ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
INDICE
1. Premessa:
Perché il vuoto
pag. 2
2. Vuoto scientifico:
Cos'è il vuoto:
I. Cosa era il vuoto
Aristotele (greco-filosofia)
Galileo (filosofia)
II. Cosa è oggi il vuoto (fisica)
la meccanica quantistica (fisica)
il vuoto secondo le teorie contemporanee
Epicuro:
il vuoto come negazione del finalismo (greco-filosofia)
Lucrezio e il clinamen (latino)
il vuoto in Hegel (filosofia)
"buchi neri", supernovae, nane bianche e stelle di neutroni (scienze)
la "terra cava":
la ricerca di Agarthi (scienze-storia)
Hitler e i "superiori sconosciuti" (storia)
il calcolo combinatorio e l'insieme vuoto (matematica)
pag. 5
pag. 5
pag. 5
pag. 6
pag. 8
pag. 8
pag. 11
pag. 17
pag. 17
pag. 17
pag. 22
pag. 26
pag. 30
pag. 30
pag. 3
pag. 32
3. Vuoto interiore:
Lo spleen:
Baudelaire (italiano)
Lucrezio (latino)
Orazio (latino)
Seneca (latino)
T.S. Eliot e la "terra desolata" (inglese)
pag. 39
pag. 39
pag. 40
pag. 41
pag. 42
pag. 45
4. Vuoto di senso:
il Santo Graal:
alla ricerca di cosa? (religione-storia)
Hitler e la ricerca del Santo Graal (storia) *
Jarry e la patafisica (italiano)
il Dadaismo (storia dell'arte)
Ionesco, La cantatrice calva (italiano) *
Beckett, Aspettando Godot (inglese)
Aldo Palazzeschi: (italiano)
Visita alla Contessa Eva Pizzardini Ba
E lasciatemi divertire!
Achille Campanile, La lettera di Ramesse (italiano)
pag. 52
pag. 52
pag. 71
pag. 82
pag. 86
pag. 91
pag. 99
pag. 103
pag. 106
pag. 110
pag. 112
Appendice:
T.S. Eliot, The Waste Land (testo e traduzione in italiano e in sardo)
pag. 117
Bibliografia e sitografia
pag. 147
N.B.: gli argomenti contrassegnati con un asterisco sono stati svolti tramite un lavoro di
gruppo.
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IL VUOTO
1. PREMESSA
PERCHÉ IL VUOTO
Il vuoto mi affascina.
Quale vuoto? Tutto.
Perché?
Non lo so.
Sarà perché lo si sente, li si vede, lo si vive tutti i giorni.
Sarà perché è un segno dei tempi.
Sarà perché, se non ci fosse il vuoto di senso, non esisterebbe la comicità che amo.
Sarà perché sul vuoto si costruisce una parte interessante dell'arte.
Sarà perché ci sentiamo ripetere che "siamo vuoti", noi giovani.
Sarà perché se il pieno è quello ci viene proposto da certi modelli del mondo adulto, è meglio il vuoto.
Sarà perché le teste vuote mi riempiono di stupore.
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IL VUOTO
Sarà perché il vuoto è anche silenzio, e il silenzio è il presupposto per:
a) ascoltare; b) evitare di dire idiozie.
Sarà perché nel vuoto si galleggia.
Sarà perché il vuoto è pieno di vita nascosta.
Sarà perché nulla è più triste e bello di una casa vuota.
Sarà perché chi vuole diventare saggio non guarda la tv: si ritira nel deserto o in un eremo.
Sarà perché ho sempre invidiato chi fa il navigatore solitario o l'esploratore in Antartide,
mentre io tutt'al più vado al mare o in montagna con gli amici.
Sarà perché non riesco a fare a meno del pieno.
Sarà perché siamo tutti figli del vuoto cosmico.
Sarà perché quando alzo gli occhi al cielo, di notte, resto senza fiato.
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In fondo la risposta è molto semplice: il vuoto mi affascina perché è bellissimo.
Ma esiste il vuoto?
O è soltanto un'astrazione della mente umana?
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2. VUOTO SCIENTIFICO
COS'È IL VUOTO
Che cos'è il vuoto?
Naturalmente intendo qui il vuoto in senso reale e fisico, non traslato.
Nelle pagine che seguono cercherò anzitutto di ripercorrere l'evoluzione di questo concetto attraverso i
secoli, per poi tentarne una definizione scientifica valendomi dell'autorevole contributo del matematico e
fisico Tullio Regge.
I. COSA ERA IL VUOTO
Il concetto di vuoto è cambiato profondamente nel corso del tempo: per Aristotele, ad esempio, il vuoto non
esisteva affatto. "La natura - egli diceva - aborre il vuoto". Il filosofo greco era giunto a questa conclusione
dopo aver osservato che quando da un luogo veniva tolta tutta la materia, producendo appunto il vuoto,
immediatamente nuova materia vi si precipitava a colmarlo; per Aristotele quindi la materia doveva essere
ovunque.
Aristotele
Ancora oggi, nella pratica di tutti i giorni, tendiamo a identificare il vuoto con il nulla. Se ad esempio un
bicchiere contiene solo aria diciamo che è vuoto, pur sapendo che l'affermazione non è corretta, perché l'aria
è materia anch'essa, seppure molto poco densa.
Il fatto che l'aria abbia una massa e sia quindi soggetta all'attrazione gravitazionale terrestre fu riconosciuto
solo verso la metà del diciassettesimo secolo quando il fisico italiano Evangelista Torricelli (1608-1647)
eseguì il famoso esperimento del tubo di vetro pieno di mercurio con l'estremità aperta posta all’interno di
una vaschetta, anch'essa piena di mercurio. Fino a quel tempo era rimasta in auge la teoria aristotelica
dell'«horror vacui».
Questa, come abbiamo detto, sosteneva che il vuoto non poteva esistere e che ovunque si fosse tentato di
crearlo, immediatamente quel luogo sarebbe stato invaso dalla materia. In realtà molti fatti dell'esperienza
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quotidiana confermavano questa teoria, ma ogni tanto si verificava qualche fenomeno al quale la stessa
teoria non era in grado di dare risposta.
Uno di questi era la mancata estrazione dell'acqua da pozzi molto profondi per mezzo delle pompe
aspiranti che erano costituite da un cilindro all'interno del quale, mosso da una leva, era libero di scorrere
uno stantuffo che aderiva perfettamente alle pareti del suo contenitore. Abbassando la leva della pompa lo
stantuffo veniva tirato verso l'alto lasciando uno spazio vuoto nella parte inferiore del cilindro. Pertanto,
poiché la natura ha orrore del vuoto, se il tubo fosse stato collegato con una cisterna piena d'acqua,
quest'ultima avrebbe dovuto innalzarsi in esso. E in effetti l'acqua si precipitava nel vuoto creato dallo
stantuffo che si era alzato ma, qualora il dislivello fra l'acqua contenuta nella cisterna e la sommità del tubo
fosse stata superiore ai 10 metri, l'acqua non sarebbe riuscita a superarlo, anche se la macchina aspirante
fosse stata in perfetto stato e l’operatore si fosse impegnato a pompare con forza e a lungo.
Per quanto la cosa fosse nota da tempo, questa anomalia venne presa in seria considerazione solo agli inizi
del Seicento, quando se ne occupò Galileo Galilei. L'occasione gliela offrì, nell'estate del 1630, un certo
Giambattista Buliani, il quale gli scrisse da Genova per chiedergli lumi su di un fatto che gli era capitato di
osservare. Egli raccontò in quella lettera di aver costruito un sifone che doveva servire per portare l'acqua al
di là di un monte, ma questo sifone non funzionava. Riempitolo d'acqua, infatti, la stessa poi ricadeva da
ambo le parti del tubo ricurvo, lasciando un vuoto all'interno della zona superiore, il quale non veniva più
riempito dall'acqua.
Galilei gli rispose che a lui era capitato di assistere a qualche cosa di simile e che se gli fosse stato chiesto il
parere prima della costruzione dell'impianto, avrebbe potuto fargli risparmiare la spesa, mostrandogli
"l'impossibilità del quesito".
Galileo Galilei
In realtà lo scienziato pisano, per spiegare l'anomalia del fenomeno osservato, aveva elaborato una teoria
(sbagliata) la quale null’altro era che un ampliamento dell'idea aristotelica dell'«horror vacui». Egli
pensava infatti che una colonna d'acqua troppo alta tendeva a spezzarsi sotto l'azione del suo stesso peso,
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così come si spezza una fune di materiale poco resistente quando, fissata in alto, viene tirata dal basso. Fu
quindi proprio questa analogia fondata sull'esperienza osservativa a portare il Galilei fuori strada.
La questione venne risolta, come abbiamo accennato, qualche anno più tardi, dal fisico Evangelista
Torricelli, un discepolo di Galilei, il quale, in seguito alla sua famosissima “esperienza dell'argento vivo",
"ebbe concetto" che la forza che reggeva la colonna di mercurio all'interno del tubo di vetro non fosse dovuta
all'«horror vacui», ma al peso dell'aria che gravava sul mercurio contenuto nella vaschetta sottostante. Allo
stesso modo, l'acqua che sale nel tubo dal quale viene aspirata l'aria, vi sale non già perché deve andare a
colmare il vuoto che la natura teme, ma perché viene spinta dalla pressione dell'aria che agisce sull'acqua
contenuta nel pozzo.
Antica stampa raffigurante Torricelli
che inventa il barometro a mercurio
Poiché si trattava semplicemente di stabilire un’uguaglianza tra pesi, Torricelli pensò che non fosse
indispensabile usare l’acqua e infatti giudicò più comodo sperimentare con il mercurio: riempì quindi con
questa sostanza una provetta lunga un metro e con la sezione di un centimetro quadrato che poi rovesciò,
tenendola ben chiusa con il pollice, in una vaschetta piena dello stesso metallo liquido. Tolto il dito
dall'apertura del tubo, il mercurio scese fino a raggiungere l’altezza di circa 75 cm. Nei restanti 25 centimetri
della provetta si era creato il vuoto, quello che ancora oggi si chiama “vuoto torricelliano”, anche se non si
tratta di un vuoto vero e proprio poiché quello spazio contiene una piccola quantità di vapori di mercurio.
Torricelli non si limitò tuttavia a proporre una nuova ipotesi per spiegare il fenomeno che aveva osservato,
ma suggerì anche un esperimento (che poi verrà realizzato da altri), che avrebbe potuto avvalorare o
dimostrare falsa la sua idea. L'esperimento consisteva nel misurare l'altezza del mercurio all'interno del
tubo di vetro in alta montagna. Se era vero che era l'aria che premeva sul mercurio contenuto nella
vaschetta ad innalzare quello presente nel tubo di vetro, diminuendo il peso dell'aria sovrastante avrebbe
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dovuto diminuire anche il livello del mercurio all'interno del tubo di vetro. L'esperimento venne realizzato
per la prima volta nel 1648 dal matematico francese Blaise Pascal e confermò la previsione del fisico italiano.
Questo è il vero significato di una teoria scientifica: essa non solo deve spiegare in modo chiaro e coerente
i fatti da cui ha tratto origine, ma deve anche poter avanzare previsioni su comportamenti che saranno
eventualmente verificati in un secondo momento.
Con la nuova teoria proposta da Torricelli l'uomo fu in grado di giustificare correttamente i fenomeni fino ad
allora conosciuti e inoltre di spiegarne un numero sempre più vasto di nuovi.
II. COSA E’ OGGI IL VUOTO
Oggi l’idea di una natura che ha orrore del vuoto è cambiata radicalmente: la natura non aborre affatto il
vuoto, anzi, l’Universo è quasi ovunque vuoto ed è semmai la materia che ora costituisce l’eccezione. In
verità è la materia stessa ad essere praticamente vuota, essendo la sua massa quasi interamente concentrata
nei piccolissimi nuclei degli atomi che la costituiscono.
Non solo, ma la vecchia idea di vuoto che veniva assimilato al nulla è cambiata pure essa.
La meccanica quantistica, ossia la teoria che descrive il comportamento originale e imprevedibile delle
particelle subatomiche (elettroni, fotoni, quark, ecc.) ha una visione del tutto nuova del vuoto: essa lo
immagina pervaso da continue fluttuazioni energetiche dalle quali si genera materia.
Si può dunque dedurre che la materia e l’energia derivino dal nulla?
Sì, purché materia ed energia che emergono dal nulla, in modo spontaneo e senza motivo, un istante dopo
essere apparse vengano distrutte e ritornino nel nulla. Come è possibile?
Uno dei risultati più straordinari della fisica del microcosmo è l’avere scoperto che lo spazio vuoto non è
affatto vuoto: appare tale solo perché la creazione e la distruzione incessante di particelle ed altre strane
entità si verifica in esso su intervalli temporali brevissimi e tali comunque da non lasciare allo
sperimentatore il tempo materiale per la loro rilevazione.
Il vuoto sembra tranquillo su scala macroscopica come appare piatto e uniforme il mare visto da un aereo
che vola ad alta quota, mentre se si stesse su una barchetta esso si mostrerebbe ben diverso, con onde e flutti
anche di notevoli proporzioni. Allo stesso modo, se lo potessimo guardare da vicino, il vuoto apparirebbe un
mare in tempesta ribollente di ogni sorta di manifestazioni stravaganti, fenomeni che avverrebbero da
sempre e in ogni dove. Oggi si ritiene non solo che la natura non abbia affatto paura del vuoto, ma che ogni
cosa che esiste e che esisterà in futuro è stata ed è tuttora presente in forma virtuale nel nulla dello spazio.
Questa incredibile proprietà del vuoto scaturisce dalla combinazione della meccanica quantistica con la
relatività di Einstein.
Una conseguenza diretta della meccanica quantistica (o fisica dei quanti) è il principio di indeterminazione
di Heisenberg, il quale afferma che il mondo microscopico possiede un’incertezza di fondo: l’impossibilità
di determinare con precisione assoluta i parametri fisici delle particelle di piccole dimensioni.
Nel vuoto questa incertezza si manifesta sotto forma di piccole fluttuazioni energetiche che vanno e vengono
senza sosta e che in parte si convertono in entità materiali.
La teoria della relatività, attraverso la famosa equazione E=mc² (energia uguale massa per velocità della luce
al quadrato), suggerisce infatti che l’energia possa trasformarsi in materia e viceversa. Per la precisione la
materia si genera a partire dall’energia sotto forma di particella e antiparticella (ad esempio elettrone e
positone insieme) dalla vita brevissima: per tale motivo esse vengono chiamate "virtuali". Le particelle
virtuali quanto più sono grandi tanto meno vivono, ma in quel breve lasso di tempo potrebbero anche
diventare reali (cioè particelle effettive) se potessero disporre di una fonte di energia adeguata.
Ma se le particelle virtuali non possono essere viste, come facciamo a sapere che esistono?
Ce lo garantisce la teoria, ancorché per la scienza la teoria non basti. Inoltre l’esistenza di coppie effimere
particella-antiparticella nel vuoto può essere verificata, sia pure indirettamente, mediante esperimenti di
alta precisione: vediamo come.
E' indispensabile innanzitutto cercare uno spazio vuoto entro il quale condurre l’esperimento. Il vuoto che
riusciamo a creare con le tecniche disponibili non è sufficiente perché quello spazio non è affatto vuoto. Con
la classica pompa per vuoto, in funzione nei gabinetti scientifici di molte scuole, si ottiene solo aria rarefatta.
Un risultato migliore si ottiene con pompe rotative o con le più moderne pompe criogeniche che condensano
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IL VUOTO
i gas su superfici freddissime e poi li eliminano. Tuttavia, per quanto ci si impegni, all’interno del recipiente
nel quale si cerca di creare il vuoto resterebbero sempre alcune decine di migliaia di particelle per centimetro
cubo, poche rispetto ai miliardi di miliardi che affollano lo stesso volume in condizioni normali ma sempre
troppe per considerare vuoto quello spazio.
Per ottenere qualche cosa di meglio ci si dovrebbe trasferire nello spazio, dove il vuoto è molto più spinto di
quello ottenibile in qualsiasi laboratorio terrestre. Anche il vuoto cosmico tuttavia non è del tutto vuoto:
qualche elettrone, qualche atomo o rari granellini di polvere finissima si incontrano anche da quelle parti.
Tuttavia nello spazio interstellare vi è molto poca materia, tanto che per raggranellarne un grammo si
dovrebbe rastrellare uno spazio grande come il nostro pianeta.
Per il nostro esperimento nemmeno lo spazio cosmico andrebbe bene: servirebbe un vuoto assoluto, e uno
spazio con quelle caratteristiche è stato individuato all’interno dell’atomo le cui particelle costitutive
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IL VUOTO
(nucleo ed elettroni che gli girano intorno) sono migliaia di volte più piccole dell’atomo intero: ragione per
cui l’edificio nel suo complesso appare vuoto. Ebbene, proprio nel vuoto presente fra il nucleo centrale e gli
elettroni che si muovono intorno ad esso si vengono a creare particelle virtuali che, come abbiamo detto, è
impossibile vedere direttamente ma i cui effetti sono misurabili sugli elettroni periferici dell’atomo stesso.
L’esperimento venne portato a termine, nell’immediato dopo guerra, utilizzando alcune tecniche di
precisione che furono messe a punto nel corso del secondo conflitto mondiale dal fisico sperimentale Willis
Lamb. Egli misurò piccole variazioni orbitali dell’elettrone dell’atomo di idrogeno le quali venivano poi
confrontate con i calcoli teorici basati sulla elettrodinamica quantistica. Se i calcoli non avessero tenuto conto
della comparsa e della successiva scomparsa di una coppia particella-antiparticella virtuale, ci sarebbe stata
discordanza fra predizioni teoriche e osservazioni sperimentali. Questa discordanza invece non c’era e
l’orbita dell’elettrone calcolata sulla carta si accordava perfettamente con le misurazioni effettuate da Lamb,
a dimostrazione del fatto che le particelle virtuali che affollano il vuoto producono effetti reali sulla materia.
L'interno del tunnel del LHC, il super-acceleratore di particelle del CERN di Ginevra
Una seconda convalida del nuovo modo di concepire il vuoto si ebbe all’interno dei ciclotroni, le macchine
nelle quali vengono accelerate le particelle subatomiche per poi farle scontrare fra di loro. Lanciando gli uni
contro gli altri, elettroni e positoni (cioè materia ed antimateria), l'energia che scaturisce dalla loro
annichilazione è sufficiente per rendere reali le particelle virtuali fluttuanti nel vuoto.
In questo modo venne creato uno dei tre quark esistenti (il charm) con il corrispondente antiquark.
I fisici confidano con queste tecniche di tirare fuori dal vuoto nuove forme di materia ancora sconosciute.
Dal vuoto sarebbe addirittura nato l’Universo intero: non è infatti da escludere che anche il Cosmo si sia
materializzato dal nulla in seguito ad una gigantesca fluttuazione quantistica del vuoto: le leggi della fisica,
come abbiamo visto, non escludono una simile eventualità.
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IL VUOTO
IL VUOTO SECONDO LE TEORIE FISICHE CONTEMPORANEE
Che cos'è il vuoto in senso propriamente scientifico, alla luce delle teorie fisiche più recenti?
La definizione data dai fisici è oltremodo complessa e molto distante da quello che pensa l'uomo della
strada: leggiamo nel sito del C.A.S.T. che il vuoto è "lo stato in cui tutti gli oscillatori quantistici sono sul
livello più basso di energia."
Un profano non riesce neppure a comprendere di cosa si stia parlando.
A tale proposito ritengo opportuno riportare il tecnicissimo articolo di Tullio Regge intitolato Il vuoto dei
fisici pubblicato su l'Astronomia n° 18 settembre-ottobre 1982 e leggibile per intero qui:
http://www.castfvg.it/articoli/fisica/vuoto_01.htm, integrandolo all'occorrenza con altri contributi.
"Cosa intendiamo noi fisici quando parliamo di vuoto?
L'uomo della strada quando sente parlare di vuoto pensa istintivamente ad un recipiente da cui sia stata
evacuata la materia con opportune pompe. Io vorrei portare la discussione su questioni di principio e
mostrare la relazione tra il concetto di vuoto e quello di etere che lo ha preceduto storicamente e dal quale
ha tratto origine."
In fisica l'etere luminifero era l'ipotetico mezzo attraverso il quale, fino al XIX secolo, si pensava si
propagassero le onde elettromagnetiche.
Sebbene il termine e le prime ipotesi sulla sua esistenza e la sua natura risalgano già al XVIII secolo, quando
l'ipotesi più accreditata sulla natura della luce era quella corpuscolare di Newton, è nel secolo successivo,
con l'affermarsi della teoria ondulatoria della luce di Young e Fresnel, che l'esigenza di postulare un mezzo
materiale per la loro propagazione si fa più stringente.
La natura di questo mezzo materiale fu sin dall'inizio fonte di numerosi problemi. Il fatto che le onde
luminose fossero onde trasversali richiedeva un etere solido, invece che liquido o gassoso; l'elevatissima
velocità di propagazione della luce richiedeva una rigidità corrispondentemente elevata per l'etere; il
fenomeno astronomico dell'aberrazione della luce delle stelle indicava che l'etere dovesse restare immobile
su distanze, appunto, astronomiche.
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IL VUOTO
E tuttavia, in apparente contrasto con tutto ciò, non si poteva rivelare alcuna resistenza al moto dei corpi da
poter attribuire all'etere.
La Terra - il sistema solare nel suo complesso - orbita attorno al centro della propria galassia ad una velocità
di 217 km/s. Un vento d'etere con quella velocità avrebbe dunque dovuto investire la Terra in direzione
opposta al proprio moto di rivoluzione galattica. Il moto del sistema solare nella galassia non era ben noto
nel XIX secolo, ma era noto il moto di rotazione intorno al proprio asse, dato che si conosceva con precisione
il diametro terrestre: il suo effetto sarebbe stato un vento d'etere variabile con la latitudine, con un picco di
460 m/s all'equatore. Inoltre era noto il moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole, alla velocità di circa
30 km/s.
Nel 1887, Michelson e Morley hanno fornito quello che, a posteriori, viene dai più considerato come
l'esperimento cruciale sulla questione. In realtà non esistevano modelli alternativi capaci di inquadrare
coerentemente i dati sperimentali e il risultato venne interpretato semplicemente come la prova dell'assenza
di vento d'etere, da spiegare con eventuali altri meccanismi come ad esempio il trascinamento vicino alla
superficie terrestre di un etere non più pensato fisso nello spazio.
Bisognerà aspettare i primi anni del nuovo secolo quando Hendrik Lorentz e Henri Poincaré proporranno le
loro teorie ed Albert Einstein pubblicherà la sua derivazione da principi primi, poi diventata famosa come
teoria della relatività ristretta, in cui si fa completamente a meno di qualsiasi ipotesi sull'etere, sebbene a
tutt'oggi il termine sia utilizzato nel linguaggio comune per indicare in maniera generalista la trasmissione
di dati senza cavo, emissioni radio televisive comprese.
Albert Einstein
"Secondo molti testi di fisica - prosegue Tullio Regge - l'avvento della relatività avrebbe cancellato il
concetto di etere dalla fisica. Einstein cambiò più volte opinione su questo soggetto. In qualche modo i fisici
teorici sono d'accordo sul concepire il vuoto come un etere dotato di proprietà molto particolari.
Torniamo al recipiente da cui viene pompata via l'aria. Così facendo diminuiamo la quantità di materia,
quindi la massa contenuta nel recipiente. Dunque, se pensiamo alla famosa relazione E = Mc2, che esprime
l'equivalenza tra massa M ed energia E, dove c è la velocità della luce, stiamo anche diminuendo l'energia.
Sotto questo punto di vista il vuoto appare come la configurazione di energia minima.
Per ottenere veramente il vuoto dobbiamo quindi togliere tutta l'energia, sotto qualunque forma essa
appaia.
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IL VUOTO
Anche la luce possiede energia: gli "atomi" di luce, i fotoni, si comportano come delle particelle dotate di
energia secondo la formula di Planck E = h . Se vogliamo davvero un vuoto debbono sparire anche i fotoni.
Il vuoto deve essere anche un "buio".
Lo stato di energia minima di un sistema qualsiasi dicesi stato fondamentale. Il vuoto è dunque lo stato
fondamentale dell'interno del recipiente. I fisici teorici usano un vuoto ancora più estremo, quello in cui il
recipiente è tutto l'universo, uno "stato" dunque in cui neppure noi abbiamo il diritto di esistere.
Tutti i sistemi meccanici possiedono uno stato fondamentale. Un pendolo classico lo raggiunge nella
posizione verticale di riposo. In questo caso avrebbe energia cinetica nulla e quella potenziale minima.
Un pendolo classico
(A = accelerazione, V = velocità)
Diversa è la situazione per un pendolo quantistico. A causa del principio di indeterminazione di
Heisenberg non è possibile attribuire simultaneamente una posizione ed una velocità precisa al pendolo. Lo
stato fondamentale sopra descritto non è più accettabile. Ne subentra uno in cui sia la posizione sia la
velocità del pendolo sono diverse da zero."
Un caso di rilevante interesse viene poi dalla teoria di Hawkins del buco nero.
Un buco nero è una configurazione limite della materia in cui la forza gravitazionale predomina su tutte le
altre e conduce ad una soluzione del campo einsteiniano il cui raggio vale circa R=2MG/c2. In questa formula
G è la costante di gravitazione universale di Newton e abbiamo G/c2 = 0,74 * 10-28 cm/g.
Un buco nero ha dunque un raggio proporzionale alla sua massa. La Terra formerebbe un buco nero del
diametro di pochi centimetri. Un buco nero può accelerare una qualunque particella a velocità prossime a
quella della luce entro il suo raggio e in un tempo circa uguale a R/c. L'accelerazione di gravità indotta dal
buco nero cresce con il diminuire della sua massa.
Una coppia virtuale nelle vicinanze del buco nero diventa reale se almeno una delle sue componenti può
essere inghiottita dal buco in un tempo più breve del valore limite h/2mc2 tipico della coppia (con M
indichiamo la massa del buco nero, con m la massa delle componenti della coppia).
Questo impone che MG/c3 sia molto minore di h/mc2. Più la particella è pesante, minore deve essere la massa
del buco nero. Si tratta dunque di una situazione instabile. Un buco nero può sempre emettere fotoni,
poiché questi hanno massa nulla. Così facendo perde energia e quindi massa, fino al punto in cui può
emettere elettroni, indi mesoni, protoni e così via.
Secondo i calcoli la fine del buco nero è catastrofica, le ultime tonnellate di massa vengono emesse in una
frazione di secondo sotto forma di particelle ad alta energia. Vediamo dunque che campi sufficientemente
intensi possono rivelare la struttura del vuoto e le sue fluttuazioni.
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IL VUOTO
La galassia Sombrero, che secondo gli scienziati contiene al suo interno un enorme buco nero
Veniamo ora ad un altro argomento molto importante, quello delle simmetrie del vuoto.
In generale un sistema fisico possiede uno stato fondamentale di elevata simmetria. Un pendolo oscilla
attorno alla configurazione verticale, l'atomo di idrogeno mostra una simmetria sferica, una membrana
vibrante nel tono più basso non ha né nodi né ventri che potrebbero diminuire la simmetria.
Non a caso dunque il vuoto globale, quello dei fisici teorici, mostra tutta la simmetria possibile. Se noi
ruotiamo o trasliamo questo vuoto, esso non cambia. Ma anche muovendoci di moto uniforme rispetto ad
esso, agendo cioè con delle trasformazioni di Lorentz, il vuoto rimane immutato.
Nella maggioranza delle teorie fisiche proposte finora il vuoto è appunto distinto da queste proprietà. E si
potrebbe anche dire che in fondo non è assolutamente possibile distinguere un etere invariante sotto tutte le
operazioni sopra descritte da un vuoto vero e proprio; la distinzione diventa semantica. La vecchia polemica
pro o contro l'etere originava da una concezione troppo ristretta di etere, come fluido dotato di proprietà
simili ai fluidi materiali conosciuti. Di qui la polemica sul "vento d'etere".
Per quanto detto, il vuoto parrebbe essere lo stato di massima simmetria di un sistema. L'esistenza delle
cosiddette "rotture spontanee" di simmetria pone dei limiti a questa caratterizzazione.
Cercherò di spiegare di cosa si tratta ricorrendo a modelli classici molto semplici.
Un oscillatore classico a due dimensioni può immaginarsi come una pallina appesa ad un filo oppure come
una biglia posata entro una buca di potenziale a forma di coppa semisferica. In questo caso la posizione di
energia minima è anche quella di massima simmetria; possiamo ruotare infatti la configurazione attorno ad
un asse verticale senza che essa cambi. Le oscillazioni della pallina non sono simmetriche ma l'insieme di
tutte le oscillazioni possibili è simmetrico.
Invece di una coppa semisferica, consideriamo il fondo di un bottiglione oppure un catino che poggi sul
tavolo lungo tutta una circonferenza. Il punto centrale diventa una posizione di equilibrio instabile, il
minimo viene invece raggiunto lungo la circonferenza di contatto. Tutte le posizioni minime della pallina
sono dei "vuoti" possibili, nessuno dei vuoti è simmetrico ma l'insieme globale lo è. Si parla in questi casi
di rottura spontanea della simmetria.
Si veda l'immagine sottostante:
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IL VUOTO
Nel caso (a) la pallina si adagerà al centro, e quindi il suo stato fondamentale è ancora simmetrico. Nel caso
(b), se poniamo la pallina al centro, vediamo che rotolerà via e sarà costretta a scegliere un punto lontano dal
centro: la simmetria è rotta.
La rottura è stata spontanea, poiché la particella ha dovuto scegliere una certa direzione per poter
raggiungere lo stato fondamentale. Ma la simmetria è ancora presente; muovendo la palla lungo
l'avvallamento si resta nello stato fondamentale.
Le piccole oscillazioni intorno a uno di questi diversi vuoti non vedono la simmetria completa del recipiente,
quelle più energetiche invece esplorano tutto il catino e si accorgono che ha simmetria circolare.
Nella teoria di Weinberg-Salam viene introdotta una struttura di campo simile al catino da me descritto, il
vuoto non risulta simmetrico e così pure le piccole oscillazioni attorno al vuoto, ossia le particelle elementari
descritte dalla teoria.
Solo nelle collisioni ad altissime energie è possibile vedere, in regioni ristrette dello spazio e per brevissimi
istanti, tutta la splendida simmetria della teoria.
E' possibile immaginare teorie in cui esistono configurazioni simili al vuoto ma che raggiungono solamente
dei minimi relativi di energia. Una particella che sia costretta a viaggiare in una buca di potenziale con molti
minimi e massimi potrebbe possedere molti tipi diversi di vuoti relativi. Classicamente sarebbe molto
difficile distinguere tra un vuoto e l'altro. Se non diamo una spinta sufficiente, una pallina contenuta entro
una buca non va ad esplorare altri minimi di sua spontanea volontà. Quantisticamente invece una
fluttuazione potrebbe indurre una transizione (detta effetto tunnel) tra un minimo e un altro minimo più
basso. I vuoti relativi sarebbero instabili.
Se tuttavia la vita media per una transizione del genere risulta lunghissima, un vuoto relativo può apparire
assoluto ad una osservazione incompleta. Le particelle elementari sono le piccole oscillazioni attorno al
vuoto; se questo cambia cambiano pure le particelle che vengono osservate.
E' dunque il vuoto che determina le proprietà della materia, noi stessi siamo delle piccole fluttuazioni
attorno al vuoto consueto. Ed in fondo lo chiamiamo "vuoto" proprio perché siamo delle piccole oscillazioni
attorno a questo vuoto. Una zona di spazio che venga ad essere occupata da un altro tipo di vuoto ci
apparirebbe pienissima. Inversamente, degli esseri nati dalle eccitazioni attorno a questo vuoto penserebbero
a noi come a delle oscillazioni di un fluido estremamente denso.
Esistono altri vuoti?
E' il nostro veramente lo stato di minima energia?
La risposta a questa domanda è probabilmente affermativa; se esistesse un supervuoto più basso del nostro
potremmo correre dei rischi molto seri giocando con gli atomi. Una volta iniziata, la transizione potrebbe
propagarsi alla velocità della luce facendo scomparire noi e tutte le cose conosciute per instaurare un nuovo
tipo di materia totalmente diverso da quello attuale.
E' molto improbabile che questo avvenga: infatti i raggi cosmici continuano a bombardare tutta la materia
dell'universo da miliardi di anni senza che si siano verificati casi del genere nonostante essi raggiungano
energie miliardi di volte più elevate di quelle dei nostri acceleratori. Niente paura dunque.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Una stupefacente immagine dello "spazio vuoto"
Esiste un divertente esempio di vuoto relativo rispetto al nostro. Raffreddando l'elio liquido otteniamo un
superfluido. Se si potesse arrivare allo zero assoluto otterremmo un vuoto relativo. Allo zero assoluto l'elio
contenuto in un recipiente forma un singolo stato quantico che rappresenta un minimo relativo di energia. Se
potessimo aspettare oltre 1040 anni i nuclei di elio finirebbero per fondersi in nuclei più pesanti e formare ad
esempio del ferro. L'elio liquido è dunque metastabile (si ricordi che in fisica la metastabilità è una
condizione di equilibrio che, a differenza dell'equilibrio stabile, non corrisponde ad un minimo assoluto di
energia. Un sistema in equilibrio metastabile si mantiene in condizione di equilibrio (meta)stabile nel tempo,
fintanto che non viene fornito al sistema un quantitativo sufficiente di energia che ne perturba il suddetto
equilibrio: se l'energia fornita è sufficiente allora questa spezza la condizione di stabilità del sistema
conducendolo in un'altra condizione di equilibrio (meta)stabile).
Attorno a questo minimo il sistema può effettuare delle oscillazioni che consistono essenzialmente di
onde sonore propagantesi attraverso il fluido. Queste onde sono quantizzate, i loro quanti si chiamano
fononi. Dunque questo tipo di vuoto ha le sue particelle. I fononi possono aggregarsi in strutture più
complicate, delle rozze molecole fononiche.
L'elio liquido non mostra la spettacolare varietà di particelle che caratterizzano il nostro vuoto e che rendono
possibile l'esistenza di complesse strutture organiche e della vita. Se così fosse, esisterebbero degli esseri
viventi che considerano l'elio liquido come assolutamente vuoto ed i fononi come una forma di materia. Per
essi la materia ordinaria sarebbe inconcepibile o perlomeno il frutto fantasioso di speculazioni teoriche quali
appunto quelle che stiamo facendo. Le pareti del recipiente sarebbero una barriera insormontabile: come
potrebbe il suono uscire fuori dal fluido in cui si propaga?
Allo stesso modo un altro vuoto potrebbe essere presente in questo universo al di là di qualche barriera
non ancora incontrata. Alcuni fisici hanno discusso possibilità del genere (tra di essi Coleman) e l'idea che il
nostro vuoto sia in qualche modo metastabile. Tutti vorremmo che il nostro vuoto fosse assoluto, il miglior
vuoto esistente e che gli altri fossero metastabili come l'elio liquido.
Dovrebbe essere chiaro dalla discussione che il particolare minimo dell'energia attorno a cui viviamo ci
sembra vuoto nel senso usuale della parola, proprio perché noi siamo delle oscillazioni attorno a questo
stato. Diamo quindi ad esso un significato particolare perché in fondo la densità media della materia è
bassissima.
In realtà il vuoto potrebbe essere relativo, oltre che fluttuante, e poco simmetrico e meno ancora elementare.
Diamoci quindi da fare a studiare il vuoto: ci attendono delle sorprese.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
EPICURO: IL VUOTO COME NEGAZIONE DEL FINALISMO
I primi atomisti, com'è noto, sono Leucippo ed il suo allievo Democrito, con i quali l'atomismo di Epicuro
non può evidentemente non fare i conti, sebbene egli neghi (poco credibilmente) ogni dipendenza dai due
pensatori ed ammetta un debito soltanto nei confronti di Anassagora e dei suoi σπέρματα ("semi").
E' interessante confrontare la concezione del vuoto di Democrito (a noi meglio noto di Leucippo) e di
Epicuro.
Democrito chiama il pieno "essere" e il vuoto "non essere". Questo potrebbe sembrare strano: se il vuoto
esiste, se lo spazio è reale, perché Democrito lo chiama "non essere"?
Come chiarisce Gabriele Giannantoni, "lo chiama "non essere" perché è "privo di essere", cioè privo di
atomi, tant'è vero che lui usa una formula che è caratteristica, che in italiano non è facilmente traducibile:
"l'ente non esiste a maggior ragione del niente", cioè l'affermazione non esiste a maggior ragione della
negazione.
Questo modo di esprimersi, questo modo di presentare le cose sul piano linguistico, non può non richiamare
Parmenide e l'eleatismo: la contrapposizione di essere e di non essere era tipica dell'eleatismo. Democrito in
qualche modo la riprende, ma sempre tenendo fermo il principio costante dei pluralisti che la caratteristica
dell'essere è quella di rimanere eternamente identico a se stesso, mentre tutto ciò che diviene, che nasce, che
muore e si trasforma è soltanto mera opinione.
Democrito dice che gli atomi esistono eternamente identici a se stessi e quindi sono l'"essere". Il vuoto,
che consente il movimento degli atomi e quindi dà luogo al divenire, al nascere, al morire e al trasformarsi,
Democrito lo considera altrettanto reale dell'"essere": linguisticamente lo designa con il termine che la
tradizione eleatica ci ha trasmesso, cioè quello di "non essere". Quindi, da questo punto di vista, il rapporto
tra l'atomismo e l'eleatismo è forse più consistente e anche più sicuramente accertabile che non quello dei
rapporti tra l'atomismo e la matematica e la scienza greca.
Raffaello, dettaglio dalla Scuola di Atene (Stanze Vaticane), 1509-10.
L'identificazione dei 13 personaggi è oltremodo malsicura: l'unica certezza è che il numero 8 sia Pitagora.
Secondo lo Starke Epicuro è il numero 3 e Democrito il numero 12;
secondo il Passavant il numero 3 è invece Democrito, il 12 è Eraclito ed Epicuro non c'è.
Epicuro riprende l'ipotesi atomistica di Democrito e introduce due elementi di novità sostanziale: il primo
- più congetturale - è quello del peso degli atomi, che spiegherebbe la causa per cui cadono dall'alto verso il
basso. Questo aspetto, però, poneva anche un altro problema: se gli atomi pesano e cadono tutti
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
verticalmente non si incontrano mai, e allora come si formano le aggregazioni? A questa obiezione o a questo
inconveniente doveva far fronte la cosiddetta "teoria della declinazione", cioè quello che Lucrezio chiama il
"clinamen". Questa teoria non è documentata direttamente nei testi che noi possediamo di Epicuro, ma nella
versione lucreziana questa teoria è chiaramente espressa e consiste sostanzialmente nel fatto che nelle loro
traiettorie verticali gli atomi a un certo momento indeterminato compiono dei salti ed in questo modo si
intercettano altre traiettorie e così si formano i composti atomici.
Come mai si verifica questo "clinamen", questa declinazione degli atomi? Qui i testi epicurei non ci
soccorrono, si può pensare che sia una declinazione spontanea, casuale, ma quello che è certo è che Epicuro e
l'epicureismo legavano a questa dottrina del "clinamen" la possibilità di ammettere la libertà dell'uomo,
perché se tutto fosse stato predeterminato da traiettorie immutabili, l'uomo non avrebbe avuto nessuna
libertà di scelta e di azione. Epicuro, che si preoccupava di liberare l'umanità dalla superstizione e dalle
paure degli dei, arriva a dire che sarebbe meglio credere negli dei e nei timori conseguenti, piuttosto che
rassegnarsi all'idea che tutto è determinato e che non c'è nessuna libertà per l'uomo."
Il vuoto ha comunque per Epicuro una enorme rilevanza ideologica, dal momento che è il presupposto che
gli consente di ripudiare qualsiasi teleologismo ontico, ovvero la convinzione che tutto quanto esiste esista
per uno scopo o sia voluto da una Mente divina.
Seguiamo, per quanto possibile, il ragionamento, attraverso il contributo di un articolo di Vittorio Morfino
(Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. Un lessico, pubblicato in "Quaderni materialisti", n. 1, 2002).
Riporto anzitutto i brani della Epistola ad Erodoto in cui Epicuro parla della costituzione dell'universo:
Πρῶτον μὲν οὐδὲν γίνεται ἐκ τοῦ μὴ ὄντος. Πᾶν γὰρ ἐκ παντὸς ἐγίνετ' ἂν σπερμάτων γε οὐθὲν
προσδεόμενον. Καὶ εἰ ἐφθείρετο δὲ τὸ ἀφανιζόμενον εἰς τὸ μὴ ὄν, πάντα ἂν ἀπωλώλει τὰ πράγματα,
οὐκ ὄντων τῶν εἰς ἃ διελύετο. Καὶ μὴν καὶ τὸ πᾶν ἀεὶ τοιοῦτον ἦν οἷον νῦν ἐστι, καὶ ἀεὶ τοιοῦτον ἔσται.
οὐθὲν γάρ ἐστιν εἰς ὃ μεταβαλεῖ. παρὰ γὰρ τὸ πᾶν οὐθέν ἐστιν ὃ ἂν εἰσελθὸν εἰς αὐτὸ τὴν μεταβολὴν
ποιήσαιτο.
Ἀλλὰ μὴν καὶ τὸ πᾶν ἐστι σώματα καὶ κενόν· σώματα μὲν γὰρ ὡς ἔστιν, αὐτὴ ἡ αἴσθησις ἐπὶ πάντων
μαρτυρεῖ, καθ' ἣν ἀναγκαῖον τὸ ἄδηλον τῷ λογισμῷ τεκμαίρεσθαι, ὥσπερ προεῖπον τὸ πρόσθεν· εἰ δὲ
μὴ ἦν ὃ κενὸν καὶ χώραν καὶ ἀναφῆ φύσιν ὀνομάζομεν, οὐκ ἂν εἶχε τὰ σώματα ὅπου ἦν οὐδὲ δι' οὗ
ἐκινεῖτο, καθάπερ φαίνεται κινούμενα.
Prima di tutto nulla nasce dal nulla; perché qualsiasi cosa nascerebbe da qualsiasi cosa, senza aver bisogno di semi
generatori; e se ciò che scompare avesse fine nel nulla tutto sarebbe già distrutto, non esistendo piú ciò in cui si è
dissolto.
Inoltre il tutto sempre fu come è ora, e sempre sarà, poiché nulla esiste in cui possa tramutarsi, né oltre il tutto vi è
nulla che penetrandovi possa produrre mutazione.
E inoltre il tutto è costituito di corpi e di vuoto. Che i corpi esistano infatti lo attesta di per sé in ogni occasione la
sensazione in base alla quale bisogna, con la ragione, giudicare di ciò che sotto i sensi non cade, come abbiamo detto
prima; se poi non esistesse ciò che noi chiamiamo vuoto o luogo o natura intattile, i corpi non avrebbero né dove stare né
dove muoversi, come vediamo che si muovono.
(Epistola a Erodoto, 39-40, in Epicuro, Opere, Einaudi, Torino, 1970, pagg. 22-23)
Scrive Morfino, riprendendo Althusser: "Il vuoto è in Epicuro come il concetto che permette di pensare la
caduta a pioggia degli atomi ed il nulla prende la figura del clinamen, quella "deviazione infinitesimale, 'la
più piccola possibile', che ha luogo 'non si sa dove né quando, né come' e fa sì che un atomo 'devii' dalla sua
caduta a picco nel vuoto e, spezzando in maniera quasi nulla il parallelismo su un punto, provochi un
incontro con l'atomo vicino e di incontro in incontro una carambola e la nascita di un mondo, vale a dire
dell'aggregato di atomi provocato in catena dalla prima deviazione e dal primo incontro".
Ciò fa sì che Epicuro, secondo la lettura di Althusser, pensi il mondo come effetto di un nulla prima di cui
non c'era che il vuoto nel quale cadevano atomi parallelamente: "Epicuro ci spiega che prima della
formazione del mondo un'infinità di atomi cadevano parallelamente nel vuoto. Essi cadono sempre. Il che
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
implica che prima del mondo non c'era nulla e, nello stesso tempo, che tutti gli elementi del mondo
esistevano dall'eternità prima che vi fosse alcun mondo.
Il che implica anche che prima della formazione del mondo non esisteva alcun Senso, né Causa, né Fine, né
Ragione né follia.
La non anteriorità del Senso è una tesi fondamentale di Epicuro, con la quale egli si oppone tanto a Platone
quanto ad Aristotele".
Epicuro
Non c'è senso prima del mondo, nel vuoto, e non c'è senso nemmeno nella genesi, in quella deviazione
infinitesimale, che si approssima al nulla, che è stata interpretata e, secondo Althusser, fraintesa come la
fondazione ontologica della libertà umana nel mondo della necessità."
Circa la dipendenza di Epicuro dalla dottrina atomistica di Anassagora, occorre precisare che essa, per
quanto ammessa dal filosofo stesso, è solo parziale, per i motivi che cercherò di chiarire.
Anassagora, in un certo senso, rappresenta il ponte tra la vecchia speculazione filosofica e la nuova, tra
l’idea di un’omogeneità e un’unità del tutto di stampo parmenideo (fr. 17: “…niente nasce né perisce, ma da
ciò che esiste si riunisce e si separa”) e il pluralismo di Empedocle come degli atomisti.
Per Anassagora l’essere non è immobile né privo di determinazioni, ma è una totalità che originariamente
prende avvio da una mescolanza (migma) in cui si trovano i princìpi, un numero infinito di semi
(σπέρματα), di particelle qualitative infinitamente divisibili che, proprio attraverso la loro combinazione,
la loro unione, costituiscono le cose. Il nome di omeomerìe con cui si definirono queste particelle similari,
parti omogenee, deriva dalla definizione di Aristotele (in De generatione I, 1, 314 a 18).
A differenza di quello leucippeo e democriteo, il pluralismo ontologico anassagoreo non prevede elementi
neutri, gli atomi, che acquistano qualità evidenti e percepibili solo nei loro aggregati: per Anassagora gli
elementi primi ed ultimi di ogni genere di cose reali sono già “qualificati”, in quanto semi delle cose stesse.
La nascita è una riunione, una mescolanza di queste parti, la morte una separazione, una disgregazione delle
stesse.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Eduard Lebiedzki, Anassagora, circa 1888
“In ogni (cosa) c’è una particella di ogni (cosa)” (fr. 11), il tutto è in tutto, ossia in ciascun elemento si
rinvengono le frazioni minutissime delle parti omogenee di altri futuri elementi che si generano dal primo,
come afferma anche Lucrezio in De rerum natura I 830-837, un brano dedicato appunto ad Anassagora:
Principio, rerum quam dicit homoeomerian,
ossa videlicet e pauxillis atque minutis
ossibus hic et de pauxillis atque minutis
visceribus viscus gigni sanguenque creari
sanguinis inter se multis coeuntibus guttis
ex aurique putat micis consistere posse
aurum et de terris terram concrescere parvis,
ignibus ex ignis, umorem umoribus esse.
Dapprima, quando egli parla di omeomerie delle cose,
è evidente che ritiene che le ossa derivino da particelle minute
di ossa, e da particelle minute
di viscere nascono le viscere, e che il sangue è formato
da gocce di sangue tra di loro molto coese
e che da scaglie auree possa consistere
l’oro, e la terra concresca da piccole parti di terra,
e il fuoco dal fuoco, l’umore acqueo dall’umore.
In effetti l'atomismo epicureo diverge sostanzialmente da quello leucippeo-democriteo proprio
nell'identificazione di una qualità nativa per gli atomi: concetto desunto, come si vede, da Anassagora.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Epicuro si differenzia però da tutti i suoi predecessori, incluso Anassagora, nella già citata attribuzione agli
atomi di un peso e nel ritenere che essi siano sì divisibili, ma non all'infinito: se infatti fossero divisibili
all'infinito, si ridurrebbero a zero, cioè al nulla; il che non è possibile, perché "nulla nasce dal nulla e nulla
ritorna nel nulla".
Dove però l'atomismo epicureo è in radicale contrasto con quello anassagoreo è proprio nella concezione
del vuoto: esso infatti per Epicuro, come s'è visto, è ciò che consente di eliminare ogni principio di causalità,
mentre Anassagora "riempie" il vuoto con una Mente divina che è la causa di tutto.
La suprema organizzazione di questa mescolanza è infatti opera dell’Intelletto o Nous, l’autocrate che non si
mischia alle altre cose, essendo esso la materia più leggera e più sottile dotata di conoscenza e di forza di
movimento.
Con questo Anassagora introduce all’interno della sua dottrina sulla natura un principio finalistico (cfr. fr.
12, 13, 14), il che vanifica completamente il significato stesso della fisica atomistica per Epicuro, il motivo
fondamentale per cui egli postula, alla base di tutto, l'esistenza del vuoto.
Da questo punto di vista egli è costretto ad operare una drastica correzione di rotta rispetto al predecessore,
risultando quindi, come si diceva, solo parzialmente debitore nei suoi confronti.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
IL VUOTO IN HEGEL
Sull'argomento spazio-tempo, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel scrive molti meno
enunciati di Kant, per la semplice ragione che non si pone il compito di usare quelle due categorie per
dimostrare qualcosa di trascendentale per il soggetto.
Spazio e tempo sono tali in sé, a prescindere dalla percezione che ne può avere il soggetto. Anche perché,
se esse vengono viste sul piano meramente soggettivo-trascendentale, restano soltanto due mere astrazioni,
prive di vero significato. Viceversa, spazio e tempo devono servire per costituire la materia, spiegandone il
movimento. Sono due modi di vedere le cose, l'hegeliano e il kantiano, completamente diversi.
Delle due astrazioni, quella dello spazio - al dire dell'oggettivista Hegel - è la più immediata, cioè la meno
significativa. Invece per Kant non vi è differenza sostanziale tra spazio e tempo, anche se, dovendo scegliere
a chi concedere un "primato d'onore", avrebbe preferito lo spazio, essendo egli partito da studi scientifici
(matematica, fisica, astronomia).
Il fatto è che lo spazio "metafisico" (cioè quello oltre la propria visibile fisicità) di cui parla Hegel non è
vuoto (come quello kantiano), ma semplicemente assente, sicché il tempo ne è per forza una negazione
positiva, che lo rende qualcosa.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
Hegel non riesce a concepire che si possa immaginare uno spazio senza oggetti (come faceva Kant): uno
spazio o non è (nella propria astrattezza o indeterminatezza) oppure è, ma in questo secondo caso un
semplice punto lo riempie e quindi ne contraddice la vuotezza, dopodiché la trasformazione del punto in
linea è tutta "questione di tempo". Da notare comunque che anche per Hegel, come per Kant, lo spazio
infinito non è un attributo specifico della divinità, ma semplicemente della natura.
Che caratteristiche abbia questa "natura" non è però dato sapere, poiché se lo spazio è "l'universalità astratta
della sua esteriorità... priva di mediazione" (p. 229), e ci si vuole azzardare in ulteriori definizioni di questo
livello, inevitabilmente si finisce nelle braccia del misticismo. Non è possibile infatti parlare di "natura" e
insieme di uno "spazio" che non la contenga.
Hegel è consapevole del rischio, anche perché nella sua metafisica la filosofia della natura è soltanto un
aspetto della filosofia dello spirito, sicché la natura non viene pensata in maniera propriamente "fisica", bensì
"metafisica". La natura è un sottoprodotto dello spirito, il quale, a sua volta, è una forma laicizzata della
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
divinità. Poste le cose in questi termini, può diventare fattibile che possa esistere una "natura" il cui spazio le
sia "esterno" e "vuoto". Tuttavia Hegel si guarda bene dallo spiegare come il passaggio da uno spazio vuoto a
uno pieno sia potuto avvenire (in nessun luogo parla di "creazione" alla maniera ebraico-cristiana). Nella sua
trattazione non è neppur dato sapere se sia lo spazio a precedere la natura o viceversa: nel primo caso
infatti lo spazio avrebbe bisogno del tempo, mentre nel secondo si rischia il misticismo. Si ha dunque
l'impressione che per lui "natura" voglia proprio dire spazio e tempo indifferenziati, destinati a diventare
qualcosa per un impulso interno alla natura stessa.
Immanuel Kant
Quel che è certo, nella sua trattazione, è che se si vuole ragionare davvero in termini "metafisici",
considerando la natura nella sua astrattezza, è impossibile pensare lo spazio come sua "prima"
determinazione e il tempo come sua "seconda". Spazio e tempo paiono essere un unicum inscindibile, solo
in virtù del quale esiste il cosiddetto "fenomeno". Il "prima" e il "dopo" sono soltanto una convenzione
astratta, una semplice congettura per poter far partire l'argomentazione, ma sul piano trascendentale è
impossibile immaginare l'esistenza dell'uno senza l'altro.
Tant'è che lo stesso Hegel, pur non avendo difficoltà ad ammettere, sulla scia di Kant, che lo spazio e il
tempo possano essere oggetto di "intuizione sensibile", per non cadere nell'idealismo soggettivo, decide di
fare una precisazione che difficilmente Kant avrebbe condiviso.
Per Kant infatti lo spazio e il tempo esistono solo in quanto esiste un soggetto in grado di percepirli. Tutti
gli oggetti, incluse le condizioni perché essi siano, dipendono dal soggetto, altrimenti questi non avrebbe
alcuna possibilità di conoscerli. Su questo primato assoluto del soggetto che pensa, per lui fondamentale,
Kant non aveva dubbi di sorta.
Hegel invece è più sfumato, meno drastico, tant'è che afferma che, se è vero che lo spazio è "una mera forma,
cioè un'astrazione, quella della esteriorità immediata" (p. 230), è anche vero che tale astrazione non può esser
in alcun modo rappresentata, ma soltanto pensata come possibilità. Un qualunque "punto" si usi per definire lo
spazio, eo ipso lo nega.
Insomma si ha la sensazione che lo spazio hegeliano sia ancora più metafisico di quello kantiano, proprio
perché Hegel non vuole avvalersi di altra dimostrazione che dell'idea stessa di "spazio". "Lo spazio è pura
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
quantità" (p. 230), in cui tutto resta indifferenziato: una sorta di "continuo" illimitato e, per natura,
indefinibile. "La natura perciò comincia non col qualitativo ma col quantitativo" (ib.), cioè inizia con qualcosa
che "non è" e "deve diventare" (nel senso che "non può non diventare", poiché la scissione, il diventare altro
da sé, è intrinseco all'essere). Essere e Non-essere coincidono - Hegel lo ha sempre detto. Una qualunque
"dimostrazione" di ciò che non è, è semplicemente impossibile, almeno finché il Non-essere non diventa
qualcosa.
L'unica cosa che il soggetto può fare è di prendere atto di uno spazio che si è già negato e, negandosi, ha
prodotto la natura, che è lo spirito che si nega, e in questa negazione lo spazio e il tempo prendono
progressivamente forma, smettono di essere un'astrazione e cominciano a riempire di contenuto la natura,
anzi si fanno essi stessi "natura".
Lo spazio quindi non ha, prima di ogni cosa, una propria determinazione sul piano logico, come vuole Kant,
che per dimostrarlo si serve della geometria, ma al massimo ne ha una sul piano metafisico, in forma però
"immediata ed esteriore" (p. 230), la quale può soltanto essere supposta prima che essa diventi "mediata"
come natura.
Jakob Schlesinger, Ritratto di Hegel, 1831
In tal senso Hegel si sente autorizzato ad ammettere che tra spazio e tempo non vi sono differenze
sostanziali. Se ci si attiene alla astratta immediatezza, in cui l'io è semplicemente uguale a se stesso, spazio e
tempo si equivalgono, poiché è solo nel loro estrinsecarsi che si distinguono. Per un dialettico come lui
sarebbe stato impensabile non supporre che spazio e tempo nella sostanza coincidono perfettamente.
Anche da queste semplici osservazioni, preliminari a tutto il più generale discorso su spazio e tempo, si
comprende facilmente come l'idealismo hegeliano si ponga a un livello più evoluto di quello kantiano, il
quale al massimo mirava a rifondare i criteri della conoscenza in un soggetto che non aveva più bisogno di
dirsi "cristiano". Hegel invece lascia chiaramente intendere che tutti i contenuti dogmatici della teologia
vanno riformulati in chiave filosofica, in quanto la logica, la metafisica razionale (la quale non dà per
scontata la verità dei propri contenuti), è l'unico modo per arrivare all'assoluto.
Hegel contesta a Kant la pretesa d'aver voluto dimostrare l'oggettività dello spazio dalle sue tre dimensioni
rilevabili sul piano geometrico. Questo perché la geometria - fa notare Hegel - non è affatto una scienza
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
filosofica, dovendo essa supporre lo spazio per poter sussistere, mentre sul piano trascendentale si deve
poter dimostrare lo spazio supponendo soltanto se stesso.
Questo a prescindere dal fatto che gli stessi concetti di altezza larghezza profondità sono del tutto relativi.
L'altezza per esempio ce la immaginiamo non in sé, ma "nella direzione verso il punto centrale della terra"
(p. 231), e i concetti di lunghezza e larghezza si potrebbero confondere nello spazio con quello di profondità.
La geometria - lascia capire Hegel - è soltanto uno sforzo di rappresentazione matematica dello spazio, ma è
lontanissima dal poterlo definire in maniera metafisica. Le tre fondamentali dimensioni dello spazio,
immediatamente, nella indifferenza del concetto di spazio, sono "del tutto indeterminate" (p. 230). E quando
si cerca di determinarle, il soggetto ha di fronte a sé non lo spazio ma il punto, che è la sua negazione. E'
escluso quindi che il soggetto possa avere una intuizione o una percezione pura di ciò che non è (o che è solo
indeterminato nella sua immediatezza). Il soggetto può avere una percezione adeguata solo del punto, che è
la prima negazione dello spazio. E, a sua volta, il punto che nega se stesso, produce la linea (la sua antitesi), i
quali punto e linea possono trovare la loro compiuta sintesi nella figura geometrica, che rappresenta una
delimitazione fisica di spazio.
La superficie chiusa è il superamento della negazione dello spazio. E la prima figura rettilinea, che a tutte le
altre permette di esistere, è il triangolo. E' strano che Hegel non dica che la figura più perfetta è il cerchio, il
cui rapporto tra circonferenza e diametro esprime una grandezza irrazionale. E' vero che dai tre vertici di un
triangolo si può disegnare un cerchio, ma è anche vero che, dato un cerchio, è possibile disegnare al suo
interno qualunque figura piana i cui vertici tocchino la circonferenza (se poi il cerchio è una sfera si parla di
qualunque figura solida). E' geometrico che su una superficie piana possa passare, tra due punti, solo una
linea retta, ma è anche possibile costruirvi un cerchio. Peraltro a livello tridimensionale le linee curve che
passano tra due punti sono praticamente illimitate, anche in considerazione del fatto che i punti nello spazio
tenderebbero continuamente a muoversi e non necessariamente nella stessa direzione, o non nello stesso
momento e neppure avrebbero la stessa forza centrifuga e centripeta. Anzi, nell'universo, a causa della forza
gravitazionale, è più facile vedere cerchi ed ellissi che linee rette.
La linea retta - per usare un linguaggio hegeliano - è l'immediatezza che va mediata dall'attrazione reciproca
dei corpi celesti. Nello spazio l'assenza di gravità, che potrebbe permettere una traiettoria rettilinea infinita,
si scontra col fatto che esiste appunto la legge della gravitazione universale.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
BUCHI NERI, SUPERNOVAE, NANE BIANCHE E STELLE DI NEUTRONI
I buchi neri sono dei corpi estremamente compatti, derivati dal collasso gravitazionale di una stella,
circondati da un campo gravitazionale così intenso da non lasciare sfuggire nemmeno le radiazioni.
Si ipotizza l'esistenza di:
mini-buchi neri, oggetti di massa ridotta formatisi alle origini dell'Universo;
buchi neri stellari, che si formano dai nuclei di stelle molto grandi esplose come supernovae;
buchi neri massicci, generati dalla fusione di più buchi neri stellari: possono avere masse da 100 a 10.000
volte quella del Sole e si trovano nelle galassie esplosive, dove è intensa l'attività di
formazione ed esplosione stellare;
buchi neri supermassicci, di masse equivalenti a quelle di parecchie centinaia di milioni di stelle, situati nel
centro di alcune galassie.
Questa è la definizione data nel glossario inserito nell'articolo "L'origine dei raggi cosmici ad alta energia" di
Eun-Joo Ahn e Marco Cavaglia (edito su Nuovo Orione n° 112 - settembre 2001).
Immagine di un "buco nero" con fasci di raggi gamma e raggi X;
fonte: ESA/V. Beckmann (NASA-GSFC)
Parlando di buchi neri, Margherita Hack in "L'universo alle soglie del Duemila" (Rizzoli editore, 1995)
afferma che quando una stella collassante avrà raggiunto una contrazione tale che nessuna radiazione ne
possa uscire si dirà che è caduta sotto "L'orizzonte degli eventi".
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Il termine sta a indicare che nessun evento che avvenga sotto tale orizzonte potrà essere visto all'esterno:
perciò l'orizzonte degli eventi si può considerare la superficie del buco nero. Tanto più grande è la massa
della stella collassata, tanto più grande è questo raggio. Per esempio per una massa pari a 10 masse solari, il
raggio sarà di 10 km; ma per una massa pari a 100 milioni di masse solari, il raggio sarà di 350 milioni di km.
Un buco nero è uno degli esiti possibili di una supernova.
Dicesi supernova un'esplosione stellare catastrofica, che libera una tale quantità d'energia da rendere la
supernova più brillante di un'intera galassia (costituita in media da 100 miliardi di stelle).
Si tratta di una stella massiccia nelle fasi finali dell'evoluzione, che nell'esplosione espelle i suoi strati
piú esterni a velocità di migliaia di chilometri al secondo. Ciò contribuisce ad arricchire il mezzo
interstellare con gli elementi chimici (tra cui i metalli pesanti) sintetizzati sia nel corso della vita della stella
che durante l'esplosione stessa.
I gas espulsi si disperdono a formare una nebulosa, detta resto di supernova, mentre il nucleo subisce un
"rinculo" che lo comprime sino a densità altissime. Ciò che rimane del nucleo, in uno stato della materia
assai diverso da quello ordinario, può essere una stella di neutroni oppure un buco nero. Alcuni hanno da
poco ipotizzato che potrebbe formarsi anche un terzo oggetto, con densità intermedia a questi: una stella di
quarks, ma questa rimane per ora solamente una speculazione teorica.
Si distinguono due tipi principali di supernovae detti SN di tipo I e SN di tipo II, i quali vengono a loro
volta suddivisi in alcune sottoclassi.
Si dice stella di neutroni il nucleo imploso di una stella massiccia che ha prodotto un'esplosione di
supernova. La massa minima d'una tipica stella di neutroni è di 1,4 masse solari, con un raggio di circa 5
miglia (8 km) e la densità della materia neutronica.
Ecco un'altra definizione: una stella di neutroni è una versione ancora più compressa d'una nana bianca.
Una nana bianca è una stella che ha completato la fusione dell'idrogeno in elio nel proprio nucleo (core);
è lo stadio finale dell'evoluzione d'una stella con una massa minore di circa otto masse solari.
Queste stelle perdono gran parte della loro massa, soffiandolo via in un forte getto di gas (vento stellare).
Alla fine ne risulta una nebulosa planetaria, e la stella diventa un piccolo oggetto con un'altissima densità
(dell'ordine delle tonnellate per centimetro cubo).
Quattro "nane bianche" con relativa nebulosa planetaria
Gli esempi più noti sono le stelle che accompagnano Sirio e Procione; questi oggetti hanno la massa del
nostro Sole compressa alle dimensioni della Terra. Le nane bianche hanno tipicamente un nucleo composto
di carbonio, delle dimensioni del nostro pianeta; giunte a questo stadio non evolveranno più in maniera
significativa, ma si raffredderanno progressivamente sempre di più.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Una nana bianca inizia con un gran calore, ed è infatti "al calor bianco". Ma a differenza della maggior parte
delle stelle, non ha una sorgente di energia. Può rimanere visibile per un lungo periodo di tempo,
comparabile con l'età dell'universo, fintanto che il calore prodotto nella sua creazione non si estingua; alla
fine si spegnerà nell'oscurità.
Una stella con una massa finale sino a 1,4 volte quella del Sole formerà una nana bianca; le stelle più
pesanti, dopo l'esplosione di supernova, formeranno stelle di neutroni, stelle di quarks o buchi neri. In
questi oggetti, la pressione è talmente elevata da vincere la repulsione elettrica tra elettroni e protoni; essi
vengono spinti l'uno contro l'altro a formare neutroni. Nella materia normale è questa repulsione che frena la
compressione, ma, in mancanza della repulsione elettrica, la materia può venir compressa fino a 100 milioni
di tonnellate per centimetro cubo.
Le stelle di neutroni usualmente hanno un diametro compreso tra dieci e venti chilometri, eppure hanno
una massa maggiore di quella del Sole. Esse generano immensi campi magnetici e ruotano su se stesse
rapidamente, generando così degli impulsi radio che spazzano il cielo lungo una linea come il fascio
luminoso di un faro. Talvolta questi fasci intercettano la Terra, e noi vediamo una pulsar. La prima pulsar fu
scoperta nel 1967 nella Nebulosa Granchio (M1) e il merito fu della giovane ricercatrice inglese Jocelyn Bell.
Quest'oggetto era una stella che si trasformò in supernova nel 1054, e fu visibile in pieno giorno per qualche
tempo, registrato anche negli annali degli astronomi cinesi del tempo. Ora M1 è una nebulosa con dentro
una pulsar.
Qui sotto vediamo una magnifica rappresentazione pittorica tratta dal sito dell'European Space Agency.
Essa raffigura un sistema binario con una stella gigante rossa alla quale una stella di neutroni compagna
"strappa" materia dagli strati superficiali:
Questa materia, spiraleggiando intorno alla stella collassata, la quale ha un diametro approssimativo d'una
decina di chilometri, crea turbolenze e attrito, che fanno perdere energia gravitazionale alla materia in
rotazione. Questa precipita lungo un percorso a spirale sino sulla superficie della stella di neutroni (che può
essere nella fase di pulsar). Come si vede nel disegno, la stella gigante rossa è deformata dalla forza
gravitazionale esercitata dalla compagna compatta.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Osservando la parte del disegno centrata sulla stella a destra si vede che la materia del disco d'accrescimento
"precipita" sulla stella di neutroni in rotazione lungo il piano equatoriale. La materia in eccesso viene espulsa
lungo un cono con asse di simmetria centrato su ciascuno dei poli della "stella degenerata", cioè con
materiale così fortemente compresso da trasformare i protoni e elettroni (caricati elettricamente) in
neutroni (neutri elettricamente). La materia espulsa lungo il doppio cono viaggia ad altissima velocità,
spesso prossima alla velocità della luce nel vuoto "c".
Quando la materia (idrogeno) che precipita sulla stella di neutroni raggiunge uno spessore compreso tra i 5 e
i 10 metri, la fortissima pressione esercitata su questo gas dalla stella collassata ne provoca l'accensione
termonucleare, facendo fondere 4 atomi di idrogeno in uno di elio e producendo energia in eccesso.
L'energia prodotta sulla superficie della stella di neutroni è così tanta che si verifica uno scoppio colossale, il
quale dura solitamente da alcuni secondi ad alcuni minuti, durante i quali la luminosità della stella di
neutroni aumenta enormemente (si verifica una condizione di "stella nova"). E, essendo la situazione
ripresentabile dopo un certo lasso di tempo, la stella di neutroni sarà una "nova ricorrente".
Noi osserveremo l'impuso di radiazione (gamma, X, visibile o radio) solamente se il cono di radiazione
elettromagnetica della pulsar "spazzerà" una regione di cielo dove si trova anche la Terra. In caso contrario,
osserveremo solamente la stella di neutroni col disco d'accrescimento che ruota con la gigante rossa attorno
al comune centro di massa.
Se una stella ha una massa superiore a circa 3.2 masse solari, nel momento che diventa una supernova, può
comprimere il suo nucleo ben oltre lo stadio di una stella di neutroni, fino al punto in cui nessuna forza
può resistere ad una ulteriore compressione.
L'oggetto semplicemente continua a restringersi fino a che scompare dalla vista, diventando così un buco
nero.
Uscire da un buco nero richiederebbe una energia infinita, e quindi neppure la luce può uscirne.
Un buco nero è quindi di per sé invisibile. Tuttavia, un oggetto che vi cadesse dentro sarebbe riscaldato
mentre precipita e il bagliore della radiazione così emessa potrebbe essere rivelato.
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IL VUOTO
LA "TERRA CAVA" E LA RICERCA DI AGARTHI
La teoria della "Terra cava", elaborata nel 1818 dall'Americano John Cleves Symmes Jr., ipotizza che la
Terra sia costituita da cinque sfere concentriche ed abbia l'interno cavo. Per quanto sorprendente e
fantascientifica possa apparire questa ipotesi, non si tratta di una novità: essa infatti ricalca la teoria di
Halley (lo scopritore dell'omonima cometa), che nel 1692 era già arrivato ad immaginare un modello
planetario assai simile. Si dice che anche il grande matematico Eulero (1707-1783) avesse formulato
un'ipotesi analoga.
Modello della "Terra cava" di Symmes
La sfera più esterna, quella conosciuta da tutti, avrebbe un'apertura al polo nord di 6436 Km di diametro,
mentre quella al polo sud addirittura di 9654 Km. La sfera più interna è un sole, avvolto da tre sfere dal
diametro sempre maggiore (come le scatole cinesi), capace di riscaldare l'interno ed illuminare il tutto fino a
filtrare dalle calotte polari.
La teoria di Symmes, nonostante le innumerevoli critiche, ha suggestionato giornalisti e politici americani e
scrittori come E.A. Poe (si vedano il romanzo "Gordon Pym" ed i racconti “Manoscritto trovato in una
bottiglia” e “Una discesa nel Maelstrom”); non manca chi crede che anche Hitler abbia fatto cercare il "buco
di Symmes" per raggiungere Agarthi e mettersi in contatto con i "Superiori Sconosciuti", i rappresentanti
della originaria razza ariana.
Questa è solo un'ipotesi; si sa per certo invece che Hitler, come s'è detto, fu un grande sostenitore della teoria
del "mondo di ghiaccio" di Hörbiger ed appoggiò anche la teoria della "Terra cava" di Bender.
Inoltre è sicuro che nell'aprile del 1942 una spedizione comandata dallo scienziato Heinz Fischer, esperto di
radiazioni infrarosse, installò sull'isola Rugen, nel Baltico, un gruppo di costosi radar sperimentali, e li
puntò a 45° verso il cielo.
Qual era lo scopo dell'esperimento?
Secondo alcuni rilevare "l'altra parete" della terra cava in cui viviamo; l'obiettivo militare invece sarebbe
stato utilizzare "l'altra parete" per farvi rimbalzare raggi infrarossi e localizzare le navi nemiche in
qualunque luogo della Terra esse si trovassero. La notizia, incredibile ma vera, è riportata nel volume "Fads
and Fallacies in the Name of Science" ("Sciocchezze e menzogne nel nome della Scienza") dello scienziato
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
americano Martin Gardner. Secondo altri invece il tentativo aveva come scopo fotografare la flotta britannica
attraverso l'interno vuoto della Terra.
Impossibile saperne di più: fu una spedizione segreta, come lo furono altre spedizioni naziste nel Tibet, nella
Mongolia e nell'Antartide alla ricerca della sapienza ultraterrena.
Il "buco di Symmes" in una fotografia dall'aria decisamente... ritoccata
Poco dopo la morte di Hitler, nel 1947, l'Ammiraglio Byrd fornì, secondo alcuni, la "prova scientifica"
dell'esattezza della teoria della "terra cava": infatti andò in missione aerea sopra il Polo Nord per la seconda
volta (egli era stato il primo a sorvolare il Polo Nord nel 1926) e di questa missione lasciò ampia
testimonianza in un diario.
Questo diario, però, è misteriosamente scomparso.
Stando a coloro che dicono di averlo letto, Byrd scoprì l'ingresso del Polo Nord e vi si infilò. Poté così volare
all'interno della "terra cava" ed osservare altre civiltà ed enormi mandrie di mammuth giganti. In effetti,
quando Robert Cook nel 1908 rinvenne negli strati glaciali i resti di mammuth perfettamente conservati, non
mancò chi, come Marshall Gardner, affermò che non era possibile che un reperto fosse rimasto integro così a
lungo, e che quelli trovati sarebbero stati i resti di creature morte di recente dopo essere sfuggite dal
Continente interno; senza contare il fatto che in bocca ad alcuni mammuth sono state trovate inspiegabili
tracce di vegetali freschi.
Un'altra spedizione effettuata nel 1956 avrebbe poi individuato il secondo ingresso, quello al Polo Sud. Il
governo U.S.A. tenne segreta la scoperta e non permise più a nessuno di attraversare il Polo Sud; il che,
ovviamente, non ha fatto altro che aumentare i sospetti.
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IL VUOTO
IL CALCOLO COMBINATORIO E L'INSIEME VUOTO
La branca della matematica che si occupa dei modi in cui si possono formare nuovi oggetti (sequenze,
insiemi,…) "combinando" gli elementi di un insieme finito viene chiamata matematica combinatoria o calcolo
combinatorio, ed è la base del calcolo delle probabilità.
In essa, per quanto possa a prima vista apparire poco intuitivo, ha una grande importanza il concetto di
insieme vuoto, indicato convenzionalmente con Ø.
Facciamo un semplice esempio:
Ho 6 oggetti: chiamiamoli A, B, C, D, E e F.
Voglio fare una confezione contenente alcuni di questi oggetti. In quanti modi posso farla?
Potrei fare una confezione vuota.
Potrei fare una confezione contenente solamente A o solamente B o ….
Oppure una confezione contenente A e B o A e C o ….
O potrei fare una confezione che li contiene tutti.
Insomma, quante sono le possibili confezioni?
Una possibile strategia per trovare quante sono è la seguente:
per ognuno dei 6 elementi ho 2 possibilità: o lo metto nella confezione o non ce lo metto:
222222
quindi in tutto ho 26 = 64 possibilità.
In questo va calcolata anche la possibilità dell'insieme vuoto, che risulta dall'ipotesi "faccio una confezione
in cui metto uno o più oggetti che non ho a disposizione" (ipotesi ovviamente assurda e che dà luogo ad una
scatola vuota).
Più in generale, vale la regola che i possibili sottoinsiemi di un insieme di n elementi sono 2n.
Vediamo come si arriva a questo risultato, che è alla base del calcolo combinatorio, a partire dal concetto di
insieme.
Cos'è un insieme
Non è possibile definire matematicamente l'insieme: essendo uno dei concetti primitivi della matematica
ognuno di noi dovrebbe possederlo intuitivamente e tale concetto dovrebbe essere lo stesso per ciascuno di
noi. Comunque si può dire che quando abbiamo degli oggetti, se riusciamo a considerarli collegati tra loro,
allora abbiamo un insieme.
La prima cosa da dire è che gli oggetti (elementi) che compongono l'insieme devono sempre essere ben
definiti prima ancora di considerare l'insieme stesso.
Anzitutto un po' di nomenclatura (simboli):
- Useremo le lettere minuscole dell'alfabeto per indicare gli oggetti (elementi) di un insieme
a b c d .......
- Useremo le lettere maiuscole per indicare un insieme; ad esempio:
A = l'insieme A
- Per indicare un insieme utilizzeremo talvolta le parentesi graffe, come ad esempio:
{ a , b } = insieme formato dagli elementi a e b
- Per indicare che un elemento appartiene ad un insieme useremo il simbolo :
a
A = l'elemento a appartiene all'insieme A.
Esistono vari modi per rappresentare un insieme:
- Rappresentazione tabulare
- Rappresentazione mediante grafico
∈
∈
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IL VUOTO
- Rappresentazione mediante caratteristica.
Rappresentazione tabulare
La rappresentazione tabulare si ottiene enumerando gli oggetti entro parentesi graffe;
esempio:
voglio considerare l'insieme A composto dai primi quattro numeri naturali
1 2 3 4
posso scrivere
A = { 1, 2, 3, 4 }
E' una rappresentazione che viene usata se l'insieme e' composto da un numero abbastanza limitato di
oggetti.
Rappresentazione mediante grafici
(grafici di Eulero-Venn)
Possiamo racchiudere gli oggetti che ci interessano entro una linea chiusa continua e non intrecciata come
dalla figura qui sotto, che rappresenta sempre l'insieme A composto dai primi quattro numeri naturali 1 2
3 4:
E' senza dubbio la più immediata ed intuitiva.
Rappresentazione mediante caratteristica
Possiamo anche rappresentare l'insieme enunciando la caratteristica che tiene "assieme" gli oggetti: ad
esempio posso caratterizzare l'insieme A visto qua sopra come l'insieme dei numeri naturali minori di 5:
A={x N:x<5}
che si legge così:
A è l'insieme degli elementi appartenenti ad N tali che l'elemento sia minore di 5.
∈
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Più dettagliatamente:
A
A
è
=
l'insieme
{
degli elementi
x
appartenenti
∈
ad N
N
tali che
:
l'elemento
x
sia minore
<
di 5
5
chiuso insieme
(non si legge)
}
E' comoda da utilizzare quando gli oggetti dell'insieme sono parecchi.
Uguaglianza fra insiemi
Diremo che due insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi (l'ordine non conta).
Ad esempio se
A = { 1, 2, 3, 4 }
e
B = { 3, 2, 1, 4 }
allora
A=B
Sottoinsiemi di un insieme
Definiamo sottoinsieme di un insieme dato un nuovo insieme che abbia come elementi alcuni elementi
presenti nell'insieme di partenza:
ad esempio, dato
A = { 1, 2, 3, 4 }
l'insieme
B = { 1, 3 }
è un sottoinsieme dell'insieme A
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Dato un insieme definito mediante caratteristica, per ottenerne un sottoinsieme basta aggiungere una
qualunque proprietà: ad esempio, se considero l'insieme dei numeri naturali minori di 5
A = { x N : x < 5 } = { 1, 2, 3, 4 }
ed aggiungo la proprietà "non divisibili per 2", ottengo
B = { x N : x < 5; x non divisibile per 2 } = { 1, 3 }
Per indicare che B e' sottoinsieme dell'insieme A useremo la notazione di inclusione
A
B
che si legge:
l'insieme B è contenuto nell'insieme A.
Per indicare che A ha come sottoinsieme B useremo invece la notazione
A
B
che si legge:
A è un sovrainsieme di B
o:
l'insieme A contiene l'insieme B.
Posso però aggiungere una proprietà impossibile, come ad esempio l'insieme dei numeri naturali minori di
5 e divisibili per 7.
A questo punto ottengo un insieme senza elementi:
B = { x N : x < 5; x e' divisibile per 7 } = Ø
∈
∈
⊂
⊃
∈
Ø viene chiamato insieme vuoto.
Esso è fondamentale, perché è un sottoinsieme di ogni insieme: per ottenerlo basta aggiungere alla
caratteristica dell'insieme una proprietà impossibile.
Come abbiamo aggiunto una proprietà impossibile, così possiamo aggiungere una proprietà ovvia: in tal
caso otteniamo come sottoinsieme l'insieme di partenza.
Ad esempio, se considero l'insieme dei numeri naturali minori di 5 e multipli di 1, ottengo lo stesso insieme
di partenza:
B = { x N : x < 5; x e' multiplo di 1 } = A
∈
In questo caso, per indicare che si considera l'insieme di partenza come sottoinsieme di se stesso, lo si
definisce sottoinsieme improprio.
Poiché, quando si indica genericamente un sottoinsieme di un insieme, potrebbe trattarsi anche dell'insieme
improprio, allora per considerare anche la possibilità che B sia sottoinsieme di A, si scrive:
B
⊆A
che si legge:
l'insieme B è contenuto od uguale all'insieme A.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Insieme delle parti o Insieme potenza di un insieme
Definiamo Insieme delle parti di A oppure Insieme potenza di A
A.
(A) l'insieme di tutti i sottoinsiemi di
Esempio:
se considero l'insieme
A = { a, b }
allora
(A) = { ø, { a }, { b }, { a, b}}
Devo considerare prima l'insieme vuoto, poi gli insiemi formati da un elemento, poi gli insiemi formati da
due elementi (nel nostro caso l'insieme improprio).
Sono 4 elementi, cioè 22.
Vediamo un esempio con tre elementi
A = { 1, 2, 3}
allora
(A) = { ø, { 1 }, { 2 }, { 3 }, { 1, 2}, { 1, 3}, { 2, 3}, { 1, 2, 3}, }
Sono 8 elementi, cioè 23.
Da questo si ricava la formula generale, già vista all'inizio, che consente di trovare il numero degli elementi
dell'insieme potenza (o insieme delle parti di un insieme) con n elementi, e cioè:
2n
In ogni caso è sempre necessario considerare nel computo anche l'insieme vuoto e l'insieme improprio.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Il numero degli elementi della potenza di un insieme e la sua relazione con il triangolo di Tartaglia
Non solo gli elementi della potenza di un insieme sono pari a 2n, ma corrispondono anche alla riga del
triangolo di Tartaglia corrispondente al numero degli elementi:
Consideriamo ad esempio la riga del triangolo di Tartaglia della potenza 4: essa vale
1 4 6 4 1
Infatti l'insieme potenza di un insieme con 4 elementi è composto dai seguenti elementi:
1 insieme con 0 elementi (insieme vuoto)
4 insiemi con 1 elemento
6 insiemi con 2 elementi
4 insiemi con 3 elementi
1 insieme con 4 elementi (l'insieme improprio)
e la somma di tutti quanti vale
1 + 4 + 6 + 4 + 1 = 16 = 24
Come corollario ne deriva che la somma degli elementi di ogni riga del triangolo di Tartaglia e' una
potenza del 2.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Vediamone l'esempio su un insieme di 4 oggetti:
A = { 1, 2, 3, 4}
allora
(A) = { ø, { 1 }, { 2 }, { 3 }, { 4 },
{ 1, 2}, { 1, 3}, { 1, 4}, { 2, 3}, { 2, 4}, { 3, 4},
{ 1, 2, 3}, { 1, 2, 4}, { 1, 3, 4}, { 2, 3, 4}, { 1, 2, 3, 4} }
Cerchiamo di capire il perché.
Siccome negli insiemi, come abbiamo detto, non conta l'ordine, cioe' {a,b}={b,a}, allora per trovare il numero
di insiemi che posso formare con un insieme ad esempio di 4 elementi devo considerare le combinazioni
semplici di quattro elementi; e precisamente:
combinazioni
di classe 0
(
4
)
0
=1 Ø
combinazioni
di classe 1
(
4
)
1
= 4 { 1 }, { 2 }, { 3 }, { 4 }
combinazioni
di classe 2
(
4
) = 6 { 1, 2}, { 1, 3}, { 1, 4}, { 2, 3}, { 2, 4}, { 3, 4}
2
combinazioni
di classe 3
(
4
) = 4 { 1, 2, 3}, { 1, 2, 4}, { 1, 3, 4}, { 2, 3, 4}
3
combinazioni
di classe 4
(
4
) = 1 { 1, 2, 3, 4}
4
Ma le combinazioni su n oggetti non sono altro che i coefficienti dello sviluppo del binomio, cioè i
termini della riga corrispondente del triangolo di Tartaglia.
Abbiamo quindi una stretta corrispondenza fra righe del triangolo di Tartaglia ed elementi dell'insieme
potenza di un insieme.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
3. VUOTO INTERIORE
LO SPLEEN
Dal dizionario Garzanti: «Spleen: s.m. invar. nel linguaggio letterario: stato d'animo di profonda
malinconia e insoddisfazione, quale soprattutto traspare dalle opere decadentiste».
Il vocabolo deriva dal greco σπλήν, che significa "milza", e passa ad indicare la melanconia (o, più
esattamente, melancolia) in base alla medicina greca degli umori: uno di questi umori, la bile, prodotta dalla
cistifellea, si riteneva avesse un effetto depressivo sulla psiche umana.
Il termine spleen è introdotto nella cultura occidentale da Charles Baudelaire (1821-1867) per designare il
taedium vitae; esso compare nella raccolta I fiori del male (Les fleurs du Mal), pubblicata nella primavera del
1857, come titolo sia di una sezione che di una lirica. Le cento poesie della raccolta sono infatti divise in sei
sezioni: Spleen et idéal, Quadri Parigini, Les fleurs du mal, La revolte, Le vin e La mort.
Charles Baudelaire
Spleen s'intitola anche, come accennavo, una delle liriche più celebri della raccolta:
Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve
Sull'anima gemente in preda a lunghi affanni,
E in un unico cerchio stringendo l'orizzonte
Riversa un giorno nero più triste dell notti;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quando la terra cambia in un'umida cella,
Entro cui la Speranza va, come un pipistrello,
Sbattendo la sua timida ala contro i muri
E picchiando la testa sul fradicio soffitto;
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Quando la pioggia stende le sue immense strisce
Imitando le sbarre di una vasta prigione,
E, muto e ripugnante, un popolo di ragni
Tende le proprie reti dentro i nostri cervelli;
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrement.
Delle campane a un tratto esplodono con furia
Lanciando verso il cielo un urlo spaventoso,
Che fa pensare a spiriti erranti e senza patria
Che si mettano a gemere in maniera ostinata.
- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.
- E lunghi funerali, senza tamburi o musica,
Sfilano lentamente nel cuore; la Speranza,
Vinta, piange, e l'Angoscia, dispotica ed atroce,
Infilza sul mio cranio la sua bandiera nera..
Tutta la poesia si articola in due sole proposizioni molto sbilanciate, che creano un'evidente asimmetria
compositiva: la prima si sviluppa lungo le prime quattro strofe, ed è composta da tre proposizioni
subordinate (strofe 1, 2 e 3) più una proposizione principale. Le subordinate sono molto simili tra loro: tutte
cominciano con lo stesso avverbio di tempo (Quando...) e si sviluppano attraverso vivide metafore (il
coperchio, il pipistrello, la prigione). Questa somiglianza, la ripetitività di una stessa struttura, insieme al
fatto che le subordinate sono poste tutte e tre prima della proposizione principale (strofa 4), crea un clima di
attesa, una certa suspense per quanto riguarda il seguito del discorso. Questa "attesa" ha un nome ben
preciso nel gergo letterario : si tratta di un climax, per cui la disposizione ascendente di certi elementi
sintattici crea un "clima" di tensione, di aspettativa.
La tensione accumulata lungo le tre prime strofe, volutamente pesanti in struttura e contenuti, esplode
nella quarta strofa, nella proposizione principale. L'ultima strofa, che è anche l'ultima frase della poesia,
nonostante abbia una propria indipendenza sintattica (ed anche visiva: c'è uno spazio bianco tra le varie
strofe), è legata alle altre dall'uso del segno tipografico " - " e dalla congiunzione con la quale comincia (- E...).
Essa rappresenta una conseguenza delle strofe precedenti, una specie di "rilassamento" finale dopo
l'esplosione del climax. La cupa disperazione dei temi è in sintonia con il "sublime fosco" dello stile,
caratterizzato dalle metafore cupe, angosciose e claustrofobiche, come i ragni nel cervello, le campane che
balzano e gemono, il pipistrello che sbatte contro le pareti, le sbarre della prigione, i funerali senza musica, il
cranio inclinato dell’uomo vinto dalla paura, la bandiera nera infilzata su di esso.
Da quella sensazione di angoscia e insoddisfazione che non lo abbandonerà mai, fino alla morte, Baudelaire
cerca una illusoria via di scampo attraverso i “paradisi artificiali” (i "fiori del male", appunto): l’alcool, la
droga, ma anche l’amore, sia passionale che spirituale. Sperimentando ognuno di questi espedienti il poeta
francese si renderà conto che non c’è via di fuga dallo spleen se non con la morte, che egli arriva alla fine ad
invocare come unica salvezza.
Ma il tema del teadium vitae e della fuga come via di scampo alla noia, pressoché assente nella letteratura
greca (fra le pochissime eccezioni cito Asclepiade di Samo ed il Marc'Aurelio di A se stesso), è già presente in
almeno tre autori latini: Lucrezio, Orazio e Seneca. Li accomuna la visione della vita come continuo affanno,
senso di vuoto, continua ricerca di qualcosa che non si sa cosa sia e che sempre ci sfugge, e la condanna del
viaggio come rimedio inefficace al male di vivere.
Lucrezio rappresenta con molta efficacia questa insofferenza, questo odio per la vita, questa noia che fiacca e
consuma; memorabile la sua descrizione dell'uomo inquieto, in preda allo spleen, che si agita
continuamente alla ricerca di un'impossibile tregua dal suo malessere ed inconsciamente ne attribuisce la
colpa al posto in cui si trova, per cui non fa che spostarsi da un luogo all'altro come un folle (De rerum natura
III 1060-1070):
40
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Esce spesso fuori del grande palazzo colui
che lo stare in casa ha tediato, e sùbito ritorna,
giacché sente che fuori non si sta per niente meglio.
Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente,
come se si affrettasse a recar soccorso alla casa in fiamme;
sbadiglia immediatamente, appena ha toccato la soglia
della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l'oblio,
o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla.
Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo 'io', naturalmente,
come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato,
e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male.
La pagina iniziale di un raro manoscritto del De
rerum natura risalente al 1483
Il tema della fuga da se stesso è frequente in Orazio. Nell'epistola a Bullazio (Epistulae I 11), alla strenua
inertia, l'inguaribile incapacità di vivere, il poeta contrappone l'animus aequus, l'equilibrio che ci fa
apprezzare la quotidianità. Così la serenità ci appare come una ricerca più che un'acquisizione. Nelle epistole
il poeta svela il suo lato nascosto: malinconia, insoddisfazione, precarietà esistenziale, fino a quella malattia
dell'anima che è il funestus veternus della lettera a Celso Albinovano.
Orazio, scrivendo a Bullazio, gli manifesta quella depressione inquieta che doveva essere il male del tempo,
e nel contempo individua con chiarezza l'origine del male all'interno della psiche umana, dichiarando vano
il proposito di guarire dallo spleen viaggiando di terra in terra.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Francobollo dedicato ad Orazio
Leggiamone il finale (vv. 20-30):
Finché è possibile e la fortuna ti sorride,
Samo, Chio e Rodi è bene lodarle da lontano, a Roma.
Qualunque ora lieta ti concedano gli dei
prendila con riconoscenza, non rimandarne di anno in anno le gioie,
e si possa dire che in ogni situazione sei vissuto volentieri.
Se la logica della saggezza, e non i luoghi che dominano la distesa del mare, allontana gli affanni,
chi solca il mare muta cielo, non natura.
Un'inquietudine impotente ci tormenta e andiamo
per acque e terre inseguendo la felicità. Ma ciò che insegui è qui,
a Úlubre, se non ti manca la ragione.
Il binomio strenua inertia va molto al di là del consueto principio oraziano della callida iunctura: esso infatti
è un accostamento di parole semanticamente antitetiche ed ossimoriche, giacché strenuus indica dinamismo,
al contrario di inertia che vuol dire inattività.
Emergono, infine, due facce dell'angoscia esistenziale: se da una parte viaggiare in continuazione testimonia
la vita insoddisfatta, dall'altra la ricerca di un angolo tranquillo, costituito di vecchie cose familiari, dimostra
la paura del cambiamento.
Seneca, infine, scrive su questo tema pagine indimenticabili nel De tranquillitate animi, dedicato all'amico
Anneo Sereno, ed un'intera lettera a Lucilio (Epistulae morales ad Lucilium III 28 passim); la riporto di seguito:
Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum
varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum
traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster, "terraeque urbesque recedant", sequentur te quocumque perveneris
vitia. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, "Quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te
circumferas? Premit te eadem causa quae expulit". Quid terrarum iuvare novitas potest? Quid cognitio urbium
aut locorum? in inritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis. Onus animi
deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. [...] Vadis huc illuc ut excutias insidens pondus quod ipsa
iactatione incommodius fit, sicut in navi onera inmota minus urgent, inaequaliter convoluta citius eam partem
in quam incubuere demergunt. Quidquid facis, contra te facis et motu ipso noces tibi; aegrum enim concutis. At
cum istuc exemeris malum, omnis mutatio loci iucunda fiet; in ultimas expellaris terras licebit, in quolibet
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barbariae angulo conloceris, hospitalis tibi illa qualiscumque sedes erit. Magis quis veneris quam quo interest, et
ideo nulli loco addicere debemus animum. Cum hac persuasione vivendum est: «non sum uni angulo natus,
patria mea totus hic mundus est». Quod si liqueret tibi, non admirareris nil adiuvari te regionum varietatibus
in quas subinde priorum taedio migras; prima enim quaeque placuisset si omnem tuam crederes. Nunc non
peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum
sit.
Presunto ritratto di Seneca
Pensi che questo sia capitato solo a te, e ti stupisci come di un fatto strano, perché, pur con un viaggio
così lungo e con una così grande varietà di luoghi, non ti sei scrollato di dosso la tristezza e la
pesantezza del tuo spirito? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia pure che,
come dice il nostro Virgilio, "terre e città spariscano all'orizzonte": i tuoi difetti ti seguiranno
dovunque andrai. Socrate, a uno che si lamentava per la stessa ragione, disse: "Perché ti stupisci del
fatto che i viaggi non ti servano a niente, dal momento che porti in giro te stesso? Ti opprime la
medesima causa che ti ha fatto partire". A che può giovare la novità delle terre? A che la conoscenza
di città o luoghi? Tutto questo agitarsi cade nel vuoto. Vuoi sapere perché questa fuga non ti sia di
aiuto? Perché fuggi con te stesso. È il peso dell'anima che bisogna deporre: prima di allora non ti
piacerà nessun posto. [...] Tu vaghi di qua e di là per scuotere il peso che ti sta addosso e che diventa
ancor più fastidioso a causa della tua stessa agitazione, come su una nave i pesi ben stabili premono di
meno, mentre quelli che si spostano in modo diseguale mandano più rapidamente a fondo quella
parte su cui gravano. Qualunque cosa tu faccia, la fai contro di te, e con il movimento stesso ti fai del
male: infatti stai sballottando un ammalato. Ma quando ti sarai liberato da questo male, qualsiasi
cambiamento di località diventerà piacevole; potranno pure relegarti nelle terre più lontane,
costringerti a risiedere in qualsivoglia angolo di una regione barbara: quella sede, quale che sia, ti sarà
ospitale. Importa più il "chi" sarai che il "dove" sarai arrivato, e perciò non dobbiamo far dipendere il
nostro animo da alcun luogo. Bisogna vivere con questa convinzione: “Non sono nato per un solo
angolo di terra, la mia patria è questo intero universo". Se questo ti fosse ben chiaro, non ti
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meraviglieresti di non essere minimamente confortato dalla varietà delle regioni in cui continuamente
ti rechi per la noia delle precedenti; infatti ti sarebbe piaciuta una qualsiasi delle prime, se tu
considerassi ciascuna terra come tua. Ora non viaggi, ma erri e ti lasci trasportare e cambi un luogo
dopo l'altro, benché ciò che cerchi, il vivere bene, si trovi in ogni luogo.
Il pensiero di Seneca in proposito è chiaro: il vuoto interiore è una malattia, e di certo lo sballottamento non
può giovare al malato; la visione di paesaggi esotici e la conoscenza di nuovi paesi non può sollevarlo dal
suo male, poiché si tratta di un male interiore, che non dipende dal luogo in cui si trova, ma dal rapporto
che ha con se stesso: è su quello, dunque, che deve lavorare, per poter "guarire".
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T.S. ELIOT E LA "TERRA DESOLATA"
The Waste Land is a 434-line modernist poem by T. S. Eliot published in 1922. It has been called "one of the
most important poems of the 20th century."
Despite what is seen by some as the poem's obscurity – its shifts between satire and prophecy, its abrupt and
unannounced changes of speaker, location and time, its elegiac but intimidating summoning up of a vast
and dissonant range of cultures and literatures – the poem has nonetheless become a familiar touchstone of
modern literature. Among its famous phrases are "April is the cruellest month" (its first line); "I will show
you fear in a handful of dust"; and (its last line) the mantra in the Sanskrit language "Shantih shantih
shantih."
Eliot originally considered titling the poem He do the Police in Different Voices. In the version of the poem Eliot
brought back from Switzerland, the first two sections of the poem – 'The Burial of the Dead' and 'A Game of
Chess' – appeared under this title, but the poem's original draft was submitted to Ezra Pound, who
shortened it considerably and persuaded Eliot to change the title.
The strange phrase was taken from Charles Dickens' novel Our Mutual Friend, in which the widow Betty
Higden says of her adopted foundling son Sloppy: "You mightn't think it, but Sloppy is a beautiful reader of
a newspaper. He do the Police in different voices."
T.S. Eliot in 1951
This would help the reader to understand that, while there are many different voices (speakers) in the poem,
there is one central consciousness. What was lost by the rejection of this title Eliot might have felt compelled
to restore by commenting on the commonalities of his characters in his note about Tiresias. In the end, the
title Eliot chose was The Waste Land. In his first note to the poem he attributes the title to Jessie L. Weston's
book on the Grail legend, From Ritual to Romance.
The allusion is to the wounding of the Fisher King and the subsequent sterility of his lands. To restore the
King and make his lands fertile again the Grail questor must ask "What ails you?".
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The poem's title is often mistakenly given as "Waste Land" (as used by Weston) or "Wasteland", omitting the
definite article. However, in a letter to Ezra Pound, Eliot politely insisted that the title begin with “The”.
Structure
The epigraph and dedication to The Waste Land showing some of the languages that Eliot used in the poem:
Latin, Greek, English and Italian. The poem is preceded by a Latin and Greek epigraph from The Satyricon of
Petronius. In English, it reads: "I saw with my own eyes the Sibyl of Cumae hanging in a jar, and when the
boys said to her, Sibyl, what do you want? She replied I want to die."
Following the epigraph is a dedication (added in a 1925 republication) that reads "For Ezra Pound: il miglior
fabbro". Here Eliot is both quoting line 117 of Canto XXVI of Dante's Purgatorio, the second cantica of The
Divine Comedy, where Dante defines the troubadour Arnaut Daniel as "the best smith of the mother tongue"
and also Pound's title of chapter 2 of his The Spirit of Romance (1910) where he translated the phrase as "the
better craftsman."
The five parts of The Waste Land are so entitled:
1. The Burial of the Dead
2. A Game of Chess
3. The Fire Sermon
4. Death by Water
5. What the Thunder Said
The text of the poem is followed by several pages of notes, purporting to explain his metaphors, references,
and allusions. Some of these notes are helpful in interpreting the poem, but some are arguably even more
puzzling, and many of the most opaque passages are left unannotated. The notes were added after Eliot's
publisher requested something longer to justify printing The Waste Land in a separate book.
There is some question as to whether Eliot originally intended The Waste Land to be a collection of individual
poems (additional poems were supplied to Pound for his comments on including them) or to be considered
one poem with five sections.
Style
The style of the work in part grows out of Eliot's interest in exploring the possibilities of dramatic
monologue. This interest dates back at least as far as The Love Song of J. Alfred Prufrock.
Eliot also enjoyed the music hall, and something of the flavour of this popular form of entertainment gets
into the poem. It follows the pattern of the musical fugue, in which many voices enter throughout the piece
re-stating the themes.
Above all perhaps it is the disjointed nature of the poem, the way it jumps from one adopted manner to
another, the way it moves between different voices and makes use of phrases in foreign languages, that is
the most distinctive feature of the poem's style.
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The waste land, capolavoro della letteratura novecentesca cosiddetta modernista, fu composto da Thomas
Stearn Eliot (1888-1965, premio Nobel per la Letteratura nel 1948) tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del
1922 mentre era in Svizzera, a Losanna, dove la moglie era ricoverata per problemi di instabilità psichica e
dove egli stesso si era sottoposto a cure psicanalitiche. La ballerina Vivienne Haigh-Wood, che aveva
sposato nel 1915 contro il parere dei suoi genitori e dalla quale si separerà in seguito all'aggravarsi delle sue
condizioni mentali, morirà nel 1947, lasciando un senso di rimorso incancellabile nell'animo del poeta (che
tuttavia si risposò nel 1957).
Nelle cinque sezioni in cui è diviso il poemetto (La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco,
Morte per acqua, Ciò che disse il tuono) ricorrono elementi simbolici e archetipici innestati in accurate
descrizioni di situazioni e paesaggi, finestre aperte attraverso cui guardare, ascoltando suoni onomatopeici e
dialoghi, osservando l’interno d’una casa, le trattative dei mercanti e degli uomini della City, affari e
commerci; una molteplicità di temi che appartengono alla storia dell’uomo, alla sessualità, alla carne e al
sangue.
Su tutto si staglia il Simbolo per eccellenza, il Santo Graal o coppa del sangue di Cristo, Re pescatore (di
uomini) che nella Terra Desolata è diventato il Re Ferito, sofferente della stessa sofferenza della creazione
desertificata e impura, immerso nel nonsenso della germinazione dell’aprile, "il mese più crudele", che
“genera lillà da terra morta”.
T.S. Eliot in una foto giovanile
Il poema ebbe lunga e difficile gestazione: solo dopo variazioni e correzioni, espunzioni e riscrittura, e
grazie anche ai consigli di Ezra Pound, a cui fu dedicato (A Ezra Pound il miglior fabbro) e che intervenne
anche pesantemente sul testo, Eliot lo pubblicò in proprio.
Un esempio degli interventi di Pound si trova proprio all'inizio del poemetto: infatti i versi che
costituiscono l'epigrafe di apertura del poema dovevano essere “The horror! The horror!” ("L'orrore,
l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound non apprezzava Conrad e convinse Eliot a
porre in apertura un frammento dal Satyricon di Petronio (scritto in quel misto di lingue che sarà una
caratteristica dell'intero poemetto) che parla della Sibilla Cumana e della sua interminabile agonia: infatti il
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suo desiderio di invecchiare senza mai morire era stato esaudito dal dio Apollo, ma la sua vita dice Petronio - si era trasformata in un'insostenibile noia:
Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis
vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent:
Σίβυλλα τί θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω.
Infatti io stesso con i miei occhi a Cuma
vidi la Sibilla appesa in una cesta, e quando i ragazzini le chiedevano:
"Sibilla, cosa vuoi?", ella rispondeva: "Voglio morire".
Dalla tradizione letteraria al mito, dalla storia all’epica, dalla religione all’antropologia culturale, tutto è
confluito in un’opera che attinge anche alle filosofie orientali e ai testi sacri (Veda, Upanishad), ai profeti
biblici, all’Ecclesiaste, Sant’Agostino, agli Apostoli, all’Apocalisse: un'allegoria dello spirito smarrito
ambientata in una emblematica città europea, Londra agli inizi del XX secolo: essiccata “città irreale” e
sporca, il cui fiume trasporta miasmi e relitti, uomini come ectoplasmi emersi dalle nebbie del fiume, spinti
da una sorda fame carnale e osservati dal veggente cieco Tiresia.
Pieter Bruegel, Il trionfo della morte, 1562
Il primo "movimento" di questa ideale sinfonia, La sepoltura dei morti, si apre con il ritorno della primavera,
ma "aprile è il mese più crudele": davanti al rifiorire della natura, l'uomo moderno sente in modo ancor più
doloroso la propria sterilità interiore. I lillà sono un correlativo oggettivo (procedimento stilistico caro ad
Eliot e a Montale) per indicare il ricordo, il passato, e sono i fiori connessi con i riti della fertilità. Inoltre sono
di colore viola, e, come vedremo, questo colore ha una certa importanza all'interno del poema.
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Segue un flash-back che ci riporta al clima della prima guerra mondiale. L'eleganza delle persone che
frequentano i luoghi più alla moda dell'Europa rivela un'ansia comunicata grazie ai bruschi cambiamenti di
sintassi.
Le allusioni all'Antico Testamento offrono un parallelo tra la domanda di Ezechiele “Figliuol d'uomo, queste
ossa possono vivere?” e quella del poeta che chiede al lettore “quali rami crescono su queste macerie?”, una
domanda retorica, dato che quest'ultimo conosce soltanto “un mucchio di frante immagini, dove batte il sole,
e l'albero secco non dà riparo, e il canto del grillo non dà ristoro” (si coglie in questi versi un'atmosfera
montaliana: in effetti i paralleli fra Montale e Eliot sono spesso stati sottolineati dalla critica).
Segue un excursus ironico sulle figure profetiche, personificate da Madame Sosostris, una chiromante dal
nome che sembra una pedestre imitazione di qualche dea egiziana, nonostante le sue predizioni si rivelino
vere ("non vedo l'impiccato", ella dirà ad un certo punto, con allusione al "re sacrificale" la cui assenza, o
latitanza, è la causa della Waste Land). Qui Eliot ha l'opportunità di inserire un altro importante tema del
poemetto, quello dei tarocchi e dei loro simboli.
L'impiccato o appeso, l'arcano numero XII,
mancante fra i tarocchi di Madame Sosostris
In seguito la scena si trasferisce alla City, il quartiere finanziario di Londra, simbolo dell'aridità del
capitalismo e della società moderna. La critica alla City riprende stilemi provenienti da Baudelaire e Dante.
Il poeta paragona i suoi cittadini, bloccati in una routine distruttiva, dapprima agli ignavi dell'Inferno, a
causa della loro totale indifferenza nei confronti del prossimo, e successivamente alle anime del limbo che,
come loro, sperano in una vita migliore, ma non hanno alcuna speranza di cambiare la loro situazione. Il
riferimento alla Prima guerra punica universalizza il problema, che altrimenti rimarrebbe legato alla città di
Londra. Questa sezione si conclude con un riferimento alla prefazione de I Fiori del male di Baudelaire, "Au
lecteur" che descrive l'uomo affondato nella stupidità, nel peccato e votato al male; tuttavia, il peggior
mostro del serraglio infame dei suoi traviamenti è la Noia, definita come "monstre delicat".
Ancora Dante (il XIII canto del Purgatorio, dedicato alla lussuria) e Ovidio (Metamorfosi) ci accompagnano
poi in un viaggio intorno all’anima, in Ovidio trasmigrata in altre forme per raccontare del desiderio ottuso e
brutale che impedisce la piena rinascenza delle stagioni quando la terra e le radici sono aride. Del poeta
latino Eliot si professa debitore. Commentando egli stesso i versi 99 segg. di Una partita a scacchi - nella
seconda parte del poema - egli rinvia a: “Ovidio, VI Metamorfosi”, cioè al mito di Filomela, violentata dal
cognato Tereo, che le mozzò la lingua perché non potesse raccontare della violenza subìta, e della vendetta
di lei che gli fece mangiare le carni del figlioletto, per trasformare infine il suo dolore in dolcissimo canto di
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usignolo. Ma la donna sedotta in Una partita a scacchi mostra tutta la sua frustrazione e il malcelato disgusto;
al canto melodioso dell’usignolo si sostituisce il lamento sterile e nevrotico di una donna ossessionata dalla
solitudine, il silenzio dell’uomo dopo l’amplesso frettoloso:
“Ho i nervi a pezzi stasera. (...)
Resta con me
Parlami. Perché non parli mai? (...)
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando”.
Poi la scena cambia di colpo, come in un sogno: in un pub la donna si rivolge a un’altra donna (Lil, che alla
fine si trasforma in Ofelia, orfana e annegata), esortandola a rimettere i denti mancanti perché se “Albert si
sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata”, mentre una voce ripete agli avventori “SVELTI PER
FAVORE SI CHIUDE”. La volgarità esistenziale tocca qui il suo culmine.
Ne Il sermone del fuoco appare il Tamigi, le foglie che “s’afferrano e affondano dentro la riva umida”: è una
visione tardo-autunnale del fiume presso il quale la leggenda del Graal pone la sede del Re Pescatore, con
innesti e relazioni tra mito e letteratura. Tiresia è l’indovino in cui i due sessi si riassumono, colui al quale
Giove e Giunone pongono il quesito se sia la donna o l’uomo a provare più piacere nella copula. Arbitro
della controversia in quanto uomo/donna, Tiresia dà ragione a Giove e viene da Giunone condannato alla
completa cecità, a compenso della quale riceve il dono di “vedere” il futuro.
Il "calice di Valencia",
tra i presunti "Graal" più noti in assoluto
Ciò che l’indovino vede è l’eros universale scomposto, disarmonico e da ricomporre:
“Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso,
impiegato d’una piccola agenzia di locazione, (...)
uno di bassa estrazione a cui la sicurezza
s’addice come un cilindro a un cafone arricchito.
Lui cerca d’impegnarla alle carezze
che non sono respinte (...)
Eccitato e deciso, (....)
le sue mani non trovano difesa;
la sua vanità non pretende che vi sia un’intesa.“
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Sterile desolato amore che si affida a un approccio risoluto, una seduzione immediata a soddisfare i sensi:
Tiresia, il doppio sessuale, sintetizza il grado di soddisfazione dell’una e dell’altro, con ironia ne sottolinea
l’esito nelle parole della dattilografa:
“Dopo il fatto egli pianse.
Promise ‘un nuovo inizio’.
Non feci commento
di cosa mi dovrei rammaricare?”
I versi finali immettono alla visione di Cartagine bruciante, e introducono la figura del marinaio Phlebas in
Morte per acqua (nell’alternanza tra i due elementi simbolo, l’acqua designa l’anima, la condizione
dell’umido, il fuoco lo spirito, l’aria secca):
“Phlebas il Fenicio, morto da quindici giorni,
dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
e il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
gli spolpò le ossa in mormorii. Come affiorava e affondava
passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza
procedendo nel vortice. Gentile o Giudeo
o tu che volgi la ruota e guardi sopravvento,
considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te”.
In Ciò che disse il tuono assistiamo alla passione e alla resurrezione: “colui che era vivo ora è morto / noi che
eravamo vivi ora stiamo morendo / con un po’ di pazienza” sono versi che si riferiscono alla cattura di Gesù
nel Getsemani e all’incontro in Emmaus tra il risorto e due discepoli.
Viene qui introdotto il simbolo della roccia, la pietra, il “lapis exillis”, l'enigmatico termine con il quale i
Rosacroce designano il Cristo, ovvero la “pietra d’angolo” neo-testamentaria:
“Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
roccia e non acqua e la strada di sabbia
(...) lassù fra le montagne
che sono montagne di roccia senz’acqua
se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere (...)
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
vi fosse almeno acqua fra la roccia
bocca morta dio montagna dai denti cariati che non può sputare”.
Tutto il poema è immerso in una luce livida, violacea (il viola è colore quaresimale, e la quaresima è
l'astensione dalla carne); la nebbia è un elemento offuscante, Tiresia è lo spettatore che lega tra loro gli
avvenimenti; il poeta è Tiresia, occhio cieco/chiaroveggente, apocalittico.
Riporto in Appendice il testo integrale del poemetto seguito dalla traduzione.
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4. VUOTO DI SENSO
IL SANTO GRAAL: ALLA RICERCA DI COSA?
Che cos'era il Santo Graal? Qual era il suo potere? E - ammesso che sia mai esistito - dove si trova adesso?
Svariate sono le ipotesi in proposito, e nessuna davvero convincente: nessuna infatti rende ragione del
mistero che circonda questo oggetto, né della sua natura, né, soprattutto, della enorme potenza ad esso
attribuita.
A fronte dell'immensa importanza che esso riveste in tanta parte della cultura occidentale, abbiamo il vuoto
assoluto delle testimonianze, che sembrano più spesso depistare il ricercatore che condurlo sulla giusta
traccia.
Dante Gabriel Rossetti, Il Santo Graal, data ignota
Tentiamo di far luce sull'argomento partendo dall'etimologia.
Il termine Graal deriva, pare, dal latino Gradalis o dal greco κρατήρ, con cui si designa una tazza, un vaso,
un calice, un catino (secondo alcuni questa è pure l'etimologia dell'odierno "grolla"). Questi oggetti, nella
mitologia (ed anche nella simbologia freudiana), rappresentano il grembo fecondo della Grande Madre, la
Terra, e portano vita e abbondanza. La coppa della vita dei Celti è il "Calderone di Dagda", portato nel
mondo materiale dai Tuatha De Danaan, rappresentanti ultraterreni del "piccolo popolo" (il magico popolo
degli abitatori dei boschi, fate, streghe, gnomi e folletti). Molti eroi celtici hanno avuto a che fare con magici
calderoni.
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La tradizione cristiana annovera almeno due sacri contenitori: il Calice dell'Eucarestia e sorprendentemente - la Vergine Maria. Nella "Litania di Loreto", antica preghiera dedicata a Maria, essa è
descritta come Vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis, ovvero "vaso spirituale, vaso dell'onore,
vaso unico di devozione": nel grembo (vaso) della Madonna, infatti, la divinità era divenuta manifesta.
Il primo a nominare il Graal è Chrétien de Troyes nella sua opera "Perceval le Gallois ou le Compte du
Graal" del 1190: ma nel poema non si allude mai ad un suo legame con Gesù e non si sa neppure che
forma abbia: Chrétien, descrivendo il banchetto nel castello del "Re Pescatore", dice semplicemente che «un
graal antre ses deus mains / une dameisele tenoit» (un graal tra le sue due mani / una damigella teneva) e
descrive le pietre preziose incastonate nell'oggetto, che è d'oro e illumina tutta la stanza. Che cos'è?
Si intuisce che è un contenitore perché "il giovane non domanda a chi lo si serva" e poco dopo "Ma non sa a
chi lo si serva". Il Graal viene portato in processione e viene preceduto da altri oggetti simbolici, tra cui la
Lancia Sanguinante. Già in questo primo racconto si fa accenno al sangue, ma non si dice che sia quello di
Cristo.
Il Graal viene citato di nuovo in una delle scene finali, quella in cui un eremita rivela a Perceval che il Graal
porta al padre del Re Pescatore un'ostia, suo unico nutrimento (ma secondo alcuni questa scena è spuria).
E' nel testo arturiano "Joseph d'Arimathie - Le Roman de l'Estoire du Graal" del 1202, di Robert de Boron,
che il Santo Graal viene descritto come il calice dell'Ultima Cena, in cui Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto
il sangue di Gesù crocifisso.
Nuovi elementi in merito li ritroviamo in "Le Grand Graal", un testo di autore ignoto che continua e integra
il racconto del "Joseph d'Arimathie".
Icona raffigurante Giuseppe d'Arimatea a Glastonbury, con il Santo Graal e il bastone fiorito,
opera di un monaco della Confraternita di San Seraphim di Sarov.
Alcuni credono che il Santo Graal sia seppellito nel cosiddetto "Chalice Well" proprio a Glastonbury.
La visione che emerge da questo testo è probabilmente la più interessante: il Santo Graal viene associato a un
libro scritto da Gesù Cristo, alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio; le verità che esso
contiene, se pronunciate da lingua mortale, sconvolgerebbero i quattro elementi: i cieli diluvierebbero,
l'aria tremerebbe, la terra sprofonderebbe e l'acqua cambierebbe colore; insomma, si avrebbe qualcosa di
molto simile alla fine del mondo.
Il libro-coppa possiede quindi un temibile potere.
Comunque sia, il calice fu portato in Inghilterra. Perché?
Una risposta scettica potrebbe essere che esso in qualche modo "doveva" essere portato lì, dal momento che
proprio in Inghilterra è ambientato il "ciclo arturiano", legato con la ricerca del Graal.
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Ma i sostenitori della sua esistenza materiale raccontano a questo proposito una strana storia, notevole
quanto meno per la sua disinvolta noncuranza cronologica: durante la sua permanenza in Cornovaglia Gesù
aveva ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido convertito al cristianesimo e quell'oggetto gli era
particolarmente caro. Dopo la crocifissione, Giuseppe d'Arimatea aveva voluto riportarle la coppa al
donatore, ulteriormente santificata dal sangue di Cristo.
Orbene, il Druido in questione (con grande sprezzo della verosimiglianza cronologica, giacché ce lo
ritroviamo cinquecento anni dopo quale consigliere di Artù!) era Merlino.
Le fonti relative alla cosiddetta "Materia di Bretagna" divergono sostanzialmente circa le peripezie subite dal
Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra. A grandi linee è possibile ricostruire così il seguito della storia:
Giuseppe di Arimatea affida la coppa ad un guardiano soprannominato "Ricco Pescatore" o "Re Pescatore"
(detto così perché, come Gesù, ha sfamato un gran numero di persone moltiplicando un solo pesce).
Apparizione del Santo Graal, manoscritto del XV secolo (Parigi)
Il Re Pescatore o Re Ferito o Re Magagnato viene caratterizzato in modi molto diversi da diversi autori,
concordi su un unico dettaglio: ha una menomazione alle gambe o ai genitali e ha difficoltà a muoversi. Il
Re passa il suo tempo pescando in un fiume nei pressi del suo castello di Corbenic. Molti cavalieri erranti si
recano dal Re Pescatore per guarirlo, ma questo sarà possibile solo al prescelto destinato a trovare il Graal
(nelle storie più antiche Parsifal; in seguito anche Galahad e Bors).
Molte opere ritraggono però due re feriti, padre e figlio (o nonno e nipote): il più anziano è relegato dalla
malattia nel suo castello, tenuto in vita solo dal Graal; il più giovane, anch'egli menomato, riesce invece a
incontrare gli ospiti e andare a pesca. Là dove sia necessario distinguere queste due figure, esse vengono
chiamate rispettivamente "Re Ferito" e "Re Pescatore".
Secoli dopo nessuno sa più dove si trovino il "Re Pescatore" e il "Santo Graal". La menomazione del re si
ripercuote ora sul suo regno, che si è trasformato in un luogo deserto e devastato, "La terra desolata", la
"terre gaste" (Waste Land). Sulla Bretagna regna dunque uno stato di carestia e devastazione sia fisica che
spirituale ("The waste land" s'intitola non a caso un poemetto composto da T.S. Eliot tra il 1921 e il
1922, uno dei capolavori assoluti della letteratura novecentesca, uno dei cui simboli centrali, come si è
visto, è proprio la ricerca del Santo Graal).
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Merlino dice a Re Artù che per annullare il Wasteland è necessario ritrovare il Santo Graal. Un Cavaliere
(Parsifal o Galaad, "il Cavaliere vergine") occupa allora lo "Scranno periglioso", una sedia vuota alla Tavola
Rotonda, su cui può sedersi (pena l'annientamento) solo "il Cavaliere più virtuoso del mondo", colui che è
stato predestinato a trovare il Santo Graal.
Ispirato da sogni e presagi, e superando una serie di prove tremende come il "Cimitero periglioso", il "Ponte
periglioso", la "Foresta perigliosa" eccetera, Parsifal rintraccia Corbenic, il Castello del Santo Graal, e giunge
al cospetto della Sacra Coppa.
Non osa però porre le domande "Che cos'è il Santo Graal? Di chi esso è servitore?". Contravviene così al
suggerimento evangelico "Bussate e vi sarà aperto", ed il Santo Graal scompare di nuovo.
Dopo che il Cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende e finalmente Parsifal (o
Galaad) pone il quesito, a cui viene data questa sconcertante risposta: "È il piatto nel quale Gesù Cristo
mangiò l'agnello con i suoi discepoli il giorno di Pasqua. (...) E perché questo piatto fu grato a tutti lo si
chiama Santo Graal".
A questo punto la maledizione del Wasteland finisce; Re Artù muore a Camlann e Merlino sparisce nella sua
tomba di cristallo (o, a seconda delle versioni della leggenda, di aria).
Iconografia classica di un cavaliere templare
A questo punto - siamo intorno al 540 - il Santo Graal viene riportato da Parsifal a Sarraz, una terra in Medio
Oriente impossibile da identificare: essa infatti non è in Egitto, ma "vi si vede da lontano il Grande Nilo", ed
il suo Re combatte contro un Tolomeo, mentre è noto che la dinastia tolemaica si estinse prima di Cristo.
Per secoli non si parlò più del Santo Graal, finché, verso la fine del XII secolo, esso tornò improvvisamente
alla ribalta a causa delle Crociate. A partire dal 1095, molti Cavalieri cristiani si erano recati in Terra Santa,
ed erano entrati per forza di cose in contatto con le tradizioni mistiche ed esoteriche del luogo. Qualcuna di
esse parlava del Santo Graal, un sacro oggetto dagli straordinari poteri. Grazie ai Crociati, la leggenda
raggiunse l'Europa e vi si diffuse. C'è anche chi ritiene che il Santo Graal sia stato rintracciato dai Templari e
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IL VUOTO
riportato nel Vecchio Continente. Proprio in questa occasione, per proteggerlo e tenerlo al sicuro, i Templari
lo avrebbero affidato ai Catari, che, come si è detto, lo avrebbero nascosto a Montségur.
Intorno al 1210, nel poema "Parzival" (fonte d'ispirazione di Wagner), il tedesco Wolfram Von Eschembach
fornisce una nuova interpretazione della natura del Santo Graal. Nella sua visione esso non è più una coppa,
ma una pietra dai poteri misteriosi: "una pietra del genere più puro (...) chiamata lapis exillis. (Se un uomo
continuasse a guardare) la pietra per duecento anni, (il suo aspetto) non cambierebbe: forse solo i suoi capelli
diventerebbero grigi".
Il termine "lapis exillis" è stato interpretato come "lapis ex coelis", ovvero "pietra caduta dal cielo": e difatti
Wolfram Von Eschembach scrive che la pietra era uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero e portato a
terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione. Forse un meteorite dagli strani poteri? Viene in
mente, curiosamente, la Kryptonite verde di Nembo Kid, alias Superman (sia pure con poteri opposti)...
E se sì, dov'è finito?
Anche in seguito la letteratura (soprattutto inglese) si è spesso occupata del Santo Graal, generalmente senza
più alcuna pretesa di identificarne la reale natura.
Fra gli esempi più celebri cito il romanzo "Le Mort d'Arthur" di Sir Thomas Malory (1405/1416–1471).
Scritto anche "Le Morte d'Arthur", è una rielaborazione di tutti i testi francesi e inglesi (tra cui il "Lancillotto"
in prosa e il "Brut" di Layamon) che Malory aveva a disposizione sulla vita di re Artù. Terminato nel 1469, fu
pubblicato postumo da William Caxton nel 1485. Probabilmente è proprio questo romanzo il testo che ha più
influenzato la visione dei posteri della leggenda del re bretone.
In seguito Alfred Tennyson (1809–1892), poeta laureato per eccellenza del Regno Unito, scrisse "The Idylls
of the King" (1885), una raccolta di poesie interamente basate su Re Artù e sul ciclo bretone, ispirato
appunto dai racconti che Sir Thomas Malory aveva precedentemente scritto sul leggendario sovrano. L'opera
fu dedicata al Principe Alberto, marito della regina Vittoria.
E' noto poi che tutto il best-seller di Dan Brown "Il codice Da Vinci" si basa su una singolare “caccia al
tesoro” che ha per oggetto appunto il Santo Graal, condotta da uno studioso di simbologia americano,
Robert Langdon, e da una poliziotta francese di nome Sophie Neveu, specializzata in crittologia.
Un misterioso sicario uccide il direttore del Louvre, Jacques Saunière, nonno della poliziotta, che si scopre
essere stato Gran Maestro del Priorato di Sion, fantomatica setta (la cui reale esistenza non è mai stata
accertata) custode di terribili segreti riguardanti Gesù Cristo e il Graal. Nella ricerca i due vengono ostacolati
dalla potente associazione dell’Opus Dei (realmente esistente, sia pure con connotazioni diverse) e da un
misterioso Maestro.
Alla fine si scoprirà che il famoso calice di Cristo altro non sarebbe che Maria Maddalena, che, come
affermano i Vangeli apocrifi e in particolare gnostici, avrebbe sposato Gesù e da questi avrebbe anche avuto
dei figli.
Ma non è tutto qui: i figli di Gesù e della Maddalena, messisi in salvo in Francia, sarebbero divenuti
nientemeno che i membri della dinastia dei Merovingi (per l'occultista inglese Dion Fortune addirittura
quella dei sacerdoti di Atlantide!). Le stesse parole Santo Graal, lungi dal derivare dal latino Gravalis, non
sarebbero che una storpiatura del francese "Sang Real" (= sangue reale).
Come si è detto, poi, "The waste land" è il titolo di un poemetto composto da T.S. Eliot tra il 1921 e il
1922, capolavoro assoluto della letteratura modernista, imperniato sulla ricerca simbolica del Santo Graal.
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IL VUOTO
Illustrazione di Gustave Doré per "The Idylls of the King" di Tennyson
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Jean Delville, "Parsifal", 1890
La Maddalena sarebbe associabile al calice del Graal perché, come il Graal “tradizionale”, avrebbe accolto il
“sangue di Gesù”, ed anche perché uno dei simboli indicanti il sesso femminile è una V detta appunto
“calice”; anche la "M" indicante Maria Maddalena è caratteristicamente disegnata con la parte centrale molto
accentuata, simile ad una grande "V".
I custodi di questo "segreto", nonché difensori della stirpe di Gesù e della Maddalena, sarebbero i membri
del suddetto Priorato di Sion.
Il percorso seguito da Brown nel suo romanzo non è originale: da un certo punto di vista, anzi, esso si può
considerare un vero e proprio plagio. La tesi di fondo, infatti, era già stata sostenuta in termini analoghi, e
tutto sommato più convincenti, nel 1982, nel saggio "The Holy Blood and the Holy Grail" di M. Baigent, R.
Leigh e H. Lincoln (trad. it. "Il Santo Graal", Milano, Mondadori, 1982). Secondo i tre autori Gesù, salvatosi
dalla crocefissione, avrebbe generato dei figli, da cui sarebbe nata, come s'è detto, la dinastia francese dei
Merovingi. Il Santo Graal sarebbe stato individuato a Rennes-le-Château dal parroco Bérenger Saunière nel
1891-2.
Il sacerdote infatti, durante alcuni lavori di ristrutturazione alla antica chiesa, rinvenne delle misteriose
pergamene contenenti messaggi cifrati. Questi messaggi avrebbero portato Bérenger Saunière dapprima ad
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un misterioso dipinto di Poussin (la seconda versione di "Et in Arcadia Ego"), e quindi ad una antica tomba
nelle vicinanze di Rennes-le-Château (tomba esistente fino al 1988 e poi misteriosamente distrutta). I tre
autori ipotizzano che Bérenger Saunière avesse rinvenuto, magari proprio in quella tomba, il Santo Graal.
Naturalmente non ne esiste la benché minima prova.
Uscendo però dalla nebbia delle ipotesi, i fatti attestano che il parroco, da una situazione di partenza
decisamente modesta, si trovò di colpo a spendere cifre elevatissime: si calcola che abbia speso in totale una
somma pari al corrispondente di 30 miliardi dei giorni nostri. Perché? Cos'aveva trovato Saunière? E dov'è
finito questo qualcosa?
Secondo gli autori l'ipotesi più probabile è che le misteriose carte rinvenute da Berenger Saunière dietro
l'altare della chiesa di Rennes-Le-Château siano state il punto di partenza per il ritrovamento di altri
documenti i quali proverebbero che, lungi dall'essersi estinti nel 751, i Merovingi (e quindi gli eredi diretti
di Cristo) sono ancora tra noi, accuratamente protetti da un'antica società iniziatica denominata "Priorato di
Sion". Questo avrebbe dato a Saunière formidabili armi di ricatto nei confronti della Chiesa, "usurpatrice"
dei diritti dei Merovingi sia mediante la figura di Pietro, sia per avere avallato l'ascesa al trono dei Carolingi,
responsabili dell'assassinio dell'ultimo re dei Merovingi, Dagoberto II.
Come i "Superiori Sconosciuti" di Agarthi, i membri del Priorato - di cui sarebbero stati Gran Maestri, tra gli
altri, Nicolas Flamel, Leonardo da Vinci, Ferrante Gonzaga, Robert Fludd, Victor Hugo, Claude Debussy,
Jean Cocteau - costituiscono una "Sinarchia" o governo occulto che, ormai da quasi un millennio, influisce
sulle scelte (politiche o d'altro genere) dei governi ufficiali.
Baigent, Leigh e Lincoln, nel seguito di "The Holy Blood and the Holy Grail", intitolato "The Messianic
Legacy" (L'eredità messianica, 1986), denunciano che negli ultimi tempi il "Priorato" si è parzialmente
corrotto e che alcune sue frange mantengono stretti contatti con la Mafia, la P2 e altre associazioni
deviate.
Certo bisognerebbe accostarsi al fenomeno con maggiore cautela: si consideri ad esempio che il romanzo di
Wolfram Von Eschembach, racconto iniziatico e alchemico al tempo stesso, descrive la ricerca del Santo
Graal in termini puramente metaforici: in poche parole si tratta di un simbolo, non di un oggetto materiale.
Soltanto il cavaliere che si immerge totalmente nel suo compito, che vi dedica anima e corpo, come Parsifal,
può trovare il Santo Graal, ovvero l’unione estatica con Dio, la via della perfezione verso la Gerusalemme
Celeste.
Se così fosse, sarebbe evidentemente inutile affannarsi ancor oggi in tentativi di rintracciare la reliquia del
Santo Graal.
Eppure sono in molti a credere il contrario ed a pensare che, al di là delle fantasie letterarie, questo
indefinibile oggetto sia realmente esistito. Se dunque ha una consistenza materiale, dove si trova oggi il
Santo Graal?
Molti sono i luoghi che rivendicano di esserne i depositari: nel corso dei secoli si sono succedute
testimonianze della sua presenza in Inghilterra, Francia, Scozia, Galles, Spagna, Iran, Italia etc., e persino a
Oak Island, nel New England (USA).
Una situazione ben confusa! Cerchiamo di fare un po' di chiarezza.
Anzitutto c'è da osservare, piuttosto banalmente, che è ben difficile scoprire dove è custodito qualcosa che
non si sa cosa sia.
Il Graal infatti è un oggetto che ha proprietà alquanto contraddittorie: permette di abbeverarsi (l'ultima
cena), ma vi si può anche versare qualcosa (il sangue di Cristo crocefisso), può guarire le ferite, dona una
vita lunghissima, garantisce l'abbondanza, trasmette e garantisce la conoscenza, ma è anche dotato di poteri
terribili e devastanti.
Comprendere di che cosa si tratti, in queste condizioni, è un'impresa disperata.
Eppure la tradizione sull'esistenza di un oggetto con questi poteri è antichissima e diffusa in una vasta zona
dell'Asia, del Nord Africa e dell'Europa; il Graal è forse stato identificato con nomi diversi (la "Lampada di
Aladino", il "Vello d'Oro", l'"Arca dell'Alleanza").
Ricapitoliamo le principali ipotesi sulla sua identità.
Il Graal potrebbe essere:
- un calice (più o meno sacro, generalmente associato a quello che avrebbe contenuto il sangue di Gesù);
- un vassoio (quello dell'Ultima Cena);
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- un libro scritto da Gesù Cristo cui può accedere solo chi è in grazia di Dio, la cui lettura potrebbe
avere conseguenze terribili (la fine del mondo?);
- una pietra dai poteri misteriosi (smeraldo? Meteorite?), secondo la tesi di Wolfram Von Eschenbach;
- un simbolo della ricerca interiore (ancora Wolfram Von Eschenbach);
- Maria Maddalena e la discendenza di Gesù;
Edward Burne Jones, "Il sogno di Lancillotto presso il Santo Graal", 1896
- l'Arca dell'Alleanza, costruita dall'antico popolo israelitico per contenere le tavole dei Dieci
Comandamenti, venerata nei secoli come simbolo della presenza di Dio sulle terra, dotata di poteri
straordinari, inspiegabilmente scomparsa dal Tempio di Salomone nel sesto secolo prima di Cristo senza
lasciare traccia, ma che forse si trova attualmente in Etiopia ad Axum (è la tesi dello scrittore inglese Graham
Hancock in "Il mistero del sacro Graal. Alla ricerca dell'Arca dell'Alleanza", 1995);
- un corpus di dottrine elaborato attraverso i secoli (è l'ipotesi degli antropologi);
- l'evangelizzazione del mondo barbaro, operata dai missionari (Giuseppe d'Arimatea), stroncata dalle
persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un sacerdote (Merlino), o ancora,
la cacciata dall'Eden (il Wasteland) e la successiva redenzione grazie all'intervento di Gesù (è il punto di
vista della tradizione cristiana);
- il cuore di Cristo, potente simbolo della religione primordiale praticata ad Agarthi, di cui Gesù sarebbe
stato un esponente (tesi degli esoteristi René Guenon e Julius Evola);
- la conoscenza, la cui ricerca equivale a quella della Pietra Filosofale o dell'Elisir di lunga vita (è l'opinione
degli alchimisti);
- un archetipo dell'inconscio (per Carl Gustav Jung);
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- un'apparecchiatura proveniente dallo spazio, o qualcosa che ha a che vedere con i terribili poteri della
fusione nucleare (per gli autori di romanzi di fantascienza e i fautori dell'ipotesi extraterrestre);
- uno strumento magico con cui ottenere il potere assoluto; è la tesi di Hitler, che lo fece cercare negli anni
'30 da Otto Rahn e Alfred Rosenberg;
- la Sacra Sindone (recente ipotesi dello storico Daniel Scavone).
Supponendo comunque che si tratti di un oggetto materiale, esaminerò di seguito i nascondigli ritenuti più
probabili.
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Il Castello di Gisors.
Secondo questa tesi i Cavalieri Templari avevano stretto rapporti con la "Setta degli Assassini", un gruppo
iniziatico ismailita che adorava una misteriosa divinità chiamata Bafometto. Per alcuni il Bafometto altro
non era che il Santo Graal; prima di essere sgominati, gli Assassini lo avevano affidato ai Cavalieri Templari,
che lo avevano portato in Francia verso la metà del XII secolo. Se le cose fossero davvero andate così, ora il
Santo Graal si troverebbe tra i leggendari tesori dei Cavalieri Templari (mai rinvenuti) in qualche sotterraneo
del castello di Gisors.
Il castello di Gisors
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- Castel del Monte.
I Cavalieri Teutonici, fondati nel 1190, erano in contatto sia con i mistici Sufi, una setta islamica che adorava
il Dio delle tre religioni, Ebraica, Islamica e Cristiana, sia con l'illuminato Imperatore Federico II
Hohenstaufen, a sua volta seguace di quella dottrina. Tramite i Cavalieri Teutonici, i Sufi avrebbero affidato
il Santo Graal all'Imperatore, affinché lo preservasse dalle distruzioni scatenate dalle Crociate. In tal caso, il
Santo Graal si troverebbe in Puglia a Castel del Monte, un palazzo a forma di coppa ottagonale edificato
apposta per custodirlo.
Castel del Monte
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IL VUOTO
- Takht-I-Sulaiman (Iran).
Secondo questa ipotesi il Santo Graal sarebbe il simbolico "Fuoco Reale" fonte della conoscenza, adorato dai
seguaci di Zarathustra a Takht-I-Sulaiman, il principale centro del culto di Zoroastro, i cui resti sono stati
riportati alla luce nel 1819. Takht-I-Sulaiman potrebbe essere dunque la mitica Sarraz, da cui il Santo Graal
(Fuoco Reale) giunse, a cui ritornò e dove forse si trova ancora;
Le rovine di Takht-I-Sulaiman
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- Montségur.
Dopo che il culto di Zoroastro venne soppresso, alcune delle sue dottrine furono ereditate dai Manichei e, di
seguito, dai Catari o Albigesi; se avessero portato con loro il Santo Graal durante le loro peregrinazioni, ora
esso potrebbe trovarsi insieme al resto del loro tesoro in qualche impenetrabile nascondiglio del castello di
Montségur, baluardo della loro ultima resistenza (1244).
La rocca di Montségur
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Altre ipotesi, considerate secondarie, coinvolgono l'Italia, e precisamente:
- Torino.
Importato forse dai pellegrini che si spostavano per l'Europa durante il medioevo, o forse dai Savoia insieme
alla Sacra Sindone, il Santo Graal sarebbe giunto nel capoluogo piemontese; le statue del sagrato del tempio
della Gran Madre di Dio, sulle rive del Po, indicherebbero, a chi è in grado di comprenderne la complessa
simbologia, il nascondiglio della Coppa.
Torino, Chiesa della Gran Madre
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- Bari.
Nel 1087, un gruppo di mercanti portò a Bari dalla Turchia le spoglie di San Nicola, e in loro onore venne
edificata una basilica. In realtà la translazione del Santo sarebbe stata la copertura di un ritrovamento ben
più importante, quello del Santo Graal. I mercanti erano in realtà cavalieri in missione segreta per conto di
Papa Gregorio VII. Il Pontefice era al corrente del potere del Calice, ma non intendeva pubblicizzare la sua
ricerca né l'eventuale ritrovamento, in quanto esso era un oggetto pagano o comunque il simbolo di una
religione ancor più universale di quella cattolica. Gli premeva di recuperarlo da Sarraz perché temeva che la
sua presenza sul suolo turco avrebbe aiutato i Saraceni nella loro espansione ai danni dell'Impero Bizantino e
avrebbe nociuto al programmato intervento di forze cristiane in Terra Santa a difesa dei pellegrini. Non è
dato di sapere dove si trovasse la coppa e chi comandò la spedizione.
La scelta di custodire il Santo Graal a Bari anziché a Roma fu determinata da due motivi: da lì si sarebbero
imbarcati i cavalieri per la Terra Santa (la prima crociata fu bandita sei anni dopo il ritrovamento) e il Santo
Graal avrebbe riversato su di loro i suoi benefici effetti; in più la sua presenza avrebbe protetto Roberto il
Guiscardo, Re normanno di Puglie, principale alleato del Papa nella lotta contro l'imperatore Enrico IV.
A ricordo dell'avvenimento, sul portale della cattedrale si trova l'immagine di Re Artù e un'indicazione
stilizzata del nascondiglio.
Bari, Basilica di San Nicola
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Dal best-seller "Il codice Da Vinci" in avanti, però, sono in molti a pensare che il rifugio del Graal sia altrove:
e precisamente in Scozia, nel piccolo villaggio di Roslin, a circa 11 chilometri da Edimburgo, dove si
conserva un incredibile gioiello architettonico:
- La Rosslyn Chapel.
La Rosslyn Chapel, detta anche Collegiata di San Matteo, è un mistero scolpito nella pietra: riccamente
decorata con simboli biblici, massonici, pagani e appartenenti alla tradizione dei templari, presenta elementi
decorativi che rappresentano scene della vita di Gesù incomprensibilmente alternati a figure umane, angeli,
margherite, rose, gigli, stelle, foglie. Qualcuno l'ha definita un inno alla Massoneria; e in effetti essa fu fatta
costruire nel 1446 da William Sinclair, Principe delle Orcadi, membro della nobilissima famiglia Sinclair e
supposto fondatore del Rito Scozzese della Massoneria.
Fra i vegetali riprodotti ci sono delle piante di mais, e questo è uno dei misteri della cappella, dal momento
che al tempo della sua costruzione il mais, notoriamente di origine americana, non era stato ancora scoperto:
ma si racconta che Henry St. Clair, nonno di William, abbia raggiunto prima di Cristoforo Colombo, assieme
a Sir James Gunn of Clyth e al veneziano Antonio Zeno, le coste americane. E' noto del resto che la scoperta
dell'America, negli ambienti esoterici, è attribuita per l'appunto ai Templari.
La Rosslyn Chapel
Fra le figure umane spiccano i "green men", uomini verdi, considerati figure mitologiche pagane, che non si
trovano in nessun'altra cappella risalente al XV secolo: a Rosslyn ce ne dovrebbero essere 109, nascosti tra le
varie sculture.
La Rosslyn Chapel è sempre stata considerata uno dei luoghi più misteriosi di tutta l'Europa del nord: la
leggenda racconta che Sir William la costruì servendosi di templari travestiti da scalpellini, il che
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IL VUOTO
confermerebbe la tesi secondo la quale alcuni templari erano sfuggiti alla persecuzione del 1307 rifugiandosi
per l'appunto in Scozia.
Si sa inoltre che sotto la cappella sono custoditi i resti di diciannove signori Sinclair, sepolti senza bara e
ricoperti della propria armatura, ma nessuno può saperlo con certezza: nessuno infatti è più entrato nei
sotterranei di Rosslyn dal 1650-1652.
Circolano varie leggende su Rosslyn: la più celebre sostiene che qui si celi un segno segreto che, una volta
decifrato, rivelerebbe l'ubicazione del Santo Graal; gli scettici obiettano che a Rosslyn ci sono milioni di
piccoli 'Graal': le croci 'dentellate' presenti sullo stemma della dinastia Sinclair sono dette "engrailed crosses".
Altri sostengono che a Rosslyn sia sepolto il tesoro dei Templari; altri ancora che da qui si diramino
importanti "lay lines", linee di energia che attraversano la Gran Bretagna.
Le leggende che circolano su Rosslyn includono la presenza di fantasmi, in particolare un cavaliere nero e
una dama bianca, che frequentano entrambi, si racconta, le rovine del vicino castello di Roslin; ma anche
fantasmi di monaci e di templari.
Si racconta inoltre che ogni volta che un discendente del Principe delle Orcadi muore, la cappella appare
avvolta dalle fiamme, un fenomeno che Walter Scott descrive nel poema "Il Lamento dell'Ultimo
Menestrello".
Alcuni poi affermano che la Rosslyn Chapel riproduca la pianta del Tempio di Salomone a Gerusalemme;
la Colonna dell'Apprendista, la più ornata di tutta la cappella, decorata con figure tratte dalla mitologia
nordica, e la Colonna del Maestro, rappresenterebbero le colonne Boaz e Jachim situate nel Tempio di
Salomone; anche la storia della Colonna dell'Apprendista (un capomastro invidioso uccise l'apprendista che
lo superò in bravura nella costruzione della più bella colonna della Cappella) è simile alla leggenda
massonica di Hiram Abif, architetto del re Salomone, ucciso da tre compagni perché negava loro
l'avanzamento al grado di maestro (si veda l'interessantissimo libro "La chiave di Hiram" di Knight e
Lomas, tr. it. Mondadori 1998).
La "colonna dell'apprendista" a Rosslyn
I visitatori più attenti possono scoprire tra le altre sculture anche ritratti dell'Apprendista, di sua madre e del
Maestro.
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IL VUOTO
Interno della Rosslyn Chapel
Sia come sia, l'aspetto più inquietante e storicamente più rilevante della faccenda, a mio parere, è costituito
dalla ricerca del Santo Graal da parte di Adolf Hitler: qualunque cosa cercasse, infatti, e dovunque la
cercasse, è evidente che il Führer prendeva la cosa terribilmente sul serio.
Nella prossima sezione cercheremo di capirne il perché.
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IL VUOTO
HITLER E LA RICERCA DEL SANTO GRAAL
La ricerca di Agarthi e del Santo Graal da parte di Adolf Hitler s'inserisce nel più ampio contesto del
cosiddetto "hitlerismo esoterico", il cui principale rappresentante fu Heinrich Himmler ed il cui esito più
noto fu la costituzione, nel 1935, della cosiddetta Ahnenerbe ("Società di ricerca ed insegnamento
dell'eredità ancestrale").
Ripercorriamo le fasi essenziali del fenomeno.
1. Jörg Lanz Von Liebenfels.
Nel 1907 Jörg Lanz Von Liebenfels, un monaco cistercense espulso in seguito dall’Ordine, fondò, in una
fortezza sul Danubio, l'Ordine dei Nuovi Templari; al nuovo Ordine affiancò una rivista, Ostara, organo
ufficiale per la diffusione di una nuova dottrina, l'Ariofilosofia, che predicava, tra l'altro, la superiorità della
razza germanica. Il tutto derivava da una personale interpretazione dei testi biblici in base alla quale il
termine Angelo veniva letto Euroariano ed i popoli dei fiumi mesopotamici venivano fatti discendere
direttamente da una razza subumana chiamata Pagutu.
Jörg Lanz Von Liebenfels
L’idea di Von Liebenfels diede lo sprone alla nascita di nuovi gruppi, tutti dai nomi vagamente marziali
quali Armen Order, Ordo Novi Templi, Germanen Order e la famigerata Società Thule. Il primo a
riconoscere in questi eventi una materializzazione oscura fu Carl Gustav Jung, il quale ribattezzò il
proliferare di questi movimenti come "l’Archetipo Wotan", mettendo tutti in guardia contro i pericoli che ne
sarebbero potuti derivare.
2. La Thule Gesellschaft, i Superiori Sconosciuti e la Terra cava.
I "Nuovi Templari" non erano l'unica società esoterica della Germania prenazista. Tra il 1900 e il 1930, come
sempre accade nei periodi di crisi e di confusione ideologica, molti tedeschi cercavano nel soprannaturale
quelle certezze e quell'identità venute a mancare nel mondo reale.
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Sulla scia delle dottrine predicate dall'americana "Società Teosofica Internazionale" (fondata a New York il
17 Novembre 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, nobildonna russa nonché celebre medium e occultista, e
dal colonnello americano H.S. Olcott) e dall'inglese "Golden Dawn" (fondata nel 1887 e diretta in questo
periodo dal sinistro Aleister Crowley), e, forse, ispirati anche da una cattiva interpretazione della filosofia
del "Superuomo" di Nietzsche, videro la luce molti "ordini" caratterizzati dall'idea ossessiva della necessità
della rifondazione di una Razza Superiore originata millenni addietro dai "Superiori (o Maestri)
Sconosciuti". Questi ultimi erano concepiti come semidei che controllavano i destini del mondo
standosene nascosti - a seconda dei casi - nelle viscere della terra, in profonde gallerie scavate nell'Himalaya
o in altri luoghi inaccessibili.
Madame Blavatsky
Nel 1910 fu fondata la "Società di Thule" (Thule Gesellschaft), la quale identificava l'origine della razza ariana
nell'antica Thule di cui parla il geografo greco Pytheas (IV sec. a.C.), forse l'attuale Islanda; questa razza era
costituita da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, che un tempo dominavano il
mondo, successivamente perso per aver consumato relazioni sessuali con membri di altre razze, inferiori,
subumane e in parte animali. In effetti, nel mito thuleano di una terra abitata da una razza umana sotto certi
aspetti "superiore", identificata sovente con il popolo degli Iperbòrei, organizzata in una società pressoché
perfetta, si possono facilmente ritrovare alcune della basi del mito - accolto e divulgato dal nazismo - della
razza ariana, superiore a qualsiasi altra e dunque inevitabilmente dominante sul mondo.
Thule (qui indicata come Tile) in una carta di Olao Magno del 1539
La "Società di Thule" attinse a piene mani dalle teorie di Von Liebenfels e di Madame Blavatsky, la quale
sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi "Superiori sconosciuti". Essi, che a suo dire erano i
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sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra Tibet e Nepal, si sarebbero rifugiati in seguito a una spaventosa
catastrofe nelle viscere della terra, dove avrebbero fondato una straordinaria civiltà sotterranea, la mitica
Agarthi. I superstiti rimasti sulla superficie terrestre si sarebbero trasferiti parte in Tibet, parte nel nord
Europa, dando origine alla razza ariana (la riprova sarebbe l'analogia tra il nome del regno degli Dei nordici,
Asgard, e Agarthi, nome del mitico centro spirituale nascosto in Tibet).
Anche per la "Società del Vril" (il Vril è l'enorme quantità di energia che possediamo e di cui non
utilizziamo che una piccolissima parte nella vita quotidiana, il nucleo della nostra potenziale divinità) i
Superiori Sconosciuti si trovavano nelle viscere della terra, ed era possibile diventare simili a loro soltanto
purificando la razza.
Un "ingegnere" autodidatta, Hans Hörbiger, formulò nel 1925 una teoria sul "mondo di ghiaccio", secondo
la quale l'universo sarebbe nato dalla collisione di blocchi di "ghiaccio cosmico" dotati di movimento a
spirale con enormi masse di fuoco. Dal ghiaccio, che tempra corpi e spirito, sarebbero nati sulla terra i
Superiori Sconosciuti, dispersi in vari cataclismi tra cui quello di Atlantide, ma destinati a riorganizzarsi in
una nazione germanica.
Queste società fecero entusiasticamente propria la "teoria della Terra cava" dell'americano Symmes: quale
miglior nascondiglio dell'interno della Terra, per una civiltà superiore di origine ariana?
Non mancò chi, come Bender, fondatore del gruppo della "Hohl Welt Lehre", sostenne che l'umanità
vivrebbe addirittura all'interno di una sfera di cui il Sole costituisce il centro. Sappiamo che Hitler fu un
convinto sostenitore delle teorie di Hörbiger e di Bender.
Una "mappa della terra cava" realizzata per un gioco
da Exile Game Studio nel 2005
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IL VUOTO
3. La personalità di Hitler fra mistico e maniaco.
Alfredo Castelli, creatore di Martin Mystère, racconta in un suo sito che secondo August Kubizek, uno dei
pochi amici di Hitler durante la sua giovinezza a Linz, in Austria, le ossessioni magico-politico-razziali del
futuro Führer si rivelarono d'improvviso attorno al 1904, quando Hitler aveva quindici anni. Dopo aver
assistito a Rienzi, un'opera di Wagner impregnata d'esoterismo dedicata al tribuno Cola di Rienzo, il giovane
Hitler cominciò a parlare di "una missione che il destino gli aveva riservato" e che "avrebbe affrancato la sua
razza dalla servitù". Sempre secondo Kubizek, in quell'occasione Hitler parlò per la prima volta con quella
voce frammentata e caratterizzata da violenti toni d'ira che sarebbe divenuta tristemente famosa grazie ai
suoi discorsi, e che però - fatto singolare, noto solo agli intimi - non era la voce "normale" con cui si
esprimeva quotidianamente. "Pareva lui stesso stupito" scrisse Kubizek - "come se sentisse le parole di un
altro uscire dalla propria bocca".
C'è chi vede in questo i primi sintomi di una forma di schizofrenia che l'avrebbe accompagnato per tutta la
vita, chi invece azzarda l'ipotesi di una vera e propria possessione demoniaca.
Adolf Hitler
Sta di fatto che da quel momento Hitler cominciò a occuparsi, quasi a tempo pieno, di misticismo orientale,
di astrologia, di ipnosi, di mitologia germanica, di occultismo. Era morbosamente affascinato dalle tematiche
esoteriche delle opere di Wagner, di cui presto scoprì la fonte di ispirazione: la poesia medioevale di
Wolfram Von Eschenbach, autore di un Parsifal dalla complessa simbologia ermetica. Un personaggio del
poema lo colpì in modo particolare. Si trattava di un certo Klingsor che, secondo Hitler, era la trasposizione
letteraria di una persona realmente esistita, il tiranno Landolfo II di Capua, scomunicato nell'875 per aver
praticato la magia nera con l'intento di acquisire il potere assoluto. Con ogni probabilità Hitler si identificò
con lui, anche perché soffriva della stessa anomalia fisica: erano entrambi monorchidi, ovvero dotati di un
solo testicolo (si sa infatti che gli Alleati cantavano una marcetta, "Hitler has only got one ball", su un'aria
simile a quella di Colonel Bogey, forse inventata dallo stesso Servizio Segreto Inglese a scopo denigratorio).
Hermann Rauschning descrive così le stranezze del comportamento di Hitler: «Una persona di quelle della
sua intimità mi disse che egli si sveglia la notte lanciando grida convulse. Chiama aiuto. Seduto sull’orlo del
letto, si trova come paralizzato. E’ preso da un panico che lo fa tremare al punto che il letto si scuote.
Proferisce vociferazioni confuse e incomprensibili. Si affanna come se fosse sul punto di soffocare. La stessa
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persona mi raccontò di una di queste crisi con particolari che io mi rifiuterei di credere se la fonte non fosse
così sicura. Hitler era in piedi in camera sua, barcollando e guardando intorno a sè con un’aria allucinata. "E’
lui! E’ lui! Lo vedo qui!" egli borbottava. Le sue labbra erano azzurre. Il sudore scorreva in grosse gocce.
Repentinamente pronunciò delle cifre senza senso alcuno, poi parole, pezzi di frase. Era orribile. Egli
impiegava termini bizzarramente allineati, completamente estranei. Dopo tornò nuovamente silenzioso
continuando però a muovere le labbra. Gli si fecero frizioni, gli si diede da bere una bevanda. Poi,
improvvisamente, egli ruggì: "Lì, lì! Nell’angolo. Cosa c'è lì?" Batteva il piede sul pavimento di legno e
urlava. Gli assicurarono che non succedeva niente di straordinario e allora egli, a poco, a poco, si calmò»
(Hermann Rauschning, "Hitler m’a dit", in "Hitler et la Tradition Cathare", Parigi 1939).
Una celebre fotografia di Adolf Hitler
"Seguo il cammino che la provvidenza mi indica con la sicurezza di un sonnambulo", diceva Hitler: il che
conferma la sua convinzione di disporre di poteri paranormali. Ma da dove avrebbe egli ricevuto tali
poteri?
Dalla Società Thule che lo aveva iniziato all’esoterismo orientale? Dal misterioso "monaco dai guanti verdi"
inviato dai saggi del Tibet? O da una rivelazione più antica?
Fra l’altro, per quanto possa sembrare paradossale, Hitler odiava i cacciatori: credeva nella reincarnazione
delle anime in corpi di animali, proprio come i buddisti e i catari. Un giorno dichiarò: «Chi si suicida ritorna
fatalmente alla natura-corpo, anima e spirito» (Hitler Adolf, "Libres Prepos", Flammarion, Paris, in "Hitler et
la Tradition Cathare"); dichiarazione in totale contrasto con la scelta del suicidio che attuò nel 1945.
Sapendo tutto questo, non c'è da stupirsi che già nel lontano 1909, a vent'anni, Hitler abbia preso contatto
con Von Liebenfels, e che 1919 sia stato iniziato alla Società Thule da Dietrich Eckart, che in quel periodo
ne era il leader, rimanendo profondamente e durevolmente influenzato da tutte le teorie sopra descritte.
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4. Hitler e l'esoterismo.
Difficile comprendere se sia stata l'ossessione di Hitler per queste teorie esoterico-razziali a fargli
intraprendere la sua carriera politica, in modo da poterle mettere in pratica, oppure le abbia adottate "a
posteriori" come base filosofica della sua politica; con ogni probabilità le due ossessioni interagirono. Sta di
fatto che Adolf Hitler fece sua questa accozzaglia di dottrine.
Che ci credesse sul serio o, come si suol dire, "ci marciasse" (ma la prima ipotesi è la più attendibile), Hitler
si circondò di legioni di maghi, astrologi, occultisti, ricercatori psichici, alchimisti. Non a caso, nel 1920,
scelse un simbolo magico, la svastica, come marchio del partito nazionalsocialista. Gliel'aveva suggerito
Friedrich Krohn, un occultista del gruppo "Germanenorder", ma Hitler aveva preteso una modifica: la
direzione delle braccia della svastica fu invertita, trasformando questo antico simbolo solare e positivo in un
simbolo notturno e negativo.
Un disegno di Boris Artzybasheff apparso su Life,
raffigurante gli incubi di Hitler (tutti a forma di svastica!)
Paradossalmente, l'occultista più seguito da parte di Hitler era un ebreo, tal Erik Jan Hanussen, che non solo
gl'impartì lezioni di oratoria, ma anche curò la teatralità dei gesti del futuro dittatore. A far data dal 1932
(sebbene altri futuri alti gerarchi nazisti abbiano fatto ricorso al medium già a partire dal 1924) Hitler ricorse
più volte alle "cure" di Hanussen ogni qual volta doveva prendere decisioni importanti o si sentiva deluso
dai risultati elettorali, tanto che nel 1932 l'esoterista, a quel tempo secondo solo ad Harry Houdini per fama,
gli preannunciò la conquista del potere per l'anno seguente, il che effettivamente si verificò nella data
prestabilita, in quanto "questo hanno deciso le potenze celesti e nulla potrà mutare tale verdetto se scritto nel
destino". Nel corso di un'intervista, Hanussen ebbe modo di affermare circa Hitler ed il nazismo: "Hitler? Sì,
un ottimo direttore d'orchestra! Però, lo spartito... - rammentate bene - ebbene quello l'ho scritto io!".
Hanussen morì un anno esatto dopo aver predetto la vittoria hitleriana, nella primavera del 1933, ma
sembra ormai accertato che Hitler non fosse coinvolto nel suo omicidio; lo erano piuttosto, pare, Himmler e
Gōring. Hanussen infatti aveva predetto a Göring la caduta del Terzo Reich, e questa fu una delle probabili
cause della sua morte.
Il giorno prima di morire Hanussen scrisse con l'inchiostro simpatico una lettera all'ex segretario Juhn: "Tu
non credi nell'occulto, ma il nuovo padrone della Germania ci crede eccome! Leggi quanto profetizza il mio
collega, il profeta Daniele nel capitolo 8 ("13. Udii parlare un santo e un altro santo dire a quello che parlava:
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«Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la trasgressione devastante, il
santuario e la milizia calpestati?». 14. Gli rispose: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario
sarà resa giustizia»"). Calcola bene gli anni e saprai quando cadrà l'uomo malvagio che cerca di sottomettere
il mondo con la forza bruta. Calcola gli anni da quando cento sinagoghe saranno distrutte in un'unica sera
("Notte dei cristalli", 1938) e saprai quando cesserà il suo barbaro sogno".
Il giorno dopo Hanussen morì in circostanze oscure.
Hanussen a parte, molti episodi del nazismo rimangono non del tutto chiariti. Ad esempio l'operazione che
passò alla storia col nome de "La Notte dei Lunghi Coltelli" (1934), voluta da Hitler, dal ministro degli
Interni Göring e dal leader delle SS, Himmler, potrebbe essere, secondo alcuni, un regolamento di conti a
sfondo non solo politico, ma anche esoterico.
5. Himmler e il neo-paganesimo.
Nel 1933, con il beneplacito di Hitler, il Reichsführer e fondatore delle SS (Schutz Staffel, "Forza Protettiva"),
Heinrich Himmler, noto per la sua devozione maniacale alle arti magiche, mise insieme una vera e propria
religione neo-pagana.
Tutte le organizzazioni occulte furono obbligate a sospendere le loro pratiche per ordine di Himmler, il
quale si riteneva unico depositario dell’ermetismo nazista; rimase in vita solo il famigerato Ordine Nero da
lui fondato, un movimento occulto nato con l’unico scopo di contrastare gli alleati servendosi di pratiche
magiche. Contemporaneamente Hitler fece eliminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi,
esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze, iniziò a divulgare nuove teorie ed ordinò
l’insegnamento delle prime nozioni misteriosofiche ad una speciale sezione delle S.S. dedita esclusivamente
all'esoterismo.
Come centri di culto furono scelti Exernsteine, considerata la Stonehenge tedesca, e, soprattutto,
Wewelsburg, dove venne edificata una vera e propria cattedrale esoterica, con una Tavola Rotonda per
tredici commensali (Himmler e i suoi "dodici apostoli") attorno alla quale venivano progettati i genocidi
delle "razze inferiori" e degli omosessuali. Qui le giovani SS (la cui genealogia era stata controllata fino al
1750, per appurare che in loro non scorresse sangue ebreo) subivano un rito di iniziazione, dopo il quale
potevano indossare la divisa nera con il teschio d'argento.
Himmler si occupava anche di cerimonie scaramantiche contro simboli o monumenti che riteneva di cattivo
auspicio; durante la guerra fu ossessionato dall'idea di sabotare le campane di Oxford, presso Londra, che
secondo lui portavano sfortuna alla Luftwaffe, l'aviazione tedesca, impedendole di colpire a fondo sul
territorio inglese.
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La sala di Wewelsburg, con il "sole nero" sul pavimento
Nel 1938, in occasione dell'Anschluss, ovvero l'annessione forzata dell'Austria, Hitler si affrettò a
impadronirsi dell'Heilige Lanze, la "Lancia Sacra" con cui, secondo la leggenda, il pretoriano Longino aveva
trafitto il costato di Cristo crocifisso, custodita nel palazzo Hofburg di Vienna. Hitler la riteneva un
potentissimo talismano e la fece portare a Norimberga, il centro principale del Partito Nazista. Qui essa
venne provvisoriamente collocata nella chiesa di Santa Caterina, dove venne allestito un vero e proprio
santuario mistico-esoterico, e presentata come simbolo della sacralità della missione germanica,
ricollegandovi nuovamente un mito di invincibilità. In seguito Hitler la fece murare in un bunker segreto.
Sempre agli anni immediatamente antecedenti al conflitto risalirebbero alcune esplorazioni in Tibet, allo
scopo di identificare la mitica Agarthi, e la ricerca del Santo Graal. A quest'ultima vicenda è legata la
misteriosa morte dell'archeologo Otto Rahn.
Rahn, colonnello delle SS, e il filosofo Alfred Rosenberg, amico di Hitler, furono incaricati di cercare il
Graal. Indagarono a Montségur e in altre fortezze catare. Subito dopo le ricerche, di cui mai si seppe alcun
risultato, il 13 Marzo del 1939 il corpo di Rahn venne ritrovato in fondo ad una scarpata tra le montagne
dell'Austria, a Kitzbühel. L'episodio non fu mai ben chiarito: le tesi ufficiali parlano di suicidio, ma si è
ipotizzato che si trattasse di un'esecuzione.
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Otto Rahn
Ne "Il Mattino dei Maghi" Jacques Bergier sostiene che le spedizioni continuarono fino al 1943, ma la loro
realtà non è storicamente accertata. Si sa però che nel giugno del 1944 la II divisione delle S.S. "Das Reich"
mise a ferro e fuoco il paese di Oradour-sur-Gland, massacrandone gran parte della popolazione, rea di aver
occultato, a suo dire, la reliquia che Hitler aveva cercato disperatamente per mezza Europa. E' confermato
anche il fatto che, dopo la caduta di Berlino, i sovietici rinvennero i cadaveri di molti tibetani in uniforme
tedesca. Chi erano, e cosa facevano nella capitale del Reich?
La "Lancia Sacra", oggi conservata a Vienna
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Nel frattempo Hitler continuava la sua frequentazione di veggenti: nel 1942 si recò in Bulgaria a consultare
la celebre Vangelia Pandeva ("Baba Vanga"), che viveva nella città di Petrich.
Probabilmente l'incontro non fu dei più felici, giacché Hitler fu visto uscire scuro in volto. Si faceva anche
commentare da un sedicente esoterista, tal Ludwig Birzer, i passi di Nostradamus, della Monaca di Dresda,
di San Malachia, Mother Shipton e dell'anonimo monaco tedesco noto con lo pseudonimo de "Il Ragno Nero"
(in tedesco "der Schwarze Spinne").
6. Ipotesi e interrogativi.
Questi i fatti accertati. Ma secondo alcuni studiosi Hitler non era soltanto un paranoico ossessionato dalla
magia, bensì un iniziato "di mano sinistra", un lucido e potentissimo "mago nero" che aveva stretto un
patto con oscure potenze, a cui offriva sacrifici rituali in cambio del potere assoluto, come il suo ideale
predecessore Landolfo II di Capua. Quest'alleanza spiegherebbe la sua fulminea carriera e l'inspiegabile
carisma che il Führer, pur essendo fisicamente insignificante, riusciva ad esercitare a livello quasi ipnotico su
sterminate moltitudini di concittadini.
Ancor più inquietante l'ipotesi che lo stregone non fosse Hitler, ma qualcun altro che teneva nascostamente
le fila e lo usava come fantoccio. Ma ci fu davvero qualcuno al disopra di Hitler? E se sì, chi era e che fine ha
fatto?
Nel volume "La Guerra Segreta", lo storico e narratore inglese Dennis Wheatley afferma che tra il '40 e il '45
potenti maghi "bianchi" di tutte le nazionalità si sarebbero coalizzati contro Hitler e i suoi stregoni,
attaccandoli sul piano psichico. In Inghilterra le attività dei "maghi bianchi" sarebbero state coordinate da
un'apposita sezione del Servizio Segreto, sorta con il beneplacito di Winston Churchill; tra i più potenti
"oppositori psichici" di Hitler in Italia c'era - si dice - lo stesso Padre Pio di Pietralcina.
Padre Pio
In Germania (e questa notizia è storicamente sicura) il pranoterapista personale di Himmler, Felix Kernsten,
un potente sensitivo di cui il Reichsführer delle SS era letteralmente dipendente, riuscì a "influenzarlo
mentalmente" salvando la vita a centinaia di ebrei (Kernsten venne di seguito decorato dagli Alleati per aver
reso "servigi così preziosi da non poter essere comparati con nessun precedente").
Sintomatico il fatto che, come si è detto, una volta preso il potere, Hitler si sia subito premurato di far
sterminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue
strettissime dipendenze.
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Ma, evidentemente, questa precauzione non bastava: Hitler non riuscì a sfuggire al destino che, come nel
mito di Faust, attende chi stringe un'alleanza con il Maligno. Chiuso in un bunker sotto una Berlino rasa al
suolo dalle bombe e devastata dagli incendi, il Führer attese il 30 aprile 1945 prima di suicidarsi: era il
giorno che si conclude con la notte di Valpurga, la notte in cui i poteri delle tenebre celebrano la loro festa
trionfale.
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JARRY E LA PATAFISICA
Nella fisica epicurea, il clinamen è la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto
in linea retta, deviazione casuale, sia nel tempo sia nello spazio, che permette agli atomi di incontrarsi.
Questo concetto fu introdotto da Epicuro al fine di preservare la libertà della volontà umana all'interno di
una fisica che non fosse completamente deterministica.
Nel De rerum natura (II, 216-219) Lucrezio, rifacendosi (per la verità in modo non del tutto chiaro, dato che la
teoria non compare nelle opere del Maestro) alla fisica di Epicuro, afferma che «gli atomi cadono in linea
retta nel vuoto, in base al proprio peso: in certi momenti, essi deviano impercettibilmente la loro traiettoria,
appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell'equilibrio».
È l'idea di deviazione eccezionale, che si potrebbe quasi vedere come un "incidente di percorso", un
epifenomeno, che permette di accostare il clinamen alla patafisica, la "scienza" inventata da Alfred Jarry
(1873-1907), scrittore e drammaturgo francese.
Robert Butler, Faustroll's Visionary Voyage, 2006
Noto soprattutto per avere scritto la commedia Ubu Roi (1896), considerata caposaldo e vera e propria pietra
miliare del Teatro dell'assurdo, di cui sarà in seguito esponente Eugène Ionesco, Jarry fu uno dei primi a
porre l'accento sul tema dell'assurdità dell'esistenza, il grottesco e il fraintendimento (si pensi al termine
'Merdre' da lui coniato per significare qualcosa come 'Merda!', ma non solo, evidentemente).
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Provinciale intelligente e curioso, Jarry trovò nella Parigi di fine secolo e nell’eccentricità dei suoi ambienti
artistici la strada di una vocazione letteraria che lo portò a contatto con i simbolisti. La sua fama, più che
all’avventura letteraria (che lo colloca tra i creatori dell’avanguardia), è legata all’invenzione di un
personaggio, “Padre Ubu”: grottesca marionetta umana, avida di potere e di denaro, ingorda, cinica, brutale
e paurosa, che rappresenta il piccolo borghese del tempo, affascinato dall’idea del potere e della gloria e
vile al loro cospetto; ma il fascino delle avventure di Ubu è legato al fatto che l'autore non lascia mai
affiorare il moralismo, optando piuttosto per la frantumazione delle consuetudini linguistiche e sceniche
tradizionali e rendendo con ciò stesso evidente il vuoto di senso sotteso a questo modo di vivere.
Quando “Ubu re” venne messo in scena nel 1896, al Théâtre de l'Œuvre di Parigi, fu un clamoroso
insuccesso. Jarry morì pochi anni dopo di tubercolosi, complicata fra l'altro dall'uso di alcol e droghe.
Ma Jarry non è legato solo al Teatro dell'assurdo, bensì anche, come si diceva, alla creazione della patafisica,
una supposta nuova scienza i cui princìpi vengono esposti da Jarry nel romanzo Gesta e opinioni del dottor
Faustroll, patafisico del 1911.
La definizione data dall'autore è di una esemplare assurdità: «La patafisica è la scienza delle soluzioni
immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà degli oggetti descritti per la loro
virtualità» (Alfred Jarry, Gestes & Opinions du Docteur Faustroll pataphysicien. Roman néo-scientifique, libro II
Elementi di Patafisica, par. VIII: Definizione).
Robert Butler, Faustroll from Paris to Paris by sea, 2006
In sintesi, la patafisica è la scienza delle scienze, che tutte le altre ingloba e vanifica; essa si prefigge di
studiare le leggi che regolano le eccezioni (quindi, in modo più o meno evidente, tutto) e di spiegare
l'universo supplementare al nostro.
Una vera e propria scienza del tutto e del niente, insomma; una scienza del vuoto, inteso come vuoto di
senso o impossibilità di cogliere il senso delle cose, sberleffo irriverente nei confronti della scienza "seria" che
pretende di cogliere l'essenza della realtà.
Suo araldo è il dottor Faustroll, «negromante moderno, mescolanza di uomo e di marionetta, di
trasposizione mitica e di caricatura» (come lo definisce Sergio Solmi). Al pari di tanti eroi delle favole, il
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dottor Faustroll deve compiere un viaggio, e la sua imbarcazione si spingerà indifferentemente per terra, per
mare o per le vie della città. Le varie «isole» a cui approda sono altrettante costellazioni sull’atlante celeste
della décadence, come dire su quello che ancora oggi è il nostro cielo. Lì vegliano invisibili numi protettori,
che rispondono volta a volta ai nomi di Lautréamont e di Bloy, di Mallarmé e di Gauguin, di Schwob e di
Verne.
E lì sentiamo risuonare l’inestinguibile riso patafisico, che si sovrappone a quello più antico di Rabelais
(vero e proprio precursore della patafisica), in quanto «coscienza viva di una dualità assurda e che salta agli
occhi». In quanto tale, precisava Daumal, esso è «la sola espressione umana dell’identità dei contrari (e, cosa
notevole, ne è l’espressione in una lingua universale)».
Per tornare al clinamen, nel libro VI, capitolo XXXIV (intitolato appunto «Clinamen») del suo romanzo a
chiave, Alfred Jarry parla esattamente dell'eiaculazione del «bestiale improvviso Clinamen». Leggiamo
l'inizio del capitolo:
XXXIV CLINAMEN
Nel frattempo, dopo che non vi fu più nessuno al mondo, la Macchina per Pitturare, animata al suo interno da un
sistema di molle senza massa, si volse in azimut nella hall di ferro del Palazzo delle Macchine, ultimo monumento in
piedi di Parigi deserta e rasa, e come una trottola, urtandosi con i piloni, s’inclinò e declinò in direzioni indefinitamente
varie, soffiando a suo piacimento sulla tela delle muraglie la successione dei colori fondamentali sciorinati secondo i tubi
del suo ventre, come in un bar un pousse-l'amour55, i più chiari prossimi all’uscita. Era quella la stessa macchina che,
nell’anno milleottocentoottantasei, un uomo di media età, d’aspetto benigno quantunque baffuto, ragguardevole per la
sua decorazione militare, aveva proposto all’accettazione int elligente del ministero della Guerra, affinché questo
potesse, quando gli fosse piaciuto, colorare rapidamente i cassoni e gli affusti della difesa nazionale. Lo strumento fu
fissato, alla presenza della Commissione competente, contro una porta nuova, ment re due artiglieri, muniti di pennelli,
si appostavano davanti a una porta consimile. E appena dato il segnale, prima che i due soldati avessero eseguito il
primo tempo della posizione del pittore sotto le armi, la porta del collaudo e l’altra porta, e le finestre e tutto l’edificio
sparirono sotto uno strato infame di prodigiosi grumi, nello stesso tempo l’atmosfera faceva posto a una nebbia verde; e
non fu più questione della Commissione né degli artiglieri: non restò proprio alcuna traccia di tutto ciò! Ora, nel
palazzo sigillato ergendo sola la lucidatura morta, moderno diluvio della Senna universale, la Macchina, la bestia
imprevista CLINAMEN eiaculò sulle pareti del suo universo:
NABUCODOSOR CAMBIATO IN BESTIA
Che bel crepuscolo! o piuttosto è la luna, simile a un oblò in un una grossa botte dei vino più grande di un naviglio, o a
un tappo d’olio di un fiasco italiano. Il cielo è di uno zolfo d’oro così rosso che non vi manca veramente altro che un
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uccello di cinquecento metri che ci sventagli un po’ di nubi. L’architettura, basamento di tutte queste fiamme, è ben
animata e mobile un po’, ma troppo romantica! Vi sono torri che hanno occhi e becchi, e torrette acconciate a mo’ di
piccoli gendarmi. Due donne che guardano ondeggiano al vento delle finestre come camicie di forza che si asciugano.
Ecco l’uccello: il Grande Angelo, che non è un Angelo, ma Principato, s’abbatte dopo un volo esattamente nero di
rondone, in metallo d’incudine di conciatetti. Una punta sul tetto, il compasso si chiude e si riapre, e descrive un
cerchio attorno a Nabucodonosor. Il braccio incanta la metamorfosi. I cavalli del re non si imbizzarriscono per nulla, ma
cadono come i peli madidi del tricheco; le loro punte ne costringono a chiudersi le sensitive pustole che popolano le loro
alghe piegate di zoofiti, riflessi di tutte le stelle; piccole ali palpitano secondo il riamo delle palme del rospo. Zanne blu
risalgono il corso delle lacrime. L’ascensione delle pupille desolate striscia verso le ginocchia del cielo fondiglio-di-vino;
ma l’Angelo ha incatenato il mostro neonato nel sangue del palazzo vitreo e l’ha gettato in un culo-di-bottiglia.
Per inciso, sembra evidente in questa pagina la citazione di un celebre dipinto del 1795 di William Blake,
poeta e pittore visionario romantico, raffigurante appunto Nabucodonosor che si sta trasformando in bestia
(vedi pagina precedente).
O. Votka, un altro patafisico, scrive che Epicuro ha compreso che al centro di ogni pensiero, come di ogni
realtà (che non è mai altro, per chicchessia, che un pensiero della realtà), c'è una aberrazione infinitesimale,
una flessione fondamentale, che tuttavia sbilancia tutto.
Per i Patafisici il clinamen è dunque tutt'altra cosa che una semplice fatalità o possibilità, come spesso si dice.
È invece una nozione beffarda che Epicuro mette al principio di ogni cosa.
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IL DADAISMO
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. Il contesto storico in cui il
movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si
rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra.
Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter.
Il loro esordio ufficiale è fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato
dal regista teatrale Hugo Ball.
Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore
Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco. Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate
organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così
da proporre un’arte nuova e originale.
I due movimenti, Futurismo e Dadaismo, hanno diversi punti comuni, come l’intento dissacratorio e la
ricerca di meccanismi nuovi del fare arte, ma hanno anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto
il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto
sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Questa diversa impostazione
conduce a una facile, anche se non proprio esatta, valutazione per cui il futurismo è un movimento di destra,
mentre il dadaismo è di sinistra. Altri punti in comune tra i due movimenti sono l’uso dei manifesti quale
momento di dichiarazione di intenti.
Marcel Janco, Ritratto di Tristan Tzara, 1919
Vediamo i contenuti principali del dadaismo: innanzitutto la parola Dada, che identificò il movimento, non
significava assolutamente nulla. Già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare
ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e usato come una
clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità, i dadaisti non
rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio.
Tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente
necessaria per poter ripartire con una nuova arte, non più sul piedistallo dei valori borghesi, ma coincidente
con la vita stessa e non separata da essa.
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Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e
quindi a Parigi. Benché il dadaismo sia un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la
tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni,
ebbero luogo negli Stati Uniti, per la precisione a New York. L’esperienza dadaista americana nacque
dall'incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e
fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred
Stieglitz.
Francis Picabia, Edtaonisl (Clergyman), 1913
La vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente: la funzione
principale del dadaismo era quella di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte; una
funzione che svolge in modo egregio, ma per poter diventare propositivo esso necessitava di una
trasformazione: ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il Dadaismo scomparve e nacque il Surrealismo.
Il Dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale e, per poter continuare a produrre opere d’arte, si affida a
un meccanismo ben preciso: la casualità. Il caso, in seguito, troverà diverse applicazioni nell'arte: lo
useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia gli espressionisti astratti, per giungere a
nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Pollock con l’action painting.
In un suo scritto, il poeta Tristan Tzara descrive il metodo dadaista di produrre una poesia casuale. Il passo,
che di seguito riportiamo, è decisamente esplicativo del loro modo di procedere:
Per fare un poema dadaista.
Prendete un giornale. Prendete delle forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema.
Ritagliate l’articolo.
Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco.
Agitate piano.
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IL VUOTO
Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco.
Copiate coscienziosamente.
Il poema vi assomiglierà.
Ed eccovi "uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo
della strada".
Robert Delauney, Ritratto di Tristan Tzara, 1923
In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi
incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo
abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria».
Si capisce come il Dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma, in effetti, nel Surrealismo, movimento,
quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo.
Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i «ready-made». Il termine indica
opere realizzate con oggetti reali, non prodotti con finalità estetiche e presentati come opere d’arte.
In pratica i «ready-made» sono un’invenzione di Marcel Duchamp, il quale inventa anche il termine per
definirli, che in italiano significa approssimativamente «già fatti», «già pronti».
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IL VUOTO
A dire il vero i «ready-made» nascono prima del movimento dadaista, dato che il primo «ready-made» di
Duchamp, la ruota di bicicletta (che vediamo riprodotta qua sotto), è del 1913:
Essi diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei
concetti tradizionali d'arte. Questo divenne evidente soprattutto quando Duchamp, nel 1917, propose uno
dei suoi più noti e provocatorii «ready-made», fontana:
In pratica, con i «ready-made» si rompe il concetto per cui l’arte è il prodotto di una attività manuale
coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte può essere qualsiasi cosa: posizione che ha come conseguenza che
nulla è arte.
Questa evidente tautologia era superata mediante l'affermazione di due concetti fondamentali:
- che l’arte non deve separarsi altezzosamente dalla vita reale, ma confondersi con questa;
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
- che l’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre.
Infatti, il valore dei «ready-made» era solo nell’idea.
Abolendo qualsiasi significato o valore alla manualità dell’artista, l’artista non è più l'artigiano, colui che sa
fare cose con le proprie mani, ma colui che sa proporre nuovi significati per le cose, anche per quelle già
esistenti.
Il vuoto assoluto di senso implicito nella presa di posizione del Dadaismo era quindi provocatorio, mirato in
realtà al recupero di un senso più profondo per l'arte.
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IL VUOTO
IONESCO, LA CANTATRICE CALVA
La genesi del dramma
La cantatrice calva (La cantatrice chauve), del 1950, è la prima opera teatrale di Eugène Ionesco.
La genesi di questa stranissima pièce teatrale, stando all'aneddoto tradizionale riportato in proposito, è
singolare: l'autore rumeno, francese di adozione, aveva deciso di imparare l'inglese comprandosi un
manuale di conversazione. Per esercitarsi ricopiava le frasi del manuale; facendo ciò si accorse con
meraviglia della comica banalità delle frasi in esso contenute: "il soffitto è in alto, il pavimento in basso", "i
giorni della settimana sono sette", etc. Da qui, pare, egli trasse ispirazione per la commedia.
La pièce - definita dall'autore anticommedia - è forse il più noto esempio di un genere teatrale noto come il
teatro dell'assurdo, in cui la vicenda subisce uno straniamento tramite l'utilizzo esasperato di frasi fatte,
dialoghi contrastanti, luoghi comuni portati al parossismo; capostipite di questa corrente teatrale è Alfred
Jarry, che ne fu l'iniziatore con Ubu roi del 1896.
Ecco cosa lo stesso Ionesco dichiarò a questo proposito: «Scrivendo questa commedia (poiché tutto ciò si era
trasformato in una specie di commedia o anticommedia, cioè veramente la parodia di una commedia, una
commedia nella commedia) ero sopraffatto da un vero malessere, da un senso di vertigine, di nausea. Ogni
tanto ero costretto ad interrompermi e a domandarmi con insistenza quale spirito maligno mi costringesse a
continuare a scrivere, andavo a distendermi sul canapè con il terrore di vederlo sprofondare nel nulla; ed io
con lui».
La prima messinscena di Parigi del 1950 fu tutt'altro che un successo; nuovamente inscenata nel 1955, però,
la pièce riscosse un enorme favore di pubblico.
Eugène Ionesco
I personaggi
I personaggi sono sei: i coniugi Smith, i coniugi Martin, la cameriera Mary ed il pompiere.
I Martin e gli Smith sono privi d’individualità, totalmente invischiati nelle convenzioni sociali; i loro
comportamenti si rivelano simili, si confondono; sono esseri alla ricerca di una felicità stereotipata; e
rivelano, infine, il ruolo del caso nell’esistenza umana.
Nelle scene dedicate alle conversazioni convenzionali, i Martin, come gli Smith, sono rinchiusi nei loro
obbligati atteggiamenti della gentilezza e della cortesia, provando a dissimulare la noia che essi provano e
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prorompendo in discorsi incoerenti e privi d’interesse. E non possono fare a meno di scatenare la loro
aggressività alla fine dell’opera. L’indicazione scenica finale conferma questa similitudine tra gli Smith e i
Martin, i quali, in un nuovo ricominciamento, ripetono esattamente le battute degli Smith nella prima scena.
Questa confusione che esiste tra esseri privi d’individualità, fusi tutti in un insieme evanescente e condannati
alla stessa esistenza noiosa e assurda, è messa in evidenza, in altro modo, nella scena prima. Parlando di una
famiglia di sua conoscenza, i Watson, la signora Smith che ogni membro di quella famiglia porta
indistintamente lo stesso nome, Bobby Watson. Il signor Smith rafforza ancora questa indeterminatezza
degli esseri che rivelano queste considerazioni genealogiche, offuscate dalla somiglianza dei nomi,
rincarando la dose: “tutti i Bobby Watson sono commessi viaggiatori”. Ionesco crea così un effetto parodico,
facendosi beffa delle interminabili conversazioni che vertono sui rapporti familiari.
Mary, la domestica, ha nell’opera una duplice funzione. È anzitutto una figura prosaica, divisa tra il suo
lavoro di domestica e il desiderio di affermare la propria personalità, ma svolge anche il ruolo di testimone
di ciò che accade intorno a lei, incaricata di trascrivere le manifestazioni del destino. Cercando di esprimere
le proprie idee e di affermare la propria personalità, Mary rompe con l’immagine della domestica remissiva
e zelante, mostrandosi così contraddittoria quanto i suoi padroni. Dopo essere scoppiata a ridere, piange, poi
sorride. Nella nona scena, malgrado i rimproveri, intende partecipare alla conversazione e finisce col recitare
la poesia “Il Fuoco”, che rivaleggia per incoerenza con gli aneddoti raccontati dagli altri personaggi. Anche
lei partecipa, quindi, a tutto questo gioco d’incomprensioni e incoerenze che reggono i rapporti dell'insieme
dei personaggi dell’opera. Ma Mary svolge anche un altro ruolo: rivela gli equivoci di cui sono vittime i
Martin quando pensano di scoprire di essere sposati, mostrando come la sorte si faccia beffa degli esseri
umani. Diventa così la portavoce del destino; è incaricata di svelare una verità, portatrice di sofferenza e di
morte. Mary svolge al tempo stesso il ruolo del coro della tragedia antica e quello del detective, Sherlock
Holmes.
Pur contribuendo a mostrare la difficoltà della comunicazione, il capitano dei pompieri sottolinea
l’assurdità delle funzioni sociali e rivela la complessità di un mondo reso incomprensibile dalla sua infinita
relatività. Ciò che caratterizza questo personaggio, vestito con un “enorme casco luccicante e un'uniforme”, è
anzitutto il suo mestiere, ragione della sua vita. Senza di esso non è più niente; egli è ossessionato dal
fuoco che ritma la sua esistenza. Ma il pompiere è anche là per testimoniare la complessità delle cose. Tanto
le genealogie dei Watson, abbozzate dagli Smith nella prima scena, rivelava l’uniformità del mondo, quanto
quella che sviluppa il pompiere nella nona scena ne mostra la varietà. Tuttavia questa diversità si rivela
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IL VUOTO
incoerente. Questa complessità del mondo è portatrice di una relatività che rende le cose incomprensibili,
inesplicabili.
Quanto all’enigmatica cantatrice calva che dà il titolo all’opera, è disperatamente assente: essa costituisce
una manifestazione supplementare dell'incoerenza. Non facendo mai apparire la cantatrice calva, Ionesco
parodia una tecnica destinata a creare il mistero e la suspence attorno ad un personaggio che in realtà non
svolge alcun ruolo nell'azione. E il silenzio generale, l’imbarazzo che seguono alla sola allusione al
personaggio mostrano ironicamente il disagio di un drammaturgo incapace di giustificare la ragione
d’essere del suo personaggio. La cantatrice calva ha anche la funzione di contribuire all’incoerenza
ambientale. L'aggettivo “calva” appare incompatibile con l’immagine che si ha di una cantante, creando già
in tal modo un’impressione di estraneità.
La trama
L'opera è in un atto unico, inscenato nel salotto dei signori Smith. Sia gli Smith che i Martin incarnano,
secondo i canoni del teatro dell'assurdo, la tipica famiglia borghese: gli Smith ad esempio, abitano in una
villetta a più piani, sono abbigliati in modo impeccabile ed all'antica, trascorrono il tempo spettegolando su
amici e vicini; la signora trova diletto nel pensare a come preparare lo stesso yogurt della vicina, il marito
legge il giornale e fa commenti conservatori sui medici, sullo stato britannico, sull'esercito.
Una grande importanza hanno gli orologi della stanza, che scandiscono il tempo: la pendola suona a caso
rintocchi il cui numero cambia ogni volta.
Riporto in sintesi la trama delle undici scene in cui è diviso l'atto unico.
Scena prima: i coniugi Smith siedono in salotto arredato di mobili inglesi: il signor Smith legge un
quotidiano fumando una pipa inglese, mentre la signora ripete più volte il menu della loro cena,
perfettamente all'inglese.
Scena seconda: compare la cameriera Mary, annunciando i coniugi Martin, venuti per la cena già
consumata. Gli Smith si dirigono a cambiarsi.
Scena terza: molto breve, vede Mary che fa entrare i Martin e li rimprovera per il loro ritardo.
Scena quarta: è forse la più nota, memorabile per la sua assurdità: i Martin si accomodano e ha luogo fra loro
una lunga conversazione, inframmezzata dal ritornello “Veramente curioso, veramente bizzarro!”, in cui essi
constatano sorprendenti coincidenze: entrambi sono di Manchester, hanno lasciato questa città da circa
cinque settimane, hanno preso lo stesso treno, erano nella stesso carrozza e nel medesimo compartimento;
ora si trovano a Londra; abitano nella stessa strada, nel medesimo numero civico, lo stesso appartamento,
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dormono nella stessa camera e nello stesso letto, hanno la stessa figlia. Arriva la straordinaria rivelazione: il
signore e la signora Martin s’abbracciano, scoprendo di essere marito e moglie. E' facile vedere qui una
feroce parodia della convenzione teatrale così spesso ricorrente nel teatro di Euripide e di Menandro, ripresa
anche dalla commedia latina (soprattutto da Terenzio) e dal romanzo greco erotico-avventuroso (cfr. Dafni e
Cloe di Longo Sofista): quella della ἀναγνώρισις, la latina agnitio, ovvero il tardivo riconoscimento della
vera identità di un personaggio, generalmente consentito da dettagli apparentemente trascurabili, che
risolve la situazione nei drammi basati sull'equivoco.
Scena quinta: preme ulteriormente sul pedale dell'assurdità: la cameriera Mary rimette in discussione
l'identità appena scoperta con motivazioni a loro volta assurde, affermando che i coniugi non sono quelli che
credono di essere e rivelando alla fine di essere Sherlock Holmes (!).
Scena sesta: brevissima, capovolge le aspettative create nella quinta: i Martin decidono di ignorare la crudele
verità: sono felici di essersi ritrovati e s’impegnano a non perdersi più.
Scena settima: vede l'inizio della difficile conversazione fra le due coppie: le battute brevi, separate da
lunghi silenzi, sottolineano l'incomunicabilità, ulteriormente accentuata dai rintocchi incoerenti della
pendola. La signora Martin prova a ravvivare l’interesse della conversazione raccontando che ha visto un
uomo allacciarsi le scarpe. Nel frattempo suona qualcuno alla porta. La signora Smith va ad aprire ma non
c’è nessuno. Ciò avviene per tre volte, cosicché la signora ne deduce che “l'esperienza insegna che quando si
sente suonare alla porta è segno che non c'è mai nessuno”. Ma il campanello suona nuovamente, e stavolta
va ad aprire il signor Smith, il quale annuncia trionfalmente: “è il capitano dei pompieri!”.
Scena ottava: le due coppie interrogano il capitano dei pompieri per risolvere l’enigma delle scampanellate.
Il mistero non fa che infittirsi: non è il pompiere ad aver suonato le due prime volte e, d’altra parte, era là e
non ha visto nessuno. Ha suonato la terza volta, ma si era nascosto. E al quarto colpo gli hanno aperto.
Quindi il pompiere, alla disperata ricerca di un fuoco da estinguere, offre i suoi servizi per spegnere
eventuali incendi, poi racconta molti aneddoti incoerenti.
Scena nona: ha per protagonista la cameriera Mary, che insiste per raccontare anche lei un aneddoto, con
grande indignazione degli Smith, i quali trovano il suo intervento fuori luogo. Ma sembra che lei sia amica
del pompiere, per cui, su insistenza dei Martin, le viene lasciata la parola; Mary, invece di raccontare
l'aneddoto, in onore del capitano recita un poesia intitolata “Il Fuoco”.
Scena decima: Il pompiere si congeda dagli Smith e i Martin affermando di avere un incendio da spegnere;
prima di andarsene, però, pone la domanda che dà il titolo alla commedia: “A proposito, e la cantatrice
calva?”. Questa domanda genera prima un silenzio imbarazzato, poi una risposta enigmatica della signora
Smith: “Si pettina sempre allo stesso modo!”.
Scena undicesima: Una volta che gli Smith e i Martin sono rimasti soli, si verifica un’improvvisa
accelerazione nel deterioramento del linguaggio. Le due coppie si scambiano luoghi comuni, sotto forme di
proverbi o affermazioni incoerenti. Le loro battute si fanno sempre più brevi. Le loro parole tendono a
diventare suoni onomatopeici. Essi finiscono col ripetere tutti insieme freneticamente: “C’est pas par là, c’est
par ici…”, ovvero: “Non è di qua, ma è di là…”.
Di colpo tutto s’interrompe. Calano le luci.
Poi si riaccendono le luci e la commedia ricomincia daccapo con i Martin che dicono esattamente le battute
degli Smith nella prima scena, mostrando così il carattere interscambiabile dei personaggi e, più in generale,
degli esseri umani.
Infine cala il sipario.
Una “anti-pièce” sorprendente
Ionesco ha intitolato “La Cantatrice Calva” “anti-pièce”, perché il suo obiettivo, chiaramente provocatorio, è
quello di fare il contrario della scrittura del teatro tradizionale. Certo, sembra rispettarne le regole: mette in
scena personaggi che si scambiano battute; adotta in un atto la divisione abituale, ripartendo la materia in
undici scene; tiene conto delle caratteristiche proprie del teatro. Ma il tutto è pura ipocrisia, poiché Ionesco
s’ingegna a creare ad organizzare un sistema drammaturgico che in realtà, proprio parodiando le
convenzioni, le scardina dal loro interno; un po' come hanno tentato di fare nell'antichità Luciano con il
romanzo greco di avventura e Lucano con il genere epico, ed in tempi più recenti Cervantes con il poema
cavalleresco.
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IL VUOTO
L’azione è sviata dalla sua funzione abituale. Il teatro tradizionale, infatti, crea un’azione dinamica, spesso
complessa e animata da capovolgimenti (le aristoteliche περιπέτειαι). Quest'azione inizia con
un’esposizione che fornisce allo spettatore le indicazioni necessarie alla comprensione della trama e termina
con un epilogo, risultato logico di un’opera. L’opera di Ionesco non segue affatto questo schema
convenzionale: è costruita attorno a discussioni statiche che, deliberatamente, non conducono a nulla.
L’azione è inesistente. L’essenzialità dell’opera è costituita da banali e interminabili conversazioni, che
tuttavia non sono legati da alcun legame apparente; piuttosto sono discorsi sconnessi. Lo spettatore attende
fatti nuovi, capovolgimenti che darebbero nuovo senso all’opera, interrogandosi sul modo in cui l’opera
potrebbe concludersi. Questa sottigliezza dell’azione rappresenta una vera scommessa per Ionesco, la cui
opera rischi di creare noia e disinteresse, conducendo lo spettacolo al fallimento. Ma l’autore gioca proprio
su questa perplessità degli spettatori, il cui interesse non deve vertere verso l’azione, ma piuttosto sulle
motivazioni del drammaturgo, sugli effetti da lui ricercati; viene sollecitata la riflessione. Impegnati in un
cammino intellettuale, gli spettatori hanno la soddisfazione di capire il duplice scopo dell’opera: mostrare la
vacuità del linguaggio e demistificare il funzionamento del teatro tradizionale.
Le informazioni fornite sono volontariamente ambigue. Scegliendo come titolo La cantatrice calva, Ionesco
mette lo spettatore su una falsa pista, portandolo a interrogarsi su un personaggio che nell’opera non esiste e
del quale vi è solo un breve accenno nella scena decima.
Progressivamente, lo spettatore si rende conto che è proprio la banalità delle parole e le loro incongruenze a
costituire il soggetto dell’opera.
Nella scrittura del teatro tradizionale, i colpi di scena hanno la funzione di rilanciare l’interesse dello
spettatore. Ionesco vi ricorre per fare da diversivo, per apportare qualche nota piccante, per rilassare il suo
pubblico. Ma, ancora una volta, utilizza questa tecnica in una prospettiva di contestazione e
demistificazione. Ionesco volge il colpo di scena in derisione, rendendolo incoerente: questo è
particolarmente evidente nella quarta e quinta scena, quando Donald ed Elizabeth, dopo una lunga
conversazione, scoprono da una serie di coincidenze di essere marito e moglie, ma questo colpo di scena è
annullato da un altro colpo di scena, in cui Mary afferma che tutte le coincidenze non hanno alcun
significato perché una di esse è falsa; e tuttavia l’incoerenza delle sue deduzioni è evidente, resa ancora più
assurda dal ricorso al vocabolario dell’argomentazione (sistema d’argomentazione, prove, teorie) e dal
voltafaccia finale che mette in discussione la stessa identità di Mary, che sarebbe Sherlock Holmes.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Talvolta invece è la sua totale irrilevanza a demistificare il colpo di scena e l’effetto di suspense, come
quando la signora Martin fa il racconto d’un’avventura da lei vissuta, consistente nell'aver visto un uomo
che si allaccia le scarpe, e il suo racconto è continuamente interrotto dagli altri personaggi che fanno
commenti estasiati. Questo costituisce ovviamente una parodia di quelle conversazioni nel corso delle quali
ognuno, a sua volta, racconta un evento che gli è accaduto, di fronte ad un pubblico che finge attenzione e
interesse.
La Cantatrice Calva termina con una parvenza di epilogo, a sua volta molto significativa: un’improvvisa
aggressività caratterizza lo scambio di parole, che diventano sempre più illogiche, e si trasformano in suoni
privi di significato. In un mondo assurdo, il linguaggio ha perso il suo ruolo d’intermediazione tra gli esseri,
tende a ridursi ad abbaio animale, a pura funzione fàtica, ma questo continuo chiamarsi e cercarsi, senza
avere nulla da dirsi, non solo non mette in contatto i personaggi, ma non fa che accentuare
l’incomunicabilità.
Il carattere sorprendente di questo epilogo è ancora accentuato dalla ripresa dell’azione. Infatti, dopo la
frenesia, ritorna la calma iniziale e tutto ricomincia identico in quell’universo di noia.
I personaggi si rivelano interscambiabili, in un mondo in cui nulla si muove e tutto si assomiglia, perché
nulla ha senso. E' veramente un universo di vuoto.
La Cantatrice Calva suscita anche il riso, ma il comico veicolato da questa pièce teatrale è di difficilissima
definizione.
Esso risulta correlato con l’assurdità che caratterizza il linguaggio e il comportamento dei personaggi. È in
questa prospettiva che si sviluppano tre tipologie di comicità: della parodia, dell’opposizione e del nonsenso.
Nella sua opera Ionesco fa anzitutto la parodia del teatro leggero tradizionale. Negli Smith o nei Martin, gli
stereotipi dei personaggi del teatro leggero sono portati al loro parossismo, ed il pubblico abituato a tali
spettacoli ride quando capisce le intenzioni satiriche di Ionesco. Questo tipo di comicità deriva dagli effetti di
sfalsamento. Il funzionamento del teatro leggero è allontanato dalla sua ragion d’essere. Il realismo dei
comportamenti fa posto ad un’accumulazione di dettagli disparati, spesso contraddittori, facendo perdere ai
comportamenti ogni credibilità.
Anche i giochi d’opposizione suscitano la comicità, mettendo in evidenza le contraddizioni concernenti il
linguaggio o i comportamenti. Un primo gioco d’opposizione appare tra ciò che è detto e il tono adottato per
dirlo. Un altro tipo di contraddizione oppone parole e azioni: un personaggio fa il contrario di ciò che dice o
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IL VUOTO
dice il contrario di ciò che fa. Sono le stesse parole a contraddirsi. I personaggi si comportano quasi sempre
in modo contraddittorio: alla maniera dei clown, oscillano bruscamente da un atteggiamento ad un altro
completamente opposto.
Infine, dall’assurdo i personaggi passano al non-senso, nuova fonte di comicità. Lo spettatore ride del delirio
verbale nel quale cadono i personaggi, delle storie stupide che raccontano, della distruzione finale d’un
linguaggio che è divenuto totalmente incomprensibile. Allo stesso modo, gli stessi sconvolgimenti della
pendola sono comici, poiché costituiscono un non-senso temporale. I rintocchi non corrispondono ad alcuna
logica. La pendola è privata di ogni significato, incapace di svolgere correttamente il suo ruolo, di render
razionalmente conto dello scorrere del tempo.
Riporto una parte della scena prima:
SIGNOR SMITH: (con il giornale in mano) C’è una cosa che non capisco. Perché nella rubrica dello stato
civile è sempre indicata l’età dei morti e mai quella dei nati? E' un controsenso.
SIGNORA SMITH: Non me lo sono mai domandato!
Altro silenzio. La pendola suona sette volte. Silenzio. La pendola suona tre volte. Silenzio. La pendola non
suona affatto.
SIGNOR SMITH: (sempre col giornale) Guarda un po', c’è scritto che Bobby Watson è morto.
SIGNORA SMITH: Dio mio, poveretto, quando è morto?
SIGNOR SMITH: Perchè ti stupisci? Lo sai benissimo. E' morto due anni fa. Siamo andati ai suoi funerali,
ricordi? Un anno e mezzo fa.
SIGNORA SMITH: Certo che me ne ricordo. Me ne sono ricordata subito, ma non capisco perchè tu ti sia
stupito vedendolo sul giornale.
SIGNOR SMITH: Sul giornale non c'è. Sono già tre anni che s'è parlato del suo decesso. Me ne sono
ricordato per associazione di idee.
SIGNORA SMITH: Peccato! Era così ben conservato.
SIGNOR SMITH: Era il più bel cadavere di Gran Bretagna. Non dimostrava la sua età. Povero Bobby, erano
quattro anni che era morto ed era ancora caldo. Un vero cadavere vivente. E com'era
allegro.
SIGNORA SMITH: Povera Bobby.
SIGNOR SMITH: Vuoi dire Povero Bobby.
SIGNORA SMITH: No, penso a sua moglie. Lei sia chiamava come lui, Bobby, Bobby Watson. Siccome
avevano lo stesso nome, non si riusciva a distinguerli l'uno dall'altra quando li si vedeva
assieme. E'stato solo dopo la morte di lui che si è potuto sapere con precisione chi fosse
l'uno e chi fosse l'altra. Tuttavia, ancora oggi, c’è gente che la scambia per il morto e le fa le
condoglianze. Tu la conosci?
SIGNOR SMITH: Non l'ho vista che una volta, per caso, al funerale di Bobby.
SIGNORA SMITH: Io non l'ho mai vista. E' bella?
SIGNOR SMITH: Ha tratti regolari eppure non si può dire che sia bella. Troppo alta e troppo massiccia. I
suoi tratti non sono regolari eppure la si potrebbe dire bella. E' un po' troppo piccola e
magra. E' insegnante di canto.
La pendola suona cinque volte. Lunga pausa.
SIGNORA SMITH: E quando pensano di sposarsi quei due?
SIGNOR SMITH: La primavera prossima, al più tardi.
SIGNORA SMITH: Bisognerà per forza andare al matrimonio.
SIGNOR SMITH: E bisognerà … anche fare un regalo. Mi domando quale.
SIGNORA SMITH: Perché non gli regaliamo uno dei sette piatti d'argento che ci hanno dato per il nostro
matrimonio, e che non ci sono serviti a nulla?... E' triste per lei essere rimasta vedova così
giovane.
SIGNOR SMITH: Per fortuna non hanno figli.
SIGNORA SMITH: Non ci sarebbe mancato che questo! Figli! Povera donna, che cosa ne avrebbe fatto?
SIGNOR SMITH: E' ancora giovane. Può benissimo risposarsi. Il lutto le sta così bene!
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SIGNORA SMITH: Ma chi si prenderà cura dei figli? Lo sai che hanno un bambino e una bambina. Come si
chiamano?
SIGNOR SMITH: Bobby e Bobby, come i loro genitori. Lo zio di Bobby Watson, il vecchio Bobby Watson, è
ricco e vuol molto bene al bambino. Potrebbe incaricarsi lui dell'educazione di Bobby.
SIGNORA SMITH: Sarebbe logico. E la zia di Bobby Watson, la vecchia Bobby Watson, potrebbe benissimo
incaricarsi per parte sua dell'educazione di Bobby Watson, la figlia di Bobby Watson. Così
la mamma di Bobby Watson, Bobby, potrebbe risposarsi. Ha qualcuno in vista?
SIGNOR SMITH: Sì, un cugino di Bobby Watson.
SIGNORA SMITH: Chi? Bobby Watson?
SIGNOR SMITH: Di quale Bobby Watson parli?
SIGNORA SMITH: Di Bobby Watson, il figlio del vecchio Bobby Watson, l'altro zio di Bobby Watson, il
morto.
SIGNOR SMITH: No, non è quello, è un'altro. E' il figlio della vecchia Bobby Watson, la zia di Bobby
Watson, il morto.
SIGNORA SMITH: Vuoi dire Bobby Watson, il commesso viaggiatore?
SIGNOR SMITH: Tutti i Bobby Watson sono commessi viaggiatori.
SIGNORA SMITH: Che mestieraccio! Eppure si guadagna bene.
SIGNOR SMITH: Sì , quando non c’è la concorrenza.
SIGNORA SMITH: E quando non c’è la concorrenza?
SIGNOR SMITH: Il martedì, il giovedì e il martedì.
SIGNORA SMITH: Ah! Tre giorni la settimana? E che fa Bobby Watson durante quel tempo?
SIGNOR SMITH: Si riposa, dorme.
SIGNORA SMITH: Ma perché non lavora durante quei tre giorni, se non c’è la concorrenza?
SIGNOR SMITH: Non posso sapere tutto. Fai delle domande stupide!
SIGNORA SMITH: (offesa) Lo dici per umiliarmi?
SIGNOR SMITH: (sorridendo) Sai bene che non è vero.
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IL VUOTO
BECKETT, ASPETTANDO GODOT
La celebre opera teatrale Aspettando Godot (in francese "En Attendant Godot", in inglese "Waiting for
Godot") venne scritta verso la fine degli anni Quaranta e pubblicata in epoca post-atomica, nel 1952, in
lingua francese. Samuel Beckett (1906-1989), autore di nascita irlandese ed esponente di spicco del Teatro
dell’assurdo insieme a Ionesco, Adamov e Pinter, nel 1954 tradusse il testo in inglese.
Il teatro dell’assurdo è un particolare genere teatrale sviluppatosi tra gli anni Cinquanta e Sessanta che si
caratterizza per i dialoghi vuoti di significato, ripetitivi e capaci di suscitare l’ilarità del pubblico a
dispetto del dramma che i personaggi interpretano.
Aspettando Godot è una tragicommedia dominata dalla sensazione di incomunicabilità e dalla crisi di
identità degli esseri umani che vivono una vita priva di scopo e di significato. E’ uno dei più noti testi
teatrali del Novecento, grazie anche alla geniale trovata dell’autore di un protagonista assente, intorno
all’attesa del quale tutto il dramma è costruito.
Samuel Beckett
Veniamo alla trama.
Vladimiro (chiamato anche Didi) ed Estragone (chiamato anche Gogo) stanno aspettando su una desolata
strada di campagna un "certo Signor Godot". Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due
personaggi che regola la concezione temporale attraverso la caduta delle foglie che indica il passare dei
giorni. Ma Godot (ammesso che egli esista) non appare mai sulla scena, e nulla si sa sul suo conto. Egli si
limita a mandare un ragazzo dai due vagabondi, il quale dirà ai due protagonisti che "oggi non verrà, ma
che verrà domani", riferendosi al suo mandante.
I due uomini, vestiti come barboni, si lamentano continuamente del freddo, della fame e del loro stato
esistenziale; litigano, pensano di separarsi (anche di suicidarsi) ma alla fine restano l'uno dipendente
dall'altro. Ed è proprio attraverso i loro discorsi sconnessi e superficiali, inerenti argomenti futili e banali,
che emergono il vuoto e il nonsenso della vita umana.
Ad un certo punto del dramma arrivano altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Pozzo, che si definisce il
proprietario della terra sulla quale Vladimiro ed Estragone stanno, è un uomo crudele e al tempo stesso
"pietoso", tratta il suo servo Lucky come una bestia, tenendolo al guinzaglio con una lunga corda. Pozzo è il
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IL VUOTO
padrone e Lucky il servo e la corda che li unisce indica un legame reciproco apparentemente inscindibile.
Dopo la zuffa causata dal monologo erudito e a sorpresa del servo, i due nuovi personaggi escono di scena.
Didi e Gogo, dopo aver avuto l'incontro con il ragazzo "messaggero di Godot", rimangono fermi mentre si
dicono "Well? Shall we go?" - "Yes, let's go", e l'indicazione scenica dice ironicamente "They do not move".
Il secondo atto differisce solo in apparenza dal primo: Vladimiro ed Estragone sono di nuovo nello stesso
posto della sera precedente. Continuano a parlare (a volte con "non senso", a volte utilizzando luoghi
comuni e detti popolari, anche con effetti comici). Ritornano in scena Pozzo, che è diventato cieco, e Lucky,
che ora è muto, ma con una differenza: ora la corda che li unisce è più corta ad indicare la soffocante
simbiosi dei due. Escono di scena. Rientra il ragazzo che dice che anche oggi il Signor Godot non verrà. Esce.
E Vladimiro ed Estragone rimangono lì a dire "Well? Shall we go?" - "Yes, let's go". E l'indicazione scenica
che mette fine al dramma dice "They do not move."
Ma chi è Godot? Numerose sono le interpretazioni: il destino, la morte, la fortuna e persino Dio.
In Inglese God vuol dire Dio, mentre "dot" si traduce con "punto": qualcuno ha dunque ipotizzato che
Beckett abbia in questo modo lasciato un'interpretazione sull'identità di Godot. Il suffisso "ot" vuol dire a sua
volta "piccolo" in francese, dando un'ulteriore caratteristica al Dio in questione.
Per questa ragione l’attesa di Vladimiro ed Estragone è l’attesa di tutte le attese, l’Attesa per eccellenza. Lo
stesso Beckett non ha mai chiarito questo enigma ed anzi si è così espresso: “Se avessi saputo chi è Godot lo
avrei scritto nel copione”.
Negli altri due personaggi, Pozzo e Lucky, molti hanno voluto vedere il capitalista e l’intellettuale ed in
effetti gli elementi per questa identificazione sembrano piuttosto chiari nel primo atto.
Un altro tema portante di quest'opera geniale è quello del linguaggio, che non riproduce più la
realizzazione della volontà individuale. Non esiste più legame fra parola e azione, fra il linguaggio e la
storia che dovrebbe esprimere, comunicare e attivare. Il linguaggio acquista ruolo primario, a sé,
autoriflessivo, narcisistico, ma ha smesso totalmente di significare.
Riporto di seguito il finale del I atto.
100
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Act I, ending
VLADIMIR: We've nothing more to do here.
ESTRAGON: Nor anywhere else.
VLADIMIR: Ah Gogo, don't go on like that. Tomorrow everything will be better.
ESTRAGON: How do you make that out?
VLADIMIR: Did you not hear what the child said?
ESTRAGON: No.
VLADIMIR: He said that Godot was sure to come tomorrow. (Pause.) What do you say to that?
ESTRAGON: Then all we have to do is to wait on here.
VLADIMIR: Are you mad? We must take cover. (He takes Estragon by the arm.) Come on.
He draws Estragon after him. Estragon yields, then resists. They halt.
ESTRAGON: (looking at the tree). Pity we haven't got a bit of rope.
VLADIMIR: Come on. It's cold. He draws Estragon after him. As before.
ESTRAGON: Remind me to bring a bit of rope tomorrow.
VLADIMIR: Yes. Come on. He draws him after him. As before.
ESTRAGON: How long have we been together all the time now?
VLADIMIR: I don't know. Fifty years maybe.
ESTRAGON: Do you remember the day I threw myself into the Rhone?
VLADIMIR: We were grape harvesting.
ESTRAGON: You fished me out.
VLADIMIR: That's all dead and buried.
ESTRAGON: My clothes dried in the sun.
VLADIMIR: There's no good harking back on that. Come on. He draws him after him. As before.
ESTRAGON: Wait!
VLADIMIR: I'm cold!
ESTRAGON: Wait! (He moves away from Vladimir.) I sometimes wonder if we wouldn't have been better
off alone, each one for himself. (He crosses the stage and sits down on the mound.) We weren't made for the
same road.
VLADIMIR: (without anger). It's not certain.
ESTRAGON: No, nothing is certain. Vladimir slowly crosses the stage and sits down beside Estragon. #
VLADIMIR: We can still part, if you think it would be better.
ESTRAGON: It's not worthwhile now.
Silence.
VLADIMIR: No, it's not worthwhile now.
Silence.
ESTRAGON: Well, shall we go?
VLADIMIR: Yes, let's go.
They do not move.
Atto I, finale
Vladimiro: Non ci resta più niente da fare, qui.
Estragone: Né qui né altrove.
Vladimiro: Su, Gogò, non prendertela cosi. Domani tutto andrà meglio.
Estragone: E come?
Vladimiro: Non hai sentito cosa ha detto quel ragazzo?
Estragone: No.
Vladimiro: Ha detto che Godot verrà di sicuro domani. (Pausa) Che te ne pare?
Estragone: Allora, non c'è altro da fare che aspettare qui.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Vladimiro: Ma sei pazzo? Bisogna mettersi al riparo. (Prende Estragone per un braccio) Vieni! (Lo tira.
Estragone cede sulle prime, poi resiste. Si fermano).
Estragone: (guardando l'albero) Peccato che non abbiamo un pezzo di corda.
Vladimiro: Vieni. Comincia a far freddo. (Lo tira ecc.).
Estragone:Ricordami di portare una corda, domani.
Vladimiro: Sì. Vieni. (Lo tira ecc.).
Estragone: Quanto tempo sarà che stiamo insieme dal mattino alla sera?
Vladimiro: Non so. Cinquant'anni, forse.
Estragone: Ti ricordi quel giorno che mi sono gettato nella Durance?
Vladimiro: Facevamo la vendemmia.
Estragone: E tu m'hai ripescato.
Vladimiro: Sono cose morte e sepolte.
Estragone: I miei vestiti sono asciugati al sole.
Vladimiro: Non pensarci più, vieni. (Lo tira ecc.).
Estragone: Aspetta.
Vladimiro: Ho freddo.
Estragone: Mi domando se non sarebbe stato meglio restare soli, ciascuno per conto suo.(Pausa). Non
eravamo fatti per seguire la stessa strada.
Vladimiro: (senza offendersi) Non è sicuro.
Estragone: No, non c'è niente di sicuro.
Vladimiro: Possiamo sempre lasciarci, se credi.
Estragone: Ormai non vale più la pena.
(Silenzio).
Vladimiro: È vero, ormai non vale più la pena.
(Silenzio).
Estragone: Allora andiamo?
Vladimiro: Andiamo.
Non si muovono.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
ALDO PALAZZESCHI
«L’ingegno di Palazzeschi ha per fondo una feroce ironia demolitrice
che abbatte tutti i motivi sacri del romanticismo:
Amore, Morte, Culto della donna ideale, Misticismo».
(Filippo Tommaso Marinetti)
In un testo divulgato sotto forma di volantino nel 1913, Filippo Tommaso Marinetti si espresse così,
cogliendo a pieno il carattere principale dell’opera di Aldo Palazzeschi.
Pseudonimo di Aldo Giurlani, Palazzeschi nacque a Firenze il 2 febbraio 1885. Adottò il cognome della
nonna materna quando a vent'anni pubblicò il primo libro di poesie. Il padre, un agiato commerciante di
stoffe, avrebbe voluto fare di lui, unico figlio, un uomo d’affari, ragion per cui lo avviò agli studi
commerciali. Traviato dall’amore per il teatro, subito dopo aver preso il diploma di ragioniere, anziché
cercare un'occupazione stabile, nel 1902 si iscrisse alla Regia Scuola di Recitazione “Tommaso Salvini”.
Un giovanissimo Aldo Palazzeschi
Abbandonò però ben presto la carriera teatrale per dedicarsi interamente alla nuova passione, la letteratura.
I primi tre libri li pubblica a proprie spese facendo figurare sul frontespizio come editore il nome del
proprio gatto, Cesare Blanc. Del libro di esordio, I cavalli bianchi, uscito nel 1905, si accorge Sergio
Corazzini, che ne fa cenno in un articolo pubblicato l’11 marzo 1906 sul «Sancio Panza», un quotidiano
politico-satirico edito a Roma.
Più considerevole per le conseguenze che ebbe fu, senz’altro, l’amicizia nata nel 1909 tra Palazzeschi e
Marinetti. Su invito di costui, Aldo aderisce, sia pure in modi personalissimi, al movimento futurista,
partecipando fra l’altro ad alcune delle famigerate, turbolente serate futuriste.
Nel 1911 pubblica il romanzo Il Codice di Perelà e fa una personale dichiarazione di poetica con il suo E
lasciatemi divertire, collegandosi alla poesia del tedesco Christian Morgenstern e a quella del francese Max
Jacob.
Nelle milanesi Edizioni futuriste di «Poesia» apparvero la raccolta delle liriche L’Incendiario, il romanzo Il
Codice di Perelà e nel 1914 il suo personale manifesto futurista, Il controdolore; il processo di
destrutturazione del canone narrativo classico prosegue poi nel discusso La Piramide, uno “scherzo” in tre
parti (così lo definì l’autore), scritto tra il 1912 e il 1914.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Dei giovani poeti che si riconoscevano nel programma marinettiano Palazzeschi condivideva l’intento di
fondo, mandare in frantumi le convenzioni letterarie ereditate dall’Ottocento. Di suo portava nel gruppo un
accesissimo senso dell’ironia e del gioco, che lo differenziava sensibilmente da Marinetti e soci.
Per molti aspetti, peraltro, l’esperienza palazzeschiana può oggi sembrare affiancabile forse, più che
all’esperienza futurista, a quella dei cosiddetti Vociani, cioè gli scrittori della «Voce», alla quale il nostro
autore collaborò in questi anni. Del resto il soggiorno parigino sul finire del ’13, dove incontrò e frequentò
assiduamente Apollinaire e i futuri dadaisti, ma anche Picasso, Braque e Matisse, lo liberò del tutto dalla
già povera influenza del verso e dell’ideologia di Marinetti. Nel 1914 Palazzeschi rompe con gli altri
esponenti del movimento a causa del suo dissenso a proposito della campagna interventista. Del resto, già
dal 1908 aveva mostrato stilemi crepuscolari nel romanzo Allegoria di novembre, e si era idealmente
ricollegato con esperienze artistiche internazionali di più ampio respiro.
Tuttavia, insieme ai suoi coetanei, anch’egli, che pure era stato riformato alla visita di leva, nell’estate del
1916 venne chiamato alle armi. L'esperienza militare si riflette in un inquietante volume di genere diaristico,
Due imperi… mancati, peraltro contrassegnato da un inedito impulso all’abbraccio fraterno.
Dopo la guerra condusse a Firenze un’esistenza quasi totalmente appartata. Sono anni poveri di eventi di
rilievo secondo la prospettiva biografica, ma che risultano decisivi dal punto di vista letterario. La
produzione creativa di Palazzeschi in questo periodo torna infatti a essere intensissima. Se non va
annebbiandosi, l’anarchismo giovanile nel frattempo si è andato però disciplinando. Lo provano le due più
importanti opere del periodo tra le due guerre, uscite a distanza di due anni l’una dall’altra: Stampe
dell’Ottocento nel 1932 e il capolavoro Sorelle Materassi nel 1934.
Una scena del bellissimo sceneggiato televisivo Le sorelle Materassi del 1972,
con Nora Ricci nel ruolo di una zia e Giuseppe Pambieri
nel ruolo del "nipote terribile" Remo
Entrambi i testi appaiono rimarchevoli per l’approfondimento della dimensione storica, negletta in
precedenza. Ma è il secondo quello che conferma le qualità migliori di Palazzeschi, il quale, fra le altre cose,
ha avuto il merito di aver dato inizio, insieme a pochi altri, a quel moto di ritorno al romanzo di
impostazione realista che nell’immediato dopoguerra conoscerà una rinnovata fortuna.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Più discutibili appaiono al confronto i risultati artistici raggiunti con gli altri due romanzi della maturità, I
fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953). Di gran lunga più interessanti le novelle, spesso gustose, di Bestie del
Novecento.
In seguito però, voltate le spalle al realismo, ecco dunque tre nuovi antiromanzi sulla scia di quella che era a
tutti gli effetti un ritorno alla trasgressività: Il doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un’amicizia (1971).
Più fitte si fanno anche le collaborazioni giornalistiche. Un rilievo inferiore, benché non trascurabile, ebbe
invece l’attività di traduttore.
Nel 1957 l’Accademia dei Lincei gli assegnò il Premio internazionale Feltrinelli per la Letteratura. Nello
stesso anno la Mondadori diede avvio alla pubblicazione di Tutte le opere di Aldo Palazzeschi nella collana dei
“Classici Contemporanei Italiani”. Per iniziativa di Diego Valeri, Vittore Branca, Gianfranco Folena, nel ’62
l’università di Padova gli conferì la laurea Honoris Causa.
Attivissimo e prolifico anche negli ultimi anni di vita, Palazzeschi seguì con caldo interesse il dibattito
letterario animato dagli scrittori e dai poeti della neoavanguardia, che in lui videro un punto di riferimento
intellettuale privilegiato.
Morì a causa di un'affezione polmonare il 18 agosto 1974, mentre gli amici andavano preparando i
festeggiamenti per i suoi novant’anni.
Il vuoto di senso delle cosiddette "cose serie" è uno dei temi portanti delle liriche de L'incendiario:
Palazzeschi "riesce a liberare la voce del giullare, della critica velata dal gioco, un gioco infantile spinto al
limite della follia controllata. Apre così il versante del comico, cosa rara per la poesia del primo Novecento,
mettendo da parte ogni melanconia e spingendo sul pedale della poesia con un'allegria molto giocosa. [...]
Palazzeschi svuota il senso di ogni atteggiamento, azione o situazione. Vuoto "semantico" e pura poesia. E'
l'immagine di un carillon in cui principi e principesse girano a vuoto con movimenti sempre uguali, racconti
semplificati in puri movimenti geometrici a cui è stata sottratta vita. La presenza del liberty è limitata al suo
auto-svuotamento, rimangono solo piccoli elementi di decoro, vezzo utile alla sua ironia. Palazzeschi
capovolge e stravolge i vecchi dogmi attraverso pungente e spensierata comicità, con un lessico che ribalta,
così, gli antichi repertori".
Riporto come esempio due liriche tratte da L'incendiario: Visita alla Contessa Eva Pizzardini Ba, che
esprime con sottile e perfida ironia il senso di vuoto esistenziale e lo spleen di un'aristocratica annoiata, e la
celebre E lasciatemi divertire!, vero e proprio manifesto della poetica palazzeschiana, incentrata sulla totale
perdita di senso e di funzione della poesia nella società moderna.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba
- Buonasera contessa.
- Buonasera carissimo Aldo.
- Oggi giornata bella, carissimo Aldo, non fa né freddo… né caldo.
- E… la noia, contessa?
- La che? …
- La no-ia.
- Pa… pa…papa…papa.
- Sempre la stessa.
- Ciò mi dite di nuovo?
Bravo.
- Cosa dirvi di nuovo?
Mi credete così ingenuo?
Nemmeno mi ci provo.
- Bravo.
E passate per giovine bizzarro…
per uomo… tanto strano.
Strano… bizzarro…
bizzarro…strano…
Bravo.
- Codesta bella veste, contessa,
la vidi proprio iersera
precisa… a una borghese.
- E fu inventata a Parigi
che non è ancora un mese:
sempre così, si sa.
- A Parigi fumano l'oppio.
- A Parigi…
- Verrà presto la moda anche da noi.
- Certo verrà poi.
Le belle cose da noi sono un mito,
noi siamo quelli di ieri… o di poi.
Che governo pitocco!
Ma… di nuovo?
- Di nuovo…
La gallina ha fatto l'uovo!
- Bella consolazione, dover vivere tanto
per vedere tutti i giorni
le medesime cose.
Giunge il sole e se ne va,
cresce e cala la luna.
Sempre uguale il sole,
la luna è sempre uguale,
non cambian di colore.
Identiche le stelle.
- Purtroppo.
- Azzurro il cielo
azzurro il mare:
val la pena
di aprire una finestra per guardare?
- Ma…
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
- Verde il prato
verde il bosco:
il color vostro lo conosco, ahimé.
- Non ci badate.
- Si aspettano le solite persone
alle solite ore,
che ci vengon davanti
con la solita faccia,
non è facile sbagliare,
e con identica voce
ci dicono le identiche parole.
e non giova il cambiare,
che se pure ti sembrano
l'uno dall'altro diversi
nelle forme o negli aspetti,
ti diran tutti alla stessa maniera:
"Buongiorno contessa,
contessa, buonasera"
Tutti i giorni si nasce…
e tutti i giorni si muore.
Quando si nasce c'è la levatrice,
quando si muore… c'è il dottore.
- Preferisco la levatrice.
- Io no, il dottore.
Che ci si viene a fare?
che ci si fa?
Si può sapere?
Si sa?
- Calmatevi, contessa.
- E dire che vorrei, solo per una volta,
vedermi nuova nel mio specchio.
- Come?
- Nuova, diversa da sempre,
e diversa da tutte.
- Aver due bocche?
- Magari, ma è un caso comune.
- Lo so. Un occhio dietro?
- Dove?
- Nella testa.
- Ah, sì…
- Un dente sulla punta del naso?
- Meglio senza naso, nel caso.
- Due teste?
- Comune comune.
- Sette teste? Tredici gambe?
- Comune comune.
Ieri sera per dormire
mi sono fatta tre volte
la puntura di morfina.
- Tre volte?
- Sono poche? Sono molte?
- Ma vi pare? La morfina!
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
- "La morfina!" La morfi-na.
- Vorreste diventare d'un tratto
regina o imperatrice?
Antonietta? Messalina!
- Uhm… forse sarebbe meglio…
- Una poveretta.
- Forse.
- Povera molto, vivere di elemosina,
essere giù, nel fango…
- Forse.
- Insultata…
- Certo.
- Battuta…
- Almeno.
- Magari nel mezzo della strada
sull'ultimo gradino dell'abiezione
come una donna perduta.
- Sì.
- Venduta.
- Sì.
- Essere vilipesa… prostituta!
- Insultata… battuta… venduta…
almeno per provare,
ma… come fare, noi…
Chi ci può insultare?
- Voi? Io.
- Siete troppo gentile, poveretto.
- Eccomi qua.
- Siete troppo corretto.
- Mi proverò.
- E non riuscirete
che ad annoiarmi di più.
- Ma… proviamo.
- E ci tenete tanto?
- Oh! Dio… così… tanto per fare.
- Dirò io per la prima.
- Sentiamo.
- Ma no, ma via, ma no,
perché? … no… povero sciocco, no…
- Stupida d'una donna.
- …poetucolo… pitocco.
- Vescica con la gonna.
- Imbecille! Cretino!
Omo da nulla!
- Povera grulla!
- Grullone! Buffone!
- Smencitissima vacca! Porcona, puttana, vigliacca!...
- Basta basta basta,
mio carissimo Aldo,
non crediamo di dirci
qualche cosa di nuovo,
sensazione nuova io già non provo,
108
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
la cerco, ma non la trovo.
amiamoci piuttosto,
l'amore è tanto vecchio…
mi sembrerà più nuovo.
- Sì? Purché voi ritorniate come allora.
- Quando?
- Quando mi ascoltavate
senza pensare al male
ed erano assai meno noiose
le vostre serate.
- Mi avete amata voi?
Ed io vi ho amato, ohibò!
- Non dico questo, no…
- Doveva essere molto noioso
il vostro povero amore
se lo abbiamo troncato
e neppure ce ne ricordiamo.
- Era… una parola sola, allora…
Ricordate ieri sera?
- Ieri sera?
- Quella mia parola…
- Quale? Dite, mi fate venir male.
- Quando fu?...
- Certamente vi sbagliate,
fu la sera avanti.
- Ve l'avevo già detta?
- Uh! Centomila sere,
capirete, se è sempre la stessa…
Basta, basta, non la ridite,
lasciatemi morire in pace…
sono malata.
- Che sarà di voi?
- Di me?
- Buonanotte contessa.
- Buonanotte, carissimo Aldo.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
E lasciatemi divertire!
Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!
Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.
Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!
Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.
Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!
Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie
Bubububu,
fufufufu.
Friu!
Friu!
Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?
bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.
Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire...
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.
Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!
Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?
Huisc...Huiusc...
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.
Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.
Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.
Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.
Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.
Certo è un azzardo un po' forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!
111
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
ACHILLE CAMPANILE
Erede in qualche modo della poetica palazzeschiana, ma anche di quella di Pirandello e Lewis Carrol, è
Achille Campanile (1899-1977), umorista tra i più sottili. Molti critici hanno elevato lo scrittore a "classico"
del Novecento: fra questi Carlo Bo (per il quale era "uno dei rarissimi inventori di un nuovo genere letterario") ed
Enzo Siciliano, che ha evidenziato come in questo autore "il riso, nell'attimo in cui scocca, è anche empio".
Campanile è stato variamente accostato alle ricerche sull'assurdo di Ionesco (accostamento che respinse) ed
al surrealismo, ma secondo alcune visioni critiche costituirebbe un unicum, un caso pienamente a sé.
La peculiarità della sua comicità è quella di ridicolizzare la più istintiva delle convenzioni sociali, la parola,
ed attraverso questa le convenzioni stesse, allestendo veri e propri spettacoli della logica con effetti
tipicamente pirandelliani.
Riporto di seguito la buffissima Lettera di Ramesse, che, come sempre, gioca con la funzione logica della
parola, dissacrandola e vanificandola.
La lettera di Ramesse
da "In campagna è un'altra cosa"
Dolce era la sera sulle rive del sacro Nilo. I colori del tramonto indugiavano sulle acque, che si vedevano
scintillare e tremolar fra le palme, dietro il tempio di Anubi. Si levò un sommesso canto di sacerdoti. Poi
tutto tacque. Ramesse passeggiava pensieroso e la solitudine del luogo, che pareva fatto per i convegni
d'amore, aumentava la sua tristezza. Coppie scivolavan tra le ombre, poco lontano. Egli soltanto non aveva
una compagna. Qui 1' aveva vista la prima volta, qualche giorno prima e qui tornava ogni sera in amoroso
pellegrinaggio, con la speranza d'incontrarla di nuovo e palesarle l'amor suo.
Ma la ragazza non s'era rivista.
"L'amo", diceva a se stesso il giovine egizio "l'amo appassionatamente. Ma come farglielo sapere? Ecco, le
scriverò una lettera". Corse a casa, si fece portate un papiro e s'accinse a buttar giù la dichiarazione d'amore,
imprecando contro lo strano modo di scrivere degli egizi, che obbligava lui, poco forte in disegno, a
esprimersi per mezzo di pupazzetti.
"Vedo con piacere che ti sei dato alla pittura" gli disse il padre, quando lo vide all'opera.
"No, sto scrivendo una lettera", spiegò Ramesse.
E si mise al lavoro pieno di buona volontà.
"Le dirò" fece: "Soave fanciulla...".
(E disegnò alla meno peggio una fanciulla cercando di darle un 'aria quanto più fosse possibile soave).
...dal primo istante in cui vi ho vista...
(Cercò di disegnare un occhio aperto e appassionato).
... il mio pensiero vola a voi...
(Come esprimere questo concetto poetico? Ecco: tracciò sul papiro un uccello).
...Se non siete insensibile ai miei dardi d'amore...
(E disegnò una freccia scagliata).
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
... trovatevi fra sette mesi...
(Sette piccole lune s'allinearono sul papiro).
...lì dove il sacro Nilo fa un gomito...
(Questo era molto facile: all'inamorato bastò tracciare un fiumicello a zig-zag).
..e precisamente vicino al tempio di Anubi...
(Anche questo era piuttosto facile, l'immagine del dio dal corpo d'uomo e dalla testa di cane essendo nota a
tutti).
.. perché possa esternarvi i sensi di una rispettosa ammirazione...
(Disegnò se stesso che s' inginocchiava).
...Mi creda, con perfetta osservanza, eccetera, eccetera.
Terminata l'improba fatica il giovine e intraprendente egizio consegnò la lettera al servitore:
"Portala alla figlia di Psammetico" disse. "E' urgente".
"Oh", fece il vecchio analfabeta "il grazioso cannocchiale!".
"E' un papiro, asino. C'è risposta".
Dopo poco, la soave figlia di Psammetico decifrava i disegni non troppo riusciti del giovine Ramesse, dando
ad essi la seguente interpretazione:
Detestabile zoppa...
...ho mangiato un uovo al tegamino...
...voi siete un'oca perfetta...
...ma, nel fisico, somigliate piuttosto a una lisca di pesce...
113
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
...Vi piglierò a sassate...
...Siete un ignobile vermiciattolo...
...e avete bisogno della protezione di Anubi...
("Mascalzone!" pensò la fanciulla. "Anubi è il protettore delle mummie!").
...Ora smetto perché debbo pulirmi le scarpe.
Saluti, eccetera, eccetera.
"Grandissimo vigliacco" strillò la ragazza. "Ora ti accomodo io!".
Prese lo stilo e sotto la stessa lettera scrisse:
Se io sono un 'oca...
...ma non mai una mummia...
...lei è un beccaccione...
...e io la prenderò a pugni.
Frase che ottenne disegnando con grande perizia un'oca, Anubi cancellato, un animale cornuto e un pugno
chiuso.
Restituì la lettera al servitore di Ramesse, che tornò dal padrone.
Figurarsi la gioia di questi, quando credé di decifrare - sempre per la sua scarsa pratica di disegno - come
segue i geroglifici della ragazza:
114
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Anche il mio pensiero vola costantemente a voi...
...ma ritengo che non è prudente vedersi presso il tempio di Anubi;
...piuttosto; un buon posticino tranquillo credo si possa trovare nei paraggi del tempio del bue Api...
...dove vi concederò la mia mano.
Quattromila anni sono passati. Il papiro di Ramesse è stato tratto alla luce da un grande egittologo, il quale
dopo due lustri di profondissimi studi è riuscito a ridare all'ammirazione degli uomini il brano di sublime
poesia contenuto in esso.
Eccolo, nella traduzione integrale che ne ha fatto lo scienziato:
O Osiride che danzi stancamente
sul fiore del loto,
seguita dall'lbis, uccello a te sacro,
io t'offro la spiga del grano
e sette piccoli fagiuoli di fresco sgranati,
115
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
acciocché tu tenga lontano da me il serpente dell'invidia,
al sommo Anubi,
a cui mi prostro,
seguito anch'io dall'Ibis sacro,
sacrificando un grasso vitello
che abbatterò di mio pugno.
116
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
APPENDICE
The Waste Land
by T. S. Eliot
"Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis
vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent:
Sibylla ti theleis; respondebat illa: apothanein thelo."
I. THE BURIAL OF THE DEAD
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the archduke's,
My cousin's, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.
What are the roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images, where the sun beats,
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,
And the dry stone no sound of water. Only
There is shadow under this red rock,
(Come in under the shadow of this red rock),
And I will show you something different from either
Your shadow at morning striding behind you
Or your shadow at evening rising to meet you;
I will show you fear in a handful of dust.
Frisch weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind,
Wo weilest du?
"You gave me hyacinths first a year ago;
"They called me the hyacinth girl."
––Yet when we came back, late, from the Hyacinth garden,
Your arms full, and your hair wet, I could not
117
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Speak, and my eyes failed, I was neither
Living nor dead, and I knew nothing,
Looking into the heart of light, the silence.
Oed' und leer das Meer.
Madame Sosostris, famous clairvoyante,
Had a bad cold, nevertheless
Is known to be the wisest woman in Europe,
With a wicked pack of cards. Here, said she,
Is your card, the drowned Phoenician Sailor,
(Those are pearls that were his eyes. Look!)
Here is Belladonna, the Lady of the Rocks,
The lady of situations.
Here is the man with three staves, and here the Wheel,
And here is the one-eyed merchant, and this card,
Which is blank, is something he carries on his back,
Which I am forbidden to see. I do not find
The Hanged Man. Fear death by water.
I see crowds of people, walking round in a ring.
Thank you. If you see dear Mrs. Equitone,
Tell her I bring the horoscope myself:
One must be so careful these days.
Unreal City,
Under the brown fog of a winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many.
Sighs, short and infrequent, were exhaled,
And each man fixed his eyes before his feet.
Flowed up the hill and down King William Street,
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours
With a dead sound on the final stroke of nine.
There I saw one I knew, and stopped him, crying "Stetson!
"You who were with me in the ships at Mylae!
"That corpse you planted last year in your garden,
"Has it begun to sprout? Will it bloom this year?
"Or has the sudden frost disturbed its bed?
"Oh keep the Dog far hence, that's friend to men,
"Or with his nails he'll dig it up again!
"You! hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frere!"
II. A GAME OF CHESS
The Chair she sat in, like a burnished throne,
Glowed on the marble, where the glass
Held up by standards wrought with fruited vines
From which a golden Cupidon peeped out
(Another hid his eyes behind his wing)
Doubled the flames of sevenbranched candelabra
Reflecting light upon the table as
The glitter of her jewels rose to meet it,
From satin cases poured in rich profusion;
118
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
In vials of ivory and coloured glass
Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,
Unguent, powdered, or liquid - troubled, confused
And drowned the sense in odours; stirred by the air
That freshened from the window, these ascended
In fattening the prolonged candle-flames,
Flung their smoke into the laquearia,
Stirring the pattern on the coffered ceiling.
Huge sea-wood fed with copper
Burned green and orange, framed by the coloured stone,
In which sad light a carved dolphin swam.
Above the antique mantel was displayed
As though a window gave upon the sylvan scene
The change of Philomel, by the barbarous king
So rudely forced; yet there the nightingale
Filled all the desert with inviolable voice
And still she cried, and still the world pursues,
"Jug Jug" to dirty ears.
And other withered stumps of time
Were told upon the walls; staring forms
Leaned out, leaning, hushing the room enclosed.
Footsteps shuffled on the stair.
Under the firelight, under the brush, her hair
Spread out in fiery points
Glowed into words, then would be savagely still.
"My nerves are bad to-night. Yes, bad. Stay with me.
"Speak to me. Why do you never speak. Speak.
"What are you thinking of? What thinking? What?
"I never know what you are thinking. Think."
I think we are in rats' alley
Where the dead men lost their bones.
"What is that noise?"
The wind under the door.
"What is that noise now? What is the wind doing?"
Nothing again nothing.
"Do
"You know nothing? Do you see nothing? Do you remember
"Nothing?"
I remember
Those are pearls that were his eyes.
"Are you alive, or not? Is there nothing in your head?"
But
O O O O that Shakespeherian Rag It's so elegant
So intelligent
"What shall I do now? What shall I do?"
I shall rush out as I am, and walk the street
"With my hair down, so. What shall we do to-morrow?
119
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
"What shall we ever do?"
The hot water at ten.
And if it rains, a closed car at four.
And we shall play a game of chess,
Pressing lidless eyes and waiting for a knock upon the door.
When Lil's husband got demobbed, I said I didn't mince my words, I said to her myself,
HURRY UP PLEASE ITS TIME
Now Albert's coming back, make yourself a bit smart.
He'll want to know what you done with that money he gave you
To get yourself some teeth. He did, I was there.
You have them all out, Lil, and get a nice set,
He said, I swear, I can't bear to look at you.
And no more can't I, I said, and think of poor Albert,
He's been in the army four years, he wants a good time,
And if you don't give it him, there's others will, I said.
Oh is there, she said. Something o' that, I said.
Then I'll know who to thank, she said, and give me a straight look.
HURRY UP PLEASE ITS TIME
If you don't like it you can get on with it, I said.
Others can pick and choose if you can't.
But if Albert makes off, it won't be for lack of telling.
You ought to be ashamed, I said, to look so antique.
(And her only thirty-one.)
I can't help it, she said, pulling a long face,
It's them pills I took, to bring it off, she said.
(She's had five already, and nearly died of young George.)
The chemist said it would be alright, but I've never been the same.
You are a proper fool, I said.
Well, if Albert won't leave you alone, there it is, I said,
What you get married for if you don't want children?
HURRY UP PLEASE ITS TIME
Well, that Sunday Albert was home, they had a hot gammon,
And they asked me in to dinner, to get the beauty of it hot HURRY UP PLEASE ITS TIME
HURRY UP PLEASE ITS TIME
Goonight Bill. Goonight Lou. Goonight May. Goonight.
Ta ta. Goonight. Goonight.
Good night, ladies, good night, sweet ladies, good night, good night.
III. THE FIRE SERMON
The river's tent is broken: the last fingers of leaf
Clutch and sink into the wet bank. The wind
Crosses the brown land, unheard. The nymphs are departed.
Sweet Thames, run softly, till I end my song.
The river bears no empty bottles, sandwich papers,
Silk handkerchiefs, cardboard boxes, cigarette ends
Or other testimony of summer nights. The nymphs are departed.
And their friends, the loitering heirs of city directors;
Departed, have left no addresses.
120
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
By the waters of Leman I sat down and wept . . .
Sweet Thames, run softly till I end my song,
Sweet Thames, run softly, for I speak not loud or long.
But at my back in a cold blast I hear
The rattle of the bones, and chuckle spread from ear to ear.
A rat crept softly through the vegetation
Dragging its slimy belly on the bank
While I was fishing in the dull canal
On a winter evening round behind the gashouse
Musing upon the king my brother's wreck
And on the king my father's death before him.
White bodies naked on the low damp ground
And bones cast in a little low dry garret,
Rattled by the rat's foot only, year to year.
But at my back from time to time I hear
The sound of horns and motors, which shall bring
Sweeney to Mrs. Porter in the spring.
O the moon shone bright on Mrs. Porter
And on her daughter
They wash their feet in soda water
Et O ces voix d'enfants, chantant dans la coupole!
Twit twit twit
Jug jug jug jug jug jug
So rudely forc'd.
Tereu
Unreal City
Under the brown fog of a winter noon
Mr. Eugenides, the Smyrna merchant
Unshaven, with a pocket full of currants
C.i.f. London: documents at sight,
Asked me in demotic French
To luncheon at the Cannon Street Hotel
Followed by a weekend at the Metropole.
At the violet hour, when the eyes and back
Turn upward from the desk, when the human engine waits
Like a taxi throbbing waiting,
I Tiresias, though blind, throbbing between two lives,
Old man with wrinkled female breasts, can see
At the violet hour, the evening hour that strives
Homeward, and brings the sailor home from sea,
The typist home at teatime, clears her breakfast, lights
Her stove, and lays out food in tins.
Out of the window perilously spread
Her drying combinations touched by the sun's last rays,
On the divan are piled (at night her bed)
Stockings, slippers, camisoles, and stays.
I Tiresias, old man with wrinkled dugs
Perceived the scene, and foretold the rest -
121
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
I too awaited the expected guest.
He, the young man carbuncular, arrives,
A small house agent's clerk, with one bold stare,
One of the low on whom assurance sits
As a silk hat on a Bradford millionaire.
The time is now propitious, as he guesses,
The meal is ended, she is bored and tired,
Endeavours to engage her in caresses
Which still are unreproved, if undesired.
Flushed and decided, he assaults at once;
Exploring hands encounter no defence;
His vanity requires no response,
And makes a welcome of indifference.
(And I Tiresias have foresuffered all
Enacted on this same divan or bed;
I who have sat by Thebes below the wall
And walked among the lowest of the dead.)
Bestows one final patronising kiss,
And gropes his way, finding the stairs unlit . . .
She turns and looks a moment in the glass,
Hardly aware of her departed lover;
Her brain allows one half-formed thought to pass:
"Well now that's done: and I'm glad it's over."
When lovely woman stoops to folly and
Paces about her room again, alone,
She smoothes her hair with automatic hand,
And puts a record on the gramophone.
"This music crept by me upon the waters"
And along the Strand, up Queen Victoria Street.
O City city, I can sometimes hear
Beside a public bar in Lower Thames Street,
The pleasant whining of a mandoline
And a clatter and a chatter from within
Where fishmen lounge at noon: where the walls
Of Magnus Martyr hold
Inexplicable splendour of Ionian white and gold.
The river sweats
Oil and tar
The barges drift
With the turning tide
Red sails
Wide
To leeward, swing on the heavy spar.
The barges wash
Drifting logs
Down Greenwich reach
Past the Isle of Dogs.
Weialala leia
Wallala leialala
122
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Elizabeth and Leicester
Beating oars
The stern was formed
A gilded shell
Red and gold
The brisk swell
Rippled both shores
Southwest wind
Carried down stream
The peal of bells
White towers
Weialala leia
Wallala leialala
"Trams and dusty trees.
Highbury bore me. Richmond and Kew
Undid me. By Richmond I raised my knees
Supine on the floor of a narrow canoe."
"My feet are at Moorgate, and my heart
Under my feet. After the event
He wept. He promised 'a new start'.
I made no comment. What should I resent?"
"On Margate Sands.
I can connect
Nothing with nothing.
The broken fingernails of dirty hands.
My people humble people who expect
Nothing."
la la
To Carthage then I came
Burning burning burning burning
O Lord Thou pluckest me out
O Lord Thou pluckest
burning
IV. DEATH BY WATER
Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell
And the profit and loss.
A current under sea
Picked his bones in whispers. As he rose and fell
He passed the stages of his age and youth
Entering the whirlpool.
Gentile or Jew
O you who turn the wheel and look to windward,
Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you.
123
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
V. WHAT THE THUNDER SAID
After the torchlight red on sweaty faces
After the frosty silence in the gardens
After the agony in stony places
The shouting and the crying
Prison and palace and reverberation
Of thunder of spring over distant mountains
He who was living is now dead
We who were living are now dying
With a little patience
Here is no water but only rock
Rock and no water and the sandy road
The road winding above among the mountains
Which are mountains of rock without water
If there were water we should stop and drink
Amongst the rock one cannot stop or think
Sweat is dry and feet are in the sand
If there were only water amongst the rock
Dead mountain mouth of carious teeth that cannot spit
Here one can neither stand nor lie nor sit
There is not even silence in the mountains
But dry sterile thunder without rain
There is not even solitude in the mountains
But red sullen faces sneer and snarl
From doors of mudcracked houses
If there were water
And no rock
If there were rock
And also water
And water
A spring
A pool among the rock
If there were the sound of water only
Not the cicada
And dry grass singing
But sound of water over a rock
Where the hermit-thrush sings in the pine trees
Drip drop drip drop drop drop drop
But there is no water
Who is the third who walks always beside you?
When I count, there are only you and I together
But when I look ahead up the white road
There is always another one walking beside you
Gliding wrapt in a brown mantle, hooded
I do not know whether a man or a woman
- But who is that on the other side of you?
What is that sound high in the air
124
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Murmur of maternal lamentation
Who are those hooded hordes swarming
Over endless plains, stumbling in cracked earth
Ringed by the flat horizon only
What is the city over the mountains
Cracks and reforms and bursts in the violet air
Falling towers
Jerusalem Athens Alexandria
Vienna London
Unreal
A woman drew her long black hair out tight
And fiddled whisper music on those strings
And bats with baby faces in the violet light
Whistled, and beat their wings
And crawled head downward down a blackened wall
And upside down in air were towers
Tolling reminiscent bells, that kept the hours
And voices singing out of empty cisterns and exhausted wells.
In this decayed hole among the mountains
In the faint moonlight, the grass is singing
Over the tumbled graves, about the chapel
There is the empty chapel, only the wind's home.
It has no windows, and the door swings,
Dry bones can harm no one.
Only a cock stood on the rooftree
Co co rico co co rico
In a flash of lightning. Then a damp gust
Bringing rain
Ganga was sunken, and the limp leaves
Waited for rain, while the black clouds
Gathered far distant, over Himavant.
The jungle crouched, humped in silence.
Then spoke the thunder
DA
Datta: what have we given?
My friend, blood shaking my heart
The awful daring of a moment's surrender
Which an age of prudence can never retract
By this, and this only, we have existed
Which is not to be found in our obituaries
Or in memories draped by the beneficent spider
Or under seals broken by the lean solicitor
In our empty rooms
DA
Dayadhvam: I have heard the key
Turn in the door once and turn once only
We think of the key, each in his prison
Thinking of the key, each confirms a prison
Only at nightfall, aetherial rumours
125
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Revive for a moment a broken Coriolanus
DA
Damyata: The boat responded
Gaily, to the hand expert with sail and oar
The sea was calm, your heart would have responded
Gaily, when invited, beating obedient
To controlling hands
I sat upon the shore
Fishing, with the arid plain behind me
Shall I at least set my lands in order?
London Bridge is falling down falling down falling down
Poi s'ascose nel foco che gli affina
Quando fiam ceu chelidon - O swallow swallow
Le Prince d'Aquitaine a la tour abolie
These fragments I have shored against my ruins
Why then Ile fit you. Hieronymo's mad againe.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih
126
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
La terra desolata
(traduzione di Elio Chinol)
"Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis
vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent:
Sibylla ti theleis; respondebat illa: apothanein thelo."
I. La sepoltura dei morti
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà da terra morta, confondendo
Memoria e desiderio, risvegliando
Le radici sopite con la pioggia della primavera.
L'inverno ci mantenne al caldo, ottuse
Con immemore neve la terra, nutrì
Con secchi tuberi una vita misera.
L'estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia: noi ci fermammo sotto il colonnato,
E proseguimmo alla luce del sole, nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo un'ora intera.
Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch.
E quando eravamo bambini stavamo presso l'arciduca,
Mio cugino, che mi condusse in slitta,
E ne fui spaventata. Mi disse, Marie,
Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù.
Fra le montagne, là ci si sente liberi.
Per la gran parte della notte leggo, d'inverno vado nel sud.
Quali sono le radici che s'afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietra? Figlio dell'uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d'immagini infrante, dove batte il sole,
E l'albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L'arida pietra nessun suono d'acque.
C'è solo ombra sotto questa roccia rossa,
(Venite all'ombra di questa roccia rossa),
E io vi mostrerò qualcosa di diverso
Dall'ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall'ombra
Vostra che a sera incontro a voi si leva;
In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.
Frisch weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Iriscb Kind,
Wo weilest du?
Mi chiamarono la ragazza dei giacinti.
- Eppure quando tornammo, a ora tarda, dal giardino dei giacinti,
Tu con le braccia cariche, con i capelli madidi, io non potevo
127
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Parlare, mi si annebbiavano gli occhi, non ero
Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio,
Il cuore della luce.
Oed' und leer das Meer.
Madame Sosostris, chiaroveggente famosa,
Aveva preso un brutto raffreddore, ciononostante
E' nota come la donna più saggia d'Europa,
Con un diabolico mazzo di carte. Ecco qui, disse,
La vostra carta, il Marinaio Fenicio Annegato
(Quelle sono le perle che furono i suoi occhi. Guardate!)
E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce,
La Dama delle situazioni.
Ecco qui l'uomo con le tre aste, ecco la Ruota,
E qui il mercante con un occhio solo, e questa carta,
Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso,
E che a me non è dato vedere. Non trovo
L'Impiccato. Temete la morte per acqua.
Vedo turbe di gente che cammina in cerchio.
Grazie. Se vedete la cara Mrs. Equitone,
Ditele che le porterò l'oroscopo io stessa:
Bisogna essere così prudenti in questi giorni.
Città irreale,
Sotto la nebbia bruna di un'alba d'inverno,
Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
Ch'io non avrei mai creduto che morte tanta n'avesse disfatta.
Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano,
E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano
Su per il colle e giù per la King William Street,
Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore
Con morto suono sull'ultimo tocco delle nove.
Là vidi uno ch e conoscevo, e lo fermai, gridando: « Stetson!
Tu che eri con me , sulle navi a Milazzo!
Quel cadavere che l'anno scorso piantasti nel giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno?
Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l'aiola?
Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell'uomo,
Se non vuoi che con l'unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto!
Tu, hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frère!
II. Una partita a scacchi
Il Seggio sul quale sedeva, simile a un trono brunito,
Risplendeva sul marmo, ove lo specchio
Sorretto da colonne lavorate con tralci di vite
Fra le quali un Cupido dorato spiava
(Un altro sotto l'ala nascondeva gli occhi)
Raddoppiava le fiamme ai candelabri
A sette braccia riflettendo sul tavolo la luce
Mentre lo scintillio dei suoi gioielli si levava
A incontrarlo, da astucci di raso versato
128
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
A profusione; in fialette d'avorio e vetro colorato
Dischiuse, i suoi profumi stavano in agguato, sintetici e strani,
Unguenti, polveri, liquidi - turbavano,
Confondevano e annegavano il senso nei profumi; spinti dall'aria
Che entrava fresca dalla finestra, ascendevano
Alimentando le fiamme lunghe della candela,
Soffiavano il loro fumo nei laquearia,
Animando i motivi del soffitto a lacunari.
Un bosco enorme sottomarino nutrito di rame
Bruciava verde e arancio, incorniciato dalla pietra colorata,
Nella cui luce mesta un delfino scolpito nuotava.
Sull'antico camino era dipinta,
Come se una finestra si aprisse sulla scena silvana,
La metamorfosi di Filomela, dal re barbaro
Così brutalmente forzata; eppure là l'usignolo
Empiv a tutto il deserto con voce inviolabile
E ancora ella gemeva, e ancora il mondo prosegue,
« Giag Gíag » a orecchi sporchi.
E altri arbusti di tempo disseccati
Erano dispiegati sui muri a raccontare; forme attonite
Si affacciavano chine imponendo silenzio nella stanza chiusa.
Scalpicciavano passi sulla scala.
Alla luce del fuoco, sotto la spazzola, i suoi capelli
Si spiegavano in punte di fuoco,
Splendevano in parole, per ricadere in una cupa calma.
"Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa."
Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.
"Cos'è quel rumore?"
Il vento sotto la porta.
"E ora cos'è quel rumore? Che sta facendo il vento?"
Niente ancora niente.
E non sai
"Niente? Non vedi niente? Non ricordi
Niente?"
Ricordo Quelle sono le perle che furono i suoi occhi.
"Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?"
Ma
0 0 0 0 that Shakespeherian Rag...
Così elegante
Così intelligente
"Che farò ora? Che farò?"
"Uscirò fuori così come sono, camminerò per la strada
129
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
"Coi miei capelli sciolti, così. Cosa faremo domani?
"Cosa faremo mai?"
L'acqua calda alle dieci.
E se piove, un'automobile chiusa alle quattro.
E giocheremo una partita a scacchi,
Premendoci gli occhi senza palpebre, in attesa che bussino alla porta.
Quando il marito di Lil venne smobilitato, dissi Non avevo peli sulla lingua, glielo dissi io stessa,
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Ora che Albert ritorna, rimettiti un po' in ghingheri.
Vorrà sapere cosa ne hai fatto dei soldi che ti diede
Per farti rimettere i denti. Te li diede, ero presente.
Fatteli togliere tutti, Lil, e comprati una bella dentiera,
Lui disse, lo giuro, non ti posso vedere così.
E io nemmeno, dissi, e pensa a quel povero Albert,
E' stato sotto le armi per quattro anni, si vorrà un po' divertire,
Se non lo farai tu ce ne saranno altre, dissi.
Oh è così, disse lei. Qualcosa del genere, dissi.
Allora saprò chi ringraziare, disse, e mi guardò fissa negli occhi.
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Se non ne sei convinta seguita pure, dissi.
Ce ne sono altre che sanno decidere e scegliere se non puoi farlo tu.
Ma se Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata.
Ti dovresti vergognare, dissi, di sembrare una mummia.
(E ha solo trentun anni.)
Non ci posso far niente, disse lei, mettendo un muso lungo,
Son quelle pillole che ho preso per abortire, disse.
(Ne aveva avuti già cinque, ed era quasi morta per il piccolo George.)
Il farmacista disse che sarebbe andato tutto bene, ma non sono più stata la stessa.
Sei davvero una stupida, dissi.
Bene, se Albert non ti lascia in pace, ecco qui, dissi,
Cosa ti sei sposata a fare, se non vuoi bambini?
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Bene, quella domenica che Albert tornò a casa, avevano uno zampone bollito,
E mi invitarono a cena, per farmelo mangiare bello caldo SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
Buonanotte Bill. Buonanotte Lou. Buonanotte May, Buonanotte.
Ciao. 'Notte. 'Notte.
Buonanotte signore, buonanotte, dolci signore, buonanotte, buonanotte.
III. Il sermone del fuoco
La tenda del fiume è rotta: le ultime dita delle foglie
S'afferrano e affondano dentro la riva umida. Il vento
Incrocia non udito sulla terra bruna. Le ninfe son partite.
Dolce Tamigi, scorri lievemente, finché non abbia finito il mio Canto.
Il fiume non trascina bottiglie vuote, carte da sandwich,
Fazzoletti di seta, scatole di cartone, cicche di sigarette
O altre testimonianze delle notti estive. Le ninfe son partite.
E i loro amici, eredi bighelloni di direttori di banca della City;
130
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Partiti, e non hanno lasciato indirizzo.
Presso le acque dei Lemano mi sedetti e piansi...
Dolce Tamigi, scorri lievemente, finché non abbia finito il mio canto.
Dolce Tamigi, scorri lievemente, perché il mio canto non è alto né lungo.
Ma alle mie spalle in una fredda raffica odo
Lo scricchiolo delle ossa, e il ghigno che fende da un orecchio all'altro.
Un topo si insinuò con lentezza fra la vegetazione
Strascicando il suo viscido ventre sulla riva
Mentre stavo pescando nel canale tetro
Una sera d'inverno dietro il gasometro
Meditando sul naufragio del re mio fratello
E sulla morte del re mio padre, prima di lui.
Dei bianchi corpi ignudi sul suolo molle e basso
E ossa, gettate in una piccola soffitta bassa e arida,
Smosse solo dal piede del topo, un anno dietro l'altro.
Ma alle mie spalle di tanto in tanto odo
Suoni di trombe e motori, che condurranno
Sweeney da Mrs. Porter a primavera.
Oh la luna splendeva lucente su Mrs. Porter
E su sua figlia
Che si lavano i piedi in «soda water»
Et O ces voix d'enfants, chan tant dans la coupole!
Tuit tuit tuit
Giag giag giag giag giag giag
Così brutalmente
forzata. Tiriù
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
Mr. Eugenides, il mercante di Smirne,
Mal rasato, con una tasca piena d'uva passa
C.i.f. London: documenti a vista,
M'invitò in un francese demotico
Ad una colazione al Cannon Street Hotel
Seguita da un weekend al Metropole.
Nell'ora violetta, quando gli occhi e la schiena
Si levano dallo scrittoio, quando il motore umano attende
Come un tassì che pulsa nell'attesa,
Io Tiresia, benché cieco, pulsando fra due vite,
Vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere
Nell'ora violetta, nell'ora della sera che contende
Il ritorno, e il navigante dal mare riconduce al porto.
La dattilografa a casa all'ora del tè, mentre sparecchia la colazione, accende
La stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato.
Pericolosamente stese fuori dalla fìnestra
Le sue combinazioni che s'asciugano toccate dagli ultimi raggi del sole,
Sopra il divano (che di notte è il suo letto)
Sono ammucchiate calze, pantofole, fascette e camiciole.
Io Tiresia, vecchio con le mammelle raggrínzite,
Osservai la scena, e ne predissi il resto -
131
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Anch'io ero in attesa dell'ospite atteso.
Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso,
Impiegato d'una piccola agenzia di locazione, sguardo ardito,
Uno di bassa estrazione a cui la sicurezza
S'addice come un cilindro a un cafone rifatto.
Ora il momento è favorevole, come bene indovina,
Il pasto è ormai finito, e lei è annoiata e stanca,
Lui cerca d' impegnarla alle carezze
Che non sono respinte, anche se non desiderate.
Eccitato e deciso, ecco immediatamente l'assale;
Le sue mani esploranti non incontrano difesa;
La sua vanità non pretende che vi sia un'intesa, ritiene
L'indifferenza gradita accettazione.
(E io Tiresia ho presofferto tutto
Ciò che si compie su questo stesso divano o questo letto;
lo che sedei presso Tebe sotto le mura
E camminai fra i morti che più stanno in basso.)
Accorda un bacio finale di protezione,
E brancola verso l'uscita, trovando le scale non illuminate...
Lei si volta e si guarda allo specchio un momento,
Si rende conto appena che l'amante è uscito;
il suo cervello permette che un pensiero solo a metà formato
Trascorra: « Bene, ora anche questo è fatto: lieta che sia finito. »
Quando una donna leggiadra si piega a far follie
E percorre di nuovo la sua stanza, sola,
Con una mano meccanica i suoi capelli ravvia,
E mette un disco a suonare sul grammofono.
« Questa musica presso di me scivolava sull'acque »
E lungo lo Strand, fino alla Queen Victoria Street.
O città, città, talvolta posso udire vicino
A una qualsiasi taverna in Lower Thames Street
Il lamento piacevole di un mandolino,
E dentro chiacchiere e altri rumori
Là dove a mezzogiorno i pesciaioli riposano:
Dove le mura di Magnus Martir contengono
Uno splendore inesplicabile di bianco e oro ionici.
Il fiume trasuda
Olio e catrame
Le chiatte scivolano
Con la marea che si volge
Vele rosse
Ampie
Sottovento, ruotano su pesanti alberature.
Le chiatte sospingono
Tronchi c he vanno alla deriva
Verso il tratto di fiume di Greenwich
Oltre l'Isola dei Cani.
Weialala leia
132
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Wallala leiaiala
Elisabetta e Leicester
Remi che battono
La prua era formata
Da una conchiglia dorata
Rossa e oro
L'agile flusso dell'onda
Si frangeva su entrambe le rive
Il vento di sud-ovest
Con la corrente portava
Lo scampanio delle campane
Torri bianche
Weialala leia
Wallala Ieialala
« Tram e alberi polverosi.
Highbury mi fe'. Disfecemi
Richmond e Kew. Vicino a Richmond alzai le ginocchia
Supina sul fondo di una stretta canoa. »
« I miei piedi sono a Margate, e il mio cuore
Sotto i miei piedi. Dopo il fatto
Egli pianse. Promise "un nuovo inizio".
Non feci commento. Di cosa mi dovrei rammaricare? »
« Sulle Sabbie di Margate.
Non posso connettere
Nulla con nulla.
Le unghie rotte di mani sporche.
La mia gente, gente modesta che non chiede
Nulla. »
la la
Poi a Cartagine venni
Ardere ardere ardere ardere
O Signore Tu mi cogli
O Signore Tu cogli
bruciando
IV. La morte per acqua
Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò l'ossa in sussurri. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturítà e della giovinezza
Procedendo nel vortice.
Gentile o Giudeo
133
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
O tu che giri la ruota e guardi sopravvento,
Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.
V. Ciò che disse il tuono
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l'angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
Con un po' di pazienza
Qui non c'è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada che serpeggia lassù fra le montagne
Che sono montagne di roccia senz'acqua
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua fra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
Non c'è neppure silenzio fra i monti
Ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c'è neppure solitudine fra i monti
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
Da porte di case di fango screpolato
Se vi fosse acqua
E niente roccia
Se vi fosse roccia
E anche acqua
E acqua
Una sorgente
Una pozza fra la roccia
Se soltanto vi fosse suono d'acqua
Non la cicala
E l'erba secca che canta
Ma suono d'acqua sopra una roccia
Dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non c'è acqua
Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C'è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
134
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Io non so se sia un uomo o una donna
- Ma chi è che ti sta sull'altro fianco?
Cos'è quel suono alto nell'aria
Quel mormorio di lamento materno
Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
Qual è quella città sulle montagne
Che si spacca e si riforma e scoppia nell'aria violetta
Torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
Irreali
Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
E sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
Squittivano, e battevano le ali
E strisciavano a capo all'ingiù lungo un muro annerito
E capovolte nell'aria c'erano torri
Squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
E voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.
In questa desolata spelonca fra i monti
Nella fievole luce della luna, l'erba fruscia
Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
C'è la cappella vuota, dimora solo del vento.
Non ha finestre, la porta oscilla,
Aride ossa non fanno male ad alcuno.
Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto
Chicchirichì chicchirichì
Nel guizzare di un lampo. Quindi un'umida raffica
Apportatrice di pioggia
Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate
Attendevano pioggia, mentre le nuvole nere
Si raccoglievano molto lontano, sopra l'Himavant.
La giungla era accucciata, rattratta in silenzio.
Allora il tuono parlò
DA
Datta: che abbiamo dato noi?
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
L'ardimento terribile di un attimo di resa
Che un'èra di prudenza non potrà mai ritrattare
Secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
Che non si troverà nei nostri necrologi
O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
Nelle nostre stanze vuote
DA
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Dayadhvam: ho udito la chiave
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
Ravvivano un attimo un Coriolano affranto
DA
Damyata: la barca rispondeva
Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
Lietamente, invitato, battendo obbediente
Alle mani che controllano
Sedetti sulla riva
A pescare, con la pianura arida dietro di me
Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
Poi s'ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon O rondine rondine Le Prince d'Aquitaine à la tour abolie
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
Bene allora v'accomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Vale la pena di sapere che The Waste Land è stato tradotto anche in sardo.
Ecco la traduzione, realizzata da Nanni Falconi.
Sa terra desolada
S'accumpanzamentu de sos mortos
I
Abrile est su mese prus cruele, faghet
Bessire su lillà da sa terra dormida, ammisturat
Ammentos e desizos, ischidat
Sas raighinas dormidas cun sas abbas de beranu.
S'Ijerru nos mantezesit caldos carralzende
Sa terra de unu nie c'addrummentat, addeschende
Una trizili bida cun cardillones sicos.
S'Istiu nos fateit s'improvisada, benzende subra su Starnbengersee
Cun una irrasinada de abba; nos firmemus in unu colonnadu,
Pustis andemus suta su sole, in su in su Hofgarten,
Biemus cafè e arrejonemus pro un'ora.
Bin gar keine Russin, stamm' aus Litauen, echt deutsch.
Cando fimus piseddos chi fimus allogados cun s'arciduca,
Fradile meu mi s'aiat gitu cun isse in islita
Eo m'assucconei, mi neit, Marì,
Marì, muntene-di forte. E nos imbolemus a punta fica.
In sos montes, cue unu si sentit libberu.
Eo legio meda a denote, e mi nd'ando a sud in Ijerru.
Cales sunt sas raighinas chi s'aggantzant, cales ramos creschent
In custas pedras teremadas ? Fizu de s'omine,
Tue non podes narrer, ne addevinare, ca conosches solu
Unu muntone de immagines truncadas, inue batit su sole,
E s'arbure rutu non dat riparu, su grillu no accunnortat,
e s'arsada pedra non sonat de abba.
Solu b'est s'umbra suta custa pedra ruja,
( Beni-de a s'umbra de custa pedra ruja),
E deo bos apo a mustrare carchi cosa de diversu
Dae s'umbra bostra chi a manzanu bos ponet ifatu a palancadas
O dae s'umbra chi a serentina s'arritzat e torrat in bois;
bos apo a mustrare sa timoria in unu punzu de pruereddu.
Frish weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind,
Wo weilest du ?
" Mi desti a prima bia sos giacintos un annu faghet;
" Mi ponzeint sa pisedda de sos giacintos."
- A onzi modu cando torremus in segus, a tardu, da su giardinu de sos giacintos,
Garrigos sos bratzos tuos, e umidos sos pilos, eo non podia
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Faeddare, e mi mancaiat sa vista, non fia
Ne biu ne mortu, e non connoschia prus,
Isperiende in su coro de sa lughe, su silentziu.
Oed' und leer das Meer.
Tzia Sosostris. Addevinante famada,
fit arromadiada, mancari cussu pero'
fit connota comente sa femina prus sabia d'Europa
cun unu malignu matule de cartas. Milla, neit,
sa carta bostra, su marineri Feniciu Abburrigonadu
( Cussas sunt sas perlas chi fint sos ojos suos. Abbaida!)
Innoghe est sa Belladonna, sa Tzia de sas Rocas,
Sa tzia de sas situatziones.
Innoghe est s'omine cun sos tres fustes, e innoghe sa Roda,
E innoghe est su benduleju a un'oju, e custa carta,
chena figura, at carchicosa chi giughet a palas,
chi eo non poto bidere. No agato
s'impicadu. Time sa morte a modde.
Bido trumas de gente caminende in tundu.
Gratzias. Si bidides sa cara tzia Equitone
Nara-li chi che li giuto s'oroscupu eo matessi:
Unu depet stare gai atentu in custas dis.
Irreale tzitade,
Suta sa neula niedda de un'arbeschida de Ijerru,
Un truma de gente subra London Bridge, gai meda,
Mai aia cretidu chi sa morte nd'aiat isfatu gai tanta.
Alenos, curtzos e lascos, fint esalenados,
E totu isperiaiant sos pees issoro matessi.
Beniant pro su montigru e falaiant pro sa King William Street,
Fintzas a inue Saint Mary Woolnoth tocaiat sas oras
Cun unu sonu mortu subra s'urtimu tocu de sas noe.
Cue bidei unu chi connoschia, l'arressei, abboighende-li " Stetson !
" tue chi fist cun megus subra sa naves a Mylae !
"Cuddu mortu chi piantesti s'annu passadu in su giardinu
" bessidu est ? a frorit ocannu ?
"O s'astrau a s'ispensada at martzidu su prantarzu ?
" Mantene-che atesu su cane , iss'est amigu de s'omine,
" Si non cheres chi cun sas ungias ti nde lu boghet dae nou !
" Tue! hypocrite lecteur !- mon semblable,- mon frère! "
Una partita a scacchi
II
Su cadreone inue fit setzida, pariat unu tronu brunidu,
Lughiat in su marmaru inue su ispigru
Mantesu da colonnas traballiadas cun sarmentos de bide
E tra cussas un Cupidu doradu bogaiat cara
( Un'ateru cuaiat sos ogros suta s'ala)
Creschiat sas bampas de su candelabru de sete bratzos
Ispigritende sa lughe subra sa mesa
138
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Sas lughiteddas de s'oraria sua pigaiat a l'abbojare,
Dae iscatuleddas de rasu, imboladu a machinu
In fialas de avoriu e bidru coloradu
Iscanzadas, istaiant apostados istranos nuscos sinteticos,
Unguentos, licuidos o in pruereddu- cunfundiant, trambullaiant
Annegaiant sos sensos in sos nuscos; trubados da s'aria
Frisca ch'intraiat dae su balcone, pigaiant
Alimentende sas bampas de sa candela
Sulaiat su fumu suo intro sa licoreria,
Animende sos disegnos de sa bovida a cuadratos.
Un'immensu litu marinu addescadu cun ramine
Brusaiat birde-arantzu, coronadu dae sa pedra colorada,
In cussa lughe bassa unu delfinu isculpidu nadaiat.
Subra s'antiga tziminea fit pintada
Comente unu balcone chi dat subra s'areste issena,
Su tramunu de Philomela, da unu barbaru re
Gai malamente violada; epuru cue su lusignolu
Prenaiat totu su desertu cun boghe inviolabile
Galu fit a gianzulos, e galu su mundu sighit,
"jag jag" a origras brutas.
E ateras matas dae tempus sicas
Fint contende subra sos muros; formas fissadas
S'acioraiant, mugrende-si, faghiant silentziu in s'aposentu tancadu.
Passos trasinados in sas iscalas.
A sa lughe de su fogu, suta s'ispatzula, sos pilos suos
S'isparghiant in puntas de fogu,
Abbampados de paraulas, e luego falaiant lebios.
"So annerbiada istasero. So a petzos. Ista cun megus.
Faedda-mi. Proite no mi faeddas mai? Faedda.
A ite ses pensende? Pensende a ite? A ite?
No isco mai a ite ses pensende. Pensa."
Penso chi che semus in sa carrera de sos sorighes
Inue sos mortos ant perdidu sos ossos.
" It'est custu rumore? "
Su bentu suta sa gianna?"
" It'est custu rumore como? It'est fatende su bentu ?"
Nudda ancora nudda.
" Non connosches nudda? Non bides nudda? Non connosches Nudda?"
M'ammento
Cussas sunt sas perlas chi fint sos ogros suos.
" Ses biu o no? No as nudda in conca ?"
Ma
O O O O that Shakesperheian Rag…
Isse est gai elegante
Gai abbistu
" Ite apo a fagher como? Ite fato? "
139
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
" Apo a bessire a fora comente so, e camino in carrera
" Totu ispilutriada. Comente amus a fagher cras ?
" Ite amus a faghere?"
S'abba calda a sas deghe.
E si proet , una machina tancada a sas batoro.
E amus a giogare una partida a scachi.
Tochende ogros chena pibiristas e aisetende chi tochent a sa gianna.
Cando su maridu de Lil benzeit cungedadu, eo neiChena la fagher longa, bi lu nei eo matessi,
FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE
Como chi Alberto est pro furriare daedi un'acontza.
At a cherrer ischire ite nd'as fatu de su dinari chi ti deit
Pro t'acontzare sas barras. Ti l'at dadu. Fia cue.
Non nd'as prus mancunu, Lil, compora-ti una bella dentiera,
Isse neit, ti giuro, non ti poto bider goi.
E nemmancu eo, li nei, e pessa a cussu mischinu de Alberto,
Est stadu suta sas armas pro batoro annos, bisonzat chi si divertat,
E si no lu faghes tue, gia bi nde at ateras, li nei.
Oh, gai est, neit issa. Prus o mancu, li nei.
Tando apo a ischire a chi narrer gratzia, neit issa, abbaidende-mi fissa.
FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE
Si non nde ses cunbinta sighi-la gai, li nei
Bi nd'at aer ateras chi faghent e ischirriant pro te.
Ma si Alberto ti lassat non nerzat chi non t'ant avisada.
Non ti nde faghes sa birgonza, li nei, pares una trusa.
( E as solu trintunu annos.)
Non bi poto fagher nudda, neit issa, fatende su mutzighile,
Sunt cussa pastillias chi apo leadu pro aurtire.
(Nd'aiat gia chimbe e guasi si che fit morta pro George.)
Su farmacista mi neit chi gia fit andadu totu bene, ma da tando non so prus sa matessi.
Ses propriu una maca, li nei.
Bene, si Alberto non ti lassat in paghe, est su puntu, li nei.
Proite ti ses cojuada si no cherias aer fizos?
FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE
Bene, sa Dominiga chi Alberto torreit, chi aiant unu zampone a buddidu
So stadu inbitadu a chenare pro lu mandigare bellu caldu.
FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE
FAGHIDE LESTROS EST TEMPUS DE CHE BESSIRE
Bonanote Bill. Bonanote Lou. Bonanote May. Bonanote
Ciao ciao.Bonanote. Bonanote.
Bonanote signoras, bonanote bellas signoras. Bonanote, bonanote.
Sa preiga de su fogu
III
Sa tenda de su riu est truncada: sos urtimos poddighes de fozas
S'ataccant e s'affundant intro s'umida riba. Su bentu
Atraessat mudu sa terra niedda. Sas ninfas sunt partidas.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Dulche Tamigi, anda a bellu finzas a finire su cantu meu.
Su riu non trasinat ampullas boidas, pabiru de paninos,
Mucarolos de seda, scatulas de cartone, cicas de sigareta
O ateros testimonzos de sas notes de istiu. Sas ninfas sunt partidas.
E sos amigos issoro, sos eredes banduleris de sos diretores de banca;
Partidos chena aer lassadu indiritzu.
Acurtzu a s'abba de Leman mi so setzidu e apo prantu...
Dulche Tamigi, anda a bellu finzas a finire su cantu meu,
Dulche Tamigi, anda a bellu ca no canto ne forte ne altu.
Ma a palas mias in unu colpu de bentu fritu intendo
Su trachidare de sos ossos, e su riere chi passat dae origra a origra.
Unu sorighe colat pasigu in mesu sas matas
Trasinende sa matza illudriada in s'oru
Mentre fia pischende in sa cora ischifosa
Un sero de ijerru addasegus de su serbatoiu de su gas
Pessende a s'annegamentu de su re frade meu
E a su re babbu meu mortu prima de a isse.
Corpos biancos e nudos subra s'umidu parinu terrinu
E ossos imbolados in unu isostre bassu e sicu,
Movidos solu da sos pees de sos sorighes, da annu in annu.
Ma a palas da tantu in tantu eo intendo
Sonos de trumbas e motores, chi ant a giughere
Sweeney da sa signora Porter in beranu.
O sa luna grara lughet subra sa signora Porter
E subra sa fiza
Chi si samunant sos pees in soda water
Et O ces voix d'enfants, chantant dans la coupole!
Tuit tuit tuit
Jag jag jag jag jag jag
Gai malamente violada.
Teriu
Irreale tzitade
Suta sa neula niedda de una serentina de ijerru
Il signor Eugenides, Su benduleju de Smirne
Cun sa barba longa, cun una bussacca prena de pabassa
C.i.f. Londra: documentos a vista,
M'imbiteit cun unu frantzesu popolare
A ismulzare impare in su Cannon Street Hotel
Pro sighire poi su fine chida a su Metropole.
A s'ora violeta, cando sos ogros e s'ischina
Si nde pesant da su scritoiu,cando su motore de s'omine aisetat
Pretzisu a unu taxi tocheddante bida,
Eo Tiresia, mancari tzegu, tocheddende tra duas bidas,
Omine betzu cun sas titas mustias de femina, poto bidere
A s'ora violeta , s'ora de su sero chi girat
A furriare, e recuit su marineri dae su mare,
Sa datilografa a domo a s'ora de su tè, isparitzat s'ismurzu,
Atzendet sa istufa, e aparitzat mandigu in scatula.
Fora de sa bentana cun perigulu apicada
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
A assutare sa robba sua tocada da s'ultimu sole,
Subra su divanu ( chi a de-note li faghet de letu)
Sunt ammuntonadas calzetas, pantofolas, camisetas e fascetas.
Eo Tiresia, betzu e cun sas titas acorrontzadas
Bidei s'iscena e nde addevinei su restu...
Eo puru aisetei s'istranzu aisetadu.
E millu innoghe, su pitzinnu bullancosu,
Un'impiegadu de un'agenzia pitica, cun sa borra in cara,
Unu de su popolu a su cale sa siguresa de se istat
Comente istat su tzlindru a unu poberu irrichidu.
Como est su momentu bonu, pessat isse,
Ant finidu de mandigare, issa est anneada e istraca
Chircat de la cunbinchere a sos carinnos
Chi non sunt furriados, mancari chena praghere.
Arroddonidu e detzisu, che li brincat a subra de botu;
Sas manos chirchende no agatant impedu;
Cun sa borra chi at no at bisonzu chi siat de acordu,
E leat comente benennidu cussa indiferentzia.
( E deo Tiresia apo penadu totu dae prima
Su chi si consumat in custu divanu o letu;
Eo chi mi setzei a Tebe suta sas murallias
E caminei prus in bassu in mesu a sos mortos.)
Li dat unu basu finale pro l'assigurare
E si nd'andat chirchende sas iscalas a s'iscuru...
Issa si girat e s'abbaidat unu momentu in s'ispigru,
S'abbizat apena chi s'amante ch'est bessidu;
Su cherveddu suo li permitit solu unu mesu pensamentu:
" Bene custa puru est fata: e deo so cuntenta chi siat fatu."
Cando una femina lezera s'abbassat a su divertimentu
E poi s'agatat sola de nou in s'aposentu,
Cun lebiu movimentu s'acontzat sos pilos
E ponet unu discu a sonare in su giradischi.
" Custa musica rassineit da me subra sas abbas"
E a longu pro su Strand, finzas a sa Queen Victoria Street.
O sa Tzitade, sa tzittade, a bortas poto intendere
Acurtzu a calchi tzilleri in Lower Thames Street,
Su gustosu gianzulu de unu mandolinu
E da intro arrejonos e rumores
Inue a mesudie sos piscadores si pasant: Inue sos muros
De Magnus Martyr muntenent
S'intregada bellesa de sos Ionicos oros biancos.
Su riu suerat
Ozu e catramu
Sas chiatas colant
Cun sa furriante mare
Velas rujas
Suta a bentu girant subra pesantes alberaduras.
Sas chiatas ispinghent
Sos truncos perdidos in s'abba
142
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
In bassu pro su Greenwich
A cudd'ala de s'isula de sos canes.
Weialala leia
Wallala leialala
Elisabetta e Leicester
Batint sos remos
Sa prua fit furmada
Da una conchillia dorada
Ruja e oro
Su passare de s'unda
Si truncat in sos oros
Su bentu de liante
Batit cun sa currente
Sonos de campanas
Turres biancas
Weilala leia
Wallala leialala
" Trams e arbures pruereddosos.
Highbury mi fateit. Richmond e Kew
Mi solobreit A Richmond istirei sos benugros
A cara a chelu subra su fundu de una istrinta canoa."
" sos pees mios sunt a Moorgate, e su coro meu
Suta sos pees. Pustis de su fatu prangheit.
Promiteit unu nou incumintzu.
No nerzei nudda. De ite mi depo annuzare?
" In sa rena de Margate
Non mi resessit de pessare
Nudda cun nudda.
Sas ungias truncadas de manos brutas.
Sos mios, gente de pagu chi no aisetat
Nudda."
La la
A Cartagine dae poi mi nde benzei
Brusiende brusiende brusiende brusiende
O Sinnore Tue mi che leas
O Sinnore Tue leas
Brusiende.
143
ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Sa morte in s'abba
IV
Phlebas su Feniciu, mortu dae bindighi dies,
Ismentigheit sas boghes de sos corbos marinos, e sas undas de s'altu mare,
Su profetu e sa perdua
Una currente sutamare
L'ispurpeit sos ossos in murmutos. Comente afundaiat e pigaiat
Passaiat sas istajones de sa betzesa e sa pitzinnia
Inghiriende in su mulinu.
Gentile o Ebreu
O tue chi giras sa roda e abbaidas contrabentu
Pensa a Phlebas, chi unu tempus fit altu e bellu che a tie.
Cussu chi neit su tronu
V
Pustis de sa lughe ruja de sas torcias in sas caras sueradas
Pustis de su fritu silentziu de su giardinu
Pustis de s'agonia de logos pedrosos
Sas boghes e sos prantos
Sa presone e su palatu e su ritumbu
De su tronu in beranu in sos montes atesu
Isse chi fit biu est como mortu
Nois chi fimus bios como semus morzende
Cun unu pagu de passientzia.
Innoghe non c'at abba ma solu roca
Roca e no abba e sa carrera isterrada
Una carrera a curvas cue subra in su montes
Chi sunt montes de rocas chen'abba
Si che aiat apidu abba nos fimus firmados a biere
In mesu a sas rocas unu non si podet firmare ne pensare
Su suore est sicu e sos pees sunt in sa rena
Si solu b'aiat apidu abba in sa roca
Morta buca de monte da sos murales frazigos chi non podet catzare
Unu innoghe non podet stare in pees ne corcadu ne setzidu
Non b'at neemmancu silentziu in sos montes
Ma sicos lunaticos tronos chen'abba
Non b'at neemmancu soledade in sos montes
Ma rujas caras annicadas chi raunzant e ischirringiant
Da giannas de domos de ludu crebadu
Si che aiat apidu abba
E no roca
Si che aiat apidu roca
E puru abba
E abba
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Una funtana
Unu poju in sas rocas
Si che aiat apidu solu sonu de abba
Non sa chigula
E fenu sicu cantende
Ma sonu de abba subra sa roca
Inue su turdu eremita cantat in mesu a sos pinos
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non b'at abba
Chi est su de tres chi semper ti cabulat a costazu ?
Cando conto bi semus solu tue e deo impare
Ma cando abbaido addainanti sa carrera bianca
B'at sempre un'ateru chi ti cabulat a costazu
Rassinende imboligadu cun unu mantellu nieddu, cugutadu
Eo non cumprendo si est un'omine o una femina
- Ma chi est chi ti est a s'ateru costzu ?
Ite est chi sonat altu in s'aera
Cussu murmutu lamentosu de mamas
Chi sunt cussas frotas cugutadas colende
subra paris chena fine, imbrunchende in sa terra crebada
Inghiriada solu da su parinu orizonte
Cale est cussa tzittade in sos montes
Chi si cracat e si torrat a furmare e tzoccat in s'aera violeta
Turres crollende
Gerusalemme Atene alessandria
Vienna Londra
Irreale
Una femina istendeit sos pilos suos nieddos e longos
E isviolineit murmutos de musica da cussas corrias
E tirriolos a cara de criaduras in sa lughe violeta
Zanzulaiant, sparghende sas alas issoro
Trasinende-si a conca ficada in unu muru isnieddigadu
E covecadas in s'aria fint sas turres
Tocantes campanas chi ammentant, tocaiant sas oras
E boghes cantende da sas boidas baltzas e da sos putos sicos.
In custa desolada calanca in mesu a sos montes
In una lebia lughe de luna, s'erba est cantende
Subra sas tumbas covecadas, a inghiriu a sa capella
B'at una capella boida, sa domo de su bentu.
No at balcones, e sa gianna iscanzada,
Sos ossos sicos non faghent male a neune.
Solu unu puddu si pesaiat subra sa trae
Chirichichi chirichichi
Un'alluta de lampu. Posca un'ifusta isfrunzada
De abba pioia.
Su Gange fit cuasi sicu, e sas fozas allizadas
Isetaiant s'abba, sas nieddas nues
Si garrigaiant atesu, subra s'Himmalaja.
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
Sa jungla fit remonida, muda intro de issa.
Tando faeddeit su tronu
Da
Data: ite amus dadu nois?
Amigu meu, su sambene mi iscutinat su coro
Su terribile coragiu de unu momentu de abbandonu
Chi una bida de prudentzia non podet furriare
Non ant a esser agatados in sos necrologos nostros
O in sas memorias tessidas da unu ranzolu beneficu
O suta sos timbros truncados de unu carasadu notaiu
In sos nostros boidos aposentos
Da
Dayadhvam: apo intesu sa grae
Girare in sa upa e girare solu una borta
Nois pensamus a sa grae, onzunu in sa presone sua
Pensat a sa grae, onzunu cunfirmat una presone
Solu a de note, etereos murmutos
Nos torrant pro unu momentu un Coriolanu turdidu
Da
Damyata: sa barca rispondiat
Bene a sa manu esperta cun sa vela e cun su remu,
Su mare fit calmu, puru su coro tuo podet risponder
Bene a su bisonzu, batende ubbidiente
A sas manos controllantes.
Setzei in s'oru
A piscare, cun s'aridu paris addasegus de mene
Apo a resessire a sa fine a ponner ordine in sas terras mias?
Su London bridge nd'est falende, nd'est falende, nd'est falende
Poi s'ascosenel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon- O rundine rundine
Le prince d'Aquitaine à la tour abolie
Cun custos biculos apo puntelladu sas ruinas mias
Be tando bos sistemo eo. Hieronymu est torra macu.
Datta Dayadhvam. Damyata.
Shantish shantish shantish
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
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ALBERTO SPEGIS
IL VUOTO
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