Parlare di educazione interculturale significa parlare di
prospettiva pedagogica anche se è necessario precisare
che si tratta pur sempre di un processo “in fieri”,
destinato certamente ad affermarsi nel tempo,
probabilmente tra molte resistenze, conflittualità,
reazioni dei singoli soggetti, dei gruppi umani e delle
politiche stesse degli stati.
Per l’Occidente è un processo iniziato,
secondo alcuni autori con la scoperta e la
globalizzazione delle Americhe, un evento
drammatico, stigmatizato dallo sterminio e
dal genocidio, ma destinato malgrado tutto
ad erodere nella cultura occidentale il
pregiudizio etnocentrico, imponendo un
incontro con l’altro da sé, in cui
evidentemente l’occidentale non si
riconobbe, con cui inizio però a misurarsi ,
a confrontarsi.
E’ evidente che in questo sistema ideologico di
intendere l’”identico” e il “diverso” si rafforza
anche il pregiudizio di “razza” una categoria
etnocentrica, fondata sulla gerarchizzazione tra
le razze umane al culmine della quale si situa la
razza bianca, occidentale ed ariana, per qualità
di ordine morale, intellettuale e fisico non
possedute, biologicamente parlando, da altri
gruppi etnici.
• Il pregiudizio di razza, una nozione diversa da
quella di etnia che ha un significato piuttosto
che biologico, troverà un luogo teorico della sua
fondazione nel positivismo e specialmente in
alcuni autori, criminologi in particolare, i quali
teorizzeranno l’esistenza della differenza di
razza su base biologica, affidandosi sia alla
teoria evoluzionistica – utilizzata per
discriminare i diversi gruppi umani sulla scorta
di diversi gradi di evoluzione – che all’ipotesi
dei condizionamenti ambientali sui caratteri
degli individui, con il preciso intento inteso a
gerarchizzare le popolazioni umane tra
settentrionali e meridionali, a tutto svantaggio di
quelle meridionali.
La Scuola antropologica tra l’Ottocento e il Novecento
fonderà su questi criteri la legittimazione del
pregiudizio di razza ed alimenterà più o meno
direttamente il mito nazionalistico che in Europa
giustificherà con il nazifascismo, la tragedia
dell’olocausto.GFli eventi sociali, politici culturali del
Novecento però imporranno significativamente il
bisogno di intercultura, portando all’attenzione di molti
soggetti, oltre che del pedagogista di professione, la
prospettiva dell’educazione interculturale come ipotesi
di fondazione di una Bildung per la pacifica
convivenza, per la cooperazione, per la democrazia.
I flussi migratori che hanno segnato e segnano gli
anni più recenti, hanno fatto acquisire vivibilità
alla pluralità, al molteplice, al differente; le
inedite forme della comunicazione
massmediologica ed inrete hanno ridisegnato le
categorie spazio-temporali, facendo del pianeta
il “villaggio globale” profetizzato da Mac Luhan.
A fronte del riconoscimento del plurale, del
molteplice, del differente e del poliformico, si
è andata delineando la consapevolezza della
categoria della diversità non come carattere
negativo della normalità ma come condizione
esistenziale che caratterizza ciascun uomo
che nasce alla vita, ciascun soggetto.
La diversità non è la categoria della negatività,
della difettività e della marginalità ma è il vero
volto dell’identità, ovvero il carattere che
contraddistingue qualsiasi persona per la sua
unicità, singolarità, irripetibilità. La diversità,
altra faccia dell’identità, accomuna
paradossalmente gli uomini nella comune
appartenenza alla categoria della differenza.
L’educazione interculturale si pone come
scelta ineludibile e prefigura una axiologia
ed una teleologia formativa che si può
sostanzialmente ricondurre ad alcuni
precisi vettori. Il rispetto per l’alterità
anzitutto. Si tratta di una fuoriuscita dalla
categoria della soggettività per scoprire la
relazione Io e Tu. Una relazione destinata
non solo a dare il senso dell’identità ma
soprattutto rinsaldare il legame costruendo
prossimità.
La prossimità non è riduzione delle differenze e
costruzione delle identità al plurale ma è
scoperta della ricchezza antropologica
dell’alterità; è costruzione di un orizzonte di coimplicazione e di autentica comprensione.
Lo stesso John Dewey, il filosofo della della
democrazia americana già nel 1916
nell’opera Democrazia ed educazione,
aveva avanzato un a proposta puntuale per
corrispondere alle esigenze di una
convivenza democratica di un crogiuolo
umano, puntando sulla formazione e sulla
scuola.
Appare chiaro l’importanza e il ruolo nevralgico
della scuola e delle altre agenzie educative. La
scuola infatti può diventare luogo in cui si
sperimentano il pluralismo,la pacifica convivenza e
la democrazia a condizione che fuoriesca dal
modello istituzionale culturale e pedagogico
monotematico, monolinguistico etnocentrico e
monoculturale. Ponendosi invece come centro
della formazione alla libera investigazione, al
dialogo, al confronto, alla partecipazione la scuola
può fare emergere e sentire vivi i valori della
persona, dell’alterità, della diversità, della pluralità
e dell’intersoggettività.
La formazione, questo processo
fondamentale dell’esistenza umana che ci
coglie di sorpresa con la nascita e ci orienta
con gli accadimenti della vita può dirsi
processo di coltivazione, di apprendimento,
di sviluppo, di cura se ci permette di
fuoriuscire dalla condizione di soggezione e
farci persona. Questo significa che ogni
essere umano è soggetto depositario
ontologicamente della prerogativa
dell’umanità ma è attraverso la formazione
che può emanciparsi da condizioni di
illibertà e di reificazione.
In questo senso ritengo che l’analisi di
Martha Nussbaum ci possa aiutare a
comprendere meglio i problemi della
pedagogia interculturale, in relazione anche
alla costruzione di un’autentica democrazia.
Nel pensiero della Nussbaum, infatti, e in
particolare nei testi Coltivare l’umanità e
Diventare persone, è chiaro il tentativo di
ricostruire il significato della formazione e
del concetto di persona nelle situazioni
specifiche .
La Nussbaum propone la costituzione di un
concetto nuovo di soggettività: il cittadino
del mondo, profondamente legato ai principi
della pedagogia interculturale e che vanta
dei precedenti nelle tradizioni educative.
Il termine cittadino del mondo fu coniato da
Diogene il Cinico. Diogene (403-323 a.C.)
riteneva che povertà e libertà di pensiero
andassero di pari passo. Esprimere
liberamente il proprio pensiero era per lui la
cosa più bella che si potesse fare nella vita.
Quando gli si chiedeva da dove venisse
Diogene rispondeva “io sono un cittadino
del mondo”.
Anche Socrate stesso venne educato in
un’Atene fortemente influenzata da questo
tipo di idee. Nel quinto secolo a. C., infatti
egli sosteneva “se qualcuno ti domanda di
dove sei, non rispondere sono di Corinto o
di Atene ma rispondi sono cittadino del
mondo”.
In seguito S. Agostino, Dante, Tommaso
Campanella, Voltaire, Rousseau, Kant,
Hugo, Mazzini, Gandhi e molti altri ancora ci
dicono, sebbene sotto i diversiinflussi delle
proprie idee e dei propri tempi che l’umanità
potrà avere pace e benessere solo
istituendo una cittadinanza universale, sulla
base dell’uguaglianza e della libertà,
suffragata dalla non violenza, dalla
coerenza logica e dalla tolleranza.
La Nussbaum fa notare che per un buon
cittadino del mondo è indispensabile il
riconoscimento di valori come il rispetto e la
comprensione che implicano il
riconoscimento non solo delle differenze ma
anche e nello stesso tempo il
riconoscimento dei diritti, delle aspirazioni,
delle stesse problematiche condivise.
Tre capacità sono essenziali secondo
Nussbaum affinchè si possa coltivare
l’umanità e affinchè un cittadino diventi
un cittadino del mondo.
In primo luogo la capacità di giudicare
criticamente se stessi e le proprie
tradizioni per vivere quella che potremo
chiamare, secondo Socrate, una vita
esaminata.
In secondo luogo i cittadini che vogliono
diventare cittadini del mondo devono
concepire se stessi non solo come membri
di un gruppo o di una nazione ma
soprattutto come esseri umani legati ad altri
esseri umani da interessi comuni.
Il terzo requisito della cittadinanza viene
definito da Martha Nussbaum
“immaginazione narrativa” ovvero la
capacità di immaginarsi nei panni di un’altra
persona per capire meglio la sua storia
personale, il suo vissuto, intuire le sue
emozioni e i suoi desideri.
Diventare un cittadino del mondo significa
spesso intraprendere un cammino solitario,
una sorta di esilio, lontani dalle comodità
delle verità certe, dal sentimento
rassicurante di essere circondati da
persone che condividono le nostre stesse
convinzioni e i nostri stessi ideali.
E’ il compito degli educatori mostrare agli
studenti come sia bella e interessante una
vita aperta al mondo e quanta soddisfazione
si ricavi dall’essere cittadini che si rifiutano
di accettare acriticamente le impostazioni
altrui e quanto sia affascinante lo studio
degli esseri umani in tutta la loro reale
complessità e l’opporsi ai pregiudizi più
superficiali, quanta importanza abbia vivere
fondandosi sulla ragione piuttosto che sulla
sottomissione all’autorità.
In ambito giuridico il termine cittadinanza
indica il vincolo di appartenenza di un
individuo, detto cittadino, che assume diritti
e doveri nei confronti di uno stato o di una
città.
Nell’antica Grecia, secondo quanto
affermava Aristotele nella Politica, il
possesso della cittadinanza definiva il diritto
a partecipare alle funzioni legislative e
giudiziarie della città-stato; tale diritto era
concesso in base alla nascita e ai legami di
sangue, soltanto ai membri liberi della
comunità, negato agli schiavi e assai di rado
concesso agli stranieri.
Nell’antica Roma ogni cittadino godeva del
diritto di voto, ma non tutti i cittadini erano
eleggibili alle cariche pubbliche, il diritto
civile era rivolto ai cittadini e non si
applicava, quindi, agli stranieri. Questi, ad
esempio non potevano sposarsi secondo il
rito del matrimonio romano e i loro figli, di
conseguenza non erano pari ai figli dei
cittadini romani. Solo con l’editto di
Caracalla nel 212 d. . La cittadiannza
romana fu concessa a tutti i sudditi
dell’impero.
Il concetto moderno di cittadinanza si è
sviluppato a partire dalla Rivoluzione
francese e con “la dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino” (26 agosto 1789)
che ha formulato gli ideali della rivoluzione
francese riassunti dall’espressione “libertè,
egalitè, fraternitè”. Era questa la solenne
proclamazione delle libertà fondamentali
dell’individuo (di pensiero, parola, stampa),
dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge senza distinzioni di ceto e dei principi
democratici.
“La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino” rappresenta una delle conquiste
più importanti, forse la più importante
della Rivoluzione francese posta come
preambolo alla costituzione del 1791 nella
quale si nega il diritto divino del re posto
alla base dell’assolutismo monarchico,
stabilendo invece l’uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge.
Tappa altrettanto importante per la salvaguardia
della dignità dell’uomo si ha nel 1948 quando alla
conclusione della seconda guerra mondiale,
l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle
Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la
risoluzione che promuoveva il rispetto dei diritti e
delle libertà fondamentali in ambito civile, politico,
economico, sociale e culturale ben interpretato
dall’art. 22 “Ogni individuo, in quanto membro della
società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché
alla realizzazione dei diritti economici, sociali e
culturali indispensabili alla sua dignità e al libero
sviluppo della sua dignità”.
Per la Costituzione italiana, la
cittadinanza è una delle qualità che
definiscono la personalità giuridica del
cittadino e che gli consentono di
esercitare i diritti e i doveri che
scaturiscono dall’appartenenza alla
comunità statale.
Accanto alla cittadinanza nazionale i
cittadini degli Stati appartenenti
all’Unione europea godono anche
della cittadinanza europea. Con il
Trattato di Amsterdam del 1997 si è
affermato che la cittadinanza
nazionale e quella comunitaria sono
complementari,
Il possesso della cittadinanza europea
attribuisce diritti e doveri ai cittadini degli
Stati membri ma solo i primi trovano
espressa collocazione nelle disposizioni
comunitarie, Si tratta della libertà di
circolare liberamente nel territorio degli
Stati membri, del diritto di voto e di
eleggibilità alle elezioni del Parlamento
europeo e alle elezioni comunali nello
Stato membro in cui risiedono, alle stesse
condizioni dei cittadini di detto Stato.
Ogni Stato deve prima o poi affrontare
lungo il corso della storia il tema della
cittadinanza attribuita al cittadini per
distinguerlo dallo straniero dal punto di
vista della titolarità di un certo numero di
diritti e di doverti. Thomas Marshall
distingue tre fasi della cittadinanza: civile,
politica e sociale.
La cittadinanza civile si afferma
storicamente per prima e attribuisce agli
individui una serie di diritti, di libertà: la
libertà fisica. La libertà di parola, di
pensiero e di religione .
La cittadinanza politica concede il diritto ai
cittadini di partecipare all’esercizio del
potere politico come membri a suffragio
attivo o passivo. La cittadinanza sociale,
invece, riguarda il diritto all’educazione, al
benessere, alla sicurezza sociale che
salvaguarda, in modo particolare la salute
del cittadino.
In Italia la cittadinanza si acquisisce in
quattro modi: per nascita (il figlio di padre
o madre cittadini); per beneficio di legge (
lo straniero nato e residente in Italia che
al compimento della maggiore età sceglie
la cittadinanza italiana); per estensione (il
coniuge straniero di un cittadino italiano);
per naturalizzazione (il cittadino di uno
Stato membro dell’Unione Europea che
risiede da quattro anni in Italia).
La filosofa americana Martha Nussbaum
nel testo Diventare Persone descrive la
difficile situazione femminile,
soffermandosi in particolare in India,
offrendo uno straordinario contributo e
individuando in una prospettiva filosofica
e politica, i principi costituzionali
fondamentali che dovrebbero essere
rispettati e fatti rispettare dai governi di
tutte le nazioni per superare tali disparità.
Nussbaum elabora un progetto filosofico
“forte”, di tipo normativo, che vuole uscire
dalla pura dimensione speculativa per
dare risposte concrete ai fatti empirici, e
mettere il lettore in contatto con un
repertorio vivo di voci, storie,
testimonianze che ci aiutano a capire la
reale condizione, ancora oggi fortemente
svantaggiata, della donna rispetto agli
uomini, soprattutto nei paesi in via di
sviluppo.
Peggio nutrite, più esposte alle
malattie, alla violenza fisica e agli
abusi sessuali, meno
scolarizzate, spesso prive di
qualsiasi formazione
professionale, le donne non
possono contare nemmeno sugli
stessi diritti.
Nel programma di sviluppo delle Nazioni
Unite del 1997 emerge, dagli studi
effettuati, che al mondo non esiste alcun
paese che tratti in egual misura le donne
quanto gli uomini. Questo è quanto
attestato da complessi e numerosi
indagini e ricerche che considerano
diversi fattori: il benessere, la mancanza
d’istruzione, la durata della vita , la
denutrizione, la mancanza dei servizi
sanitari.
• I paesi in via di sviluppo presentano
problemi a volte molto pressanti
essendo la disuguaglianza di genere
correlata fortemente alla povertà
Nei paesi in via di sviluppo,
complessivamente il numero di
donne adulte analfabete supera del
60% quello degli uomini, il tasso di
reclutamento scolastico è del 23%
inferiore a quello maschile persino
nelle scuole elementari, mentre i
salari femminili sono tre quarti di
quelli maschili
In questi paesi sono ancora numerosi i
casi di violenza, abuso domestico e
molestie sessuali e spesso la violenza
all’interno del matrimonio non è
considerata un crimine e persino gli atti di
violenza contro estranei sono così
raramente puniti che molte donne evitano
di denunciare il crimine
La storia sociale di una donna e la sua
appartenenza sociale, spiega Nussbaum,
vengono sicuramente usate contro di lei
in tribunale; raramente le prove mediche
sono raccolte con tempestività, la polizia
manda avanti le pratiche con tempestivo
ritardo e quindi è molto difficile giungere
ad una condanna.
Secondo le legge indiana è molto costoso
intentare una causa di questo genere, non
essendoci attualmente assistenza legale
gratuita per le vittime di stupro. Su 105 casi
portati in tribunale (secondo uno studio
condotto da una ONG “Organizzazione non
Governativa” con sede a Delhi) solo 17 sono
puniti con la prigione. Se poi si prende in esame
l’area fondamentale della salute e
dell’alimentazione, ci sono prove diffuse di
discriminazione contro la popolazione
femminile.
In breve, manca alle donne il
sostentamento necessario per condurre
una vita che sia pienamente umana e ciò
è frequentemente dovuto solo al loro
essere donne. Così, anche vivendo in una
democrazia costituzionale come l’India,
dove tutti, in teoria, dovrebbero essere
uguali, le donne sono in realtà cittadine di
seconda classe.
Il problema del pieno dispiegamento
umano femminile e maschile nel mondo è
l’oggetto principale di studio di Martha
Nussbaum riferito al problema della
questione femminile. L’impianto teorico
del suo lavoro parte dalla posizione della
donna nei Paesi del Terzo mondo, in
base all’assunto che la disuguaglianza di
“genere” è strettamente correlata alla
povertà.
La tesi “forte” di Martha Nussbaum è
che per arrivare ad una soglia
minima di rispetto della dignità
umana (femminile e maschile)
l’approccio migliore risulta essere
quello fondato sulle capacità umane,
anzi sul principio delle capacità di
ogni persona, basato a sua volta sul
principio di considerare ogni persona
un fine a sé
L’approccio secondo le capacità
difeso da Martha Nussbaum non solo
assegna un posto preminente
all’immaginazione, sentimenti ma fa
anche affidamento su di essi sul
piano metodologico. Il referente
principale della teoria del “capabality
approach” è l’ideale marxiano del
pieno dispiegarsi delle capacità e
delle funzioni umane.
Quel che ci interessa è la soglia più alta
di questo dispiegamento, quella che una
volta raggiunta, la persona diventa un
essere “veramente umano”, degno di
essere tale. L’idea centrale che
Nussbaum accoglie è quindi il principio
marxiano dell’essere umano in quanto
essere libero e dignitoso che modella la
propria vita in cooperazione e reciprocità
con gli altri.
Se noi guardiamo ad ogni
persona come ad un fine in sé e
non come ad uno strumento per
soddisfare i bisogni altrui, questa
concezione acquista corpo e
spessore.
E’ una prospettiva che può
aiutare le donne ad uscire dalla
“logica del sacrificio”, quella che
chiede loro di porre il
soddisfacimento dei bisogni dei
familiari davanti alla realizzazione
del proprio sé.
Nussbaum spiega che se noi parliamo di ciò
che le persone sono di fatto in grado di fare e
di non fare non diamo nessun privilegio a
quella che potrebbe essere un’idea
occidentale perché le idee di attività e capacità
sono presenti in tutte le culture. Questo
approccio inoltre salvaguarda il valore della
diversità e dei costumi senza preservare la
brutalità di alcune pratiche: la violenza
domestica, la monarchia assoluta o la
mutilazione genitale
Si capisce bene, quindi, che il
miglior approccio si concentra sulle
capacità umane, vale a dire su ciò
che le persone sono realmente in
grado di fare e di essere, avendo
come modello l’idea di una vita che
sia vissuta nella dignità per ogni
essere umano.
ci si riferisce quindi ad un
principio di capacità
individualizzato, basato sul valore
della persona intesa come fine
Il rispetto dei diritti civili è, infatti,
il presupposto basilare di un
sistema democratico. Per diritti
civili s’intende l’insieme delle
garanzie, delle libertà e degli
strumenti forniti alla gente perché
possa partecipare alla vita
politica e sociale di un Paese.
La libertà di espressione è il
diritto civile più importante anche
perché in essa è compresa la
libertà di pensiero, di opinione, di
professione religiosa e politica,
cioè tutto quello che è alla base
di una democrazia derivante dal
modello dell’antica polis greca
In India questi diritti vengono
continuamente calpestati e
quando si vuole indicare un
aspetto negativo di questo Paese
si fa riferimento, soprattutto, alla
condizione delle donne e dei
bambini.
L’istruzione che è l’unico strumento che i
vari Stati Nazionali hanno realmente
potuto usare a favore delle donne, non ha
ancora raggiunto gli obiettivi previsti. Il
matrimonio rappresenta attualmente per
la donna l’unica via di uscita che le
consente di sopravvivere dato che la
società le nega occasioni di lavoro e
inserimento pari a quelli degli uomini.
E’ meglio, dunque, che una
bambina impari, stando a casa, a
fare la moglie e la madre,
piuttosto che andare a scuola
dove le insegnerebbero cose che
nulla hanno a che fare con quello
che sarà il suo ruolo futuro.
Il volontariato è la matrice delle
varie forme che l’intervento del
singolo nel sociale può
assumere, in quanto espressone
di quella visione che si ha
quando l’individuo avverte
l’esigenza forte ed assoluta di
dare aiuto a chi ha bisogno.
L’evoluzione culturale e sociale del
volontariato italiano ha modificato il
suo ruolo rispetto all’associazionismo
sociale, infatti il volontariato nella
cultura e nella prassi ha assunto una
dimensione politica, cioè un impegno
attivo per l’innalzamento della qualità
della vita nel nostro Paese.
Il 4 dicembre 2001, nel corso di un
Convegno dal titolo “ Un punto di
arrivo per una nuova partenza”, su
iniziativa della Fondazione Italiana
per il Volontariato e del gruppo Abele
di Don Luigi Ciotti, illustre militante
del volontariato italiano, è stata
presentata la Carta dei Valori del
Volontariato
Questo documento fondamentale per
il volontariato italiano è il frutto dei
numerosi contributi che i gruppi, le
organizzazioni e i singoli hanno
offerto partendo dalla loro personale
esperienza volontaristica e
dell’apporto di illustri studiosi del
volontariato come il sociologo Ardigò
e il filosofo Cacciari.
La Carta vuole essere strumento
indispensabile attraverso il quale ogni
volontariato e ogni organizzazione abbiano
chiari gli elementi del proprio “essere” e
adottino criteri di un “agire” che siano coerente
testimonianza di dimensione ideale, per
svolgere quella che Luciano Tavazza definiva la
duplice missione “[…] di promotore della cultura
e della prassi della solidarietà e di agente del
mutamento sociale” e che si specifica
principalmente in due ruoli:.
la dimensione attiva, attraverso
la gratuita presenza nel
quotidiano; la dimensione
politica, quale soggetto sociale
che partecipa alla rimozione degli
ostacoli che generano
svantaggio, esclusione, degrado
e perdita di coesione sociale.
i valori del volontariato tendono
verso la comunità democratica,
cioè una comunità in cui trovino
sostegno i più deboli, dove siano
contrastate le forme di
emarginazione e siano superate
le forme di sofferenza e di
degrado
Si tratta della costruzione di una
comunità democratica fondata
sulla giustizia, sulla solidarietà,
sulla valorizzazione della
persona e delle culture, sulla
comunicazione e sullo scambio
intersoggettivo
In questo senso il volontariato si
esprime attraverso diverse sfere
di intervento, di cui si segnalano
quella della persona, quella
culturale, quella politica.
Con la prima, l’impegno del volontariato
parte dalla dignità dell’essere umano per
individuarne i bisogni e i diritti,
intervenendo laddove siano negate la
dignità, la libertà, la formazione, la salute,
ecc. Questa dimensione di intervento è
primaria perché al centro dell’azione
volontaria ci sono le persone considerate
nella loro dignità umana, nella loro
integrità umana e nel contesto delle
relazioni familiari, sociali, culturali in cui
vivono
Con la prima, l’impegno del
volontariato parte dalla dignità
dell’essere umano per
individuarne i bisogni e i diritti,
intervenendo laddove siano
negate la dignità, la libertà, la
formazione, la salute, ecc.
Questa dimensione di intervento
è primaria perché al centro
dell’azione volontaria ci sono le
persone considerate nella loro
dignità umana, nella loro integrità
umana e nel contesto delle
relazioni familiari, sociali, culturali
in cui vivono.
Il volontariato, in quanto
esperienza di reciprocità, di
solidarietà esprime una
dimensione operativa dalla
grande tensione culturale e
politica.
In questa specifica accezione,
l’azione volontaria è pratica di
cittadinanza solidale in quanto
“[…] si impegna a rimuovere le
cause delle disuguaglianze
economiche, culturali, sociali,
religiose e politiche e concorre
all’allargamento, tutela e fruizione
dei beni comuni.
A questo punto, è bene chiarire
che il volontariato non nutre solo
l’aspettativa di formare volontari,
quanto quella di puntare anzitutto
a realizzare la figura dell’uomo
solidale. Ma quali sono i caratteri
dell’uomo solidale?
Tavazza dice che è un “[…]
soggetto, una persona che ha
cura di sé, che ha cura dell’altro,
che ha cura dell’ambiente […]
L’uomo solidale sembra essere la
persona di cui il nuovo millennio
ha bisogno
Educare all’azione solidale significa che
scuole, famiglia ed altre istituzione private,
agenzie che operano nelle comunità, fondate su
valori condivisi, assegnino priorità ad un’azione
formativa in cui siano valorizzati principi quali la
solidarietà e la responsabilità, la cooperazione
e la giustizia, l’impegno e la coerenza. Il
volontariato è “scuola di solidarietà”.
“La sfida educativa che nasce dai il volontariato esprime la sua
tensione, nell’aspirazione a formare un soggetto-persona che sia
votato sì alla realizzazione del proprio sé, ma che sappia uscire dal
chiuso della propria individualità per cogliere la ricchezza e le
risorse che sono negli altri uomini, che si apra, cioè, a nuove
prospettive e lasci all’altro la possibilità di incidere sulle sue visioni
del mondo, sui suoi punti di riferimento, sui suoi orizzonti
conoscitivi e valoriali
In effetti, Luciano Tavazza
evidenzia con estrema chiarezza
“[…] la passione educativa del
volontariato che non nutre
soltanto l’aspettativa di formare
volontari, quanto quella di
puntare anzitutto a realizzare la
figura dell’uomo solidale
Luciano Tavazza precisa:“ […] è un soggetto,
una persona che ha cura di sé (necessità di
prepararsi al meglio per la propria crescita
personale e per il servizio), che ha cura
dell’altro (solo l’esperienza dell’alterità apre alla
relazione e ci fa maturare nella nostra
personale dimensione antropologica), che ha
cura dell’ambiente (in quanto ambiente naturale
e comunità territoriale nella quale tutti ci
salviamo o tutti ci perdiamo”
Orientare ed educare all’azione
solidale significa che scuola,
famiglia ed altre istituzioni private
che operano in sintonia nella
comunità attraverso un’azione
fondata su valori condivisi, diano
priorità ad un’azione formativa in
cui siano valorizzati principi quali
la solidarietà e la responsabilità,
la cooperazione e la giustizia,
l’impegno e la coerenza.
Il volontariato, in effetti,
cercando di raggiungere questi
obiettivi diventa “scuola di
solidarietà” e “[…] propone a tutti
di farsi carico, ciascuno per le
proprie competenze, tanto dei
problemi locali quanto di quelli
globali e, attraverso la
partecipazione, di portare un
contributo al cambiamento
sociale.
In questa previsione si può fare
riferimento al volontariato come
“laboratorio di democrazia”,
interpretando il pensiero del
filosofo John Dewey secondo cui
l’idea di un’istituzione come la
scuola che, proprio perché
ispirata ai principi del pluralismo
e della partecipazione, può
educare i giovani alla
democrazia.
Il principio deweyano consiste
nel fatto che, coltivando l’umanità
dell’uomo, nel singolo soggetto,
attraverso l’esperienza educativa
del confronto, del dialogo,
dell’incontro e della reciprocità si
possano concretamente
realizzare principi universali quali
la giustizia sociale e la
democrazia.
Anche la filosofa Martha
Nussbaum, nell’opera Coltivare
l’umanità analizzando il concetto
di cittadinanza inoltrato dalla
nostra società e quindi dall’uomo
del nostro tempo, trova
nell’educazione l’opportunità
davvero unica per formare
persone in grado di attuare forme
più esatte ed equilibrate di vita
democratica.
In questo senso la formazione
dell’uomo solidale si identifica con la
formazione del cittadino del mondo
come processo complesso inteso a
donare libertà al pensiero, aprirlo
all’immaginazione creativa verso un
mondo in cui le persone sono libere
di realizzare la loro umanità nel pieno
superamento di condizioni che non
permettono la comprensione e la
cooperazione.
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