniziato all’esoterismo orientale? Dal misterioso "monaco dai guanti verdi" inviato dai saggi del Tibet? O da una rivelazione più antica? Fra l’altro, per quanto possa sembrare paradossale, Hitler odiava i cacciatori: credeva nella reincarnazione delle anime in corpi di animali, proprio come i buddisti e i catari. Un giorno dichiarò: «Chi si suicida ritorna fatalmente alla natura-corpo, anima e spirito» (Hitler Adolf, "Libres Prepos", Flammarion, Paris, in "Hitler et la Tradition Cathare"); dichiarazione in totale contrasto con la scelta del suicidio che attuò nel 1945. Sapendo tutto questo, non c'è da stupirsi che già nel lontano 1909, a vent'anni, Hitler abbia preso contatto con Von Liebenfels, e che 1919 sia stato iniziato alla Società Thule da Dietrich Eckart, che in quel periodo ne era il leader, rimanendo profondamente e durevolmente influenzato da tutte le teorie sopra descritte. 75 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO 4. Hitler e l'esoterismo. Difficile comprendere se sia stata l'ossessione di Hitler per queste teorie esoterico-razziali a fargli intraprendere la sua carriera politica, in modo da poterle mettere in pratica, oppure le abbia adottate "a posteriori" come base filosofica della sua politica; con ogni probabilità le due ossessioni interagirono. Sta di fatto che Adolf Hitler fece sua questa accozzaglia di dottrine. Che ci credesse sul serio o, come si suol dire, "ci marciasse" (ma la prima ipotesi è la più attendibile), Hitler si circondò di legioni di maghi, astrologi, occultisti, ricercatori psichici, alchimisti. Non a caso, nel 1920, scelse un simbolo magico, la svastica, come marchio del partito nazionalsocialista. Gliel'aveva suggerito Friedrich Krohn, un occultista del gruppo "Germanenorder", ma Hitler aveva preteso una modifica: la direzione delle braccia della svastica fu invertita, trasformando questo antico simbolo solare e positivo in un simbolo notturno e negativo. Un disegno di Boris Artzybasheff apparso su Life, raffigurante gli incubi di Hitler (tutti a forma di svastica!) Paradossalmente, l'occultista più seguito da parte di Hitler era un ebreo, tal Erik Jan Hanussen, che non solo gl'impartì lezioni di oratoria, ma anche curò la teatralità dei gesti del futuro dittatore. A far data dal 1932 (sebbene altri futuri alti gerarchi nazisti abbiano fatto ricorso al medium già a partire dal 1924) Hitler ricorse più volte alle "cure" di Hanussen ogni qual volta doveva prendere decisioni importanti o si sentiva deluso dai risultati elettorali, tanto che nel 1932 l'esoterista, a quel tempo secondo solo ad Harry Houdini per fama, gli preannunciò la conquista del potere per l'anno seguente, il che effettivamente si verificò nella data prestabilita, in quanto "questo hanno deciso le potenze celesti e nulla potrà mutare tale verdetto se scritto nel destino". Nel corso di un'intervista, Hanussen ebbe modo di affermare circa Hitler ed il nazismo: "Hitler? Sì, un ottimo direttore d'orchestra! Però, lo spartito... - rammentate bene - ebbene quello l'ho scritto io!". Hanussen morì un anno esatto dopo aver predetto la vittoria hitleriana, nella primavera del 1933, ma sembra ormai accertato che Hitler non fosse coinvolto nel suo omicidio; lo erano piuttosto, pare, Himmler e Gōring. Hanussen infatti aveva predetto a Göring la caduta del Terzo Reich, e questa fu una delle probabili cause della sua morte. Il giorno prima di morire Hanussen scrisse con l'inchiostro simpatico una lettera all'ex segretario Juhn: "Tu non credi nell'occulto, ma il nuovo padrone della Germania ci crede eccome! Leggi quanto profetizza il mio collega, il profeta Daniele nel capitolo 8 ("13. Udii parlare un santo e un altro santo dire a quello che parlava: 76 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO «Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la trasgressione devastante, il santuario e la milizia calpestati?». 14. Gli rispose: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario sarà resa giustizia»"). Calcola bene gli anni e saprai quando cadrà l'uomo malvagio che cerca di sottomettere il mondo con la forza bruta. Calcola gli anni da quando cento sinagoghe saranno distrutte in un'unica sera ("Notte dei cristalli", 1938) e saprai quando cesserà il suo barbaro sogno". Il giorno dopo Hanussen morì in circostanze oscure. Hanussen a parte, molti episodi del nazismo rimangono non del tutto chiariti. Ad esempio l'operazione che passò alla storia col nome de "La Notte dei Lunghi Coltelli" (1934), voluta da Hitler, dal ministro degli Interni Göring e dal leader delle SS, Himmler, potrebbe essere, secondo alcuni, un regolamento di conti a sfondo non solo politico, ma anche esoterico. 5. Himmler e il neo-paganesimo. Nel 1933, con il beneplacito di Hitler, il Reichsführer e fondatore delle SS (Schutz Staffel, "Forza Protettiva"), Heinrich Himmler, noto per la sua devozione maniacale alle arti magiche, mise insieme una vera e propria religione neo-pagana. Tutte le organizzazioni occulte furono obbligate a sospendere le loro pratiche per ordine di Himmler, il quale si riteneva unico depositario dell’ermetismo nazista; rimase in vita solo il famigerato Ordine Nero da lui fondato, un movimento occulto nato con l’unico scopo di contrastare gli alleati servendosi di pratiche magiche. Contemporaneamente Hitler fece eliminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze, iniziò a divulgare nuove teorie ed ordinò l’insegnamento delle prime nozioni misteriosofiche ad una speciale sezione delle S.S. dedita esclusivamente all'esoterismo. Come centri di culto furono scelti Exernsteine, considerata la Stonehenge tedesca, e, soprattutto, Wewelsburg, dove venne edificata una vera e propria cattedrale esoterica, con una Tavola Rotonda per tredici commensali (Himmler e i suoi "dodici apostoli") attorno alla quale venivano progettati i genocidi delle "razze inferiori" e degli omosessuali. Qui le giovani SS (la cui genealogia era stata controllata fino al 1750, per appurare che in loro non scorresse sangue ebreo) subivano un rito di iniziazione, dopo il quale potevano indossare la divisa nera con il teschio d'argento. Himmler si occupava anche di cerimonie scaramantiche contro simboli o monumenti che riteneva di cattivo auspicio; durante la guerra fu ossessionato dall'idea di sabotare le campane di Oxford, presso Londra, che secondo lui portavano sfortuna alla Luftwaffe, l'aviazione tedesca, impedendole di colpire a fondo sul territorio inglese. 77 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO La sala di Wewelsburg, con il "sole nero" sul pavimento Nel 1938, in occasione dell'Anschluss, ovvero l'annessione forzata dell'Austria, Hitler si affrettò a impadronirsi dell'Heilige Lanze, la "Lancia Sacra" con cui, secondo la leggenda, il pretoriano Longino aveva trafitto il costato di Cristo crocifisso, custodita nel palazzo Hofburg di Vienna. Hitler la riteneva un potentissimo talismano e la fece portare a Norimberga, il centro principale del Partito Nazista. Qui essa venne provvisoriamente collocata nella chiesa di Santa Caterina, dove venne allestito un vero e proprio santuario mistico-esoterico, e presentata come simbolo della sacralità della missione germanica, ricollegandovi nuovamente un mito di invincibilità. In seguito Hitler la fece murare in un bunker segreto. Sempre agli anni immediatamente antecedenti al conflitto risalirebbero alcune esplorazioni in Tibet, allo scopo di identificare la mitica Agarthi, e la ricerca del Santo Graal. A quest'ultima vicenda è legata la misteriosa morte dell'archeologo Otto Rahn. Rahn, colonnello delle SS, e il filosofo Alfred Rosenberg, amico di Hitler, furono incaricati di cercare il Graal. Indagarono a Montségur e in altre fortezze catare. Subito dopo le ricerche, di cui mai si seppe alcun risultato, il 13 Marzo del 1939 il corpo di Rahn venne ritrovato in fondo ad una scarpata tra le montagne dell'Austria, a Kitzbühel. L'episodio non fu mai ben chiarito: le tesi ufficiali parlano di suicidio, ma si è ipotizzato che si trattasse di un'esecuzione. 78 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Otto Rahn Ne "Il Mattino dei Maghi" Jacques Bergier sostiene che le spedizioni continuarono fino al 1943, ma la loro realtà non è storicamente accertata. Si sa però che nel giugno del 1944 la II divisione delle S.S. "Das Reich" mise a ferro e fuoco il paese di Oradour-sur-Gland, massacrandone gran parte della popolazione, rea di aver occultato, a suo dire, la reliquia che Hitler aveva cercato disperatamente per mezza Europa. E' confermato anche il fatto che, dopo la caduta di Berlino, i sovietici rinvennero i cadaveri di molti tibetani in uniforme tedesca. Chi erano, e cosa facevano nella capitale del Reich? La "Lancia Sacra", oggi conservata a Vienna 79 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Nel frattempo Hitler continuava la sua frequentazione di veggenti: nel 1942 si recò in Bulgaria a consultare la celebre Vangelia Pandeva ("Baba Vanga"), che viveva nella città di Petrich. Probabilmente l'incontro non fu dei più felici, giacché Hitler fu visto uscire scuro in volto. Si faceva anche commentare da un sedicente esoterista, tal Ludwig Birzer, i passi di Nostradamus, della Monaca di Dresda, di San Malachia, Mother Shipton e dell'anonimo monaco tedesco noto con lo pseudonimo de "Il Ragno Nero" (in tedesco "der Schwarze Spinne"). 6. Ipotesi e interrogativi. Questi i fatti accertati. Ma secondo alcuni studiosi Hitler non era soltanto un paranoico ossessionato dalla magia, bensì un iniziato "di mano sinistra", un lucido e potentissimo "mago nero" che aveva stretto un patto con oscure potenze, a cui offriva sacrifici rituali in cambio del potere assoluto, come il suo ideale predecessore Landolfo II di Capua. Quest'alleanza spiegherebbe la sua fulminea carriera e l'inspiegabile carisma che il Führer, pur essendo fisicamente insignificante, riusciva ad esercitare a livello quasi ipnotico su sterminate moltitudini di concittadini. Ancor più inquietante l'ipotesi che lo stregone non fosse Hitler, ma qualcun altro che teneva nascostamente le fila e lo usava come fantoccio. Ma ci fu davvero qualcuno al disopra di Hitler? E se sì, chi era e che fine ha fatto? Nel volume "La Guerra Segreta", lo storico e narratore inglese Dennis Wheatley afferma che tra il '40 e il '45 potenti maghi "bianchi" di tutte le nazionalità si sarebbero coalizzati contro Hitler e i suoi stregoni, attaccandoli sul piano psichico. In Inghilterra le attività dei "maghi bianchi" sarebbero state coordinate da un'apposita sezione del Servizio Segreto, sorta con il beneplacito di Winston Churchill; tra i più potenti "oppositori psichici" di Hitler in Italia c'era - si dice - lo stesso Padre Pio di Pietralcina. Padre Pio In Germania (e questa notizia è storicamente sicura) il pranoterapista personale di Himmler, Felix Kernsten, un potente sensitivo di cui il Reichsführer delle SS era letteralmente dipendente, riuscì a "influenzarlo mentalmente" salvando la vita a centinaia di ebrei (Kernsten venne di seguito decorato dagli Alleati per aver reso "servigi così preziosi da non poter essere comparati con nessun precedente"). Sintomatico il fatto che, come si è detto, una volta preso il potere, Hitler si sia subito premurato di far sterminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze. 80 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Ma, evidentemente, questa precauzione non bastava: Hitler non riuscì a sfuggire al destino che, come nel mito di Faust, attende chi stringe un'alleanza con il Maligno. Chiuso in un bunker sotto una Berlino rasa al suolo dalle bombe e devastata dagli incendi, il Führer attese il 30 aprile 1945 prima di suicidarsi: era il giorno che si conclude con la notte di Valpurga, la notte in cui i poteri delle tenebre celebrano la loro festa trionfale. 81 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO JARRY E LA PATAFISICA Nella fisica epicurea, il clinamen è la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto in linea retta, deviazione casuale, sia nel tempo sia nello spazio, che permette agli atomi di incontrarsi. Questo concetto fu introdotto da Epicuro al fine di preservare la libertà della volontà umana all'interno di una fisica che non fosse completamente deterministica. Nel De rerum natura (II, 216-219) Lucrezio, rifacendosi (per la verità in modo non del tutto chiaro, dato che la teoria non compare nelle opere del Maestro) alla fisica di Epicuro, afferma che «gli atomi cadono in linea retta nel vuoto, in base al proprio peso: in certi momenti, essi deviano impercettibilmente la loro traiettoria, appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell'equilibrio». È l'idea di deviazione eccezionale, che si potrebbe quasi vedere come un "incidente di percorso", un epifenomeno, che permette di accostare il clinamen alla patafisica, la "scienza" inventata da Alfred Jarry (1873-1907), scrittore e drammaturgo francese. Robert Butler, Faustroll's Visionary Voyage, 2006 Noto soprattutto per avere scritto la commedia Ubu Roi (1896), considerata caposaldo e vera e propria pietra miliare del Teatro dell'assurdo, di cui sarà in seguito esponente Eugène Ionesco, Jarry fu uno dei primi a porre l'accento sul tema dell'assurdità dell'esistenza, il grottesco e il fraintendimento (si pensi al termine 'Merdre' da lui coniato per significare qualcosa come 'Merda!', ma non solo, evidentemente). 82 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Provinciale intelligente e curioso, Jarry trovò nella Parigi di fine secolo e nell’eccentricità dei suoi ambienti artistici la strada di una vocazione letteraria che lo portò a contatto con i simbolisti. La sua fama, più che all’avventura letteraria (che lo colloca tra i creatori dell’avanguardia), è legata all’invenzione di un personaggio, “Padre Ubu”: grottesca marionetta umana, avida di potere e di denaro, ingorda, cinica, brutale e paurosa, che rappresenta il piccolo borghese del tempo, affascinato dall’idea del potere e della gloria e vile al loro cospetto; ma il fascino delle avventure di Ubu è legato al fatto che l'autore non lascia mai affiorare il moralismo, optando piuttosto per la frantumazione delle consuetudini linguistiche e sceniche tradizionali e rendendo con ciò stesso evidente il vuoto di senso sotteso a questo modo di vivere. Quando “Ubu re” venne messo in scena nel 1896, al Théâtre de l'Œuvre di Parigi, fu un clamoroso insuccesso. Jarry morì pochi anni dopo di tubercolosi, complicata fra l'altro dall'uso di alcol e droghe. Ma Jarry non è legato solo al Teatro dell'assurdo, bensì anche, come si diceva, alla creazione della patafisica, una supposta nuova scienza i cui princìpi vengono esposti da Jarry nel romanzo Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico del 1911. La definizione data dall'autore è di una esemplare assurdità: «La patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà degli oggetti descritti per la loro virtualità» (Alfred Jarry, Gestes & Opinions du Docteur Faustroll pataphysicien. Roman néo-scientifique, libro II Elementi di Patafisica, par. VIII: Definizione). Robert Butler, Faustroll from Paris to Paris by sea, 2006 In sintesi, la patafisica è la scienza delle scienze, che tutte le altre ingloba e vanifica; essa si prefigge di studiare le leggi che regolano le eccezioni (quindi, in modo più o meno evidente, tutto) e di spiegare l'universo supplementare al nostro. Una vera e propria scienza del tutto e del niente, insomma; una scienza del vuoto, inteso come vuoto di senso o impossibilità di cogliere il senso delle cose, sberleffo irriverente nei confronti della scienza "seria" che pretende di cogliere l'essenza della realtà. Suo araldo è il dottor Faustroll, «negromante moderno, mescolanza di uomo e di marionetta, di trasposizione mitica e di caricatura» (come lo definisce Sergio Solmi). Al pari di tanti eroi delle favole, il 83 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO dottor Faustroll deve compiere un viaggio, e la sua imbarcazione si spingerà indifferentemente per terra, per mare o per le vie della città. Le varie «isole» a cui approda sono altrettante costellazioni sull’atlante celeste della décadence, come dire su quello che ancora oggi è il nostro cielo. Lì vegliano invisibili numi protettori, che rispondono volta a volta ai nomi di Lautréamont e di Bloy, di Mallarmé e di Gauguin, di Schwob e di Verne. E lì sentiamo risuonare l’inestinguibile riso patafisico, che si sovrappone a quello più antico di Rabelais (vero e proprio precursore della patafisica), in quanto «coscienza viva di una dualità assurda e che salta agli occhi». In quanto tale, precisava Daumal, esso è «la sola espressione umana dell’identità dei contrari (e, cosa notevole, ne è l’espressione in una lingua universale)». Per tornare al clinamen, nel libro VI, capitolo XXXIV (intitolato appunto «Clinamen») del suo romanzo a chiave, Alfred Jarry parla esattamente dell'eiaculazione del «bestiale improvviso Clinamen». Leggiamo l'inizio del capitolo: XXXIV CLINAMEN Nel frattempo, dopo che non vi fu più nessuno al mondo, la Macchina per Pitturare, animata al suo interno da un sistema di molle senza massa, si volse in azimut nella hall di ferro del Palazzo delle Macchine, ultimo monumento in piedi di Parigi deserta e rasa, e come una trottola, urtandosi con i piloni, s’inclinò e declinò in direzioni indefinitamente varie, soffiando a suo piacimento sulla tela delle muraglie la successione dei colori fondamentali sciorinati secondo i tubi del suo ventre, come in un bar un pousse-l'amour55, i più chiari prossimi all’uscita. Era quella la stessa macchina che, nell’anno milleottocentoottantasei, un uomo di media età, d’aspetto benigno quantunque baffuto, ragguardevole per la sua decorazione militare, aveva proposto all’accettazione int elligente del ministero della Guerra, affinché questo potesse, quando gli fosse piaciuto, colorare rapidamente i cassoni e gli affusti della difesa nazionale. Lo strumento fu fissato, alla presenza della Commissione competente, contro una porta nuova, ment re due artiglieri, muniti di pennelli, si appostavano davanti a una porta consimile. E appena dato il segnale, prima che i due soldati avessero eseguito il primo tempo della posizione del pittore sotto le armi, la porta del collaudo e l’altra porta, e le finestre e tutto l’edificio sparirono sotto uno strato infame di prodigiosi grumi, nello stesso tempo l’atmosfera faceva posto a una nebbia verde; e non fu più questione della Commissione né degli artiglieri: non restò proprio alcuna traccia di tutto ciò! Ora, nel palazzo sigillato ergendo sola la lucidatura morta, moderno diluvio della Senna universale, la Macchina, la bestia imprevista CLINAMEN eiaculò sulle pareti del suo universo: NABUCODOSOR CAMBIATO IN BESTIA Che bel crepuscolo! o piuttosto è la luna, simile a un oblò in un una grossa botte dei vino più grande di un naviglio, o a un tappo d’olio di un fiasco italiano. Il cielo è di uno zolfo d’oro così rosso che non vi manca veramente altro che un 84 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO uccello di cinquecento metri che ci sventagli un po’ di nubi. L’architettura, basamento di tutte queste fiamme, è ben animata e mobile un po’, ma troppo romantica! Vi sono torri che hanno occhi e becchi, e torrette acconciate a mo’ di piccoli gendarmi. Due donne che guardano ondeggiano al vento delle finestre come camicie di forza che si asciugano. Ecco l’uccello: il Grande Angelo, che non è un Angelo, ma Principato, s’abbatte dopo un volo esattamente nero di rondone, in metallo d’incudine di conciatetti. Una punta sul tetto, il compasso si chiude e si riapre, e descrive un cerchio attorno a Nabucodonosor. Il braccio incanta la metamorfosi. I cavalli del re non si imbizzarriscono per nulla, ma cadono come i peli madidi del tricheco; le loro punte ne costringono a chiudersi le sensitive pustole che popolano le loro alghe piegate di zoofiti, riflessi di tutte le stelle; piccole ali palpitano secondo il riamo delle palme del rospo. Zanne blu risalgono il corso delle lacrime. L’ascensione delle pupille desolate striscia verso le ginocchia del cielo fondiglio-di-vino; ma l’Angelo ha incatenato il mostro neonato nel sangue del palazzo vitreo e l’ha gettato in un culo-di-bottiglia. Per inciso, sembra evidente in questa pagina la citazione di un celebre dipinto del 1795 di William Blake, poeta e pittore visionario romantico, raffigurante appunto Nabucodonosor che si sta trasformando in bestia (vedi pagina precedente). O. Votka, un altro patafisico, scrive che Epicuro ha compreso che al centro di ogni pensiero, come di ogni realtà (che non è mai altro, per chicchessia, che un pensiero della realtà), c'è una aberrazione infinitesimale, una flessione fondamentale, che tuttavia sbilancia tutto. Per i Patafisici il clinamen è dunque tutt'altra cosa che una semplice fatalità o possibilità, come spesso si dice. È invece una nozione beffarda che Epicuro mette al principio di ogni cosa. 85 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO IL DADAISMO Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. Il contesto storico in cui il movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter. Il loro esordio ufficiale è fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco. Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova e originale. I due movimenti, Futurismo e Dadaismo, hanno diversi punti comuni, come l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte, ma hanno anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Questa diversa impostazione conduce a una facile, anche se non proprio esatta, valutazione per cui il futurismo è un movimento di destra, mentre il dadaismo è di sinistra. Altri punti in comune tra i due movimenti sono l’uso dei manifesti quale momento di dichiarazione di intenti. Marcel Janco, Ritratto di Tristan Tzara, 1919 Vediamo i contenuti principali del dadaismo: innanzitutto la parola Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla. Già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e usato come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità, i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio. Tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte, non più sul piedistallo dei valori borghesi, ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa. 86 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi. Benché il dadaismo sia un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero luogo negli Stati Uniti, per la precisione a New York. L’esperienza dadaista americana nacque dall'incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz. Francis Picabia, Edtaonisl (Clergyman), 1913 La vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente: la funzione principale del dadaismo era quella di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte; una funzione che svolge in modo egregio, ma per poter diventare propositivo esso necessitava di una trasformazione: ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il Dadaismo scomparve e nacque il Surrealismo. Il Dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale e, per poter continuare a produrre opere d’arte, si affida a un meccanismo ben preciso: la casualità. Il caso, in seguito, troverà diverse applicazioni nell'arte: lo useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia gli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Pollock con l’action painting. In un suo scritto, il poeta Tristan Tzara descrive il metodo dadaista di produrre una poesia casuale. Il passo, che di seguito riportiamo, è decisamente esplicativo del loro modo di procedere: Per fare un poema dadaista. Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano. 87 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco. Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà. Ed eccovi "uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada". Robert Delauney, Ritratto di Tristan Tzara, 1923 In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria». Si capisce come il Dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma, in effetti, nel Surrealismo, movimento, quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo. Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i «ready-made». Il termine indica opere realizzate con oggetti reali, non prodotti con finalità estetiche e presentati come opere d’arte. In pratica i «ready-made» sono un’invenzione di Marcel Duchamp, il quale inventa anche il termine per definirli, che in italiano significa approssimativamente «già fatti», «già pronti». 88 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO A dire il vero i «ready-made» nascono prima del movimento dadaista, dato che il primo «ready-made» di Duchamp, la ruota di bicicletta (che vediamo riprodotta qua sotto), è del 1913: Essi diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali d'arte. Questo divenne evidente soprattutto quando Duchamp, nel 1917, propose uno dei suoi più noti e provocatorii «ready-made», fontana: In pratica, con i «ready-made» si rompe il concetto per cui l’arte è il prodotto di una attività manuale coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte può essere qualsiasi cosa: posizione che ha come conseguenza che nulla è arte. Questa evidente tautologia era superata mediante l'affermazione di due concetti fondamentali: - che l’arte non deve separarsi altezzosamente dalla vita reale, ma confondersi con questa; 89 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - che l’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» era solo nell’idea. Abolendo qualsiasi significato o valore alla manualità dell’artista, l’artista non è più l'artigiano, colui che sa fare cose con le proprie mani, ma colui che sa proporre nuovi significati per le cose, anche per quelle già esistenti. Il vuoto assoluto di senso implicito nella presa di posizione del Dadaismo era quindi provocatorio, mirato in realtà al recupero di un senso più profondo per l'arte. 90 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO IONESCO, LA CANTATRICE CALVA La genesi del dramma La cantatrice calva (La cantatrice chauve), del 1950, è la prima opera teatrale di Eugène Ionesco. La genesi di questa stranissima pièce teatrale, stando all'aneddoto tradizionale riportato in proposito, è singolare: l'autore rumeno, francese di adozione, aveva deciso di imparare l'inglese comprandosi un manuale di conversazione. Per esercitarsi ricopiava le frasi del manuale; facendo ciò si accorse con meraviglia della comica banalità delle frasi in esso contenute: "il soffitto è in alto, il pavimento in basso", "i giorni della settimana sono sette", etc. Da qui, pare, egli trasse ispirazione per la commedia. La pièce - definita dall'autore anticommedia - è forse il più noto esempio di un genere teatrale noto come il teatro dell'assurdo, in cui la vicenda subisce uno straniamento tramite l'utilizzo esasperato di frasi fatte, dialoghi contrastanti, luoghi comuni portati al parossismo; capostipite di questa corrente teatrale è Alfred Jarry, che ne fu l'iniziatore con Ubu roi del 1896. Ecco cosa lo stesso Ionesco dichiarò a questo proposito: «Scrivendo questa commedia (poiché tutto ciò si era trasformato in una specie di commedia o anticommedia, cioè veramente la parodia di una commedia, una commedia nella commedia) ero sopraffatto da un vero malessere, da un senso di vertigine, di nausea. Ogni tanto ero costretto ad interrompermi e a domandarmi con insistenza quale spirito maligno mi costringesse a continuare a scrivere, andavo a distendermi sul canapè con il terrore di vederlo sprofondare nel nulla; ed io con lui». La prima messinscena di Parigi del 1950 fu tutt'altro che un successo; nuovamente inscenata nel 1955, però, la pièce riscosse un enorme favore di pubblico. Eugène Ionesco I personaggi I personaggi sono sei: i coniugi Smith, i coniugi Martin, la cameriera Mary ed il pompiere. I Martin e gli Smith sono privi d’individualità, totalmente invischiati nelle convenzioni sociali; i loro comportamenti si rivelano simili, si confondono; sono esseri alla ricerca di una felicità stereotipata; e rivelano, infine, il ruolo del caso nell’esistenza umana. Nelle scene dedicate alle conversazioni convenzionali, i Martin, come gli Smith, sono rinchiusi nei loro obbligati atteggiamenti della gentilezza e della cortesia, provando a dissimulare la noia che essi provano e 91 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO prorompendo in discorsi incoerenti e privi d’interesse. E non possono fare a meno di scatenare la loro aggressività alla fine dell’opera. L’indicazione scenica finale conferma questa similitudine tra gli Smith e i Martin, i quali, in un nuovo ricominciamento, ripetono esattamente le battute degli Smith nella prima scena. Questa confusione che esiste tra esseri privi d’individualità, fusi tutti in un insieme evanescente e condannati alla stessa esistenza noiosa e assurda, è messa in evidenza, in altro modo, nella scena prima. Parlando di una famiglia di sua conoscenza, i Watson, la signora Smith che ogni membro di quella famiglia porta indistintamente lo stesso nome, Bobby Watson. Il signor Smith rafforza ancora questa indeterminatezza degli esseri che rivelano queste considerazioni genealogiche, offuscate dalla somiglianza dei nomi, rincarando la dose: “tutti i Bobby Watson sono commessi viaggiatori”. Ionesco crea così un effetto parodico, facendosi beffa delle interminabili conversazioni che vertono sui rapporti familiari. Mary, la domestica, ha nell’opera una duplice funzione. È anzitutto una figura prosaica, divisa tra il suo lavoro di domestica e il desiderio di affermare la propria personalità, ma svolge anche il ruolo di testimone di ciò che accade intorno a lei, incaricata di trascrivere le manifestazioni del destino. Cercando di esprimere le proprie idee e di affermare la propria personalità, Mary rompe con l’immagine della domestica remissiva e zelante, mostrandosi così contraddittoria quanto i suoi padroni. Dopo essere scoppiata a ridere, piange, poi sorride. Nella nona scena, malgrado i rimproveri, intende partecipare alla conversazione e finisce col recitare la poesia “Il Fuoco”, che rivaleggia per incoerenza con gli aneddoti raccontati dagli altri personaggi. Anche lei partecipa, quindi, a tutto questo gioco d’incomprensioni e incoerenze che reggono i rapporti dell'insieme dei personaggi dell’opera. Ma Mary svolge anche un altro ruolo: rivela gli equivoci di cui sono vittime i Martin quando pensano di scoprire di essere sposati, mostrando come la sorte si faccia beffa degli esseri umani. Diventa così la portavoce del destino; è incaricata di svelare una verità, portatrice di sofferenza e di morte. Mary svolge al tempo stesso il ruolo del coro della tragedia antica e quello del detective, Sherlock Holmes. Pur contribuendo a mostrare la difficoltà della comunicazione, il capitano dei pompieri sottolinea l’assurdità delle funzioni sociali e rivela la complessità di un mondo reso incomprensibile dalla sua infinita relatività. Ciò che caratterizza questo personaggio, vestito con un “enorme casco luccicante e un'uniforme”, è anzitutto il suo mestiere, ragione della sua vita. Senza di esso non è più niente; egli è ossessionato dal fuoco che ritma la sua esistenza. Ma il pompiere è anche là per testimoniare la complessità delle cose. Tanto le genealogie dei Watson, abbozzate dagli Smith nella prima scena, rivelava l’uniformità del mondo, quanto quella che sviluppa il pompiere nella nona scena ne mostra la varietà. Tuttavia questa diversità si rivela 92 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO incoerente. Questa complessità del mondo è portatrice di una relatività che rende le cose incomprensibili, inesplicabili. Quanto all’enigmatica cantatrice calva che dà il titolo all’opera, è disperatamente assente: essa costituisce una manifestazione supplementare dell'incoerenza. Non facendo mai apparire la cantatrice calva, Ionesco parodia una tecnica destinata a creare il mistero e la suspence attorno ad un personaggio che in realtà non svolge alcun ruolo nell'azione. E il silenzio generale, l’imbarazzo che seguono alla sola allusione al personaggio mostrano ironicamente il disagio di un drammaturgo incapace di giustificare la ragione d’essere del suo personaggio. La cantatrice calva ha anche la funzione di contribuire all’incoerenza ambientale. L'aggettivo “calva” appare incompatibile con l’immagine che si ha di una cantante, creando già in tal modo un’impressione di estraneità. La trama L'opera è in un atto unico, inscenato nel salotto dei signori Smith. Sia gli Smith che i Martin incarnano, secondo i canoni del teatro dell'assurdo, la tipica famiglia borghese: gli Smith ad esempio, abitano in una villetta a più piani, sono abbigliati in modo impeccabile ed all'antica, trascorrono il tempo spettegolando su amici e vicini; la signora trova diletto nel pensare a come preparare lo stesso yogurt della vicina, il marito legge il giornale e fa commenti conservatori sui medici, sullo stato britannico, sull'esercito. Una grande importanza hanno gli orologi della stanza, che scandiscono il tempo: la pendola suona a caso rintocchi il cui numero cambia ogni volta. Riporto in sintesi la trama delle undici scene in cui è diviso l'atto unico. Scena prima: i coniugi Smith siedono in salotto arredato di mobili inglesi: il signor Smith legge un quotidiano fumando una pipa inglese, mentre la signora ripete più volte il menu della loro cena, perfettamente all'inglese. Scena seconda: compare la cameriera Mary, annunciando i coniugi Martin, venuti per la cena già consumata. Gli Smith si dirigono a cambiarsi. Scena terza: molto breve, vede Mary che fa entrare i Martin e li rimprovera per il loro ritardo. Scena quarta: è forse la più nota, memorabile per la sua assurdità: i Martin si accomodano e ha luogo fra loro una lunga conversazione, inframmezzata dal ritornello “Veramente curioso, veramente bizzarro!”, in cui essi constatano sorprendenti coincidenze: entrambi sono di Manchester, hanno lasciato questa città da circa cinque settimane, hanno preso lo stesso treno, erano nella stesso carrozza e nel medesimo compartimento; ora si trovano a Londra; abitano nella stessa strada, nel medesimo numero civico, lo stesso appartamento, 93 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO dormono nella stessa camera e nello stesso letto, hanno la stessa figlia. Arriva la straordinaria rivelazione: il signore e la signora Martin s’abbracciano, scoprendo di essere marito e moglie. E' facile vedere qui una feroce parodia della convenzione teatrale così spesso ricorrente nel teatro di Euripide e di Menandro, ripresa anche dalla commedia latina (soprattutto da Terenzio) e dal romanzo greco erotico-avventuroso (cfr. Dafni e Cloe di Longo Sofista): quella della ἀναγνώρισις, la latina agnitio, ovvero il tardivo riconoscimento della vera identità di un personaggio, generalmente consentito da dettagli apparentemente trascurabili, che risolve la situazione nei drammi basati sull'equivoco. Scena quinta: preme ulteriormente sul pedale dell'assurdità: la cameriera Mary rimette in discussione l'identità appena scoperta con motivazioni a loro volta assurde, affermando che i coniugi non sono quelli che credono di essere e rivelando alla fine di essere Sherlock Holmes (!). Scena sesta: brevissima, capovolge le aspettative create nella quinta: i Martin decidono di ignorare la crudele verità: sono felici di essersi ritrovati e s’impegnano a non perdersi più. Scena settima: vede l'inizio della difficile conversazione fra le due coppie: le battute brevi, separate da lunghi silenzi, sottolineano l'incomunicabilità, ulteriormente accentuata dai rintocchi incoerenti della pendola. La signora Martin prova a ravvivare l’interesse della conversazione raccontando che ha visto un uomo allacciarsi le scarpe. Nel frattempo suona qualcuno alla porta. La signora Smith va ad aprire ma non c’è nessuno. Ciò avviene per tre volte, cosicché la signora ne deduce che “l'esperienza insegna che quando si sente suonare alla porta è segno che non c'è mai nessuno”. Ma il campanello suona nuovamente, e stavolta va ad aprire il signor Smith, il quale annuncia trionfalmente: “è il capitano dei pompieri!”. Scena ottava: le due coppie interrogano il capitano dei pompieri per risolvere l’enigma delle scampanellate. Il mistero non fa che infittirsi: non è il pompiere ad aver suonato le due prime volte e, d’altra parte, era là e non ha visto nessuno. Ha suonato la terza volta, ma si era nascosto. E al quarto colpo gli hanno aperto. Quindi il pompiere, alla disperata ricerca di un fuoco da estinguere, offre i suoi servizi per spegnere eventuali incendi, poi racconta molti aneddoti incoerenti. Scena nona: ha per protagonista la cameriera Mary, che insiste per raccontare anche lei un aneddoto, con grande indignazione degli Smith, i quali trovano il suo intervento fuori luogo. Ma sembra che lei sia amica del pompiere, per cui, su insistenza dei Martin, le viene lasciata la parola; Mary, invece di raccontare l'aneddoto, in onore del capitano recita un poesia intitolata “Il Fuoco”. Scena decima: Il pompiere si congeda dagli Smith e i Martin affermando di avere un incendio da spegnere; prima di andarsene, però, pone la domanda che dà il titolo alla commedia: “A proposito, e la cantatrice calva?”. Questa domanda genera prima un silenzio imbarazzato, poi una risposta enigmatica della signora Smith: “Si pettina sempre allo stesso modo!”. Scena undicesima: Una volta che gli Smith e i Martin sono rimasti soli, si verifica un’improvvisa accelerazione nel deterioramento del linguaggio. Le due coppie si scambiano luoghi comuni, sotto forme di proverbi o affermazioni incoerenti. Le loro battute si fanno sempre più brevi. Le loro parole tendono a diventare suoni onomatopeici. Essi finiscono col ripetere tutti insieme freneticamente: “C’est pas par là, c’est par ici…”, ovvero: “Non è di qua, ma è di là…”. Di colpo tutto s’interrompe. Calano le luci. Poi si riaccendono le luci e la commedia ricomincia daccapo con i Martin che dicono esattamente le battute degli Smith nella prima scena, mostrando così il carattere interscambiabile dei personaggi e, più in generale, degli esseri umani. Infine cala il sipario. Una “anti-pièce” sorprendente Ionesco ha intitolato “La Cantatrice Calva” “anti-pièce”, perché il suo obiettivo, chiaramente provocatorio, è quello di fare il contrario della scrittura del teatro tradizionale. Certo, sembra rispettarne le regole: mette in scena personaggi che si scambiano battute; adotta in un atto la divisione abituale, ripartendo la materia in undici scene; tiene conto delle caratteristiche proprie del teatro. Ma il tutto è pura ipocrisia, poiché Ionesco s’ingegna a creare ad organizzare un sistema drammaturgico che in realtà, proprio parodiando le convenzioni, le scardina dal loro interno; un po' come hanno tentato di fare nell'antichità Luciano con il romanzo greco di avventura e Lucano con il genere epico, ed in tempi più recenti Cervantes con il poema cavalleresco. 94 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO L’azione è sviata dalla sua funzione abituale. Il teatro tradizionale, infatti, crea un’azione dinamica, spesso complessa e animata da capovolgimenti (le aristoteliche περιπέτειαι). Quest'azione inizia con un’esposizione che fornisce allo spettatore le indicazioni necessarie alla comprensione della trama e termina con un epilogo, risultato logico di un’opera. L’opera di Ionesco non segue affatto questo schema convenzionale: è costruita attorno a discussioni statiche che, deliberatamente, non conducono a nulla. L’azione è inesistente. L’essenzialità dell’opera è costituita da banali e interminabili conversazioni, che tuttavia non sono legati da alcun legame apparente; piuttosto sono discorsi sconnessi. Lo spettatore attende fatti nuovi, capovolgimenti che darebbero nuovo senso all’opera, interrogandosi sul modo in cui l’opera potrebbe concludersi. Questa sottigliezza dell’azione rappresenta una vera scommessa per Ionesco, la cui opera rischi di creare noia e disinteresse, conducendo lo spettacolo al fallimento. Ma l’autore gioca proprio su questa perplessità degli spettatori, il cui interesse non deve vertere verso l’azione, ma piuttosto sulle motivazioni del drammaturgo, sugli effetti da lui ricercati; viene sollecitata la riflessione. Impegnati in un cammino intellettuale, gli spettatori hanno la soddisfazione di capire il duplice scopo dell’opera: mostrare la vacuità del linguaggio e demistificare il funzionamento del teatro tradizionale. Le informazioni fornite sono volontariamente ambigue. Scegliendo come titolo La cantatrice calva, Ionesco mette lo spettatore su una falsa pista, portandolo a interrogarsi su un personaggio che nell’opera non esiste e del quale vi è solo un breve accenno nella scena decima. Progressivamente, lo spettatore si rende conto che è proprio la banalità delle parole e le loro incongruenze a costituire il soggetto dell’opera. Nella scrittura del teatro tradizionale, i colpi di scena hanno la funzione di rilanciare l’interesse dello spettatore. Ionesco vi ricorre per fare da diversivo, per apportare qualche nota piccante, per rilassare il suo pubblico. Ma, ancora una volta, utilizza questa tecnica in una prospettiva di contestazione e demistificazione. Ionesco volge il colpo di scena in derisione, rendendolo incoerente: questo è particolarmente evidente nella quarta e quinta scena, quando Donald ed Elizabeth, dopo una lunga conversazione, scoprono da una serie di coincidenze di essere marito e moglie, ma questo colpo di scena è annullato da un altro colpo di scena, in cui Mary afferma che tutte le coincidenze non hanno alcun significato perché una di esse è falsa; e tuttavia l’incoerenza delle sue deduzioni è evidente, resa ancora più assurda dal ricorso al vocabolario dell’argomentazione (sistema d’argomentazione, prove, teorie) e dal voltafaccia finale che mette in discussione la stessa identità di Mary, che sarebbe Sherlock Holmes. 95 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Talvolta invece è la sua totale irrilevanza a demistificare il colpo di scena e l’effetto di suspense, come quando la signora Martin fa il racconto d’un’avventura da lei vissuta, consistente nell'aver visto un uomo che si allaccia le scarpe, e il suo racconto è continuamente interrotto dagli altri personaggi che fanno commenti estasiati. Questo costituisce ovviamente una parodia di quelle conversazioni nel corso delle quali ognuno, a sua volta, racconta un evento che gli è accaduto, di fronte ad un pubblico che finge attenzione e interesse. La Cantatrice Calva termina con una parvenza di epilogo, a sua volta molto significativa: un’improvvisa aggressività caratterizza lo scambio di parole, che diventano sempre più illogiche, e si trasformano in suoni privi di significato. In un mondo assurdo, il linguaggio ha perso il suo ruolo d’intermediazione tra gli esseri, tende a ridursi ad abbaio animale, a pura funzione fàtica, ma questo continuo chiamarsi e cercarsi, senza avere nulla da dirsi, non solo non mette in contatto i personaggi, ma non fa che accentuare l’incomunicabilità. Il carattere sorprendente di questo epilogo è ancora accentuato dalla ripresa dell’azione. Infatti, dopo la frenesia, ritorna la calma iniziale e tutto ricomincia identico in quell’universo di noia. I personaggi si rivelano interscambiabili, in un mondo in cui nulla si muove e tutto si assomiglia, perché nulla ha senso. E' veramente un universo di vuoto. La Cantatrice Calva suscita anche il riso, ma il comico veicolato da questa pièce teatrale è di difficilissima definizione. Esso risulta correlato con l’assurdità che caratterizza il linguaggio e il comportamento dei personaggi. È in questa prospettiva che si sviluppano tre tipologie di comicità: della parodia, dell’opposizione e del nonsenso. Nella sua opera Ionesco fa anzitutto la parodia del teatro leggero tradizionale. Negli Smith o nei Martin, gli stereotipi dei personaggi del teatro leggero sono portati al loro parossismo, ed il pubblico abituato a tali spettacoli ride quando capisce le intenzioni satiriche di Ionesco. Questo tipo di comicità deriva dagli effetti di sfalsamento. Il funzionamento del teatro leggero è allontanato dalla sua ragion d’essere. Il realismo dei comportamenti fa posto ad un’accumulazione di dettagli disparati, spesso contraddittori, facendo perdere ai comportamenti ogni credibilità. Anche i giochi d’opposizione suscitano la comicità, mettendo in evidenza le contraddizioni concernenti il linguaggio o i comportamenti. Un primo gioco d’opposizione appare tra ciò che è detto e il tono adottato per dirlo. Un altro tipo di contraddizione oppone parole e azioni: un personaggio fa il contrario di ciò che dice o 96 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO dice il contrario di ciò che fa. Sono le stesse parole a contraddirsi. I personaggi si comportano quasi sempre in modo contraddittorio: alla maniera dei clown, oscillano bruscamente da un atteggiamento ad un altro completamente opposto. Infine, dall’assurdo i personaggi passano al non-senso, nuova fonte di comicità. Lo spettatore ride del delirio verbale nel quale cadono i personaggi, delle storie stupide che raccontano, della distruzione finale d’un linguaggio che è divenuto totalmente incomprensibile. Allo stesso modo, gli stessi sconvolgimenti della pendola sono comici, poiché costituiscono un non-senso temporale. I rintocchi non corrispondono ad alcuna logica. La pendola è privata di ogni significato, incapace di svolgere correttamente il suo ruolo, di render razionalmente conto dello scorrere del tempo. Riporto una parte della scena prima: SIGNOR SMITH: (con il giornale in mano) C’è una cosa che non capisco. Perché nella rubrica dello stato civile è sempre indicata l’età dei morti e mai quella dei nati? E' un controsenso. SIGNORA SMITH: Non me lo sono mai domandato! Altro silenzio. La pendola suona sette volte. Silenzio. La pendola suona tre volte. Silenzio. La pendola non suona affatto. SIGNOR SMITH: (sempre col giornale) Guarda un po', c’è scritto che Bobby Watson è morto. SIGNORA SMITH: Dio mio, poveretto, quando è morto? SIGNOR SMITH: Perchè ti stupisci? Lo sai benissimo. E' morto due anni fa. Siamo andati ai suoi funerali, ricordi? Un anno e mezzo fa. SIGNORA SMITH: Certo che me ne ricordo. Me ne sono ricordata subito, ma non capisco perchè tu ti sia stupito vedendolo sul giornale. SIGNOR SMITH: Sul giornale non c'è. Sono già tre anni che s'è parlato del suo decesso. Me ne sono ricordato per associazione di idee. SIGNORA SMITH: Peccato! Era così ben conservato. SIGNOR SMITH: Era il più bel cadavere di Gran Bretagna. Non dimostrava la sua età. Povero Bobby, erano quattro anni che era morto ed era ancora caldo. Un vero cadavere vivente. E com'era allegro. SIGNORA SMITH: Povera Bobby. SIGNOR SMITH: Vuoi dire Povero Bobby. SIGNORA SMITH: No, penso a sua moglie. Lei sia chiamava come lui, Bobby, Bobby Watson. Siccome avevano lo stesso nome, non si riusciva a distinguerli l'uno dall'altra quando li si vedeva assieme. E'stato solo dopo la morte di lui che si è potuto sapere con precisione chi fosse l'uno e chi fosse l'altra. Tuttavia, ancora oggi, c’è gente che la scambia per il morto e le fa le condoglianze. Tu la conosci? SIGNOR SMITH: Non l'ho vista che una volta, per caso, al funerale di Bobby. SIGNORA SMITH: Io non l'ho mai vista. E' bella? SIGNOR SMITH: Ha tratti regolari eppure non si può dire che sia bella. Troppo alta e troppo massiccia. I suoi tratti non sono regolari eppure la si potrebbe dire bella. E' un po' troppo piccola e magra. E' insegnante di canto. La pendola suona cinque volte. Lunga pausa. SIGNORA SMITH: E quando pensano di sposarsi quei due? SIGNOR SMITH: La primavera prossima, al più tardi. SIGNORA SMITH: Bisognerà per forza andare al matrimonio. SIGNOR SMITH: E bisognerà … anche fare un regalo. Mi domando quale. SIGNORA SMITH: Perché non gli regaliamo uno dei sette piatti d'argento che ci hanno dato per il nostro matrimonio, e che non ci sono serviti a nulla?... E' triste per lei essere rimasta vedova così giovane. SIGNOR SMITH: Per fortuna non hanno figli. SIGNORA SMITH: Non ci sarebbe mancato che questo! Figli! Povera donna, che cosa ne avrebbe fatto? SIGNOR SMITH: E' ancora giovane. Può benissimo risposarsi. Il lutto le sta così bene! 97 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO SIGNORA SMITH: Ma chi si prenderà cura dei figli? Lo sai che hanno un bambino e una bambina. Come si chiamano? SIGNOR SMITH: Bobby e Bobby, come i loro genitori. Lo zio di Bobby Watson, il vecchio Bobby Watson, è ricco e vuol molto bene al bambino. Potrebbe incaricarsi lui dell'educazione di Bobby. SIGNORA SMITH: Sarebbe logico. E la zia di Bobby Watson, la vecchia Bobby Watson, potrebbe benissimo incaricarsi per parte sua dell'educazione di Bobby Watson, la figlia di Bobby Watson. Così la mamma di Bobby Watson, Bobby, potrebbe risposarsi. Ha qualcuno in vista? SIGNOR SMITH: Sì, un cugino di Bobby Watson. SIGNORA SMITH: Chi? Bobby Watson? SIGNOR SMITH: Di quale Bobby Watson parli? SIGNORA SMITH: Di Bobby Watson, il figlio del vecchio Bobby Watson, l'altro zio di Bobby Watson, il morto. SIGNOR SMITH: No, non è quello, è un'altro. E' il figlio della vecchia Bobby Watson, la zia di Bobby Watson, il morto. SIGNORA SMITH: Vuoi dire Bobby Watson, il commesso viaggiatore? SIGNOR SMITH: Tutti i Bobby Watson sono commessi viaggiatori. SIGNORA SMITH: Che mestieraccio! Eppure si guadagna bene. SIGNOR SMITH: Sì , quando non c’è la concorrenza. SIGNORA SMITH: E quando non c’è la concorrenza? SIGNOR SMITH: Il martedì, il giovedì e il martedì. SIGNORA SMITH: Ah! Tre giorni la settimana? E che fa Bobby Watson durante quel tempo? SIGNOR SMITH: Si riposa, dorme. SIGNORA SMITH: Ma perché non lavora durante quei tre giorni, se non c’è la concorrenza? SIGNOR SMITH: Non posso sapere tutto. Fai delle domande stupide! SIGNORA SMITH: (offesa) Lo dici per umiliarmi? SIGNOR SMITH: (sorridendo) Sai bene che non è vero. 98 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO BECKETT, ASPETTANDO GODOT La celebre opera teatrale Aspettando Godot (in francese "En Attendant Godot", in inglese "Waiting for Godot") venne scritta verso la fine degli anni Quaranta e pubblicata in epoca post-atomica, nel 1952, in lingua francese. Samuel Beckett (1906-1989), autore di nascita irlandese ed esponente di spicco del Teatro dell’assurdo insieme a Ionesco, Adamov e Pinter, nel 1954 tradusse il testo in inglese. Il teatro dell’assurdo è un particolare genere teatrale sviluppatosi tra gli anni Cinquanta e Sessanta che si caratterizza per i dialoghi vuoti di significato, ripetitivi e capaci di suscitare l’ilarità del pubblico a dispetto del dramma che i personaggi interpretano. Aspettando Godot è una tragicommedia dominata dalla sensazione di incomunicabilità e dalla crisi di identità degli esseri umani che vivono una vita priva di scopo e di significato. E’ uno dei più noti testi teatrali del Novecento, grazie anche alla geniale trovata dell’autore di un protagonista assente, intorno all’attesa del quale tutto il dramma è costruito. Samuel Beckett Veniamo alla trama. Vladimiro (chiamato anche Didi) ed Estragone (chiamato anche Gogo) stanno aspettando su una desolata strada di campagna un "certo Signor Godot". Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che regola la concezione temporale attraverso la caduta delle foglie che indica il passare dei giorni. Ma Godot (ammesso che egli esista) non appare mai sulla scena, e nulla si sa sul suo conto. Egli si limita a mandare un ragazzo dai due vagabondi, il quale dirà ai due protagonisti che "oggi non verrà, ma che verrà domani", riferendosi al suo mandante. I due uomini, vestiti come barboni, si lamentano continuamente del freddo, della fame e del loro stato esistenziale; litigano, pensano di separarsi (anche di suicidarsi) ma alla fine restano l'uno dipendente dall'altro. Ed è proprio attraverso i loro discorsi sconnessi e superficiali, inerenti argomenti futili e banali, che emergono il vuoto e il nonsenso della vita umana. Ad un certo punto del dramma arrivano altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Pozzo, che si definisce il proprietario della terra sulla quale Vladimiro ed Estragone stanno, è un uomo crudele e al tempo stesso "pietoso", tratta il suo servo Lucky come una bestia, tenendolo al guinzaglio con una lunga corda. Pozzo è il 99 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO padrone e Lucky il servo e la corda che li unisce indica un legame reciproco apparentemente inscindibile. Dopo la zuffa causata dal monologo erudito e a sorpresa del servo, i due nuovi personaggi escono di scena. Didi e Gogo, dopo aver avuto l'incontro con il ragazzo "messaggero di Godot", rimangono fermi mentre si dicono "Well? Shall we go?" - "Yes, let's go", e l'indicazione scenica dice ironicamente "They do not move". Il secondo atto differisce solo in apparenza dal primo: Vladimiro ed Estragone sono di nuovo nello stesso posto della sera precedente. Continuano a parlare (a volte con "non senso", a volte utilizzando luoghi comuni e detti popolari, anche con effetti comici). Ritornano in scena Pozzo, che è diventato cieco, e Lucky, che ora è muto, ma con una differenza: ora la corda che li unisce è più corta ad indicare la soffocante simbiosi dei due. Escono di scena. Rientra il ragazzo che dice che anche oggi il Signor Godot non verrà. Esce. E Vladimiro ed Estragone rimangono lì a dire "Well? Shall we go?" - "Yes, let's go". E l'indicazione scenica che mette fine al dramma dice "They do not move." Ma chi è Godot? Numerose sono le interpretazioni: il destino, la morte, la fortuna e persino Dio. In Inglese God vuol dire Dio, mentre "dot" si traduce con "punto": qualcuno ha dunque ipotizzato che Beckett abbia in questo modo lasciato un'interpretazione sull'identità di Godot. Il suffisso "ot" vuol dire a sua volta "piccolo" in francese, dando un'ulteriore caratteristica al Dio in questione. Per questa ragione l’attesa di Vladimiro ed Estragone è l’attesa di tutte le attese, l’Attesa per eccellenza. Lo stesso Beckett non ha mai chiarito questo enigma ed anzi si è così espresso: “Se avessi saputo chi è Godot lo avrei scritto nel copione”. Negli altri due personaggi, Pozzo e Lucky, molti hanno voluto vedere il capitalista e l’intellettuale ed in effetti gli elementi per questa identificazione sembrano piuttosto chiari nel primo atto. Un altro tema portante di quest'opera geniale è quello del linguaggio, che non riproduce più la realizzazione della volontà individuale. Non esiste più legame fra parola e azione, fra il linguaggio e la storia che dovrebbe esprimere, comunicare e attivare. Il linguaggio acquista ruolo primario, a sé, autoriflessivo, narcisistico, ma ha smesso totalmente di significare. Riporto di seguito il finale del I atto. 100 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Act I, ending VLADIMIR: We've nothing more to do here. ESTRAGON: Nor anywhere else. VLADIMIR: Ah Gogo, don't go on like that. Tomorrow everything will be better. ESTRAGON: How do you make that out? VLADIMIR: Did you not hear what the child said? ESTRAGON: No. VLADIMIR: He said that Godot was sure to come tomorrow. (Pause.) What do you say to that? ESTRAGON: Then all we have to do is to wait on here. VLADIMIR: Are you mad? We must take cover. (He takes Estragon by the arm.) Come on. He draws Estragon after him. Estragon yields, then resists. They halt. ESTRAGON: (looking at the tree). Pity we haven't got a bit of rope. VLADIMIR: Come on. It's cold. He draws Estragon after him. As before. ESTRAGON: Remind me to bring a bit of rope tomorrow. VLADIMIR: Yes. Come on. He draws him after him. As before. ESTRAGON: How long have we been together all the time now? VLADIMIR: I don't know. Fifty years maybe. ESTRAGON: Do you remember the day I threw myself into the Rhone? VLADIMIR: We were grape harvesting. ESTRAGON: You fished me out. VLADIMIR: That's all dead and buried. ESTRAGON: My clothes dried in the sun. VLADIMIR: There's no good harking back on that. Come on. He draws him after him. As before. ESTRAGON: Wait! VLADIMIR: I'm cold! ESTRAGON: Wait! (He moves away from Vladimir.) I sometimes wonder if we wouldn't have been better off alone, each one for himself. (He crosses the stage and sits down on the mound.) We weren't made for the same road. VLADIMIR: (without anger). It's not certain. ESTRAGON: No, nothing is certain. Vladimir slowly crosses the stage and sits down beside Estragon. # VLADIMIR: We can still part, if you think it would be better. ESTRAGON: It's not worthwhile now. Silence. VLADIMIR: No, it's not worthwhile now. Silence. ESTRAGON: Well, shall we go? VLADIMIR: Yes, let's go. They do not move. Atto I, finale Vladimiro: Non ci resta più niente da fare, qui. Estragone: Né qui né altrove. Vladimiro: Su, Gogò, non prendertela cosi. Domani tutto andrà meglio. Estragone: E come? Vladimiro: Non hai sentito cosa ha detto quel ragazzo? Estragone: No. Vladimiro: Ha detto che Godot verrà di sicuro domani. (Pausa) Che te ne pare? Estragone: Allora, non c'è altro da fare che aspettare qui. 101 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Vladimiro: Ma sei pazzo? Bisogna mettersi al riparo. (Prende Estragone per un braccio) Vieni! (Lo tira. Estragone cede sulle prime, poi resiste. Si fermano). Estragone: (guardando l'albero) Peccato che non abbiamo un pezzo di corda. Vladimiro: Vieni. Comincia a far freddo. (Lo tira ecc.). Estragone:Ricordami di portare una corda, domani. Vladimiro: Sì. Vieni. (Lo tira ecc.). Estragone: Quanto tempo sarà che stiamo insieme dal mattino alla sera? Vladimiro: Non so. Cinquant'anni, forse. Estragone: Ti ricordi quel giorno che mi sono gettato nella Durance? Vladimiro: Facevamo la vendemmia. Estragone: E tu m'hai ripescato. Vladimiro: Sono cose morte e sepolte. Estragone: I miei vestiti sono asciugati al sole. Vladimiro: Non pensarci più, vieni. (Lo tira ecc.). Estragone: Aspetta. Vladimiro: Ho freddo. Estragone: Mi domando se non sarebbe stato meglio restare soli, ciascuno per conto suo.(Pausa). Non eravamo fatti per seguire la stessa strada. Vladimiro: (senza offendersi) Non è sicuro. Estragone: No, non c'è niente di sicuro. Vladimiro: Possiamo sempre lasciarci, se credi. Estragone: Ormai non vale più la pena. (Silenzio). Vladimiro: È vero, ormai non vale più la pena. (Silenzio). Estragone: Allora andiamo? Vladimiro: Andiamo. Non si muovono. 102 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO ALDO PALAZZESCHI «L’ingegno di Palazzeschi ha per fondo una feroce ironia demolitrice che abbatte tutti i motivi sacri del romanticismo: Amore, Morte, Culto della donna ideale, Misticismo». (Filippo Tommaso Marinetti) In un testo divulgato sotto forma di volantino nel 1913, Filippo Tommaso Marinetti si espresse così, cogliendo a pieno il carattere principale dell’opera di Aldo Palazzeschi. Pseudonimo di Aldo Giurlani, Palazzeschi nacque a Firenze il 2 febbraio 1885. Adottò il cognome della nonna materna quando a vent'anni pubblicò il primo libro di poesie. Il padre, un agiato commerciante di stoffe, avrebbe voluto fare di lui, unico figlio, un uomo d’affari, ragion per cui lo avviò agli studi commerciali. Traviato dall’amore per il teatro, subito dopo aver preso il diploma di ragioniere, anziché cercare un'occupazione stabile, nel 1902 si iscrisse alla Regia Scuola di Recitazione “Tommaso Salvini”. Un giovanissimo Aldo Palazzeschi Abbandonò però ben presto la carriera teatrale per dedicarsi interamente alla nuova passione, la letteratura. I primi tre libri li pubblica a proprie spese facendo figurare sul frontespizio come editore il nome del proprio gatto, Cesare Blanc. Del libro di esordio, I cavalli bianchi, uscito nel 1905, si accorge Sergio Corazzini, che ne fa cenno in un articolo pubblicato l’11 marzo 1906 sul «Sancio Panza», un quotidiano politico-satirico edito a Roma. Più considerevole per le conseguenze che ebbe fu, senz’altro, l’amicizia nata nel 1909 tra Palazzeschi e Marinetti. Su invito di costui, Aldo aderisce, sia pure in modi personalissimi, al movimento futurista, partecipando fra l’altro ad alcune delle famigerate, turbolente serate futuriste. Nel 1911 pubblica il romanzo Il Codice di Perelà e fa una personale dichiarazione di poetica con il suo E lasciatemi divertire, collegandosi alla poesia del tedesco Christian Morgenstern e a quella del francese Max Jacob. Nelle milanesi Edizioni futuriste di «Poesia» apparvero la raccolta delle liriche L’Incendiario, il romanzo Il Codice di Perelà e nel 1914 il suo personale manifesto futurista, Il controdolore; il processo di destrutturazione del canone narrativo classico prosegue poi nel discusso La Piramide, uno “scherzo” in tre parti (così lo definì l’autore), scritto tra il 1912 e il 1914. 103 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Dei giovani poeti che si riconoscevano nel programma marinettiano Palazzeschi condivideva l’intento di fondo, mandare in frantumi le convenzioni letterarie ereditate dall’Ottocento. Di suo portava nel gruppo un accesissimo senso dell’ironia e del gioco, che lo differenziava sensibilmente da Marinetti e soci. Per molti aspetti, peraltro, l’esperienza palazzeschiana può oggi sembrare affiancabile forse, più che all’esperienza futurista, a quella dei cosiddetti Vociani, cioè gli scrittori della «Voce», alla quale il nostro autore collaborò in questi anni. Del resto il soggiorno parigino sul finire del ’13, dove incontrò e frequentò assiduamente Apollinaire e i futuri dadaisti, ma anche Picasso, Braque e Matisse, lo liberò del tutto dalla già povera influenza del verso e dell’ideologia di Marinetti. Nel 1914 Palazzeschi rompe con gli altri esponenti del movimento a causa del suo dissenso a proposito della campagna interventista. Del resto, già dal 1908 aveva mostrato stilemi crepuscolari nel romanzo Allegoria di novembre, e si era idealmente ricollegato con esperienze artistiche internazionali di più ampio respiro. Tuttavia, insieme ai suoi coetanei, anch’egli, che pure era stato riformato alla visita di leva, nell’estate del 1916 venne chiamato alle armi. L'esperienza militare si riflette in un inquietante volume di genere diaristico, Due imperi… mancati, peraltro contrassegnato da un inedito impulso all’abbraccio fraterno. Dopo la guerra condusse a Firenze un’esistenza quasi totalmente appartata. Sono anni poveri di eventi di rilievo secondo la prospettiva biografica, ma che risultano decisivi dal punto di vista letterario. La produzione creativa di Palazzeschi in questo periodo torna infatti a essere intensissima. Se non va annebbiandosi, l’anarchismo giovanile nel frattempo si è andato però disciplinando. Lo provano le due più importanti opere del periodo tra le due guerre, uscite a distanza di due anni l’una dall’altra: Stampe dell’Ottocento nel 1932 e il capolavoro Sorelle Materassi nel 1934. Una scena del bellissimo sceneggiato televisivo Le sorelle Materassi del 1972, con Nora Ricci nel ruolo di una zia e Giuseppe Pambieri nel ruolo del "nipote terribile" Remo Entrambi i testi appaiono rimarchevoli per l’approfondimento della dimensione storica, negletta in precedenza. Ma è il secondo quello che conferma le qualità migliori di Palazzeschi, il quale, fra le altre cose, ha avuto il merito di aver dato inizio, insieme a pochi altri, a quel moto di ritorno al romanzo di impostazione realista che nell’immediato dopoguerra conoscerà una rinnovata fortuna. 104 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Più discutibili appaiono al confronto i risultati artistici raggiunti con gli altri due romanzi della maturità, I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953). Di gran lunga più interessanti le novelle, spesso gustose, di Bestie del Novecento. In seguito però, voltate le spalle al realismo, ecco dunque tre nuovi antiromanzi sulla scia di quella che era a tutti gli effetti un ritorno alla trasgressività: Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un’amicizia (1971). Più fitte si fanno anche le collaborazioni giornalistiche. Un rilievo inferiore, benché non trascurabile, ebbe invece l’attività di traduttore. Nel 1957 l’Accademia dei Lincei gli assegnò il Premio internazionale Feltrinelli per la Letteratura. Nello stesso anno la Mondadori diede avvio alla pubblicazione di Tutte le opere di Aldo Palazzeschi nella collana dei “Classici Contemporanei Italiani”. Per iniziativa di Diego Valeri, Vittore Branca, Gianfranco Folena, nel ’62 l’università di Padova gli conferì la laurea Honoris Causa. Attivissimo e prolifico anche negli ultimi anni di vita, Palazzeschi seguì con caldo interesse il dibattito letterario animato dagli scrittori e dai poeti della neoavanguardia, che in lui videro un punto di riferimento intellettuale privilegiato. Morì a causa di un'affezione polmonare il 18 agosto 1974, mentre gli amici andavano preparando i festeggiamenti per i suoi novant’anni. Il vuoto di senso delle cosiddette "cose serie" è uno dei temi portanti delle liriche de L'incendiario: Palazzeschi "riesce a liberare la voce del giullare, della critica velata dal gioco, un gioco infantile spinto al limite della follia controllata. Apre così il versante del comico, cosa rara per la poesia del primo Novecento, mettendo da parte ogni melanconia e spingendo sul pedale della poesia con un'allegria molto giocosa. [...] Palazzeschi svuota il senso di ogni atteggiamento, azione o situazione. Vuoto "semantico" e pura poesia. E' l'immagine di un carillon in cui principi e principesse girano a vuoto con movimenti sempre uguali, racconti semplificati in puri movimenti geometrici a cui è stata sottratta vita. La presenza del liberty è limitata al suo auto-svuotamento, rimangono solo piccoli elementi di decoro, vezzo utile alla sua ironia. Palazzeschi capovolge e stravolge i vecchi dogmi attraverso pungente e spensierata comicità, con un lessico che ribalta, così, gli antichi repertori". Riporto come esempio due liriche tratte da L'incendiario: Visita alla Contessa Eva Pizzardini Ba, che esprime con sottile e perfida ironia il senso di vuoto esistenziale e lo spleen di un'aristocratica annoiata, e la celebre E lasciatemi divertire!, vero e proprio manifesto della poetica palazzeschiana, incentrata sulla totale perdita di senso e di funzione della poesia nella società moderna. 105 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba - Buonasera contessa. - Buonasera carissimo Aldo. - Oggi giornata bella, carissimo Aldo, non fa né freddo… né caldo. - E… la noia, contessa? - La che? … - La no-ia. - Pa… pa…papa…papa. - Sempre la stessa. - Ciò mi dite di nuovo? Bravo. - Cosa dirvi di nuovo? Mi credete così ingenuo? Nemmeno mi ci provo. - Bravo. E passate per giovine bizzarro… per uomo… tanto strano. Strano… bizzarro… bizzarro…strano… Bravo. - Codesta bella veste, contessa, la vidi proprio iersera precisa… a una borghese. - E fu inventata a Parigi che non è ancora un mese: sempre così, si sa. - A Parigi fumano l'oppio. - A Parigi… - Verrà presto la moda anche da noi. - Certo verrà poi. Le belle cose da noi sono un mito, noi siamo quelli di ieri… o di poi. Che governo pitocco! Ma… di nuovo? - Di nuovo… La gallina ha fatto l'uovo! - Bella consolazione, dover vivere tanto per vedere tutti i giorni le medesime cose. Giunge il sole e se ne va, cresce e cala la luna. Sempre uguale il sole, la luna è sempre uguale, non cambian di colore. Identiche le stelle. - Purtroppo. - Azzurro il cielo azzurro il mare: val la pena di aprire una finestra per guardare? - Ma… 106 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - Verde il prato verde il bosco: il color vostro lo conosco, ahimé. - Non ci badate. - Si aspettano le solite persone alle solite ore, che ci vengon davanti con la solita faccia, non è facile sbagliare, e con identica voce ci dicono le identiche parole. e non giova il cambiare, che se pure ti sembrano l'uno dall'altro diversi nelle forme o negli aspetti, ti diran tutti alla stessa maniera: "Buongiorno contessa, contessa, buonasera" Tutti i giorni si nasce… e tutti i giorni si muore. Quando si nasce c'è la levatrice, quando si muore… c'è il dottore. - Preferisco la levatrice. - Io no, il dottore. Che ci si viene a fare? che ci si fa? Si può sapere? Si sa? - Calmatevi, contessa. - E dire che vorrei, solo per una volta, vedermi nuova nel mio specchio. - Come? - Nuova, diversa da sempre, e diversa da tutte. - Aver due bocche? - Magari, ma è un caso comune. - Lo so. Un occhio dietro? - Dove? - Nella testa. - Ah, sì… - Un dente sulla punta del naso? - Meglio senza naso, nel caso. - Due teste? - Comune comune. - Sette teste? Tredici gambe? - Comune comune. Ieri sera per dormire mi sono fatta tre volte la puntura di morfina. - Tre volte? - Sono poche? Sono molte? - Ma vi pare? La morfina! 107 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO - "La morfina!" La morfi-na. - Vorreste diventare d'un tratto regina o imperatrice? Antonietta? Messalina! - Uhm… forse sarebbe meglio… - Una poveretta. - Forse. - Povera molto, vivere di elemosina, essere giù, nel fango… - Forse. - Insultata… - Certo. - Battuta… - Almeno. - Magari nel mezzo della strada sull'ultimo gradino dell'abiezione come una donna perduta. - Sì. - Venduta. - Sì. - Essere vilipesa… prostituta! - Insultata… battuta… venduta… almeno per provare, ma… come fare, noi… Chi ci può insultare? - Voi? Io. - Siete troppo gentile, poveretto. - Eccomi qua. - Siete troppo corretto. - Mi proverò. - E non riuscirete che ad annoiarmi di più. - Ma… proviamo. - E ci tenete tanto? - Oh! Dio… così… tanto per fare. - Dirò io per la prima. - Sentiamo. - Ma no, ma via, ma no, perché? … no… povero sciocco, no… - Stupida d'una donna. - …poetucolo… pitocco. - Vescica con la gonna. - Imbecille! Cretino! Omo da nulla! - Povera grulla! - Grullone! Buffone! - Smencitissima vacca! Porcona, puttana, vigliacca!... - Basta basta basta, mio carissimo Aldo, non crediamo di dirci qualche cosa di nuovo, sensazione nuova io già non provo, 108 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO la cerco, ma non la trovo. amiamoci piuttosto, l'amore è tanto vecchio… mi sembrerà più nuovo. - Sì? Purché voi ritorniate come allora. - Quando? - Quando mi ascoltavate senza pensare al male ed erano assai meno noiose le vostre serate. - Mi avete amata voi? Ed io vi ho amato, ohibò! - Non dico questo, no… - Doveva essere molto noioso il vostro povero amore se lo abbiamo troncato e neppure ce ne ricordiamo. - Era… una parola sola, allora… Ricordate ieri sera? - Ieri sera? - Quella mia parola… - Quale? Dite, mi fate venir male. - Quando fu?... - Certamente vi sbagliate, fu la sera avanti. - Ve l'avevo già detta? - Uh! Centomila sere, capirete, se è sempre la stessa… Basta, basta, non la ridite, lasciatemi morire in pace… sono malata. - Che sarà di voi? - Di me? - Buonanotte contessa. - Buonanotte, carissimo Aldo. 109 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO E lasciatemi divertire! Tri tri tri, fru fru fru, ihu ihu ihu, uhi uhi uhi! Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente! Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto. Cucù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche! Sono la mia passione. Farafarafarafa, tarataratarata, paraparaparapa, laralaralarala! Sapete cosa sono? Sono robe avanzate, non sono grullerie, sono la spazzatura delle altre poesie Bubububu, fufufufu. Friu! Friu! Ma se d'un qualunque nesso son prive, perché le scrive quel fesso? bilobilobilobilobilo blum! Filofilofilofilofilo flum! Bilolù. Filolù. U. Non è vero che non voglion dire, voglion dire qualcosa. Voglion dire... come quando uno si mette a cantare senza saper le parole. 110 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Una cosa molto volgare. Ebbene, così mi piace di fare. Aaaaa! Eeeee! Iiiii! Ooooo! Uuuuu! A! E! I! O! U! Ma giovanotto, ditemi un poco una cosa, non è la vostra una posa, di voler con così poco tenere alimentato un sì gran foco? Huisc...Huiusc... Sciu sciu sciu, koku koku koku. Ma come si deve fare a capire? Avete delle belle pretese, sembra ormai che scriviate in giapponese. Abì, alì, alarì. Riririri! Ri. Lasciate pure che si sbizzarrisca, anzi è bene che non la finisca. Il divertimento gli costerà caro, gli daranno del somaro. Labala falala falala eppoi lala. Lalala lalala. Certo è un azzardo un po' forte, scrivere delle cose così, che ci son professori oggidì a tutte le porte. Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Ahahahahahahah! Infine io ò pienamente ragione, i tempi sono molto cambiati, gli uomini non dimandano più nulla dai poeti, e lasciatemi divertire! 111 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO ACHILLE CAMPANILE Erede in qualche modo della poetica palazzeschiana, ma anche di quella di Pirandello e Lewis Carrol, è Achille Campanile (1899-1977), umorista tra i più sottili. Molti critici hanno elevato lo scrittore a "classico" del Novecento: fra questi Carlo Bo (per il quale era "uno dei rarissimi inventori di un nuovo genere letterario") ed Enzo Siciliano, che ha evidenziato come in questo autore "il riso, nell'attimo in cui scocca, è anche empio". Campanile è stato variamente accostato alle ricerche sull'assurdo di Ionesco (accostamento che respinse) ed al surrealismo, ma secondo alcune visioni critiche costituirebbe un unicum, un caso pienamente a sé. La peculiarità della sua comicità è quella di ridicolizzare la più istintiva delle convenzioni sociali, la parola, ed attraverso questa le convenzioni stesse, allestendo veri e propri spettacoli della logica con effetti tipicamente pirandelliani. Riporto di seguito la buffissima Lettera di Ramesse, che, come sempre, gioca con la funzione logica della parola, dissacrandola e vanificandola. La lettera di Ramesse da "In campagna è un'altra cosa" Dolce era la sera sulle rive del sacro Nilo. I colori del tramonto indugiavano sulle acque, che si vedevano scintillare e tremolar fra le palme, dietro il tempio di Anubi. Si levò un sommesso canto di sacerdoti. Poi tutto tacque. Ramesse passeggiava pensieroso e la solitudine del luogo, che pareva fatto per i convegni d'amore, aumentava la sua tristezza. Coppie scivolavan tra le ombre, poco lontano. Egli soltanto non aveva una compagna. Qui 1' aveva vista la prima volta, qualche giorno prima e qui tornava ogni sera in amoroso pellegrinaggio, con la speranza d'incontrarla di nuovo e palesarle l'amor suo. Ma la ragazza non s'era rivista. "L'amo", diceva a se stesso il giovine egizio "l'amo appassionatamente. Ma come farglielo sapere? Ecco, le scriverò una lettera". Corse a casa, si fece portate un papiro e s'accinse a buttar giù la dichiarazione d'amore, imprecando contro lo strano modo di scrivere degli egizi, che obbligava lui, poco forte in disegno, a esprimersi per mezzo di pupazzetti. "Vedo con piacere che ti sei dato alla pittura" gli disse il padre, quando lo vide all'opera. "No, sto scrivendo una lettera", spiegò Ramesse. E si mise al lavoro pieno di buona volontà. "Le dirò" fece: "Soave fanciulla...". (E disegnò alla meno peggio una fanciulla cercando di darle un 'aria quanto più fosse possibile soave). ...dal primo istante in cui vi ho vista... (Cercò di disegnare un occhio aperto e appassionato). ... il mio pensiero vola a voi... (Come esprimere questo concetto poetico? Ecco: tracciò sul papiro un uccello). ...Se non siete insensibile ai miei dardi d'amore... (E disegnò una freccia scagliata). 112 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO ... trovatevi fra sette mesi... (Sette piccole lune s'allinearono sul papiro). ...lì dove il sacro Nilo fa un gomito... (Questo era molto facile: all'inamorato bastò tracciare un fiumicello a zig-zag). ..e precisamente vicino al tempio di Anubi... (Anche questo era piuttosto facile, l'immagine del dio dal corpo d'uomo e dalla testa di cane essendo nota a tutti). .. perché possa esternarvi i sensi di una rispettosa ammirazione... (Disegnò se stesso che s' inginocchiava). ...Mi creda, con perfetta osservanza, eccetera, eccetera. Terminata l'improba fatica il giovine e intraprendente egizio consegnò la lettera al servitore: "Portala alla figlia di Psammetico" disse. "E' urgente". "Oh", fece il vecchio analfabeta "il grazioso cannocchiale!". "E' un papiro, asino. C'è risposta". Dopo poco, la soave figlia di Psammetico decifrava i disegni non troppo riusciti del giovine Ramesse, dando ad essi la seguente interpretazione: Detestabile zoppa... ...ho mangiato un uovo al tegamino... ...voi siete un'oca perfetta... ...ma, nel fisico, somigliate piuttosto a una lisca di pesce... 113 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO ...Vi piglierò a sassate... ...Siete un ignobile vermiciattolo... ...e avete bisogno della protezione di Anubi... ("Mascalzone!" pensò la fanciulla. "Anubi è il protettore delle mummie!"). ...Ora smetto perché debbo pulirmi le scarpe. Saluti, eccetera, eccetera. "Grandissimo vigliacco" strillò la ragazza. "Ora ti accomodo io!". Prese lo stilo e sotto la stessa lettera scrisse: Se io sono un 'oca... ...ma non mai una mummia... ...lei è un beccaccione... ...e io la prenderò a pugni. Frase che ottenne disegnando con grande perizia un'oca, Anubi cancellato, un animale cornuto e un pugno chiuso. Restituì la lettera al servitore di Ramesse, che tornò dal padrone. Figurarsi la gioia di questi, quando credé di decifrare - sempre per la sua scarsa pratica di disegno - come segue i geroglifici della ragazza: 114 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Anche il mio pensiero vola costantemente a voi... ...ma ritengo che non è prudente vedersi presso il tempio di Anubi; ...piuttosto; un buon posticino tranquillo credo si possa trovare nei paraggi del tempio del bue Api... ...dove vi concederò la mia mano. Quattromila anni sono passati. Il papiro di Ramesse è stato tratto alla luce da un grande egittologo, il quale dopo due lustri di profondissimi studi è riuscito a ridare all'ammirazione degli uomini il brano di sublime poesia contenuto in esso. Eccolo, nella traduzione integrale che ne ha fatto lo scienziato: O Osiride che danzi stancamente sul fiore del loto, seguita dall'lbis, uccello a te sacro, io t'offro la spiga del grano e sette piccoli fagiuoli di fresco sgranati, 115 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO acciocché tu tenga lontano da me il serpente dell'invidia, al sommo Anubi, a cui mi prostro, seguito anch'io dall'Ibis sacro, sacrificando un grasso vitello che abbatterò di mio pugno. 116 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO APPENDICE The Waste Land by T. S. Eliot "Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Sibylla ti theleis; respondebat illa: apothanein thelo." I. THE BURIAL OF THE DEAD April is the cruellest month, breeding Lilacs out of the dead land, mixing Memory and desire, stirring Dull roots with spring rain. Winter kept us warm, covering Earth in forgetful snow, feeding A little life with dried tubers. Summer surprised us, coming over the Starnbergersee With a shower of rain; we stopped in the colonnade, And went on in sunlight, into the Hofgarten, And drank coffee, and talked for an hour. Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch. And when we were children, staying at the archduke's, My cousin's, he took me out on a sled, And I was frightened. He said, Marie, Marie, hold on tight. And down we went. In the mountains, there you feel free. I read, much of the night, and go south in the winter. What are the roots that clutch, what branches grow Out of this stony rubbish? Son of man, You cannot say, or guess, for you know only A heap of broken images, where the sun beats, And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief, And the dry stone no sound of water. Only There is shadow under this red rock, (Come in under the shadow of this red rock), And I will show you something different from either Your shadow at morning striding behind you Or your shadow at evening rising to meet you; I will show you fear in a handful of dust. Frisch weht der Wind Der Heimat zu Mein Irisch Kind, Wo weilest du? "You gave me hyacinths first a year ago; "They called me the hyacinth girl." ––Yet when we came back, late, from the Hyacinth garden, Your arms full, and your hair wet, I could not 117 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Speak, and my eyes failed, I was neither Living nor dead, and I knew nothing, Looking into the heart of light, the silence. Oed' und leer das Meer. Madame Sosostris, famous clairvoyante, Had a bad cold, nevertheless Is known to be the wisest woman in Europe, With a wicked pack of cards. Here, said she, Is your card, the drowned Phoenician Sailor, (Those are pearls that were his eyes. Look!) Here is Belladonna, the Lady of the Rocks, The lady of situations. Here is the man with three staves, and here the Wheel, And here is the one-eyed merchant, and this card, Which is blank, is something he carries on his back, Which I am forbidden to see. I do not find The Hanged Man. Fear death by water. I see crowds of people, walking round in a ring. Thank you. If you see dear Mrs. Equitone, Tell her I bring the horoscope myself: One must be so careful these days. Unreal City, Under the brown fog of a winter dawn, A crowd flowed over London Bridge, so many, I had not thought death had undone so many. Sighs, short and infrequent, were exhaled, And each man fixed his eyes before his feet. Flowed up the hill and down King William Street, To where Saint Mary Woolnoth kept the hours With a dead sound on the final stroke of nine. There I saw one I knew, and stopped him, crying "Stetson! "You who were with me in the ships at Mylae! "That corpse you planted last year in your garden, "Has it begun to sprout? Will it bloom this year? "Or has the sudden frost disturbed its bed? "Oh keep the Dog far hence, that's friend to men, "Or with his nails he'll dig it up again! "You! hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frere!" II. A GAME OF CHESS The Chair she sat in, like a burnished throne, Glowed on the marble, where the glass Held up by standards wrought with fruited vines From which a golden Cupidon peeped out (Another hid his eyes behind his wing) Doubled the flames of sevenbranched candelabra Reflecting light upon the table as The glitter of her jewels rose to meet it, From satin cases poured in rich profusion; 118 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO In vials of ivory and coloured glass Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes, Unguent, powdered, or liquid - troubled, confused And drowned the sense in odours; stirred by the air That freshened from the window, these ascended In fattening the prolonged candle-flames, Flung their smoke into the laquearia, Stirring the pattern on the coffered ceiling. Huge sea-wood fed with copper Burned green and orange, framed by the coloured stone, In which sad light a carved dolphin swam. Above the antique mantel was displayed As though a window gave upon the sylvan scene The change of Philomel, by the barbarous king So rudely forced; yet there the nightingale Filled all the desert with inviolable voice And still she cried, and still the world pursues, "Jug Jug" to dirty ears. And other withered stumps of time Were told upon the walls; staring forms Leaned out, leaning, hushing the room enclosed. Footsteps shuffled on the stair. Under the firelight, under the brush, her hair Spread out in fiery points Glowed into words, then would be savagely still. "My nerves are bad to-night. Yes, bad. Stay with me. "Speak to me. Why do you never speak. Speak. "What are you thinking of? What thinking? What? "I never know what you are thinking. Think." I think we are in rats' alley Where the dead men lost their bones. "What is that noise?" The wind under the door. "What is that noise now? What is the wind doing?" Nothing again nothing. "Do "You know nothing? Do you see nothing? Do you remember "Nothing?" I remember Those are pearls that were his eyes. "Are you alive, or not? Is there nothing in your head?" But O O O O that Shakespeherian Rag It's so elegant So intelligent "What shall I do now? What shall I do?" I shall rush out as I am, and walk the street "With my hair down, so. What shall we do to-morrow? 119 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO "What shall we ever do?" The hot water at ten. And if it rains, a closed car at four. And we shall play a game of chess, Pressing lidless eyes and waiting for a knock upon the door. When Lil's husband got demobbed, I said I didn't mince my words, I said to her myself, HURRY UP PLEASE ITS TIME Now Albert's coming back, make yourself a bit smart. He'll want to know what you done with that money he gave you To get yourself some teeth. He did, I was there. You have them all out, Lil, and get a nice set, He said, I swear, I can't bear to look at you. And no more can't I, I said, and think of poor Albert, He's been in the army four years, he wants a good time, And if you don't give it him, there's others will, I said. Oh is there, she said. Something o' that, I said. Then I'll know who to thank, she said, and give me a straight look. HURRY UP PLEASE ITS TIME If you don't like it you can get on with it, I said. Others can pick and choose if you can't. But if Albert makes off, it won't be for lack of telling. You ought to be ashamed, I said, to look so antique. (And her only thirty-one.) I can't help it, she said, pulling a long face, It's them pills I took, to bring it off, she said. (She's had five already, and nearly died of young George.) The chemist said it would be alright, but I've never been the same. You are a proper fool, I said. Well, if Albert won't leave you alone, there it is, I said, What you get married for if you don't want children? HURRY UP PLEASE ITS TIME Well, that Sunday Albert was home, they had a hot gammon, And they asked me in to dinner, to get the beauty of it hot HURRY UP PLEASE ITS TIME HURRY UP PLEASE ITS TIME Goonight Bill. Goonight Lou. Goonight May. Goonight. Ta ta. Goonight. Goonight. Good night, ladies, good night, sweet ladies, good night, good night. III. THE FIRE SERMON The river's tent is broken: the last fingers of leaf Clutch and sink into the wet bank. The wind Crosses the brown land, unheard. The nymphs are departed. Sweet Thames, run softly, till I end my song. The river bears no empty bottles, sandwich papers, Silk handkerchiefs, cardboard boxes, cigarette ends Or other testimony of summer nights. The nymphs are departed. And their friends, the loitering heirs of city directors; Departed, have left no addresses. 120 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO By the waters of Leman I sat down and wept . . . Sweet Thames, run softly till I end my song, Sweet Thames, run softly, for I speak not loud or long. But at my back in a cold blast I hear The rattle of the bones, and chuckle spread from ear to ear. A rat crept softly through the vegetation Dragging its slimy belly on the bank While I was fishing in the dull canal On a winter evening round behind the gashouse Musing upon the king my brother's wreck And on the king my father's death before him. White bodies naked on the low damp ground And bones cast in a little low dry garret, Rattled by the rat's foot only, year to year. But at my back from time to time I hear The sound of horns and motors, which shall bring Sweeney to Mrs. Porter in the spring. O the moon shone bright on Mrs. Porter And on her daughter They wash their feet in soda water Et O ces voix d'enfants, chantant dans la coupole! Twit twit twit Jug jug jug jug jug jug So rudely forc'd. Tereu Unreal City Under the brown fog of a winter noon Mr. Eugenides, the Smyrna merchant Unshaven, with a pocket full of currants C.i.f. London: documents at sight, Asked me in demotic French To luncheon at the Cannon Street Hotel Followed by a weekend at the Metropole. At the violet hour, when the eyes and back Turn upward from the desk, when the human engine waits Like a taxi throbbing waiting, I Tiresias, though blind, throbbing between two lives, Old man with wrinkled female breasts, can see At the violet hour, the evening hour that strives Homeward, and brings the sailor home from sea, The typist home at teatime, clears her breakfast, lights Her stove, and lays out food in tins. Out of the window perilously spread Her drying combinations touched by the sun's last rays, On the divan are piled (at night her bed) Stockings, slippers, camisoles, and stays. I Tiresias, old man with wrinkled dugs Perceived the scene, and foretold the rest - 121 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO I too awaited the expected guest. He, the young man carbuncular, arrives, A small house agent's clerk, with one bold stare, One of the low on whom assurance sits As a silk hat on a Bradford millionaire. The time is now propitious, as he guesses, The meal is ended, she is bored and tired, Endeavours to engage her in caresses Which still are unreproved, if undesired. Flushed and decided, he assaults at once; Exploring hands encounter no defence; His vanity requires no response, And makes a welcome of indifference. (And I Tiresias have foresuffered all Enacted on this same divan or bed; I who have sat by Thebes below the wall And walked among the lowest of the dead.) Bestows one final patronising kiss, And gropes his way, finding the stairs unlit . . . She turns and looks a moment in the glass, Hardly aware of her departed lover; Her brain allows one half-formed thought to pass: "Well now that's done: and I'm glad it's over." When lovely woman stoops to folly and Paces about her room again, alone, She smoothes her hair with automatic hand, And puts a record on the gramophone. "This music crept by me upon the waters" And along the Strand, up Queen Victoria Street. O City city, I can sometimes hear Beside a public bar in Lower Thames Street, The pleasant whining of a mandoline And a clatter and a chatter from within Where fishmen lounge at noon: where the walls Of Magnus Martyr hold Inexplicable splendour of Ionian white and gold. The river sweats Oil and tar The barges drift With the turning tide Red sails Wide To leeward, swing on the heavy spar. The barges wash Drifting logs Down Greenwich reach Past the Isle of Dogs. Weialala leia Wallala leialala 122 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Elizabeth and Leicester Beating oars The stern was formed A gilded shell Red and gold The brisk swell Rippled both shores Southwest wind Carried down stream The peal of bells White towers Weialala leia Wallala leialala "Trams and dusty trees. Highbury bore me. Richmond and Kew Undid me. By Richmond I raised my knees Supine on the floor of a narrow canoe." "My feet are at Moorgate, and my heart Under my feet. After the event He wept. He promised 'a new start'. I made no comment. What should I resent?" "On Margate Sands. I can connect Nothing with nothing. The broken fingernails of dirty hands. My people humble people who expect Nothing." la la To Carthage then I came Burning burning burning burning O Lord Thou pluckest me out O Lord Thou pluckest burning IV. DEATH BY WATER Phlebas the Phoenician, a fortnight dead, Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell And the profit and loss. A current under sea Picked his bones in whispers. As he rose and fell He passed the stages of his age and youth Entering the whirlpool. Gentile or Jew O you who turn the wheel and look to windward, Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you. 123 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO V. WHAT THE THUNDER SAID After the torchlight red on sweaty faces After the frosty silence in the gardens After the agony in stony places The shouting and the crying Prison and palace and reverberation Of thunder of spring over distant mountains He who was living is now dead We who were living are now dying With a little patience Here is no water but only rock Rock and no water and the sandy road The road winding above among the mountains Which are mountains of rock without water If there were water we should stop and drink Amongst the rock one cannot stop or think Sweat is dry and feet are in the sand If there were only water amongst the rock Dead mountain mouth of carious teeth that cannot spit Here one can neither stand nor lie nor sit There is not even silence in the mountains But dry sterile thunder without rain There is not even solitude in the mountains But red sullen faces sneer and snarl From doors of mudcracked houses If there were water And no rock If there were rock And also water And water A spring A pool among the rock If there were the sound of water only Not the cicada And dry grass singing But sound of water over a rock Where the hermit-thrush sings in the pine trees Drip drop drip drop drop drop drop But there is no water Who is the third who walks always beside you? When I count, there are only you and I together But when I look ahead up the white road There is always another one walking beside you Gliding wrapt in a brown mantle, hooded I do not know whether a man or a woman - But who is that on the other side of you? What is that sound high in the air 124 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Murmur of maternal lamentation Who are those hooded hordes swarming Over endless plains, stumbling in cracked earth Ringed by the flat horizon only What is the city over the mountains Cracks and reforms and bursts in the violet air Falling towers Jerusalem Athens Alexandria Vienna London Unreal A woman drew her long black hair out tight And fiddled whisper music on those strings And bats with baby faces in the violet light Whistled, and beat their wings And crawled head downward down a blackened wall And upside down in air were towers Tolling reminiscent bells, that kept the hours And voices singing out of empty cisterns and exhausted wells. In this decayed hole among the mountains In the faint moonlight, the grass is singing Over the tumbled graves, about the chapel There is the empty chapel, only the wind's home. It has no windows, and the door swings, Dry bones can harm no one. Only a cock stood on the rooftree Co co rico co co rico In a flash of lightning. Then a damp gust Bringing rain Ganga was sunken, and the limp leaves Waited for rain, while the black clouds Gathered far distant, over Himavant. The jungle crouched, humped in silence. Then spoke the thunder DA Datta: what have we given? My friend, blood shaking my heart The awful daring of a moment's surrender Which an age of prudence can never retract By this, and this only, we have existed Which is not to be found in our obituaries Or in memories draped by the beneficent spider Or under seals broken by the lean solicitor In our empty rooms DA Dayadhvam: I have heard the key Turn in the door once and turn once only We think of the key, each in his prison Thinking of the key, each confirms a prison Only at nightfall, aetherial rumours 125 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Revive for a moment a broken Coriolanus DA Damyata: The boat responded Gaily, to the hand expert with sail and oar The sea was calm, your heart would have responded Gaily, when invited, beating obedient To controlling hands I sat upon the shore Fishing, with the arid plain behind me Shall I at least set my lands in order? London Bridge is falling down falling down falling down Poi s'ascose nel foco che gli affina Quando fiam ceu chelidon - O swallow swallow Le Prince d'Aquitaine a la tour abolie These fragments I have shored against my ruins Why then Ile fit you. Hieronymo's mad againe. Datta. Dayadhvam. Damyata. Shantih shantih shantih 126 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO La terra desolata (traduzione di Elio Chinol) "Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Sibylla ti theleis; respondebat illa: apothanein thelo." I. La sepoltura dei morti Aprile è il più crudele dei mesi, genera Lillà da terra morta, confondendo Memoria e desiderio, risvegliando Le radici sopite con la pioggia della primavera. L'inverno ci mantenne al caldo, ottuse Con immemore neve la terra, nutrì Con secchi tuberi una vita misera. L'estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee Con uno scroscio di pioggia: noi ci fermammo sotto il colonnato, E proseguimmo alla luce del sole, nel Hofgarten, E bevemmo caffè, e parlammo un'ora intera. Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch. E quando eravamo bambini stavamo presso l'arciduca, Mio cugino, che mi condusse in slitta, E ne fui spaventata. Mi disse, Marie, Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù. Fra le montagne, là ci si sente liberi. Per la gran parte della notte leggo, d'inverno vado nel sud. Quali sono le radici che s'afferrano, quali i rami che crescono Da queste macerie di pietra? Figlio dell'uomo, Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto Un cumulo d'immagini infrante, dove batte il sole, E l'albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo, L'arida pietra nessun suono d'acque. C'è solo ombra sotto questa roccia rossa, (Venite all'ombra di questa roccia rossa), E io vi mostrerò qualcosa di diverso Dall'ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall'ombra Vostra che a sera incontro a voi si leva; In una manciata di polvere vi mostrerò la paura. Frisch weht der Wind Der Heimat zu Mein Iriscb Kind, Wo weilest du? Mi chiamarono la ragazza dei giacinti. - Eppure quando tornammo, a ora tarda, dal giardino dei giacinti, Tu con le braccia cariche, con i capelli madidi, io non potevo 127 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Parlare, mi si annebbiavano gli occhi, non ero Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio, Il cuore della luce. Oed' und leer das Meer. Madame Sosostris, chiaroveggente famosa, Aveva preso un brutto raffreddore, ciononostante E' nota come la donna più saggia d'Europa, Con un diabolico mazzo di carte. Ecco qui, disse, La vostra carta, il Marinaio Fenicio Annegato (Quelle sono le perle che furono i suoi occhi. Guardate!) E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce, La Dama delle situazioni. Ecco qui l'uomo con le tre aste, ecco la Ruota, E qui il mercante con un occhio solo, e questa carta, Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso, E che a me non è dato vedere. Non trovo L'Impiccato. Temete la morte per acqua. Vedo turbe di gente che cammina in cerchio. Grazie. Se vedete la cara Mrs. Equitone, Ditele che le porterò l'oroscopo io stessa: Bisogna essere così prudenti in questi giorni. Città irreale, Sotto la nebbia bruna di un'alba d'inverno, Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, Ch'io non avrei mai creduto che morte tanta n'avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano Su per il colle e giù per la King William Street, Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore Con morto suono sull'ultimo tocco delle nove. Là vidi uno ch e conoscevo, e lo fermai, gridando: « Stetson! Tu che eri con me , sulle navi a Milazzo! Quel cadavere che l'anno scorso piantasti nel giardino, Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno? Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l'aiola? Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell'uomo, Se non vuoi che con l'unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto! Tu, hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frère! II. Una partita a scacchi Il Seggio sul quale sedeva, simile a un trono brunito, Risplendeva sul marmo, ove lo specchio Sorretto da colonne lavorate con tralci di vite Fra le quali un Cupido dorato spiava (Un altro sotto l'ala nascondeva gli occhi) Raddoppiava le fiamme ai candelabri A sette braccia riflettendo sul tavolo la luce Mentre lo scintillio dei suoi gioielli si levava A incontrarlo, da astucci di raso versato 128 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO A profusione; in fialette d'avorio e vetro colorato Dischiuse, i suoi profumi stavano in agguato, sintetici e strani, Unguenti, polveri, liquidi - turbavano, Confondevano e annegavano il senso nei profumi; spinti dall'aria Che entrava fresca dalla finestra, ascendevano Alimentando le fiamme lunghe della candela, Soffiavano il loro fumo nei laquearia, Animando i motivi del soffitto a lacunari. Un bosco enorme sottomarino nutrito di rame Bruciava verde e arancio, incorniciato dalla pietra colorata, Nella cui luce mesta un delfino scolpito nuotava. Sull'antico camino era dipinta, Come se una finestra si aprisse sulla scena silvana, La metamorfosi di Filomela, dal re barbaro Così brutalmente forzata; eppure là l'usignolo Empiv a tutto il deserto con voce inviolabile E ancora ella gemeva, e ancora il mondo prosegue, « Giag Gíag » a orecchi sporchi. E altri arbusti di tempo disseccati Erano dispiegati sui muri a raccontare; forme attonite Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa. Scalpicciavano passi sulla scala. Alla luce del fuoco, sotto la spazzola, i suoi capelli Si spiegavano in punte di fuoco, Splendevano in parole, per ricadere in una cupa calma. "Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me. Parlami. Perché non parli mai? Parla. A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa? Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa." Penso che siamo nel vicolo dei topi Dove i morti hanno perso le ossa. "Cos'è quel rumore?" Il vento sotto la porta. "E ora cos'è quel rumore? Che sta facendo il vento?" Niente ancora niente. E non sai "Niente? Non vedi niente? Non ricordi Niente?" Ricordo Quelle sono le perle che furono i suoi occhi. "Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?" Ma 0 0 0 0 that Shakespeherian Rag... Così elegante Così intelligente "Che farò ora? Che farò?" "Uscirò fuori così come sono, camminerò per la strada 129 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO "Coi miei capelli sciolti, così. Cosa faremo domani? "Cosa faremo mai?" L'acqua calda alle dieci. E se piove, un'automobile chiusa alle quattro. E giocheremo una partita a scacchi, Premendoci gli occhi senza palpebre, in attesa che bussino alla porta. Quando il marito di Lil venne smobilitato, dissi Non avevo peli sulla lingua, glielo dissi io stessa, SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE Ora che Albert ritorna, rimettiti un po' in ghingheri. Vorrà sapere cosa ne hai fatto dei soldi che ti diede Per farti rimettere i denti. Te li diede, ero presente. Fatteli togliere tutti, Lil, e comprati una bella dentiera, Lui disse, lo giuro, non ti posso vedere così. E io nemmeno, dissi, e pensa a quel povero Albert, E' stato sotto le armi per quattro anni, si vorrà un po' divertire, Se non lo farai tu ce ne saranno altre, dissi. Oh è così, disse lei. Qualcosa del genere, dissi. Allora saprò chi ringraziare, disse, e mi guardò fissa negli occhi. SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE Se non ne sei convinta seguita pure, dissi. Ce ne sono altre che sanno decidere e scegliere se non puoi farlo tu. Ma se Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata. Ti dovresti vergognare, dissi, di sembrare una mummia. (E ha solo trentun anni.) Non ci posso far niente, disse lei, mettendo un muso lungo, Son quelle pillole che ho preso per abortire, disse. (Ne aveva avuti già cinque, ed era quasi morta per il piccolo George.) Il farmacista disse che sarebbe andato tutto bene, ma non sono più stata la stessa. Sei davvero una stupida, dissi. Bene, se Albert non ti lascia in pace, ecco qui, dissi, Cosa ti sei sposata a fare, se non vuoi bambini? SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE Bene, quella domenica che Albert tornò a casa, avevano uno zampone bollito, E mi invitarono a cena, per farmelo mangiare bello caldo SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE Buonanotte Bill. Buonanotte Lou. Buonanotte May, Buonanotte. Ciao. 'Notte. 'Notte. Buonanotte signore, buonanotte, dolci signore, buonanotte, buonanotte. III. Il sermone del fuoco La tenda del fiume è rotta: le ultime dita delle foglie S'afferrano e affondano dentro la riva umida. Il vento Incrocia non udito sulla terra bruna. Le ninfe son partite. Dolce Tamigi, scorri lievemente, finché non abbia finito il mio Canto. Il fiume non trascina bottiglie vuote, carte da sandwich, Fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di sigarette O altre testimonianze delle notti estive. Le ninfe son partite. E i loro amici, eredi bighelloni di direttori di banca della City; 130 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Partiti, e non hanno lasciato indirizzo. Presso le acque dei Lemano mi sedetti e piansi... Dolce Tamigi, scorri lievemente, finché non abbia finito il mio canto. Dolce Tamigi, scorri lievemente, perché il mio canto non è alto né lungo. Ma alle mie spalle in una fredda raffica odo Lo scricchiolo delle ossa, e il ghigno che fende da un orecchio all'altro. Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione Strascicando il suo viscido ventre sulla riva Mentre stavo pescando nel canale tetro Una sera d'inverno dietro il gasometro Meditando sul naufragio del re mio fratello E sulla morte del re mio padre, prima di lui. Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida, Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l'altro. Ma alle mie spalle di tanto in tanto odo Suoni di trombe e motori, che condurranno Sweeney da Mrs. Porter a primavera. Oh la luna splendeva lucente su Mrs. Porter E su sua figlia Che si lavano i piedi in «soda water» Et O ces voix d'enfants, chan tant dans la coupole! Tuit tuit tuit Giag giag giag giag giag giag Così brutalmente forzata. Tiriù Città irreale Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale Mr. Eugenides, il mercante di Smirne, Mal rasato, con una tasca piena d'uva passa C.i.f. London: documenti a vista, M'invitò in un francese demotico Ad una colazione al Cannon Street Hotel Seguita da un weekend al Metropole. Nell'ora violetta, quando gli occhi e la schiena Si levano dallo scrittoio, quando il motore umano attende Come un tassì che pulsa nell'attesa, Io Tiresia, benché cieco, pulsando fra due vite, Vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere Nell'ora violetta, nell'ora della sera che contende Il ritorno, e il navigante dal mare riconduce al porto. La dattilografa a casa all'ora del tè, mentre sparecchia la colazione, accende La stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato. Pericolosamente stese fuori dalla fìnestra Le sue combinazioni che s'asciugano toccate dagli ultimi raggi del sole, Sopra il divano (che di notte è il suo letto) Sono ammucchiate calze, pantofole, fascette e camiciole. Io Tiresia, vecchio con le mammelle raggrínzite, Osservai la scena, e ne predissi il resto - 131 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Anch'io ero in attesa dell'ospite atteso. Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso, Impiegato d'una piccola agenzia di locazione, sguardo ardito, Uno di bassa estrazione a cui la sicurezza S'addice come un cilindro a un cafone rifatto. Ora il momento è favorevole, come bene indovina, Il pasto è ormai finito, e lei è annoiata e stanca, Lui cerca d' impegnarla alle carezze Che non sono respinte, anche se non desiderate. Eccitato e deciso, ecco immediatamente l'assale; Le sue mani esploranti non incontrano difesa; La sua vanità non pretende che vi sia un'intesa, ritiene L'indifferenza gradita accettazione. (E io Tiresia ho presofferto tutto Ciò che si compie su questo stesso divano o questo letto; lo che sedei presso Tebe sotto le mura E camminai fra i morti che più stanno in basso.) Accorda un bacio finale di protezione, E brancola verso l'uscita, trovando le scale non illuminate... Lei si volta e si guarda allo specchio un momento, Si rende conto appena che l'amante è uscito; il suo cervello permette che un pensiero solo a metà formato Trascorra: « Bene, ora anche questo è fatto: lieta che sia finito. » Quando una donna leggiadra si piega a far follie E percorre di nuovo la sua stanza, sola, Con una mano meccanica i suoi capelli ravvia, E mette un disco a suonare sul grammofono. « Questa musica presso di me scivolava sull'acque » E lungo lo Strand, fino alla Queen Victoria Street. O città, città, talvolta posso udire vicino A una qualsiasi taverna in Lower Thames Street Il lamento piacevole di un mandolino, E dentro chiacchiere e altri rumori Là dove a mezzogiorno i pesciaioli riposano: Dove le mura di Magnus Martir contengono Uno splendore inesplicabile di bianco e oro ionici. Il fiume trasuda Olio e catrame Le chiatte scivolano Con la marea che si volge Vele rosse Ampie Sottovento, ruotano su pesanti alberature. Le chiatte sospingono Tronchi c he vanno alla deriva Verso il tratto di fiume di Greenwich Oltre l'Isola dei Cani. Weialala leia 132 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Wallala leiaiala Elisabetta e Leicester Remi che battono La prua era formata Da una conchiglia dorata Rossa e oro L'agile flusso dell'onda Si frangeva su entrambe le rive Il vento di sud-ovest Con la corrente portava Lo scampanio delle campane Torri bianche Weialala leia Wallala Ieialala « Tram e alberi polverosi. Highbury mi fe'. Disfecemi Richmond e Kew. Vicino a Richmond alzai le ginocchia Supina sul fondo di una stretta canoa. » « I miei piedi sono a Margate, e il mio cuore Sotto i miei piedi. Dopo il fatto Egli pianse. Promise "un nuovo inizio". Non feci commento. Di cosa mi dovrei rammaricare? » « Sulle Sabbie di Margate. Non posso connettere Nulla con nulla. Le unghie rotte di mani sporche. La mia gente, gente modesta che non chiede Nulla. » la la Poi a Cartagine venni Ardere ardere ardere ardere O Signore Tu mi cogli O Signore Tu cogli bruciando IV. La morte per acqua Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, E il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina Gli spolpò l'ossa in sussurri. Come affiorava e affondava Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza Procedendo nel vortice. Gentile o Giudeo 133 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO O tu che giri la ruota e guardi sopravvento, Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te. V. Ciò che disse il tuono Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati Dopo il silenzio gelido nei giardini Dopo l'angoscia in luoghi petrosi Le grida e i pianti La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato Del tuono a primavera su monti lontani Colui che era vivo ora è morto Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo Con un po' di pazienza Qui non c'è acqua ma soltanto roccia Roccia e non acqua e la strada di sabbia La strada che serpeggia lassù fra le montagne Che sono montagne di roccia senz'acqua Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia Vi fosse almeno acqua fra la roccia Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere Non c'è neppure silenzio fra i monti Ma secco sterile tuono senza pioggia Non c'è neppure solitudine fra i monti Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano Da porte di case di fango screpolato Se vi fosse acqua E niente roccia Se vi fosse roccia E anche acqua E acqua Una sorgente Una pozza fra la roccia Se soltanto vi fosse suono d'acqua Non la cicala E l'erba secca che canta Ma suono d'acqua sopra una roccia Dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini Drip drop drip drop drop drop drop Ma non c'è acqua Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca C'è sempre un altro che ti cammina accanto Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato 134 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Io non so se sia un uomo o una donna - Ma chi è che ti sta sull'altro fianco? Cos'è quel suono alto nell'aria Quel mormorio di lamento materno Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte Qual è quella città sulle montagne Che si spacca e si riforma e scoppia nell'aria violetta Torri che crollano Gerusalemme Atene Alessandria Vienna Londra Irreali Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri E sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta Squittivano, e battevano le ali E strisciavano a capo all'ingiù lungo un muro annerito E capovolte nell'aria c'erano torri Squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore E voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi. In questa desolata spelonca fra i monti Nella fievole luce della luna, l'erba fruscia Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella C'è la cappella vuota, dimora solo del vento. Non ha finestre, la porta oscilla, Aride ossa non fanno male ad alcuno. Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto Chicchirichì chicchirichì Nel guizzare di un lampo. Quindi un'umida raffica Apportatrice di pioggia Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate Attendevano pioggia, mentre le nuvole nere Si raccoglievano molto lontano, sopra l'Himavant. La giungla era accucciata, rattratta in silenzio. Allora il tuono parlò DA Datta: che abbiamo dato noi? Amico mio sangue che scuote il mio cuore L'ardimento terribile di un attimo di resa Che un'èra di prudenza non potrà mai ritrattare Secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo Che non si troverà nei nostri necrologi O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno Nelle nostre stanze vuote DA 135 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Dayadhvam: ho udito la chiave Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione Solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei Ravvivano un attimo un Coriolano affranto DA Damyata: la barca rispondeva Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto Lietamente, invitato, battendo obbediente Alle mani che controllano Sedetti sulla riva A pescare, con la pianura arida dietro di me Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre? Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo Poi s'ascose nel foco che gli affina Quando fiam uti chelidon O rondine rondine Le Prince d'Aquitaine à la tour abolie Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine Bene allora v'accomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo. Datta. Dayadhvam. Damyata. Shantih shantih shantih 136 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Vale la pena di sapere che The Waste Land è stato tradotto anche in sardo. Ecco la traduzione, realizzata da Nanni Falconi. Sa terra desolada S'accumpanzamentu de sos mortos I Abrile est su mese prus cruele, faghet Bessire su lillà da sa terra dormida, ammisturat Ammentos e desizos, ischidat Sas raighinas dormidas cun sas abbas de beranu. S'Ijerru nos mantezesit caldos carralzende Sa terra de unu nie c'addrummentat, addeschende Una trizili bida cun cardillones sicos. S'Istiu nos fateit s'improvisada, benzende subra su Starnbengersee Cun una irrasinada de abba; nos firmemus in unu colonnadu, Pustis andemus suta su sole, in su in su Hofgarten, Biemus cafè e arrejonemus pro un'ora. Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch. Cando fimus piseddos chi fimus allogados cun s'arciduca, Fradile meu mi s'aiat gitu cun isse in islita Eo m'assucconei, mi neit, Marì, Marì, muntene-di forte. E nos imbolemus a punta fica. In sos montes, cue unu si sentit libberu. Eo legio meda a denote, e mi nd'ando a sud in Ijerru. Cales sunt sas raighinas chi s'aggantzant, cales ramos creschent In custas pedras teremadas ? Fizu de s'omine, Tue non podes narrer, ne addevinare, ca conosches solu Unu muntone de immagines truncadas, inue batit su sole, E s'arbure rutu non dat riparu, su grillu no accunnortat, e s'arsada pedra non sonat de abba. Solu b'est s'umbra suta custa pedra ruja, ( Beni-de a s'umbra de custa pedra ruja), E deo bos apo a mustrare carchi cosa de diversu Dae s'umbra bostra chi a manzanu bos ponet ifatu a palancadas O dae s'umbra chi a serentina s'arritzat e torrat in bois; bos apo a mustrare sa timoria in unu punzu de pruereddu. Frish weht der Wind Der Heimat zu Mein Irisch Kind, Wo weilest du ? " Mi desti a prima bia sos giacintos un annu faghet; " Mi ponzeint sa pisedda de sos giacintos." - A onzi modu cando torremus in segus, a tardu, da su giardinu de sos giacintos, Garrigos sos bratzos tuos, e umidos sos pilos, eo non podia 137 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Faeddare, e mi mancaiat sa vista, non fia Ne biu ne mortu, e non connoschia prus, Isperiende in su coro de sa lughe, su silentziu. Oed' und leer das Meer. Tzia Sosostris. Addevinante famada, fit arromadiada, mancari cussu pero' fit connota comente sa femina prus sabia d'Europa cun unu malignu matule de cartas. Milla, neit, sa carta bostra, su marineri Feniciu Abburrigonadu ( Cussas sunt sas perlas chi fint sos ojos suos. Abbaida!) Innoghe est sa Belladonna, sa Tzia de sas Rocas, Sa tzia de sas situatziones. Innoghe est s'omine cun sos tres fustes, e innoghe sa Roda, E innoghe est su benduleju a un'oju, e custa carta, chena figura, at carchicosa chi giughet a palas, chi eo non poto bidere. No agato s'impicadu. Time sa morte a modde. Bido trumas de gente caminende in tundu. Gratzias. Si bidides sa cara tzia Equitone Nara-li chi che li giuto s'oroscupu eo matessi: Unu depet stare gai atentu in custas dis. Irreale tzitade, Suta sa neula niedda de un'arbeschida de Ijerru, Un truma de gente subra London Bridge, gai meda, Mai aia cretidu chi sa morte nd'aiat isfatu gai tanta. Alenos, curtzos e lascos, fint esalenados, E totu isperiaiant sos pees issoro matessi. Beniant pro su montigru e falaiant pro sa King William Street, Fintzas a inue Saint Mary Woolnoth tocaiat sas oras Cun unu sonu mortu subra s'urtimu tocu de sas noe. Cue bidei unu chi connoschia, l'arressei, abboighende-li " Stetson ! " tue chi fist cun megus subra sa naves a Mylae ! "Cuddu mortu chi piantesti s'annu passadu in su giardinu " bessidu est ? a frorit ocannu ? "O s'astrau a s'ispensada at martzidu su prantarzu ? " Mantene-che atesu su cane , iss'est amigu de s'omine, " Si non cheres chi cun sas ungias ti nde lu boghet dae nou ! " Tue! hypocrite lecteur !- mon semblable,- mon frère! " Una partita a scacchi II Su cadreone inue fit setzida, pariat unu tronu brunidu, Lughiat in su marmaru inue su ispigru Mantesu da colonnas traballiadas cun sarmentos de bide E tra cussas un Cupidu doradu bogaiat cara ( Un'ateru cuaiat sos ogros suta s'ala) Creschiat sas bampas de su candelabru de sete bratzos Ispigritende sa lughe subra sa mesa 138 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Sas lughiteddas de s'oraria sua pigaiat a l'abbojare, Dae iscatuleddas de rasu, imboladu a machinu In fialas de avoriu e bidru coloradu Iscanzadas, istaiant apostados istranos nuscos sinteticos, Unguentos, licuidos o in pruereddu- cunfundiant, trambullaiant Annegaiant sos sensos in sos nuscos; trubados da s'aria Frisca ch'intraiat dae su balcone, pigaiant Alimentende sas bampas de sa candela Sulaiat su fumu suo intro sa licoreria, Animende sos disegnos de sa bovida a cuadratos. Un'immensu litu marinu addescadu cun ramine Brusaiat birde-arantzu, coronadu dae sa pedra colorada, In cussa lughe bassa unu delfinu isculpidu nadaiat. Subra s'antiga tziminea fit pintada Comente unu balcone chi dat subra s'areste issena, Su tramunu de Philomela, da unu barbaru re Gai malamente violada; epuru cue su lusignolu Prenaiat totu su desertu cun boghe inviolabile Galu fit a gianzulos, e galu su mundu sighit, "jag jag" a origras brutas. E ateras matas dae tempus sicas Fint contende subra sos muros; formas fissadas S'acioraiant, mugrende-si, faghiant silentziu in s'aposentu tancadu. Passos trasinados in sas iscalas. A sa lughe de su fogu, suta s'ispatzula, sos pilos suos S'isparghiant in puntas de fogu, Abbampados de paraulas, e luego falaiant lebios. "So annerbiada istasero. So a petzos. Ista cun megus. Faedda-mi. Proite no mi faeddas mai? Faedda. A ite ses pensende? Pensende a ite? A ite? No isco mai a ite ses pensende. Pensa." Penso chi che semus in sa carrera de sos sorighes Inue sos mortos ant perdidu sos ossos. " It'est custu rumore? " Su bentu suta sa gianna?" " It'est custu rumore como? It'est fatende su bentu ?" Nudda ancora nudda. " Non connosches nudda? Non bides nudda? Non connosches Nudda?" M'ammento Cussas sunt sas perlas chi fint sos ogros suos. " Ses biu o no? No as nudda in conca ?" Ma O O O O that Shakesperheian Rag… Isse est gai elegante Gai abbistu " Ite apo a fagher como? Ite fato? " 139 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO " Apo a bessire a fora comente so, e camino in carrera " Totu ispilutriada. Comente amus a fagher cras ? " Ite amus a faghere?" S'abba calda a sas deghe. E si proet , una machina tancada a sas batoro. E amus a giogare una partida a scachi. Tochende ogros chena pibiristas e aisetende chi tochent a sa gianna. Cando su maridu de Lil benzeit cungedadu, eo neiChena la fagher longa, bi lu nei eo matessi, FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE Como chi Alberto est pro furriare daedi un'acontza. At a cherrer ischire ite nd'as fatu de su dinari chi ti deit Pro t'acontzare sas barras. Ti l'at dadu. Fia cue. Non nd'as prus mancunu, Lil, compora-ti una bella dentiera, Isse neit, ti giuro, non ti poto bider goi. E nemmancu eo, li nei, e pessa a cussu mischinu de Alberto, Est stadu suta sas armas pro batoro annos, bisonzat chi si divertat, E si no lu faghes tue, gia bi nde at ateras, li nei. Oh, gai est, neit issa. Prus o mancu, li nei. Tando apo a ischire a chi narrer gratzia, neit issa, abbaidende-mi fissa. FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE Si non nde ses cunbinta sighi-la gai, li nei Bi nd'at aer ateras chi faghent e ischirriant pro te. Ma si Alberto ti lassat non nerzat chi non t'ant avisada. Non ti nde faghes sa birgonza, li nei, pares una trusa. ( E as solu trintunu annos.) Non bi poto fagher nudda, neit issa, fatende su mutzighile, Sunt cussa pastillias chi apo leadu pro aurtire. (Nd'aiat gia chimbe e guasi si che fit morta pro George.) Su farmacista mi neit chi gia fit andadu totu bene, ma da tando non so prus sa matessi. Ses propriu una maca, li nei. Bene, si Alberto non ti lassat in paghe, est su puntu, li nei. Proite ti ses cojuada si no cherias aer fizos? FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE Bene, sa Dominiga chi Alberto torreit, chi aiant unu zampone a buddidu So stadu inbitadu a chenare pro lu mandigare bellu caldu. FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE Bonanote Bill. Bonanote Lou. Bonanote May. Bonanote Ciao ciao.Bonanote. Bonanote. Bonanote signoras, bonanote bellas signoras. Bonanote, bonanote. Sa preiga de su fogu III Sa tenda de su riu est truncada: sos urtimos poddighes de fozas S'ataccant e s'affundant intro s'umida riba. Su bentu Atraessat mudu sa terra niedda. Sas ninfas sunt partidas. 140 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Dulche Tamigi, anda a bellu finzas a finire su cantu meu. Su riu non trasinat ampullas boidas, pabiru de paninos, Mucarolos de seda, scatulas de cartone, cicas de sigareta O ateros testimonzos de sas notes de istiu. Sas ninfas sunt partidas. E sos amigos issoro, sos eredes banduleris de sos diretores de banca; Partidos chena aer lassadu indiritzu. Acurtzu a s'abba de Leman mi so setzidu e apo prantu... Dulche Tamigi, anda a bellu finzas a finire su cantu meu, Dulche Tamigi, anda a bellu ca no canto ne forte ne altu. Ma a palas mias in unu colpu de bentu fritu intendo Su trachidare de sos ossos, e su riere chi passat dae origra a origra. Unu sorighe colat pasigu in mesu sas matas Trasinende sa matza illudriada in s'oru Mentre fia pischende in sa cora ischifosa Un sero de ijerru addasegus de su serbatoiu de su gas Pessende a s'annegamentu de su re frade meu E a su re babbu meu mortu prima de a isse. Corpos biancos e nudos subra s'umidu parinu terrinu E ossos imbolados in unu isostre bassu e sicu, Movidos solu da sos pees de sos sorighes, da annu in annu. Ma a palas da tantu in tantu eo intendo Sonos de trumbas e motores, chi ant a giughere Sweeney da sa signora Porter in beranu. O sa luna grara lughet subra sa signora Porter E subra sa fiza Chi si samunant sos pees in soda water Et O ces voix d'enfants, chantant dans la coupole! Tuit tuit tuit Jag jag jag jag jag jag Gai malamente violada. Teriu Irreale tzitade Suta sa neula niedda de una serentina de ijerru Il signor Eugenides, Su benduleju de Smirne Cun sa barba longa, cun una bussacca prena de pabassa C.i.f. Londra: documentos a vista, M'imbiteit cun unu frantzesu popolare A ismulzare impare in su Cannon Street Hotel Pro sighire poi su fine chida a su Metropole. A s'ora violeta, cando sos ogros e s'ischina Si nde pesant da su scritoiu,cando su motore de s'omine aisetat Pretzisu a unu taxi tocheddante bida, Eo Tiresia, mancari tzegu, tocheddende tra duas bidas, Omine betzu cun sas titas mustias de femina, poto bidere A s'ora violeta , s'ora de su sero chi girat A furriare, e recuit su marineri dae su mare, Sa datilografa a domo a s'ora de su tè, isparitzat s'ismurzu, Atzendet sa istufa, e aparitzat mandigu in scatula. Fora de sa bentana cun perigulu apicada 141 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO A assutare sa robba sua tocada da s'ultimu sole, Subra su divanu ( chi a de-note li faghet de letu) Sunt ammuntonadas calzetas, pantofolas, camisetas e fascetas. Eo Tiresia, betzu e cun sas titas acorrontzadas Bidei s'iscena e nde addevinei su restu... Eo puru aisetei s'istranzu aisetadu. E millu innoghe, su pitzinnu bullancosu, Un'impiegadu de un'agenzia pitica, cun sa borra in cara, Unu de su popolu a su cale sa siguresa de se istat Comente istat su tzlindru a unu poberu irrichidu. Como est su momentu bonu, pessat isse, Ant finidu de mandigare, issa est anneada e istraca Chircat de la cunbinchere a sos carinnos Chi non sunt furriados, mancari chena praghere. Arroddonidu e detzisu, che li brincat a subra de botu; Sas manos chirchende no agatant impedu; Cun sa borra chi at no at bisonzu chi siat de acordu, E leat comente benennidu cussa indiferentzia. ( E deo Tiresia apo penadu totu dae prima Su chi si consumat in custu divanu o letu; Eo chi mi setzei a Tebe suta sas murallias E caminei prus in bassu in mesu a sos mortos.) Li dat unu basu finale pro l'assigurare E si nd'andat chirchende sas iscalas a s'iscuru... Issa si girat e s'abbaidat unu momentu in s'ispigru, S'abbizat apena chi s'amante ch'est bessidu; Su cherveddu suo li permitit solu unu mesu pensamentu: " Bene custa puru est fata: e deo so cuntenta chi siat fatu." Cando una femina lezera s'abbassat a su divertimentu E poi s'agatat sola de nou in s'aposentu, Cun lebiu movimentu s'acontzat sos pilos E ponet unu discu a sonare in su giradischi. " Custa musica rassineit da me subra sas abbas" E a longu pro su Strand, finzas a sa Queen Victoria Street. O sa Tzitade, sa tzittade, a bortas poto intendere Acurtzu a calchi tzilleri in Lower Thames Street, Su gustosu gianzulu de unu mandolinu E da intro arrejonos e rumores Inue a mesudie sos piscadores si pasant: Inue sos muros De Magnus Martyr muntenent S'intregada bellesa de sos Ionicos oros biancos. Su riu suerat Ozu e catramu Sas chiatas colant Cun sa furriante mare Velas rujas Suta a bentu girant subra pesantes alberaduras. Sas chiatas ispinghent Sos truncos perdidos in s'abba 142 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO In bassu pro su Greenwich A cudd'ala de s'isula de sos canes. Weialala leia Wallala leialala Elisabetta e Leicester Batint sos remos Sa prua fit furmada Da una conchillia dorada Ruja e oro Su passare de s'unda Si truncat in sos oros Su bentu de liante Batit cun sa currente Sonos de campanas Turres biancas Weilala leia Wallala leialala " Trams e arbures pruereddosos. Highbury mi fateit. Richmond e Kew Mi solobreit A Richmond istirei sos benugros A cara a chelu subra su fundu de una istrinta canoa." " sos pees mios sunt a Moorgate, e su coro meu Suta sos pees. Pustis de su fatu prangheit. Promiteit unu nou incumintzu. No nerzei nudda. De ite mi depo annuzare? " In sa rena de Margate Non mi resessit de pessare Nudda cun nudda. Sas ungias truncadas de manos brutas. Sos mios, gente de pagu chi no aisetat Nudda." La la A Cartagine dae poi mi nde benzei Brusiende brusiende brusiende brusiende O Sinnore Tue mi che leas O Sinnore Tue leas Brusiende. 143 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Sa morte in s'abba IV Phlebas su Feniciu, mortu dae bindighi dies, Ismentigheit sas boghes de sos corbos marinos, e sas undas de s'altu mare, Su profetu e sa perdua Una currente sutamare L'ispurpeit sos ossos in murmutos. Comente afundaiat e pigaiat Passaiat sas istajones de sa betzesa e sa pitzinnia Inghiriende in su mulinu. Gentile o Ebreu O tue chi giras sa roda e abbaidas contrabentu Pensa a Phlebas, chi unu tempus fit altu e bellu che a tie. Cussu chi neit su tronu V Pustis de sa lughe ruja de sas torcias in sas caras sueradas Pustis de su fritu silentziu de su giardinu Pustis de s'agonia de logos pedrosos Sas boghes e sos prantos Sa presone e su palatu e su ritumbu De su tronu in beranu in sos montes atesu Isse chi fit biu est como mortu Nois chi fimus bios como semus morzende Cun unu pagu de passientzia. Innoghe non c'at abba ma solu roca Roca e no abba e sa carrera isterrada Una carrera a curvas cue subra in su montes Chi sunt montes de rocas chen'abba Si che aiat apidu abba nos fimus firmados a biere In mesu a sas rocas unu non si podet firmare ne pensare Su suore est sicu e sos pees sunt in sa rena Si solu b'aiat apidu abba in sa roca Morta buca de monte da sos murales frazigos chi non podet catzare Unu innoghe non podet stare in pees ne corcadu ne setzidu Non b'at neemmancu silentziu in sos montes Ma sicos lunaticos tronos chen'abba Non b'at neemmancu soledade in sos montes Ma rujas caras annicadas chi raunzant e ischirringiant Da giannas de domos de ludu crebadu Si che aiat apidu abba E no roca Si che aiat apidu roca E puru abba E abba 144 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Una funtana Unu poju in sas rocas Si che aiat apidu solu sonu de abba Non sa chigula E fenu sicu cantende Ma sonu de abba subra sa roca Inue su turdu eremita cantat in mesu a sos pinos Drip drop drip drop drop drop drop Ma non b'at abba Chi est su de tres chi semper ti cabulat a costazu ? Cando conto bi semus solu tue e deo impare Ma cando abbaido addainanti sa carrera bianca B'at sempre un'ateru chi ti cabulat a costazu Rassinende imboligadu cun unu mantellu nieddu, cugutadu Eo non cumprendo si est un'omine o una femina - Ma chi est chi ti est a s'ateru costzu ? Ite est chi sonat altu in s'aera Cussu murmutu lamentosu de mamas Chi sunt cussas frotas cugutadas colende subra paris chena fine, imbrunchende in sa terra crebada Inghiriada solu da su parinu orizonte Cale est cussa tzittade in sos montes Chi si cracat e si torrat a furmare e tzoccat in s'aera violeta Turres crollende Gerusalemme Atene alessandria Vienna Londra Irreale Una femina istendeit sos pilos suos nieddos e longos E isviolineit murmutos de musica da cussas corrias E tirriolos a cara de criaduras in sa lughe violeta Zanzulaiant, sparghende sas alas issoro Trasinende-si a conca ficada in unu muru isnieddigadu E covecadas in s'aria fint sas turres Tocantes campanas chi ammentant, tocaiant sas oras E boghes cantende da sas boidas baltzas e da sos putos sicos. In custa desolada calanca in mesu a sos montes In una lebia lughe de luna, s'erba est cantende Subra sas tumbas covecadas, a inghiriu a sa capella B'at una capella boida, sa domo de su bentu. No at balcones, e sa gianna iscanzada, Sos ossos sicos non faghent male a neune. Solu unu puddu si pesaiat subra sa trae Chirichichi chirichichi Un'alluta de lampu. Posca un'ifusta isfrunzada De abba pioia. Su Gange fit cuasi sicu, e sas fozas allizadas Isetaiant s'abba, sas nieddas nues Si garrigaiant atesu, subra s'Himmalaja. 145 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO Sa jungla fit remonida, muda intro de issa. Tando faeddeit su tronu Da Data: ite amus dadu nois? Amigu meu, su sambene mi iscutinat su coro Su terribile coragiu de unu momentu de abbandonu Chi una bida de prudentzia non podet furriare Non ant a esser agatados in sos necrologos nostros O in sas memorias tessidas da unu ranzolu beneficu O suta sos timbros truncados de unu carasadu notaiu In sos nostros boidos aposentos Da Dayadhvam: apo intesu sa grae Girare in sa upa e girare solu una borta Nois pensamus a sa grae, onzunu in sa presone sua Pensat a sa grae, onzunu cunfirmat una presone Solu a de note, etereos murmutos Nos torrant pro unu momentu un Coriolanu turdidu Da Damyata: sa barca rispondiat Bene a sa manu esperta cun sa vela e cun su remu, Su mare fit calmu, puru su coro tuo podet risponder Bene a su bisonzu, batende ubbidiente A sas manos controllantes. Setzei in s'oru A piscare, cun s'aridu paris addasegus de mene Apo a resessire a sa fine a ponner ordine in sas terras mias? Su London bridge nd'est falende, nd'est falende, nd'est falende Poi s'ascosenel foco che gli affina Quando fiam uti chelidon- O rundine rundine Le prince d'Aquitaine à la tour abolie Cun custos biculos apo puntelladu sas ruinas mias Be tando bos sistemo eo. Hieronymu est torra macu. Datta Dayadhvam. Damyata. Shantish shantish shantish 146 ALBERTO SPEGIS IL VUOTO BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA Il vuoto: http://www.cosediscienza.it/fisica/06_vuoto.htm Il vuoto secondo le teorie contemporanee: Tullio Regge, Il vuoto dei fisici, pubblicato su l'Astronomia n° 18 settembre-ottobre 1982 http://www.castfvg.it/articoli/fisica/vuoto_01.htm http://it.wikipedia.org/wiki/Etere http://archiviostorico.corriere.it/2005/settembre/11/pendolo_quantistico_cerchera_petrolio_minerali_co_9_05 0911011.shtml http://www.castfvg.it/zzz/ids/principio_indeterminazione.html http://www.castfvg.it/zzz/ids/positron.html Epicuro e il vuoto: Vittorio Morfino, Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. 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