ISSN 1970-741X Supplemento a Tabloid di Ortopedia Anno VII Numero 6/2012 Poste Italiane Spa - Sped. in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. I comma I, DCB Milano Taxe Perçue NUMERO SPECIALE 40° CONGRESSO NAZIONALE SIMFER 9TH MEDITERRANEAN CONGRESS OF PRM Raffaele Gimigliano La medicina riabilitativa nell’area del Mediterraneo: strategie ed esperienze Anche quest’anno Tabloid di Ortopedia dedica un numero speciale al il 9° congresso del Mediterranean Forum of Physical and Rehabilitation Medicine (Mfprm), organizzato insieme al 40° congresso della Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa (Simfer), che si tiene a Sorrento dal 21 al 25 ottobre. Il programma scientifico ruota attorno al tema della medicina riabilitativa nell’area del Mediterraneo, valutandone strategie ed esperienze. Come spiegano gli organizzatori il congresso sarà un’occasione unica per affrontare le problematiche riabilitative cliniche, tecniche, organizzative e di ricerca alla luce del continuo progresso scientifico e della evidence based rehabilitation e L’UTILITÀ PRATICA DELL’EVIDENCE BASED MEDICINE per confrontarsi con le realtà riabilitative dei vari paesi del bacino del Mediterraneo, che comprende tre continenti così diversi come l’Europa, l’Africa e l’Asia. Obiettivo dichiarato è quello di tentare di uniformare le procedure al fine di rispondere alla sfida della globalizzazione. «Le sfide del futuro si terranno sulla qualità e l’efficacia delle prestazioni della medicina riabilitativa, pertanto è necessario che la ricerca e la formazione vengano riqualificate al fine di preparare specialisti esperti e motivati a prendersi carico delle persone con disabilità» spiegano Raffaele Gimigliano (presidente del congresso), Jorge Lains (presidente Mfprm) e Vincenzo Maria Saraceni (presidente Simfer). LA SPORT-TERAPIA: L’ESPERIENZA DEL VENETO RIABILITAZIONE PEDIATRICA L ’ i n t e r v i FISIOVIEWS LA RICERCA NEL MONDO GRIFFIN EDITORE www.griffineditore.it - [email protected] s t a IL QUESITO DIAGNOSTICO CORSI E CONGRESSI << << FACTS&NEWS 2 La Simfer al congresso numero quaranta Ogni tema verrà introdotto con una relazione sullo stato dell’arte; seguirà poi il dibattito scientifico in aula. E Simfer apre anche a un confronto con gli altri attori sociali: associazioni di pazienti, Irccs e istituzioni pubbliche Per la quarantesima edizione del suo congresso nazionale, la Società italiana di medicina fisica e riabilitativa ha scelto la meravigliosa cornice di Sorrento, davanti a quel mare su cui si affacciano i Paesi che hanno dato origine alla nostra civiltà e a cui la Simfer ha deciso di rivolgersi per un confronto sicuramente proficuo e interessante. Il titolo del congresso è infatti “La medicina riabilitativa nell’area del Mediterraneo: strategie ed esperienze”. A presiedere l’evento è Raffaele Gimigliano, professore ordinario di medicina fisica e riabilitativa alla Seconda Università di Napoli, dove è presidente del corso di laurea in fisioterapia e direttore della scuola di specializzazione in medicina fisica e riabilitativa. Past president della Simfer, il professor Gimigliano è vice presidente del Mediterranean forum of physical and rehabilitation medicine (Mfprm), socio fondatore della Società italiana di riabilitazione neurologica (Sirn) e della Società italiana di chirurgia dell’osteoporosi (Sico). Professor Gimigliano, l’evento di Sorrento è un congresso congiunto tra Simfer e Mfprm. Come si è arrivati a questa decisione? La decisione di organizzare un congresso congiunto tra la Società italiana di medicina fisica e riabilitazione e il Mediterranean forum physical and rehabilitation medicine è nata con lo scopo di confrontare le esperienze culturali, formative e scientifiche nonché le modalità di erogazione delle attività riabilitative in Italia e nei paesi del bacino del Mediterraneo. Il contributo che la medicina riabilitativa italiana può dare è notevole, visti gli ottimi livelli raggiunti sia dal punto di vista organizzativo che clinico-assistenziale. Mfprm è un acronimo che ancora molti non conoscono. Che cosa indica? Il Mediterranean forum physical and rehabilitation medicine non è ancora una società scientifica, ma un forum, cioè un modello di aggregazione di medici che si occupano di medicina riabilitativa nei Paesi bagnati dal Mediterraneo. Da circa vent’anni il Forum ha costruito e consolidato rapporti di collaborazione e di scambi culturali coordinati dalle singole società scientifiche nazionali. I congressi sono organizzati con cadenza biennale. L’Italia ha sempre contributo alla realizzazione degli eventi scientifici promossi dal Forum, infatti già nel 2002 è stato organizzato un primo congresso a Siracusa. A distanza di dieci anni, con il congresso di Sorrento si vuole imprimere un ulteriore slancio alle iniziative scientifiche di questa realtà, puntando soprattutto sulla partecipazione dei giovani. Quali sono le caratteristiche più significative della medicina fisica e riabilitativa nei paesi mediterranei? La riabilitazione è ormai diventato un bagaglio culturale di tutte le nazioni occidentali. Nei paesi in via di sviluppo il ricorso alla riabilitazione non è sempre possibile perché spesso le prestazioni sanitarie mediche in generale non sono adeguate ai reali bisogni della popolazione. Confrontare i livelli organizzativi tra i vari sistemi sanitari consente a tutti di fare tesoro delle esperienze positive e di correggere eventuali comportamenti non appropriati. Le caratteristiche della riabilitazione nei vari paesi sono legate alle differenze epidemiologiche delle malattie che affliggono le popolazioni, che nel bacino del Mediterraneo sono abbastanza diversificate. Un esempio è dato dal reiterarsi di conflitti bellici in alcuni paesi e il conseguente aumento del numero di persone che subiscono danni irreversibili che determinano disabilità croniche non modificabili, come amputazioni di arto e ferite con perdita di sostanza. Peraltro vi sono disabilità molto frequenti e comuni tra i vari paesi, secondarie a danno neurologico come le paralisi cerebrali infantili nel bambino, lo stroke e i traumi cranio encefalici nell’adulto. Anche le malattie muscolo-scheletriche, che limitano la partecipazione alle attività lavorative sono oggetto di particolare attenzione. Qual è lo stato della formazione e della ricerca nei paesi Mediterranei? La formazione ha modalità differenti tra le varie nazioni; le scuole, spesso inadeguate, hanno bisogno di un supporto da parte delle nazioni meglio organizzate e anche in questo caso l’Italia insieme ad altre nazioni europee ha dato e dà un contributo valido tramite le università e altri enti di formazione. Da diversi anni è stata istituita a Siracusa la Haim ring Euro-Mediterranean Summer School, dove per una settimana, di solito nel mese di ottobre, 40 giovani specializzandi in medicina fisica e riabilitativa dell’area del Mediterraneo seguono un corso monotematico in lingua inglese su argomenti clinici attuali, tenuto da docenti italiani e stranieri. Al congresso di Sorrento è prevista una sessione dedicata alle relazioni di ex allievi che negli anni scorsi hanno frequentato la scuola e che oggi, anche grazie a quegli insegnamenti, hanno le capacità scientifiche per poter preparare e presentare una ricerca. La ricerca clinica in riabilitazione ha avuto un incremento notevole in questi ultimi anni e l’acquisizione di tecnologie innovative ha consentito di effettuare numerosi studi di qualità in vari ambiti della riabilitazione in tutte le nazioni che fanno parte del Forum. Quali sono le tematiche principali del congresso nazionale Simfer e in che ottica si è scelto di affrontarle? Il congresso è stato organizzato a topic. Ogni topic è affrontato con una o più relazioni introduttive che fanno il punto sullo stato dell’arte in ambito scientifico sull’argomento trattato. A seguire vengono presentati tutti i contributi inviati dai partecipanti al congresso. Il comitato scientifico ha selezionato oltre 500 abstract per essere presentati come comunicazioni orali o poster nei quattro giorni di congresso in tre sale che lavorano in contemporanea. Una delle sessioni è dedicata alla disabilità secondaria all’osteoporosi e alle fratture correlate, che rappresenta un argomento d’interesse 3 << << emergente in ambito riabilitativo, in considerazione del numero sempre maggiore di persone che è affetto da questa malattia e ne subisce le conseguenze. Le altre sessioni affrontano quasi tutte le problematiche di interesse scientifico in ambito riabilitativo. Inoltre vi sono tavole rotonde con le associazioni dei malati, con i rappresentanti degli Irccs e di istituzioni pubbliche e private che discutono con tutte le categorie dei medici degli aspetti organizzativi della riabilitazione in Italia, anche alla luce del nuovo piano di indirizzo sulla riabilitazione. Ci può segnalare alcune delle sessioni più interessanti? Come già detto, i lavori scientifici vengono presentati in tre aule. La domenica pomeriggio si tiene la sessione degli specializzandi e, a seguire, la sessione dedicata alla Summer Scool di Siracusa e ad una scuola di analoga Marsiglia, dove i relatori sono ex allievi delle stesse. La cerimonia inaugurale si svolge nel pomeriggio di domenica 21 ottobre e la lettura introduttiva è tenuta dal professor Luigi Tesio sulle prospettive future della medicina riabilitativa. Ampio spazio è dato alle disabilità secondarie a malattie neurologiche tra le quali lo stroke, le gravi celebrolesioni acquisite, le malattie degenerative del sistema nervoso centrale, le malattie del secondo neurone e neuromuscolari e i disturbi neuropsicologici. Le ultime ricerche sulla robotica sono oggetto di un ampio dibattito nelle varie sessioni del congresso. Vi sono sessioni dedicate anche alle disabilità che colpiscono le persone con patologie muscoloscheletriche e una dedicata alla riabilitazione in ambito sportivo. Particolare attenzione è stata data alle sessioni dedicate alle disabilità viscerali, prima fra tutte quelle cardio-polmonari, dove l’approccio riabilitativo sul piano organizzativo in Italia rispetto alle altre nazioni è, a nostro parere erroneamente, più indirizzato all’organo che non alla persona, come invece richiede un moderno approccio bio FACTS&NEWS psico-sociale proprio della moderna fisiatria, anche alla luce dei contenuti dell’ICF e come richiamato in modo forte dal nuovo piano d’indirizzo per la riabilitazione. Infine, voglio segnalare che quasi tutte le sezioni della Simfer hanno contribuito a inviare validi contributi scientifici che costituiscono l’oggetto di numerose relazioni, come si evince dal programma del congresso. Tra i relatori ci sono presenze significative che vuole segnalare? Ci sono molte presenze significative, ma non voglio segnalare nessuno perché finirei per dimenticare qualcuno. Voglio precisare che non ci sono stati inviti a presentare relazioni, se non in pochi casi nei quali era necessario avere persone esperte in ambiti non riabilitativi che portassero un contributo significativo, come nel caso della professoressa Anna Maria Colao, che presenterà una lettura in una delle nelle sessioni sull’osteoporosi. C’è anche un contributo del professor Hans Georg Kress, presidente della Federazione europea del dolore, che presenterà una relazione introduttiva sui meccanismi che scatenano il dolore e su come oggi i farmaci agiscono per controllarlo senza grossi danni per l’organismo e con scarsi effetti collaterali. Un contributo scientifico significativo al congresso è venuto da numerosissimi fisiatri italiani e stranieri che con professionalità svolgono quotidianamente il loro lavoro; inoltre devo segnalare anche l’apporto valido dato dalle scuole di specializzazione universitarie, che hanno portato contributi qualitativamente e quantitativamente importanti. Infine, ci può sintetizzare quali sono gli obiettivi principali per questo congresso? Gli obiettivi sono di far incontrare, discutere e scambiare opinioni in un campo come quello della riabilitazione, che negli ultimi anni ha fatto molti passi avanti nella ricerca, ma che ancora dovrà studiare e creare nuove procedure, modalità e strategie affinché le persone con disabilità possano essere in grado di riprendere una vita di relazione e partecipativa normale. Ci auguriamo quindi che l’evento rappresenti realmente un momento di crescita culturale e di scambio internazionale, elemento che ritengo essenziale per il successo di tali manifestazioni. Il prossimo anno ad Alessandria d’Egitto si terrà il decimo congresso del mediterraneo e a Roma il quarantunesimo congresso della Simfer per continuare questo percorso scientifico, di cui c’è sempre più bisogno. Renato Torlaschi A ROMA LA PROSSIMA EDIZIONE DEL CONGRESSO SIMFER La prossima edizione del congresso della Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer) si terrà a Roma, presso il Polo didattico “Giovanni XXIII” dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, da domenica 13 a mercoledì 16 ottobre 2013 e affronterà il tema della ricerca. Il titolo è “La ricerca in medicina riabilitativa per una scienza del recupero” e a presiedere l’evento saranno il dottor Fabio De Santis, responsabile delle attività sanitarie e socio-educative della Fondazione Don Carlo Gnocchi onlus per il polo Lazio-Campania Nord e Giuseppe Palieri, direttore del dipartimento di medicina fisica e riabilitativa presso l’Ospedale S. Giovanni Battista Acismom di Roma. 5 << << FACTS&NEWS La nuova visione della medicina riabilitativa Obiettivo dichiarato della Simfer è la diffusione della visione della disciplina individuata dal Piano di indirizzo per la riabilitazione elaborato dal ministero della Salute e dalla stessa società scientifica Alla vigilia della quarantesima edizione del congresso della Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer), cogliamo l’occasione per discutere con il presidente, Vincenzo Maria Saraceni, dello stato attuale di una disciplina medica del tutto particolare. Le differenze si esprimono nell’attività clinica, nella ricerca, nella valutazione dei risultati e soprattutto nel rapporto con il paziente. Il ruolo di presidente Simfer offre un punto di osservazione privilegiato e la responsabilità di affermare e diffondere un approccio terapeutico che reclama un pieno riconoscimento e che ha molto da insegnare anche a tutti i medici, qualunque sia la loro specializzazione. Professor Saraceni, quali obiettivi si era proposto all’inizio del suo mandato e qual è il bilancio di questi primi mesi di presidenza? È naturalmente presto per fare bilanci e credo che non spetti neanche a me farli. Voglio dire, però, che, al momento dell’insediamento ho trovato quel documento straordinario, costituito dal Piano di indirizzo per la riabilitazione, che il ministero aveva approvato pochi mesi prima con il contributo significativo offerto anche dalla nostra società scientifica. In questo senso, l’impegno assunto da subito è stato quello di far diventare il piano il fondamento culturale unificante per quanti si occupano, a vario titolo, di riabilitazione. E, su questo, non sono mancate le occasioni, in Italia e all’estero (come nel recente congresso europeo di Salonicco) in cui abbiamo chiamato tutti a una riflessione sui contenuti del piano. Per semplificare: passaggio dal modello di malattia al modello di salute, il progetto riabilitativo individuale quale strumento fondamentale per disegnare la risposta al bisogno del paziente nell’intero percorso dall’ospedale al domicilio, il dipartimento riabilitativo per rendere appropriato il percorso di cui sopra, il lavoro in team multidisciplinare. Ecco, a partire dalla accettazione di questi elementi diventa facile, oggi, identificare quali sono gli attori che vogliono e debbono stare dentro il mondo della riabilitazione. Ho messo mano alla diffusione di questa visione e rimane l’obiettivo di fondo dell’intero triennio. Una recente iniziativa è il forum frutto della collaborazione tra Simfer e Corriere della Sera. Quanto conta la comunicazione con il pubblico? La collaborazione con il Corriere della Sera online, iniziata ormai da circa cinque mesi, è nata da un progetto di comunicazione portato avanti dalla Simfer che si avvale della collaborazione di un proprio addetto stampa e che prevede, tra i diversi punti, la maggiore interazione tra gli specialisti di medicina fisica e riabilitativa con i cittadini. Il forum di discussione del Corriere della Sera ci è sembrata un’importante opportunità, un canale privilegiato attraverso il quale il cittadino può esprimere i propri dubbi, perplessità, richiedere pareri rispetto alle tematiche riabilitative, un complemento a quella che poi sarà la vera e propria attività pratica a cui il paziente si dovrà sottoporre e che chiaramente non vuole essere nel modo più assoluto sostitutiva. Questa iniziativa può essere letta come il segno di un’attenzione particolare con i media? I media sono strumenti importanti nella comunicazione sociale e con il pubblico, offrono l’opportunità di interagire direttamente con gli utenti finali in particolare per una corretta educazione sanitaria e, soprattutto nel caso di tematiche medico-scientifi- che, riescono a dare la possibilità di creare un filo diretto e immediato con il cittadino. Più che di attenzione particolare si deve parlare di reciproca collaborazione per diffondere messaggi di utilità sociale. Come è cambiato nel corso degli anni il ruolo dell’esperto in medicina fisica e riabilitazione e come si prospetta il futuro? C’è un problema di riconoscimento e di valorizzazione di questo ruolo? Lo specialista in medicina fisica e riabilitazione, per noi, più semplicemente, il fisiatra, è uno specialista che differenzia in modo radicale dagli altri perché non è chiamato a fare diagnosi di malattie ma a trovare metodologie adeguate per il recupero delle condizioni di disabilità conseguenti alle malattie. Inoltre il fisiatra deve farsi carico del bisogno complessivo della persona con disabilità che, con tutta evidenza, va oltre la sua patologia e investe la prospettiva di autorealizzazione e di partecipazione piena alla vita sociale. Ecco perché la demarcazione con le altre specializzazioni è netta e non consente confusioni, neanche terminologiche. Questo non significa che altri specialisti non si pos- sano occupare di riabilitazione, significa solo che devono smettere di fare il loro mestiere abituale e dedicarsi a un’altra visione. Esistono ancora difficoltà alla diffusione e accettazione di questa impostazione ma rispetto a venti o anche dieci anni fa sono stati conseguiti riconoscimenti importanti e sono fiducioso per il futuro, non per la disciplina che rappresento perché sarebbe un’aspettativa di categoria, ma per il mondo della disabilità, che solo in questo modo potrà avere risposte sempre qualificate e uscire da condizioni di isolamento culturale e sociale che sono ancora presenti. Quali sono le particolarità e le difficoltà di una ricerca scientifica nella riabilitazione e qual è lo stato della ricerca in questo ambito? Quello che si è detto sulla specificità della specializzazione in Medicina fisica e riabilitazione ha ricadute sulla ricerca in riabilitazione. La nostra ricerca non è su parametri biologici (penso all’effetto dei farmaci su glicemia o pressione arteriosa) ma su comportamenti dell’uomo, quali la capacità di muoversi per esplorare e dare significato al mondo o il parlare quale strumento decisivo per la relazione interpersonale. IL FORUM SU CORRIERE.IT Un team della Simfer da qualche mese risponde alle domande dei lettori del sito web del Corriere della Sera attraverso il forum http://forum.corriere.it/forum-riabilitazione. Nella foto, gli esperti che rispondono al forum: da sinistra Saraceni, Fletzer, Giustini, Gimigliano, Iocco, Zampolini, Rovere e Uliano Vincenzo Maria Saraceni, presidente Simfer > Quindi dobbiamo avere strumenti di valutazione dell’efficacia dei nostri interventi di riabilitazione specifici e diversi da quelli della medicina biologica. Oggi la medicina vuole, giustamente, l’evidenza e noi stiamo cercando un’evidenza che sia solo riabilitativa. Devo dire che rispetto ad alcuni anni fa la qualità e quantità della ricerca riabilitativa è considerevolmente cresciuta. Sarà sufficiente dire che la European journal of physical and rehabilitation medicine (Ejmpr), la rivista internazionale promossa dalla Simfer, riceve circa trenta lavori alla settimana e ha raggiunto un impact factor di circa due in pochi anni. Recentemente a Salonicco si è discusso sui modelli organizzativi della riabilitazione in Europa. Ce ne può parlare? In questi anni in molti paesi europei la riabilitazione ha avuto un rapido e unitario sviluppo, pur con le ovvie diversità economico-culturali e storiche rispetto ai sistemi sanitari e socio-assistenziali. Questo è avvenuto perché le evidenze culturali e scientifiche, le attese sociali ed epidemiologiche delle popolazioni, i dati emergenti dalle esperienze organizzative e gestionali provenienti da altri Paesi più avanzati come Stati Uniti, Canada e Australia, concordemente danno forza alla costruzione di una vera e propria “scienza” unitaria e organica, con proprie metodologie, propri strumenti e propri obiettivi. In questi ultimi anni, inoltre, i documenti prodotti dalle Nazioni Unite, dall’Organizzazione mondiale per la sanità, dalla Banca mondiale per lo sviluppo e dall'Unione europea hanno confermato l'urgenza di dare alle attività della riabilitazione una posizione sempre più centrale in tutte le politiche per la difesa della salute per tutte le persone in ogni condizione di età o di malattia. Il modello orga- nizzativo necessariamente è quindi quello bio-psicosociale, che vede la riabilitazione come strumento di prevenzione, di difesa e di recupero delle condizioni complessive di partecipazione e salute per tutte le Persone, e di contrasto alla disabilità di ogni natura. Gli elementi determinanti di questa nuova "vision" della riabilitazione sono da un lato la unitarietà e globalità delle presa in cura della persona, con tutta la sua complessità e le sue potenzialità, nel proprio contesto di vita sociale familiare, e la coerenza e continuità pur nella articolazione degli interventi, evitando quindi, prima di tutto, la frammentazione che la tradizionale impostazione centrata sulle patologie rischia di provocare. Come si inserisce il Piano nazionale italiano nell’ambito della situazione europea? Il confronto con i rappresentanti degli altri paesi europei (dai Paesi Bassi alla Germania, dalla Francia alla Svezia a tanti altri) ha sottolineato, oltre alla completezza delle indicazioni contenute nel Piano italiano, la sua validità, in particolare in un momento in cui tutti siamo orientati a verificare con estrema attenzione la validità della allocazione di ogni risorsa rispetto ai risultati ottenuti. Questo confronto proseguirà nei prossimi mesi grazie ad alcune iniziative scientifiche della Simfer, non tanto per far conoscere ancora meglio il Piano quanto per utilizzare gli approfondimenti e le riflessioni dei colleghi, portatori di tante esperienze diverse, allo scopo di arricchirlo sempre di più e meglio, nell’applicazione concreta che per fortuna con celerità il ministero e le regioni stanno realizzando, e per farlo diventare magari la traccia per uno sviluppo unitario delle linee guida organizzative della riabilitazione a livello europeo. Renato Torlaschi << << FOCUS ON 6 Perché scegliere di fare il fisiatra? La fisiatria è una disciplina della funzione e non dell'organo, ad approccio olistico e non iperspecialistico. Dal punto di vista lavorativo offre buone prospettive e può essere interpretata secondo le inclinazioni individuali Lo specialista di medicina fisica e riabilitativa è una figura particolare nell’ambito della scienza medica, estremamente attuale nel suo approccio complessivo alla persona. Al medico che intende affrontare questa professione si richiedono attitudine e impegno che verranno ripagati da una quotidianità che può essere molto ricca dal punto di vista clinico, scientifico e umano. Per dare un’occhiata un po’ più da vicino all’attività del fisiatra, Tabloid di Ortopedia ha intervistato Bruna Lombardi, Direttore della UO di recupero e rieducazione funzionale dell’Azienda Usl 4 di Prato. Specialista in medicina fisica e riabilitativa, in geriatria e in igiene e medicina preventiva, la dottoressa Lombardi ha partecipato per la regione Toscana ai lavori della commissione del ministero della Salute sugli stati vegetativi e al gruppo di lavoro regionale sulle Gcla (grave cerebro-lesione acquisita) ed è segretario della sezione Toscana della Simfer. Dottoressa Lombardi, la pratica della medicina è ormai divenuta parcellizzata in specializzazioni e iperspecializzazioni, qual è allora il senso di scegliere una specializzazione olistica? Fra tante discipline che mirano a salvare la vita, la fisiatria è medicina globale per la qualità della vita, quindi il fisiatra è il miglior alleato dei colleghi della fase acuta, perché trova la sua ragion d’essere nel completare e ottimizzare il lavoro iniziato da altri ricercando positive sinergie. Se un giovane medico crede in questo, e vede la qualità di vita come valore fondamentale per l’uomo, allora può trovare casa in fisiatria. Ci può spiegare su quali problematiche opera il fisiatra e come si svolge concretamente la sua attività? Il fisiatra è lo specialista in medicina fisica e riabilitativa. Ha esperienza nel trattamento della disabilità generata da diverse noxae patogene. Tratta l’acuzie, la cronicità e le limitazioni accentuate dal dolore. Si occupa di patologia neuromuscolare, osteoarticolare, di problematiche cognitivo-relazionali e psicologiche. Interviene secondo principi di biomeccanica e di ergonomia. Pratica una disciplina di area medica e ha conoscenze in ambito internistico, cardiorespiratorio, vascolare, metabolico-nutrizionale, nefro-urologico, sempre facendo riferimento ai consulenti d’organo. Il suo lavoro mira a restituire partecipazione e autonomia sia nell’ambiente fisico che familiare, lavorativo-scolastico e socio-relazionale. Lavora quindi con la famiglia per renderla partecipe del progetto riabilitativo individuale. Lavora con le aziende per favorire il reintegro lavorativo, collabora con i medici competenti aziendali, con i medici del lavoro e i medici legali per ottenere la miglior partecipazione possibile anche attraverso i percorsi legislativi esistenti. Opera in team interprofessionale e interdisciplinare realizzando il progetto riabilitativo individuale che coordina (vedi Linee di indirizzo per la riabilitazione – ministero della Salute 2011). Il team riabilitativo è lo strumento di governance clinico-riabilitativa. C’è spazio, fra tante discipline d’organo, per una disciplina della funzione? In una società in cui la prevalenza della disabilità è pari al 10%, in cui la cronicità e la comorbidità rappresentano un carico assistenziale e socio-economico sempre meno sostenibile, si creano i presupposti per pensare a interventi sulla persona che abbiano un significato preventivo della disabilità. Quando la disabilità si manifesta in giovane età, o addirittura nell’infanzia, ecco che la riabilitazione si arricchisce di significati più propriamente abilitativi, volti a creare quel patrimonio di esperienze somato-sensoriali che si legano a un corretto sviluppo somato-psichico. Come è cambiata negli anni la professione del fisiatra? La medicina fisica e riabilitativa è nata circa 90 anni fa negli Stati Uniti. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale e con la Guerra di Corea e del Vietnam, gli interventi riabilitativi sui Veterans hanno contribuito alla crescita di questa disciplina. In Europa e in Italia ha iniziato a essere praticata negli anni Cinquanta. Quindi è una disciplina giovane. Ritenuta importante nel mondo anglosassone, oggi si sta affermando nel bacino del Mediterraneo. La Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer), la European society of physical and rehabilitation medicine (Esprm), il Mediterraneam forum of physical and rehabilitation medicine (Mfprm) e la International society of physical and rehabilitation mMedicine (Isprm) rappresentano oggi le più importanti comunità scientifiche in questo ambito. Questa disciplina si è arricchita negli ultimi anni con lo sviluppo di filoni di ricerca e di nuove possibilità derivanti dall’impiego di nuove tecnologie adattative e quindi dalla possibilità di collaborazione con la bio-engineering, per la ricerca di materiali leggeri e performanti, per ricevere ed elaborare dati a scopo di ricerca, per creare ambienti di lavoro virtuali, per strutturare esoscheletri di sostegno e movimento, per favorire la comunicazione, per adattare la tecnologia for all ai bisogni dei disabili, con minor impegno di spesa e maggior possibilità di accettazione di uno strumento o ausilio. Il fisiatra può dunque essere il medico della disabilità capace di porre in essere “l’insieme di interventi che mirano allo sviluppo di una persona, al suo più alto potenziale sotto il profilo fisico, psicologico, sociale, occupazionale ed educativo, in relazione al suo deficit fisiologico o anatomico e all’ambiente” (Who - World health organization). In quali strutture si svolge tipicamente il lavoro di fisiatra? La professione di fisiatra può essere praticata sia in ambito pubblico, che privato. Può offrire anch’essa la possibilità di iperspecializzazione, sia > mediante l’utilizzo di mezzi fisici, in ambito interventistico, nell’alta specialità riabilitativa, nel recupero dello sportivo, anche e soprattutto nella preparazione dello sportivo con abilità diverse. Si può svolgere in vari setting: negli ospedali, in ambito distrettuale-territoriale, nel settore extraospedaliero, nelle strutture residenziali e di lunga assistenza. Si tratta quindi di una professione dinamica, che ha molte dimensioni e che spazia su orizzonti ampi, mai completamente riproducibili, perché dovuti a problematiche individuali, ma anche doverosamente legati a criteri di accesso alle prestazioni, per garantire equità ai cittadini nell’ambito dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) nazionali e regionali. In conclusione, perché un giovane medico dovrebbe scegliere di divenire fisiatra? Bruna Lombardi Perché è una disciplina giovane, con prospettive, dinamica, che offre la possibilità di essere interpretata in vari ambiti, secondo le proprie inclinazioni. È dunque una scelta fattibile e possibile, ma a certe condizioni. È fattibile, purché si comprenda che per praticarla occorrono solide e approfondite conoscenze mediche, volontà di confronto continuo, capacità dialogiche e voglia di credere in quello che si fa, rinnovando la scommessa ogni giorno. Ed è possibile, se insieme all’impegno professionale si porge un po’ di amore e un sorriso, ricevendo spesso una stretta di mano e un grazie. Questi ingredienti sono scritti nel progetto riabilitativo individuale con l’inchiostro simpatico e ad una occhiata superficiale non si vedono. Appaiono solo a contatto con il “calore”… in questo caso, “umano”! Renato Torlaschi SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN FISIATRIA IN ITALIA Università degli Studi di Pisa www.unipi.it Università degli Studi “G. D'Annunzio” Chieti www.unich.it Università degli Studi di Catania www.unict.it Università degli Studi di Palermo www.unipa.it Università degli Studi di Bologna www.unibo.it Università degli Studi di Modena www.unimo.it Università degli Studi di Roma “Campus” www.uniroma3.it Università degli Studi di Roma “La Sapienza” www.uniroma1.it Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” www.uniroma2.it Università degli Studi di Bari www.uniba.it Università degli Studi di Messina www.unime.it Università degli Studi di Milano www.unimi.it Università degli Studi di Napoli www.unina.it << << FOCUS ON Tra bioetica e carrozzine Il problema delle risorse > Cesare Cerri è professore ordinario di medicina riabilitativa presso l’Università Milano Bicocca, dove è direttore della scuola di specializzazione in medicina riabilitativa e presidente del corso di laurea in fisioterapia. I suoi interessi di ricerca si estendono fino ai problemi etici ed epistemologici legati alla riabilitazione. Quando la semplice prescrizione di ausili al paziente crea un dilemma etico-professionale. In un contesto di risorse limitate il problema si pone con maggior forza e con più frequenza problemi etici che si presentano nel contesto dell’attività riabilitativa sembrano apparentemente di minor importanza rispetto ai temi forti della bioetica (aborto, eutanasia ecc.), ma anch’essi sono rilevanti, e soprattutto sempre più frequenti, fino a coinvolgere attività apparentemente banali dal punto di vista morale quali la prescrizione di ausili. Per questo può essere utile una riflessione generale su quali siano i criteri che vengono proposti per “risolvere” le situazioni che si incontrano sul versante bioetico e sulla loro applicabilità nel contesto specifico della riabilitazione. I L’assenza totale di un riferimento etico La prima osservazione è di natura epistemologica: in una società che sta perdendo, se non addirittura ha già perso, il senso della trascendenza e la propria identità culturale avviandosi a un relativismo multiculturale, la mancanza di una visione etica univoca, da tutti condivisa, rende difficile trovare dei criteri per affrontare i problemi etici. Più a fondo, l’assenza di un riferimento metafisico che garantisca l’esistenza della differenza essenziale fra quel che è moralmente buono e ciò che non lo è, senza zone indefinite poste fra i due estremi, rende difficile contestare affermazioni quali quella dell’antropologo W Summer (1) quando scrisse che «le usanze possono rendere giusta qualsiasi cosa». In effetti già alcuni dei problemi bioetici riguardanti la vita sono stati affrontati attraverso un meccanismo che S. Jaki (2) chiama “trasformazione della moralità in un sondaggio di opinione”, che è in fase di estensione anche a problemi riguardanti la disabilità. Clamoroso in questo senso è il caso della selezione embrionale o in utero proposta nei confronti delle presone che potrebbero divenire disabili: fino ad oltre metà del secolo scorso una tale proposta sarebbe stata considerata eticamente improponibile. Questo tipo di approccio, che potrebbe esser definito pragmatico, contiene in sé lo sviluppo della violenza verso chi non ha una identità etica forte o più in genere contro chi ha una posizione minoritaria; si veda a questo proposito le proposte di abolire l’obiezione di coscienza nei confronti di procedure o terapie eticamente non condivisibili da parte dell’obiettore. L’assenza di un riferimento etico che venga percepito come assoluto e non modificabile dall’uomo perché dato da un altro (natura, Dio, legge del cosmo) porta alla necessità di stabilire dei cri- teri definiti dagli esseri umani. Ma, proprio perché definiti dall’uomo, questi criteri possono essere modificati in tempi successivi alla loro esposizione e quindi mancano della caratteristica fondamentale di un criterio etico, cioè la stabilità della differenza fra bene e male. Questo fa sì che la soluzione dei problemi bioetici venga affidata a dei formalismi in accordo con l’approccio culturale del “politically correct” che, per sua natura, non può considerare tutti i fattori in gioco, ma necessariamente ne deve censurare alcuni per arrivare a definire una sorta di minimo comun denominatore morale, cui peraltro tutti sono obbligati a conformarsi, pena severe sanzioni. Dall'etica al rapporto costo/beneficio La risposta alla situazione eticamente dubbia è, in questo contesto, derivabile dall’applicazione a formalismi di tipo simil matematico (ad esempio l’analisi costi/benefici con l’uso di alberi decisionali) dei parametri derivanti dal modello usato. Attualmente i modelli di risoluzione dei problemi bioetici si possono suddividere in alcune categorie principali: ad esempio l’utilitarismo o la sua variante consequenzialismo, che considera come criterio il risultato delle azioni, la deontologia che utilizza i doveri, l’etica della virtù che considera le intenzioni e il cosiddetto principialismo che si basa sul rispetto di alcuni principi fondamentali. Particolarmente diffusa la posizione principialista (Rudnik) (3) basata sui quattro criteri: rispetto dell’autonomia, beneficenza, non maleficenza ed equità. In Italia il primo principio è spesso alla base di decisioni giudiziarie in cui si afferma il valore assoluto delle “libertà di cura”, peraltro quasi sempre a prescindere dagli altri tre principi, specialmente l’equità dell’allocazione risorse. Mentre l’enunciazione dei principi può essere facilmente condivisibile, la loro applicazione pratica pone dei problemi soprattutto se si agisce in un contesto relativistico così come proposto da Tribe (4): «gli assoluti stessi possono essere contingenti; essi infatti nascono da particolari contesti sociali, da problemi e da preoccupazioni che cambiano col cambiare della società». Gli esempi in riabilitazione Possiamo esemplificare con una situazione abbastanza comune in riabilitazione: la persona che desidera rimanere ricoverata più a lungo di quanto l’equipe riabilitativa consideri necessario. Il principio dell’autodeterminazione verrebbe soddisfatto se si acconsentisse alla richiesta, ma verrebbe leso quello dell’equità nella attuale situazione di allocazione di risorse limitate. Solo una decina di anni fa, la violazione non sarebbe stata percepita. Sempre utilizzando l’esempio è possibile considerare un altro contrasto legato al primo principio: la persona che vorrebbe rientrare a casa, ma non ha il livello di autonomia sufficiente a consentirle l’indipendenza da altri. La situazione in realtà si compone di vari contrasti: uno fra l’autodecisione (libertà di scelta) della persona e quella dei familiari, che potrebbero non essere disposti a fornire l’assistenza necessaria; un altro sempre fra la scelta della persona e il principio di non maleficenza percepito dal medico, che ritiene il ritorno a casa precoce di nocumento alla possibilità di riabilitarsi efficacemente; un altro ancora potrebbe essere generato fra la volontà della persona e l’allocazione di risorse (sia in termini di personale di supporto sia in termini di ausili ad elevato costo) necessarie a garantire il prosieguo della cura a domicilio che verrebbero sottratte ad altre persone in grado di usufruirne. Il problema delle risorse Quest’ultima considerazione evidenzia un problema molto frequente, anche se tenuto sottotraccia, in riabilitazione: i conflitti coinvolgenti il principio di eguaglianza. A monte vi è il problema etico dell’allocazione delle risorse (quante alla pre- 8 venzione? quante al pronto soccorso? Quante all’unità stroke? al postoperatorio chirurgico ortopedico? all’assistenza domiciliare?), a valle i criteri con cui si può definire equa una particolare allocazione. Va utilizzato il criterio della gravità della situazione clinica (più grave, più risorse), quello della probabilità di riuscita (più elevata la probabilità di prognosi favorevole, più risorse investibili) o quello della durata probabile della vita residua (più lunga, più risorse), magari ricorrendo all’aggiustamento per la qualità della vita residua? Molti bioeticisti sostengono che questa scelta debba essere determinata dal dibattito pubblico «radicando l’etica nel reame della politica in senso lato» (Rudnick) realizzando quello che Jaki ironicamente definisce l’assumere modelli statistici di comportamento come norme etiche. Di fatto il processo di affidare alla scelta politica/amministrativa il criterio decisionale è già presente nella nostra attività quotidiana in riabilitazione: prendiamo l’esempio apparentemente banale della prescrizione di un ausilio per la mobilità. Il criterio con cui proponiamo di utilizzare una protesi piuttosto che una carrozzina di che cosa tiene conto se non di un insieme di fattori fra i quali gli aspetti legati alla presenza o meno dell’ausilio nel nomenclatore tariffario non giocano certo un ruolo secondario. Sempre utilizzando questo esempio si potrebbe evidenziare l’intrecciarsi del principio di non maleficenza (ad esempio alterazioni del moncone causate dall’invaso) con l’autodeterminazione data dalla preferenza della persona assistita per una soluzione diversa da quella ritenuta ottimale dal prescrittore (principio di beneficenza) il tutto nel contesto della valutazione dei costi (tipo di invaso, percorso da provvisoria e definitiva, accessori e tipo di carrozzina) anche in funzione del budget a disposizione per l’intera popolazione assistita. Già alcune unità sanitarie hanno concordato con i prescrittori di ausili la disponibilità un budget annuale fisso: questo comporta necessariamente la forte spinta verso l’utilizzo di una modalità decisionale che consideri come predominante il principio di equa distribuzione delle risorse. Come può però concretamente essere applicato? Sostanzialmente vi sono due estremi: dare il minimo a tutti oppure fissare una soglia al di sotto della quale nulla viene prescritto, in modo da dare di più a chi si trova sopra la soglia. Nel primo caso il rischio è di fornire una risposta al bisogno incompleta o sub-ottimale a tutti, nel secondo il risultato è quello di non rispondere ai bisogni che vengono definiti moderati, lievi o minimi. Chiaramente non esiste una risposta “tecnica” alla questione e quindi essa viene in concreto lasciata alla decisione personale degli operatori o alla politica. Il che fa sì che sia possibile una modificazione dei criteri nel corso del tempo di modo che due persone con situazioni sovrapponibili giunte in tempi diversi possano ottenere differenti risposte al proprio identico bisogno. Il tutto con giustificazioni etiche che potrebbero perfino essere in contrapposizione fra di loro a seconda di come il sentire comune si sia modificato nel tempo, magari sotto la spinta di gruppi di interesse politici o economici. In conclusione in assenza di un’etica applicata alle questioni della vita (bioetica) basata su principi non modificabili e la cui razionalità sia definita indipendentemente dal consenso di una maggioranza diviene inevitabile cadere in una pseudo etica, cioè in qualche cosa che, come tutti i falsi, è priva dell’essenza di ciò che pretende di essere. Cesare Cerri Bibliografia 1. Summer WG. Folkways 1906 New York rst Dover 1959, pag. 521. 2. Jaki SL Fondamenti etici della bioetica. Ed. Fede e Cultura, Verona 2012. 3. Rudnik A. A meta-ethical critique of care ethics. Teoret Med Bioet 2001; 22, 505-51. 4. Tribe S. The america journal of jurisprudence 1993; 38; 135-57. << << FOCUS ON 10 Evidence based medicine alla prova dell’etica Dottor Iovine, ci può introdurre all’Evidence based medicine? L’Ebm nasce ufficialmente nel 1992 con un famoso articolo pubblicato su Jama (1) e, per definizione, consiste nel consapevole, esplicito e ragionevole uso delle migliori prove di efficacia esistenti nelle decisioni che riguardano la cura del singolo paziente. L’applicazione pratica del principio prevede l’integrazione dell'esperienza clinica con la migliore letteratura scientifica disponibile. La medicina basata sulle evidenze, quindi, si pone l’obiettivo di proporre al paziente il trattamento più adeguato alle sue necessità indipendentemente da considerazioni economiche. In questo la Ebm entra in contrasto con la medicina basata sul costobeneficio, sulla quale si fonda invece la politica sanitaria degli stati moderni. In realtà il sottofondo etico della Ebm si esprime nell’insistenza sulla appropriatezza delle pratiche mediche, in quanto non è considerato etico un trattamento superfluo, inutile o addirittura potenzialmente dannoso. In medicina riabilitativa il rapporto tra approccio basato sulle evidenze ed etica è reso ancor più complesso dalla considerazione che il modello bio-medico non sia l’unico possibile e altri ne vengono proposti, come quello psico-sociale e quello pedagogico. Ci propone un caso pratico in cui l’applicazione della Ebm può diventare problematica? Immaginiamo uno scenario in cui un collega si chiede perché la sua richiesta di acquistare un apparecchio per Tecarterapia non viene esaudita – in effetti la macchina costa poco, il trattamento è molto richiesto, l’Azienda Usl potrebbe fare un prezzo competitivo rispetto al privato e quindi ridurre anche il costo che graverebbe sul cittadino; la macchina si ammortizzerebbe nel giro di sei mesi, e così via. La risposta dell’Azienda è che il mancato acquisto è legato alla politica di non fornire trattamenti fisioterapici di cui non sia stata dimostrata l’efficacia: in questo modo si salvaguarda un principio generale ma contemporaneamente si “spinge” il paziente verso il privato, con un aumento degli oneri a suo carico. Questo è un tipico dilemma etico: l’applicazione di un principio generale assolutamente condivisibile provoca un apparente danno economico al paziente. In effetti si potrebbe ragionare sul fatto che fornire un trattamento non utile costituisce una perdita di tempo e un potenziale maleficio per il paziente, magari perché ne sposta l’attenzione e le risorse da trattamenti invece potenzialmente più utili. Nello specifico ci viene in aiuto il documento “Bioetica e riabilitazione” (2): «ogni intervento di riabilitazione, prima di essere generalizzato, deve passare al vaglio della validazione scientifica» e ancora non è etico «illudere le persone o le famiglie, né tanto meno chiedere loro il pagamento di prestazioni la cui efficacia non sia stata provata». Quello dell’esempio è un problema etico di quelli “semplici” e sembra abbastanza facile trovare la soluzione, ma alcuni sono più complessi. Ce ne fa un esempio? Una quindicina di anni fa, il lavoro di Wade (3) ha dimostrato che tutti i pazienti, dopo un anno dall’ictus, potevano migliorare la capacità di deambulazione con un breve trattamento riabilitativo, ma che questo beneficio tende a scadere nel tempo. Allora ci si chiede: è etico proporre un trattamento riabilitativo che produce un beneficio solo temporaneo? È un bene trattare l’emiplegico cronico ogni sei mesi per fargli mantenere questo risultato? Qui si entra in un campo un po’ più delicato, meno facile da risolvere. È chiaro che noi dobbiamo affrontare questi dilemmi distinguendo bene quello che è l’ambito della medicina basata sulle evidenze (Ebm) e quello inerente la medicina basata sui costi-efficacia, cioè una medicina che si fonda su una filosofia utilitarista. Come si riflettono queste posizioni conflittuali nel rapporto con i pazienti? In un modello paternalistico di medicina tutto sarebbe più semplice: ci limiteremmo a decidere per il paziente che cosa è meglio per lui, sulla base della nostra interpretazione più o meno consapevole delle sue preferenze o peggio ancora sulla base del valore che noi diamo al possibile rapporto rischio/beneficio del trattamento. Ad esempio far fare una terapia medica a vita, gravata di un rischio sia pure minimo di effetti collaterali, in vista di una probabilità di beneficio di entità modesta. Aderendo noi però a una I PRIMI PASSI DELL’EBM 1830. Pierre Charles Alexandre Louis, a Parigi, era il promotore della “Médecine d'Observation”, un movimento secondo cui i medici, piuttosto che affidarsi esclusivamente all'esperienza individuale oppure alle speculazioni sulle cause di malattia, dovrebbero agire sulla base di ampie serie sperimentali, capaci di fornire una stima quantitativa degli effetti terapeutici. 1972. Archibald Cochrane, un epidemiologo inglese, sosteneva che i risultati della ricerca avevano un impatto molto limitato sulla pratica clinica e in un libro che ha lasciato una traccia profonda nella storia della medicina scriveva: «è causa di grande preoccupazione constatare come la professione medica non abbia saputo organizzare un sistema in grado di rendere disponibili, e costantemente aggiornate, delle revisioni critiche sugli effetti dell'assistenza sanitaria». In altre parole Cochrane, consapevole della limitatezza delle risorse economiche, suggeriva di rendere disponibili a tutti i pazienti solo gli interventi sanitari di documentata efficacia. 1981. I ricercatori della McMaster Medical School (Canada) pubblicano “How to read clinical journals”, una serie di articoli che descrive le strategie di approccio critico alla letteratura biomedica. Questa serie, tradotta in sette lingue, è una delle più ristampate nella storia della letteratura biomedica. 1986. L'attenzione di Sackett e coll. si sposta progressivamente da “come leggere la letteratura biomedica” a “come utilizzare la letteratura biomedica per risolvere i problemi clinici”. 1991. Nel fascicolo di marzo-aprile di ACP Journal Club compare il termine Evidence-based Medicine. 1992. Il 4 novembre viene pubblicato su JAMA l'articolo manifesto che presenta la Evidence-Based Medicine come “paradigma emergente per la pratica clinica”. 1993. Fondazione della Cochrane Collaboration, network internazionale nato per “preparare, aggiornare e disseminare revisioni sistematiche degli studi clinici controllati sugli effetti dell'assistenza sanitaria e, laddove non sono disponibili studi clinici controllati, revisioni sistematiche delle evidenze comunque esistenti”. << << FOCUS ON UN ESEMPIO PRATICO DI APPLICAZIONE DELLA EBM Il fisiatra e il medico vivono quotidianamente il dilemma etico della difficoltà di fornire a tutti i pazienti il trattamento necessario. Alla base del problema ci sono vincoli economici o assicurativi La Evidence-based medicine (Ebm) si è progressivamente diffusa, raccogliendo consensi e critiche e conquistando, lentamente ma con costanza, posizioni non solo nell’ambito medico ma anche in quello più ampio delle professioni sanitarie. Tuttavia la sua applicazione non è sempre semplice e spesso entra in conflitto con un altro approccio, quello della medicina basata sul rapporto tra costi e benefici. Ne abbiamo parlato con Roberto Iovine, direttore della Uoc medicina riabilitativa della Ausl di Bologna e professore a contratto del corso di laurea in medicina dell'università di Bologna. 11 > visione più umanizzata della medicina e più attenta ai valori espressi dal singolo paziente, convinti che sia necessaria una sua partecipazione alle prese di decisione che riguardano la sua salute, ci troviamo di fronte a un’ulteriore difficoltà: comunicare efficacemente al paziente i dati che abbiamo trovato in letteratura perché, sulla base della sua personale gerarchia valoriale, possa esprimere un reale consenso informato alla decisione da prendere. Come ben preconizzato dal precedente editore del Bmj (4) la difficoltà del medico oggi sta proprio nel comunicare l’incertezza dei dati che la ricerca ci propone senza perdere autorevolezza nei confronti dei pazienti. Informare non è comunicare: non è certo sufficiente limitarsi a una esposizione dei dati. È necessario infatti aprire canali di ascolto per capire quali siano le reali preferenze del paziente. Sembra dunque molto difficile poter arrivare a una risposta definitiva sulla Ebm… La Ebm viene accusata di volere imbrigliare i medici in schemi di trattamento ferrei e insindacabili, di avere cooperato alla produzione di linee guida che stringono i professionisti in comportamenti coatti come camicie di forza. In realtà, dagli esempi che abbiamo visto, scopriamo al contrario che l’adozione del paradigma ci pone molti più dubbi che certezze, ci obbliga a usare il nostro giudizio clinico nell’applicare i risultati della ricerca e ci ricorda che le abilità da coltivare sono anche le nostre capacità comunicative, empatiche, di conoscenza della psicologia dei nostri pazienti: insomma ci obbliga a fare i medici. Con informazioni più attendibili e affidabili, però! Una pratica clinica per dirsi “basata sulle evidenze” deve accettarne il paradigma e cioè dimostrare che nel processo decisionale si sono tenute in conto le prove di efficacia esistenti, coniugate con l’esperienza del singolo clinico. Roberto Iovine Come si deve procedere per applicare l’Ebm? Chi vuole percorrere tutto il paradigma in prima persona, deve acquisire le competenze necessarie e cioè: porsi dei quesiti clinici risolvibili; ricercare le migliori evidenze utilizzando siti che facilitano il recupero della cosiddetta “best evidence”; valutare le evidenze recuperate in base al riconoscimento della bontà metodologica con cui è stato disegnato il trial e alla rilevanza clinica dei risultati; mettere in pratica quanto deciso e valutare i risultati. In sostanza, l’Ebm non è altro che l’espressione di un tema più ampio che è quello della medicina orientata al paziente. La “patient-oriented medicine” è quel tipo di approccio che fa derivare le decisioni cliniche dalla sintesi tra letteratura, esperienza clinica e preferenze (e valori) espresse dal paziente. Che differenza c’è tra l’Ebm e la medicina basata sul costo-beneficio? L’Ebm si occupa del benessere del singolo paziente; accettare il paradigma Ebm significa che a ogni singolo paziente si offrirà il trattamento migliore indipendentemente dal costo o dalle circostanze. Il paradigma Ebm obbliga a vedere il paziente che si ha di fronte e non a fare considerazioni di ordine generale. La medicina basata sul modello costi-benefici si occupa invece del benessere di una popolazione (non del singolo) e il suo paradigma è il trattamento migliore per il maggior numero di pazienti, cioè una medicina che guarda alla popolazione e al suo benessere. È un approccio di politica sanitaria che viene svolto a livello nazionale o locale che non riguarda il singolo individuo, ma riguarda la collettività. Quali sono i rischi del modello basato su costi e benefici? Si deve stare attenti alla medicina che fa riferimento al confronto tra costo ed efficacia, soprattutto L’approccio Ebm prevede cinque fondamentali: 1) formulazione e classificazione del quesito; 2) ricerca della migliore evidenza disponibile; 3) valutazione critica delle evidenze recuperate; 4) messa in pratica dell’informazione recuperata; 5) valutazione del risultato. Il quesito, formulato secondo il PICO (paziente, intervento, comparazione, outcome), potrebbe essere: P = In un paziente con gonalgia da gonartrosi compartimentale interna in fase iniziale I = Il trattamento con una terapia basata sul trasferimento energetico capacitivo resistivo, associato al trattamento standard C = Verso il solo trattamento standard (analgesici, antinfiammatori, rieducazione motoria) O = Riduce il dolore e il periodo di incapacità di attendere alle proprie occupazioni? La sua classificazione è abbastanza facile: si tratta di un quesito in tre parti che riguarda l’efficacia terapeutica; in questo caso la fonte di informazione che è in grado di fornirci più rapidamente una evidenza di alto livello è la Cochrane Library (www.thecochranelibrary.com). Interrogando la banca dati con il termine “tecar” non compare alcun risultato; a questo punto è opportuno all’estremizzazione “del maggiore utile per il maggiore numero di persone” che connota una logica utilitaristica, perché è quella che ha portato Peter Singer negli anni ‘70, ma anche recentemente, a rimarcare che in molti casi la vita di un animale vale più la pena di essere vissuta rispetto alla vita di un disabile, argomentando che le persone portatrici di gravi infermità non possono essere considerate persone e quindi non hanno né un diritto né uno status; questo ragionamento è quello che ha portato, alla fine degli anni ‘30, alla costruzione dei campi di sterminio e fortunatamente contrastato ampiamente da McPherson e Sobsey (5) e dal recente documento dell’Oms sui diritti della persona con disabilità (6). Quali sono i dilemmi etici più frequenti in riabilitazione? In un interessante studio (7) svolto negli Stati Uniti, alcuni autori hanno fatto una verifica sul campo di quale fossero i dilemmi etici più frequentemente citati nel mondo della riabilitazione. Al primo posto si trovava la marcata copertura assicurativa. È noto che in un regime a rimborso prestazionale come quello degli Stati Uniti circa 39 milioni di persone si trovano senza copertura assicurativa: non sono abbastanza poveri da godere dell’assistenza sanitaria garantita dallo stato e non sono abbastanza ricchi da potersi permettere una propria assicurazione. Il fisioterapista e il medico identificano il dilemma etico nell’impossibilità di poter fornire a una parte dei loro pazienti il trattamento di cui necessitano, sia perché non sono assicurati sia perché le assicurazioni non coprono spesso tutto l’iter riabilitativo. Un altro dilemma riguarda la condivisione degli obiettivi del trattamento con il paziente e i familiari, che spesso hanno aspettative non compatibili con la patologia. Renato Torlaschi Bibliografia 1. EBM word ing. Group. Evidence based medicine: a new approach to teaching the practice of medicine. JAMA 1992; 268: 2420-5 2. Bioetica e riabilitazione. 17 marzo 2006. www.governo.it/bioetica/testi/bioetica_r iabilitazione.pdf 3. Wade DT et al. Physiotherapy intervention late after stroke and mobility. BMJ 1992; 304 (6827): 609-613. 4. Smith R. Communicating risk: the main work of doctors. BMJ 2003. 5. McPherson GW, Sobsey D. Rehabilitation: disability ethics versus Peter Singer. Arch Phys Med Rehabil 2003;84:1246-8. 6. Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità. 7. Kirschner KL, Stocking C, Wagner LB, Foye SJ, Siegler M. Ethical issues identified by rehabilitation clinicians. Arch Phys Med Rehabil 2001; 82 Suppl. Lettura consigliata Iovine R. Evidence-based medicine ed evidence-based practice in riabilitazione. In Valobra GN, Gatto R, Monticone M (a cura di). Nuovo trattato di medicina fisica e riabilitazione. Torino 2008, vol I, pagg 33-49. allargare i confini della ricerca consultando altre banche dati, iniziando da un “meta database”, cioè un motore di ricerca in grado di interrogare contemporaneamente più banche dati. Inserendo il termine “tecar” in TRIP database (www.tripdatabase.com) non otteniamo alcun risultato in nessuno dei capitoli in cui è organizzata la ricerca (linee guida, libri di testo ecc.), ma neanche nei capitoli dedicati a Medline. Ripetendo in PubMed la ricerca abbiamo la conferma che il termine “tecar” non compare in nessuno dei 20 milioni di articoli indicizzati su Medline. Per scrupolo consultiamo anche PEDro (Physiotherapy Evidence Database: www.pedro.org.au) con gli stessi risultati. Non volendo limitare la ricerca a studi di lingua inglese abbiamo inserito “tecar” nel sito di Google riservato alle pubblicazioni scientifiche (www.scholar.google.com) ottenendo in effetti 2.940 citazioni; con il termine più specifico di “trasferimento energetico capacitivo resistivo” riduciamo le citazioni a 168; restringendo ulteriormente la ricerca con l’aggiunta di “studio clinico”, le citazioni si riducono a 50. Tutti gli studi riportati sono descrizioni di casistiche o di casi singoli, senza gruppo di controllo, con un disegno pre-post, pubblicati su riviste non indicizzate. In conclusione non esistono attualmente solide evidenze scientifiche in merito all’efficacia del trattamento con tecarterapia delle più comuni condizioni muscolo-scheletriche, per le quali viene da molti indicato. Roberto Iovine << << FOCUS ON 12 Quando lo sport è una vera e proria terapia Dottor Lamberti, cos’è il progetto Ampa? Ampa è l’acronimo di “Attività motoria personalizzata e adattata” ed è un progetto mirato alla promozione e alla prevenzione della salute dei cittadini in funzione dell’età e delle patologie croniche invalidanti, stabilizzate, non trasmissibili e sensibili alla sport-terapia. Il progetto tiene conto del regolamento sanitario internazionale dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2007 che ha riconfermato lo stile di vita corretto (sedentarietà, dieta, fumo, alcol ecc.) tra le cause delle numerose malattie croniche per cui i paesi devono destinare quote sempre più significative delle loro risorse per interventi sanitari e assistenziali. La nota dolente è che i fondi per la prevenzione sono ancora meno dell’uno per cento della spesa e i trattamenti erogati dal Servizio sanitario nazionale non sempre rispondono ai criteri di benefici-rischi e costibenefici. TUTTI I VANTAGGI DELLO SPORT NEI RISULTATI DEL PROGETTO AMPA Un elemento essenziale di ogni progetto è la valutazione dei risultati ottenuti. Così è avvenuto anche per il progetto Ampa: sono stati studiati circa 200 soggetti, uomini e donne, dai 35 agli 85 anni e affetti da patologie croniche (neoplasie in fase di stabilizzazione clinica, bronco-pneumopatie, malattie cardiovascolari, metaboliche e articolari) e aderenti al progetto di “Attività motoria personalizzata e adattata”. Per il reclutamento dei pazienti sono stati coinvolti i medici di medicina generale per il loro ruolo importante nell’incoraggiare i pazienti a svolgere attività motoria e i medici delle unità operative dei presidi ospedalieri di Conegliano e Vittorio Veneto aderenti al progetto. I pazienti arruolati, dopo aver dato il loro consenso, sono stati sottoposti ai protocolli previsti di valutazione funzionale. Sulla base dei parametri ricava- Cosa prevedono le indicazioni dell’Oms e come sono state recepite in Italia? Il regolamento dell’Oms, per far fronte ai danni che derivano da stili di vita scorretti, ha impegnato i governi e i ministeri della salute dei vari stati ad avviare campagne di promozioni contro la sedentarietà, di prevenzione primaria e secondaria della popolazione, di attività motoria ai fini curativi e riabilitativi delle patologie croniche. Il messaggio dell’Oms è stato recepito in Italia dal ministero della Salute nei nuovi livelli essenziali di assistenza (Lea, Dpcm del 23 aprile 2008). La regione Veneto ha stabilito attraverso diversi decreti del governo regionale che è compito peculiare del medico dello sport la valutazione clinico-funzionale e la prescrizione della sport-terapia. Il progetto Ampa si propone dunque di diffondere sul territorio la cultura della prevenzione primaria attiva mediante l’attività fisica; si tratta di un obiettivo parti- colarmente impegnativo, dal momento che non risulta agevole passare da un sistema che finora è stato imperniato sulla cura della malattia a un sistema preventivo e predittivo che produce salute. Nonostante le evidenze scientifiche mondiali che attribuiscono all’attività motoria, sia nell’individuo sano che nel malato e nel disabile, la capacità di prevenire e correggere i fattori di rischio prevenibili, solo una minoranza della popolazione pratica abitualmente un’attività fisica produttiva. Il medico dello sport, come professionista della salute e del benessere, può contribuire con le istituzioni (Asl, comuni ecc.) a «investire in salute, per costruire un futuro sicuro», come recitava lo slogan dell’Oms al forum di Singapore del 2007. Per quali tipologie di pazienti è particolarmente indicata la terapia effettuata attraverso lo sport? Il progetto Ampa ha individuato le seguenti malattie ti da questa complessa valutazione e dai referti di indagini di laboratorio e strumentali effettuati, lo specialista in medicina dello sport ha redatto una prescrizione personalizzata di esercizi fisici per ciascuno dei partecipanti. La somministrazione dell'esercizio fisico svolto in palestra medica attrezzata da parte dello sport-terapeuta (laureato in scienze motorie) si è avvalsa di macchine cardio e isotoniche della Air Machine (Gruppo Panatta) collegate in rete attraverso un "circuit training" computerizzato e monitorato tramite videoterminale. I RISULTATI DELLO STUDIO L’analisi statistica dei risultati ottenuti dopo la pratica della sport-terapia indica la notevole efficacia di questo approccio. u Il miglioramento della qualità della vita, intesa come benessere psichico e capacità di svolgere attività fisica, è testimoniato da parametri quali l’aumento del massimo consumo di ossigeno (sub-VO2max), del rendimento di carico effettivo ecc. u Il miglioramento della funzionalità respiratoria è testimoniato dall’aumento della capacità vitale forzata (Fvc), del volume espiratorio massimo nel primo secondo (Fev1) e dell’indice di Tiffeneau. u Il miglioramento della funzionalità cardiaca è mostrato dalla riduzione dei valori minimi e massimi della pressione arteriosa basale, all’apice dello sforzo, nel recupero e di confronto (tra i valori prima e dopo il ciclo di sport-terapia in funzione dello stesso carico di lavoro), nonché della frequenza cardiaca basale, nel recupero e di confronto. u La riduzione del rischio metabolico nei soggetti diabetici è << << quenza e la progressione degli esercizi; la validità temporale e i controlli previsti. Da anni si è compreso il ruolo dello sport nella prevenzione di svariate malattie e anche l'Oms riconosce grande importanza all'esercizio-terapia. Intanto si moltiplicano le ricerche sul tema, come il progetto Ampa in Veneto «Attività fisica praticata a scopo preventivo-terapeutico, prescritta e somministrata con regolarità, in dose giusta e con modalità personalizzata al soggetto e adattata all’età, al sesso, alla patologia e all’eventuale assunzione di farmaci». È questa la definizione di esercizio-terapia, e si tratta di un tema estremamente attuale, visto il moltiplicarsi degli studi scientifici che da un lato evidenziano con dati sempre più incontrovertibili i rischi per la salute che si associano alla sedentarietà e all’obesità e dall’altro il ruolo fondamentale della prevenzione. Uno dei centri di eccellenza dove viene messa in pratica l’esercizio-terapia è l’Istituto di medicina dello sport e dell’attività motoria di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso (www.centromedicinadellosport.it). A dirigerlo è il dottor Vincenzo Lamberti, con cui abbiamo voluto approfondire le modalità con cui l’esercizio fisico, da sana abitudine può trasformarsi in terapia. 13 > sensibili alla sport-terapia: cardiovascolari (disturbi funzionali cardiaci, ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica, esiti stabilizzati di infarto, insufficienza cardiaca cronica); respiratorie croniche (broncopneumopatia cronica ostruttiva, enfisema, asma da sforzo); metaboliche (dislipemia, diabete, obesità, sindrome metabolica, sindrome ipercatabolica dell’anziano); osteoartro-reumatiche (osteoporosi, reumatismo cronico); neoplastiche (colon, mammella, polmone); neurologiche e psichiatriche (ictus cerebri, decadimento mentale, depressione, ansia). Come avviene la valutazione dei soggetti da arruolare in un programma di sport-terapia? Prima di tutto è prevista una visita del medio dello sport per l’accertamento dello stato di salute generale, dell’efficienza fisica e dei rischi collegati alle patologie e all’eventuale terapia in atto. I soggetti vengono poi sottoposti a un test da sforzo Vincenzo Lamberti (al cicloergometro o al tappeto rotante medicale, massimale o sub-massimale) che, con l’utilizzo associato del metabolimetro, consente una valutazione completa (massimo consumo di ossigeno, soglia anerobica, cinetica dell’ossigeno ecc.). Successivamente, su motivato sospetto clinico, vengono eseguiti esami strumentali come l’Holter pressorio, l’Holter dinamico, l’ecocolordoppler cardiovascolare. Infine vengono eseguiti gli esami di laboratorio, che sono indispensabili per un migliore inquadramento clinico. I risultati della valutazione vengono riportati in una apposita cartella sanitaria per la prescrizione della sport-terapia. Questa cartella include l’anamnesi accurata con particolare attenzione all’eventuale terapia farmacologica; l’esame obiettivo completo; gli accertamenti strumentali e di laboratorio praticati; il programma prescritto di attività motoria allenante e personalizzato in cui sono specificate la tipologia, la durata, l’intensità, la fre- attestata dalla riduzione della glicemia e dell’emoglobina glicata (HbA1c). u La riduzione del rischio cardiovascolare è mostrata dalla riduzione del colesterolo totale e di quello Ldl, dall’aumento del colesterolo Hdl, nonché dalla riduzione dell’indice di massa corporea (Bmi). u La riduzione del consumo di farmaci abitualmente assunti è mostrata dal notevole risparmio giornaliero di compresse assunte. Solo il 22,6% dei partecipanti ha ridotto l’assunzione di farmaci, un valore solo apparentemente basso, ma che diventa indiscutibilmente positivo se inquadrato nel contesto di pazienti affetti da patologie croniche in cui la terapia farmacologica rimane sostanzialmente immodificata nel corso del tempo, in particolare se si tiene presente l’ampio gruppo di soggetti indagati con broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), scompensati cronici e con diabete mellito di tipo 1. u Nei soggetti broncopneumopatici testati non sono state evidenziate variazioni significative dei parametri indici di ostruzione bronchiale. In una sottopopolazione di pazienti, invece, sono emersi significativi miglioramenti sui volumi mobilizzabili e sul volume di riserva espiratoria. In 20 pazienti su 22 con Bpco di primo e secondo livello, è stata evidenziata una riduzione della pressione arteriosa di picco, un aumento del carico massimo di lavoro raggiunto e un rendimento positivo durante lo sforzo. Nei sette pazienti con Bpco di terzo livello, con l’esercizio-terapia personalizzata si è ottenuto un aumento di rendimento dal 7% al 21% e soprattutto nessuno ha avuto ricoveri nell’anno successivo. R. T. Quali requisiti devono avere le strutture in cui si pratica la sport-terapia e come si compone tipicamente lo staff medico? Le strutture di medicina dello sport in cui si prescrive l’esercizio a scopo preventivo o terapeutico devono essere in possesso dei requisiti standard previsti (legge 28/2/82 sulla tutela delle attività sportive e legge 626/94 sulle misure per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori). Nella regione Veneto le strutture di medicina dello sport, distinte in primo, secondo e terzo livello, devono essere preventivamente autorizzate o accreditate, con locali e attrezzature idonei per la valutazione funzionale e la prescrizione dell’esercizio-terapia. All’interno di questi centri deve essere prevista un’area riservata alla sport-terapia. Lo staff di un centro medico di sport-terapia è composto da medici dello sport con esperienza sia in ambito clinico che nella fisiologia e prescrizione dell’esercizio fisico, distinti nella responsabilità e nel coordinamento delle attività motorie; uno specialista in malattie cardiovascolari, in qualità di consulente esperto in ecocardiografia ed ergometria; un tecnico di cardiologia esperto in cicloergonometria; un fisioterapista; un laureato in scienze motorie; un laureato in scienze motorie con laurea magistrale in attività motoria adattata; altri specialisti esterni (neurologo, ortopedico, pneumologo ecc.); uno psicologo; un esperto in alimentazione naturale ed eubiotica. L’unità di prescrizione, solo in mancanza di strutture idonee (palestra medica) per la sport-terapia, collabora con palestre attrezzate o centri sportivi del territorio. La palestra deve essere FOCUS ON dotata di un’infermeria con medicinali e attrezzature per le emergenze (defibrillatore semiautomatico) e con personale tecnico-operativo (sport-terapeuta) che abbia sostenuto un corso di basic life support (Bls) per la riabilitazione cardio-vascolare. Le attrezzature necessarie sono rappresentate da un metabolimetro, da una piattaforma computerizzata per la gestione della riabilitazione cardio-respiratoria nonché cicloergometri, tapis roulant medicali, ellittica, vogatore, cyclette e tapis roulant da palestra, stepper, lat machine, pectoral machine e altre attrezzature per esercizi a corpo libero. Per la pratica sportiva in una qualsiasi palestra si richiede una certificazione di idoneità. Cosa cambia in questo caso? La prescrizione dell’attività fisica relativamente al medico dello sport non necessita di una certificazione di idoneità agonistica o non agonistica, ma di una dichiarazione con la quale si attesta che il soggetto è idoneo a svolgere un programma di attività fisica adattato alla patologia in atto. Tale dichiarazione include, comunque, un giudizio favorevole alla pratica di attività motoria, e da questo possono derivare problemi medico-legali in ordine alla valutazione diagnostica, al giudizio di idoneità all’esercizio motorio e alle eventuali conseguenze del training. Ne consegue la raccomandazione al medico e allo sport-terapeuta di porre particolare attenzione alla richiesta di sottoscrizione del consenso informato, sia relativamente alla privacy che agli aspetti giuridici e deontologici. Renato Torlaschi I ricercatori del progetto Ampa impegnati in una serie di test fisici sui pazienti > Stretching: tecniche e applicazioni pratiche Le diverse tecniche portano a differenti performance muscolari. Le fonti scientifiche non sono completamente concordi, soprattutto sugli effetti dello stretching eseguito come riscaldamento prima dell'esercizio fisico ffrontare la tematica dello stretching implica parlare delle diverse modalità di allungamento muscolare e di mobilizzazione delle articolazioni attraverso l'esecuzione di esercizi di stiramento, semplici o complessi, con la finalità di mantenere il corpo in un buono stato di forma, con una premessa fondamentale: le risposte allo stretching sono individuali, pertanto i suoi programmi devono essere "tagliati" su misura sulla singola persona. Esistono varie tipologie di stretching, ognuna delle quali è maggiormente indicata per una certa fascia anagrafica, per una certa problematica e per uno specifico risultato da raggiungere. Ad essere sollecitati sono sia le fibre muscolari sia il tessuto connettivo (tendini, fasce). Strettamente connessa a questo discorso è la mobilità articolare (flessibilità, estensibilità, articolarità), ovvero la capacità di compiere movimenti ampi e A al massimo dell'estensione fisiologica consentita dalle articolazioni. La mobilità articolare è però soltanto in parte allenabile, in quanto, com'è noto, deve fare i conti con le caratteristiche proprie delle varie strutture anatomiche che la condizionano (come la struttura ossea dell'articolazione e le componenti anatomiche e funzionali). L'allungamento del muscolo condiziona anche l'erogazione della forza e la capacità di produrre tensione a determinati angoli. Un muscolo troppo lungo, ad esempio, non sarà in grado di generare tensione vicino al massimo accorciamento, caratteristica fondamentale per i muscoli stabilizzatori, mentre un muscolo corto non permetterà all'articolazione di raggiungere la massima escursione. Le varie tecniche di stretching possono contribuire a correggere o ridurre queste alterazioni, purché però siano applicate in forma graduale e nelle dovute modalità. Le tecniche di stretching In letteratura vengono abitualmente descritte tre tecniche: statica, dinamica e pre-contrazione, come categorizza l'articolo di Phil Page Current concepts in muscle stretching for exercise and rehabilitation pubblicato a febbraio su The International Journal of Sports Phsycal Therapy. La tipologia più tradizionale, oltre che più conosciuta, è quella denominata statica, codificata da Bob Anderson: si raggiunge l'allungamento muscolare tramite posizioni di massima flessione, estensione o torsione (queste posizioni vanno raggiunte lentamente per non stimolare nei muscoli antagonisti il riflesso da stiramento) da ripetersi, sia attivamente da parte del soggetto stesso, sia passivamente con l'aiuto di un partner. Per quanto riguarda lo stretching statico attivo, esso consiste in esercizi eseguiti con ampiezza di movimento e sostenendo l'arto o il segmento corporeo contraendo isometricamente i muscoli agonisti: si assume una posizione e poi la si mantiene senza alcun supporto, solo con la forza dei propri muscoli. La posizione raggiunta sarà mantenuta per un determinato lasso temporale, in genere inferiore a 1 minuto ma superiore ai 10 secondi. Lo stretching attivo aumenta la flessibilità attiva e rafforza i muscoli agonisti. La tipologia "dinamica" prevede oscillamenti controllati di gambe e braccia che portano, dolcemente e senza strappi, a raggiungere il limite della propria gamma, o range, di movimento (Rom). Negli allungamenti dinamici non ci sono slanci o scatti, ma movimenti che diventano gradualmente più ampi. Questo tipo di stretching migliora la flessibilità dinamica ed è utile in quanto parte del riscaldamento di un allenamento aerobico e attivo. «A non essere più consigliato – informa l'autore Phil Page – è lo stretching balistico», una metodica non più utilizzata: la sua pericolosità è determinata dall'attivazio- ne nel muscolo del riflesso di stiramento (riflesso incondizionato che ordina al muscolo di reagire ad una tensione brusca con una rapida contrazione, con elevato rischio di trauma muscolare). Il metodo prevede di arrivare in posizione di allungamento e poi iniziare a molleggiare. Per quanto riguarda lo stretching pre-contrazione, Page richiama la tipologia più comune: Pnf, Proprioceptive Neuromuscolar Facilitation (facilitazione propriocettiva neuromuscolare), molto usato nella terapia della riabilitazione, diviso in quattro tempi: si raggiunge il massimo allungamento del muscolo in modo graduale e lento, si esegue una contrazione isometrica per circa 15-20 secondi (sempre in posizione di massimo allungamento); rilassamento per circa 5 secondi; si allunga nuovamente il muscolo (contratto precedentemente) per almeno 30 secondi. Il Pnf include anche le modalità C-R (contract-relax), H-R (hold-relax) e Crac (contract- relax agonist contract) sistema nel quale c'è l'intervento attivo dei muscoli antagonisti (in questo caso agonisti del movimento) a quelli che si stanno allungando; c'è una contrazione e un rilassamento del muscolo agonista quando viene contratto con forza l'antagonista. Page riporta, all'interno della categoria pre-contraction, anche il Pir, post-isometric relaxation, tecnica che utilizza una quantità molto più piccola di contrazione del muscolo (25%) seguita da un allungamento. Misurare l'efficacia Generalmente i risultati dello stretching si misurano con l'incremento del Rom articolare, come ad esempio nello stretching statico. Chan, Hong e Robinson hanno dimostrato che otto settimane di stretching statico incrementano l'estensione muscolare (l'allungamento), quanto ad effetto immediato; mentre altri studi focalizzati non sull'immediatezza dei risultati bensì << << FOCUS ON 14 15 << << FOCUS ON Competenze specifiche per la riabilitazione pediatrica Fisiatra e fisioterapista che seguono il piccolo paziente devono avere una formazione e un’esperienza specifica. Le variabili fisiche e psicologiche coinvolte, infatti, sono più complesse rispetto a quelle degli adulti sul lungo periodo hanno rilevato un aumento nel Rom dovuto ad una maggiore tollerabilità nell'allungamento (capacità di resistere di più alla forza dello stretching), e non l'estensione. I cambiamenti più rilevanti nel Rom con lo stretching statico avvengono fra i 15 e i 30 secondi; molti autori indicano che dai 10 ai 30 secondi è un tempo sufficiente per accrescere la flessibilità, mentre non si registra alcun allungamento muscolare dopo che si sono eseguite da 2 a 4 ripetizioni. Lo stretching statico risulta invece dannoso sul versante della forza muscolare se effettuato come riscaldamento immediatamente prima dell'esercizio: le cause di ciò non sono chiare, alcuni studiosi chiamano in causa fattori neurali, altri fattori meccanici. Da una comparazione eseguita da diversi autori fra lo stretching statico e dinamico su Rom, forza e performance, si evince che entrambe le tipologie sono egualmente efficaci a perfe- zionare il range di movimento sia dopo un training di un certo tempo sia dopo un breve lasso di tempo. Contrariamente allo stretching statico, quello dinamico non è associato a deficit nella forza o nella performance, anzi è dimostrato che questa modalità migliora la potenza dinamometrica, con ricadute sulla performance del salto e della corsa. È adatto per il riscaldamento? In letteratura si registrano pareri discordi in merito alle conseguenze dello stretching eseguito come riscaldamento prima dell'esercizio. I pre-riscaldamenti statici e dinamici sono egualmente efficaci nell'incrementare il Rom prima dell'esercizio. Alcuni ricercatori attribuiscono allo stretching statico dopo il riscaldamento decrementi nella performance, mentre altri assicurano nessun cambiamento o addirittura un miglioramento nella performance. Il fatto che lo stretching uti- lizzato nel processo di riscaldamento sia messo in discussione soprattutto in quegli sport nei quali il risultato è deciso dalla forza rapida, non è una novità: lo aveva spiegato già Stephan Turbanski, dell'Istituto di scienze dello sport all'Università di Francoforte. Per un programma generale di fitness, stando all'American College of Sports Medicine, si consiglia lo stretching statico per la maggior parte degli individui preceduto da un riscaldamento attivo, almeno 2-3 volte a settimana; ogni singola azione di allungamento deve essere mantenuta 15-30 secondi e ripetuta dalle 2 alle 4 volte. Gli adulti in età avanzata, invece, potrebbero necessitare di un periodo più lungo rispetto ai 15-30 secondi, si parla infatti di 60 secondi per ottenere miglioramenti nella flessibilità dei tendini (Feland). In ogni caso sembra che la modalità di stretching dipenda, anche qui, dall'età e dal sesso: uomini e gli adulti in età avanzata under 65 anni rispondono meglio allo stret- ching contract-relax, mentre le donne e le persone in età adulta avanzata over 65 ottengono maggiori effetti benefici dallo stretching statico. L'esecuzione dello stretching come parte di un riscaldamento pre-esercizio riduce la rigidità passiva e accresce il Rom durante l'esercizio. In linea generale, lo stretching statico apporta maggiori benefici per gli atleti che necessitano di flessibilità (ginnastica, danza ecc); lo stretching dinamico può essere adatto per gli atleti che nei loro sport devono far fronte a performance di corsa e salto (corridori, giocatori di basket ecc.). La riabilitazione Relativamente alla riabilitazione (in ambito ortopedico soprattutto), lo stretching viene utilizzato come normale pratica riabilitativa per accrescere la lunghezza muscolare e il Rom: pazienti affetti da osteoartriti al ginocchio ottengono van- taggi dallo stretching statico per aumentare il Rom del ginocchio, altri ricercatori – riporta Page – fanno riferimento a due settimane sia di statico che di modalità dinamica o Pnf per ottenere ugualmente l'aumento del Rom. Spesso lo stretching è incluso negli interventi terapeutici per il trattamento dei dolori alla spalla, schiena e ginocchio, sebbene – osserva Page – sia difficile "isolare" la quota di beneficio prodotta dallo stretching in quanto esso è incluso in protocolli più ampi dei quali fanno parte il rafforzamento e altri interventi in aggiunta allo stretching. Ad ogni modo i ricercatori che hanno condotto studi su pazienti affetti da dolori muscolo-scheletrici cronici sostengono il ricorso allo stretching nei programmi di trattamento del dolore. Non si rileva invece alcun beneficio in pazienti con problematiche neurologiche, vittima di ictus o lesioni del midollo spinale. Irene Giurovich Bibliografia 1. Chan SP, Hong Y, Robinson PD. Flexibility and passive resistance of the hamstrings of young adults using two different static stretching protocols. Scand J Med Sci Sports 2001 Apr;11(2):81-6. 2. Feland JB, Myrer JW, Schulthies SS, Fellingham GW, Measom GW. The effect of duration of stretching of the hamstring muscle group for increasing range of motion in people aged 65 years or older. Phys Ther May 2001; 81(5):11101117. 3. Page P. Current concepts in muscle stretching for exercise and rehabilitation. Int J Sports Phys Ther 2012 Feb;7(1):109-19. 4. Turbanski S. Stretching e riscaldamento, SDS, Rivista di cultura sportiva, 2005; XXIV, 65. Quando il soggetto di un percorso riabilitativo è un bambino l'approccio degli operatori in esso coinvolti deve essere “costruito” non soltanto sulla base delle caratteristiche della patologia o della disabilità da trattare ma anche, e con altrettanta attenzione e competenza, sulla base delle peculiarità di risposta alla terapia che sono legate, necessariamente in modo dinamico, all'età del piccolo paziente in ogni tappa del percorso e ai cambiamenti determinati dalla sua crescita. In età pediatrica una malattia, una lesione, un disordine dello sviluppo hanno l'effetto di interferire – attraverso la limitazione delle funzioni motorie, la distorsione delle esperienze sensoriali, l'alterazione della capacità di comunicazione – con le potenzialità di adattamento del soggetto, e pertanto con la sua capacità di interagire con l'ambiente che lo circonda. Data l'imprescindibilità del rapporto con l'ambiente esterno Dottoressa Fusaro, che ruolo riveste la medicina riabilitativa nell'ambito dell'ortopedia pediatrica? L’ortopedia pediatrica comprende numerose patologie di differente gravità, dal piede piatto alle patologie più complesse di competenza neuro-ortopedica, che possono determinare deformità a carico dell’apparato muscolo scheletrico. Soprattutto per questi ultimi pazienti e per i casi in cui il trattamento ortopedico è di lunga durata il ruolo della riabilitazione è centrale per ottenere il miglior outcome possibile. Quali sono le patologie scheletriche o neuromuscolari infantili che più frequentemente e in maggior per lo sviluppo fisico e psicomotorio del bambino e l'importanza che nel modulare tale rapporto rivestono gli strumenti di elaborazione sia cognitivi sia comportamentali, è evidente che in qualsiasi condizione di compromissione funzionale, anche transitoria, l'intervento riabilitativo assume un ruolo determinante e ha un raggio d'azione che va ben oltre il ripristino della funzione compromessa o la compensazione del deficit specifico. A descrivere, attraverso la sua esperienza diretta, le potenzialità e le prerogative particolari della medicina riabilitativa applicata all'ortopedia pediatrica è Isabella Fusaro, specialista in medicina fisica e riabilitazione e in reumatologia, dirigente medico presso la Struttura complessa di medicina fisica e riabilitativa dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove in campo pediatrico si occupa in particolare di riabilitazione nelle deformità vertebrali e nelle patologie neuroortopediche dell'età evolutiva. misura coinvolgono il fisiatra, in ospedale e in ambito extraospedaliero? Le patologie infantili che coinvolgono il fisiatra più frequentemente sono il piede torto, il piede piatto, i paramorfismi e i dismorfismi del rachide, le deformità assiali degli arti inferiori. Quelle che richiedono al fisiatra il maggiore impegno sono tutte le patologie di neuro-ortopedico, tipo come gli esiti di paralisi cerebrale infantile, le miopatie o gli esiti di mielomeningocele, ma anche le dismetrie per ipoplasie congenite che necessitano trattamenti con metodica di Ilizarov. Può delineare il panorama delle tecniche fisioterapiche più indicate per la riabilitazione ortopedica e neuromotoria del paziente in età evolutiva? In generale, tutte le tecniche rieducative possono essere utilizzate se somministrate con la modalità più adatta all’età del bambino, al fine di facilitare il suo coinvolgimento. Per le patologie ortopediche pediatriche in cui esiste un coinvolgimento neurologico è particolarmente importante che il setting sia adeguato, così come è fondamentale la preparazione specifica del terapista, che deve avere una competenza mirata per il trattamento di questi pazienti. In questo ambito le tecniche rieducative utilizzate sono perlopiù le metodiche di tipo neuromotorio, percettivo, propriocettivo e di stretching. Per quanto riguarda le terapie fisiche strumentali, che trovano indicazione nell’età pre-adolescenziale, il loro impiego è condizionato dall’età e dalla presenza delle cartilagini di accrescimento. Quali sono le nuove frontiere di ricerca, in campo diagnostico e terapeutico, > della medicina riabilitativa pediatrica? Attualmente gli studi sono rivolti all’utilizzo di nuove metodiche strumentali, alla valutazione, attraverso indagini strumentali come la gait analysis, delle performance funzionali di nuovi tutori e ortesi e alla determinazione dell'efficacia di trattamenti di tipo estensivo o intensivo. Ad oggi, infatti, pur avendo a livello clinico la percezione della validità dei nostri trattamenti, stiamo lavorando per corredare tale percezione con valutazioni evidencebased. Con quali problemi specifici si confronta la medicina riabilitativa applicata all'età evolutiva dal punto di vista strettamente clinico? La riabilitazione in ortopedia pediatrica da un lato può contare sul vantaggio che la plasticità del sistema nervoso centrale offre, ma dall’altro deve tenere conto delle ripercussioni che l’accrescimento determina sull’equilibrio neuromuscolare e del fatto che queste possono “complicare” il percorso riabilitativo. Quali connotati peculiari assume la gestione del rapporto medico-paziente nel percorso riabilitativo di un soggetto in età evolutiva, in generale e nelle diverse fasce di età? Nella riabilitazione in età evolutiva è essenziale che la presa in carico sia sempre condivisa tra il medico e la famiglia. Se per il neonato il genitore ha un ruolo di assistenza, quando il piccolo cresce il genitore diventa educatore. In questo contesto il fisiatra deve essere abile non solo nel far sentire il bambino coinvolto con un ruolo centrale, ma anche nel supportare in ogni passo i genitori nella loro funzione di educatori. In generale, in qualsiasi progetto riabilitativo in età evolutiva, la figura del genitore/familiare/caregiver è fondamentale. Questo vale a maggior ragione per i progetti di lungo periodo, in cui Isabella Fusaro il bambino cresce modificando la sua struttura fisica e mentale. Quali competenze professionali e relazionali specifiche richiede al fisiatra e al fisioterapista il lavoro con i bambini in confronto al lavoro con gli adulti? Fisiatra e fisioterapista che lavorano con bambini, soprattutto in ambito neuroortopedico, devono essere specificamente formati attraverso corsi e master dedicati. Un fisiatra e un terapista che sanno lavorare sul bambino potranno lavorare sull’adulto, mentre non è vero il contrario, e non dovrebbe avvenire. Nella gestione del paziente in età evolutiva avviato a un percorso riabilitativo quanto conta – quando disponibile – il supporto di figure professionali coadiuvanti come psicologi, assistenti sociali, educatori eccetera? La presa in carico del bambino deve essere globale e coinvolgere tutte le figure professionali di interesse, affinché dal lavoro di équipe possa ottenersi il miglior risultato possibile. Ciò è tanto più vero quanto più la patologia è modificabile con la rieducazione e quanto più è prolungato il percorso di trattamento. Bisogna sempre distinguere tra rieducazione e accadimento. Nella sua esperienza, i percorsi riabilitativi pediatrici di lungo periodo e che richiedono una continuità assistenziale sono sufficientemente garantiti dalle attuali forme di integrazione ospedale-territorio nell'ambito della vigente programmazione sanitaria? Purtroppo non sempre esiste una corretta presa in carico dopo la dimissione ospedaliera, per problemi di risorse economiche o per esigenze familiari che non garantiscono un'adeguata continuità assistenziale. Monica Oldani FISIOviews Review della letteratura internazionale MEDICINA DELLO SPORT Ernia da sport: l'impingement femoro-acetabolare tra le cause? La cosiddetta ernia da sport è la condizione anatomopatologica che, almeno secondo alcuni autori, più frequentemente sottende quell'ampia e tuttora parzialmente indeterminata entità clinica chiamata “pubalgia dell'atleta”. Se la sindrome pubalgica è una categoria nosologica che sfugge a un preciso inquadramento eziopatogenetico, all'interno di essa anche la “semplice” diagnosi di ernia da sport fa riferimento a una condizione non così ben definita quanto il suo nome farebbe supporre. Su che cosa sia e soprattutto che cosa non sia l'ernia da sport non vi è consenso unanime. Per lo più viene considerata una sofferenza, di varia entità e natura, della parete addominale in regione sovrapubica che coinvolge la parte inferiore dei muscoli larghi (obliquo esterno, obliquo interno e trasverso) e le relative fasce aponeurotiche e gli altri elementi anatomici che costituiscono il canale inguinale – con conseguente irritazione delle fibre sensitive dei nervi iloeoinguinale o genitofemorale – senza che vi sia in realtà mai una vera erniazione viscerale, sebbene venga riportata, come riscontro chirurgico, un'alta percentuale di protrusioni non palpabili. Ancora di recente, tuttavia, alcuni autori facevano rientrare nella diagnosi di ernia da sport sia la patologia del canale inguinale sia una serie di altre condizioni che possono essere all'origine della sintomatologia pubalgica ma che oggi vengono tendenzialmente viste come fattori causali o concausali distinti, ancorché spesso associati: le tendinopatie inserzionali o preinserzionali dei muscoli adduttori dell'anca o dei retti addominali e una forma di osteoartropatia che interessa l'articolazione sinfisaria e le branche ossee ad essa adiacenti, di origine verosimilmente microtraumatica. Motivo per cui, nelle diverse trattazioni, le due denominazioni, ernia da sport e pubalgia dell'atleta, stanno a indicare entità cliniche diverse o vengono fatte coincidere a seconda dell'orientamento teorico. Al di là delle scelte terminologiche, la definizione e l'inquadramento concettuale e diagnostico-terapeutico della sindrome pubalgica legata all'attività sportiva e delle cause sottostanti sono di grande attualità, essendo l'incidenza di tale sintomatologia (o, in alternativa, del suo riconoscimento) in costante crescita, non solo tra gli atleti professionisti ma anche tra coloro che praticano attività fisica, e soprattutto alcuni sport, a livello amatoriale. Quella stimata tra i professionisti, che copre in media il 5% di tutte le patologie traumatiche sportive, riguarda principalmente gli sport caratterizzati da gesti tecnici che comportano sollecitazioni a livello della sinfisi pubica e richiedono una perfetta sinergia tra muscoli addominali e adduttori dell'anca (calcio, hockey su ghiaccio, rugby, football americano, corsa di fondo). In questa popolazione la diagnosi di ernia da sport come causa di dolore pubico è molto frequente. Per quanto riguarda l'origine di tale condizione, la stretta prossimità, nella regione interessata, di diverse strutture anatomiche rende difficile isolare singoli eventi patogenetici e fa ritenere più probabile una concomitanza di alterazioni funzionali e/o strutturali interdipendenti, rispetto alle quali possono tutt'al più esistere fattori potenzialmente predisponenti. Tra quelli che si pensa possano rivestire un ruolo come condizioni facilitanti/scatenanti o anche aggravanti la patologia del canale inguinale inguinale vi sono le coxopatie, sia di origine malformativa che di natura degenerativa. A tale proposito, una ricerca presentata all'ultimo congresso annuale della Orthopaedic American Society for Sports Medicine (Aossm) tenutosi a Baltimora (Maryland) lo scorso luglio, focalizza l'attenzione sul possibile rapporto tra ernia da sport e impingement femoro-acetabolare come condizione capace di modificare la biomeccanica dell'articolazione dell'anca in modo tale da alterare anche la dinamica muscolo-tendinea della regione inguinale. Lo studio, condotto da un gruppo di ricercatori dell'Università della Virginia, ha preso in esame con metodo retrospettivo su serie di casi 43 pazienti sottoposti complessivamente a 56 interventi di ernioplastica tra il 1999 e il 2011, riscontrando nell'86% dei casi (37 pazienti) segni radiologici (tramite Rm, Tc e Rx tradizionale) di impingement femoro-acetabolare mono o bilaterale, con le caratteristiche del conflitto di tipo Cam nel 67% dei casi (29 pazienti), del conflitto di tipo Pincer nel 5% dei casi (2 pazienti) e del conflitto combinato Cam-Pincer nel 14% dei casi (6 pazienti). Nel confronto tra le articolazioni omolaterali alle ernie e le articolazioni non associate a ernie, il valore medio dell'angolo alfa è risultato essere di 75 gradi a livello delle prime rispetto ai 61 gradi delle seconde, mentre la misurazione della retroversione acetabolare ha rilevato differenze meno consistenti (13 gradi nelle anche omolaterali alle ernie e 16 gradi nelle anche non associate a ernie). I risultati sembrano suggerire un'associazione tra le due condizioni, l'ernia da sport e l'impingement femoro-acetabolare, creando, secondo gli autori, le basi per considerare opportuna la valutazione diagnostica dell'articolazione dell'anca nei soggetti che presentano sintomatologia dolorosa persistente a livello della regione pubica con sospetto o diagnosi di ernia da sport. Monica Oldani Economopoulos K, Diduch D, Milewski M, Hart J, Hanks J. Radiographic evidence of FAI in athletes with sports hernias. American Orthopaedic Society for Sports Medicine’s (Aossm) 2012 Annual Meeting. Baltimore (Maryland): July 12-15, 2012. ONCOLOGIA Attività fisica e sopravvivenza dei malati di cancro L’attività fisica è stata suggerita come mezzo efficace per contribuire ad aumentare la sopravvivenza dei pazienti con cancro e anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) l’ha inserita tra i nove fattori di rischio modificabili. Bassi livelli di attività fisica uniti a una condizione di obesità risultano associati a percentuali valutate tra un quinto e un terzo dei tumori del colon, del seno, del rene e dell’apparato digerente. L’efficacia di interventi che comprendano programmi controllati di attività fisica sono già stati analizzati in letteratura e, per riassumere le prove scientifiche disponibili su questo tema, un gruppo di ricercatrici canadesi ne ha avviato una revisione sistematica. I risultati, pubblicati su Physiotherapy Canada devono essere interpretati con molta cautela, tuttavia appare confermata la tendenza a una sopravvivenza maggiore tra i pazienti con diagnosi di alcuni tipi di tumore che si sono impegnati ad aumentare i livelli di attività fisica. In particolare, quattro studi su sette hanno mostrato l’efficacia dell’esercizio fisico nelle pazienti con cancro al seno; ma purtroppo le evidenze non sono sufficienti per determinare la quantità ottimale di attività a causa delle differenze dei metodi di misura utilizzati nelle sperimentazioni pubblicate finora. Riguardo ai meccanismi fisiologici che portano a questi sorprendenti risul- tati, gli studiosi possono solo avanzare qualche ipotesi, come il potenziamento dell’azione immunitaria, la ridotta insulino-resistenza e i più bassi livelli di estrogeni. Analogamente si sono riscontrati effetti positivi dell’attività fisica nei pazienti con tumori del colon e del colon-retto. L’esercizio sembra migliorare ulteriormente la sopravvivenza se la pratica si associa ad altri trattamenti antitumorali standard. È interessante notare che l’attività fisica influisce in maniera similare sulla mortalità generale e su quella tumore-specifica, suggerendo un’azione diretta sulla biologia del tumore. Anche in questo caso, si pensa che possa contribuire la diminuzione dell’insulino-resistenza e quindi dei livelli della concentrazione di insulina nel siero. Un’altra possibile spiegazione, specifica per questo tipo di tumori, potrebbe essere il miglioramento del transito intestinale. La misura più comune dell’intensità di attività fisica è oggi il Met, o equivalente metabolico, dall’inglese Metabolic EquivalenT, con cui si indica il consumo energetico e moltiplicando l’intensità per la durata si ottiene l’unità di misura Met-ora. Si è visto che i benefici effetti per il tumore al seno iniziano già a 3 Met-ora alla settimana, mentre nei tumori al colon occorrono almeno 18 Metora. È probabile che la ragione dipenda dall’effetto ormonale, specifico per il tumore al seno, che si attiva anche con un’attività fisica meno intensa e prolungata. R. T. Barbaric M, Brooks E, Moore L, Cheifetz O. Effects of physical activity on cancer survival: a systematic review. Physiother Can 2010 Winter;62(1):2534. OrthOviews Review della letteratura internazionale << 20 COLONNA Psicologia comportamentale: il condizionamento operante Il mal di schiena, sempre più spesso denominato con l’inglese low-back pain, è un termine generico che indica un ampio spettro di patologie e, se nella maggior parte dei casi si risolve spontaneamente entro poche settimane, talvolta cronicizza e può portare a gravi disabilità. Per la sua diffusione è anzi una delle cause di disabilità principali e comporta costi sociali elevati; un trattamento efficace per prevenire e ridurre la disabilità da mal di schiena svolge dunque un ruolo essenziale nella professione del fisioterapista. La cronicizzazione del problema è relativamente indipendente dall’eziologia ma risente di molti fattori, tra cui variabili psicologiche e sociali. Si sono così affermati, tra i diversi trattamenti del low-back pain, anche alcuni approcci mutuati dalla psicologia comportamentale e, tra questi, il condizionamento operante, una procedura generale di modifica del comportamento di un organismo, ossia una modalità attraverso la quale l'organismo “apprende”. Uno dei principi chiave del condizionamento operante è la partecipazione attiva del paziente. Gli obiettivi funzionali e il programma di attività sono concordati e il fisioterapista incoraggia i comportamenti positivi del paziente durante tutto il periodo in cui vengono effettuati i trattamenti e si assicura che il dolore non ne impedisca lo svolgimento. Anzi, uno degli obiettivi del condizionamento ope- rante è proprio la modifica del comportamento del paziente nei confronti del dolore, evitando quell’atteggiamento di paura che spesso blocca qualsiasi pro- gresso nel percorso di recupero funzionale. Un recente articolo proveniente dall’Australia e comparso su Physiotherapy Research International mostra ora l’efficacia di questo approccio sulla scorta di una classica ricerca sistematica nei principali database medicoscientifici. Gli autori hanno individuato 15 trial di buona qualità metodologica, per un campione complessivo di 3737 persone. Di questi, otto riportano differenze significative: i risultati del condizionamento operante effettuato dal fisioterapista non sono mai inferiori ad altri interventi nel ridurre la disabilità e invece si riscontra la «moderata evidenza» di una maggiore efficacia rispetto ad altri interventi comportamentisti. Un'altra evidenza positiva è nella riduzione della durata del periodo di malattia prima del ritorno all’attività lavorativa. Si confermano così anche i benefici economici di un approccio in cui le tecniche fisioterapiche risultano potenziate dall’acquisizione di metodi propri della psicologia comportamentale. La conclusione degli autori è che «il condizionamento operante può essere considerato un trattamento efficace del mal di schiena e può essere preso in considerazione dai fisioterapisti per il suo effetto di ridurre la disabilità a lungo termine nel low-back pain cronico». Giampiero Pilat Bunzli S, Gillham D, Esterman A. Physiotherapyprovided operant conditioning in the management of low back pain disability: A systematic review. Physiother Res Int 2011 Mar;16(1):4-19. MEDICINA DELLO SPORT TERAPIE ALTERNATIVE Prevenzione difficile per le lesioni degli hamstring Sauna e terapia termale contro la fibromialgia I traumi agli hamstring, i muscoli flessori del ginocchio, sono le lesioni più comuni del tessuto soffice della coscia. Uno studio della Football association inglese ha riportato che le lesioni agli hamstring sono state il 12% di tutti i traumi subiti dai calciatori nel corso di due stagioni agonistiche. I principali sintomi dello stiramento degli hamstring sono dolore, gonfiore, inibizione del movimento e spasmi muscolari. Atleti, allenatori e terapisti hanno messo in campo diverse strategie per tentare di prevenire questi infortuni, ma non è chiaro se siano realmente efficaci. Due ricercatori britannici, Elliott F. Goldman e Diana E. Jones, hanno cercato conferme nella letteratura scientifica e hanno avviato una revisione sistematica, come si legge sulle pagine di Physiotherapy. L’obiettivo era la comparazione degli effetti degli interventi di prevenzione in soggetti impegnati in attività sportiva continuativa – a livello professionistico o amatoriale – e in particolare di verificare se l’incidenza delle lesioni agli hamstring ne risultasse effettivamente diminuita rispetto a individui non sottoposti ad Dolore muscolo-scheletrico diffuso e persistente, fatica cronica, disfunzioni cognitive, disturbi del sonno, rigidità mattutina, ansietà e depressione: sono tutti sintomi della fibromialgia, che peggiorano sensibilmente la qualità di vita di chi ne soffre. È una sindrome complessa, che si accompagna spesso ad artrite reumatoide e ad altre malattie autoimmuni, ma l’eziologia resta sconosciuta e una cura efficace, specifica e approvata dalla Food and Drug Administration non è al momento disponibile. Il trattamento si affida generalmente a farmaci che tengano sotto controllo il dolore, antidepressivi e anticonvulsivi, ma si stanno facendo strada alcuni trattamenti alternativi e naturali che, senza pretese di guarigione, puntano a un miglioramento dei sintomi. Questi però possono essere talmente severi da compromettere la possibilità di svolgere esercizi fisici e impongono la necessità di individuare alternative. L’ultima delle proposte per alleviare i sintomi della fibromialgia arriva dal Giappone, passando attraverso la Finlandia. Shuji Matsumoto e i suoi colleghi del Dipartimento di riabilitazio- azioni preventive. I risultati non sono stati però soddisfacenti e hanno confermato un’assenza di evidenze scientifiche affidabili, che non deve certamente indurre alla rinuncia alla prevenzione, ma piuttosto a uno sforzo ulteriore per individuare interventi più efficaci e a studi più rigorosi che ne verifichino l’efficacia. Goldman e Jones hanno individuato sette studi randomizzati controllati che hanno incluso complessivamente 1.919 partecipanti. Alcuni di questi risultano poco attendibili a causa di carenze metodologiche, come la mancata applicazione della procedura del doppio cieco o l’incompletezza dei dati forniti. Quattro trial, con un totale di 287 partecipanti, hanno esaminato interventi orientati in modo specifico alle lesioni degli hamstring, ma hanno fornito esiti controversi. Tre di questi hanno analizzato i risultati di protocolli di allenamento per aumentare la forza degli hamstring, ma uno solo di questi, di piccole dimensioni, ne ha mostrato l’efficacia. Il quarto studio indica invece che alcuni benefici possono essere ottenuti attraverso la terapia manuale, ma il campione analizzato non permette di raggiungere una significatività statistica. R. T. Goldman EF, Jones DE. Interventions for preventing hamstring injuries: a systematic review. Physiotherapy 2011 Jun;97(2):91-9. ne e medicina fisica dell’Università di Kagoshima propongono infatti il ricorso alla tradizionale sauna finlandese. Gli autori dell’articolo proposto da Complementary Therapies in Clinical Practice, fanno notare che una sauna a raggi infrarossi, mantenuta a una temperatura costante di 60°C, si è già dimostrata una forma di terapia sicura per pazienti in condizioni fisiche debilitate, come coloro che soffrono di insufficienza cardiaca e malattia arteriosa periferica. In combinazione con un’opportuna terapia fisica, la sauna induce miglioramenti nella circolazione periferica, nella sintomatologia dolorosa e, in generale, nella qualità di vita dei pazienti, agendo anche positivamente sugli aspetti psicologici che si accompagnano ad alcune patologie, alleviando certi stati depressivi leggeri. Gli studiosi giapponesi hanno dunque deciso di sperimentare terapie termali e sauna nei pazienti con sindrome fibromialgica. Lo studio ha incluso 44 donne di mezza età con fibromialgia, alle quali è stato applicato un protocollo terapeutico della durata di 12 settimane, comprendente tre saune e due giorni di esercizi da svolgere in acqua alla settimana. I parametri controllati sono stati: dolore, sintomi tipici della fibromialgia e qualità di vita, misurati rispettivamente con la scala visiva analogica (Vas), il questionario dell'impatto della fibromialgia (Fiq) e lo short form 36-item (SF36). I risultati sono stati decisamente positivi e in tutte le pazienti si è osservata una riduzione del dolore e degli altri sintomi in percentuali variabili dal 31 fino al 77% alla fine del programma, rimaste relativamente stabili nei sei mesi successivi alla terapia. Anche gli indici legati alla qualità di vita hanno fatto registrare un generale miglioramento, indicando così la terapia termale come approccio innovativo ed efficace nell’alleviare la gravità della sintomatologia associata alla sindrome fibromialgica. Giampiero Pilat Matsumoto S, Shimodozono M, Etoh S, Miyata R, Kawahira K. Effects of thermal therapy combining sauna therapy and underwater exercise in patients with fibromyalgia. Complement Ther Clin Pract 2011 Aug;17(3):162-6. 23 << OrthOviews Review della letteratura internazionale LAVORO ORIGINALE Vantaggi e applicazioni dei bendaggi funzionali L’utilizzo del bendaggio per la prevenzione o il trattamento delle lesioni traumatiche articolari associate allo sport risale all’epoca della Grecia classica, più precisamente ad Ippocrate e Chirone. Si riporta la radice storica di questa tecnica alla cultura egizia e alla grande abilità degli egiziani nell’utilizzare le fasciature, cosa che ancora oggi si può osservare nella tecnica di conservazione delle mummie (1). Il primo medico che utilizzò bende e cerotti a scopo terapeutico fu Henry Martin (1824-1884) per il trattamento delle ulcere vascolari (2). Il bendaggio elastico fu successivamente modificato e utilizzato da Johann August Von Esmarck (1823-1908) per lo svuotamento pre-operatorio dell’arto (3). Il ritorno in auge dell’uso delle fasciature applicate allo sport è da attribuire alla scuola americana che, circa 30 anni fa, le introdusse nel protocollo di prevenzione dei traumi distorsivi negli atleti che praticavano il basket. Il bendaggio funzionale è un presidio riabilitativo di contenzione dinamica che, attraverso l’applicazione di bende adesive estensibili e inestensibili, permette di sostenere le strutture periarticolari capsulo-legamentose e quelle muscolo-tendinee, proteggendole da agenti patomeccanici, senza limitare la fisiologia dell’articolazione (4). Indicazioni Le indicazioni attuali a tale tecnica sono molteplici e comprendono la prevenzione di traumi distorsivi durante la pratica sportiva, il trattamento delle lesioni capsulo-legamentose e/o acute muscolo-tendinee minori come presidio unico o integrativo, delle patologie microtraumatiche croniche (tendinosi, artralgie), della sindrome da iperpressione rotulea, delle condizioni infiammatorie e degenerative articolari e periarticolari, dei postumi traumatici come l’instabilità articolare e, in ambito riabilitativo, risultano molto utili per favorire un recupero precoce del range of motion (Rom) articolare e della coordinazione motoria (5-8). Diversi studi epidemiologici riportano quanto siano frequenti i traumi distorsivi dell’articolazione tibiotarsica negli sport caratterizzati da intense sollecitazioni roto-traslatorie; i suddetti traumi presentano una frequenza del 40% nel volley, del 13,6% nel calcio e del 50% nella pallacanestro (9, 10). Pertanto, in tali situazioni, gioca un ruolo sempre più importante il bendaggio nella prevenzione dell’evento traumatico. Già Garrick nel 1973 (11) riportava, attraverso uno studio longitudinale che analizzava circa 2.000 atleti durante la stagione agonistica, un’incidenza doppia delle lesioni capsulo-legamentose della tibiotarsica in assenza di un bendaggio preventivo e di circa quattro volte superiore negli atleti che riferivano un precedente evento traumatico. I più recenti studi, come ha dimostrato Ozer nel 2009 (12), descrivono il vantaggio dell’utilizzo preventivo del bendaggio attraverso lo sviluppo delle capacità propriocettive ed esterocettive ma, allo stesso tempo, sottolineano la riduzione della performance sportiva del gesto atletico, come osservato nel salto in alto. Altro campo di applicazione del taping è rappresentato dal trattamento delle lesioni suddette nell’immediato post-trauma, come testimoniato dagli ottimi risultati riportati in letteratura dopo l’applicazione del bendaggio funzionale nei traumi distorsivi sport-correlati. In tale contesto, vari autori hanno sottolineato l’elevato grado di soddisfazione e di comfort dei pazienti, la precoce ripresa delle attività sportive e il precoce recupero di soddisfacenti performance atletiche (13-15). In uno studio del 2002 (16) venivano comparati i risultati del trattamento dei traumi distorsivi della caviglia dopo bendaggio elastico o apparecchio gessato o semisintetico per tre settimane. La valutazione clinica e goniometrica del Rom articolare, al momento della rimozione della contenzione, evidenziava migliori risultati nel gruppo trattato con il bendaggio funzionale, soprattutto in termini di capacità, da parte dei pazienti arruolati, di flessoestensione e prono-supinazione della tibio-tarsica. In ultimo, ricordiamo l’applicazione del bendaggio durante il periodo di riabilitazione dopo lesioni capsulo legamentose della caviglia; in questa fase diventa utile sia nella rieducazione postoperatoria che dopo il trattamento incruento ed è molto importante per ridurre i tempi di ripresa dell’attività sportiva. Differenti tipi di bendaggi Il bendaggio funzionale viene schematicamente distinto in compressivo e stabilizzante (taping). Il primo viene generalmente applicato dopo un evento traumatico al fine di ridurre la formazione dell’edema e della tumefazione ed è costituito da bende elastiche. Il secondo si basa sul principio dei tiranti costituiti da bende anelastiche disposte in funzione antagonista rispetto al meccanismo responsabile dell’evento traumatico, per cui la struttura anatomica coinvolta viene preservata attraverso la realizzazione di uno stato funzionale di “bassa tensione”. Quanti più numerosi sono i tiranti, tanto maggiore è la limitazione del movimento, pertanto è razionale adeguare la tipologia del bendaggio alle diverse fasi del recupero, riducendo il numero dei tiranti verticali od obliqui relativamente all’evoluzione del processo di guarigione degli elementi > Biagio Moretti Professore ordinario di malattie dell'apparato locomotore al Corso di laurea in medicina e chirurgia Università degli Studi di Bari Direttore della Clinica ortopedica II - Policlinico di Bari Presidente del Corso di laurea di scienze delle attività motorie e sportive dell'Università degli Studi di Bari > Giuseppe Maccagnano Medico specializzando in ortopedia e traumatologia Università degli Studi di Bari Clinica ortopedica II - Policlinico di Bari anatomici lesionati. Nel bendaggio della tibiotarsica, sottoposta a un trauma in inversione, il tirante elastico deve essere posizionato con il piede in eversione allo scopo di limitare il movimento responsabile del trauma, mentre la benda adesiva anelastica viene applicata sul versante mediale della caviglia e, attraverso una trazione in direzione laterale, deve aderire alla cute della pianta del piede e successivamente su quella della superficie laterale del perone. Si possono in tal modo applicare numerose staffe verticali che vengono stabilizzate con l’ausilio di cerotti semicircolari a livello della gamba (8). zionale consente di ottenere differenti effetti. Un effetto meccanico: una volta applicata la benda, quest’ultima diviene un corpo unico con i tessuti sottostanti, supportando le sollecitazioni e distribuendole in modo omogeneo, e crea differenti stop meccanici. Tale contenzione è applicata lungo il compartimento articolare danneggiato o la struttura muscolotendinea elongata. Un effetto esterocettivo: la benda, aderente alla cute, trasmette il movimento articolare che intendiamo limitare, sotto forma di forza di trazione, all’area di adesione cutanea e ai tessuti molli sottostanti, stimolando i recettori cellulari locoregionali. Questi ultimi sono responsabili dell’attivazione dei meccanismi di difesa costituiti dalla contrazione riflessa dei gruppi muscolari, al fine di preservare ulteriormente le strutture capsulo-legamentose. Un effetto propriocettivo: la suddetta condizione assicura un maggiore controllo spaziale dell’articolazione al fine di prevenire nuovi eventi traumatici. Un effetto antalgico: il ben- I vantaggi del bendaggio In tale ottica, uno dei principi basilari dei bendaggi funzionali è l’effetto stabilizzante attivo ottenuto attraverso l’applicazione del cerotto sulla cute, che amplifica l’attività dei propriocettori nella trasmissione muscolare per instaurare i meccanismi riflessi di auto-difesa. Pertanto il bendaggio fun- OrthOviews daggio, consentendo al paziente di usare l’articolazione in modo tutelato e quanto più conforme a quello fisiologico, limita la reazione algica tipica del periodo post-traumatico. Un effetto psicologico: il sostegno che la benda riesce a garantire produce un effetto rassicurante per l’atleta (4). Questi bendaggi possono essere utilizzati simultaneamente o in stretta sequenza; infatti, dopo l’impiego del bendaggio compressivo nella fase di ripresa dell’attività fisica dove l’edema è ormai ridotto, è opportuno applicare il taping che garantisce la stabilizzazione dinamica dell’articolazione e che, se associato a un opportuno lavoro fisioterapico, propriocettivo e di rinforzo muscolare, permette il recupero precoce del Rom articolare. Review della letteratura internazionale Il kinesiotaping In tempi più recenti è stato introdotto il kinesiotaping. Originariamente utilizzato in Giappone agli inizi degli anni '90 dal dottor Kenzo Kase (17), tale metodica si basa sempre sulla scienza del movimento “kinesio”, ma la benda che viene utilizzata è il Kinesio Tex tape. Quest’ultima ha capacità elastiche in una sola direzione e, prima di essere applicato, deve essere allungato del 140% (18); inoltre, a differenza del classico taping, può essere lasciato adeso alla cute per diversi giorni. Le indicazioni sono le stesse della metodica standard, alle quali si aggiungono i disordini muscolo-scheletrici di origine professionale come il low back pain. I dati della letteratura, come viene riportato nel lavoro di Karatas del 2012 (19), confermano la riduzione della dolorosa sintomatologia nelle rachialgie professionali e una ripresa funzionale precoce del Rom articolare importante nei percorsi riabilitativi (20). I principi sui quali si basa il kinesiotaping sono molteplici (17, 20): riduzione delle funzione dei gruppi muscolari interessati, incremento dell’attività del sistema linfatico e circolatorio, riduzione dello stimolo nocicettivo, riposizionamento del fulcro articolare attraverso i tiranti e capacità esterocettiva e propriocettiva. Tecnica di bendaggio Il materiale indispensabile per l’esecuzione di un bendaggio è rappresentato dal cerotto per taping, dalla benda adesiva, dal salvapelle, dalle compresse di gomma-schiuma, dalla maglia tubulare e da un paio di forbici. I cerotti devono essere anallergici e mai applicati circolarmente in modo completo, al fine di evitare disturbi vascolari. Le bende adesive si distinguono in estensibili e inestensibili e vengono utilizzate a seconda della tipologia del bendaggio. Rappresentano il supporto principale di ogni bendaggio e la loro funzione è correlata ai costituenti chimici (lattice o acrilico). Tali bende devono essere porose per la traspirazione cutanea e allo stesso tempo resistenti per supportare le sollecitazioni biomeccaniche. In tale contesto, differenziamo il Tensoplast dal Leukotape: il primo è una benda elastoadesiva, utile soprattutto per i bendaggi compressivi nel trattamento di patologie vascolari e muscolo-tendinee; il secondo è una benda anelastica adesiva, quindi inestensibile, indicata per la prevenzione di traumi distorsivi durante la pratica sportiva e nella fase riabilitativa post-traumatica. Il salva-pelle è una pellicola in spugna utile per preservare la cute da eventuali irritazioni o lesioni provocate dal cerotto. Le compresse servono a incrementare l’azione soprattutto compressiva negli eventi traumatici acuti, mentre le maglie tubulari sono importanti per conferire maggiore stabilità e per la rifinitura finale. La tecnica di applicazione del bendaggio varia a seconda del distretto anatomico e della patologia da trattare, ma si fonda su alcuni principi basilari. Il rispetto delle corrette indicazioni è funzionale al risultato clinico, per cui è fondamentale utilizzare tutti i supporti strumentali per una corretta diagnosi. È necessario analizzare e << 24 conoscere la fisiopatologia del meccanismo lesionale. Appare indispensabile definire preventivamente il tipo di bendaggio che si vuole realizzare e solo successivamente scegliere i materiali più idonei. Prima dell’applicazione, bisogna procedere alla preparazione della cute attraverso una accurata depilazione e detersione con sostanze sgrassanti. Risulta inutile lasciare che il presidio rimanga oltre il tempo stabilito (5-6 giorni) perché perde la sua efficacia contentiva, diventando addirittura dannoso per l’insorgenza di fenomeni irritativi della cute. Dopo avere definito i principi fondamentali sui quali si fonda il bendaggio, è opportuno fornire alcuni consigli pratici per la sua confezione nei casi frequenti di traumi distorsivi durante la pratica 25 << OrthOviews Review della letteratura internazionale sportiva. Il bendaggio si esegue dalla parte distale dell’arto verso quella prossimale e l’articolazione, durante il suo confezionamento, deve essere mantenuta in posizione funzionale; la compressione deve essere decrescente in senso disto-prossimale e appare opportuno evitare il contatto diretto tra cute e cerotti adesivi, mantenendo una tensione costante. È necessario invitare il paziente a deambulare dopo il bendaggio per valutare eventuali disturbi locali o perdite di tenuta del cerotto e/o delle bende. Infine, è obbligatorio informare il paziente sulle eventuali complicanze e istruirlo sulla procedura di rimozione. Controindicazioni Le controindicazioni all’utilizzo di tale presidio sono rappresentate dalle malattie cutanee (reazioni eritematose, ferite lacero-contuse, infezioni), da allergie ai materiali da utilizzare e da patologie vascolari arterovenose come l’insufficienza valvolare e l’arteriopatia obliterante degli arti inferiori di stadio III e IV che possono essere aggravate dall’utilizzo del bendaggio (21). Allo stesso tempo è opportuno ricordare che, se dopo l’applicazione del bendaggio il paziente dovesse riferire una sintomatologia ingravescente o presentare segni clinici di turbe neuro-vascolari, è assolutamente indispensabile procedere alla rimozione repentina del presidio (22-24). Conclusioni Il bendaggio è un presidio fisioterapico e medico integrativo e non sostitutivo di altri approcci terapeutici. Il suo utilizzo e il risultato clinico finale sono funzione della conoscenza dettagliata del meccanismo etiopatogenetico responsabile dell’evento traumatico e delle corrette indicazioni. È opportuno inoltre conoscere i materiali a disposizione e i principi che sovraintendono a una corretta applicazione degli stessi, in modo da porre le basi per realizzare un presidio funzionale e idoneo. Il kinesiotaping, di recente introduzione, consente un maggiore Rom articolare e, nell’ambito sportivo, una migliore performance atletica. Come emerso dalla ricerca bibliografica, l’utilizzo di tali presidi ha permesso di ottenere risultati clinici funzionali migliori rispetto a quelli osservati in pazienti non trattati. Bibliografia 1. Candela V, Cremonini L. Il bendaggio funzionale nell'arto inferiore. Centro Documentazione Scientifica Menarini 1990. 2. Wilson J, Fiske J. Appleton’s cyclopaedia of american biography. New York: D. Appleton; n°4; 2006. 3. Clifton Meals BA, Jeffrey W. Origins of eponymous orthopaedic equipment. Clin Orthop Relat Res 468:1682-1692; 2010 4. Frignani R. I bendaggi funzionali. Ed. Piccin, 1985. 5. www.medicinadellosport.fi.it 6. Zanchini M, Grasso S. Tecnica delle fasciature e dei bendaggi. Ed. Ermes, 1994. 7. www.fisioequipe.eu 8. Frignani R. I bendaggi funzionali. Ed. Piccin, 1988. 9. Condetuca F, Russo G. Aspetti preventivi nelle distorsioni del collo piede. J Sports Traum 12; suppl. 1, 51, 1990. 10. Gobbi A, Sansone V. Indications and limits of taping with partical immobilisation in the treatment of ankle sprains: a review of 70 cases. J Sports Traum 1991; 13;(4), 229. 11. Garrick JG, Requa RK. Role of external support in the prevention of ankle sprains. Med Sci Sports 1973 Fall;5(3):200-3. 12. Ozer D, Senbursa G, Baltaci G, Hayran M. The effect on neuromuscular stability, performance, multijoint coordination and proprioception of barefoot, taping or preventative bracing. Foot (Edinb) 2009 Dec;19(4):205-10. 13. 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The effect of kinesiotape application on functional performance in surgeons who have musculo-skeletal pain after performing surgery. Turk Neurosurg 2012 Vol 22(1): 83-89. 20. Murray H, Husk L. Effect of kinesiotaping on proprioception in the ankle. J Orthop Sports Phys Ther 2001; 31: A-37. 21. Ramelet AA. Compression therapy. Dermatol Surg 2002; 28:1. 22. Hordegen-Ludin KM. Nervenlesionen durch kompressionsstrumpfe. Phlebologie 1999; 28:61-3. 23. Callan Mj. Hazards of compression treatment of the leg: an estimate of Scottish surgeons. Br Med J 1987; 295:1382. 24. Perrenoud D, Ramelet AA. Chronic leg ulcers and eczema. Curr Probl Dermatol 1999; 27:165-9. modo migliore molte delle condizioni patologiche che ne sono alla base per assicurare i migliori benefici, efficacia e sicurezza per il paziente». Dai risultati della revisione si evince che i clinici, prima di trattare la spalla, dovrebbero effettuare una valutazione addizionale della parte alta della spina dorsale e delle costole. Riguardo alla terapia manuale e manipolativa, dovrebbe essere previsto un controllo accurato delle articolazioni gleno-omerale, acromion-claveare e sterno-clavicolare, della spina dorsale, delle costole superiori e delle intere catene cinetiche, per poi affrontare il trattamento chiropratico sulla scorta di una diagnosi adeguata e della verifica di eventuali controindicazioni. SPALLA Bendaggio funzionale dell'articolazione tibiotarsica: tale presidio può essere utilizzato sia per la prevenzione degli eventi traumatici sia come integrazione di un programma terapeutico e riabilitativo. Non va sottovalutata la componente psicologica: l’atleta protetto dal bendaggio, ritrova più rapidamente quel senso di sicurezza indispensabile per una maggiore vigilanza soggettiva e un migliore rendimento atletico. Allo stesso tempo è importante ricordare che la corretta applicazione del bendaggio funzionale è garantita esclusivamente dalla buona manualità dell’operatore, acquisita nel tempo con la pratica. > L’aiuto della chiropratica nella cura della spalla dolorosa Un gruppo di chiropratici californiani, coordinati da James W. Brantingham, ha avviato una revisione sistematica per verificare l’efficacia della terapia manuale e manipolativa nel trattamento dei dolori della spalla. Una varietà di condizioni patologiche possono essere causa della spalla dolorosa: dalle capsuliti adesive a diversi tipi di artrite, dalle tendiniti alla cuffia dei rotatori alle infiammazioni della borsa sottoacromiale. Anche le terapie disponibili sono diverse e spesso si ricorre a una serie di pro- cedure integrate e finalizzate alla ripresa globale della funzionalità dell'arto superiore. Tra queste la chiropratica, ma gli autori non sono i soli a ritenere che vi sia «un’apparente disconnessione tra i servizi svolti dai chiropratici e la percezione pubblica di questi servizi». Anche se molti chiropratici utilizzano tecniche fisioterapiche, prescrivono esercizi e ricorrono a stimolazioni elettriche e ultrasuoni, la professione è spesso identificata esclusivamente con le manipolazioni della colonna. Un approccio complessivo del paziente, che faccia ricorso a una combinazione di tecniche, è il punto di partenza di questa revisione e, in qualche modo, ne è anche la conclusione, in quanto i risultati degli studi pubblicati in letteratura ne mostrano la validità. Riguardo all’inclusione nella revisione dei trial pubblicati in letteratura, gli autori hanno scelto di adottare criteri piuttosto ampi, che per alcuni ne costituiranno probabilmente il principale limite, ma Brantingham e colleghi ritengono che «il miglior modo di valutare le diverse terapie non debba limitarsi agli studi randomizzati controllati e che l’approccio evidence-based, in questi casi, non debba escludere studi condotti con modalità meno rigorosa». Il risultato della ricerca è conforme alle aspettative degli autori e indica che «il trattamento multimodale appare oggi il più efficace per affrontare i dolori alla spalla; la terapia manuale e manipolativa dovrebbe essere presa in considerazione e affiancare altre tecniche per combattere nel G. P. Brantingham JW, Cassa TK, Bonnefin D, Jensen M, Globe G, Hicks M, Korporaal C. Manipulative therapy for shoulder pain and disorders: expansion of a systematic review. J Manipulative Physiol Ther 2011 Jun;34(5):314-46. ? QUESITO DIAGNOSTICO FORMAZIONE CONTINUA la sOluziOne a pagina Istiocitosi X Spondilodiscite Frattura vertebrale recente con ematoma perivertebrale Forma tumorale aggressiva localmente RM, sagittale, T1 > TC, mirata su D5, finestra per osso > giOrgiO castellazzi La radiografia del torace in unica proiezione frontale risulta negativa per fatti flogistici o eteroplasici attuali. Il medico di base richiede direttamente l’esecuzione di un’indagine di risonanza magnetica (RM) senza contrasto, che evidenzia un’importante alterazione di segnale che coinvolge i somi di D5 e D6, deformati a cuneo anteriore, con interessamento degli spazi discali, dei tessuti molli paravertebrali lateralmente e del canale rachideo dorsalmente: evidente è l’edema della spongiosa ossea nella sequenza STIR, con basso segnale in T1. L'indagine di RM è stata dunque completata in un secondo tempo mediante iniezione endovenosa di mezzo di contrasto paramagnetico, che ha rivelato lieve e diffuso enhancement contrastografico, anche dei tes- IPOTESI DIAGNOSTICHE > a cura di INDAGINI STRUMENTALI Una signora di mezza età, che conduce una vita lavorativa sedentaria, lamenta dorsalgie ingravescenti da circa tre settimane. Gli esami del sangue, eseguiti di routine nell’azienda presso cui lavora, indicano solo un lieve quadro di anemia, senza evidente rialzo degli indici infiammatori. • • • • • 30 RM, sagittale, STIR > > suti molli paravertebrali. L’indagine di tomografia computerizzata (TC), eseguita come secondo step diagnostico, ha confermato l’interessamento patologico della spongiosa ossea e la tumefazione dei tessuti molli paravertebrali per la concomitanza di tessuto patologico. È stata infine eseguita anche un’indagine TC torace e addome (risultata negativa) con m.d.c. per escludere la presenza di eventuali secondarismi, nel sospetto di una forma tumorale primitiva: l’unico reperto degno di nota è stato la presenza bilaterale di una piccola falda di versamento pleurico. RM, sagittale, T2 TC, mirata su D5, finestra per tessuti molli > > RM, sagittale, T1 con gadolinio TC polmonare, finestra per il parenchima 29 << << FOCUS ON Gli effetti della vitamina D sul tessuto muscolare Soprattutto in età avanzata, un corretto apporto di vitamina D porta a un miglioramento della funzionalità muscolare e a una significativa diminuzione del rischio di cadute e di fratture da fragilità he il ruolo della vitamina D nell'organismo non sia limitato esclusivamente alla sua azione di regolazione del metabolismo osseo e dell'omeostasi calcemica è nozione acquisita. Una mole ormai cospicua di dati epidemiologici e clinici depone addirittura a favore di una correlazione tra concentrazioni plasmatiche di 25-idrossicolecalciferolo [25(OH)D] e l’incidenza di svariate patologie croniche – tra cui malattie cardiovascolari, disordini immunologici e alcune neoplasie – all'interno della quale la vitamina D sembra poter esercitare un effetto preventivo rilevante (1, 2). Inoltre, una recente revisione sistematica di 50 trial clinici condotta dal Cochrane Metabolic and Endocrine Disorders Group ha rilevato (su una popolazione totale di 94.148 soggetti con età media di 74 anni, di cui il 79% di sesso femminile) un effetto positivo della supplementazione con vitamina D3 (colecalciferolo) – non confermato, però, per le forme derivate (ergocalciferolo o D2, alfacalcidolo, calcitriolo) – sulla mortalità generale, con una riduzione complessiva del 6% per trattamenti della durata mediana di due anni confrontati con placebo o con nessun intervento (3). Ma anche restringendo il discorso al suo più tradizionale ambito di azione, quello osteoarticolare, esistono ad oggi chiare indicazioni epidemiologiche e sperimentali del fatto che l'azione protettiva della vitamina D non si esplica soltanto a livello del tessuto osseo ma anche – e con implicazioni cliniche altrettanto significative – a livello del tessuto muscolare. C Come agisce la vitamina D A partire dalle prime e puramente empiriche osservazioni – risalenti all'inizio del secolo scorso – di un aumento della resistenza muscolare in atleti esposti a raggi Uvb, gli effetti miotrofici della vitamina D sono poi stati sperimentalmente indagati dal punto di vista istochimico e morfologico nonché in relazione agli outcome clinici rilevanti (performance muscolare ed eventi patologici quali cadute e fratture da fragilità) sia in soggetti sani sia, e soprattutto, in soggetti con compromissioni funzionali e in soggetti a rischio “fisiologico” di sarcopenia e osteopenia. Per quanto riguarda i meccanismi molecolari degli effetti della vitamina D, si considera ormai assodato che questi si esercitino sia per via genomica che non genomica: la via genomica avviene attraverso un'articolata regolazione della sintesi proteica mediata dal legame del metabolita attivo calcitriolo [1,25(OH)2D] con un recettore specifico (Vdr) situato a livello nucleare; la modalità non genomica, invece, avviene attraverso vie di trasduzione del segnale a risposta rapida non ancora del tutto note ma che si ritengono attivate dall'interazione della vitamina con altri recettori specifici. Oppure con un sito di legame alternativo (VdrAp) a quello identificato per la via genomica (Vdr-Gp) di Vdr localizzati sulla membrana plasmatica (4) grazie alla conformazione flessibile del recettore Vdr. A livello muscolare l'azione di modulazione dell'espressione genica (induzione/repressione trascrizionale) esercitata dalla vitamina D riguarda diversi geni e diverse proteine, alcune delle quali implicate nel metabolismo del calcio; altre, come le isoforme dell'insulin-like growth factor-1 (Igf1) Igf-1Ea e Igf-1Ec, coinvolte nella stimolazione dei processi rigenerativi del tessuto muscolare e della differenziazione delle cellule staminali muscolari (5, 6). Complessivamente, essendo il Vdr pressoché ubiquitario nell'organismo, quale appartenente alla superfamiglia dei recettori nucleari, gli effetti genomici della vitamina D coinvolgono un numero altissimo di geni (circa 3.000), responsabili della regolazione di reazioni metaboliche, dell'induzione di risposte immunitarie, dei meccanismi di controllo degli eventi del ciclo cellulare, dell'adesione e comunicazione intercellulare, dell'apoptosi – vale a dire di tutti i processi vitali che hanno un impatto sulla prevenzione o sullo sviluppo delle principali malattie degenerative (4). All'attivazione Vdr-mediata degli eventi genomici e non genomici ascritti alla vitamina D vengono oggi collegate anche talune modificazioni involutive legate all'invecchiamento, sulla base dell'osservazione di una riduzione quantitativa età-dipendente dei recettori intracellulari in svariati tessuti. In relazione agli effetti della vitamina D sulla muscolatura scheletrica tale riscontro assume particolare rilevanza. In uno studio su campioni bioptici di tessuto muscolare prelevati in 32 donne di età superiore a 65 anni sottoposte ad artroplastica dell'anca o a chirurgia vertebrale, BischoffFerrari e collaboratori hanno dimostrato, tramite determinazione immunoistochimica, una diminuzione della concentrazione dei recettori (in termini di numero di nuclei Vdr-positivi) significativamente correlata all'età e indipendente sia dal distretto muscolare (il muscolo gluteo medio o il trasverso spinale) sia dai livelli sierici di 25idrossicolecalciferolo e di calcitriolo (trovati per altro relativamente bassi nella maggior parte delle pazienti). Secondo gli autori, alla ridotta rappresentazione dei Vdr potrebbe attribuirsi la condizione di sarcopenia, relativa riduzione delle miofibre di tipo II e declino della forza muscolare tipicamente associata all'invecchiamento (7). La diversa suscettibilità individuale a sviluppare tale condizione con l'avanzare dell'età potrebbe invece essere spiegata, almeno in parte, dal considerevole polimorfismo genetico del recettore (8), sul quale si sta attualmente concentrando anche un ampio filone di ricerca epidemiologica che indaga il possibile rapporto tra genotipi Vdr al momento noti e una serie di patologie neoplastiche (cancro del colon-retto, carcinoma mammario), autoimmuni (diabete tipo 1, psoriasi, vitiligine) e neurodegenerative (sclerosi multipla, morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson). Gli effetti sui muscoli: le evidenze scientifiche Per quanto riguarda gli aspetti più prettamente clinici dell'azione della vitamina D sulla muscolatura scheletrica, sono ormai numerose le evidenze, accumulate soprattutto nell'ultimo decennio, relative all'impatto da un lato degli stati carenziali, dall'altro della supplementazione vitaminica su alcuni parametri di funzionalità. La miopatia, insorta in seguito a osteomalacia, tipica della sindrome da deficit di vitamina D è, in realtà, da tempo ben nota, anche per esserne in molti casi il segno preminente, caratterizzato da ipotrofia e ipotonia soprattutto a carico dei cingoli prossimali, debolezza e dolore e conseguente compromissione della deambulazione. L'altro fronte della ricerca clinica, quello centrato sull'opportunità di una supplementazione di vitamina D per il mantenimento della salute muscolo-scheletrica soprattutto nelle fasce di età e nei soggetti a rischio, è tutto- ra in grande espansione. Diversi studi depongono a favore di un'efficacia protettiva della supplementazione con vitamina D in età avanzata, che si esplicita attraverso un miglioramento della funzionalità muscolare (9) e una significativa diminuzione del rischio di cadute (10) e di fratture da fragilità (11), con risultati che sono chiaramente apparsi sia dosedipendenti, sia influenzati dai livelli plasmatici di 25(OH)D raggiunti. Al momento attuale è tuttavia opinione condivisa nella letteratura più recente che la dose raccomandata di 200-600 UI al giorno di vitamina D sia insufficiente a garantirne gli effetti protettivi attesi e che vi sia indicazione per considerare efficace un apporto giornaliero non inferiore a 8001.000 UI grazie al quale si potrebbero raggiungere livelli ottimali di 30ng/ml (75nmol/l), considerando che per un soggetto anziano la dose utile per ottenere livelli sufficienti dovrebbe essere superiore rispetto a quella citata (12). Peraltro, contrariamente a quanto si potrebbe presumere, gli stati di ipovitaminosi sono oggi molto comuni e in crescita rispetto al passato, soprattutto nei paesi occidentali e negli ambienti urbani, a causa della diminuita esposizione cutanea alla luce solare e dell'aumento proporzionale della popolazione anziana, nella quale allo scarso fotoirraggiamento si aggiungono condizioni di malassorbimento che limitano l'apporto, già di per sé poco significativo, di vitamina D di origine alimentare o disfunzioni epatiche o renali che interferiscono con l'attivazione metabolica dei precursori. Negli Stati Uniti, per esempio, i Centers for Disease Control and Prevention hanno riportato una diminuzione della percentuale di adulti bianchi con livelli plasmatici di 25(OH)D considerati sufficienti (>30 ng/mL) dal 60% degli anni 1988-1994 al 30% del periodo 2001-2004 e contemporaneamente un aumento del numero di casi di carenza vitaminica D grave (<10 ng/mL) (13). C. P. Bibliografia 1. 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Gli inserzionisti rispondono in proprio per quanto contenuto nei testi. 27 ottobre Congresso Kinemovecenter La pubalgia Pontremoli (MS) Segreteria Organizzativa: Ialt Tel 346.1754474 - 340.4290311 Fax 035.2922021 [email protected] - www.kinemovecenter.it 9-10 novembre La complessità in riabilitazione Verona, Palazzo della Gran Guardia Segreteria Organizzativa: Ufficio Formazione Ospedale “Sacro Cuore - Don Calabria” Tel. 045.6013208 - Fax 045.7500480 [email protected] www.sacrocuoredoncalabria.it 9-10 novembre VII corso internazionale teorico-pratico Il team interdisciplinare del pavimento pelvico Crema (CR) Segreteria Organizzativa: New Progress Tel. 051.6486365 - Fax 051.6565061 [email protected] 9-10 novembre Corso teorico-pratico di interventistica muscolo scheletrica eco-guidata Roma Segreteria Organizzativa: Infoplan srl Tel. 06.7020590/70309842 Fax 06.23328293 [email protected] www.formazionesostenibile.it 10-11 novembre Taping neuromuscolare: applicazioni in fisioterapia - corso base Civitanova Marche (MC) Segreteria Organizzativa: Edi.Ermes Tel. 02.70211274 - Fax 02.70211283 [email protected] www.ediacademy.it 16-17 novembre Corso ICF Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità Roma Segreteria Organizzativa: MediK Tel. 049.8170700 - Fax 049.2106351 www.simfer.it - www.medik.net 17-18 novembre X Congresso Internazionale GTM-AIFI Physiological adaptations to musculoskeletal pain: clinical evaluation and treatment in physical therapy Bologna, Novotel Bologna Fiera Segreteria Organizzativa: Gruppo di Terapia Manuale-AIFI Dott. Davide B. Albertoni [email protected] Cell. 335.6662683 2013 18-20 marzo Giornate di aggiornamento multiprofessionale VII corso teorico-pratico Riabilitazione, una scienza in cammino: il nuovo in medicina fisica e riabilitativa La Villa (BZ) Segreteria Organizzativa: Medi K srl Tel. 06.48913318 - Fax 06.89280089 [email protected] www.simfer.it 18-20 aprile Congresso nazionale della società italiana di riabilitazione neurologica Bari, Sheraton Nicolaus Hotel www.sirn.net 20-22 aprile Congresso internazionale Isokinetic Football medicine strategies for muscle and tendon injuries Londra, Queen Elizabeth II Conference Centre Segreteria Organizzativa: Isokinetic Medical Group Tel. 051.2986814 - Fax 051.2986886 www.isokinetic.com - [email protected] 23-25 maggio 9° corso nazionale Società medica italiana paraplegia (SOMIPAR) Perugia Segreteria Organizzativa: PLS Educational spa Tel. 055.2462235 - Fax. 055.2462270 [email protected] www.somipar.it 24-25 maggio 3° congresso nazionale Società Italiana di Fisioterapia (SIF) Attualità e prospettive dell'esercizio terapeutico in fisioterapia: concetti e proposte a confronto Napoli, Università di Napoli Federico II Segreteria Organizzativa: Società Italiana Fisioterapia [email protected] www.sif-fisioterapia.it 16-20 giugno 7th world congress of International society of physical and rehabilitation medicine (ISPRM) Beijing, Cina Tel. +86 (10) 8515 8148 Fax +86 (10) 6512 3754 [email protected] www.isprm2013.org 21-24 novembre XLIX congresso Società italiana di reumatologia Milano, MiCo Segreteria Organizzativa: AIM Group International Tel. 02.56601.1 - Fax 02.56609045 [email protected] www.congressosir2012.com www.reumatologia.it 24-25 novembre XVI Congresso Nazionale della Società Italiana di Educazione Fisica (SIEF) Imparare a muoversi. La necessità della ginnastica come scienza e come educazione Pisa, Centro Polifunzionale A. Maccarrone - Auditorium Segreteria Organizzativa: Istituto Duchenne Tel. e Fax 055.4360774 - [email protected] 30 novembre - 1 dicembre Corso nazionale SIMFER Tecnologie per promuovere attività e partecipazione Prato, Hotel Datini Segreteria Organizzativa: MediK Tel. 049.8170700 - Fax 049.2106351 [email protected] www.simfer.it - www.medik.net ORTORISPOSTA RISPOSTA AL QUESITO DIAGNOSTICO L’interessamento di corpo vertebrale e disco intersomatico con presenza di tessuto infiammatorio paravertebrale, l’assenza di secondarismi e la buona risposta a terapia antibiotica hanno permesso di porre diagnosi di spondilodiscite.