Parlare di educazione interculturale significa parlare di prospettiva pedagogica anche se è necessario precisare che si tratta pur sempre di un processo “in fieri”, destinato certamente ad affermarsi nel tempo, probabilmente tra molte resistenze, conflittualità, reazioni dei singoli soggetti, dei gruppi umani e delle politiche stesse degli stati. Per l’Occidente è un processo iniziato, secondo alcuni autori con la scoperta e la globalizzazione delle Americhe, un evento drammatico, stigmatizato dallo sterminio e dal genocidio, ma destinato malgrado tutto ad erodere nella cultura occidentale il pregiudizio etnocentrico, imponendo un incontro con l’altro da sé, in cui evidentemente l’occidentale non si riconobbe, con cui inizio però a misurarsi , a confrontarsi. E’ evidente che in questo sistema ideologico di intendere l’”identico” e il “diverso” si rafforza anche il pregiudizio di “razza” una categoria etnocentrica, fondata sulla gerarchizzazione tra le razze umane al culmine della quale si situa la razza bianca, occidentale ed ariana, per qualità di ordine morale, intellettuale e fisico non possedute, biologicamente parlando, da altri gruppi etnici. • Il pregiudizio di razza, una nozione diversa da quella di etnia che ha un significato piuttosto che biologico, troverà un luogo teorico della sua fondazione nel positivismo e specialmente in alcuni autori, criminologi in particolare, i quali teorizzeranno l’esistenza della differenza di razza su base biologica, affidandosi sia alla teoria evoluzionistica – utilizzata per discriminare i diversi gruppi umani sulla scorta di diversi gradi di evoluzione – che all’ipotesi dei condizionamenti ambientali sui caratteri degli individui, con il preciso intento inteso a gerarchizzare le popolazioni umane tra settentrionali e meridionali, a tutto svantaggio di quelle meridionali. La Scuola antropologica tra l’Ottocento e il Novecento fonderà su questi criteri la legittimazione del pregiudizio di razza ed alimenterà più o meno direttamente il mito nazionalistico che in Europa giustificherà con il nazifascismo, la tragedia dell’olocausto.GFli eventi sociali, politici culturali del Novecento però imporranno significativamente il bisogno di intercultura, portando all’attenzione di molti soggetti, oltre che del pedagogista di professione, la prospettiva dell’educazione interculturale come ipotesi di fondazione di una Bildung per la pacifica convivenza, per la cooperazione, per la democrazia. I flussi migratori che hanno segnato e segnano gli anni più recenti, hanno fatto acquisire vivibilità alla pluralità, al molteplice, al differente; le inedite forme della comunicazione massmediologica ed inrete hanno ridisegnato le categorie spazio-temporali, facendo del pianeta il “villaggio globale” profetizzato da Mac Luhan. A fronte del riconoscimento del plurale, del molteplice, del differente e del poliformico, si è andata delineando la consapevolezza della categoria della diversità non come carattere negativo della normalità ma come condizione esistenziale che caratterizza ciascun uomo che nasce alla vita, ciascun soggetto. La diversità non è la categoria della negatività, della difettività e della marginalità ma è il vero volto dell’identità, ovvero il carattere che contraddistingue qualsiasi persona per la sua unicità, singolarità, irripetibilità. La diversità, altra faccia dell’identità, accomuna paradossalmente gli uomini nella comune appartenenza alla categoria della differenza. L’educazione interculturale si pone come scelta ineludibile e prefigura una axiologia ed una teleologia formativa che si può sostanzialmente ricondurre ad alcuni precisi vettori. Il rispetto per l’alterità anzitutto. Si tratta di una fuoriuscita dalla categoria della soggettività per scoprire la relazione Io e Tu. Una relazione destinata non solo a dare il senso dell’identità ma soprattutto rinsaldare il legame costruendo prossimità. La prossimità non è riduzione delle differenze e costruzione delle identità al plurale ma è scoperta della ricchezza antropologica dell’alterità; è costruzione di un orizzonte di coimplicazione e di autentica comprensione. Lo stesso John Dewey, il filosofo della della democrazia americana già nel 1916 nell’opera Democrazia ed educazione, aveva avanzato un a proposta puntuale per corrispondere alle esigenze di una convivenza democratica di un crogiuolo umano, puntando sulla formazione e sulla scuola. Appare chiaro l’importanza e il ruolo nevralgico della scuola e delle altre agenzie educative. La scuola infatti può diventare luogo in cui si sperimentano il pluralismo,la pacifica convivenza e la democrazia a condizione che fuoriesca dal modello istituzionale culturale e pedagogico monotematico, monolinguistico etnocentrico e monoculturale. Ponendosi invece come centro della formazione alla libera investigazione, al dialogo, al confronto, alla partecipazione la scuola può fare emergere e sentire vivi i valori della persona, dell’alterità, della diversità, della pluralità e dell’intersoggettività. La formazione, questo processo fondamentale dell’esistenza umana che ci coglie di sorpresa con la nascita e ci orienta con gli accadimenti della vita può dirsi processo di coltivazione, di apprendimento, di sviluppo, di cura se ci permette di fuoriuscire dalla condizione di soggezione e farci persona. Questo significa che ogni essere umano è soggetto depositario ontologicamente della prerogativa dell’umanità ma è attraverso la formazione che può emanciparsi da condizioni di illibertà e di reificazione. In questo senso ritengo che l’analisi di Martha Nussbaum ci possa aiutare a comprendere meglio i problemi della pedagogia interculturale, in relazione anche alla costruzione di un’autentica democrazia. Nel pensiero della Nussbaum, infatti, e in particolare nei testi Coltivare l’umanità e Diventare persone, è chiaro il tentativo di ricostruire il significato della formazione e del concetto di persona nelle situazioni specifiche . La Nussbaum propone la costituzione di un concetto nuovo di soggettività: il cittadino del mondo, profondamente legato ai principi della pedagogia interculturale e che vanta dei precedenti nelle tradizioni educative. Il termine cittadino del mondo fu coniato da Diogene il Cinico. Diogene (403-323 a.C.) riteneva che povertà e libertà di pensiero andassero di pari passo. Esprimere liberamente il proprio pensiero era per lui la cosa più bella che si potesse fare nella vita. Quando gli si chiedeva da dove venisse Diogene rispondeva “io sono un cittadino del mondo”. Anche Socrate stesso venne educato in un’Atene fortemente influenzata da questo tipo di idee. Nel quinto secolo a. C., infatti egli sosteneva “se qualcuno ti domanda di dove sei, non rispondere sono di Corinto o di Atene ma rispondi sono cittadino del mondo”. In seguito S. Agostino, Dante, Tommaso Campanella, Voltaire, Rousseau, Kant, Hugo, Mazzini, Gandhi e molti altri ancora ci dicono, sebbene sotto i diversiinflussi delle proprie idee e dei propri tempi che l’umanità potrà avere pace e benessere solo istituendo una cittadinanza universale, sulla base dell’uguaglianza e della libertà, suffragata dalla non violenza, dalla coerenza logica e dalla tolleranza. La Nussbaum fa notare che per un buon cittadino del mondo è indispensabile il riconoscimento di valori come il rispetto e la comprensione che implicano il riconoscimento non solo delle differenze ma anche e nello stesso tempo il riconoscimento dei diritti, delle aspirazioni, delle stesse problematiche condivise. Tre capacità sono essenziali secondo Nussbaum affinchè si possa coltivare l’umanità e affinchè un cittadino diventi un cittadino del mondo. In primo luogo la capacità di giudicare criticamente se stessi e le proprie tradizioni per vivere quella che potremo chiamare, secondo Socrate, una vita esaminata. In secondo luogo i cittadini che vogliono diventare cittadini del mondo devono concepire se stessi non solo come membri di un gruppo o di una nazione ma soprattutto come esseri umani legati ad altri esseri umani da interessi comuni. Il terzo requisito della cittadinanza viene definito da Martha Nussbaum “immaginazione narrativa” ovvero la capacità di immaginarsi nei panni di un’altra persona per capire meglio la sua storia personale, il suo vissuto, intuire le sue emozioni e i suoi desideri. Diventare un cittadino del mondo significa spesso intraprendere un cammino solitario, una sorta di esilio, lontani dalle comodità delle verità certe, dal sentimento rassicurante di essere circondati da persone che condividono le nostre stesse convinzioni e i nostri stessi ideali. E’ il compito degli educatori mostrare agli studenti come sia bella e interessante una vita aperta al mondo e quanta soddisfazione si ricavi dall’essere cittadini che si rifiutano di accettare acriticamente le impostazioni altrui e quanto sia affascinante lo studio degli esseri umani in tutta la loro reale complessità e l’opporsi ai pregiudizi più superficiali, quanta importanza abbia vivere fondandosi sulla ragione piuttosto che sulla sottomissione all’autorità. In ambito giuridico il termine cittadinanza indica il vincolo di appartenenza di un individuo, detto cittadino, che assume diritti e doveri nei confronti di uno stato o di una città. Nell’antica Grecia, secondo quanto affermava Aristotele nella Politica, il possesso della cittadinanza definiva il diritto a partecipare alle funzioni legislative e giudiziarie della città-stato; tale diritto era concesso in base alla nascita e ai legami di sangue, soltanto ai membri liberi della comunità, negato agli schiavi e assai di rado concesso agli stranieri. Nell’antica Roma ogni cittadino godeva del diritto di voto, ma non tutti i cittadini erano eleggibili alle cariche pubbliche, il diritto civile era rivolto ai cittadini e non si applicava, quindi, agli stranieri. Questi, ad esempio non potevano sposarsi secondo il rito del matrimonio romano e i loro figli, di conseguenza non erano pari ai figli dei cittadini romani. Solo con l’editto di Caracalla nel 212 d. . La cittadiannza romana fu concessa a tutti i sudditi dell’impero. Il concetto moderno di cittadinanza si è sviluppato a partire dalla Rivoluzione francese e con “la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (26 agosto 1789) che ha formulato gli ideali della rivoluzione francese riassunti dall’espressione “libertè, egalitè, fraternitè”. Era questa la solenne proclamazione delle libertà fondamentali dell’individuo (di pensiero, parola, stampa), dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza distinzioni di ceto e dei principi democratici. “La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” rappresenta una delle conquiste più importanti, forse la più importante della Rivoluzione francese posta come preambolo alla costituzione del 1791 nella quale si nega il diritto divino del re posto alla base dell’assolutismo monarchico, stabilendo invece l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Tappa altrettanto importante per la salvaguardia della dignità dell’uomo si ha nel 1948 quando alla conclusione della seconda guerra mondiale, l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione che promuoveva il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali in ambito civile, politico, economico, sociale e culturale ben interpretato dall’art. 22 “Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua dignità”. Per la Costituzione italiana, la cittadinanza è una delle qualità che definiscono la personalità giuridica del cittadino e che gli consentono di esercitare i diritti e i doveri che scaturiscono dall’appartenenza alla comunità statale. Accanto alla cittadinanza nazionale i cittadini degli Stati appartenenti all’Unione europea godono anche della cittadinanza europea. Con il Trattato di Amsterdam del 1997 si è affermato che la cittadinanza nazionale e quella comunitaria sono complementari, Il possesso della cittadinanza europea attribuisce diritti e doveri ai cittadini degli Stati membri ma solo i primi trovano espressa collocazione nelle disposizioni comunitarie, Si tratta della libertà di circolare liberamente nel territorio degli Stati membri, del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Ogni Stato deve prima o poi affrontare lungo il corso della storia il tema della cittadinanza attribuita al cittadini per distinguerlo dallo straniero dal punto di vista della titolarità di un certo numero di diritti e di doverti. Thomas Marshall distingue tre fasi della cittadinanza: civile, politica e sociale. La cittadinanza civile si afferma storicamente per prima e attribuisce agli individui una serie di diritti, di libertà: la libertà fisica. La libertà di parola, di pensiero e di religione . La cittadinanza politica concede il diritto ai cittadini di partecipare all’esercizio del potere politico come membri a suffragio attivo o passivo. La cittadinanza sociale, invece, riguarda il diritto all’educazione, al benessere, alla sicurezza sociale che salvaguarda, in modo particolare la salute del cittadino. In Italia la cittadinanza si acquisisce in quattro modi: per nascita (il figlio di padre o madre cittadini); per beneficio di legge ( lo straniero nato e residente in Italia che al compimento della maggiore età sceglie la cittadinanza italiana); per estensione (il coniuge straniero di un cittadino italiano); per naturalizzazione (il cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea che risiede da quattro anni in Italia). La filosofa americana Martha Nussbaum nel testo Diventare Persone descrive la difficile situazione femminile, soffermandosi in particolare in India, offrendo uno straordinario contributo e individuando in una prospettiva filosofica e politica, i principi costituzionali fondamentali che dovrebbero essere rispettati e fatti rispettare dai governi di tutte le nazioni per superare tali disparità. Nussbaum elabora un progetto filosofico “forte”, di tipo normativo, che vuole uscire dalla pura dimensione speculativa per dare risposte concrete ai fatti empirici, e mettere il lettore in contatto con un repertorio vivo di voci, storie, testimonianze che ci aiutano a capire la reale condizione, ancora oggi fortemente svantaggiata, della donna rispetto agli uomini, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Peggio nutrite, più esposte alle malattie, alla violenza fisica e agli abusi sessuali, meno scolarizzate, spesso prive di qualsiasi formazione professionale, le donne non possono contare nemmeno sugli stessi diritti. Nel programma di sviluppo delle Nazioni Unite del 1997 emerge, dagli studi effettuati, che al mondo non esiste alcun paese che tratti in egual misura le donne quanto gli uomini. Questo è quanto attestato da complessi e numerosi indagini e ricerche che considerano diversi fattori: il benessere, la mancanza d’istruzione, la durata della vita , la denutrizione, la mancanza dei servizi sanitari. • I paesi in via di sviluppo presentano problemi a volte molto pressanti essendo la disuguaglianza di genere correlata fortemente alla povertà Nei paesi in via di sviluppo, complessivamente il numero di donne adulte analfabete supera del 60% quello degli uomini, il tasso di reclutamento scolastico è del 23% inferiore a quello maschile persino nelle scuole elementari, mentre i salari femminili sono tre quarti di quelli maschili In questi paesi sono ancora numerosi i casi di violenza, abuso domestico e molestie sessuali e spesso la violenza all’interno del matrimonio non è considerata un crimine e persino gli atti di violenza contro estranei sono così raramente puniti che molte donne evitano di denunciare il crimine La storia sociale di una donna e la sua appartenenza sociale, spiega Nussbaum, vengono sicuramente usate contro di lei in tribunale; raramente le prove mediche sono raccolte con tempestività, la polizia manda avanti le pratiche con tempestivo ritardo e quindi è molto difficile giungere ad una condanna. Secondo le legge indiana è molto costoso intentare una causa di questo genere, non essendoci attualmente assistenza legale gratuita per le vittime di stupro. Su 105 casi portati in tribunale (secondo uno studio condotto da una ONG “Organizzazione non Governativa” con sede a Delhi) solo 17 sono puniti con la prigione. Se poi si prende in esame l’area fondamentale della salute e dell’alimentazione, ci sono prove diffuse di discriminazione contro la popolazione femminile. In breve, manca alle donne il sostentamento necessario per condurre una vita che sia pienamente umana e ciò è frequentemente dovuto solo al loro essere donne. Così, anche vivendo in una democrazia costituzionale come l’India, dove tutti, in teoria, dovrebbero essere uguali, le donne sono in realtà cittadine di seconda classe. Il problema del pieno dispiegamento umano femminile e maschile nel mondo è l’oggetto principale di studio di Martha Nussbaum riferito al problema della questione femminile. L’impianto teorico del suo lavoro parte dalla posizione della donna nei Paesi del Terzo mondo, in base all’assunto che la disuguaglianza di “genere” è strettamente correlata alla povertà. La tesi “forte” di Martha Nussbaum è che per arrivare ad una soglia minima di rispetto della dignità umana (femminile e maschile) l’approccio migliore risulta essere quello fondato sulle capacità umane, anzi sul principio delle capacità di ogni persona, basato a sua volta sul principio di considerare ogni persona un fine a sé L’approccio secondo le capacità difeso da Martha Nussbaum non solo assegna un posto preminente all’immaginazione, sentimenti ma fa anche affidamento su di essi sul piano metodologico. Il referente principale della teoria del “capabality approach” è l’ideale marxiano del pieno dispiegarsi delle capacità e delle funzioni umane. Quel che ci interessa è la soglia più alta di questo dispiegamento, quella che una volta raggiunta, la persona diventa un essere “veramente umano”, degno di essere tale. L’idea centrale che Nussbaum accoglie è quindi il principio marxiano dell’essere umano in quanto essere libero e dignitoso che modella la propria vita in cooperazione e reciprocità con gli altri. Se noi guardiamo ad ogni persona come ad un fine in sé e non come ad uno strumento per soddisfare i bisogni altrui, questa concezione acquista corpo e spessore. E’ una prospettiva che può aiutare le donne ad uscire dalla “logica del sacrificio”, quella che chiede loro di porre il soddisfacimento dei bisogni dei familiari davanti alla realizzazione del proprio sé. Nussbaum spiega che se noi parliamo di ciò che le persone sono di fatto in grado di fare e di non fare non diamo nessun privilegio a quella che potrebbe essere un’idea occidentale perché le idee di attività e capacità sono presenti in tutte le culture. Questo approccio inoltre salvaguarda il valore della diversità e dei costumi senza preservare la brutalità di alcune pratiche: la violenza domestica, la monarchia assoluta o la mutilazione genitale Si capisce bene, quindi, che il miglior approccio si concentra sulle capacità umane, vale a dire su ciò che le persone sono realmente in grado di fare e di essere, avendo come modello l’idea di una vita che sia vissuta nella dignità per ogni essere umano. ci si riferisce quindi ad un principio di capacità individualizzato, basato sul valore della persona intesa come fine Il rispetto dei diritti civili è, infatti, il presupposto basilare di un sistema democratico. Per diritti civili s’intende l’insieme delle garanzie, delle libertà e degli strumenti forniti alla gente perché possa partecipare alla vita politica e sociale di un Paese. La libertà di espressione è il diritto civile più importante anche perché in essa è compresa la libertà di pensiero, di opinione, di professione religiosa e politica, cioè tutto quello che è alla base di una democrazia derivante dal modello dell’antica polis greca In India questi diritti vengono continuamente calpestati e quando si vuole indicare un aspetto negativo di questo Paese si fa riferimento, soprattutto, alla condizione delle donne e dei bambini. L’istruzione che è l’unico strumento che i vari Stati Nazionali hanno realmente potuto usare a favore delle donne, non ha ancora raggiunto gli obiettivi previsti. Il matrimonio rappresenta attualmente per la donna l’unica via di uscita che le consente di sopravvivere dato che la società le nega occasioni di lavoro e inserimento pari a quelli degli uomini. E’ meglio, dunque, che una bambina impari, stando a casa, a fare la moglie e la madre, piuttosto che andare a scuola dove le insegnerebbero cose che nulla hanno a che fare con quello che sarà il suo ruolo futuro. Il volontariato è la matrice delle varie forme che l’intervento del singolo nel sociale può assumere, in quanto espressone di quella visione che si ha quando l’individuo avverte l’esigenza forte ed assoluta di dare aiuto a chi ha bisogno. L’evoluzione culturale e sociale del volontariato italiano ha modificato il suo ruolo rispetto all’associazionismo sociale, infatti il volontariato nella cultura e nella prassi ha assunto una dimensione politica, cioè un impegno attivo per l’innalzamento della qualità della vita nel nostro Paese. Il 4 dicembre 2001, nel corso di un Convegno dal titolo “ Un punto di arrivo per una nuova partenza”, su iniziativa della Fondazione Italiana per il Volontariato e del gruppo Abele di Don Luigi Ciotti, illustre militante del volontariato italiano, è stata presentata la Carta dei Valori del Volontariato Questo documento fondamentale per il volontariato italiano è il frutto dei numerosi contributi che i gruppi, le organizzazioni e i singoli hanno offerto partendo dalla loro personale esperienza volontaristica e dell’apporto di illustri studiosi del volontariato come il sociologo Ardigò e il filosofo Cacciari. La Carta vuole essere strumento indispensabile attraverso il quale ogni volontariato e ogni organizzazione abbiano chiari gli elementi del proprio “essere” e adottino criteri di un “agire” che siano coerente testimonianza di dimensione ideale, per svolgere quella che Luciano Tavazza definiva la duplice missione “[…] di promotore della cultura e della prassi della solidarietà e di agente del mutamento sociale” e che si specifica principalmente in due ruoli:. la dimensione attiva, attraverso la gratuita presenza nel quotidiano; la dimensione politica, quale soggetto sociale che partecipa alla rimozione degli ostacoli che generano svantaggio, esclusione, degrado e perdita di coesione sociale. i valori del volontariato tendono verso la comunità democratica, cioè una comunità in cui trovino sostegno i più deboli, dove siano contrastate le forme di emarginazione e siano superate le forme di sofferenza e di degrado Si tratta della costruzione di una comunità democratica fondata sulla giustizia, sulla solidarietà, sulla valorizzazione della persona e delle culture, sulla comunicazione e sullo scambio intersoggettivo In questo senso il volontariato si esprime attraverso diverse sfere di intervento, di cui si segnalano quella della persona, quella culturale, quella politica. Con la prima, l’impegno del volontariato parte dalla dignità dell’essere umano per individuarne i bisogni e i diritti, intervenendo laddove siano negate la dignità, la libertà, la formazione, la salute, ecc. Questa dimensione di intervento è primaria perché al centro dell’azione volontaria ci sono le persone considerate nella loro dignità umana, nella loro integrità umana e nel contesto delle relazioni familiari, sociali, culturali in cui vivono Con la prima, l’impegno del volontariato parte dalla dignità dell’essere umano per individuarne i bisogni e i diritti, intervenendo laddove siano negate la dignità, la libertà, la formazione, la salute, ecc. Questa dimensione di intervento è primaria perché al centro dell’azione volontaria ci sono le persone considerate nella loro dignità umana, nella loro integrità umana e nel contesto delle relazioni familiari, sociali, culturali in cui vivono. Il volontariato, in quanto esperienza di reciprocità, di solidarietà esprime una dimensione operativa dalla grande tensione culturale e politica. In questa specifica accezione, l’azione volontaria è pratica di cittadinanza solidale in quanto “[…] si impegna a rimuovere le cause delle disuguaglianze economiche, culturali, sociali, religiose e politiche e concorre all’allargamento, tutela e fruizione dei beni comuni. A questo punto, è bene chiarire che il volontariato non nutre solo l’aspettativa di formare volontari, quanto quella di puntare anzitutto a realizzare la figura dell’uomo solidale. Ma quali sono i caratteri dell’uomo solidale? Tavazza dice che è un “[…] soggetto, una persona che ha cura di sé, che ha cura dell’altro, che ha cura dell’ambiente […] L’uomo solidale sembra essere la persona di cui il nuovo millennio ha bisogno Educare all’azione solidale significa che scuole, famiglia ed altre istituzione private, agenzie che operano nelle comunità, fondate su valori condivisi, assegnino priorità ad un’azione formativa in cui siano valorizzati principi quali la solidarietà e la responsabilità, la cooperazione e la giustizia, l’impegno e la coerenza. Il volontariato è “scuola di solidarietà”. “La sfida educativa che nasce dai il volontariato esprime la sua tensione, nell’aspirazione a formare un soggetto-persona che sia votato sì alla realizzazione del proprio sé, ma che sappia uscire dal chiuso della propria individualità per cogliere la ricchezza e le risorse che sono negli altri uomini, che si apra, cioè, a nuove prospettive e lasci all’altro la possibilità di incidere sulle sue visioni del mondo, sui suoi punti di riferimento, sui suoi orizzonti conoscitivi e valoriali In effetti, Luciano Tavazza evidenzia con estrema chiarezza “[…] la passione educativa del volontariato che non nutre soltanto l’aspettativa di formare volontari, quanto quella di puntare anzitutto a realizzare la figura dell’uomo solidale Luciano Tavazza precisa:“ […] è un soggetto, una persona che ha cura di sé (necessità di prepararsi al meglio per la propria crescita personale e per il servizio), che ha cura dell’altro (solo l’esperienza dell’alterità apre alla relazione e ci fa maturare nella nostra personale dimensione antropologica), che ha cura dell’ambiente (in quanto ambiente naturale e comunità territoriale nella quale tutti ci salviamo o tutti ci perdiamo” Orientare ed educare all’azione solidale significa che scuola, famiglia ed altre istituzioni private che operano in sintonia nella comunità attraverso un’azione fondata su valori condivisi, diano priorità ad un’azione formativa in cui siano valorizzati principi quali la solidarietà e la responsabilità, la cooperazione e la giustizia, l’impegno e la coerenza. Il volontariato, in effetti, cercando di raggiungere questi obiettivi diventa “scuola di solidarietà” e “[…] propone a tutti di farsi carico, ciascuno per le proprie competenze, tanto dei problemi locali quanto di quelli globali e, attraverso la partecipazione, di portare un contributo al cambiamento sociale. In questa previsione si può fare riferimento al volontariato come “laboratorio di democrazia”, interpretando il pensiero del filosofo John Dewey secondo cui l’idea di un’istituzione come la scuola che, proprio perché ispirata ai principi del pluralismo e della partecipazione, può educare i giovani alla democrazia. Il principio deweyano consiste nel fatto che, coltivando l’umanità dell’uomo, nel singolo soggetto, attraverso l’esperienza educativa del confronto, del dialogo, dell’incontro e della reciprocità si possano concretamente realizzare principi universali quali la giustizia sociale e la democrazia. Anche la filosofa Martha Nussbaum, nell’opera Coltivare l’umanità analizzando il concetto di cittadinanza inoltrato dalla nostra società e quindi dall’uomo del nostro tempo, trova nell’educazione l’opportunità davvero unica per formare persone in grado di attuare forme più esatte ed equilibrate di vita democratica. In questo senso la formazione dell’uomo solidale si identifica con la formazione del cittadino del mondo come processo complesso inteso a donare libertà al pensiero, aprirlo all’immaginazione creativa verso un mondo in cui le persone sono libere di realizzare la loro umanità nel pieno superamento di condizioni che non permettono la comprensione e la cooperazione.