epoca Motomeccanica “Balilla” Erano troppo in anticipo sui TeMpi I primi cingolati compatti italiani videro la luce agli inizi degli Anni 30, ma non ebbero successo. Se ne imporranno altri, ma solo nel Dopoguerra A lato, la locandina con cui il Regime promuoveva l’adesione dei giovani all’Opera Nazionale Balilla 94 L eggenda vuole che tale Giovan Battista Perasso, un ragazzino ligure passato alla storia con il soprannome di “Balilla”, scagliando un sasso contro un ufficiale austriaco diede l’avvio alle cinque giornate di Genova del 1746. Che sia vero o no, a cavallo degli Anni Trenta il nome “Balilla” era sulla bocca di tutti in quanto il Duce, Benito Mussolini, nel 1928 aveva crea- to l’”Opera Nazionale Balilla”, organizzazione paramilitare che luglio/agosto 2012 arruolava i ragazzi dagli otto ai sedici anni. “Balilla” finì, nella retorica fascista col diventare sinonimo di ardimento e coraggio giovanile diventando talmente usuale che nel 1932 fu usato anche da Fiat per connotare la sua prima automobile utilitaria. L’anno prima, nel 1931 lo stesso nome era stato però dato anche a un minuscolo trattore a ruote che piacque molto ed ebbe subito una buona diffusione, tale da spingere il costruttore, la “Motomeccanica Brevetti Ing. Pavesi”, ad allestirne anche una versione cingolata che apparve nel 1933. Si trattava del più piccolo trattore cingolato costruito sino ad allora e la cosa non passò inosservata, anche perché in quegli anni i trattori cingolati non erano molto diffusi né ambiti, tant’è vero che Fiat nel 1932 fu la prima Casa europea a iniziare la produzione in serie del modello “700 C” o “Tipo 30” da 30 cavalli. Gli agricoltori europei che ambivano a un veicolo a cingoli all’epoca dovevano rivolgersi alla produzione americana, a Caterpillar o a Cletrac che però mettevano a disposizione mezzi progettati più per l’industria che per l’agricolo. I cingolati italiani nacquero invece per l’agricolo, per lavorare le terre tenaci delle pianure e quelle collinari in pendenza, ma furono impiegati anche nei lavori forestali, dove peraltro si richiedevano dimensioni ridotte per districarsi sui sentieri di montagna. E fu proprio per rispondere in prima battuta alle richieste dei boscaioli che nel 1933 Motomeccanica decise di affiancare al suo “Balilla” a ruote anche la versione a cingoli, mezzo che poi Fiat due anni dopo replicò con un suo piccolo cingolato che chiamò “708 C” o “Tipo 20”, motorizzato con un quattro cilindri a petrolio di due mila 520 centimetri cubi capace di erogare 20 cavalli e forte di dimensioni più IL PaDrE DEI balilla I “Balilla” furono progettati da Ugo Pavesi, ingegnere nato a Torino nel 1886. Dopo la laurea e un breve periodo di apprendistato nelle officine “Giovanni Enrico”, si trasferì a Milano dove iniziò un lavoro di progettazione e di sperimentazione nel settore della trazione agricola e stradale. Nel 1911, in società con l’ingegner Giulio Tolotti, costruì il primo trattore italiano, fornendo all’Esercito durante la Grande Guerra Mondiale camion-trattori da 50 cavalli di potenza da adibire al traino delle artiglierie pesanti. Nel 1918, sciolta la società con Tolotti, costituì la “Motomeccanica Brevetti Ing. Pavesi” che presentò un trattore agricolo a quattro ruote motrici poi adottato da diversi eserciti e costruito sino agli Anni Quaranta. Il “Balilla” vide la luce nella versione a ruote nel 1931 e due anni dopo entrò in produzione la versione a cingoli. Fu l’ultima realizzazione di Ugo Pavesi. Scomparve due anni dopo, nel 1935, a soli 49 anni. 2012 luglio/agosto 95 epoca Motomeccanica “Balilla” ridotte rispetto a quelle del “700 C”. Ma non abbastanza ridotte per fare concorrenza al “Balilla” cingolato. Entrambe le macchine non ottennero una grande diffusione in quanto l’economia del settore agricolo-forestale subì forti rallentamenti a causa della Guerra d’Etiopia prima e della Guerra Mondiale dopo e se del “Balilla” cingolato si costruirono dal 1933 al 1951 circa 200 esemplari, per il Fiat la produzione dal 1935 al 1937 fu inferiore ai 180 pezzi, 179 per la precisione. Nell’immediato Dopoguerra fiorirono invece altri piccoli cingolati, dai Lombardini ai Toselli, destinati principalmente alle lavorazione tra i filari delle viti in collina e ai lavori di una orticoltura specializzata, a conferma che Motomeccanica ci aveva visto giusto, ma era in anticipo sui tempi. William Dozza raro ma non ancora inarrivabile Di “Balilla” cingolati ne furono costruiti circa 200 esemplari, una cinquantina dei quali, a partire dal 1949 e per ragioni evidentemente storiche, venne ribattezzata con la sigla “C 50” mediante una targhetta di ottone posta sul serbatoi dell’acqua. Per essendo meccanicamente uguali fra loro, i “Balilla” e i “C 50” godono oggi di diverse valutazioni, con gli appassionati che scoprirono il primogenito in ritardo. Sino ai primi Anni 80 era possibile trovarne esemplari in uno stato decente a prezzi molto vicini al peso del ferro, cosa che in effetti fece finire nelle fonderie parecchi esemplari. Col sorgere del moderno collezionismo le cose sono però cambiate. All’inizio le ricerche erano indirizzate più verso i mezzi “grossi e potenti” piuttosto che “esotici”, prerogative che il Nostro non poteva sfoggiare, mentre in tempi più recenti si è fatto strada il concetto di collezionismo “storicoculturale” in cui ben si inquadra anche il “Balilla” cingolato. Questi, se funzionante in ogni sua parte e nel suo stato d’uso, viene attualmente valutato intorno ai 7-8 mila euro, cifra drasticamente abbattuta nel caso di esemplari non completi per i quali occorrono ricambi da ricostruire ex novo. Non esistono valutazioni per modelli funzionanti e restaurati nei colori originali come l’esemplare delle fotografie appartenente al collezionista Curzio Battistini di Novafeltria, in provincia di Rimini. 96 luglio/agosto 2012 Un’aUTEnTIca MeraviGlia Da un punto di vista meccanico “Balilla” era una autentica meraviglia. Condensata in meno di un metro di altezza e di larghezza e in poco più di due metri di lunghezza per un peso di mille e 400 chili. Il telaio era costituito dal supporto dell’assale anteriore di acciaio forgiato, dal basamento del motore e dalla scatola del cambio-differenziale, gruppo cui erano attaccate le due campane del ponte posteriore. Il motore a quattro cilindri verticali e a quattro tempi di mille e 660 centimetri cubi era organizzato sulla base di canne da 67 millimetri di alesaggio per 102 di corsa e la potenza massima erogata era di 15 cavalli a mille e 500 giri al minuto. L’unità disponeva di valvole in testa comandate da aste e bilancieri, l’accensione era a magnete ad alta tensione con scatto automatico, il regolatore era idraulico e la lubrificazione forzata con pompa a ingranaggi. La messa in moto era a manovella e a benzina, ma una volta avviato funzionava a petrolio scaricando la propria coppia motrice su una frizione a cono che interfacciava un cambio a tre marce con riduttore per un totale di sei velocità e due retro. L’azionamento dei cingoli avveniva tramite un doppio gruppo di ingranaggi planetari che entravano alternativamente in funzione quando si ruotava in un senso o nell’altro il volante di guida, soluzione che, in curva, portava le due catenarie a essere sempre attive pur essendo animate da velocità di avanzamento diverse. La presa di forza, ad albero scanalato o a puleggia del diametro di 200 millimetri, era innestata su un ingranaggio del cambio e ciò permetteva di realizzare ben sei velocità comprese fra i 285 e i mille giri. Una meccanica originale in definitiva, cui faceva eco un posto guida molto curato anche nei minimi particolari come ben dimostrava la presenza dei tre indicatori sullo stato del motore, pressione, temperatura dell’olio e del liquido di raffreddamento. I comandi vedevano sulla destra il tirante di ritardo dell’accensione per la messa in moto, la leva del cambio e il pedale della frizione che, a fine corsa, agiva anche da freno sulla trasmissione. A sinistra si trovavano la manetta dell’acceleratore, il tirante per il passaggio dalla benzina al petrolio, la leva del riduttore e quella per l’innesto della presa di forza. Anche da un punto di vista estetico, il veicolo si presentava molto bene, forte di una linea massiccia che rendeva l’idea di una certa solidità ma risultando anche allo stesso tempo snella e filante. La scritta “Balilla” fusa in rilievo sul serbatoio dell’acqua, la statuetta riproducente il ragazzino genovese della leggenda e il colore grigioverde dominante tra i veicoli militari del periodo, conferivano infine alla macchina una serietà e una aggressività perfettamente allineate con il nome e con lo spirito del tempo. 2012 luglio/agosto 97