ISSN 1970-741X
Supplemento a Tabloid di Ortopedia Anno VII Numero 6/2012
Poste Italiane Spa - Sped. in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. I comma I, DCB Milano Taxe Perçue
NUMERO SPECIALE
40° CONGRESSO NAZIONALE SIMFER
9TH MEDITERRANEAN CONGRESS OF PRM
Raffaele Gimigliano
La medicina riabilitativa
nell’area del Mediterraneo:
strategie ed esperienze
Anche quest’anno Tabloid di
Ortopedia dedica un numero
speciale al il 9° congresso del
Mediterranean Forum of Physical and
Rehabilitation Medicine (Mfprm),
organizzato insieme al 40° congresso
della Società Italiana di Medicina
Fisica e Riabilitativa (Simfer), che si
tiene a Sorrento dal 21 al 25 ottobre.
Il programma scientifico ruota attorno
al tema della medicina riabilitativa
nell’area del Mediterraneo,
valutandone strategie ed esperienze.
Come spiegano gli organizzatori il
congresso sarà un’occasione unica
per affrontare le problematiche
riabilitative cliniche, tecniche,
organizzative e di ricerca alla luce
del continuo progresso scientifico e
della evidence based rehabilitation e
L’UTILITÀ PRATICA
DELL’EVIDENCE BASED MEDICINE
per confrontarsi con le realtà
riabilitative dei vari paesi del bacino
del Mediterraneo, che comprende tre
continenti così diversi come l’Europa,
l’Africa e l’Asia. Obiettivo dichiarato è
quello di tentare di uniformare le
procedure al fine di rispondere alla
sfida della globalizzazione.
«Le sfide del futuro si terranno sulla
qualità e l’efficacia delle prestazioni
della medicina riabilitativa, pertanto è
necessario che la ricerca e la
formazione vengano riqualificate al
fine di preparare specialisti esperti e
motivati a prendersi carico delle
persone con disabilità» spiegano
Raffaele Gimigliano (presidente del
congresso), Jorge Lains (presidente
Mfprm) e Vincenzo Maria Saraceni
(presidente Simfer).
LA SPORT-TERAPIA:
L’ESPERIENZA DEL VENETO
RIABILITAZIONE
PEDIATRICA
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FISIOVIEWS
LA RICERCA NEL MONDO
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IL QUESITO DIAGNOSTICO
CORSI
E CONGRESSI
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FACTS&NEWS
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La Simfer al congresso
numero quaranta
Ogni tema verrà introdotto con una relazione sullo stato dell’arte; seguirà
poi il dibattito scientifico in aula. E Simfer apre anche a un confronto con
gli altri attori sociali: associazioni di pazienti, Irccs e istituzioni pubbliche
Per la quarantesima edizione del suo congresso nazionale,
la Società italiana di medicina fisica e riabilitativa ha scelto
la meravigliosa cornice di Sorrento, davanti a quel mare su
cui si affacciano i Paesi che hanno dato origine alla nostra
civiltà e a cui la Simfer ha deciso di rivolgersi per un confronto sicuramente proficuo e interessante.
Il titolo del congresso è infatti “La medicina riabilitativa nell’area del Mediterraneo: strategie ed esperienze”. A presiedere l’evento è Raffaele Gimigliano, professore ordinario di
medicina fisica e riabilitativa alla Seconda Università di
Napoli, dove è presidente del corso di laurea in fisioterapia
e direttore della scuola di specializzazione in medicina fisica e riabilitativa.
Past president della Simfer, il professor Gimigliano è vice
presidente del Mediterranean forum of physical and rehabilitation medicine (Mfprm), socio fondatore della Società italiana di riabilitazione neurologica (Sirn) e della Società italiana di chirurgia dell’osteoporosi (Sico).
Professor
Gimigliano,
l’evento di Sorrento è un
congresso congiunto tra
Simfer e Mfprm. Come si
è arrivati a questa decisione?
La decisione di organizzare
un congresso congiunto tra
la Società italiana di medicina fisica e riabilitazione e
il Mediterranean forum
physical and rehabilitation
medicine è nata con lo
scopo di confrontare le
esperienze culturali, formative e scientifiche nonché le modalità di erogazione delle attività riabilitative
in Italia e nei paesi del bacino del Mediterraneo.
Il contributo che la medicina riabilitativa italiana può
dare è notevole, visti gli
ottimi livelli raggiunti sia
dal punto di vista organizzativo che clinico-assistenziale.
Mfprm è un acronimo che
ancora molti non conoscono. Che cosa indica?
Il Mediterranean forum
physical and rehabilitation
medicine non è ancora una
società scientifica, ma un
forum, cioè un modello di
aggregazione di medici che
si occupano di medicina
riabilitativa nei Paesi
bagnati dal Mediterraneo.
Da circa vent’anni il Forum
ha costruito e consolidato
rapporti di collaborazione e
di scambi culturali coordinati dalle singole società
scientifiche nazionali. I
congressi sono organizzati
con cadenza biennale.
L’Italia ha sempre contributo alla realizzazione degli
eventi scientifici promossi
dal Forum, infatti già nel
2002 è stato organizzato un
primo
congresso
a
Siracusa. A distanza di
dieci anni, con il congresso
di Sorrento si vuole imprimere un ulteriore slancio
alle iniziative scientifiche
di questa realtà, puntando
soprattutto sulla partecipazione dei giovani.
Quali sono le caratteristiche più significative della
medicina fisica e riabilitativa nei paesi mediterranei?
La riabilitazione è ormai
diventato un bagaglio culturale di tutte le nazioni
occidentali. Nei paesi in via
di sviluppo il ricorso alla
riabilitazione non è sempre
possibile perché spesso le
prestazioni sanitarie mediche in generale non sono
adeguate ai reali bisogni
della popolazione.
Confrontare i livelli organizzativi tra i vari sistemi
sanitari consente a tutti di
fare tesoro delle esperienze
positive e di correggere
eventuali comportamenti
non appropriati. Le caratteristiche della riabilitazione
nei vari paesi sono legate
alle differenze epidemiologiche delle malattie che
affliggono le popolazioni,
che nel bacino del
Mediterraneo sono abbastanza diversificate. Un
esempio è dato dal reiterarsi di conflitti bellici in alcuni paesi e il conseguente
aumento del numero di
persone che subiscono
danni irreversibili che
determinano disabilità croniche non modificabili,
come amputazioni di arto e
ferite con perdita di sostanza.
Peraltro vi sono disabilità
molto frequenti e comuni
tra i vari paesi, secondarie a
danno neurologico come le
paralisi cerebrali infantili
nel bambino, lo stroke e i
traumi cranio encefalici
nell’adulto. Anche le malattie muscolo-scheletriche,
che limitano la partecipazione alle attività lavorative
sono oggetto di particolare
attenzione.
Qual è lo stato della formazione e della ricerca nei
paesi Mediterranei?
La formazione ha modalità
differenti tra le varie nazioni; le scuole, spesso inadeguate, hanno bisogno di un
supporto da parte delle
nazioni meglio organizzate
e anche in questo caso
l’Italia insieme ad altre
nazioni europee ha dato e
dà un contributo valido
tramite le università e altri
enti di formazione.
Da diversi anni è stata istituita a Siracusa la Haim
ring Euro-Mediterranean
Summer School, dove per
una settimana, di solito nel
mese di ottobre, 40 giovani
specializzandi in medicina
fisica e riabilitativa dell’area
del Mediterraneo seguono
un corso monotematico in
lingua inglese su argomenti
clinici attuali, tenuto da
docenti italiani e stranieri.
Al congresso di Sorrento è
prevista una sessione dedicata alle relazioni di ex
allievi che negli anni scorsi
hanno frequentato la scuola e che oggi, anche grazie a
quegli
insegnamenti,
hanno le capacità scientifiche per poter preparare e
presentare una ricerca.
La ricerca clinica in riabilitazione ha avuto un incremento notevole in questi
ultimi anni e l’acquisizione
di tecnologie innovative ha
consentito di effettuare
numerosi studi di qualità in
vari ambiti della riabilitazione in tutte le nazioni che
fanno parte del Forum.
Quali sono le tematiche
principali del congresso
nazionale Simfer e in che
ottica si è scelto di affrontarle?
Il congresso è stato organizzato a topic. Ogni topic
è affrontato con una o più
relazioni introduttive che
fanno il punto sullo stato
dell’arte in ambito scientifico sull’argomento trattato.
A seguire vengono presentati tutti i contributi inviati
dai partecipanti al congresso. Il comitato scientifico
ha selezionato oltre 500
abstract per essere presentati come comunicazioni
orali o poster nei quattro
giorni di congresso in tre
sale che lavorano in contemporanea.
Una delle sessioni è dedicata alla disabilità secondaria
all’osteoporosi e alle fratture correlate, che rappresenta un argomento d’interesse
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emergente in ambito riabilitativo, in considerazione
del numero sempre maggiore di persone che è affetto da questa malattia e ne
subisce le conseguenze.
Le altre sessioni affrontano
quasi tutte le problematiche
di interesse scientifico in
ambito riabilitativo.
Inoltre vi sono tavole
rotonde con le associazioni
dei malati, con i rappresentanti degli Irccs e di istituzioni pubbliche e private
che discutono con tutte le
categorie dei medici degli
aspetti organizzativi della
riabilitazione in Italia,
anche alla luce del nuovo
piano di indirizzo sulla riabilitazione.
Ci può segnalare alcune
delle sessioni più interessanti?
Come già detto, i lavori
scientifici vengono presentati in tre aule. La domenica pomeriggio si tiene la
sessione degli specializzandi e, a seguire, la sessione
dedicata alla Summer
Scool di Siracusa e ad una
scuola
di
analoga
Marsiglia, dove i relatori
sono ex allievi delle stesse.
La cerimonia inaugurale si
svolge nel pomeriggio di
domenica 21 ottobre e la
lettura introduttiva è tenuta dal professor Luigi
Tesio sulle prospettive
future della medicina riabilitativa.
Ampio spazio è dato alle
disabilità secondarie a
malattie neurologiche tra
le quali lo stroke, le gravi
celebrolesioni acquisite, le
malattie degenerative del
sistema nervoso centrale,
le malattie del secondo
neurone e neuromuscolari
e i disturbi neuropsicologici. Le ultime ricerche sulla
robotica sono oggetto di
un ampio dibattito nelle
varie sessioni del congresso. Vi sono sessioni dedicate anche alle disabilità
che colpiscono le persone
con patologie muscoloscheletriche e una dedicata
alla riabilitazione in ambito sportivo. Particolare
attenzione è stata data alle
sessioni dedicate alle disabilità viscerali, prima fra
tutte quelle cardio-polmonari, dove l’approccio riabilitativo sul piano organizzativo in Italia rispetto
alle altre nazioni è, a
nostro parere erroneamente, più indirizzato all’organo che non alla persona,
come invece richiede un
moderno approccio bio
FACTS&NEWS
psico-sociale proprio della
moderna fisiatria, anche
alla luce dei contenuti
dell’ICF e come richiamato
in modo forte dal nuovo
piano d’indirizzo per la
riabilitazione.
Infine, voglio segnalare
che quasi tutte le sezioni
della Simfer hanno contribuito a inviare validi contributi scientifici che costituiscono l’oggetto di numerose relazioni, come si
evince dal programma del
congresso.
Tra i relatori ci sono presenze significative che
vuole segnalare?
Ci sono molte presenze
significative, ma non
voglio segnalare nessuno
perché finirei per dimenticare qualcuno.
Voglio precisare che non ci
sono stati inviti a presentare relazioni, se non in
pochi casi nei quali era
necessario avere persone
esperte in ambiti non riabilitativi che portassero un
contributo significativo,
come nel caso della professoressa Anna Maria
Colao, che presenterà una
lettura in una delle nelle
sessioni sull’osteoporosi.
C’è anche un contributo
del professor Hans Georg
Kress, presidente della
Federazione europea del
dolore, che presenterà una
relazione introduttiva sui
meccanismi che scatenano
il dolore e su come oggi i
farmaci agiscono per controllarlo senza grossi danni
per l’organismo e con scarsi effetti collaterali.
Un contributo scientifico
significativo al congresso è
venuto da numerosissimi
fisiatri italiani e stranieri
che con professionalità
svolgono quotidianamente
il loro lavoro; inoltre devo
segnalare anche l’apporto
valido dato dalle scuole di
specializzazione universitarie, che hanno portato
contributi qualitativamente e quantitativamente
importanti.
Infine, ci può sintetizzare
quali sono gli obiettivi
principali per questo congresso?
Gli obiettivi sono di far
incontrare, discutere e
scambiare opinioni in un
campo come quello della
riabilitazione, che negli
ultimi anni ha fatto molti
passi avanti nella ricerca,
ma che ancora dovrà studiare e creare nuove procedure, modalità e strategie
affinché le persone con
disabilità possano essere in
grado di riprendere una
vita di relazione e partecipativa normale.
Ci auguriamo quindi che
l’evento rappresenti realmente un momento di crescita culturale e di scambio
internazionale, elemento
che ritengo essenziale per il
successo di tali manifestazioni.
Il prossimo anno ad
Alessandria d’Egitto si
terrà il decimo congresso
del mediterraneo e a Roma
il quarantunesimo congresso della Simfer per continuare questo percorso
scientifico, di cui c’è sempre
più bisogno.
Renato Torlaschi
A ROMA LA PROSSIMA EDIZIONE DEL CONGRESSO SIMFER
La prossima edizione del congresso della Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer) si terrà a
Roma, presso il Polo didattico “Giovanni XXIII”
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, da domenica
13 a mercoledì 16 ottobre 2013 e affronterà il tema della
ricerca.
Il titolo è “La ricerca in medicina riabilitativa per una
scienza del recupero” e a presiedere l’evento saranno il
dottor Fabio De Santis, responsabile delle attività sanitarie e socio-educative della Fondazione Don Carlo
Gnocchi onlus per il polo Lazio-Campania Nord e
Giuseppe Palieri, direttore del dipartimento di medicina
fisica e riabilitativa presso l’Ospedale S. Giovanni
Battista Acismom di Roma.
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FACTS&NEWS
La nuova visione della
medicina riabilitativa
Obiettivo dichiarato della Simfer è la diffusione della visione della
disciplina individuata dal Piano di indirizzo per la riabilitazione
elaborato dal ministero della Salute e dalla stessa società scientifica
Alla vigilia della quarantesima edizione del congresso della
Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer),
cogliamo l’occasione per discutere con il presidente,
Vincenzo Maria Saraceni, dello stato attuale di una disciplina medica del tutto particolare. Le differenze si esprimono
nell’attività clinica, nella ricerca, nella valutazione dei risultati e soprattutto nel rapporto con il paziente.
Il ruolo di presidente Simfer offre un punto di osservazione
privilegiato e la responsabilità di affermare e diffondere un
approccio terapeutico che reclama un pieno riconoscimento e che ha molto da insegnare anche a tutti i medici, qualunque sia la loro specializzazione.
Professor Saraceni, quali
obiettivi si era proposto
all’inizio del suo mandato
e qual è il bilancio di questi primi mesi di presidenza?
È naturalmente presto per
fare bilanci e credo che non
spetti neanche a me farli.
Voglio dire, però, che, al
momento dell’insediamento ho trovato quel documento straordinario, costituito dal Piano di indirizzo
per la riabilitazione, che il
ministero aveva approvato
pochi mesi prima con il
contributo
significativo
offerto anche dalla nostra
società scientifica. In questo senso, l’impegno assunto da subito è stato quello
di far diventare il piano il
fondamento culturale unificante per quanti si occupano, a vario titolo, di riabilitazione. E, su questo,
non sono mancate le occasioni, in Italia e all’estero
(come nel recente congresso europeo di Salonicco) in
cui abbiamo chiamato tutti
a una riflessione sui contenuti del piano.
Per semplificare: passaggio
dal modello di malattia al
modello di salute, il progetto riabilitativo individuale
quale strumento fondamentale per disegnare la
risposta al bisogno del
paziente nell’intero percorso dall’ospedale al domicilio, il dipartimento riabilitativo per rendere appropriato il percorso di cui
sopra, il lavoro in team
multidisciplinare. Ecco, a
partire dalla accettazione di
questi elementi diventa
facile, oggi, identificare
quali sono gli attori che
vogliono e debbono stare
dentro il mondo della riabilitazione. Ho messo mano
alla diffusione di questa
visione e rimane l’obiettivo
di fondo dell’intero triennio.
Una recente iniziativa è il
forum frutto della collaborazione tra Simfer e
Corriere
della
Sera.
Quanto conta la comunicazione con il pubblico?
La collaborazione con il
Corriere della Sera online,
iniziata ormai da circa cinque mesi, è nata da un progetto di comunicazione
portato avanti dalla Simfer
che si avvale della collaborazione di un proprio
addetto stampa e che prevede, tra i diversi punti, la
maggiore interazione tra gli
specialisti di medicina fisica e riabilitativa con i cittadini.
Il forum di discussione del
Corriere della Sera ci è sembrata un’importante opportunità, un canale privilegiato attraverso il quale il cittadino può esprimere i propri dubbi, perplessità,
richiedere pareri rispetto
alle tematiche riabilitative,
un complemento a quella
che poi sarà la vera e propria attività pratica a cui il
paziente si dovrà sottoporre e che chiaramente non
vuole essere nel modo più
assoluto sostitutiva.
Questa iniziativa può
essere letta come il segno
di un’attenzione particolare con i media?
I media sono strumenti
importanti nella comunicazione sociale e con il pubblico, offrono l’opportunità
di interagire direttamente
con gli utenti finali in particolare per una corretta
educazione sanitaria e,
soprattutto nel caso di
tematiche medico-scientifi-
che, riescono a dare la possibilità di creare un filo
diretto e immediato con il
cittadino.
Più che di attenzione particolare si deve parlare di
reciproca collaborazione
per diffondere messaggi di
utilità sociale.
Come è cambiato nel
corso degli anni il ruolo
dell’esperto in medicina
fisica e riabilitazione e
come si prospetta il futuro? C’è un problema di
riconoscimento e di valorizzazione di questo
ruolo?
Lo specialista in medicina
fisica e riabilitazione, per
noi, più semplicemente, il
fisiatra, è uno specialista
che differenzia in modo
radicale dagli altri perché
non è chiamato a fare diagnosi di malattie ma a trovare metodologie adeguate
per il recupero delle condizioni di disabilità conseguenti alle malattie. Inoltre
il fisiatra deve farsi carico
del bisogno complessivo
della persona con disabilità
che, con tutta evidenza, va
oltre la sua patologia e
investe la prospettiva di
autorealizzazione e di partecipazione piena alla vita
sociale. Ecco perché la
demarcazione con le altre
specializzazioni è netta e
non consente confusioni,
neanche terminologiche.
Questo non significa che
altri specialisti non si pos-
sano occupare di riabilitazione, significa solo che
devono smettere di fare il
loro mestiere abituale e
dedicarsi a un’altra visione.
Esistono ancora difficoltà
alla diffusione e accettazione di questa impostazione
ma rispetto a venti o anche
dieci anni fa sono stati conseguiti
riconoscimenti
importanti e sono fiducioso
per il futuro, non per la
disciplina che rappresento
perché sarebbe un’aspettativa di categoria, ma per il
mondo della disabilità, che
solo in questo modo potrà
avere risposte sempre qualificate e uscire da condizioni di isolamento culturale e sociale che sono
ancora presenti.
Quali sono le particolarità
e le difficoltà di una ricerca scientifica nella riabilitazione e qual è lo stato
della ricerca in questo
ambito?
Quello che si è detto sulla
specificità della specializzazione in Medicina fisica e
riabilitazione ha ricadute
sulla ricerca in riabilitazione. La nostra ricerca non è
su parametri biologici
(penso all’effetto dei farmaci su glicemia o pressione
arteriosa) ma su comportamenti dell’uomo, quali la
capacità di muoversi per
esplorare e dare significato
al mondo o il parlare quale
strumento decisivo per la
relazione interpersonale.
IL FORUM SU CORRIERE.IT
Un team della Simfer da qualche mese risponde alle
domande dei lettori del sito web del Corriere della
Sera attraverso il forum
http://forum.corriere.it/forum-riabilitazione.
Nella foto, gli esperti che rispondono al forum: da sinistra
Saraceni, Fletzer, Giustini, Gimigliano, Iocco, Zampolini,
Rovere e Uliano
Vincenzo Maria Saraceni, presidente Simfer
>
Quindi dobbiamo avere
strumenti di valutazione
dell’efficacia dei nostri
interventi di riabilitazione
specifici e diversi da quelli
della medicina biologica.
Oggi la medicina vuole,
giustamente, l’evidenza e
noi stiamo cercando un’evidenza che sia solo riabilitativa.
Devo dire che rispetto ad
alcuni anni fa la qualità e
quantità della ricerca riabilitativa è considerevolmente cresciuta. Sarà sufficiente
dire che la European journal of physical and rehabilitation medicine (Ejmpr), la
rivista internazionale promossa dalla Simfer, riceve
circa trenta lavori alla settimana e ha raggiunto un
impact factor di circa due
in pochi anni.
Recentemente a Salonicco
si è discusso sui modelli
organizzativi della riabilitazione in Europa. Ce ne
può parlare?
In questi anni in molti
paesi europei la riabilitazione ha avuto un rapido e
unitario sviluppo, pur con
le ovvie diversità economico-culturali e storiche
rispetto ai sistemi sanitari e
socio-assistenziali. Questo
è avvenuto perché le evidenze culturali e scientifiche, le attese sociali ed epidemiologiche delle popolazioni, i dati emergenti dalle
esperienze organizzative e
gestionali provenienti da
altri Paesi più avanzati
come Stati Uniti, Canada e
Australia, concordemente
danno forza alla costruzione di una vera e propria
“scienza” unitaria e organica, con proprie metodologie, propri strumenti e propri obiettivi.
In questi ultimi anni, inoltre, i documenti prodotti
dalle
Nazioni
Unite,
dall’Organizzazione mondiale per la sanità, dalla
Banca mondiale per lo sviluppo e dall'Unione europea hanno confermato l'urgenza di dare alle attività
della riabilitazione una
posizione sempre più centrale in tutte le politiche
per la difesa della salute per
tutte le persone in ogni
condizione di età o di
malattia. Il modello orga-
nizzativo necessariamente
è quindi quello bio-psicosociale, che vede la riabilitazione come strumento di
prevenzione, di difesa e di
recupero delle condizioni
complessive di partecipazione e salute per tutte le
Persone, e di contrasto alla
disabilità di ogni natura.
Gli elementi determinanti
di questa nuova "vision"
della riabilitazione sono da
un lato la unitarietà e globalità delle presa in cura
della persona, con tutta la
sua complessità e le sue
potenzialità, nel proprio
contesto di vita sociale
familiare, e la coerenza e
continuità pur nella articolazione degli interventi,
evitando quindi, prima di
tutto, la frammentazione
che la tradizionale impostazione centrata sulle
patologie rischia di provocare.
Come si inserisce il Piano
nazionale italiano nell’ambito della situazione
europea?
Il confronto con i rappresentanti degli altri paesi
europei (dai Paesi Bassi alla
Germania, dalla Francia
alla Svezia a tanti altri) ha
sottolineato, oltre alla completezza delle indicazioni
contenute nel Piano italiano, la sua validità, in particolare in un momento in
cui tutti siamo orientati a
verificare con estrema
attenzione la validità della
allocazione di ogni risorsa
rispetto ai risultati ottenuti.
Questo confronto proseguirà nei prossimi mesi
grazie ad alcune iniziative
scientifiche della Simfer,
non tanto per far conoscere
ancora meglio il Piano
quanto per utilizzare gli
approfondimenti e le riflessioni dei colleghi, portatori
di tante esperienze diverse,
allo scopo di arricchirlo
sempre di più e meglio, nell’applicazione concreta che
per fortuna con celerità il
ministero e le regioni stanno realizzando, e per farlo
diventare magari la traccia
per uno sviluppo unitario
delle linee guida organizzative della riabilitazione a
livello europeo.
Renato Torlaschi
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FOCUS ON
6
Perché scegliere
di fare il fisiatra?
La fisiatria è una disciplina della funzione e non dell'organo, ad approccio
olistico e non iperspecialistico. Dal punto di vista lavorativo offre buone
prospettive e può essere interpretata secondo le inclinazioni individuali
Lo specialista di medicina fisica e riabilitativa è una figura
particolare nell’ambito della scienza medica, estremamente
attuale nel suo approccio complessivo alla persona. Al
medico che intende affrontare questa professione si richiedono attitudine e impegno che verranno ripagati da una
quotidianità che può essere molto ricca dal punto di vista
clinico, scientifico e umano.
Per dare un’occhiata un po’ più da vicino all’attività del fisiatra, Tabloid di Ortopedia ha intervistato Bruna Lombardi,
Direttore della UO di recupero e rieducazione funzionale
dell’Azienda Usl 4 di Prato. Specialista in medicina fisica e
riabilitativa, in geriatria e in igiene e medicina preventiva, la
dottoressa Lombardi ha partecipato per la regione Toscana
ai lavori della commissione del ministero della Salute sugli
stati vegetativi e al gruppo di lavoro regionale sulle Gcla
(grave cerebro-lesione acquisita) ed è segretario della
sezione Toscana della Simfer.
Dottoressa Lombardi, la
pratica della medicina è
ormai divenuta parcellizzata in specializzazioni e
iperspecializzazioni, qual è
allora il senso di scegliere
una specializzazione olistica?
Fra tante discipline che
mirano a salvare la vita, la
fisiatria è medicina globale
per la qualità della vita,
quindi il fisiatra è il miglior
alleato dei colleghi della fase
acuta, perché trova la sua
ragion d’essere nel completare e ottimizzare il lavoro iniziato da altri ricercando
positive sinergie.
Se un giovane medico crede
in questo, e vede la qualità di
vita come valore fondamentale per l’uomo, allora può
trovare casa in fisiatria.
Ci può spiegare su quali
problematiche opera il
fisiatra e come si svolge
concretamente la sua attività?
Il fisiatra è lo specialista in
medicina fisica e riabilitativa. Ha esperienza nel trattamento della disabilità generata da diverse noxae patogene. Tratta l’acuzie, la cronicità e le limitazioni accentuate dal dolore. Si occupa di
patologia neuromuscolare,
osteoarticolare, di problematiche cognitivo-relazionali e
psicologiche.
Interviene
secondo principi di biomeccanica e di ergonomia.
Pratica una disciplina di area
medica e ha conoscenze in
ambito internistico, cardiorespiratorio,
vascolare,
metabolico-nutrizionale,
nefro-urologico,
sempre
facendo riferimento ai consulenti d’organo.
Il suo lavoro mira a restituire
partecipazione e autonomia
sia nell’ambiente fisico che
familiare, lavorativo-scolastico e socio-relazionale.
Lavora quindi con la famiglia per renderla partecipe
del progetto riabilitativo
individuale. Lavora con le
aziende per favorire il reintegro lavorativo, collabora con
i medici competenti aziendali, con i medici del lavoro e
i medici legali per ottenere la
miglior partecipazione possibile anche attraverso i percorsi legislativi esistenti.
Opera in team interprofessionale e interdisciplinare
realizzando il progetto riabilitativo individuale che coordina (vedi Linee di indirizzo
per la riabilitazione – ministero della Salute 2011). Il
team riabilitativo è lo strumento di governance clinico-riabilitativa.
C’è spazio, fra tante discipline d’organo, per una
disciplina della funzione?
In una società in cui la prevalenza della disabilità è pari
al 10%, in cui la cronicità e la
comorbidità rappresentano
un carico assistenziale e
socio-economico sempre
meno sostenibile, si creano i
presupposti per pensare a
interventi sulla persona che
abbiano un significato preventivo della disabilità.
Quando la disabilità si manifesta in giovane età, o addirittura nell’infanzia, ecco che
la riabilitazione si arricchisce
di significati più propriamente abilitativi, volti a creare quel patrimonio di esperienze somato-sensoriali che
si legano a un corretto sviluppo somato-psichico.
Come è cambiata negli anni
la professione del fisiatra?
La medicina fisica e riabilitativa è nata circa 90 anni fa
negli Stati Uniti. Nel periodo
successivo alla seconda
guerra mondiale e con la
Guerra di Corea e del
Vietnam, gli interventi riabilitativi sui Veterans hanno
contribuito alla crescita di
questa disciplina. In Europa
e in Italia ha iniziato a essere
praticata
negli
anni
Cinquanta. Quindi è una
disciplina giovane. Ritenuta
importante nel mondo
anglosassone, oggi si sta
affermando nel bacino del
Mediterraneo.
La Società italiana di medicina fisica e riabilitativa
(Simfer), la European society of physical and rehabilitation medicine (Esprm), il
Mediterraneam forum of
physical and rehabilitation
medicine (Mfprm) e la
International society of physical and rehabilitation
mMedicine (Isprm) rappresentano oggi le più importanti comunità scientifiche
in questo ambito.
Questa disciplina si è arricchita negli ultimi anni con lo
sviluppo di filoni di ricerca e
di nuove possibilità derivanti dall’impiego di nuove tecnologie adattative e quindi
dalla possibilità di collaborazione con la bio-engineering, per la ricerca di materiali leggeri e performanti,
per ricevere ed elaborare dati
a scopo di ricerca, per creare
ambienti di lavoro virtuali,
per strutturare esoscheletri
di sostegno e movimento,
per favorire la comunicazione, per adattare la tecnologia
for all ai bisogni dei disabili,
con minor impegno di spesa
e maggior possibilità di
accettazione di uno strumento o ausilio.
Il fisiatra può dunque essere
il medico della disabilità
capace di porre in essere “l’insieme di interventi che mirano
allo sviluppo di una persona,
al suo più alto potenziale sotto
il profilo fisico, psicologico,
sociale, occupazionale ed educativo, in relazione al suo deficit fisiologico o anatomico e
all’ambiente” (Who - World
health organization).
In quali strutture si svolge
tipicamente il lavoro di
fisiatra?
La professione di fisiatra può
essere praticata sia in ambito
pubblico, che privato. Può
offrire anch’essa la possibilità
di iperspecializzazione, sia
>
mediante l’utilizzo di mezzi
fisici, in ambito interventistico, nell’alta specialità riabilitativa, nel recupero dello
sportivo, anche e soprattutto
nella preparazione dello
sportivo con abilità diverse.
Si può svolgere in vari setting: negli ospedali, in ambito distrettuale-territoriale,
nel settore extraospedaliero,
nelle strutture residenziali e
di lunga assistenza.
Si tratta quindi di una professione dinamica, che ha
molte dimensioni e che spazia su orizzonti ampi, mai
completamente riproducibili, perché dovuti a problematiche individuali, ma anche
doverosamente legati a criteri di accesso alle prestazioni,
per garantire equità ai cittadini nell’ambito dei Livelli
essenziali di assistenza (Lea)
nazionali e regionali.
In conclusione, perché un
giovane medico dovrebbe
scegliere di divenire fisiatra?
Bruna Lombardi
Perché è una disciplina giovane, con prospettive, dinamica, che offre la possibilità
di essere interpretata in vari
ambiti, secondo le proprie
inclinazioni. È dunque una
scelta fattibile e possibile, ma
a certe condizioni.
È fattibile, purché si comprenda che per praticarla
occorrono solide e approfondite conoscenze mediche,
volontà di confronto continuo, capacità dialogiche e
voglia di credere in quello
che si fa, rinnovando la
scommessa ogni giorno. Ed
è possibile, se insieme all’impegno professionale si porge
un po’ di amore e un sorriso,
ricevendo spesso una stretta
di mano e un grazie.
Questi ingredienti sono
scritti nel progetto riabilitativo individuale con l’inchiostro simpatico e ad una
occhiata superficiale non si
vedono. Appaiono solo a
contatto con il “calore”… in
questo caso, “umano”!
Renato Torlaschi
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE
IN FISIATRIA IN ITALIA
Università degli Studi di Pisa
www.unipi.it
Università degli Studi “G. D'Annunzio” Chieti
www.unich.it
Università degli Studi di Catania
www.unict.it
Università degli Studi di Palermo
www.unipa.it
Università degli Studi di Bologna
www.unibo.it
Università degli Studi di Modena
www.unimo.it
Università degli Studi di Roma “Campus”
www.uniroma3.it
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
www.uniroma1.it
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
www.uniroma2.it
Università degli Studi di Bari
www.uniba.it
Università degli Studi di Messina
www.unime.it
Università degli Studi di Milano
www.unimi.it
Università degli Studi di Napoli
www.unina.it
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FOCUS ON
Tra bioetica e carrozzine
Il problema delle risorse
> Cesare Cerri è professore ordinario di medicina riabilitativa presso
l’Università Milano Bicocca, dove è
direttore della scuola di specializzazione in medicina riabilitativa e
presidente del corso di laurea in
fisioterapia. I suoi interessi di ricerca si estendono fino ai problemi
etici ed epistemologici legati alla
riabilitazione.
Quando la semplice prescrizione di ausili al paziente crea
un dilemma etico-professionale. In un contesto di risorse limitate
il problema si pone con maggior forza e con più frequenza
problemi etici che si presentano nel contesto dell’attività riabilitativa sembrano apparentemente di
minor importanza rispetto ai
temi forti della bioetica
(aborto, eutanasia ecc.), ma
anch’essi sono rilevanti, e
soprattutto sempre più frequenti, fino a coinvolgere
attività
apparentemente
banali dal punto di vista
morale quali la prescrizione
di ausili. Per questo può essere utile una riflessione generale su quali siano i criteri
che vengono proposti per
“risolvere” le situazioni che si
incontrano sul versante bioetico e sulla loro applicabilità
nel contesto specifico della
riabilitazione.
I
L’assenza totale
di un riferimento etico
La prima osservazione è di
natura epistemologica: in una
società che sta perdendo, se
non addirittura ha già perso,
il senso della trascendenza e
la propria identità culturale
avviandosi a un relativismo
multiculturale, la mancanza
di una visione etica univoca,
da tutti condivisa, rende difficile trovare dei criteri per
affrontare i problemi etici.
Più a fondo, l’assenza di un
riferimento metafisico che
garantisca l’esistenza della
differenza essenziale fra quel
che è moralmente buono e
ciò che non lo è, senza zone
indefinite poste fra i due
estremi, rende difficile contestare affermazioni quali quella
dell’antropologo
W
Summer (1) quando scrisse
che «le usanze possono rendere giusta qualsiasi cosa». In
effetti già alcuni dei problemi
bioetici riguardanti la vita
sono stati affrontati attraverso un meccanismo che S. Jaki
(2) chiama “trasformazione
della moralità in un sondaggio di opinione”, che è in fase
di estensione anche a problemi riguardanti la disabilità.
Clamoroso in questo senso è
il caso della selezione
embrionale o in utero proposta nei confronti delle presone che potrebbero divenire
disabili: fino ad oltre metà del
secolo scorso una tale proposta sarebbe stata considerata
eticamente improponibile.
Questo tipo di approccio,
che potrebbe esser definito
pragmatico, contiene in sé lo
sviluppo della violenza
verso chi non ha una identità etica forte o più in genere
contro chi ha una posizione
minoritaria; si veda a questo
proposito le proposte di
abolire
l’obiezione
di
coscienza nei confronti di
procedure o terapie eticamente non condivisibili da
parte dell’obiettore.
L’assenza di un riferimento
etico che venga percepito
come assoluto e non modificabile dall’uomo perché dato
da un altro (natura, Dio,
legge del cosmo) porta alla
necessità di stabilire dei cri-
teri definiti dagli esseri
umani. Ma, proprio perché
definiti dall’uomo, questi criteri possono essere modificati in tempi successivi alla loro
esposizione e quindi mancano della caratteristica fondamentale di un criterio etico,
cioè la stabilità della differenza fra bene e male. Questo fa
sì che la soluzione dei problemi bioetici venga affidata a
dei formalismi in accordo
con l’approccio culturale del
“politically correct” che, per
sua natura, non può considerare tutti i fattori in gioco, ma
necessariamente ne deve
censurare alcuni per arrivare
a definire una sorta di minimo comun denominatore
morale, cui peraltro tutti
sono obbligati a conformarsi,
pena severe sanzioni.
Dall'etica al rapporto
costo/beneficio
La risposta alla situazione
eticamente dubbia è, in questo contesto, derivabile dall’applicazione a formalismi di
tipo simil matematico (ad
esempio l’analisi costi/benefici con l’uso di alberi decisionali) dei parametri derivanti dal modello usato.
Attualmente i modelli di
risoluzione dei problemi
bioetici si possono suddividere in alcune categorie principali: ad esempio l’utilitarismo o la sua variante consequenzialismo, che considera
come criterio il risultato delle
azioni, la deontologia che
utilizza i doveri, l’etica della
virtù che considera le intenzioni e il cosiddetto principialismo che si basa sul
rispetto di alcuni principi
fondamentali.
Particolarmente diffusa la
posizione
principialista
(Rudnik) (3) basata sui quattro criteri: rispetto dell’autonomia, beneficenza, non
maleficenza ed equità. In
Italia il primo principio è
spesso alla base di decisioni
giudiziarie in cui si afferma il
valore assoluto delle “libertà
di cura”, peraltro quasi sempre a prescindere dagli altri
tre principi, specialmente
l’equità dell’allocazione risorse. Mentre l’enunciazione dei
principi può essere facilmente condivisibile, la loro applicazione pratica pone dei problemi soprattutto se si agisce
in un contesto relativistico
così come proposto da Tribe
(4): «gli assoluti stessi possono essere contingenti; essi
infatti nascono da particolari
contesti sociali, da problemi
e da preoccupazioni che
cambiano col cambiare della
società».
Gli esempi in riabilitazione
Possiamo esemplificare con
una situazione abbastanza
comune in riabilitazione: la
persona che desidera rimanere ricoverata più a lungo di
quanto l’equipe riabilitativa
consideri necessario. Il principio dell’autodeterminazione verrebbe soddisfatto se si
acconsentisse alla richiesta,
ma verrebbe leso quello dell’equità nella attuale situazione di allocazione di risorse
limitate. Solo una decina di
anni fa, la violazione non
sarebbe stata percepita.
Sempre utilizzando l’esempio
è possibile considerare un
altro contrasto legato al
primo principio: la persona
che vorrebbe rientrare a casa,
ma non ha il livello di autonomia sufficiente a consentirle l’indipendenza da altri.
La situazione in realtà si
compone di vari contrasti:
uno fra l’autodecisione
(libertà di scelta) della persona e quella dei familiari, che
potrebbero non essere disposti a fornire l’assistenza
necessaria; un altro sempre
fra la scelta della persona e il
principio di non maleficenza
percepito dal medico, che
ritiene il ritorno a casa precoce di nocumento alla possibilità di riabilitarsi efficacemente; un altro ancora
potrebbe essere generato fra
la volontà della persona e l’allocazione di risorse (sia in
termini di personale di supporto sia in termini di ausili
ad elevato costo) necessarie a
garantire il prosieguo della
cura a domicilio che verrebbero sottratte ad altre persone in grado di usufruirne.
Il problema delle risorse
Quest’ultima considerazione
evidenzia un problema
molto frequente, anche se
tenuto sottotraccia, in riabilitazione: i conflitti coinvolgenti il principio di eguaglianza. A monte vi è il problema etico dell’allocazione
delle risorse (quante alla pre-
8
venzione? quante al pronto
soccorso? Quante all’unità
stroke? al postoperatorio chirurgico ortopedico? all’assistenza domiciliare?), a valle i
criteri con cui si può definire
equa una particolare allocazione. Va utilizzato il criterio
della gravità della situazione
clinica (più grave, più risorse), quello della probabilità
di riuscita (più elevata la probabilità di prognosi favorevole, più risorse investibili) o
quello della durata probabile
della vita residua (più lunga,
più risorse), magari ricorrendo all’aggiustamento per la
qualità della vita residua?
Molti bioeticisti sostengono
che questa scelta debba essere determinata dal dibattito
pubblico «radicando l’etica
nel reame della politica in
senso lato» (Rudnick) realizzando quello che Jaki ironicamente definisce l’assumere
modelli statistici di comportamento come norme etiche.
Di fatto il processo di affidare alla scelta politica/amministrativa il criterio decisionale è già presente nella
nostra attività quotidiana in
riabilitazione: prendiamo
l’esempio apparentemente
banale della prescrizione di
un ausilio per la mobilità. Il
criterio con cui proponiamo
di utilizzare una protesi piuttosto che una carrozzina di
che cosa tiene conto se non
di un insieme di fattori fra i
quali gli aspetti legati alla
presenza o meno dell’ausilio
nel nomenclatore tariffario
non giocano certo un ruolo
secondario.
Sempre utilizzando questo
esempio si potrebbe evidenziare l’intrecciarsi del principio di non maleficenza (ad
esempio alterazioni del moncone causate dall’invaso) con
l’autodeterminazione data
dalla preferenza della persona assistita per una soluzione
diversa da quella ritenuta
ottimale dal prescrittore
(principio di beneficenza) il
tutto nel contesto della valutazione dei costi (tipo di
invaso, percorso da provvisoria e definitiva, accessori e
tipo di carrozzina) anche in
funzione del budget a disposizione per l’intera popolazione assistita. Già alcune
unità sanitarie hanno concordato con i prescrittori di
ausili la disponibilità un budget annuale fisso: questo
comporta necessariamente la
forte spinta verso l’utilizzo di
una modalità decisionale che
consideri come predominante il principio di equa distribuzione delle risorse. Come
può però concretamente
essere
applicato?
Sostanzialmente vi sono due
estremi: dare il minimo a
tutti oppure fissare una
soglia al di sotto della quale
nulla viene prescritto, in
modo da dare di più a chi si
trova sopra la soglia. Nel
primo caso il rischio è di fornire una risposta al bisogno
incompleta o sub-ottimale a
tutti, nel secondo il risultato
è quello di non rispondere ai
bisogni che vengono definiti
moderati, lievi o minimi.
Chiaramente non esiste una
risposta “tecnica” alla questione e quindi essa viene in
concreto lasciata alla decisione personale degli operatori
o alla politica. Il che fa sì che
sia possibile una modificazione dei criteri nel corso del
tempo di modo che due persone con situazioni sovrapponibili giunte in tempi
diversi possano ottenere differenti risposte al proprio
identico bisogno. Il tutto con
giustificazioni etiche che
potrebbero perfino essere in
contrapposizione fra di loro
a seconda di come il sentire
comune si sia modificato nel
tempo, magari sotto la spinta
di gruppi di interesse politici
o economici.
In conclusione in assenza di
un’etica applicata alle questioni della vita (bioetica) basata
su principi non modificabili e
la cui razionalità sia definita
indipendentemente dal consenso di una maggioranza
diviene inevitabile cadere in
una pseudo etica, cioè in
qualche cosa che, come tutti i
falsi, è priva dell’essenza di ciò
che pretende di essere.
Cesare Cerri
Bibliografia
1. Summer WG. Folkways
1906 New York rst Dover
1959, pag. 521.
2. Jaki SL Fondamenti etici
della bioetica. Ed. Fede e
Cultura, Verona 2012.
3. Rudnik A. A meta-ethical
critique of care ethics. Teoret
Med Bioet 2001; 22, 505-51.
4. Tribe S. The america journal of jurisprudence 1993; 38;
135-57.
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FOCUS ON
10
Evidence based medicine
alla prova dell’etica
Dottor Iovine, ci può introdurre all’Evidence based
medicine?
L’Ebm nasce ufficialmente
nel 1992 con un famoso articolo pubblicato su Jama (1)
e, per definizione, consiste
nel consapevole, esplicito e
ragionevole uso delle migliori prove di efficacia esistenti
nelle decisioni che riguardano la cura del singolo paziente.
L’applicazione pratica del
principio prevede l’integrazione dell'esperienza clinica
con la migliore letteratura
scientifica disponibile.
La medicina basata sulle evidenze, quindi, si pone l’obiettivo di proporre al paziente il
trattamento più adeguato alle
sue necessità indipendentemente da considerazioni
economiche. In questo la
Ebm entra in contrasto con
la medicina basata sul costobeneficio, sulla quale si fonda
invece la politica sanitaria
degli stati moderni. In realtà
il sottofondo etico della Ebm
si esprime nell’insistenza
sulla appropriatezza delle
pratiche mediche, in quanto
non è considerato etico un
trattamento superfluo, inutile o addirittura potenzialmente dannoso.
In medicina riabilitativa il
rapporto tra approccio basato sulle evidenze ed etica è
reso ancor più complesso
dalla considerazione che il
modello bio-medico non sia
l’unico possibile e altri ne
vengono proposti, come
quello psico-sociale e quello
pedagogico.
Ci propone un caso pratico
in cui l’applicazione della
Ebm può diventare problematica?
Immaginiamo uno scenario
in cui un collega si chiede
perché la sua richiesta di
acquistare un apparecchio
per Tecarterapia non viene
esaudita – in effetti la macchina costa poco, il trattamento è molto richiesto,
l’Azienda Usl potrebbe fare
un prezzo competitivo
rispetto al privato e quindi
ridurre anche il costo che
graverebbe sul cittadino; la
macchina si ammortizzerebbe nel giro di sei mesi, e così
via. La risposta dell’Azienda è
che il mancato acquisto è
legato alla politica di non fornire trattamenti fisioterapici
di cui non sia stata dimostrata l’efficacia: in questo modo
si salvaguarda un principio
generale ma contemporaneamente si “spinge” il paziente
verso il privato, con un
aumento degli oneri a suo
carico.
Questo è un tipico dilemma
etico: l’applicazione di un
principio generale assolutamente condivisibile provoca
un apparente danno economico al paziente. In effetti si
potrebbe ragionare sul fatto
che fornire un trattamento
non utile costituisce una perdita di tempo e un potenziale
maleficio per il paziente,
magari perché ne sposta l’attenzione e le risorse da trattamenti invece potenzialmente più utili.
Nello specifico ci viene in
aiuto il documento “Bioetica
e riabilitazione” (2): «ogni
intervento di riabilitazione,
prima di essere generalizzato,
deve passare al vaglio della
validazione scientifica» e
ancora non è etico «illudere
le persone o le famiglie, né
tanto meno chiedere loro il
pagamento di prestazioni la
cui efficacia non sia stata
provata».
Quello dell’esempio è un problema etico di quelli “semplici” e sembra abbastanza facile trovare la soluzione, ma
alcuni sono più complessi.
Ce ne fa un esempio?
Una quindicina di anni fa, il
lavoro di Wade (3) ha dimostrato che tutti i pazienti,
dopo un anno dall’ictus,
potevano migliorare la capacità di deambulazione con
un breve trattamento riabilitativo, ma che questo beneficio tende a scadere nel
tempo. Allora ci si chiede: è
etico proporre un trattamento riabilitativo che produce
un beneficio solo temporaneo? È un bene trattare l’emiplegico cronico ogni sei mesi
per fargli mantenere questo
risultato? Qui si entra in un
campo un po’ più delicato,
meno facile da risolvere.
È chiaro che noi dobbiamo
affrontare questi dilemmi
distinguendo bene quello
che è l’ambito della medicina
basata sulle evidenze (Ebm)
e quello inerente la medicina
basata sui costi-efficacia,
cioè una medicina che si
fonda su una filosofia utilitarista.
Come si riflettono queste
posizioni conflittuali nel
rapporto con i pazienti?
In un modello paternalistico
di medicina tutto sarebbe
più semplice: ci limiteremmo a decidere per il paziente
che cosa è meglio per lui,
sulla base della nostra interpretazione più o meno consapevole delle sue preferenze
o peggio ancora sulla base
del valore che noi diamo al
possibile
rapporto
rischio/beneficio del trattamento. Ad esempio far fare
una terapia medica a vita,
gravata di un rischio sia pure
minimo di effetti collaterali,
in vista di una probabilità di
beneficio di entità modesta.
Aderendo noi però a una
I PRIMI PASSI DELL’EBM
1830. Pierre Charles Alexandre Louis, a Parigi, era il promotore della “Médecine d'Observation”, un movimento secondo
cui i medici, piuttosto che affidarsi esclusivamente all'esperienza individuale oppure alle speculazioni sulle cause di
malattia, dovrebbero agire sulla base di ampie serie sperimentali, capaci di fornire una stima quantitativa degli effetti
terapeutici.
1972. Archibald Cochrane, un epidemiologo inglese, sosteneva che i risultati della ricerca avevano un impatto molto limitato sulla pratica clinica e in un libro che ha lasciato una traccia
profonda nella storia della medicina scriveva: «è causa di
grande preoccupazione constatare come la professione
medica non abbia saputo organizzare un sistema in grado di
rendere disponibili, e costantemente aggiornate, delle revisioni critiche sugli effetti dell'assistenza sanitaria». In altre parole
Cochrane, consapevole della limitatezza delle risorse economiche, suggeriva di rendere disponibili a tutti i pazienti solo gli
interventi sanitari di documentata efficacia.
1981. I ricercatori della McMaster Medical School (Canada)
pubblicano “How to read clinical journals”, una serie di articoli che descrive le strategie di approccio critico alla letteratura
biomedica. Questa serie, tradotta in sette lingue, è una delle
più ristampate nella storia della letteratura biomedica.
1986. L'attenzione di Sackett e coll. si sposta progressivamente da “come leggere la letteratura biomedica” a “come utilizzare la letteratura biomedica per risolvere i problemi clinici”.
1991. Nel fascicolo di marzo-aprile di ACP Journal Club compare il termine Evidence-based Medicine.
1992. Il 4 novembre viene pubblicato su JAMA l'articolo manifesto che presenta la Evidence-Based Medicine come “paradigma emergente per la pratica clinica”.
1993. Fondazione della Cochrane Collaboration, network
internazionale nato per “preparare, aggiornare e disseminare
revisioni sistematiche degli studi clinici controllati sugli effetti
dell'assistenza sanitaria e, laddove non sono disponibili studi
clinici controllati, revisioni sistematiche delle evidenze comunque esistenti”.
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FOCUS ON
UN ESEMPIO PRATICO DI APPLICAZIONE DELLA EBM
Il fisiatra e il medico vivono quotidianamente il dilemma etico
della difficoltà di fornire a tutti i pazienti il trattamento necessario.
Alla base del problema ci sono vincoli economici o assicurativi
La Evidence-based medicine (Ebm) si è progressivamente
diffusa, raccogliendo consensi e critiche e conquistando,
lentamente ma con costanza, posizioni non solo nell’ambito
medico ma anche in quello più ampio delle professioni sanitarie. Tuttavia la sua applicazione non è sempre semplice e
spesso entra in conflitto con un altro approccio, quello della
medicina basata sul rapporto tra costi e benefici.
Ne abbiamo parlato con Roberto Iovine, direttore della
Uoc medicina riabilitativa della Ausl di Bologna e professore a contratto del corso di laurea in medicina dell'università di Bologna.
11
>
visione più umanizzata della
medicina e più attenta ai
valori espressi dal singolo
paziente, convinti che sia
necessaria una sua partecipazione alle prese di decisione che riguardano la sua
salute, ci troviamo di fronte a
un’ulteriore difficoltà: comunicare efficacemente al
paziente i dati che abbiamo
trovato in letteratura perché,
sulla base della sua personale gerarchia valoriale, possa
esprimere un reale consenso
informato alla decisione da
prendere.
Come ben preconizzato dal
precedente editore del Bmj
(4) la difficoltà del medico
oggi sta proprio nel comunicare l’incertezza dei dati che
la ricerca ci propone senza
perdere autorevolezza nei
confronti dei pazienti.
Informare non è comunicare: non è certo sufficiente
limitarsi a una esposizione
dei dati. È necessario infatti
aprire canali di ascolto per
capire quali siano le reali
preferenze del paziente.
Sembra dunque molto difficile poter arrivare a una
risposta definitiva sulla
Ebm…
La Ebm viene accusata di
volere imbrigliare i medici in
schemi di trattamento ferrei
e insindacabili, di avere cooperato alla produzione di
linee guida che stringono i
professionisti in comportamenti coatti come camicie di
forza. In realtà, dagli esempi
che abbiamo visto, scopriamo al contrario che l’adozione del paradigma ci pone
molti più dubbi che certezze,
ci obbliga a usare il nostro
giudizio clinico nell’applicare i risultati della ricerca e ci
ricorda che le abilità da coltivare sono anche le nostre
capacità
comunicative,
empatiche, di conoscenza
della psicologia dei nostri
pazienti: insomma ci obbliga
a fare i medici. Con informazioni più attendibili e affidabili, però!
Una pratica clinica per dirsi
“basata sulle evidenze” deve
accettarne il paradigma e
cioè dimostrare che nel processo decisionale si sono
tenute in conto le prove di
efficacia esistenti, coniugate
con l’esperienza del singolo
clinico.
Roberto Iovine
Come si deve procedere per
applicare l’Ebm?
Chi vuole percorrere tutto il
paradigma in prima persona, deve acquisire le competenze necessarie e cioè: porsi
dei quesiti clinici risolvibili;
ricercare le migliori evidenze utilizzando siti che facilitano il recupero della cosiddetta “best evidence”; valutare le evidenze recuperate in
base al riconoscimento della
bontà metodologica con cui
è stato disegnato il trial e alla
rilevanza clinica dei risultati;
mettere in pratica quanto
deciso e valutare i risultati.
In sostanza, l’Ebm non è
altro che l’espressione di un
tema più ampio che è quello
della medicina orientata al
paziente. La “patient-oriented medicine” è quel tipo di
approccio che fa derivare le
decisioni cliniche dalla sintesi tra letteratura, esperienza
clinica e preferenze (e valori)
espresse dal paziente.
Che differenza c’è tra l’Ebm
e la medicina basata sul
costo-beneficio?
L’Ebm si occupa del benessere del singolo paziente;
accettare il paradigma Ebm
significa che a ogni singolo
paziente si offrirà il trattamento migliore indipendentemente dal costo o dalle circostanze. Il paradigma Ebm
obbliga a vedere il paziente
che si ha di fronte e non a
fare considerazioni di ordine
generale.
La medicina basata sul
modello costi-benefici si
occupa invece del benessere
di una popolazione (non del
singolo) e il suo paradigma è
il trattamento migliore per il
maggior numero di pazienti,
cioè una medicina che guarda alla popolazione e al suo
benessere. È un approccio di
politica sanitaria che viene
svolto a livello nazionale o
locale che non riguarda il
singolo individuo, ma
riguarda la collettività.
Quali sono i rischi del
modello basato su costi e
benefici?
Si deve stare attenti alla
medicina che fa riferimento
al confronto tra costo ed
efficacia,
soprattutto
L’approccio Ebm prevede cinque fondamentali:
1) formulazione e classificazione del quesito;
2) ricerca della migliore evidenza disponibile;
3) valutazione critica delle evidenze recuperate;
4) messa in pratica dell’informazione recuperata;
5) valutazione del risultato.
Il quesito, formulato secondo il PICO (paziente, intervento, comparazione, outcome), potrebbe essere:
P = In un paziente con gonalgia da gonartrosi compartimentale interna in fase iniziale
I = Il trattamento con una terapia basata sul trasferimento energetico capacitivo resistivo, associato al trattamento standard
C = Verso il solo trattamento standard (analgesici, antinfiammatori, rieducazione motoria)
O = Riduce il dolore e il periodo di incapacità di attendere alle proprie occupazioni?
La sua classificazione è abbastanza facile: si tratta di un
quesito in tre parti che riguarda l’efficacia terapeutica; in
questo caso la fonte di informazione che è in grado di
fornirci più rapidamente una evidenza di alto livello è la
Cochrane Library (www.thecochranelibrary.com).
Interrogando la banca dati con il termine “tecar” non
compare alcun risultato; a questo punto è opportuno
all’estremizzazione
“del
maggiore utile per il maggiore numero di persone”
che connota una logica utilitaristica, perché è quella
che ha portato Peter Singer
negli anni ‘70, ma anche
recentemente, a rimarcare
che in molti casi la vita di
un animale vale più la pena
di essere vissuta rispetto
alla vita di un disabile,
argomentando che le persone portatrici di gravi infermità non possono essere
considerate persone e quindi non hanno né un diritto
né uno status; questo ragionamento è quello che ha
portato, alla fine degli anni
‘30, alla costruzione dei
campi di sterminio e fortunatamente
contrastato
ampiamente da McPherson
e Sobsey (5) e dal recente
documento dell’Oms sui
diritti della persona con
disabilità (6).
Quali sono i dilemmi etici
più frequenti in riabilitazione?
In un interessante studio (7)
svolto negli Stati Uniti, alcuni autori hanno fatto una
verifica sul campo di quale
fossero i dilemmi etici più
frequentemente citati nel
mondo della riabilitazione.
Al primo posto si trovava la
marcata copertura assicurativa. È noto che in un regime a rimborso prestazionale come quello degli Stati
Uniti circa 39 milioni di
persone si trovano senza
copertura assicurativa: non
sono abbastanza poveri da
godere dell’assistenza sanitaria garantita dallo stato e
non sono abbastanza ricchi
da potersi permettere una
propria assicurazione. Il
fisioterapista e il medico
identificano il dilemma
etico nell’impossibilità di
poter fornire a una parte
dei loro pazienti il trattamento di cui necessitano,
sia perché non sono assicurati sia perché le assicurazioni non coprono spesso
tutto l’iter riabilitativo.
Un altro dilemma riguarda
la condivisione degli obiettivi del trattamento con il
paziente e i familiari, che
spesso hanno aspettative
non compatibili con la
patologia.
Renato Torlaschi
Bibliografia
1. EBM word ing. Group.
Evidence based medicine: a
new approach to teaching the
practice of medicine. JAMA
1992; 268: 2420-5
2. Bioetica e riabilitazione.
17 marzo 2006. www.governo.it/bioetica/testi/bioetica_r
iabilitazione.pdf
3. Wade DT et al.
Physiotherapy intervention late
after stroke and mobility. BMJ
1992; 304 (6827): 609-613.
4. Smith R. Communicating
risk: the main work of doctors.
BMJ 2003.
5. McPherson GW, Sobsey D.
Rehabilitation: disability ethics
versus Peter Singer. Arch Phys
Med Rehabil 2003;84:1246-8.
6. Convenzione internazionale
sui diritti delle persone con
disabilità.
7. Kirschner KL, Stocking C,
Wagner LB, Foye SJ, Siegler M.
Ethical issues identified by
rehabilitation clinicians. Arch
Phys Med Rehabil 2001; 82
Suppl.
Lettura consigliata
Iovine R. Evidence-based
medicine ed evidence-based
practice in riabilitazione. In
Valobra GN, Gatto R,
Monticone M (a cura di).
Nuovo trattato di medicina
fisica e riabilitazione. Torino
2008, vol I, pagg 33-49.
allargare i confini della ricerca consultando altre banche
dati, iniziando da un “meta database”, cioè un motore di
ricerca in grado di interrogare contemporaneamente più
banche dati. Inserendo il termine “tecar” in TRIP database (www.tripdatabase.com) non otteniamo alcun risultato in nessuno dei capitoli in cui è organizzata la ricerca
(linee guida, libri di testo ecc.), ma neanche nei capitoli
dedicati a Medline. Ripetendo in PubMed la ricerca
abbiamo la conferma che il termine “tecar” non compare in nessuno dei 20 milioni di articoli indicizzati su
Medline.
Per scrupolo consultiamo anche PEDro (Physiotherapy
Evidence Database: www.pedro.org.au) con gli stessi
risultati.
Non volendo limitare la ricerca a studi di lingua inglese
abbiamo inserito “tecar” nel sito di Google riservato alle
pubblicazioni scientifiche (www.scholar.google.com)
ottenendo in effetti 2.940 citazioni; con il termine più
specifico di “trasferimento energetico capacitivo resistivo” riduciamo le citazioni a 168; restringendo ulteriormente la ricerca con l’aggiunta di “studio clinico”, le citazioni si riducono a 50.
Tutti gli studi riportati sono descrizioni di casistiche o di
casi singoli, senza gruppo di controllo, con un disegno
pre-post, pubblicati su riviste non indicizzate.
In conclusione non esistono attualmente solide evidenze
scientifiche in merito all’efficacia del trattamento con
tecarterapia delle più comuni condizioni muscolo-scheletriche, per le quali viene da molti indicato.
Roberto Iovine
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FOCUS ON
12
Quando lo sport è una
vera e proria terapia
Dottor Lamberti, cos’è il
progetto Ampa?
Ampa è l’acronimo di
“Attività motoria personalizzata e adattata” ed è un progetto mirato alla promozione
e alla prevenzione della salute
dei cittadini in funzione dell’età e delle patologie croniche
invalidanti, stabilizzate, non
trasmissibili e sensibili alla
sport-terapia. Il progetto
tiene conto del regolamento
sanitario
internazionale
dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2007 che ha
riconfermato lo stile di vita
corretto (sedentarietà, dieta,
fumo, alcol ecc.) tra le cause
delle numerose malattie croniche per cui i paesi devono
destinare quote sempre più
significative delle loro risorse
per interventi sanitari e assistenziali.
La nota dolente è che i fondi
per la prevenzione sono
ancora meno dell’uno per
cento della spesa e i trattamenti erogati dal Servizio
sanitario nazionale non
sempre rispondono ai criteri
di benefici-rischi e costibenefici.
TUTTI I VANTAGGI DELLO SPORT
NEI RISULTATI DEL PROGETTO AMPA
Un elemento essenziale di ogni progetto è la valutazione dei
risultati ottenuti. Così è avvenuto anche per il progetto Ampa:
sono stati studiati circa 200 soggetti, uomini e donne, dai 35
agli 85 anni e affetti da patologie croniche (neoplasie in fase
di stabilizzazione clinica, bronco-pneumopatie, malattie cardiovascolari, metaboliche e articolari) e aderenti al progetto
di “Attività motoria personalizzata e adattata”.
Per il reclutamento dei pazienti sono stati coinvolti i medici di
medicina generale per il loro ruolo importante nell’incoraggiare i pazienti a svolgere attività motoria e i medici delle unità
operative dei presidi ospedalieri di Conegliano e Vittorio
Veneto aderenti al progetto. I pazienti arruolati, dopo aver
dato il loro consenso, sono stati sottoposti ai protocolli previsti di valutazione funzionale. Sulla base dei parametri ricava-
Cosa prevedono le indicazioni dell’Oms e come
sono state recepite in
Italia?
Il regolamento dell’Oms,
per far fronte ai danni che
derivano da stili di vita
scorretti, ha impegnato i
governi e i ministeri della
salute dei vari stati ad
avviare campagne di promozioni contro la sedentarietà, di prevenzione primaria e secondaria della
popolazione, di attività
motoria ai fini curativi e
riabilitativi delle patologie
croniche. Il messaggio
dell’Oms è stato recepito in
Italia dal ministero della
Salute nei nuovi livelli
essenziali di assistenza
(Lea, Dpcm del 23 aprile
2008).
La regione Veneto ha stabilito attraverso diversi
decreti del governo regionale che è compito peculiare del medico dello sport la
valutazione clinico-funzionale e la prescrizione della
sport-terapia.
Il progetto Ampa si propone dunque di diffondere sul
territorio la cultura della
prevenzione primaria attiva
mediante l’attività fisica; si
tratta di un obiettivo parti-
colarmente impegnativo,
dal momento che non
risulta agevole passare da
un sistema che finora è
stato imperniato sulla cura
della malattia a un sistema
preventivo e predittivo che
produce salute.
Nonostante le evidenze
scientifiche mondiali che
attribuiscono all’attività
motoria, sia nell’individuo
sano che nel malato e nel
disabile, la capacità di prevenire e correggere i fattori
di rischio prevenibili, solo
una minoranza della popolazione pratica abitualmente un’attività fisica produttiva.
Il medico dello sport, come
professionista della salute e
del benessere, può contribuire con le istituzioni (Asl,
comuni ecc.) a «investire in
salute, per costruire un
futuro sicuro», come recitava lo slogan dell’Oms al
forum di Singapore del
2007.
Per quali tipologie di
pazienti è particolarmente
indicata la terapia effettuata attraverso lo sport?
Il progetto Ampa ha individuato le seguenti malattie
ti da questa complessa valutazione e dai referti di indagini di
laboratorio e strumentali effettuati, lo specialista in medicina
dello sport ha redatto una prescrizione personalizzata di
esercizi fisici per ciascuno dei partecipanti.
La somministrazione dell'esercizio fisico svolto in palestra
medica attrezzata da parte dello sport-terapeuta (laureato in
scienze motorie) si è avvalsa di macchine cardio e isotoniche
della Air Machine (Gruppo Panatta) collegate in rete attraverso un "circuit training" computerizzato e monitorato tramite
videoterminale.
I RISULTATI DELLO STUDIO
L’analisi statistica dei risultati ottenuti dopo la pratica della
sport-terapia indica la notevole efficacia di questo approccio.
u Il miglioramento della qualità della vita, intesa come benessere psichico e capacità di svolgere attività fisica, è testimoniato da parametri quali l’aumento del massimo consumo di ossigeno (sub-VO2max), del rendimento di carico effettivo ecc.
u Il miglioramento della funzionalità respiratoria è testimoniato dall’aumento della capacità vitale forzata (Fvc), del volume
espiratorio massimo nel primo secondo (Fev1) e dell’indice di
Tiffeneau.
u Il miglioramento della funzionalità cardiaca è mostrato dalla
riduzione dei valori minimi e massimi della pressione arteriosa basale, all’apice dello sforzo, nel recupero e di confronto
(tra i valori prima e dopo il ciclo di sport-terapia in funzione
dello stesso carico di lavoro), nonché della frequenza cardiaca basale, nel recupero e di confronto.
u La riduzione del rischio metabolico nei soggetti diabetici è
<< <<
quenza e la progressione
degli esercizi; la validità
temporale e i controlli previsti.
Da anni si è compreso il ruolo dello sport nella prevenzione di svariate
malattie e anche l'Oms riconosce grande importanza all'esercizio-terapia.
Intanto si moltiplicano le ricerche sul tema, come il progetto Ampa in Veneto
«Attività fisica praticata a scopo preventivo-terapeutico, prescritta e somministrata con regolarità, in dose giusta e con
modalità personalizzata al soggetto e adattata all’età, al
sesso, alla patologia e all’eventuale assunzione di farmaci».
È questa la definizione di esercizio-terapia, e si tratta di un
tema estremamente attuale, visto il moltiplicarsi degli studi
scientifici che da un lato evidenziano con dati sempre più
incontrovertibili i rischi per la salute che si associano alla
sedentarietà e all’obesità e dall’altro il ruolo fondamentale
della prevenzione.
Uno dei centri di eccellenza dove viene messa in pratica
l’esercizio-terapia è l’Istituto di medicina dello sport e dell’attività motoria di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso
(www.centromedicinadellosport.it). A dirigerlo è il dottor
Vincenzo Lamberti, con cui abbiamo voluto approfondire le
modalità con cui l’esercizio fisico, da sana abitudine può trasformarsi in terapia.
13
>
sensibili alla sport-terapia:
cardiovascolari (disturbi
funzionali cardiaci, ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica, esiti stabilizzati di infarto, insufficienza cardiaca cronica);
respiratorie
croniche
(broncopneumopatia cronica ostruttiva, enfisema,
asma da sforzo); metaboliche (dislipemia, diabete,
obesità, sindrome metabolica, sindrome ipercatabolica dell’anziano); osteoartro-reumatiche (osteoporosi, reumatismo cronico);
neoplastiche (colon, mammella, polmone); neurologiche e psichiatriche (ictus
cerebri, decadimento mentale, depressione, ansia).
Come avviene la valutazione dei soggetti da
arruolare in un programma di sport-terapia?
Prima di tutto è prevista
una visita del medio dello
sport per l’accertamento
dello stato di salute generale, dell’efficienza fisica e dei
rischi collegati alle patologie e all’eventuale terapia in
atto.
I soggetti vengono poi sottoposti a un test da sforzo
Vincenzo Lamberti
(al cicloergometro o al tappeto rotante medicale,
massimale o sub-massimale) che, con l’utilizzo associato del metabolimetro,
consente una valutazione
completa (massimo consumo di ossigeno, soglia anerobica, cinetica dell’ossigeno ecc.).
Successivamente, su motivato sospetto clinico, vengono eseguiti esami strumentali come l’Holter pressorio, l’Holter dinamico,
l’ecocolordoppler cardiovascolare. Infine vengono
eseguiti gli esami di laboratorio, che sono indispensabili per un migliore inquadramento clinico.
I risultati della valutazione
vengono riportati in una
apposita cartella sanitaria
per la prescrizione della
sport-terapia. Questa cartella include l’anamnesi
accurata con particolare
attenzione
all’eventuale
terapia farmacologica; l’esame obiettivo completo; gli
accertamenti strumentali e
di laboratorio praticati; il
programma prescritto di
attività motoria allenante e
personalizzato in cui sono
specificate la tipologia, la
durata, l’intensità, la fre-
attestata dalla riduzione della glicemia e dell’emoglobina glicata (HbA1c).
u La riduzione del rischio cardiovascolare è mostrata dalla
riduzione del colesterolo totale e di quello Ldl, dall’aumento
del colesterolo Hdl, nonché dalla riduzione dell’indice di
massa corporea (Bmi).
u La riduzione del consumo di farmaci abitualmente assunti
è mostrata dal notevole risparmio giornaliero di compresse
assunte. Solo il 22,6% dei partecipanti ha ridotto l’assunzione
di farmaci, un valore solo apparentemente basso, ma che
diventa indiscutibilmente positivo se inquadrato nel contesto
di pazienti affetti da patologie croniche in cui la terapia farmacologica rimane sostanzialmente immodificata nel corso del
tempo, in particolare se si tiene presente l’ampio gruppo di
soggetti indagati con broncopneumopatia cronica ostruttiva
(Bpco), scompensati cronici e con diabete mellito di tipo 1.
u Nei soggetti broncopneumopatici testati non sono state evidenziate variazioni significative dei parametri indici di ostruzione bronchiale. In una sottopopolazione di pazienti, invece,
sono emersi significativi miglioramenti sui volumi mobilizzabili e sul volume di riserva espiratoria. In 20 pazienti su 22 con
Bpco di primo e secondo livello, è stata evidenziata una riduzione della pressione arteriosa di picco, un aumento del carico massimo di lavoro raggiunto e un rendimento positivo
durante lo sforzo. Nei sette pazienti con Bpco di terzo livello,
con l’esercizio-terapia personalizzata si è ottenuto un aumento di rendimento dal 7% al 21% e soprattutto nessuno ha
avuto ricoveri nell’anno successivo.
R. T.
Quali requisiti devono
avere le strutture in cui si
pratica la sport-terapia e
come si compone tipicamente lo staff medico?
Le strutture di medicina
dello sport in cui si prescrive l’esercizio a scopo preventivo o terapeutico devono essere in possesso dei
requisiti standard previsti
(legge 28/2/82 sulla tutela
delle attività sportive e
legge 626/94 sulle misure
per la tutela della salute e la
sicurezza dei lavoratori).
Nella regione Veneto le
strutture di medicina dello
sport, distinte in primo,
secondo e terzo livello,
devono essere preventivamente autorizzate o accreditate, con locali e attrezzature idonei per la valutazione funzionale e la prescrizione dell’esercizio-terapia.
All’interno di questi centri
deve essere prevista un’area
riservata alla sport-terapia.
Lo staff di un centro medico di sport-terapia è composto da medici dello sport
con esperienza sia in ambito clinico che nella fisiologia e prescrizione dell’esercizio fisico, distinti nella
responsabilità e nel coordinamento delle attività
motorie; uno specialista in
malattie cardiovascolari, in
qualità di consulente esperto in ecocardiografia ed
ergometria; un tecnico di
cardiologia esperto in cicloergonometria; un fisioterapista; un laureato in scienze
motorie; un laureato in
scienze motorie con laurea
magistrale in attività motoria adattata; altri specialisti
esterni (neurologo, ortopedico, pneumologo ecc.);
uno psicologo; un esperto
in alimentazione naturale
ed eubiotica.
L’unità di prescrizione, solo
in mancanza di strutture
idonee (palestra medica)
per la sport-terapia, collabora con palestre attrezzate
o centri sportivi del territorio. La palestra deve essere
FOCUS ON
dotata di un’infermeria con
medicinali e attrezzature
per le emergenze (defibrillatore semiautomatico) e
con personale tecnico-operativo (sport-terapeuta) che
abbia sostenuto un corso di
basic life support (Bls) per la
riabilitazione cardio-vascolare.
Le attrezzature necessarie
sono rappresentate da un
metabolimetro, da una piattaforma computerizzata per
la gestione della riabilitazione cardio-respiratoria
nonché
cicloergometri,
tapis roulant medicali, ellittica, vogatore, cyclette e
tapis roulant da palestra,
stepper, lat machine, pectoral machine e altre attrezzature per esercizi a corpo
libero.
Per la pratica sportiva in
una qualsiasi palestra si
richiede una certificazione
di idoneità. Cosa cambia
in questo caso?
La prescrizione dell’attività
fisica relativamente al
medico dello sport non
necessita di una certificazione di idoneità agonistica
o non agonistica, ma di una
dichiarazione con la quale
si attesta che il soggetto è
idoneo a svolgere un programma di attività fisica
adattato alla patologia in
atto. Tale dichiarazione
include, comunque, un giudizio favorevole alla pratica
di attività motoria, e da
questo possono derivare
problemi medico-legali in
ordine alla valutazione diagnostica, al giudizio di idoneità all’esercizio motorio e
alle eventuali conseguenze
del training.
Ne consegue la raccomandazione al medico e allo
sport-terapeuta di porre
particolare attenzione alla
richiesta di sottoscrizione
del consenso informato, sia
relativamente alla privacy
che agli aspetti giuridici e
deontologici.
Renato Torlaschi
I ricercatori del progetto Ampa impegnati in una serie di test fisici sui pazienti
>
Stretching: tecniche
e applicazioni pratiche
Le diverse tecniche portano a differenti performance muscolari. Le fonti
scientifiche non sono completamente concordi, soprattutto sugli effetti
dello stretching eseguito come riscaldamento prima dell'esercizio fisico
ffrontare la tematica
dello
stretching
implica parlare delle
diverse modalità di allungamento muscolare e di mobilizzazione delle articolazioni
attraverso l'esecuzione di
esercizi di stiramento, semplici o complessi, con la
finalità di mantenere il
corpo in un buono stato di
forma, con una premessa
fondamentale: le risposte
allo stretching sono individuali, pertanto i suoi programmi devono essere
"tagliati" su misura sulla singola persona.
Esistono varie tipologie di
stretching, ognuna delle
quali è maggiormente indicata per una certa fascia
anagrafica, per una certa
problematica e per uno specifico risultato da raggiungere.
Ad essere sollecitati sono sia
le fibre muscolari sia il tessuto connettivo (tendini,
fasce). Strettamente connessa a questo discorso è la
mobilità articolare (flessibilità, estensibilità, articolarità), ovvero la capacità di
compiere movimenti ampi e
A
al massimo dell'estensione
fisiologica consentita dalle
articolazioni. La mobilità
articolare è però soltanto in
parte allenabile, in quanto,
com'è noto, deve fare i conti
con le caratteristiche proprie
delle varie strutture anatomiche che la condizionano
(come la struttura ossea dell'articolazione e le componenti anatomiche e funzionali).
L'allungamento del muscolo condiziona anche l'erogazione della forza e la
capacità di produrre tensione a determinati angoli.
Un muscolo troppo lungo,
ad esempio, non sarà in
grado di generare tensione
vicino al massimo accorciamento, caratteristica fondamentale per i muscoli stabilizzatori, mentre un muscolo corto non permetterà
all'articolazione di raggiungere la massima escursione.
Le varie tecniche di stretching possono contribuire
a correggere o ridurre queste alterazioni, purché però
siano applicate in forma
graduale e nelle dovute
modalità.
Le tecniche di stretching
In letteratura vengono abitualmente descritte tre tecniche: statica, dinamica e
pre-contrazione, come categorizza l'articolo di Phil
Page Current concepts in
muscle stretching for exercise
and rehabilitation pubblicato a febbraio su The
International Journal of
Sports Phsycal Therapy.
La tipologia più tradizionale, oltre che più conosciuta, è
quella denominata statica,
codificata da Bob Anderson:
si raggiunge l'allungamento
muscolare tramite posizioni
di massima flessione, estensione o torsione (queste
posizioni vanno raggiunte
lentamente per non stimolare nei muscoli antagonisti il
riflesso da stiramento) da
ripetersi, sia attivamente da
parte del soggetto stesso, sia
passivamente con l'aiuto di
un partner.
Per quanto riguarda lo stretching statico attivo, esso
consiste in esercizi eseguiti
con ampiezza di movimento
e sostenendo l'arto o il segmento corporeo contraendo
isometricamente i muscoli
agonisti: si assume una posizione e poi la si mantiene
senza alcun supporto, solo
con la forza dei propri
muscoli. La posizione raggiunta sarà mantenuta per
un determinato lasso temporale, in genere inferiore a
1 minuto ma superiore ai 10
secondi. Lo stretching attivo
aumenta la flessibilità attiva
e rafforza i muscoli agonisti.
La tipologia "dinamica" prevede oscillamenti controllati
di gambe e braccia che portano, dolcemente e senza
strappi, a raggiungere il
limite della propria gamma,
o range, di movimento
(Rom). Negli allungamenti
dinamici non ci sono slanci
o scatti, ma movimenti che
diventano gradualmente più
ampi. Questo tipo di stretching migliora la flessibilità
dinamica ed è utile in quanto parte del riscaldamento di
un allenamento aerobico e
attivo.
«A non essere più consigliato – informa l'autore Phil
Page – è lo stretching balistico», una metodica non più
utilizzata: la sua pericolosità
è determinata dall'attivazio-
ne nel muscolo del riflesso
di stiramento (riflesso
incondizionato che ordina al
muscolo di reagire ad una
tensione brusca con una
rapida contrazione, con elevato rischio di trauma
muscolare). Il metodo prevede di arrivare in posizione
di allungamento e poi iniziare a molleggiare.
Per quanto riguarda lo stretching pre-contrazione, Page
richiama la tipologia più
comune: Pnf, Proprioceptive
Neuromuscolar Facilitation
(facilitazione propriocettiva
neuromuscolare),
molto
usato nella terapia della riabilitazione, diviso in quattro
tempi: si raggiunge il massimo
allungamento
del
muscolo in modo graduale e
lento, si esegue una contrazione isometrica per circa
15-20 secondi (sempre in
posizione di massimo allungamento); rilassamento per
circa 5 secondi; si allunga
nuovamente il muscolo
(contratto precedentemente)
per almeno 30 secondi. Il
Pnf include anche le modalità C-R (contract-relax), H-R
(hold-relax) e Crac (contract-
relax agonist contract) sistema nel quale c'è l'intervento
attivo dei muscoli antagonisti (in questo caso agonisti
del movimento) a quelli che
si stanno allungando; c'è una
contrazione e un rilassamento del muscolo agonista
quando viene contratto con
forza l'antagonista. Page
riporta, all'interno della
categoria pre-contraction,
anche il Pir, post-isometric
relaxation, tecnica che utilizza una quantità molto più
piccola di contrazione del
muscolo (25%) seguita da un
allungamento.
Misurare l'efficacia
Generalmente i risultati
dello stretching si misurano
con l'incremento del Rom
articolare, come ad esempio
nello stretching statico.
Chan, Hong e Robinson
hanno dimostrato che otto
settimane di stretching statico incrementano l'estensione muscolare (l'allungamento), quanto ad effetto immediato; mentre altri studi
focalizzati non sull'immediatezza dei risultati bensì
<< <<
FOCUS ON
14
15
<< <<
FOCUS ON
Competenze specifiche per
la riabilitazione pediatrica
Fisiatra e fisioterapista che seguono il piccolo paziente devono avere
una formazione e un’esperienza specifica. Le variabili fisiche e psicologiche
coinvolte, infatti, sono più complesse rispetto a quelle degli adulti
sul lungo periodo hanno
rilevato un aumento nel
Rom dovuto ad una maggiore tollerabilità nell'allungamento (capacità di resistere
di più alla forza dello stretching), e non l'estensione. I
cambiamenti più rilevanti
nel Rom con lo stretching
statico avvengono fra i 15 e i
30 secondi; molti autori
indicano che dai 10 ai 30
secondi è un tempo sufficiente per accrescere la flessibilità, mentre non si registra alcun allungamento
muscolare dopo che si sono
eseguite da 2 a 4 ripetizioni.
Lo stretching statico risulta
invece dannoso sul versante
della forza muscolare se
effettuato come riscaldamento
immediatamente
prima dell'esercizio: le cause
di ciò non sono chiare, alcuni studiosi chiamano in
causa fattori neurali, altri
fattori meccanici.
Da una comparazione eseguita da diversi autori fra lo
stretching statico e dinamico su Rom, forza e performance, si evince che
entrambe le tipologie sono
egualmente efficaci a perfe-
zionare il range di movimento sia dopo un training
di un certo tempo sia dopo
un breve lasso di tempo.
Contrariamente allo stretching statico, quello dinamico non è associato a deficit
nella forza o nella performance, anzi è dimostrato
che questa modalità migliora la potenza dinamometrica, con ricadute sulla performance del salto e della corsa.
È adatto per
il riscaldamento?
In letteratura si registrano
pareri discordi in merito alle
conseguenze dello stretching eseguito come riscaldamento prima dell'esercizio. I pre-riscaldamenti statici e dinamici sono egualmente efficaci nell'incrementare il Rom prima dell'esercizio. Alcuni ricercatori
attribuiscono allo stretching
statico dopo il riscaldamento decrementi nella performance, mentre altri assicurano nessun cambiamento o
addirittura un miglioramento nella performance.
Il fatto che lo stretching uti-
lizzato nel processo di
riscaldamento sia messo in
discussione soprattutto in
quegli sport nei quali il
risultato è deciso dalla forza
rapida, non è una novità: lo
aveva spiegato già Stephan
Turbanski, dell'Istituto di
scienze
dello
sport
all'Università di Francoforte.
Per un programma generale
di
fitness,
stando
all'American College of
Sports Medicine, si consiglia
lo stretching statico per la
maggior parte degli individui
preceduto da un riscaldamento attivo, almeno 2-3
volte a settimana; ogni singola azione di allungamento
deve essere mantenuta 15-30
secondi e ripetuta dalle 2 alle
4 volte. Gli adulti in età avanzata, invece, potrebbero
necessitare di un periodo più
lungo rispetto ai 15-30 secondi, si parla infatti di 60 secondi per ottenere miglioramenti nella flessibilità dei tendini
(Feland). In ogni caso sembra
che la modalità di stretching
dipenda, anche qui, dall'età e
dal sesso: uomini e gli adulti
in età avanzata under 65 anni
rispondono meglio allo stret-
ching contract-relax, mentre
le donne e le persone in età
adulta avanzata over 65
ottengono maggiori effetti
benefici dallo stretching statico.
L'esecuzione dello stretching come parte di un
riscaldamento pre-esercizio
riduce la rigidità passiva e
accresce il Rom durante
l'esercizio. In linea generale,
lo stretching statico apporta
maggiori benefici per gli
atleti che necessitano di flessibilità (ginnastica, danza
ecc); lo stretching dinamico
può essere adatto per gli
atleti che nei loro sport
devono far fronte a performance di corsa e salto (corridori, giocatori di basket
ecc.).
La riabilitazione
Relativamente alla riabilitazione (in ambito ortopedico
soprattutto), lo stretching
viene utilizzato come normale pratica riabilitativa per
accrescere la lunghezza
muscolare e il Rom: pazienti
affetti da osteoartriti al
ginocchio ottengono van-
taggi dallo stretching statico
per aumentare il Rom del
ginocchio, altri ricercatori –
riporta Page – fanno riferimento a due settimane sia di
statico che di modalità dinamica o Pnf per ottenere
ugualmente l'aumento del
Rom. Spesso lo stretching è
incluso negli interventi terapeutici per il trattamento dei
dolori alla spalla, schiena e
ginocchio, sebbene – osserva Page – sia difficile "isolare" la quota di beneficio prodotta dallo stretching in
quanto esso è incluso in protocolli più ampi dei quali
fanno parte il rafforzamento
e altri interventi in aggiunta
allo stretching.
Ad ogni modo i ricercatori
che hanno condotto studi su
pazienti affetti da dolori
muscolo-scheletrici cronici
sostengono il ricorso allo
stretching nei programmi di
trattamento del dolore. Non
si rileva invece alcun beneficio in pazienti con problematiche neurologiche, vittima di ictus o lesioni del
midollo spinale.
Irene Giurovich
Bibliografia
1. Chan SP, Hong Y,
Robinson PD. Flexibility
and passive resistance of the
hamstrings of young adults
using two different static
stretching protocols. Scand J
Med Sci Sports 2001
Apr;11(2):81-6.
2. Feland JB, Myrer JW,
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effect of duration of stretching of the hamstring
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3. Page P. Current concepts
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exercise and rehabilitation.
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Feb;7(1):109-19.
4. Turbanski S. Stretching e
riscaldamento, SDS, Rivista
di cultura sportiva, 2005;
XXIV, 65.
Quando il soggetto di un percorso riabilitativo è un bambino l'approccio degli operatori in esso coinvolti deve essere “costruito” non soltanto sulla base delle caratteristiche
della patologia o della disabilità da trattare ma anche, e
con altrettanta attenzione e competenza, sulla base delle
peculiarità di risposta alla terapia che sono legate, necessariamente in modo dinamico, all'età del piccolo paziente
in ogni tappa del percorso e ai cambiamenti determinati
dalla sua crescita.
In età pediatrica una malattia, una lesione, un disordine
dello sviluppo hanno l'effetto di interferire – attraverso la
limitazione delle funzioni motorie, la distorsione delle
esperienze sensoriali, l'alterazione della capacità di
comunicazione – con le potenzialità di adattamento del
soggetto, e pertanto con la sua capacità di interagire con
l'ambiente che lo circonda.
Data l'imprescindibilità del rapporto con l'ambiente esterno
Dottoressa Fusaro, che
ruolo riveste la medicina
riabilitativa nell'ambito
dell'ortopedia pediatrica?
L’ortopedia pediatrica comprende numerose patologie
di differente gravità, dal
piede piatto alle patologie
più complesse di competenza neuro-ortopedica, che
possono determinare deformità a carico dell’apparato
muscolo scheletrico.
Soprattutto per questi ultimi
pazienti e per i casi in cui il
trattamento ortopedico è di
lunga durata il ruolo della
riabilitazione è centrale per
ottenere il miglior outcome
possibile.
Quali sono le patologie
scheletriche o neuromuscolari infantili che più frequentemente e in maggior
per lo sviluppo fisico e psicomotorio del bambino e l'importanza che nel modulare tale rapporto rivestono gli strumenti
di elaborazione sia cognitivi sia comportamentali, è evidente che in qualsiasi condizione di compromissione funzionale, anche transitoria, l'intervento riabilitativo assume un ruolo
determinante e ha un raggio d'azione che va ben oltre il ripristino della funzione compromessa o la compensazione del
deficit specifico.
A descrivere, attraverso la sua esperienza diretta, le potenzialità e le prerogative particolari della medicina riabilitativa
applicata all'ortopedia pediatrica è Isabella Fusaro, specialista in medicina fisica e riabilitazione e in reumatologia, dirigente medico presso la Struttura complessa di medicina fisica e riabilitativa dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna,
dove in campo pediatrico si occupa in particolare di riabilitazione nelle deformità vertebrali e nelle patologie neuroortopediche dell'età evolutiva.
misura coinvolgono il
fisiatra, in ospedale e in
ambito extraospedaliero?
Le patologie infantili che
coinvolgono il fisiatra più
frequentemente sono il
piede torto, il piede piatto, i
paramorfismi e i dismorfismi del rachide, le deformità
assiali degli arti inferiori.
Quelle che richiedono al
fisiatra il maggiore impegno
sono tutte le patologie di
neuro-ortopedico,
tipo
come gli esiti di paralisi
cerebrale infantile, le miopatie o gli esiti di mielomeningocele, ma anche le dismetrie per ipoplasie congenite
che necessitano trattamenti
con metodica di Ilizarov.
Può delineare il panorama
delle tecniche fisioterapiche più indicate per la riabilitazione ortopedica e
neuromotoria del paziente
in età evolutiva?
In generale, tutte le tecniche
rieducative possono essere
utilizzate se somministrate
con la modalità più adatta
all’età del bambino, al fine di
facilitare il suo coinvolgimento.
Per le patologie ortopediche
pediatriche in cui esiste un
coinvolgimento neurologico
è particolarmente importante che il setting sia adeguato,
così come è fondamentale la
preparazione specifica del
terapista, che deve avere una
competenza mirata per il
trattamento
di
questi
pazienti. In questo ambito le
tecniche rieducative utilizzate sono perlopiù le metodiche di tipo neuromotorio,
percettivo, propriocettivo e
di stretching.
Per quanto riguarda le terapie fisiche strumentali, che
trovano indicazione nell’età
pre-adolescenziale, il loro
impiego è condizionato dall’età e dalla presenza delle
cartilagini di accrescimento.
Quali sono le nuove frontiere di ricerca, in campo
diagnostico e terapeutico,
>
della medicina riabilitativa
pediatrica?
Attualmente gli studi sono
rivolti all’utilizzo di nuove
metodiche strumentali, alla
valutazione, attraverso indagini strumentali come la gait
analysis, delle performance
funzionali di nuovi tutori e
ortesi e alla determinazione
dell'efficacia di trattamenti
di tipo estensivo o intensivo.
Ad oggi, infatti, pur avendo
a livello clinico la percezione
della validità dei nostri trattamenti, stiamo lavorando
per corredare tale percezione con valutazioni evidencebased.
Con quali problemi specifici si confronta la medicina riabilitativa applicata
all'età evolutiva dal punto
di vista strettamente clinico?
La riabilitazione in ortopedia pediatrica da un lato può
contare sul vantaggio che la
plasticità del sistema nervoso centrale offre, ma dall’altro deve tenere conto delle
ripercussioni che l’accrescimento determina sull’equilibrio neuromuscolare e del
fatto che queste possono
“complicare” il percorso riabilitativo.
Quali connotati peculiari
assume la gestione del rapporto medico-paziente nel
percorso riabilitativo di un
soggetto in età evolutiva, in
generale e nelle diverse
fasce di età?
Nella riabilitazione in età
evolutiva è essenziale che la
presa in carico sia sempre
condivisa tra il medico e la
famiglia.
Se per il neonato il genitore
ha un ruolo di assistenza,
quando il piccolo cresce il
genitore diventa educatore.
In questo contesto il fisiatra
deve essere abile non solo
nel far sentire il bambino
coinvolto con un ruolo centrale, ma anche nel supportare in ogni passo i genitori
nella loro funzione di educatori.
In generale, in qualsiasi progetto riabilitativo in età evolutiva, la figura del genitore/familiare/caregiver è fondamentale. Questo vale a
maggior ragione per i progetti di lungo periodo, in cui
Isabella Fusaro
il bambino cresce modificando la sua struttura fisica
e mentale.
Quali competenze professionali e relazionali specifiche richiede al fisiatra e al
fisioterapista il lavoro con i
bambini in confronto al
lavoro con gli adulti?
Fisiatra e fisioterapista che
lavorano con bambini,
soprattutto in ambito neuroortopedico, devono essere
specificamente
formati
attraverso corsi e master
dedicati.
Un fisiatra e un terapista che
sanno lavorare sul bambino
potranno lavorare sull’adulto, mentre non è vero il contrario, e non dovrebbe avvenire.
Nella gestione del paziente
in età evolutiva avviato a
un percorso riabilitativo
quanto conta – quando
disponibile – il supporto di
figure professionali coadiuvanti come psicologi,
assistenti sociali, educatori
eccetera?
La presa in carico del bambino deve essere globale e
coinvolgere tutte le figure
professionali di interesse,
affinché dal lavoro di équipe
possa ottenersi il miglior
risultato possibile.
Ciò è tanto più vero quanto
più la patologia è modificabile con la rieducazione e
quanto più è prolungato il
percorso di trattamento.
Bisogna sempre distinguere
tra rieducazione e accadimento.
Nella sua esperienza, i percorsi riabilitativi pediatrici
di lungo periodo e che
richiedono una continuità
assistenziale sono sufficientemente garantiti dalle
attuali forme di integrazione ospedale-territorio nell'ambito della vigente programmazione sanitaria?
Purtroppo non sempre esiste una corretta presa in
carico dopo la dimissione
ospedaliera, per problemi di
risorse economiche o per
esigenze familiari che non
garantiscono un'adeguata
continuità assistenziale.
Monica Oldani
FISIOviews
Review della letteratura internazionale
MEDICINA DELLO SPORT
Ernia da sport: l'impingement
femoro-acetabolare tra le cause?
La cosiddetta ernia da
sport è la condizione anatomopatologica che, almeno
secondo alcuni autori, più
frequentemente sottende
quell'ampia e tuttora parzialmente indeterminata
entità clinica chiamata
“pubalgia dell'atleta”.
Se la sindrome pubalgica è
una categoria nosologica
che sfugge a un preciso
inquadramento eziopatogenetico, all'interno di essa
anche la “semplice” diagnosi di ernia da sport fa riferimento a una condizione
non così ben definita quanto il suo nome farebbe supporre.
Su che cosa sia e soprattutto che cosa non sia l'ernia
da sport non vi è consenso
unanime.
Per lo più viene considerata
una sofferenza, di varia
entità e natura, della parete
addominale in regione
sovrapubica che coinvolge
la parte inferiore dei
muscoli larghi (obliquo
esterno, obliquo interno e
trasverso) e le relative fasce
aponeurotiche e gli altri
elementi anatomici che
costituiscono il canale
inguinale – con conseguente irritazione delle fibre
sensitive dei nervi iloeoinguinale o genitofemorale –
senza che vi sia in realtà
mai una vera erniazione
viscerale, sebbene venga
riportata, come riscontro
chirurgico, un'alta percentuale di protrusioni non
palpabili.
Ancora di recente, tuttavia,
alcuni autori facevano rientrare nella diagnosi di ernia
da sport sia la patologia del
canale inguinale sia una
serie di altre condizioni che
possono essere all'origine
della sintomatologia pubalgica ma che oggi vengono
tendenzialmente
viste
come fattori causali o concausali distinti, ancorché
spesso associati: le tendinopatie inserzionali o preinserzionali dei muscoli
adduttori dell'anca o dei
retti addominali e una
forma di osteoartropatia
che interessa l'articolazione
sinfisaria e le branche ossee
ad essa adiacenti, di origine
verosimilmente microtraumatica.
Motivo per cui, nelle diverse trattazioni, le due denominazioni, ernia da sport e
pubalgia dell'atleta, stanno
a indicare entità cliniche
diverse o vengono fatte
coincidere a seconda dell'orientamento teorico.
Al di là delle scelte terminologiche, la definizione e l'inquadramento concettuale e
diagnostico-terapeutico
della sindrome pubalgica
legata all'attività sportiva e
delle cause sottostanti sono
di grande attualità, essendo
l'incidenza di tale sintomatologia (o, in alternativa, del
suo riconoscimento) in
costante crescita, non solo
tra gli atleti professionisti
ma anche tra coloro che praticano attività fisica, e
soprattutto alcuni sport, a
livello amatoriale.
Quella stimata tra i professionisti, che copre in media
il 5% di tutte le patologie
traumatiche
sportive,
riguarda principalmente gli
sport caratterizzati da gesti
tecnici che comportano
sollecitazioni a livello della
sinfisi pubica e richiedono
una perfetta sinergia tra
muscoli addominali e
adduttori dell'anca (calcio,
hockey su ghiaccio, rugby,
football americano, corsa
di fondo).
In questa popolazione la
diagnosi di ernia da sport
come causa di dolore pubico è molto frequente.
Per quanto riguarda l'origine di tale condizione, la
stretta prossimità, nella
regione interessata, di
diverse strutture anatomiche rende difficile isolare
singoli eventi patogenetici
e fa ritenere più probabile
una concomitanza di alterazioni funzionali e/o
strutturali interdipendenti,
rispetto alle quali possono
tutt'al più esistere fattori
potenzialmente predisponenti.
Tra quelli che si pensa possano rivestire un ruolo
come condizioni facilitanti/scatenanti o anche aggravanti la patologia del canale inguinale inguinale vi
sono le coxopatie, sia di
origine malformativa che
di natura degenerativa.
A tale proposito, una ricerca presentata all'ultimo
congresso annuale della
Orthopaedic
American
Society for Sports Medicine
(Aossm)
tenutosi
a
Baltimora (Maryland) lo
scorso luglio, focalizza l'attenzione sul possibile rapporto tra ernia da sport e
impingement femoro-acetabolare come condizione
capace di modificare la biomeccanica dell'articolazione dell'anca in modo tale
da alterare anche la dinamica
muscolo-tendinea
della regione inguinale.
Lo studio, condotto da un
gruppo di ricercatori
dell'Università
della
Virginia, ha preso in esame
con metodo retrospettivo
su serie di casi 43 pazienti
sottoposti
complessivamente a 56 interventi di
ernioplastica tra il 1999 e il
2011,
riscontrando
nell'86% dei casi (37
pazienti) segni radiologici
(tramite Rm, Tc e Rx tradizionale) di impingement
femoro-acetabolare mono
o bilaterale, con le caratteristiche del conflitto di tipo
Cam nel 67% dei casi (29
pazienti), del conflitto di
tipo Pincer nel 5% dei casi
(2 pazienti) e del conflitto
combinato Cam-Pincer nel
14% dei casi (6 pazienti).
Nel confronto tra le articolazioni omolaterali alle
ernie e le articolazioni non
associate a ernie, il valore
medio dell'angolo alfa è
risultato essere di 75 gradi
a livello delle prime rispetto ai 61 gradi delle seconde,
mentre la misurazione
della retroversione acetabolare ha rilevato differenze meno consistenti (13
gradi nelle anche omolaterali alle ernie e 16 gradi
nelle anche non associate a
ernie).
I risultati sembrano suggerire un'associazione tra le
due condizioni, l'ernia da
sport e l'impingement
femoro-acetabolare, creando, secondo gli autori, le
basi per considerare opportuna la valutazione diagnostica dell'articolazione dell'anca nei soggetti che presentano
sintomatologia
dolorosa persistente a livello della regione pubica con
sospetto o diagnosi di ernia
da sport.
Monica Oldani
Economopoulos K, Diduch
D, Milewski M, Hart J,
Hanks J. Radiographic evidence of FAI in athletes with
sports hernias. American
Orthopaedic Society for
Sports Medicine’s (Aossm)
2012 Annual Meeting.
Baltimore (Maryland): July
12-15, 2012.
ONCOLOGIA
Attività fisica e sopravvivenza
dei malati di cancro
L’attività fisica è stata suggerita come mezzo efficace
per contribuire ad aumentare la sopravvivenza dei
pazienti con cancro e
anche l’Organizzazione
mondiale della sanità
(Oms) l’ha inserita tra i
nove fattori di rischio
modificabili.
Bassi livelli di attività fisica uniti a una condizione
di obesità risultano associati a percentuali valutate
tra un quinto e un terzo
dei tumori del colon, del
seno, del rene e dell’apparato digerente. L’efficacia
di interventi che comprendano programmi controllati di attività fisica sono
già stati analizzati in letteratura e, per riassumere le
prove scientifiche disponibili su questo tema, un
gruppo di ricercatrici
canadesi ne ha avviato una
revisione sistematica.
I risultati, pubblicati su
Physiotherapy
Canada
devono essere interpretati
con molta cautela, tuttavia
appare confermata la tendenza a una sopravvivenza
maggiore tra i pazienti con
diagnosi di alcuni tipi di
tumore che si sono impegnati ad aumentare i livelli
di attività fisica. In particolare, quattro studi su
sette hanno mostrato l’efficacia dell’esercizio fisico
nelle pazienti con cancro
al seno; ma purtroppo le
evidenze non sono sufficienti per determinare la
quantità ottimale di attività a causa delle differenze
dei metodi di misura utilizzati nelle sperimentazioni pubblicate finora.
Riguardo ai meccanismi
fisiologici che portano a
questi sorprendenti risul-
tati, gli studiosi possono
solo avanzare qualche ipotesi, come il potenziamento dell’azione immunitaria,
la ridotta insulino-resistenza e i più bassi livelli di
estrogeni.
Analogamente si sono
riscontrati effetti positivi
dell’attività
fisica
nei
pazienti con tumori del
colon e del colon-retto.
L’esercizio sembra migliorare ulteriormente la sopravvivenza se la pratica si associa ad altri trattamenti antitumorali standard. È interessante notare che l’attività
fisica influisce in maniera
similare sulla mortalità
generale e su quella tumore-specifica, suggerendo
un’azione diretta sulla biologia del tumore. Anche in
questo caso, si pensa che
possa contribuire la diminuzione dell’insulino-resistenza e quindi dei livelli
della concentrazione di
insulina nel siero. Un’altra
possibile spiegazione, specifica per questo tipo di
tumori, potrebbe essere il
miglioramento del transito
intestinale.
La misura più comune dell’intensità di attività fisica
è oggi il Met, o equivalente
metabolico, dall’inglese
Metabolic EquivalenT, con
cui si indica il consumo
energetico e moltiplicando
l’intensità per la durata si
ottiene l’unità di misura
Met-ora. Si è visto che i
benefici effetti per il tumore al seno iniziano già a 3
Met-ora alla settimana,
mentre nei tumori al colon
occorrono almeno 18 Metora. È probabile che la
ragione dipenda dall’effetto ormonale, specifico per
il tumore al seno, che si
attiva anche con un’attività
fisica meno intensa e prolungata.
R. T.
Barbaric M, Brooks E,
Moore L, Cheifetz O.
Effects of physical activity
on cancer survival: a systematic review. Physiother
Can 2010 Winter;62(1):2534.
OrthOviews
Review della letteratura internazionale
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20
COLONNA
Psicologia comportamentale:
il condizionamento operante
Il mal di schiena, sempre
più spesso denominato con
l’inglese low-back pain, è
un termine generico che
indica un ampio spettro di
patologie e, se nella maggior parte dei casi si risolve
spontaneamente
entro
poche settimane, talvolta
cronicizza e può portare a
gravi disabilità. Per la sua
diffusione è anzi una delle
cause di disabilità principali e comporta costi sociali
elevati; un trattamento efficace per prevenire e ridurre
la disabilità da mal di
schiena svolge dunque un
ruolo essenziale nella professione del fisioterapista.
La cronicizzazione del problema è relativamente indipendente dall’eziologia ma
risente di molti fattori, tra
cui variabili psicologiche e
sociali. Si sono così affermati, tra i diversi trattamenti del low-back pain,
anche alcuni approcci
mutuati dalla psicologia
comportamentale e, tra
questi, il condizionamento
operante, una procedura
generale di modifica del
comportamento di un
organismo, ossia una
modalità attraverso la
quale l'organismo “apprende”.
Uno dei principi chiave del
condizionamento operante
è la partecipazione attiva
del paziente. Gli obiettivi
funzionali e il programma
di attività sono concordati
e il fisioterapista incoraggia
i comportamenti positivi
del paziente durante tutto il
periodo in cui vengono
effettuati i trattamenti e si
assicura che il dolore non
ne impedisca lo svolgimento. Anzi, uno degli obiettivi
del condizionamento ope-
rante è proprio la modifica
del comportamento del
paziente nei confronti del
dolore, evitando quell’atteggiamento di paura che
spesso blocca qualsiasi pro-
gresso nel percorso di recupero funzionale.
Un recente articolo proveniente dall’Australia e comparso su Physiotherapy
Research International mostra
ora l’efficacia di questo
approccio sulla scorta di una
classica ricerca sistematica nei
principali database medicoscientifici.
Gli autori hanno individuato 15 trial di buona
qualità metodologica, per
un campione complessivo
di 3737 persone. Di questi,
otto riportano differenze
significative: i risultati del
condizionamento operante
effettuato dal fisioterapista
non sono mai inferiori ad
altri interventi nel ridurre
la disabilità e invece si
riscontra la «moderata evidenza» di una maggiore
efficacia rispetto ad altri
interventi comportamentisti. Un'altra evidenza positiva è nella riduzione della
durata del periodo di
malattia prima del ritorno
all’attività lavorativa. Si
confermano così anche i
benefici economici di un
approccio in cui le tecniche
fisioterapiche
risultano
potenziate dall’acquisizione di metodi propri della
psicologia comportamentale.
La conclusione degli autori
è che «il condizionamento
operante può essere considerato un trattamento efficace del mal di schiena e
può essere preso in considerazione dai fisioterapisti
per il suo effetto di ridurre
la disabilità a lungo termine nel low-back pain cronico».
Giampiero Pilat
Bunzli S, Gillham D,
Esterman A. Physiotherapyprovided operant conditioning in the management of
low back pain disability: A
systematic review. Physiother
Res Int 2011 Mar;16(1):4-19.
MEDICINA DELLO SPORT
TERAPIE ALTERNATIVE
Prevenzione difficile per
le lesioni degli hamstring
Sauna e terapia termale
contro la fibromialgia
I traumi agli hamstring, i
muscoli flessori del ginocchio, sono le lesioni più
comuni del tessuto soffice
della coscia. Uno studio della
Football association inglese
ha riportato che le lesioni agli
hamstring sono state il 12%
di tutti i traumi subiti dai calciatori nel corso di due stagioni agonistiche.
I principali sintomi dello stiramento degli hamstring
sono dolore, gonfiore, inibizione del movimento e spasmi muscolari.
Atleti, allenatori e terapisti
hanno messo in campo diverse strategie per tentare di prevenire questi infortuni, ma
non è chiaro se siano realmente efficaci. Due ricercatori britannici, Elliott F.
Goldman e Diana E. Jones,
hanno cercato conferme nella
letteratura scientifica e hanno
avviato una revisione sistematica, come si legge sulle
pagine di Physiotherapy.
L’obiettivo era la comparazione degli effetti degli interventi di prevenzione in soggetti
impegnati in attività sportiva
continuativa – a livello professionistico o amatoriale – e in
particolare di verificare se
l’incidenza delle lesioni agli
hamstring ne risultasse effettivamente diminuita rispetto
a individui non sottoposti ad
Dolore muscolo-scheletrico
diffuso e persistente, fatica
cronica, disfunzioni cognitive, disturbi del sonno, rigidità
mattutina, ansietà e depressione: sono tutti sintomi della
fibromialgia, che peggiorano
sensibilmente la qualità di
vita di chi ne soffre. È una sindrome complessa, che si
accompagna spesso ad artrite
reumatoide e ad altre malattie
autoimmuni, ma l’eziologia
resta sconosciuta e una cura
efficace, specifica e approvata
dalla Food and Drug
Administration non è al
momento disponibile.
Il trattamento si affida generalmente a farmaci che tengano sotto controllo il dolore,
antidepressivi e anticonvulsivi, ma si stanno facendo strada alcuni trattamenti alternativi e naturali che, senza pretese di guarigione, puntano a
un miglioramento dei sintomi. Questi però possono
essere talmente severi da
compromettere la possibilità
di svolgere esercizi fisici e
impongono la necessità di
individuare
alternative.
L’ultima delle proposte per
alleviare i sintomi della fibromialgia arriva dal Giappone,
passando attraverso la
Finlandia. Shuji Matsumoto e
i
suoi
colleghi
del
Dipartimento di riabilitazio-
azioni preventive.
I risultati non sono stati però
soddisfacenti e hanno confermato un’assenza di evidenze scientifiche affidabili,
che non deve certamente
indurre alla rinuncia alla prevenzione, ma piuttosto a uno
sforzo ulteriore per individuare interventi più efficaci e
a studi più rigorosi che ne
verifichino l’efficacia.
Goldman e Jones hanno individuato sette studi randomizzati controllati che hanno
incluso complessivamente
1.919 partecipanti. Alcuni di
questi risultano poco attendibili a causa di carenze metodologiche, come la mancata
applicazione della procedura
del doppio cieco o l’incompletezza dei dati forniti. Quattro
trial, con un totale di 287 partecipanti, hanno esaminato
interventi orientati in modo
specifico alle lesioni degli
hamstring, ma hanno fornito
esiti controversi. Tre di questi
hanno analizzato i risultati di
protocolli di allenamento per
aumentare la forza degli hamstring, ma uno solo di questi,
di piccole dimensioni, ne ha
mostrato l’efficacia. Il quarto
studio indica invece che alcuni benefici possono essere
ottenuti attraverso la terapia
manuale, ma il campione
analizzato non permette di
raggiungere una significatività statistica.
R. T.
Goldman EF, Jones DE.
Interventions for preventing
hamstring injuries: a systematic review. Physiotherapy 2011
Jun;97(2):91-9.
ne e medicina fisica
dell’Università di Kagoshima
propongono infatti il ricorso
alla tradizionale sauna finlandese.
Gli autori dell’articolo proposto da Complementary
Therapies in Clinical Practice,
fanno notare che una sauna a
raggi infrarossi, mantenuta a
una temperatura costante di
60°C, si è già dimostrata una
forma di terapia sicura per
pazienti in condizioni fisiche
debilitate, come coloro che
soffrono di insufficienza cardiaca e malattia arteriosa
periferica. In combinazione
con un’opportuna terapia fisica, la sauna induce miglioramenti nella circolazione periferica, nella sintomatologia
dolorosa e, in generale, nella
qualità di vita dei pazienti,
agendo anche positivamente
sugli aspetti psicologici che si
accompagnano ad alcune
patologie, alleviando certi
stati depressivi leggeri. Gli
studiosi giapponesi hanno
dunque deciso di sperimentare terapie termali e sauna nei
pazienti con sindrome fibromialgica.
Lo studio ha incluso 44 donne
di mezza età con fibromialgia,
alle quali è stato applicato un
protocollo terapeutico della
durata di 12 settimane, comprendente tre saune e due
giorni di esercizi da svolgere
in acqua alla settimana. I
parametri controllati sono
stati: dolore, sintomi tipici
della fibromialgia e qualità di
vita, misurati rispettivamente
con la scala visiva analogica
(Vas), il questionario dell'impatto della fibromialgia (Fiq)
e lo short form 36-item (SF36).
I risultati sono stati decisamente positivi e in tutte le
pazienti si è osservata una
riduzione del dolore e degli
altri sintomi in percentuali
variabili dal 31 fino al 77%
alla fine del programma,
rimaste relativamente stabili
nei sei mesi successivi alla
terapia. Anche gli indici legati
alla qualità di vita hanno fatto
registrare un generale miglioramento, indicando così la
terapia termale come approccio innovativo ed efficace nell’alleviare la gravità della sintomatologia associata alla sindrome fibromialgica.
Giampiero Pilat
Matsumoto S, Shimodozono
M, Etoh S, Miyata R,
Kawahira K. Effects of thermal
therapy combining sauna therapy and underwater exercise
in patients with fibromyalgia.
Complement Ther Clin Pract
2011 Aug;17(3):162-6.
23
<<
OrthOviews
Review della letteratura internazionale
LAVORO ORIGINALE
Vantaggi e applicazioni
dei bendaggi funzionali
L’utilizzo del bendaggio per
la prevenzione o il trattamento delle lesioni traumatiche articolari associate allo
sport risale all’epoca della
Grecia classica, più precisamente ad Ippocrate e
Chirone. Si riporta la radice
storica di questa tecnica alla
cultura egizia e alla grande
abilità degli egiziani nell’utilizzare le fasciature, cosa che
ancora oggi si può osservare
nella tecnica di conservazione delle mummie (1).
Il primo medico che utilizzò bende e cerotti a scopo
terapeutico fu Henry
Martin (1824-1884) per il
trattamento delle ulcere
vascolari (2).
Il bendaggio elastico fu
successivamente modificato e utilizzato da Johann
August Von Esmarck
(1823-1908) per lo svuotamento pre-operatorio dell’arto (3).
Il ritorno in auge dell’uso
delle fasciature applicate
allo sport è da attribuire
alla scuola americana che,
circa 30 anni fa, le introdusse nel protocollo di prevenzione dei traumi distorsivi negli atleti che praticavano il basket.
Il bendaggio funzionale è un
presidio riabilitativo di contenzione dinamica che,
attraverso l’applicazione di
bende adesive estensibili e
inestensibili, permette di
sostenere le strutture periarticolari capsulo-legamentose e quelle muscolo-tendinee, proteggendole da agenti patomeccanici, senza limitare la fisiologia dell’articolazione (4).
Indicazioni
Le indicazioni attuali a tale
tecnica sono molteplici e
comprendono la prevenzione di traumi distorsivi
durante la pratica sportiva, il
trattamento delle lesioni
capsulo-legamentose e/o
acute
muscolo-tendinee
minori come presidio unico
o integrativo, delle patologie
microtraumatiche croniche
(tendinosi, artralgie), della
sindrome da iperpressione
rotulea, delle condizioni
infiammatorie e degenerative articolari e periarticolari,
dei postumi traumatici
come l’instabilità articolare
e, in ambito riabilitativo,
risultano molto utili per
favorire un recupero precoce del range of motion (Rom)
articolare e della coordinazione motoria (5-8).
Diversi studi epidemiologici
riportano quanto siano frequenti i traumi distorsivi
dell’articolazione tibiotarsica negli sport caratterizzati
da intense sollecitazioni
roto-traslatorie; i suddetti
traumi presentano una frequenza del 40% nel volley,
del 13,6% nel calcio e del
50% nella pallacanestro (9,
10). Pertanto, in tali situazioni, gioca un ruolo sempre
più importante il bendaggio
nella prevenzione dell’evento traumatico.
Già Garrick nel 1973 (11)
riportava, attraverso uno
studio longitudinale che
analizzava circa 2.000 atleti
durante la stagione agonistica, un’incidenza doppia
delle lesioni capsulo-legamentose della tibiotarsica in
assenza di un bendaggio
preventivo e di circa quattro
volte superiore negli atleti
che riferivano un precedente
evento traumatico. I più
recenti studi, come ha dimostrato Ozer nel 2009 (12),
descrivono il vantaggio dell’utilizzo preventivo del bendaggio attraverso lo sviluppo delle capacità propriocettive ed esterocettive ma, allo
stesso tempo, sottolineano la
riduzione della performance
sportiva del gesto atletico,
come osservato nel salto in
alto.
Altro campo di applicazione
del taping è rappresentato
dal trattamento delle lesioni
suddette
nell’immediato
post-trauma, come testimoniato dagli ottimi risultati
riportati in letteratura dopo
l’applicazione del bendaggio
funzionale nei traumi
distorsivi sport-correlati. In
tale contesto, vari autori
hanno sottolineato l’elevato
grado di soddisfazione e di
comfort dei pazienti, la precoce ripresa delle attività
sportive e il precoce recupero di soddisfacenti performance atletiche (13-15). In
uno studio del 2002 (16)
venivano comparati i risultati del trattamento dei traumi distorsivi della caviglia
dopo bendaggio elastico o
apparecchio gessato o semisintetico per tre settimane.
La valutazione clinica e
goniometrica del Rom articolare, al momento della
rimozione della contenzione, evidenziava migliori
risultati nel gruppo trattato
con il bendaggio funzionale,
soprattutto in termini di
capacità, da parte dei
pazienti arruolati, di flessoestensione e prono-supinazione della tibio-tarsica.
In ultimo, ricordiamo l’applicazione del bendaggio
durante il periodo di riabilitazione dopo lesioni capsulo
legamentose della caviglia;
in questa fase diventa utile
sia nella rieducazione postoperatoria che dopo il trattamento incruento ed è
molto importante per ridurre i tempi di ripresa dell’attività sportiva.
Differenti tipi di bendaggi
Il bendaggio funzionale
viene
schematicamente
distinto in compressivo e
stabilizzante (taping).
Il primo viene generalmente
applicato dopo un evento
traumatico al fine di ridurre
la formazione dell’edema e
della tumefazione ed è
costituito da bende elastiche. Il secondo si basa sul
principio dei tiranti costituiti da bende anelastiche
disposte in funzione antagonista rispetto al meccanismo responsabile dell’evento
traumatico, per cui la struttura anatomica coinvolta
viene preservata attraverso
la realizzazione di uno stato
funzionale di “bassa tensione”. Quanti più numerosi
sono i tiranti, tanto maggiore è la limitazione del movimento, pertanto è razionale
adeguare la tipologia del
bendaggio alle diverse fasi
del recupero, riducendo il
numero dei tiranti verticali
od obliqui relativamente
all’evoluzione del processo
di guarigione degli elementi
>
Biagio Moretti
Professore ordinario di malattie
dell'apparato locomotore al Corso
di laurea in medicina e chirurgia
Università degli Studi di Bari
Direttore della Clinica ortopedica II - Policlinico di Bari
Presidente del Corso di laurea di
scienze delle attività motorie e
sportive dell'Università degli
Studi di Bari
> Giuseppe Maccagnano
Medico specializzando in ortopedia e traumatologia
Università degli Studi di Bari
Clinica ortopedica II - Policlinico
di Bari
anatomici lesionati.
Nel bendaggio della tibiotarsica, sottoposta a un
trauma in inversione, il
tirante elastico deve essere
posizionato con il piede in
eversione allo scopo di limitare il movimento responsabile del trauma, mentre la
benda adesiva anelastica
viene applicata sul versante
mediale della caviglia e,
attraverso una trazione in
direzione laterale, deve aderire alla cute della pianta del
piede e successivamente su
quella della superficie laterale del perone. Si possono
in tal modo applicare
numerose staffe verticali
che vengono stabilizzate
con l’ausilio di cerotti semicircolari a livello della
gamba (8).
zionale consente di ottenere
differenti effetti.
Un effetto meccanico: una
volta applicata la benda,
quest’ultima diviene un
corpo unico con i tessuti
sottostanti, supportando le
sollecitazioni e distribuendole in modo omogeneo, e
crea differenti stop meccanici. Tale contenzione è
applicata lungo il compartimento articolare danneggiato o la struttura muscolotendinea elongata.
Un effetto esterocettivo: la
benda, aderente alla cute,
trasmette il movimento articolare che intendiamo limitare, sotto forma di forza di
trazione, all’area di adesione
cutanea e ai tessuti molli
sottostanti, stimolando i
recettori cellulari locoregionali. Questi ultimi
sono responsabili dell’attivazione dei meccanismi di
difesa costituiti dalla contrazione riflessa dei gruppi
muscolari, al fine di preservare ulteriormente le strutture capsulo-legamentose.
Un effetto propriocettivo:
la suddetta condizione assicura un maggiore controllo
spaziale dell’articolazione al
fine di prevenire nuovi
eventi traumatici.
Un effetto antalgico: il ben-
I vantaggi del bendaggio
In tale ottica, uno dei principi basilari dei bendaggi
funzionali è l’effetto stabilizzante attivo ottenuto attraverso l’applicazione del
cerotto sulla cute, che
amplifica l’attività dei propriocettori nella trasmissione muscolare per instaurare
i meccanismi riflessi di
auto-difesa.
Pertanto il bendaggio fun-
OrthOviews
daggio, consentendo al
paziente di usare l’articolazione in modo tutelato e
quanto più conforme a
quello fisiologico, limita la
reazione algica tipica del
periodo post-traumatico.
Un effetto psicologico: il
sostegno che la benda riesce
a garantire produce un
effetto rassicurante per
l’atleta (4).
Questi bendaggi possono
essere utilizzati simultaneamente o in stretta sequenza;
infatti, dopo l’impiego del
bendaggio
compressivo
nella fase di ripresa dell’attività fisica dove l’edema è
ormai ridotto, è opportuno
applicare il taping che
garantisce la stabilizzazione
dinamica dell’articolazione
e che, se associato a un
opportuno lavoro fisioterapico, propriocettivo e di rinforzo muscolare, permette il
recupero precoce del Rom
articolare.
Review della letteratura internazionale
Il kinesiotaping
In tempi più recenti è stato
introdotto il kinesiotaping.
Originariamente utilizzato
in Giappone agli inizi degli
anni '90 dal dottor Kenzo
Kase (17), tale metodica si
basa sempre sulla scienza
del movimento “kinesio”, ma
la benda che viene utilizzata
è il Kinesio Tex tape.
Quest’ultima ha capacità
elastiche in una sola direzione e, prima di essere applicato, deve essere allungato
del 140% (18); inoltre, a differenza del classico taping,
può essere lasciato adeso
alla cute per diversi giorni.
Le indicazioni sono le stesse
della metodica standard, alle
quali si aggiungono i disordini muscolo-scheletrici di
origine professionale come
il low back pain. I dati della
letteratura, come viene
riportato nel lavoro di
Karatas del 2012 (19), confermano la riduzione della
dolorosa
sintomatologia
nelle rachialgie professionali
e una ripresa funzionale precoce del Rom articolare
importante nei percorsi riabilitativi (20).
I principi sui quali si basa il
kinesiotaping sono molteplici (17, 20): riduzione delle
funzione dei gruppi muscolari interessati, incremento
dell’attività del sistema linfatico e circolatorio, riduzione
dello stimolo nocicettivo,
riposizionamento del fulcro
articolare attraverso i tiranti
e capacità esterocettiva e
propriocettiva.
Tecnica di bendaggio
Il materiale indispensabile
per l’esecuzione di un bendaggio è rappresentato dal
cerotto per taping, dalla
benda adesiva, dal salvapelle, dalle compresse di
gomma-schiuma,
dalla
maglia tubulare e da un paio
di forbici. I cerotti devono
essere anallergici e mai
applicati circolarmente in
modo completo, al fine di
evitare disturbi vascolari. Le
bende adesive si distinguono in estensibili e inestensibili e vengono utilizzate a
seconda della tipologia del
bendaggio. Rappresentano il
supporto principale di ogni
bendaggio e la loro funzione
è correlata ai costituenti chimici (lattice o acrilico). Tali
bende devono essere porose
per la traspirazione cutanea
e allo stesso tempo resistenti
per supportare le sollecitazioni biomeccaniche. In tale
contesto, differenziamo il
Tensoplast dal Leukotape: il
primo è una benda elastoadesiva, utile soprattutto per
i bendaggi compressivi nel
trattamento di patologie
vascolari e muscolo-tendinee; il secondo è una benda
anelastica adesiva, quindi
inestensibile, indicata per la
prevenzione di traumi
distorsivi durante la pratica
sportiva e nella fase riabilitativa post-traumatica.
Il salva-pelle è una pellicola
in spugna utile per preservare la cute da eventuali irritazioni o lesioni provocate dal
cerotto. Le compresse servono a incrementare l’azione
soprattutto
compressiva
negli eventi traumatici acuti,
mentre le maglie tubulari
sono importanti per conferire maggiore stabilità e per la
rifinitura finale.
La tecnica di applicazione
del bendaggio varia a seconda del distretto anatomico e
della patologia da trattare,
ma si fonda su alcuni principi basilari.
Il rispetto delle corrette
indicazioni è funzionale al
risultato clinico, per cui è
fondamentale utilizzare tutti
i supporti strumentali per
una corretta diagnosi.
È necessario analizzare e
<<
24
conoscere la fisiopatologia
del meccanismo lesionale.
Appare indispensabile definire preventivamente il tipo
di bendaggio che si vuole
realizzare e solo successivamente scegliere i materiali
più idonei.
Prima
dell’applicazione,
bisogna procedere alla preparazione della cute attraverso una accurata depilazione e detersione con
sostanze sgrassanti.
Risulta inutile lasciare che il
presidio rimanga oltre il
tempo stabilito (5-6 giorni)
perché perde la sua efficacia
contentiva,
diventando
addirittura dannoso per l’insorgenza di fenomeni irritativi della cute.
Dopo avere definito i principi fondamentali sui quali si
fonda il bendaggio, è opportuno fornire alcuni consigli
pratici per la sua confezione
nei casi frequenti di traumi
distorsivi durante la pratica
25
<<
OrthOviews
Review della letteratura internazionale
sportiva.
Il bendaggio si esegue dalla
parte distale dell’arto verso
quella prossimale e l’articolazione, durante il suo confezionamento, deve essere
mantenuta in posizione funzionale; la compressione
deve essere decrescente in
senso disto-prossimale e
appare opportuno evitare il
contatto diretto tra cute e
cerotti adesivi, mantenendo
una tensione costante. È
necessario invitare il paziente a deambulare dopo il bendaggio per valutare eventuali disturbi locali o perdite di
tenuta del cerotto e/o delle
bende. Infine, è obbligatorio
informare il paziente sulle
eventuali complicanze e
istruirlo sulla procedura di
rimozione.
Controindicazioni
Le controindicazioni all’utilizzo di tale presidio sono
rappresentate dalle malattie
cutanee (reazioni eritematose, ferite lacero-contuse,
infezioni), da allergie ai
materiali da utilizzare e da
patologie vascolari arterovenose come l’insufficienza
valvolare e l’arteriopatia
obliterante degli arti inferiori di stadio III e IV che possono essere aggravate dall’utilizzo del bendaggio (21).
Allo stesso tempo è opportuno ricordare che, se dopo
l’applicazione del bendaggio
il paziente dovesse riferire
una sintomatologia ingravescente o presentare segni clinici di turbe neuro-vascolari, è assolutamente indispensabile procedere alla
rimozione repentina del
presidio (22-24).
Conclusioni
Il bendaggio è un presidio
fisioterapico e medico integrativo e non sostitutivo di
altri approcci terapeutici. Il
suo utilizzo e il risultato
clinico finale sono funzione della conoscenza dettagliata del meccanismo etiopatogenetico responsabile
dell’evento traumatico e
delle corrette indicazioni. È
opportuno inoltre conoscere i materiali a disposizione
e i principi che sovraintendono a una corretta applicazione degli stessi, in
modo da porre le basi per
realizzare un presidio funzionale e idoneo.
Il kinesiotaping, di recente
introduzione, consente un
maggiore Rom articolare e,
nell’ambito sportivo, una
migliore performance atletica. Come emerso dalla
ricerca bibliografica, l’utilizzo di tali presidi ha permesso di ottenere risultati
clinici funzionali migliori
rispetto a quelli osservati in
pazienti non trattati.
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modo migliore molte delle
condizioni patologiche che
ne sono alla base per assicurare i migliori benefici,
efficacia e sicurezza per il
paziente».
Dai risultati della revisione
si evince che i clinici,
prima di trattare la spalla,
dovrebbero effettuare una
valutazione addizionale
della parte alta della spina
dorsale e delle costole.
Riguardo alla terapia
manuale e manipolativa,
dovrebbe essere previsto
un controllo accurato delle
articolazioni gleno-omerale, acromion-claveare e
sterno-clavicolare, della
spina dorsale, delle costole
superiori e delle intere
catene cinetiche, per poi
affrontare il trattamento
chiropratico sulla scorta di
una diagnosi adeguata e
della verifica di eventuali
controindicazioni.
SPALLA
Bendaggio funzionale dell'articolazione tibiotarsica: tale presidio
può essere utilizzato sia per la prevenzione degli eventi traumatici sia
come integrazione di un programma terapeutico e riabilitativo.
Non va sottovalutata la componente psicologica: l’atleta protetto dal
bendaggio, ritrova più rapidamente quel senso di sicurezza indispensabile per una maggiore vigilanza soggettiva e un migliore rendimento atletico.
Allo stesso tempo è importante ricordare che la corretta applicazione del bendaggio funzionale è garantita esclusivamente dalla buona
manualità dell’operatore, acquisita nel tempo con la pratica.
>
L’aiuto della chiropratica
nella cura della spalla dolorosa
Un gruppo di chiropratici
californiani, coordinati da
James W. Brantingham, ha
avviato una revisione sistematica per verificare l’efficacia della terapia manuale
e manipolativa nel trattamento dei dolori della
spalla.
Una varietà di condizioni
patologiche possono essere
causa della spalla dolorosa:
dalle capsuliti adesive a
diversi tipi di artrite, dalle
tendiniti alla cuffia dei
rotatori alle infiammazioni
della borsa sottoacromiale.
Anche le terapie disponibili sono diverse e spesso si
ricorre a una serie di pro-
cedure integrate e finalizzate alla ripresa globale
della funzionalità dell'arto
superiore. Tra queste la
chiropratica, ma gli autori
non sono i soli a ritenere
che vi sia «un’apparente
disconnessione tra i servizi
svolti dai chiropratici e la
percezione pubblica di
questi servizi».
Anche se molti chiropratici utilizzano tecniche fisioterapiche,
prescrivono
esercizi e ricorrono a stimolazioni elettriche e
ultrasuoni, la professione è
spesso identificata esclusivamente con le manipolazioni della colonna. Un
approccio complessivo del
paziente, che faccia ricorso
a una combinazione di tecniche, è il punto di partenza di questa revisione e, in
qualche modo, ne è anche
la conclusione, in quanto i
risultati degli studi pubblicati in letteratura ne
mostrano la validità.
Riguardo
all’inclusione
nella revisione dei trial
pubblicati in letteratura,
gli autori hanno scelto di
adottare criteri piuttosto
ampi, che per alcuni ne
costituiranno probabilmente il principale limite,
ma Brantingham e colleghi
ritengono che «il miglior
modo di valutare le diverse
terapie non debba limitarsi
agli studi randomizzati
controllati e che l’approccio evidence-based, in
questi casi, non debba
escludere studi condotti
con modalità meno rigorosa».
Il risultato della ricerca è
conforme alle aspettative
degli autori e indica che «il
trattamento multimodale
appare oggi il più efficace
per affrontare i dolori alla
spalla; la terapia manuale e
manipolativa
dovrebbe
essere presa in considerazione e affiancare altre tecniche per combattere nel
G. P.
Brantingham JW, Cassa
TK, Bonnefin D, Jensen M,
Globe G, Hicks M,
Korporaal C. Manipulative
therapy for shoulder pain
and disorders: expansion of
a systematic review. J
Manipulative Physiol Ther
2011 Jun;34(5):314-46.
?
QUESITO
DIAGNOSTICO
FORMAZIONE CONTINUA
la sOluziOne a pagina
Istiocitosi X
Spondilodiscite
Frattura vertebrale recente con ematoma
perivertebrale
Forma tumorale aggressiva localmente
RM, sagittale, T1
>
TC, mirata su D5, finestra per osso
>
giOrgiO castellazzi
La radiografia del torace in unica proiezione frontale
risulta negativa per fatti flogistici o eteroplasici attuali.
Il medico di base richiede direttamente l’esecuzione di
un’indagine di risonanza magnetica (RM) senza contrasto, che evidenzia un’importante alterazione di segnale
che coinvolge i somi di D5 e D6, deformati a cuneo anteriore, con interessamento degli spazi discali, dei tessuti
molli paravertebrali lateralmente e del canale rachideo
dorsalmente: evidente è l’edema della spongiosa ossea
nella sequenza STIR, con basso segnale in T1.
L'indagine di RM è stata dunque completata in un
secondo tempo mediante iniezione endovenosa di
mezzo di contrasto paramagnetico, che ha rivelato lieve
e diffuso enhancement contrastografico, anche dei tes-
IPOTESI DIAGNOSTICHE
>
a cura di
INDAGINI STRUMENTALI
Una signora di mezza età, che conduce una vita lavorativa sedentaria, lamenta dorsalgie ingravescenti da circa
tre settimane.
Gli esami del sangue, eseguiti di routine nell’azienda
presso cui lavora, indicano solo un lieve quadro di anemia, senza evidente rialzo degli indici infiammatori.
•
•
•
•
•
30
RM, sagittale, STIR
>
>
suti molli paravertebrali.
L’indagine di tomografia computerizzata (TC), eseguita
come secondo step diagnostico, ha confermato l’interessamento patologico della spongiosa ossea e la tumefazione dei tessuti molli paravertebrali per la concomitanza di tessuto patologico.
È stata infine eseguita anche un’indagine TC torace e
addome (risultata negativa) con m.d.c. per escludere la
presenza di eventuali secondarismi, nel sospetto di una
forma tumorale primitiva: l’unico reperto degno di nota è
stato la presenza bilaterale di una piccola falda di versamento pleurico.
RM, sagittale, T2
TC, mirata su D5, finestra per tessuti molli
>
>
RM, sagittale, T1 con gadolinio
TC polmonare, finestra per il parenchima
29
<< <<
FOCUS ON
Gli effetti della vitamina D
sul tessuto muscolare
Soprattutto in età avanzata, un corretto apporto di vitamina D porta
a un miglioramento della funzionalità muscolare e a una significativa
diminuzione del rischio di cadute e di fratture da fragilità
he il ruolo della vitamina D nell'organismo non sia limitato
esclusivamente alla sua azione di regolazione del metabolismo osseo e dell'omeostasi
calcemica è nozione acquisita. Una mole ormai cospicua
di dati epidemiologici e clinici depone addirittura a favore
di una correlazione tra concentrazioni plasmatiche di
25-idrossicolecalciferolo
[25(OH)D] e l’incidenza di
svariate patologie croniche –
tra cui malattie cardiovascolari, disordini immunologici
e alcune neoplasie – all'interno della quale la vitamina D
sembra poter esercitare un
effetto preventivo rilevante
(1, 2).
Inoltre, una recente revisione
sistematica di 50 trial clinici
condotta dal Cochrane
Metabolic and Endocrine
Disorders Group ha rilevato
(su una popolazione totale di
94.148 soggetti con età
media di 74 anni, di cui il
79% di sesso femminile) un
effetto positivo della supplementazione con vitamina D3
(colecalciferolo) – non confermato, però, per le forme
derivate (ergocalciferolo o
D2, alfacalcidolo, calcitriolo)
– sulla mortalità generale,
con una riduzione complessiva del 6% per trattamenti
della durata mediana di due
anni confrontati con placebo
o con nessun intervento (3).
Ma anche restringendo il
discorso al suo più tradizionale ambito di azione, quello
osteoarticolare, esistono ad
oggi chiare indicazioni epidemiologiche e sperimentali
del fatto che l'azione protettiva della vitamina D non si
esplica soltanto a livello del
tessuto osseo ma anche – e
con implicazioni cliniche
altrettanto significative – a
livello del tessuto muscolare.
C
Come agisce la vitamina D
A partire dalle prime e puramente empiriche osservazioni – risalenti all'inizio del
secolo scorso – di un aumento della resistenza muscolare
in atleti esposti a raggi Uvb,
gli effetti miotrofici della
vitamina D sono poi stati
sperimentalmente indagati
dal punto di vista istochimico e morfologico nonché in
relazione agli outcome clinici
rilevanti
(performance
muscolare ed eventi patologici quali cadute e fratture da
fragilità) sia in soggetti sani
sia, e soprattutto, in soggetti
con compromissioni funzionali e in soggetti a rischio
“fisiologico” di sarcopenia e
osteopenia.
Per quanto riguarda i meccanismi molecolari degli effetti
della vitamina D, si considera ormai assodato che questi
si esercitino sia per via genomica che non genomica: la
via genomica avviene attraverso un'articolata regolazione della sintesi proteica
mediata dal legame del metabolita attivo calcitriolo
[1,25(OH)2D] con un recettore specifico (Vdr) situato a
livello nucleare; la modalità
non genomica, invece, avviene attraverso vie di trasduzione del segnale a risposta
rapida non ancora del tutto
note ma che si ritengono attivate dall'interazione della
vitamina con altri recettori
specifici. Oppure con un sito
di legame alternativo (VdrAp) a quello identificato per
la via genomica (Vdr-Gp) di
Vdr localizzati sulla membrana plasmatica (4) grazie
alla conformazione flessibile
del recettore Vdr.
A livello muscolare l'azione di
modulazione dell'espressione
genica (induzione/repressione trascrizionale) esercitata
dalla vitamina D riguarda
diversi geni e diverse proteine, alcune delle quali implicate nel metabolismo del calcio;
altre, come le isoforme dell'insulin-like growth factor-1 (Igf1) Igf-1Ea e Igf-1Ec, coinvolte
nella stimolazione dei processi rigenerativi del tessuto
muscolare e della differenziazione delle cellule staminali
muscolari (5, 6).
Complessivamente, essendo
il Vdr pressoché ubiquitario
nell'organismo, quale appartenente alla superfamiglia dei
recettori nucleari, gli effetti
genomici della vitamina D
coinvolgono un numero
altissimo di geni (circa
3.000), responsabili della
regolazione di reazioni metaboliche, dell'induzione di
risposte immunitarie, dei
meccanismi di controllo
degli eventi del ciclo cellulare, dell'adesione e comunicazione intercellulare, dell'apoptosi – vale a dire di tutti
i processi vitali che hanno un
impatto sulla prevenzione o
sullo sviluppo delle principali malattie degenerative (4).
All'attivazione Vdr-mediata
degli eventi genomici e non
genomici ascritti alla vitamina D vengono oggi collegate
anche talune modificazioni
involutive legate all'invecchiamento, sulla base dell'osservazione di una riduzione
quantitativa età-dipendente
dei recettori intracellulari in
svariati tessuti.
In relazione agli effetti della
vitamina D sulla muscolatura
scheletrica tale riscontro assume particolare rilevanza. In
uno studio su campioni bioptici di tessuto muscolare prelevati in 32 donne di età superiore a 65 anni sottoposte ad
artroplastica dell'anca o a chirurgia vertebrale, BischoffFerrari e collaboratori hanno
dimostrato, tramite determinazione immunoistochimica,
una diminuzione della concentrazione dei recettori (in
termini di numero di nuclei
Vdr-positivi) significativamente correlata all'età e indipendente sia dal distretto
muscolare (il muscolo gluteo
medio o il trasverso spinale)
sia dai livelli sierici di 25idrossicolecalciferolo e di calcitriolo (trovati per altro relativamente bassi nella maggior
parte delle pazienti). Secondo
gli autori, alla ridotta rappresentazione dei Vdr potrebbe
attribuirsi la condizione di
sarcopenia, relativa riduzione
delle miofibre di tipo II e
declino della forza muscolare
tipicamente associata all'invecchiamento (7).
La diversa suscettibilità individuale a sviluppare tale condizione con l'avanzare dell'età
potrebbe invece essere spiegata, almeno in parte, dal
considerevole polimorfismo
genetico del recettore (8), sul
quale si sta attualmente concentrando anche un ampio
filone di ricerca epidemiologica che indaga il possibile
rapporto tra genotipi Vdr al
momento noti e una serie di
patologie neoplastiche (cancro del colon-retto, carcinoma mammario), autoimmuni
(diabete tipo 1, psoriasi, vitiligine) e neurodegenerative
(sclerosi multipla, morbo di
Alzheimer,
morbo
di
Parkinson).
Gli effetti sui muscoli:
le evidenze scientifiche
Per quanto riguarda gli aspetti più prettamente clinici dell'azione della vitamina D
sulla muscolatura scheletrica,
sono ormai numerose le evidenze, accumulate soprattutto nell'ultimo decennio, relative all'impatto da un lato
degli stati carenziali, dall'altro
della supplementazione vitaminica su alcuni parametri di
funzionalità.
La miopatia, insorta in seguito a osteomalacia, tipica della
sindrome da deficit di vitamina D è, in realtà, da tempo
ben nota, anche per esserne
in molti casi il segno preminente, caratterizzato da ipotrofia e ipotonia soprattutto a
carico dei cingoli prossimali,
debolezza e dolore e conseguente
compromissione
della deambulazione.
L'altro fronte della ricerca
clinica, quello centrato sull'opportunità di una supplementazione di vitamina D
per il mantenimento della
salute muscolo-scheletrica
soprattutto nelle fasce di età e
nei soggetti a rischio, è tutto-
ra in grande espansione.
Diversi studi depongono a
favore di un'efficacia protettiva della supplementazione
con vitamina D in età avanzata, che si esplicita attraverso un miglioramento della
funzionalità muscolare (9) e
una significativa diminuzione del rischio di cadute (10) e
di fratture da fragilità (11),
con risultati che sono chiaramente apparsi sia dosedipendenti, sia influenzati
dai livelli plasmatici di
25(OH)D raggiunti.
Al momento attuale è tuttavia opinione condivisa nella
letteratura più recente che
la dose raccomandata di
200-600 UI al giorno di
vitamina D sia insufficiente
a garantirne gli effetti protettivi attesi e che vi sia indicazione per considerare
efficace un apporto giornaliero non inferiore a 8001.000 UI grazie al quale si
potrebbero raggiungere livelli ottimali di 30ng/ml
(75nmol/l), considerando
che per un soggetto anziano
la dose utile per ottenere
livelli sufficienti dovrebbe
essere superiore rispetto a
quella citata (12).
Peraltro, contrariamente a
quanto si potrebbe presumere, gli stati di ipovitaminosi
sono oggi molto comuni e in
crescita rispetto al passato,
soprattutto nei paesi occidentali e negli ambienti urbani, a
causa della diminuita esposizione cutanea alla luce solare
e dell'aumento proporzionale
della popolazione anziana,
nella quale allo scarso fotoirraggiamento si aggiungono
condizioni di malassorbimento che limitano l'apporto,
già di per sé poco significativo, di vitamina D di origine
alimentare o disfunzioni epatiche o renali che interferiscono con l'attivazione metabolica dei precursori.
Negli Stati Uniti, per esempio,
i Centers for Disease Control
and Prevention hanno riportato una diminuzione della
percentuale di adulti bianchi
con livelli plasmatici di
25(OH)D considerati sufficienti (>30 ng/mL) dal 60%
degli anni 1988-1994 al 30%
del periodo 2001-2004 e contemporaneamente un aumento del numero di casi di carenza vitaminica D grave (<10
ng/mL) (13).
C. P.
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<< <<
CORSI E CONGRESSI
30
L’ A g e n d a d e l l ’ O r t o p e d i c o
2012
21-25 ottobre
40° congresso nazionale SIMFER
9th Mediterranean Congress of PRM
Sorrento
Segreteria Organizzativa: MediK
Tel. 049.8170700 - Fax 049.2106351
www.prmcongress2012sorrento.org
[email protected]
25-27 ottobre
XI congresso nazionale Società italiana terapie
con onde d’urto (SITOD)
Torino, Centro Congressi Torino Incontra
Segreteria Organizzativa: Med & Sport 2000 srl
Tel. 011.6677682 - Fax 011.6679705
[email protected] - www.sitod.it
26-27 ottobre
Biotecnologie, salute e nutrizione
Rimini, Palacongressi
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected]
www.csrcongressi.com
Tabloid di Ortopedia
Mensile di informazione, cultura, attualità
Anno VII - supplemento al numero 6 (settembre 2012)
Direttore responsabile
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Redazione
Andrea Peren [email protected]
Segreteria di redazione e traffico
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Grafica e impaginazione
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Hanno collaborato in questo numero: Giorgio Castellazzi, Cesare
Cerri, Irene Giurovich, Monica Oldani, Giampiero Pilat
PUBBLICITÀ
Direttore commerciale
Giuseppe Roccucci [email protected]
Vendite
Sergio Hefti (agente) [email protected]
Manuela Pavan (agente) [email protected]
TIRATURA DEL PRESENTE NUMERO: 8.000 copie
Editore: Griffin srl
Piazza Castello 5/E - Carimate (Como)
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27 ottobre
Congresso Kinemovecenter
La pubalgia
Pontremoli (MS)
Segreteria Organizzativa: Ialt
Tel 346.1754474 - 340.4290311
Fax 035.2922021
[email protected] - www.kinemovecenter.it
9-10 novembre
La complessità in riabilitazione
Verona, Palazzo della Gran Guardia
Segreteria Organizzativa: Ufficio Formazione
Ospedale “Sacro Cuore - Don Calabria”
Tel. 045.6013208 - Fax 045.7500480
[email protected]
www.sacrocuoredoncalabria.it
9-10 novembre
VII corso internazionale teorico-pratico
Il team interdisciplinare del pavimento pelvico
Crema (CR)
Segreteria Organizzativa: New Progress
Tel. 051.6486365 - Fax 051.6565061
[email protected]
9-10 novembre
Corso teorico-pratico di interventistica muscolo
scheletrica eco-guidata
Roma
Segreteria Organizzativa: Infoplan srl
Tel. 06.7020590/70309842
Fax 06.23328293
[email protected]
www.formazionesostenibile.it
10-11 novembre
Taping neuromuscolare: applicazioni in
fisioterapia - corso base
Civitanova Marche (MC)
Segreteria Organizzativa: Edi.Ermes
Tel. 02.70211274 - Fax 02.70211283
[email protected]
www.ediacademy.it
16-17 novembre
Corso ICF
Classificazione internazionale del funzionamento,
della salute e della disabilità
Roma
Segreteria Organizzativa: MediK
Tel. 049.8170700 - Fax 049.2106351
www.simfer.it - www.medik.net
17-18 novembre
X Congresso Internazionale GTM-AIFI
Physiological adaptations to musculoskeletal pain:
clinical evaluation and treatment in physical therapy
Bologna, Novotel Bologna Fiera
Segreteria Organizzativa: Gruppo di Terapia Manuale-AIFI
Dott. Davide B. Albertoni
[email protected]
Cell. 335.6662683
2013
18-20 marzo
Giornate di aggiornamento multiprofessionale
VII corso teorico-pratico
Riabilitazione, una scienza in cammino: il nuovo
in medicina fisica e riabilitativa
La Villa (BZ)
Segreteria Organizzativa: Medi K srl
Tel. 06.48913318 - Fax 06.89280089
[email protected]
www.simfer.it
18-20 aprile
Congresso nazionale della società italiana di
riabilitazione neurologica
Bari, Sheraton Nicolaus Hotel
www.sirn.net
20-22 aprile
Congresso internazionale Isokinetic
Football medicine strategies for muscle and
tendon injuries
Londra, Queen Elizabeth II Conference Centre
Segreteria Organizzativa: Isokinetic Medical Group
Tel. 051.2986814 - Fax 051.2986886
www.isokinetic.com - [email protected]
23-25 maggio
9° corso nazionale Società medica italiana
paraplegia (SOMIPAR)
Perugia
Segreteria Organizzativa: PLS Educational spa
Tel. 055.2462235 - Fax. 055.2462270
[email protected]
www.somipar.it
24-25 maggio
3° congresso nazionale Società Italiana di
Fisioterapia (SIF)
Attualità e prospettive dell'esercizio terapeutico in
fisioterapia: concetti e proposte a confronto
Napoli, Università di Napoli Federico II
Segreteria Organizzativa: Società Italiana Fisioterapia
[email protected]
www.sif-fisioterapia.it
16-20 giugno
7th world congress of International society of
physical and rehabilitation medicine (ISPRM)
Beijing, Cina
Tel. +86 (10) 8515 8148
Fax +86 (10) 6512 3754
[email protected]
www.isprm2013.org
21-24 novembre
XLIX congresso Società italiana di reumatologia
Milano, MiCo
Segreteria Organizzativa: AIM Group International
Tel. 02.56601.1 - Fax 02.56609045
[email protected]
www.congressosir2012.com
www.reumatologia.it
24-25 novembre
XVI Congresso Nazionale della Società Italiana
di Educazione Fisica (SIEF)
Imparare a muoversi. La necessità della
ginnastica come scienza e come educazione
Pisa, Centro Polifunzionale A. Maccarrone - Auditorium
Segreteria Organizzativa: Istituto Duchenne
Tel. e Fax 055.4360774 - [email protected]
30 novembre - 1 dicembre
Corso nazionale SIMFER
Tecnologie per promuovere attività e
partecipazione
Prato, Hotel Datini
Segreteria Organizzativa: MediK
Tel. 049.8170700 - Fax 049.2106351
[email protected]
www.simfer.it - www.medik.net
ORTORISPOSTA
RISPOSTA AL QUESITO DIAGNOSTICO
L’interessamento di corpo vertebrale e disco intersomatico con presenza di tessuto infiammatorio paravertebrale, l’assenza di secondarismi e la buona risposta a
terapia antibiotica hanno permesso di porre diagnosi di
spondilodiscite.
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