APPROCCI MINIMAMENTE INVASIVI IN CHIRURGIA PARODONTALE RIGENERATIVA SIdP - Società Italiana di Parodontologia e Implantologia Autori: Raffaele Cavalcanti, Silvia Masiero, Luigi Minenna, Francesco Cairo Progetto coordinato da: Francesco Cairo (coordinatore commissione scientifica) e Guerino Paolantoni (coordinatore commissione editoriale) Indice: 1. Principi ed aspetti biologici della terapia minimamente invasiva a) Introduzione b) Lo strumentario 2. La terapia non chirurgica minimamente invasiva 3. Chirurgia parodontale minimamente invasiva 4. Conclusioni 5. Bibliografia 1 1. Principi ed aspetti biologici della terapia minimamente invasiva Silvia Masiero a) Introduzione In molti ambiti della medicina vi è la tendenza a valutare se sia una possibile un’evoluzione verso approcci e tecniche mini-invasive, con l’interesse primario di ridurre il disagio post-operatorio della terapia convenzionale, mantenendone l’efficacia clinica (Chegan e coll. 2000). In accordo con MeSH (Medical Subject Headings) una procedura medica è definibile minimante invasiva se evita una chirurgia a lembo aperto a favore di una chirugia “chiusa” o comunque più localizzata (Dannan e coll. 2011). Il termine fu introdotto da John EA Wickham nel 1984 che poi lo riportò nel 1987 nel British Medical Journal (Wicham 1987). Inizialmente riferito al miglioramento di tecniche chirurgiche con il solo intendimento di limitare l’ampiezza dell’incisione chirurgica, successivamente tale definizione è stata applicata ai numerosi interventi chirurgici che utilizzano in maniera combinata la laparoscopia, la toracoscopia, l’endoscopia dell’apparato digerente e l’artroscopia (Davis e coll. 1995). Recentemente si è sviluppato un forte interesse verso le tecniche minimante invasive anche in ambito di terapia parodontale. Nel trattamento delle malattie parodontali, la terapia non chirurgica rappresenta il mezzo essenziale per raggiungere il controllo dell’infezione. La successiva rivalutazione dei parametri clinici permette di formulare un eventuale piano di trattamento correttivo dei difetti dei tessuti duri e molli associati al rischio di progressione della malattia (Linee guida Sidp 1998). Negli anni i supporti tecnologici hanno migliorato alcune fasi cruciali del percorso diagnostico/terapeutico parodontale, come l’introduzione della 2 radiodiagnostica digitale che ha ridotto ad esempio la quantità di radiazioni assorbite dai pazienti rispetto alle tecniche convenzionali (Brennan e coll. 2002, Christensen e coll. 2004). Le innovazioni tecnologiche necessitano però di un’accurata valutazione dei vantaggi rispetto alle procedure convenzionali, inclusa un’accurata valutazione dell’incremento dei costi prima d’accettarne la generalizzazione per la popolazione (Rethman e coll. 2010). b) Lo strumentario La possibilità di attuare procedure minimamente invasive in Parodontologia impone l’utilizzo di strumentario differente e dedicato, l’utilizzo di sistemi d’ingrandimento meglio se abbinati ad opportuna modalità di illuminazione del campo operatorio. L’attuale trend sembra infatti suggerire l’uso di sistemi ingrandenti compresi tra i 2x e i 5x (Massironi e coll. 2007, Cortellini e coll. 2012, Cortellini e coll. 2001). L’adozione di sistemi d’ingrandimento, compreso il microscopio operatorio, necessita però di un percorso obbligatorio di addestramento al fine di: i) ottimizzare la nuova posizione posturale, ii) identificare le corrette posizioni di lavoro iii) ritrovare una nuova ergonomia di lavoro a quattro-sei mani con le assistenti alla poltrona (Calderon e coll. 2007, Dannan e coll. 2011, Burkhardt e coll. 2005). Nello specifico, in terapia parodontale l’uso dei sistemi d’ingrandimento si può associare ai seguenti vantaggi: 1) maggiore precisione: si eseguono incisioni e manovre più precise e meno traumatiche; è possibile suturare con aghi e diametri di filo minori ottenendo minore trauma sui tessuti (Burkhardt e coll. 2008). Questo si potrebbe associare a un miglioramento del successivo processo di guarigione dei tessuti. 2) migliore visibilità della radice nella strumentazione non chirurgica/e chirurgica e dell’eventuale difetto infraosseo qualora si sia in terapia chirurgica (Calderon e coll. 2007, Belcher e coll. 2001) 3 Di recente inoltre è stata suggerita una possibile evoluzione endoscopica della diagnostica e della terapia parodontale non chirurgica, la cosiddetta Perioscope Technology. Tale strumento parodontale endoscopico potrebbe facilitare le manovre di debridment e favorire la guarigione della terapia non chirurgica; l’uso aggiuntivo infatti della Perioscope Technology sembra migliorare i risultati della terapia non chirurgica in termini di indice di infiammazione, sebbene non ci siano variazioni nella profondità al sondaggio e nel livello di attacco clinico (Blue e coll. 2013, Avradopoulos e coll. 2004). In termini concettuali questo strumento potrebbe favorire la corretta esecuzione delle manovre di debridment radicolare (Stambaugh e coll. 2009, Wilson e coll. 2008, Wilson e coll. 2009) L’attenzione alle tecniche mini invasive in Chirurgia Parodontale si basa sulla valutazione di come tale approccio possa modificare e migliorare i meccanismi di guarigione della ferita. In qualsiasi difetto parodontale sia la quantità sia la qualità della componente gengivale residua sono dei parametri clinici critici per l’ottenimento di una successiva corretta guarigione primaria e passiva della ferita chirurgica (Wikesjo e coll. 1999). La ferita parodontale guarisce attraverso un processo conosciuto ma del quale riteniamo opportuno specificare alcuni dettagli temporali e di sequenzialità degli eventi. La prima fase di guarigione, denominata infiammatoria, vede le plasma proteine e il fibrinogeno precipitare in pochi secondi sulla radice del dente denudata ponendo le basi per il successivo deposito del coagulo di fibrina; durante la prima ora si assiste alla comparsa in loco dei granulociti neutrofili preposti alla decontaminazione della ferita; queste cellule entro 5-6 ore sono in grado di ricoprire l’intera superficie radicolare. La popolazione cellulare della ferita vede divenire predominanti i macrofagi solo al terzo 4 giorno: con il loro arrivo inizia la transizione verso la fase cosiddetta di granulazione nella quale queste cellule iniziano il rilascio di fattori di crescita e di mediatori biochimici necessari a sostenere il processo di neo-angiogenesi. Questa fase di formazione del tessuto di granulazione dura fino al settimo giorno e solo al termine della prima settimana si passa alla successiva fase di maturazione della ferita parodontale. E’ opportuno porre l’accento che il primo evento indispensabile affinché si determini il processo sopra descritto è proprio l’adesione delle plasma proteine alla superficie radicolare: già Hyatt (1968) aveva sottolineato come al settimo giorno si potesse non trovare interposto epitelio nella guarigione tra lembo e radice del dente quando il coagulo fosse stato in grado di popolare la ferita indisturbato nella zona iuxta radicolare entro i primi tre giorni. Una procedura chirurgica e di stabilizzazione della ferita quindi che non contrasti il momento di adesione del coagulo di fibrina alla radice nella zona d’interfaccia tra lembo e radice è il momento fondamentale per la formazione di nuovo attacco connettivale. La conferma dell’importanza della formazione e stabilizzazione del coagulo ci viene dalle sperimentazioni di Wikesjo e coll. (1991). La presenza di eparina (anticoagulante) a livello delle radici denudate comporta una guarigione con mancata formazione di attacco connettivale e riparazione con formazione di attacco epiteliale lungo, compromettendo la fase iniziale di stabilizzazione del coagulo si assiste ad una differente maturazione della ferita. L’osservazione istologica dei campioni esitava in una guarigione con presenza di nuovo attacco connettivale nella porzione più apicale del difetto suggerendo che altre variabili possano avere un impatto sul processo di differenzazione cellulare (Wikesjo e coll. 1999, Sigurdsson e coll. 1994). Se il momento iniziale indispensabile è quello che abbiamo fin qui descritto, il passo successivo necessario alla guarigione qualitativa connettivale della ferita parodontale è sostenuta dalla proliferazione e dalla adesione delle fibre collagene al cemento radicolare residuo o neoformato; questa fase non avviene seguendo una unica linea 5 differenziativa: spesso a seconda delle zone la ferita si assiste al prevalere della proliferazione delle fibre collageniche, dei cementoblasti che depositano cemento secondario oppure delle linee cellulari osteblastiche e osteclastiche che dapprima demineralizzano la componente ossea minerale e solo successivamente degradano la matrice organica promuovendo il processo di rimodellamento osseo attraverso il quale si espone nuova superficie di connessione per le corrispondenti fibre collagene neoformate. Solo raramente nell’uomo una veloce proliferazione di questa linea cellulare può condurre ad una guarigione con anchilosi (Wikesjo e coll. 1999). Fino al terzo giorno sono sufficienti pochi grammi di Forza, circa 200g, per contrastare la chiusura di un lembo parodontale ottenuta mediante sutura; tale valore rimane basso anche al termine della prima settimana (340g) ed aumenta considerevolmente attestandosi attorno ai 1700g solo al termine della seconda settimana: questa considerazione dà indicazione, supporto e importanza alla scelta della tecnica di sutura e del tipo di sutura e alla necessità di ottenere una chiusura dei lembi in assenza di tensione residua (Sandberg e coll. 1963; Hyatt e coll. 1968) L’attenzione quindi alle dimensioni del lembo, al disegno delle incisioni e al loro posizionamento e alla precisione della sutura rappresentano il punto di partenza biologico, fondamento della aspettativa nei confronti del risultato clinico e istologico successivi. Di recente sono stati anche investigati i vantaggi biologici della terapia minimamente invasiva in procedure chirurgiche di allungamento di corona clinica nei casi di eruzione passiva alterata con o senza lembo per acceso (Ribeiro e coll. 2013). In questo studio sono stati valutati i valori di RANKL e OPG, regolatori del sistema di rimodellazione ossea e della produzione di osteoclasti: i risultati dimostrano un incremento delle concentrazioni di RANKL e OPG tre mesi dopo la terapia chirurgica con concentrazioni 6 più alte nell’intervento a lembo. Quest’osservazione suggerisce che l’elevazione del lembo comporti sempre un più intenso processo di rimodellamento osseo sebbene questo non sembri condurre a differenze clinicamente apprezzabili in termini di successo della terapia di allungamento di corona clinica nei casi di eruzione passiva alterata. Gli studi sperimentali su animale (Fickl e coll. 2011) ci danno inoltre anche indicazione di un differente comportamento dell’osso alveolare a seconda che la chirurgia abbia previsto il sollevamento di un lembo a spessore parziale anziché totale: sia nel caso del lembo eseguito a spessore parziale che in quello sollevato a spessore totale si assiste ad una perdita verticale di osso alveolare sostenuta dall’incremento di attività osteoclastica documentata istomorfometricamente; seppure i risultati diano indicazione che tale attività di riassorbimento sia più pronunciata nel caso di esecuzione del lembo a spessore totale è opportuno evidenziare come questa differenza possa annullarsi nei lembi a spessore parziale in caso di permanenza di uno strato periosteo troppo sottile o quando vi sia il margine di incisione del lembo posizionato ad un livello apicale rispetto alla posizione del legamento parodontale (Bindermann e coll. 2001) Sulla base di queste valutazioni anche in Parodontologia nasce l’esigenza di eseguire, se possibile, tecniche cosiddette minimamente invasive. Tale esigenza è correlata a diverse implicazioni cliniche sia nella terapia non chirurgica che nella terapia chirurgica. Sulla base delle considerazioni biologiche appena presentate è possibile identificare dei potenziali obiettivi della terapia minimamente invasiva: 1. Diminuzione della morbidità per il Paziente: minore è l’estensione delle incisioni di una ferita, migliore potrebbe essere il postoperatorio del Paziente in termini di risposta infiammatoria sostenuta da edema e dolore locali (Belcher e coll. 2001) 7 2. Diminuzione dei tempi di esecuzione della Terapia: una terapia meno invasiva si potrebbe associare ad una riduzione dei tempi terapeutici. 3. Processo di guarigione più rapido: la riduzione dell’invasività della procedura potrebbe favorire un modello di guarigione più rapido (Burkhardt e coll. 2005, Belcher e coll. 2001) 4. Creazione di una ferita stabile che migliori i processi di guarigione: una ferita molto stabile ha una funzione protettiva del coagulo e favorisce i processi rigenerativi/riparativi (Belcher e coll. 2001); in chirurgia rigenerativa la mini-invasività sembrerebbe migliorare il trend della performance clinica in termini di guadagno di attacco (Tu e coll. 2008) Di contro i possibili aumenti dei costi e l’allungamento dei tempi di esecuzione della terapia vanno accuratamente valutati assieme ai risultati clinici nella valutazione del rapporto costi benefici della terapia minimamente invasiva. 2. La terapia non chirurgica minimamente invasiva Raffaele Cavalcanti La terapia parodontale ha come primo obiettivo il controllo dell’infezione mediante terapia non chirurgica e successivamente, ove necessario, la correzione dei difetti provocati dalla malattia, mediante terapia chirurgica. L’esecuzione della terapia chirurgica si prefigge l’obiettivo di migliorare la prognosi degli elementi compromessi da perseguire ulteriormente mediante l’applicazione di un protocollo di terapia di supporto a lungo termine. 8 La terapia parodontale non-chirurgica è un metodo efficace di trattamento delle varie forme di parodontite. Due revisioni sistematiche della letteratura (Heitz-Mayfield e coll. 2002 e 2005) hanno confermato che i risultati migliori per la terapia non-chirurgica si ottengono per tasche di profondità media; il successivo trattamento chirurgico rimane indicato per tasche di profondità maggiore (>5mm). Gli autori sottolineavano, comunque, che una certa stabilità dei risultati ottenuti dalla terapia non chirurgica era possibile anche dopo 5 anni di mantenimento. Da un punto di vista microbiologico, l’obiettivo primario del trattamento non-chirurgico della malattia parodontale è la disgregazione del bio-film microbico. Gli effetti clinici della terapia non chirurgica determinano una risoluzione dell’edema presente nel connettivo parodontale, con possibile recessione dei tessuti molli, aumento della sensibilità dentale, comparsa di “buchi neri” tra gli elementi dentari. Al fine di minimizzare questi effetti indesiderati ed il loro impatto psicologico sui pazienti, recentemente la pratica clinica parodontale ha cominciato ad avvalersi di procedure meno invasive, potendo beneficiare di approcci terapeutici differenti, in accordo con i principi della comunità medica che ormai utilizza routinariamente l’approccio minimamente invasivo. Questo, al fine di ottenere, ove possibile, risultati terapeutici migliori, ma soprattutto ridurre la morbilità ed aumentare il comfort postoperatorio e post-trattamento, grazie all’impiego di tecniche conservative, finalizzate a una maggiore preservazione dei tessuti (Ower e coll. 2013). Da un punto di vista tecnico, secondo Hunter e Sackier (1993) questo approccio terapeutico può essere descritto come “l’abilità di miniaturizzare i nostri occhi ed estendere le nostre mani per eseguire procedure microscopiche e macroscopiche in sedi che precedentemente potevano essere raggiunte solo mediante ampie incisioni”. Sebbene 9 una procedura minimamente invasiva possa essere eseguita mediante l’uso di sistemi di ingrandimento, quali lenti o microscopio, o mediante la visualizzazione endoscopica, il tipo di ingrandimento non è di per se sufficiente a definire una procedura come minimamente invasiva. In termini pratici, per considerare la terapia parodontale minimamente invasiva è fondamentale eseguire l’atto terapeutico conservando l’architettura gengivale iniziale e creando una ferita minima e una manipolazione delicata dei tessuti duri e molli (Ower e coll. 2013). In questo contesto, un approccio minimamente invasivo alla terapia parodontale non chirurgica mediante scaling e levigatura radicolare può dare riscontri favorevoli (Ribeiro e coll. 2011). Sebbene la letteratura sia ancora carente su questo argomento (mancano studi comparativi fra le procedure convenzionali e quelle minimamente invasive) i risultati clinici ed istologici riportati forniscono riscontri ottimistici per l’impiego dell’approccio non chirurgico minimamente invasivo (Harrel e coll. 1995). Al tempo stesso il miglioramento della terapia parodontale prevede anche un miglioramento del livello di comfort del paziente (Ozcelik e coll. 2007). Pertanto, accanto ai tradizionali parametri clinici, quali la riduzione di tasca (PD) e il guadagno di attacco clinico (CAL), considerati degli “outcome surrogati” della mortalità dentaria, è suggerito l’impiego di “outcome centrati sul paziente”, per misurare ad esempio le conseguenze della terapia parodontale nella vita quotidiana dei pazienti. Oltre a questi, in aggiunta al benessere psicologico del paziente durante e dopo la procedura, anche l’estetica, che può essere preservata da un approccio minimamente invasivo, è un aspetto importante da prendere in considerazione. Molti dei metodi e degli strumenti comunemente usati in terapia parodontale sono rimasti largamente invariati per decenni. Per esempio, in terapia parodontale non10 chirurgica le tecniche di scaling e levigatura radicolare generalmente applicate sono quelle descritte in letteratura un centinaio di anni fa e sono volte alla rimozione dei residui di placca e tartaro presenti sulla superficie radicolare, unitamente alla rimozione, durante la strumentazione, di una quota di cemento radicolare contaminato, per rendere la superficie radicolare “dura e levigata”, biologicamente compatibile per i processi di guarigione (Hartzell e coll. 1913). Studi dei primi anni ’80 hanno, tuttavia suggerito che la rimozione intenzionale di cemento radicolare durante la levigatura radicolare non fosse giustificata (Nakib e coll. 1982), facendo in modo che il concetto di un trattamento non-chirurgico meno invasivo e più rispettoso della superficie radicolare cominciasse a svilupparsi. La terapia non-chirurgica minimamente invasiva si avvale di strumenti differenti rispetto a quelli tradizionali, che vanno da sistemi di ingrandimento, a sistemi per una esplorazione endoscopica delle tasche parodontali, proposti da alcuni autori nel recente passato (Wilson e coll. 2008). Anche gli strumenti manuali e quelli meccanici sono ora disponibili in dimensioni ridotte, con morfologie più idonee ad un accesso sub gengivale più delicato e meno aggressivo verso i tessuti duri e molli. Sono, infatti, reperibili minie micro-curettes e punte soniche ed ultrasoniche di diametro ridotto e lunghezza maggiore per la strumentazione di tasche molto profonde. Alcuni autori hanno proposto in passato l’utilizzo della strumentazione laser (Ishikawa e coll. 2008, Dyer e coll. 2012), anche mediante nuovi approcci terapeutici (LANAP) quale metodica poco invasiva ed efficace (Tilt e coll. 2012). I numerosi studi randomizzati effettuati nell’ultimo decennio per comparare l’uso del laser alla terapia convenzionale non dimostrano alcun vantaggio nell’uso di questa terapia (Schwarz e coll. 2008 e 2009, Rotundo e coll. 2010). In termini pratici, l’approccio minimamente invasivo nella terapia parodontale nonchirurgica può essere considerato quasi un concetto “filosofico” che si basa sul cambiamento degli obiettivi terapeutici. Infatti, pur essendo universalmente accettato 11 che l’elemento chiave per il successo della terapia parodontale è la rimozione meccanica del biofilm microbico, in passato veniva data grande enfasi alla necessità di rimuovere tutti i depositi di tartaro sub-gengivale e unitamente al cemento radicolare considerato contaminato, mediante levigatura radicolare con strumenti manuali affilati. Tale tecnica fu descritta per la prima volta in letteratura nel 1913 (Hartzell 1913). Il tartaro rappresenta, infatti, la componente calcificata della placca, privo “per se” di potenziale infettivo: la sua funzione è però quella di favorire la deposizione e l’organizzazione del bio-film batterico che è invece dotato di capacità di innesco del meccanismo patogenetico della parodontite. In tempi più recenti l’obiettivo terapeutico della terapia causale si è pertanto maggiormente focalizzato sulla disgregazione e rimozione del biofilm: la rimozione di placca è quindi più importante della rimozione del tartaro, tra l’altro molto difficile da raggiungere in maniera completa per via non-chirurgica. Similmente, la rimozione mediante levigatura del cemento radicolare contaminato da tossine batteriche appare un obiettivo non realistico e spesso non giustificato dai benefici terapeutici (Nakib 1982). Classicamente (Stillman 1917) veniva raccomandata la necessità di levigare la radice con strumenti affilati in modo da renderne la superficie liscia come una “palla da biliardo”, al fine di rimuovere lo strato di cemento che in qualche modo era venuto a contatto con i batteri ed era ricco delle tossine da essi prodotte. Questo concetto ha resistito per buona parte del secolo scorso, amplificando la necessità di una terapia nonchirurgica estremamente aggressiva, da esercitare tramite scaling e root planing (SRP) mediante strumenti molto affilati, il cui impiego richiedeva tempo e abilità manuale e poteva determinare notevole discomfort per il paziente. Durante questa procedura, l’eliminazione di parte dell’epitelio interno della tasca o del tessuto connettivale detto tessuto di granulazione (curettage gengivale) era considerato parte integrante del modello di quel controllo dell’infezione, finalizzato a ridurre il processo infiammatorio e favorire fenomeni di riattacco sulla superficie radicolare. 12 Agli inizi degli anni ’80 venivano sollevati i primi dubbi sulla effettiva localizzazione di tossine batteriche sulla superficie radicolare e sulla reale necessità di un trattamento così aggressivo sia sulla superficie radicolare che sui tessuti molli (Nakib e coll. 1982, Ito e coll. 1985). Alcuni studi hanno suggerito che l’adesione delle tossine alla superficie radicolare fosse estremamente labile (Nakib e coll. 1982), sì da poterle rimuovere facilmente con strumenti delicati senza danneggiare la superficie radicolare (Smart e coll. 1990). Ciò ha portato allo sviluppo del concetto di Root Surface Debridement (RSD) (Cheetham 1988, Smart 1990) in alternativa allo SRP tradizionale, ponendosi l’obiettivo di decontaminare la superficie radicolare mediante rimozione del biofilm, in modo da ottenere una superficie radicolare biocompatibile senza sacrificio di sostanza dentale. L’approccio mediante RSD ha il potenziale di raggiungere lo stesso livello di decontaminazione della radice del root planing classico, con il vantaggio della conservazione della struttura dentale, di un tempo di trattamento più breve, di un maggiore comfort per il paziente e di una minore contrazione dei tessuti molli (Cobb e coll. 2002, Tunkel e coll. 2002, Aslund e coll. 2008, Ioannou e coll. 2009, Wong e coll. 2012). Questo diveniva possibile anche grazie all’impiego quasi esclusivo di appositi strumenti sonici o ultrasonici, che sono altrettanto efficaci rispetto agli strumenti manuali in termini di risultati clinici e microbiologici (Koshy e coll. 2005, Wennstrom e coll. 2005) e probabilmente in grado di ridurre i tempi necessari per l’esecuzione della terapia. Recentemente il termine “Periodontal Debridement”, derivato da RSD, è stato inserito nel database del National Library of Medicine’s Medical Subject Headings (MeSH) con la seguente definizione: “rimozione o disgregazione del deposito dentale….senza la intenzionale rimozione di cemento, come invece avveniva nel root planing e spesso nello scaling”. 13 In ogni caso l’evidenza crescente si basa sul fatto che la disgregazione del biofilm da parte di clinico e paziente, piuttosto che la rimozione di tartaro e cemento radicolare, sia la chiave per mettere sotto controllo la progressione della malattia parodontale. In termini di risultati clinici, la letteratura dimostra che nonostante l’abilità dell’operatore sia un fattore basilare, la profondità al sondaggio, la posizione dei denti (posteriori piuttosto che anteriori), il coinvolgimento delle forcazioni e le caratteristiche anatomiche radicolari rappresentano un limite nell’esecuzione della terapia non chirurgica, e spesso ne condizionano i risultati (Lang e coll. 1983, Lindhe e coll. 1984, Isidor e coll. 1986, Badersten e coll. 1987 e 1990, Slots e coll. 2012). Recentemente Ribeiro e coll. (2011) hanno pubblicato uno studio clinico randomizzato comparativo nel quale il trattamento di difetti infraossei isolati, di profondità maggiore o uguale a 4 mm e ampiezza maggiore o uguale a 2 mm, in corrispondenza di denti monoradicolati, mediante “Minimally Invasive Non Surgical Treatment”(MINST) veniva messo a confronto con il trattamento chirurgico minimamente invasivo (MIST) (Cortellini e coll. 2007). I risultati dello studio hanno evidenziato, con controllo a 3 e 6 mesi, una sostanziale omogeneità tra i due gruppi, con differenze non statisticamente significative in termini di CAL gain, PD reduction, FMPS e FMBS post-operatorio, percezione di discomfort da parte dei pazienti secondo la scala VAS. L’unica differenza statisticamente significativa tra i due approcci riguardava il tempo impiegato alla poltrona, con sensibile riduzione per il trattamento non chirurgico (MINST). Questo primo studio sembra avvalorare l’ipotesi che le tecniche non chirurgiche minimamente invasive abbiano un notevole potenziale clinico e siano in grado di migliorare il confort del paziente rispetto alle terapia convenzionali. Ulteriori studi sono comunque necessari per identificarne i limiti e la generalizzabilità dei benefici. 14 3. Chirurgia parodontale minimamente invasiva Luigi Minenna Le procedure chirurgiche in medicina e odontoiatria, hanno subìto di recente radicali cambiamenti con lo scopo di ridurne l’invasività (Serafin e coll. 1980, Shanelec & Tibbetts 1994). Per “chirurgia minimamente invasiva” s’intende l’utilizzo di tecniche chirurgiche precise e delicate realizzabili solo con il supporto di sistemi ingrandenti (lenti galileane e prismatiche o microscopi operatori) e strumenti di dimensioni ridotte, adatti alla microchirurgia. In generale quando si parla di chirurgia minimamente invasiva si fa riferimento a tecniche chirurgiche che hanno come filosofia la riduzione dell’invasività per il paziente, mantenendo inalterata l’efficacia. Harrel e Rees (1995) furono i primi a proporre in parodontologia la “Minimally Invasive Surgery” (MIS) con l’obiettivo di ridurre le dimensioni delle ferite chirurgiche e minimizzare il trauma di tessuti duri e molli (Harrel eNunn 2001, Harrel e coll. 2005). Successivamente questa filosofia è stata adattata in diversi ambiti della chirurgia parodontale (conservativa, rigenerativa, mucogengivale) (Cortellini e Tonetti 2001, Wachtel e coll. 2003, Cortellini e Tonetti 2005, Francetti e coll. 2005, Burkhardt eLang 2005, Trombelli e coll. 2007, Zuhr e coll. 2007, Cairo e coll. 2008, Fickl e coll. 2009, Cortellini e coll. 2011, 2012). Nella chirurgia conservativa (o lembo di accesso), per esempio, mediante l’adozione di disegni di lembo minimamente invasivi, il management delicato dei tessuti molli e appropriate tecniche/materiali di sutura (Trombelli e coll. 2010), ci si può prefissare un preciso obiettivo: l’ottenimento di una guarigione per prima intenzione, favorente un processo di possibile rigenerazione del parodonto profondo, e la minimizzazione della 15 recessione post-operatoria del margine gengivale, con possibili miglioramenti dei risultati estetici della terapia e riduzione della morbidità della procedura La letteratura parodontale classica dimostra come sia fondamentale la chiusura della ferita per prima intenzione per innescare un processo di guarigione profonda che si associ ad un guadagno di attacco clinico (Haney e coll. 1993, Sigurdsson e coll. 1994). L’esposizione precoce della ferita e la perdita della stabilità del coagulo possono influenzare negativamente l’esito clinico della procedura (maggiore recessione dei tessuti molli, minore riduzione della profondità di sondaggio, minore guadagno di attacco clinico), ed indurre una guarigione istologica di tipo prevalentemente riparativo, caratterizzato da un epitelio giunzionale lungo e minima rigenerazione di cemento radicolare e osso alveolare, confinata alla porzione più apicale del difetto (Linghorne & O’Connell 1950, Hiatt e coll. 1968, Polson & Proye 1983, Wikesjö e coll. 1991). Al contrario, riuscire ad ottimizzare la protezione del coagulo durante la guarigione potrebbe consentire al potenziale rigenerativo intrinseco dell’ospite di esprimersi, facendo virare la guarigione da riparazione a vera e propria restitutio ad integrum dell’attacco parodontale perduto (Bowers e coll. 1989). Una recente metanalisi, che ha analizzato 27 studi clinici randomizzati e più di 700 difetti trattati con lembo di accesso, ha dimostrato che tecniche meno invasive, che promuovono la guarigione per prima intenzione, determinano minore entità di recessione gengivale e maggiore guadagno di attacco clinico rispetto a disegni di lembo meno conservativi e più invasivi (Graziani et al. 2012). Ovviamente, il modello di stabilità della ferita è da considerarsi ancora più importante per le procedure rigenerative. Infatti la destabilizzazione del coagulo durante le prime fasi di guarigione è una condizione che altera i processi rigenerativi. Tale evento può essere dovuto a: i) una causa traumatica, ii) una contaminazione microbica della ferita, iii) una necrosi del lembo per insufficiente apporto vascolare. L’evento traumatico, che 16 può essere determinato sia chirurgicamente da una gestione poco rispettosa dei tessuti molli da parte del clinico che post-chirurgicamente dal paziente (es. masticazione, spazzolamento), può avere una ripercussione sul mantenimento della chiusura per prima intenzione della ferita. Durante le fasi di guarigione, l’esposizione del coagulo e delle tecnologie utilizzate per innescare il processo rigenerativo (i.e. membrane, biomateriali, agenti biologici), comporta la contaminazione microbica della ferita, la formazione di tessuto di granulazione intorno a membrana e/o biomateriali utilizzati, e una conseguente risposta infiammatoria, incompatibili con la rigenerazione parodontale. In presenza di un difetto infraosseo viene a mancare buona parte del sistema vascolare proprio del legamento parodontale e dell’osso alveolare (rami del legamento parodontale, rami sovraperiostali, rami transettali) che irrora i tessuti interprossimali sopracrestali. L’unica componente vascolare su cui poter contare nelle fasi di guarigione, e quindi da dover rispettare con la tecnica chirurgica per ridurre il rischio di necrosi, sono i vasi sovra periostali opposti al versante di incisione (vestibolare o orale) su cui si estende il difetto. In considerazione di questa anatomia le tecniche chirurgiche hanno subito un’evoluzione che ha riguardato principalmente la gestione della zona di incisione dell’area interdentale e le relative tecniche di sutura. La linea diincisione è stata progressivamente decentrata rispetto al punto di contatto interdentale (in direzione vestibolare o orale) permettendo una gestione differenziata dei tessuti molli sopracrestali interdentali a seconda della caratteristiche anatomiche e morfologiche della zona da trattare. Le tecniche di preservazione della papilla prevedono infatti il sollevamento di un lembo vestibolare ed uno orale, preservando integralmente il tessuto interdentale e sollevandolo insieme ad uno dei due lembi. La tecnica originale è stata la Tecnica di Preservazione 17 Papillare (PPT) (Takei e coll. 1985), seguita da varianti aventi tutte la finalità di preservare al meglio l’istmo tissutale interdentale (Murphy 1996, Harrel 1999, Cortellini e coll. 1995, 1999, Cortellini & Tonetti 2007, Tinti e coll. 2007). Con il passare del tempo le modifiche ai disegni di lembo tendevano sempre più ad una minimizzazione del trauma operatorio. Nel 2007 è stata proposta una tecnica chirurgica minimamente invasiva (MIST) per il trattamento di difetti infraossei isolati (Cortellini & Tonetti 2007). Nella tecnica MIST la papilla interdentale associata al difetto viene incisa con due approcci differenti a seconda delle dimensioni dello spazio interprossimale: negli spazi stretti una incisione diagonale tracciata il più vicino possibile al colle della papilla, secondo i princìpi del lembo a preservazione della papilla semplificato (SPPF, Cortellini e coll. 1999); negli spazi larghi viene tracciata una incisione orizzontale sul lato buccale della papilla, secondo la tecnica di preservazione della papilla modificata (MPPT, Cortellini et al. 1995). Sempre nel 2007 è stata proposta una tecnica minimamente invasiva semplificata, il Single Flap Approach (SFA), il quale prevede il sollevamento di un lembo su un unico versante (vestibolare o orale) preservando l’integrità del tessuto molle interdentale (Trombelli e coll. 2007, 2009), le detersione della superficie radicolare e la degranulazione del difetto attraverso un alternanza di strumenti manuali e meccanici poco traumatici ed una doppia sutura; una prima sutura a materassaio interno orizzontale viene posizionata tra il lembo e la base della papilla intatta ed una seconda sutura a materassaio interno (verticale o orizzontale), oppure una sutura interrotta, più coronale, per garantire la chiusura primaria. Successivamente è stata proposta una tecnica minimamente invasiva modificata (MMIST, Cortellini & Tonetti 2009). Anche questa tecnica prevede il sollevamento di un solo lembo ma, a differenza del SFA, sempre vestibolare e limitato il più possibile in senso mesio-distale. In questo caso la tecnica chirurgica suggerita dagli autori è quella del materassaio interno modificato, eventualmente associato a suture interrotte. 18 In uno studio che ha valutato il trend temporale relativo all’efficacia clinica delle diverse tecniche chirurgiche rigenerative parodontali (Tu e coll. 2008), è emerso come, dal 1996 al 2006, ci sia stato un progressivo miglioramento della performance terapeutica in termini di guadagno di attacco clinico. Lo stesso trend è stato riscontrato anche sull’efficacia clinica del lembo di accesso, osservazione che ha condotto gli autori a concludere che tale miglioramento può essere almeno in parte spiegabile con l’introduzione di tecniche meno invasive e più rispettose dei tessuti responsabili del mantenimento della guarigione per prima intenzione e della protezione del coagulo. Recentemente, due studi clinici randomizzati indipendenti che hanno valutato tecniche minimamente invasive (SFA, M-MIST) nell’esecuzione del lembo di accesso hanno entrambi riportato risultati clinici sostanziali (guadagno di attacco clinico e riduzione della profondità di sondaggio medi superiori a 4 mm) (Trombelli e coll. 2010, Cortellini & Tonetti 2011). Entrambi gli studi hanno riportato risultati clinici simili fra gruppi trattati con tecniche rigenerative e gruppi trattati con lembo d’accesso. Questi risultati suggeriscono che le tecniche minimamente invasive consentono al difetto di esprimere meglio il proprio potenziale rigenerativo intrinseco durante la guarigione (Trombelli e coll. 2010, Cortellini & Tonetti 2011). Lo svantaggio maggiore delle tecniche minimamente invasive è dato dal limitato accesso visivo diretto al campo operatorio. Per questa ragione sembra indispensabile l’utilizzo di sistemi di ingrandimento, eventualmente associati ad illuminazione diretta del campo inquadrato. E’ altresì fortemente consigliata l’adozione di strumentario e materiali chirurgici di miniaturizzati, adatti a campi operatori dimensioni ridotte. Lo sviluppo della chirurgia minimamente invasiva ha comportato una sostanziale riduzione delle complicanze e degli effetti collaterali nel periodo post-operatorio. La 19 complicanza più comune dopo un intervento di chirurgia rigenerativa, rappresentata dalla perdita della chiusura primaria della ferita, è stata drasticamente ridotta sia di frequenza che di entità grazie all’introduzione delle tecniche chirurgiche minimamente invasive (Trombelli e coll. 2010). Anche la morbidità post-chirurgica del paziente è stata fortemente ridimensionata: sia il dolore post-operatorio (Cortellini & Tonetti 2009) che edema ed ipersensibilità radicolare sono risultati essere eventi poco frequenti (Cortellini e Tonetti 2007, Cortellini e coll. 2008). 4. Conclusioni L’attuale evidenza scientifica sembra supportare le seguenti conclusioni: - Le tecniche chirurgiche minimamente invasive in chirurgia parodontale conservativa e rigenerativa sembrano poter migliorare la stabilità del coagulo e della ferita, ottimizzandone la guarigione e riducendo il rischio di complicanze post-operatorie relative sia al sito che al paziente. - E’ tuttavia necessario un maggior numero di studi clinici randomizzati monocentrici/multicentrici per accertare definitivamente le generalizzabilità dei risultati clinici, i vantaggi rispetto a procedure convenzionali ed il loro rapporto costo-beneficio. - Le procedure chirurgiche minimamente invasive necessitano di un training specifico e dimestichezza con strumentario chirurgico di dimensioni ridotte - L’entità della curva di apprendimento necessaria al clinico per iniziare ad eseguire correttamente e con efficacia le tecniche chirurgiche minimamente invasive deve essere ancora chiarita. 20 5. 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