SCUOLA DI FORMAZIONE SPECIFICA IN MEDICINA GENERALE - TRENTO
ESSERE TUTOR
Corso di formazione alla funzione di tutore
per medici di medicina generale
TRENTO 2011
MINI-GUIDA PER I TUTOR
Giuseppe Parisi
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 2 Presentazione
La funzione di tutor ha assunto negli ultimi anni una posizione centrale nell’ambito della formazione dei
medici. Tutor è il professionista esperto che mostra al novizio il suo fare e le ragioni del suo fare, facilita
l’apprendimento sul campo, incoraggiando il giovane collega a provarsi, fornendogli feedback adeguati, garantendogli
la sicurezza nell’azione e al contempo garantendo la sicurezza del paziente. Il tutor viene descritto di volta in volta
come coacher, mentore, precettore, supervisore, ma tutti questi termini si riferiscono comunque a chi, esperto, pratica
l’insegnamento sul campo ai giovani colleghi, ed è consapevole di come il sapere formale dei manuali e dei libri è
condizione necessaria ma non sufficiente per creare un buon medico.
Il tutorato oggi è richiesto dalle istituzioni preposte alla formazione dei medici e dai novizi stessi, che sono
consapevoli dell’importanza dell’apprendistato nella loro carriera professionale. Il clinico di esperienza non può
sottrarsi all’importante compito di cedere, di trasmettere al novizio la propria conoscenza. Tutti i medici devono quindi
fornirsi di strumenti per effettuare questa trasmissione. Formare non è solo riempire una tazza vuota, ma soprattutto
coltivare, allevare, conversare, essere aperti all’altro. Insegnare è “segnare dentro”, far sì che per il novizio alla fine
dell’esperienza niente sia come prima.
Non si può lasciare la formazione al caso, e la si deve organizzare in modo che non sia fonte di confusione, di
distrazione dal lavoro clinico ma al contrario sia mezzo per migliorare la qualità dell’assistenza nel proprio ambito. Per
fare sì che il novizio guadagni velocemente le competenze complesse richieste, che questo sforzo ricada virtuosamente
sul processo di cura la tutorship non va improvvisata ma deve essere effettuata da clinici formati.
Si propone qui una mini guida alla funzione di tutor che contiene in estrema sintesi gli argomenti, i modelli e
gli strumenti trattati nel corso. Naturalmente la piena competenza tutoriale non può essere raggiunta semplicemente
attraverso un breve corso iniziale di abilitazione, essa è frutto di un lungo percorso che si estende nell’arco di tutta la
vita lavorativa, ma la nostra esperienza dimostra che anche un breve corso di formazione può innescare quella spirale
virtuosa che permette di raggiungere buoni risultati in tempi brevi aumentando i vantaggi e riducendo al minimo gli
inconvenienti.
Giuseppe Parisi
[email protected]
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 3 Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 4 PARTE I
BASI TEORICHE
Caratteristiche del lavoro dei professionisti
Perché insegnare?
L’insegnamento da parte del professionista medico è sempre stata un’attività importante nell’ambito della
professione, fondato solidamente su una tradizione che risale ad Ippocrate, ma solo in questi ultimi anni è diventato
oggetto di studi e ricerche per valutarne l’efficacia sia da parte di studiosi di sociologia delle organizzazioni sia da parte
degli stessi medici insegnanti. I risultati mettono in luce la rilevanza dell’insegnamento sul campo in quanto
trasmissione di un sapere che non è ancillare al sapere teorico, ma ne è anzi il lato più pregevole, quello legato alla
presenza del professionista e da lui prodotto. Gli studiosi delle pratiche professionali arrivano ad affermare che
conoscenza non è situata nei libri e nei manuali che riportano le teorie della professione, e nemmeno nella testa dei
singoli membri delle comunità di pratiche, ma sta proprio nel fare di ogni membro, nei legami professionali e scientifici
che caratterizzano l’appartenenza al gruppo. Appartenere e lavorare nel gruppo è il presupposto per impadronirsi quindi
di una conoscenza intrisa di “fare”, che ha pari dignità di quella contenuta nei libri e nelle parole degli insegnanti
accademici .
Un altro filone della pedagogia contemporanea introduce l’idea che nelle professioni che si svolgono in
contesti complessi la separazione netta tra il pensiero e l’azione, tra la teoria e la pratica non è possibile. Il medico
esperto impara facendo, in pratica non fa dopo che ha pensato, ma fa pensando, e il suo fare inizia molto prima del
risolvere i problemi, nel momento in cui li pone focalizzandoli da un insieme opaco di segni e sintomi.
Inoltre, altre aree di studio della pedagogia rendono evidente che l’apprendimento sul campo è la forma nobile
dell’apprendimento. È noto che si apprende facendo
Apprendere facendo…
Si apprende:
• Il 10% di ciò che si legge
• Il 20% di ciò che si ascolta
• Il 30% di ciò che si vede
• Il 50% di ciò che si vede ed ascolta
• L’80% di ciò che si dice
• Il 90% di ciò che si fa
Bolzano dic 2010 genn2011
Parisi ‐ ESSERE TUTOR
14
e che per far sì che il novizio diventi esperto è necessario chi conosce e racconta la sua conoscenza, ma anche
chi fa e mostra come fare, e fa fare. Questo compito non è semplice, ed è necessario che chi insegna conosca ciò che fa
e sia in altre parole non solo “esperto” ma consapevole delle sua competenza e in grado di trasmetterla.
L’apprendimento sul campo non è limitato agli aspetti superficiali delle azioni del medico, ma anche alle
implicazioni relazionali ed etiche delle azioni stesse, in altre parole il giovane apprendista è esposto a tutta la
complessità del lavoro del professionista e non ad una pratica pura e teorica che può essere insegnata in aula.
Ci sono quindi una serie di ragioni che rispondono alla domanda perché insegnare che fanno del lavoro sul
campo un luogo privilegiato di apprendimento. Innanzitutto il fatto che la conoscenza è mediata da libri ma è
prodotta nel luogo di lavoro e quindi lì e non in aula si può trovare una più intima connessione con il sapere;
inoltre la natura di questa conoscenza è ricca e complessa, ha implicazioni affettive e sui valori professionali
e personali, in altre parole è formativa – mette in forma il mondo e il rapporto soggetto conoscente – mondo.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 5 Approcci all’insegnamento in medicina
Come insegnare?
La complessità dell’apprendere
La visione tradizionale e largamente diffusa considera l’apprendimento come il riempimento del soggetto da
parte di informazioni che vengono immaginate come elementi corpuscolati che provengono dall’insegnante che le
fornisce e vanno a riempire il soggetto. Questa visione è doppiamente errata perché innanzitutto l’informazione non è
un oggetto corpuscolato ma è la misura del cambiamento che avviene nel soggetto e in seconda istanza perché non
esistono soggetti vuoti di informazioni, ma solo soggetti con una loro visione e conoscenza del mondo. Apprendere non
è quindi riempire il soggetto vuoto, ma è modificare le proprie conoscenze, la propria visione del mondo, e infine i
propri comportamenti attraverso la relazione con l’altro. Non è un processo semplice e lineare, è un processo complesso
di integrazione con il sapere precedente di qualcosa di nuovo ed estraneo. Per apprendere è quindi importante non solo
questo qualcosa di nuovo ma anche le conoscenze già possedute: Ausubel afferma che il fattore che influenza
maggiormente l’apprendimento è ciò che si sa prima di apprendere.
Ma non solo la pedagogia ha studiato l’evento complesso dell’apprendimento, anche altre scienze hanno dato
contributi interessanti alla conoscenza di questo fenomeno centrale negli essere viventi. La biologia contemporanea, ad
esempio, delinea i sistemi biologici come sistemi “aperti a chiusura organizzativa”, sistemi cioè che non possono essere
modificati in modo lineare delle informazioni perchè assumono come importante il mantenimento dell’identità
dell’organizzazione interna. Quando, in seguito ad una relazione tra organismo e ambiente, l’ambiente entra in conflitto
con tale organizzazione, qualcosa di incoerente con la struttura del sé viene a prodursi, si ha una azione, e si ha
apprendimento. Apprendimento è quindi strettamente connesso alla relazione, al conflitto, e all’azione.
Se l’organismo è attivo, cerca stimoli, e la “vita è cognizione” come afferma Varela, non si può non
apprendere. L’apprendimento avviene sempre e comunque indipendentemente da ciò che viene fatto per fare
apprendere. Ci si dovrebbe sempre chiedere come sarebbe evoluta una situazione se non fossimo intervenuti.
Morelli e Weber sostengono che esiste un apprendimento naturale, che avviene sempre e comunque, e uno
artificiale, fatto ad arte, che ha luogo in situazioni che arricchiscono l’apprendimento, lo facilitano, ma che possono
anche allontanare il soggetto dai percorsi personali e naturali dell’apprendere. Quaglino, da parte sua, afferma che è
l’esperienza ad ancorare l’apprendimento.
Pensare l’apprendimento in questo modo rivoluziona la concezione tradizionale dell’insegnamento. Lungi
dall’essere il luogo privilegiato dell’apprendimento, l’esperienza scolastica tradizionale in questa concezione è un
qualcosa fatto ad arte, un ripiego, una simulazione di ciò che è l’unico, vero, luogo di apprendimento: la situazione
reale. Il vertice delle possibilità di imparare è ruotato di 360 gradi rispetto a ciò che viene comunemente pensato, e la
figura centrale è il professionista “che fa”, non l’insegnante “che parla”. Si è creata una certa distanza tra insegnamento
e apprendimento: questi due concetti non sono complementari ma indipendenti perché insegnare non necessariamente
indica apprendimento, e l’apprendimento spesso avviene lontano dai luoghi deputati tradizionalmente all’apprendere
(scuole, aule).
I modelli pedagogici
L’approccio tradizionale all’insegnamento medico è quello dell’istruzione, teso a trasmettere le informazioni
dall’insegnante ai discenti, considerati recipienti passivi: insegnare è riempire una tazza vuota. Inoltre, l’approccio
tradizionale vuole l’insegnamento separato dalla pratica e la teoria è presentata prima della sua applicazione: il discente
apprende off-the-job, fuori dal contesto lavorativo, in base all’imperativo “Impara questo e sarai in grado di risolvere i
problemi clinici”. La relazione che si viene a creare è tendenzialmente paternalistica, dove l’insegnante sa ciò che è
giusto per il discente e quest’ultimo non ha diritto di replica. L’ambiente modello in cui si svolge il gioco è il grande
anfiteatro anatomico e la preoccupazione maggiore dell’insegnante è tenere una bella lezione magistrale.
Questo approccio viene messo in crisi dal cosiddetto modello dell’educazione. Educare significa letteralmente
“tirare fuori”, “allevare”, e si riferisce alla posizione dell’insegnante che tiene conto delle caratteristiche dell’adulto che
si presenta ad apprendere autonomo, con tutto il bagaglio delle sue esperienze precedenti, con modalità già strutturate di
apprendimento, con esigenze personali e lavorative, motivazione e desideri, ed infine interessi concreti. Di fronte a
questo adulto l’insegnante deve riconoscere e ricapitalizzare le esperienze fatte dal discente, agire tenendo conto delle
sue posture di apprendimento, tener presenti, anche se non farsi carico, delle esigenze personali e lavorative del
discente, coinvolgendolo direttamente nella pianificazione del percorso. La cosa più importante è però partire dai
problemi concreti di chi impara. Sul pensiero andragogico (come contrapposto a pedagogico) di Knowles, qui
presentato nei suoi elementi costitutivi, si innesta tutta la formazione che si basa sull’apprendimento per problemi: “qui
c’è un problema, analizzalo e impara”.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 6 Un ultimo approccio pedagogico importante oggi è quello della formazione, che pone al centro l’esperienza e
la riflessione sull’esperienza da parte del professionista. Il semplice essere esposti ad una situazione di lavoro non
significa di per sé conoscere. La riflessione può avvenire durante l’azione del professionista (in action) o dopo (on
action). Per riflessione si intende una operazione di pensiero complessa dove il pensiero retrospettivo viene utilizzato
come base al pensiero interpretativo che permette di dare un senso a ciò che è avvenuto.
L’insegnante ha qui un compito più impegnativo, in quanto egli deve tendere non solo a favorire il semplice
apprendimento ma a favorire un apprendimento significativo. Novak afferma che esiste un apprendimento semplice che
è basato sul condizionamento e sulla meccanicità, e risponde a premi e punizioni, indipendentemente da ciò che il
soggetto desidera realmente fare, mentre esiste un apprendimento significativo che avviene quando discente e docente
riescono ad essere concordi sul significato di elementi di conoscenza e a condividerli, favorendo la comparsa e il
potenziamento di impegno e responsabilità, integrando costruttivamente pensiero, sentimento e azione.
La significatività sta nel fatto che nel processo di apprendimento si negoziano nuovi significati e il soggetto si
fa carico della propria personale costruzione di significato dall’esperienza. In altre parole l’elaborazione dell’esperienza
avviene attraverso il collegamento ad altre precedenti esperienze del soggetto. Il presupposto è che il discente sia
stimolato ad apprendere in questo modo, esponendosi al rischio e alla fatica di mettere in relazione in modo non
superficiale le nuove e le vecchie conoscenze. Il risultato sono conoscenze che il discente sa padroneggiare: le parole
non sono riconosciute come semplici etichette di fatti o oggetti (apprendimento rappresentativo), ma come elementi
all’interno di una ramificazione di significati (apprendimento concettuale).
Quindi se insegnare non è solo riempire una tazza, si possono immaginare metafore diverse e numerose per
descrivere efficacemente questa complessità: insegnare come coltivare, allevare, conversare, oliare il meccanismo. Ma
formare come mettere in forma, rappresentare, formazione come danza, come teatro. E, come affermano Morelli e
Weber, il teatro è basato sugli affetti e sulle emozioni ma esige rigore. E così la poesia.
Uno degli obiettivi fondanti la formazione medica è il miglioramento della performance dei professionisti, cioè
della reale capacità di realizzare un atto professionale, e non tanto il miglioramento della capacità teorica di realizzare
una prestazione al di fuori del contesto reale, e tanto meno di migliorare la conoscenze. Le performance sono
determinate da componenti che si situano nei tre campi dell’apprendimento, il sapere, il saper fare e il saper essere. Per
ognuno di essi esistono tecniche specifiche che favoriscono l’apprendimento. Le tecniche formative devono essere
adeguate alle aree di apprendimento. Questo schema non riflette la realtà: la competenza, ciò che un professionista è in
grado di fare, è un complesso embricarsi di saperi, saper fare e saper essere, saper sapere. A seconda degli obiettivi
didattici, il docente può però preparare strumenti di apprendimento calibrati prevalentemente su una delle aree.
Campo di
apprendimento
Classi di tecniche
Letture o
lezioni
+++
sapere
saper fare
saper essere
Tecniche educative
Osservazione
Simulazioni
++
+
+
++
++
+++
Esperienze
operative
++
+++
+++
Oggi è necessario aggiungere un altro obiettivo: saper sapere. Intende l’atteggiamento con cui il soggetto
conoscente si pone nei confronti della stessa conoscenza: “quant’è valido e affidabile ciò che ho appreso? È una
semplice consuetudine oppure è basato su prove d’efficacia?”, si può chiedere il medico. In tempi di grande facilità nel
reperire informazioni porsi il problema della loro affidabilità e saper valutare la loro qualità è qualcosa di grande pregio.
Bertolini distingue tra un saper apprendere e un saper sapere, considerando il primo concetto come la capacità di
discriminare tra conoscenze trasferibili dal campo della ricerca a quello della pratica clinica e quindi utili al medico e
conoscenze inutili, e saper dare un peso a tali conoscenze in termini di quanto esse sono basate sulle prove. Il secondo
concetto esprime la capacità del professionista di riflettere sulla costruzione stessa del suo sapere.
Le metafore che sottendono la formazione oggi non sono il semplice riempire una tazza vuota ma coltivare,
allevare, conversare, oliare il meccanismo. Far formazione oggi è facilitare un apprendimento che avviene
comunque in un adulto che ha un idea ben precisa del percorso che vuole affrontare. Far formazione
significa anche assumersi la responsabilità di contenere l’angoscia del cambiamento e proporre degli
obiettivi didattici che contemplino la costruzione di una competenza professionale complessa che deve andare
incontro ai bisogni di salute delle popolazioni.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 7 Cos’è la tutorship?
Come essere tutor?
L’insegnante suggerito dai modelli pedagogici sopra esposti è colui che riesce a riconoscere le esperienze, le
esigenze e gli obiettivi formativi del discente e che lo coinvolge direttamente nella pianificazione del percorso
utilizzando un approccio non direttivo, e che tende a facilitare un apprendimento significativo che integri
costruttivamente il pensiero, il sentimento e l’azione. È un insegnante che lavora sul campo, che aiuta e stimola alla
riflessione. Il tutor è la figura di insegnante che incarna tutte queste caratteristiche.
guida
facilitatore
non è insegnante
orchestratore
cattura l’attenzione
pone domande
stimola la riflessione
favorisce la curiosità
incoraggia gli studenti
riconosce lo sforzo e i progressi
stimola il confronto tra i discenti
stimola all’azione pratica
mette alla prova
favorisce recupero conoscenze pregresse
stimola capacità di autoapprendimento
concorda approfondimenti
dà feedback sulla prestazione
stimola capacità di adattare conoscenze ad altre situazioni
Ruolo del tutor (dai lavori di gruppo dei discenti)
La tutorship è una forma di relazione educativa che attiva processi di apprendimento con l’intento di
coinvolgere non solo la sfera cognitiva ma anche quella emotiva ed affettiva (Zannini 1998). Questo obiettivo si ottiene
attraverso una ridotta asimmetria relazionale, vale a dire una vicinanza tra tutor e discente maggiore di quella presente
nella relazione di insegnamento tradizionale. Il primo ingrediente di una buona tutorship è quindi una serie di artifizi
relazionali: chi la esercita sviluppa atteggiamenti di disponibilità, ascolto, attenzione all’apprendimento dell’altro, alle
sue paure, alle sue difficoltà. Il tutor si mette in gioco, favorisce l’esplicitazione delle conoscenze tacite del discente, si
presenta come compagno di viaggio, guida, badando di essere però sempre a lato di chi apprende, mai troppo avanti. Ne
favorisce l’emancipazione, ma al contempo intraprende azioni formative quasi conformi al mondo di cognizione di chi
apprende, partendo sempre dagli aspetti condivisibili. La metafora che più si attaglia a questa situazione dell’insegnare
è quella dell’allevare: introdurre elementi di perturbazione nel sistema di conoscenze dell’altro che possano essere
digeriti, fatti propri, e al tempo stesso essere contenitore delle angosce che il nuovo può suscitare nel percorso di
apprendimento. Il tutor è disposto a rinunciare ad esercitare l’esibizione del proprio sapere e a scomparire nel momento
in cui, una volta innescato, il processo procede, ma deve essere pronto a intervenire, a stimolare, a comprendere quando
la situazione lo richiede.
La tutorship è anche una modalità di azione sul piano cognitivo, che pone l’attenzione non tanto sul sapere che
il tutor “mette dentro” il tirocinante, bensì sull’apprendimento di metodo: al giovane studente si chiede di saper
apprendere in maniera autonoma e indipendente, selezionando le fonti, saper ragionare in situazione, saper riflettere
durante l’azione o sull’esperienza. In pratica, se il discente ha sete, non gli si dà da bere, ma gli si insegna a procurarsi
l’acqua, se il discente non sa fare diagnosi, non la si fa al posto suo, ma lo si fa ragionare e gli si mostrano pecche e
pregi, linearità e nodi presenti nel ragionamento clinico che esplicita davanti al tutor. In questa forma di insegnamento
l’importante non è che il discente sappia fare quella diagnosi, ma saper condurre un corretto ragionamento diagnostico.
La tutorship si esercita preferibilmente nei contesti lavorativi, o nelle situazioni protette d’aula o di laboratorio
nelle quali si simula il contesto lavorativo. L’obiettivo è di far apprendere competenze complesse nell’ambito di
professioni richiedenti elevati livelli di prestazioni pragmatiche e relazionali, e al tempo stesso sviluppare nello studente
capacità di adattamento, di familiarizzarsi con reali problemi, tecnologie e con la cultura professionale di quel
particolare ambiente di lavoro.
Il contesto, i modi e i tempi e le regole, in altre parole il setting in cui si svolge l’azione di tutorship hanno
caratteristiche di grande flessibilità: il luogo dell’azione non è più solo l’aula, bensì l’auletta, il corridoio, l’ambulatorio,
o la cucina del reparto, o lo studiolo ben appartato. I tempi dell’azione possono essere anche molto lunghi, per molte ore
al giorno per settimane, oppure scanditi da una certa periodicità, sempre coerenti con gli obiettivi dell’azione formativa.
Anche le regole devono essere esplicitate all’inizio dell’esperienza e condivise, ma possono essere molto diverse da una
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 8 situazione all’altra.
Come in tutte le relazioni, anche in quella tutoriale c’è un qualcosa, esterno alla coppia tutor- discente, che
impedisce la confusione di ruoli. In questo caso sono gli obiettivi didattici con i quali ambedue devono fare i conti.
Infatti gli obiettivi di apprendimento strutturano la funzione di tutor, innanzitutto come professionista competente che si
presta a mostrare la propria pratica, ma al tempo stesso come facilitatore, guida, compagno di viaggio, che permette la
trasmissione della conoscenza.
Cosa dà al tutor la possibilità di essere riconosciuto tale? Le sue conoscenze e l’esperienza sul campo
contestuale all’apprendimento desiderato dal discente è sicuramente importante ma non basta. Il tutor è definito dal
fatto che utilizza un insieme di strumenti didattici per raggiungere gli obiettivi prefissati. Essi vengono applicati in un
particolare contesto, quello del lavoro sul campo, in una relazione didattica prevalentemente uno a uno, o uno a pochi.
Questo strumentario rende il tutor competente: sono gli attrezzi attraverso i quali viene giocata la relazione educativa.
Un problema terminologico sempre presente quando ci si affaccia all’universo della tutorship è il fatto che essa
viene descritta utilizzando termini diversi.
Il coacher riesce a stimolare i collaboratori a sviluppare competenze e raggiungere gli obiettivi di sviluppo
professionale, nell’ambito dell’organizzazione di cui fanno parte. Il coacher è un po’ allenatore per i suoi collaboratori,
e utilizza tecniche e atteggiamenti tutoriali per raggiungere lo scopo.
Il mentor è un collega esperto e professionalmente maturo che segue il giovane professionista inserito in una
organizzazione favorendo lo sviluppo professionale e aiutandolo nei momenti critici del percorso di maturazione
professionale. Il sostegno è psicologico ma anche cognitivo ed è attuato attraverso un approccio caratteristico
dell’esperienza tutoriale. Il mentor può essere volontario o una figura istituzionalizzata nelle organizzazioni.
Il supervisore è il collega esperto che sovraintende all’attività del giovane medico per garantire che l’assistenza
che offre sia di buona qualità e che nel tempo abbia luogo la crescita professionale. È disponibile a trattare e risolvere i
problemi che il tirocinante pone, e a monitorare con lui il processo di apprendimento.
Il counsellor formativo è solitamente un esperto che non ha la responsabilità formativa lungo tutto il percorso
del discente, ma presta aiuto in una fase specifica della sua attività professionale utilizzando sedute di supervisione, cioè
di consulenza sugli aspetti psicologici e relazionali dell’attività lavorativa.
Obiettivo
Tutor
Tirocinante
La tutorship è una forma di relazione educativa che attiva processi di apprendimento con l’intento di
coinvolgere non solo la sfera cognitiva ma anche quella emotiva ed affettiva attraverso una ridotta
asimmetria relazionale. Il tutor è contenitore delle angosce che il nuovo può suscitare nel percorso di
apprendimento. La tutorship è anche una modalità di azione sul piano cognitivo, ponendo l’attenzione non
tanto sul sapere che il tutor “mette dentro” il tirocinante, bensì sull’apprendimento di metodo: saper
apprendere in maniera autonoma e indipendente, selezionando le fonti, saper ragionare in situazione, saper
riflettere durante l’azione o sull’esperienza. La tutorship si esercita preferibilmente nei contesti lavorativi, o
nelle situazioni protette d’aula in professioni richiedenti elevati livelli di prestazioni pragmatiche e
relazionali. Il setting in cui si svolge l’azione di tutorship deve avere caratteristiche di grande flessibilità. Gli
obiettivi didattici, le sue conoscenze e l’esperienza sul campo e il fatto che utilizzi un insieme di strumenti
didattici per raggiungere gli obiettivi prefissati strutturano la funzione di tutor.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 9 Valutazione
Come valutare?
Perché valutare?
Si distingue una valutazione formativa e una certificativa. La valutazione formativa è continua, guida il
docente nel suo insegnamento, è il contapassi dell’apprendimento, permette di tarare e ritarare in tempo reale gli
obiettivi formativi, all’interno della spirale cibernetica, ed è fatta dai discenti. La valutazione certificativa al contrario è
fatta sui discenti, ha l’obiettivo di legalizzare il percorso fatto, e viene eseguita alla fine di esso utilizzando i suoi
risultati in termini di sanzione/premio.
I tutori sono chiamati ad eseguire la valutazione formativa ma spesso anche quella certificativa: viene infatti
richiesto spesso, alla fine di ogni tirocinio pratico, una valutazione che viene utilizzata per promuovere o sanzionare il
tirocinante. Il tutor ha interesse nella valutazione formativa e deve essere l’attore principale della sua progettazione.
L’istituzione o il committente ha interesse nella valutazione certificativa e deve stabilire quindi i criteri e strumenti
necessari.
Lacune nelle competenze
Bisogni formativi
Prioritarizzazione
OES
Esperienza di apprendimento
Valutazione
La spirale cibernetica del percorso formativo
Chi valuta?
I soggetti valutanti sono molteplici e hanno interessi diversi e punti di vista differenti. Sebbene il tutore sia
classicamente chiamato a valutare il tirocinante, è anche vero che il tirocinante si autovaluta continuamente e talvolta
cerca nel tutor una valutazione perché ha difficoltà ad eseguirla egli stesso. Ma il tirocinante ha diritto di valutare il
tutor e l’organizzazione dell’azione formativa. Anche il committente ha interesse a valutare le varie figure coinvolte, sia
per progettare un processo di innovazione didattica, sia per garantire delle buone performances dei professionisti ai
cittadini. La società ha interesse nel preparare medici bravi e competenti. Infine, anche il paziente valuta il tirocinante e
l’apparato del tirocinio.
Cosa si valuta?
In una situazione così complessa dove i vari attori coinvolti hanno differenti interessi nel valutare aspetti
diversi e oggetti diversi, è importante trovare degli accordi su chi valuta cosa. Ad esempio il paziente ha interesse a
valutare le competenze relazionali oltre quelle tecniche del tirocinante, mentre il committente ha interesse a valutare la
capacità del tirocinante nell’uso delle risorse, il tutor ha interesse nel valutare l’apprendimento di competenze
specifiche della medicina, e così via. Rimane inteso che deve esservi accordo tra le figure coinvolte sugli oggetti da
valutare e tale accordo deve essere ottenuto prima dell’inizio della valutazione.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 10 tirocinanti
Tutori
Processo
motivazione
performance
interesse
aree di competenza
profitto
cambiamento
raggiungimento obiettivi didattici
competenze
disponibilità
capacità didattica
programma didattico
ambiente
coerenza delle azioni formative
Impatto
Esito
beneficio per l’utente
Gli oggetti della valutazione
Come valutare?
Se valutare significa dare un valore a quello che facciamo, è vero che i professionisti valutano sempre
continuamente tutto nel loro lavoro, correggendo inconsapevolmente il tiro come risultato di questo valutare. Se il
professionista non riesce a dare valore a quello che fa non può riuscire a lavorare. È una valutazione “ad occhio” che ha
alcune caratteristiche peculiari:
⇒ Altissima validità- è cioè pertinente all’oggetto che viene valutato, riflette fedelmente la prestazione valutata. In
effetti, una valutazione fatta nel momento stesso della prestazione dall’attore stesso non può non essere pertinente,
specifica.
⇒ Alta fattibilità- non servono complicati strumenti di misurazione, non serve molto tempo.
⇒ Bassa oggettività- ripetuta davanti ad osservatori diversi potrebbe dare risultati diversi, è soggetta cioè a variabili di
giudizio. Ci si deve chiedere: un altro, nelle stesse condizioni, farebbe la stessa valutazione? Il mio interesse vizia la
mia valutazione?
⇒ Bassissima affidabilità e riproducibilità- in occasioni diverse non darà lo stesso risultato, perché essendo fatta in
“situazione” le variabili ambientali non sono ridotte al minimo.
⇒ Bassa generalizzabilità - c’è più di un modo di essere un buon medico, e le abilità del medico variano molto a
seconda dell’area di competenze considerata. Quanti atti particolari, quante prestazioni diverse in aree diverse si
debbono mettere insieme per avere un’idea generale di come lavora un medico? È importante osservare lungamente.
Nel lavorare con il tirocinante si ha a disposizione tempo per osservare come si comporta e per dare una
valutazione continua “a occhio” e quindi sarà una valutazione generalizzabile. Tale valutazione sarà sicuramente valida
e fattibile, ma avrà il problema della bassa oggettività e della bassa affidabilità. Riusciremo a scoprire meglio i pregi e i
difetti del tirocinante, in modo da predire se sarà un buon medico, se cercheremo di migliorare queste due ultime
caratteristiche della valutazione: per innalzare l’oggettività si possono utilizzare molti osservatori, per innalzare
l’affidabilità si può affiancare una valutazione diversa, che possa eliminare le variabili di fondo.
Con che strumenti?
Per ogni oggetto da valutare esistono delle modalità e degli strumenti ad hoc. Ad esempio, se si vuole valutare
il raggiungimento di un obiettivo educativo nel campo prevalentemente relazionale o operativo (saper fare e saper
essere) può essere utilizzata l’osservazione. L’osservazione è una modalità valutativa che utilizza degli strumenti anche
sofisticati, che vanno dalla semplice griglia di osservazione al questionario, alla videoregistrazione, ma anche la tecnica
dell’incidente critico.
Con che tempi, in che luoghi?
Nonostante la valutazione formativa sia continua e nel caso dell’osservazione sia implicita lungo tutto l’arco
del tirocinio, è utile formalizzare la valutazione per permetterne la riproducibilità definendo bene il contenuto e le
condizioni della prova.
Con che criteri? Con che indicatori?
Criterio deriva da crimein, giudicare, distinguere, scegliere. Criterio è l’elemento che ci permette di fare la
scelta. I criteri debbono essere esplicitati, discussi, e poi rappresentati con una scala coerente.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 11 Indicatore è un criterio, un parametro utile ad individuare l’andamento di un fenomeno in un contesto
particolare. L’indicatore può essere diretto, cioè un elemento concreto di per sé manifesto, come ad esempio tempi, atti,
parole, o indiretto, come ad esempio abilità, atteggiamenti, strategie, carattere, capacità relazionale, competenza.
Su che scala?
Valutare è porre gli oggetti su una scala di valore, relativamente ad un dato criterio. La scala deve anch’essa essere
esplicitata.
Con che standard?
Limite di accettabilità o standard è il valore di un certo criterio che fa da soglia: al di sotto o al di sopra di esso
si stabilisce a priori l’accettabilità della prestazione dal punto di vista della qualità. Gli standard possono essere stabiliti
da agenzie o esperti esterni o dagli stessi formatori, e negoziati con gli utilizzatori. Si deve ricordare che gli standard
sono sempre arbitrari, e il loro valore deve essere scelto con cura ed avere in consenso di tutti gli attori implicati.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 12 PARTE II
GLI STRUMENTI
Learning contract o piani di apprendimento
Le teorie dell’andragogia, dove si afferma l’importanza per un discente adulto di individuare le proprie
motivazioni e obiettivi di apprendimento, pongono in primo piano il processo di definizione di tali obiettivi, che solo a
prima vista è semplice. La tecnica dei piani di apprendimento formalizza un momento, solitamente precedente
all’azione di tirocinio, nell’ambito del quale tirocinante e tutore stabiliscono mutuamente l’impegno a raggiungere un
determinato obiettivo i apprendimento entro un tempo definito attraverso strategie e risorse determinate. Utile stabilire a
priori le modalità di valutazione del raggiungimento dell’obiettivo prefissato, e formalizzare dei momenti, durante e
dopo la fine del tirocinio, per effettuare tale valutazione. I piani di apprendimento sono lo strumento concreto per
apprendere nell’ambito di una impostazione didattica che crede nel “potenziale di apprendimento indipendente del
soggetto, basato sui suoi ritmi personali e la ricerca attiva delle informazioni” (Zannini 1998), e che deve quindi porre
particolare cura nell’ascolto della domanda di apprendimento che viene dal discente.
Nel caso dei tirocinanti specializzandi questi principi debbono essere rispettati fin dal primo colloquio che
deve tener conto sia del dispositivo entro cui si muove l’azione formativa (contratto di lavoro) sia del setting in cui essa
si svolgerà, ascoltando comunque con attenzione tutto ciò che il tirocinante ha da dire.
Ascolto del tirocinante
Il primo colloquio
• Presa d’atto del contratto di lavoro
•
•
•
•
•
•
•
• Comunicazione delle regole • Comunicazione delle competenze attese e della modalità di valutazione
• Comunicazione del piano di lavoro
• Ascolto del tirocinante
• Negoziazione degli obiettivi di apprendimento individuali
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR
8
Le sue motivazioni
Le sue aspettative
I suoi obiettivi di apprendimento
Le sue curiosità
La sua posizione di apprendimento
Le sue esperienze precedenti
Le sue paure, le sue emozioni
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR
9
Briefing e de briefing
E’ una metodologia incernierata sull’esperienza del discente in ambito clinico, basata sulle teorie pedagogiche
che pongono centrale la riflessione nell’apprendimento dall’esperienza: è con la riflessione infatti che l’esperienze
vengono elaborate e collegate alle altre del soggetto.
Il briefing, che avviene prima dell’esperienza, è la modalità con cui il discente viene preparato all’osservazione
e all’azione nell’ambito del tirocinio ed è costituito da brevi e precise indicazioni che hanno lo scopo di presentare il
contesto in cui il discente andrà ad agire, gli obiettivi didattici, e, se necessario, una griglia di lettura condivisa di ciò
che deve essere osservato. Si individuano anche i bisogni di apprendimento del discente. Oltre a preparare il discente
all’osservazione, di incuriosirlo, lo si deve mettere in guardia da possibili punti critici e costruire una sorta di rete
protettiva. La seduta di briefing è cruciale per definire regole e fornire una mappa di comportamenti nelle situazioni,
oltre a stabilire un mutuo linguaggio di intesa tra operatori e discenti che permetta con sollecitudine di attivare
determinati comportamenti in caso di necessità (ad esempio sapere quando è utile che il tirocinante si allontani dalla
situazione).
La seduta di debriefing è un incontro di un tempo definito a priori (solitamente 1 o 2 ore, ma anche 10 minuti)
che avviene dopo un certo percorso, al compimento di una tappa, o al termine di tutto il tirocinio. Non è una discussione
libera, una consulenza, una sessione di approfondimento, ma è una fase dell’apprendimento connessa indissolubilmente
all’esperienza basata sulla riflessione intenzionale e strutturata, nella convinzione che essa favorisca apprendimenti
significativi.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 13 L’obiettivo è di far riflettere il discente sull’esperienza stessa e rielaborarla, sia negli aspetti cognitivi che in
quelli emotivi. Si verifica il raggiungimento degli obiettivi, gli eventuali problemi incontrati, i risultati dell’osservazione
e l’adeguatezza della griglia utilizzata, ma il compito più importante, come afferma Boud, è promuovere la riflessione
attraverso tre fasi: la fase iniziale è il ricordo di ciò che è avvenuto, la seconda la valutazione delle sensazioni e dei
vissuti, la terza la rivalutazione dell’esperienza associando ed integrando i pensieri e le sensazioni avuti durante
l’esperienza con quelli appena emersi. Per raggiungere questo scopo il tutor utilizza le domande di livello tassonomico
crescente: inizialmente chiede cos’è successo (ricordare i fatti), poi cosa ha provato il tirocinante e infine come valuta
l’esperienza. Questa metodologia esalta l’importanza del tutor come figura che aiuta la riflessione e che non si limita ad
essere accompagnatore del tirocinante e agente che legittima la partecipazione all’attività lavorativa, mostrando la sua
pratica.
Briefing
Esperienza
Debriefing
Porre domande efficaci
Il miglior modo per coinvolgere i tirocinanti nella riflessione e nell’attività decisionale clinica è quello di porre
domande. Le domande appropriate, oltre a stimolare la riflessione, identificano i livelli di conoscenza e competenza dei
tirocinanti e permettono così di modulare l’insegnamento.
Esistono diverse tipologie di domande situate a diversi livelli tassonomici, che stimolano livelli diversi di
pensiero o ragionamento. Al primo livello sta il ricordo esatto dei fatti: osservare e ricordare tutti gli elementi importanti
e tralasciare quelli superflui è una operazione non sempre facile che va stimolata. Il tutor può chiedere: “cosa hai visto?
Come si chiama questo fenomeno?”. Al secondo livello sta la comprensione dei fatti: chiedere la causa o il perché di un
sintomo o di un dato obiettivo rivela il livello di conoscenza del tirocinante e stimola una correlazione tra fatti e cause.
Le domande appropriate per arrivare a questo livello sono ad esempio: “Qual è la causa? Perché?”. Sono domande
chiuse dalle quali ci si aspetta una rosa ristretta di risposte. Ai livelli superiori sta la capacità di analisi e di sintesi:
correlare il quadro visto ad altri quadri visti o studiati, mettere insieme i pezzi per produrre una diagnosi. Il tutor stimola
questo tipo di pensiero ponendo domande più aperte, quali: “cosa significano questi dati? Quali sono le ipotesi
diagnostiche? Qual è il probabile esito?”. Il livello più alto di pensiero è quello valutativo che permette poi la decisione,
e che va stimolato con domande ancor più aperte: “cosa ne pensi di tutto ciò? Come valuti la situazione?”.
Le domande devono essere uno strumento di apprendimento e non devono essere poste alla pari di uno
strumento di valutazione, non devono intimidire, ma stimolare il pensiero. Se il tutor riesce a creare un ambiente
supportivo e disteso, può anche chiedere non tanto quello che il tirocinante sa ma quello che non sa (“su cosa sei
incerto?”), stimolando così maggiormente l’apprendimento. Non sapere è la spinta a cercare e ad apprendere, e anche il
tutor può ammettere di non sapere, stimolando pensiero e ricerca nei tirocinanti.
Se si lavora con un gruppo di tirocinanti porre le domande usando il nome di ognuno, cercando di far
intervenire tutti e valorizzando l’apporto di ciascuno. Niente è troppo stupido!
Ultimo consiglio: dopo aver posto una domanda, lasciare una pausa abbastanza lunga perché possa essere
elaborata una risposta da parte del tirocinante, non aver fretta di mostrare il proprio sapere.
Dare feed back
Un altro strumento molto potente per incoraggiare l’autoriflessione e aumentare la consapevolezza della
propria professionalità è il feed back, vale a dire far sapere al tirocinante come sta lavorando. I tirocinanti hanno piacere
di sapere i loro punti di forza e ciò che deve essere migliorato, ma pare ciò accada troppo poco spesso. Infatti in
letteratura è riportato che il feed back è dato meno frequentemente di quanto i tirocinanti vorrebbero, mentre i tutor
affermano di darlo di più di quello che i tirocinanti vorrebbero. Per queste ragioni questo strumento deve essere
conosciuto e utilizzato di più e in modo competente. Si deve ricordare che il feed back aiuta anche il tirocinante a
programmare i passi di apprendimento successivi.
Si distingue un feed back formale, programmato come parte di una valutazione, episodico e su aree specifiche
del lavoro del tirocinante, e un feed back informale (“on the spot”) giornaliero e continuo, su tutto ciò che accade sul
lavoro.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 14 La caratteristiche di un buon feed back sono elencate qui di seguito:
Costruttivo:
La critica positiva
Come deve essere un buon feed back
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Chiaro, non ambiguo e comprensibile Immediato Dato con parsimonia (su cose importanti )
Collegato a specifici comportamenti direttamente osservati Costruttivo
Dato in setting appropriato
Dato sul comportamento non sulla persona
Con possibilità di replica
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi‐ESSERE TUTOR
5
Chiedi a tir cosa è andato bene
Elenca cosa tu tutor pensi sia andato bene
Chiedi cosa tir pensa debba essere migliorato
Aggiungi tutto ciò che ritieni debba essere migliorato
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi‐ESSERE TUTOR
6
Il feed back è un evento che innesca processi costosi per chi lo riceve dal punto di vista cognitivo e affettivo, e
quindi deve essere dato con attenzione e con la necessaria pietà, aiutando la relativizzazione di ciò che viene detto,
badando appunto ad assicurare l’integrità del sé professionale. Ad esempio può essere utile la tecnica del sandwich, in
cui il feed back negativo è dato tra due feed back positivi. Inoltre è lo stile che deve aiutare in questo senso: non si dice
“questo è sbagliato” ma “questo va migliorato”e non si dice “hai fatto bene ma…” ma si enumerano separatamente i
punti di forza e debolezza. Comunque il feed back deve comprendere sempre strumenti di riorientamento e programmi
per il miglioramento.
Il feed back dato con queste attenzioni è benefico per il processo di apprendimento, anche se si devono
ricordare alcuni punti negativi: in letteratura si afferma che benefico ma non è essenziale, e che nei compiti complessi
come quelli del medico, in cui il risultato finale dipende da tutto il processo strategico e non dai singoli passi, può far
concentrare il tirocinante più sul compito e far perdere l’attenzione alla strategia generale.
Il feed back incisivo dipende, oltre che dalla correttezza del processo, dall’autorevolezza di chi lo fornisce e dal
rinforzo: il feed back dato on the spot può essere recuperato nei momenti formali e così rinforzato.
Analisi dei casi assistenziali
Il setting è quello di una discussione libera tra un tutor e un gruppo di discenti su una situazione stimolo che è
data da un caso clinico. Esso può essere portato dal tutor senza che i partecipanti ne abbiano avuto esperienza diretta, o
da un partecipante stesso nel momento in cui ne è stato protagonista (autocaso). L’obiettivo è quello di sviluppare
capacità di ragionamento clinico e gestionale, e non di migliorare le conoscenze. Risponde alla domanda “come me la
cavo in questa situazione specifica?”, in altre parole focalizza il problema dell’utilizzo e dell’articolazione delle
conoscenze nella specificità di tutti i giorni.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 15 Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 16 PARTE III
LE AZIONI FORMATIVE
Anche se a prima vista non sembra che si possa programmare l’insegnamento negli ambienti clinici dive il
tempo e lo spazio sono completamente asserviti al lavoro medico, nella pratica proprio perché si conoscono tali
condizioni si possono programmare brevi momenti di insegnamento sui quei quadri ricorrenti che vengono richiamati
alla mente con facilità.
Se si programmano questi momenti, l’azione formativa può avvenire in breve tempo, e l’importante sono i
contenuti di una buona programmazione. Innanzitutto si deve programmare il setting educativo, cioè l’insieme degli
elementi fattuali che possono permettere e favorire l’azione formativa. Si tratta di trovare un ambulatorio, una cucina,
un angolo tranquillo dove nella pausa o nei tempi morti conosciuti e previsti si può avere quella tranquillità necessaria
alla riflessione e al dialogo. Il secondo elemento a cui si deve pensare sono gli obiettivi didattici: cosa voglio che il
tirocinante sia capace di fare come risultato del mio momento formativo? Il terzo elemento è il dialogo che voglio si
sviluppi, quello che succederà durante l’evento, lo scambio informativo tra tutor e tirocinante. Infine particolare cura
deve essere rivolta alla chiusura dell’azione formativa, nella quale si deve rinforzare il messaggio forte dato in
precedenza e si debbon dare indicazioni per lo studio individuale.
Un insegnante che utilizza la riflessione come strumento di apprendimento nei suoi tirocinanti deve spendere
dieci minuti di tempo per riflettere appunto sulla azione formativa effettuata e per cercare un feedback verbale dal
tirocinante ed eventualmente dai colleghi. L’impegno più grande è quello di osservare successivamente se il tirocinante
ha fatto tesoro nel suo lavoro degli apprendimenti avvenuti nella sessione precedente.
Si possono identificare tre grandi aree formative: l’insegnamento delle abilità pratiche, quello al letto del
paziente o nel setting ambulatoriale, e la supervisione e il counselling formativo. Le tecniche e l’impianto
dell’insegnamento nelle tre aree differisce perché sono situate in campi dell’apprendimento differenti tra loro, come
evidenziato nel capitolo sui Modelli Pedagogici.
Insegnare abilità pratiche
Nell’ambito di qualsiasi percorso formativo specialistico in medicina l’insegnamento delle abilità pratiche
riveste particolare importanza perché, oltre a fornire una competenza specifica, è desiderato particolarmente dai giovani
medici sia per evitare lo stress dell’incompetenza, particolarmente visibile nell’ambito delle prestazioni, sia perché dà
spesso un tangibile senso di appartenenza al gruppo professionale in seguito al raggiungimento di compiti concreti e
facilmente valutabili. I tutor mediamente danno meno importanza a questo insegnamento di quante ne diano i
tirocinanti.
Il tutor che si appresta ad insegnare abilità pratiche non deve però illudersi che il tutto si riduca alla
coordinazione muscolare necessaria per raggiungere l’obiettivo. Oltre a questa si devono trasmettere una serie di
concetti teorici (indicazioni, controindicazioni, complicazioni e prevenzione delle complicazioni della manovra), la
conoscenza dei processi e delle sequenze e le ragioni del “fare”. Queste conoscenze sono specifiche della
professionalità del medico e lo distinguono dal tecnico. Inoltre, il tutor deve insegnare al tirocinante a comunicare in
modo corretto con il paziente e identificare le situazioni pericolose nelle quali deve chiedere aiuto ai colleghi. È
sicuramente utile ricordare l’adagio: “dimentico ciò che sento, ricordo ciò che vedo, imparo ciò che faccio” ma non
basta far fare al giovane collega perché impari, bisogna strutturare un programma completo comprensivo di lezioni
teoriche (o moduli di auto apprendimento) e un approccio formalizzato all’apprendimento del fare.
Quest’ultimo può avvenire attraverso la creazione della sequenza di realizzazione di una manovra o procedura
da parte del discente dopo averla osservata. La creazione della check list a da parte del tirocinante non è un semplice
metodo di memorizzazione, ma è uno strumento di innesco dell’osservazione, della riflessione e dell’interiorizzazione
di una sequenza pratica nei suoi significati e nelle sue articolazioni logiche. Il momento fondante dell’apprendimento è
quindi l’ultima parte del processo, quando il tutor discute con il tirocinante la check list costruita, spiegando la funzione
di ogni azione. La modalità con cui il tutor attiva processi di consapevolezza e stimola il ragionamento clinico nel
discente è molto importante per raggiungere obiettivi di integrazione di conoscenze e di riflessione e non solo per
applicare un rinforzo in una situazione di apprendimento comportamentista dove singoli elementi di apprendimento
vengono memorizzati e rinforzati.
Un altro approccio è quello a quattro step. Il primo passo è la dimostrazione da parte del tutor della procedura
fatta a normale velocità nel setting reale con il paziente reale. Il secondo passo è la decostruzione, cioè la presentazione
da parte del tutor della stessa procedura mostrando ogni singolo atto della sequenza e spiegandolo al tirocinante. Questo
passo può essere eseguito in laboratorio, simulando la situazione. Il terzo passo vede il tirocinante che invece di
guardare passivamente descrive ciò che vede fare dal tutor, e l’ultimo passo è il tirocinante che fa e il tutor guarda, se
possibile iniziando in simulazione.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 17 Approccio a 4 step
Step
Tutor
Tirocinante
Cosa?
Dimostrazione
Fa
Guarda
Procedura a normale velocità su pz reale
Decostruzione
Fa e descrive ciò che fa
Guarda
Procedura decostruita in lab
Comprensione
Fa
Guarda e descrive ciò che vede (piccolo gruppo)
Procedura decostruita in lab
Performance
Guarda
Fa e descrive ciò
che fa (piccolo gruppo)
Come è possibile
Peyton 1998 in Lake 2007
Bolzano dic 2010 gen 2011
Parisi‐ ESSERE TUTOR
17
L’insegnamento va pianificato e il tutor deve chiedersi se i momenti della sequenza che decostruiscono la
procedura sono chiari per il tirocinante, in numero memorizzabile e utili didatticamente. Inoltre deve assicurarsi delle
conoscenza del tirocinante prima di iniziare e porsi in una posizione visibile durante la procedura. Alla fine del
momento formativo è sempre utile chiedersi se i feed back dati erano efficaci e se tutti gli errori dei tirocinanti sono stati
osservati e corretti.
Un ulteriore problema nell’insegnamento delle abilità pratiche è il fatto che molti tutor non sono consapevoli
delle loro abilità (cfr lo schema qui sotto riportato) e hanno difficoltà ad auto-osservarle e sequenziale. Il lavoro del
tutor è rendere il tirocinante consapevole di essere incompetente, e la formazione agirà dal momento in cui il tirocinante
lo capisce finchè non sarà competente. La pratica e il tempo lo faranno ritornare inconsapevole della sua competenza.
Gli stadi di acquisizione delle abilità pratiche
• Inconsapevolezza
Inconsapevolmente incompetente
Consapevolmente incompetente
• Apprendimento
Inconsapevolmente competente
Consapevolmente competente
• Pratica Bolzano dic 2010 gen 2011
Parisi‐ ESSERE TUTOR
Lake e Ryan 2007
20
Insegnare la visita
Insegnare con il paziente, o per mezzo del paziente è la più antica ed efficace forma di trasmissione del sapere
medico. Ma è dimostrato che vedere molti pazienti non porta un miglioramento delle competenze del giovane medico
tanto quanto avere una buona supervisione su un numero inferiore di pazienti. Questa affermazione è in linea con le
direttive del pensiero pedagogico contemporaneo che vedono l’apprendimento legato al binomio esperienza- riflessione
sull’esperienza. Il tutor è quindi cruciale non solo nell’organizzare un buon case mix su cui sperimentare la pratica, ma
anche nell’aiutare il tirocinante a riflettere su ciò che ha fatto, insegnare regole generali. Inoltre il tutor è esempio,
modello di professionalità nelle abilità pratiche, in quelle di comunicazione con il paziente, nelle modalità di
ragionamento clinico e nella capacità di affrontare con flessibilità le varie situazioni lavorative.
Il processo di apprendimento inizia con una pratica di affiancamento al tutor per poi trasformarsi in una pratica
autonoma sotto supervisione. Nel primo periodo di affiancamento il tutor è responsabile di stimolare un apprendimento
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 18 rilevante per la pratica futura e significativo, utilizzando tecniche di didattica attiva coinvolgendo il tirocinante nel
“fare”.
Un discorso a parte merita il paziente coinvolto nell’insegnamento. I pazienti sono generalmente disposti a ad
essere oggetto di formazione per i giovani medici anche perché nell’interazione con i tirocinanti hanno più tempo per
esporre i propri problemi e si sentono ascoltati in misura maggiore. D’altra parte il setting educativo può essere
invadente e non rispettare la privacy del paziente: è utile chiedere sempre il consenso effettivo del paziente
all’insegnamento e alla discussione in sua presenza.
La più comune obiezione che vien fatta dai tutor riguardo all’insegnamento clinico è che il tempo e lo spazio
per la riflessione con il tirocinante è poco: sono “setting selvaggi” e non si ha la tranquillità per approfondire i casi
giunti all’osservazione. Sono stati sperimentati numerosi metodi didattici per insegnare il questi ambienti tenendo conto
dei limiti di spazio e di tempo.
Innanzitutto il tutor deve farsi una mappa mentale che divide in tre zone la sua attività didattica: una zona che
noi abbiamo chiamato “rossa” che è la situazione in cui tirocinante e paziente sono compresenti, una zona “verde” in
cui il paziente è momentaneamente escluso dalla discussione o dall’attività di riflessione del tutor e del tirocinante
riguardo al suo caso, e una zona “bianca” nelle quale tutor e tirocinante, senza pazienti presenti, lavorano su casistica
aspecifica, su tema clinico esemplificato da vari pazienti, un tema di organizzazione del lavoro, un progetto di
monitoraggio di qualità dell’assistenza o di epidemiologia sulla base dei dati del tutor. I comportamenti e le azioni
formative in ciascuna zona sono diverse ed è bene che anche i tirocinanti siano consapevoli di questa geografia
mentale.
Il modello generale di insegnamento della visita prevede tre momenti ben precisi:
l’identificazione dei bisogni formativi del tirocinante attraverso l’intervista in zona verde (“hai fatto ancora
questo? Ti senti sicuro nel fare quello? Hai mai visto quest’altro?) ma anche attraverso l’osservazione dell’attività del
tirocinante con il paziente presente;
il modello visita/insegnamento che viene scelto a seconda della situazione e di cui si parla qui di seguito;
la chiusura dell’azione formativa con indicazioni allo studio, all’approfondimento di quella tematica specifica
o di argomenti correlati (zona bianca).
Analizzando la letteratura internazionale e la pratica clinica si sono contati cinque modelli diversi di
visita/insegnamento, ognuno adatto ad una certa situazione formativa. Si va dai primi due modelli adatti maggiormente
alle situazioni in cui il tirocinante è poco esperto a quelli in cui è più esperto.
Dimostrazione attivante
“One‐minute” classico
• Il tutor dà un tema di osservazione
• Il tutor visita
• Il tutor attiva il tir chiedendo di descrivere ciò che ha osservato (livello domande!)
• Il tutor e il tirocinante visitano insieme
• Il tutor chiede al tirocinante(1’)
– in generale cosa ne pensa
– in particolare l’ipotesi diagnostica e l’eventuale piano di gestione
• Il tutor chiede il perché e possibili alternative (5’) • Il tutor insegna il principio generale (1’)
• Il tutor dà feedback (2’)
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR 1
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR 18
SNAPPS
Doppia visita
• Il tirocinante visita
• Il tutor chiede al tirocinante l’ipotesi diagnostica e il piano di gestione (1’)
• Il tutor visita
• Il tutor chiede il perché e possibili alternative (5’) • Il tutor insegna il principio generale (1’)
• Il tutor dà feedback (2’)
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR 19
•
•
•
•
•
•
•
Il tirocinante visita
Summarizes il caso
Narrows le dd
Analizza le dd
Probes (chiede aiuto al tutor)
Pianifica la gestione
Seleziona un argomento di studio
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 20
Pagina 19 Presentazione caso al letto del paziente
• Il tirocinate visita
• Il tirocinate presenta il caso al tutor coinvolgendo il paziente
• Il tutor dà feedback
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR 21
La dimostrazione attivante è utile nelle situazioni in cui per qualche ragione (inesperienza del tirocinante,
particolare difficoltà della manovra) il tirocinante viene escluso dall’azione clinica. Prima della visita viene dato un
compito di osservazione e dopo la visita eseguita dal tutor quest’ultimo “attiva” il tirocinante ponendogli domande che
inducano la riflessione (cfr capitolo su “Porre domande”).
Il modello “one-minute teacher” è quello che normalmente viene utilizzato nella formazione dei medici: ad
una visita congiunta segue la discussione caso che però viene strutturata ad hoc per risparmiare tempo. Dopo la breve
(un minuto) presentazione dell’ipotesi diagnostica o del piano di gestione da parte del tirocinante il tutor induce alla
riflessione ponendo domande di livello tassonomico adeguato per cinque minuti, concludendo questa fase con
l’insegnamento breve (un minuto) del principio generale che si può estrarre dal caso singolo. Infine il tutor dà il feed
back al tirocinante sulla prestazione effettuata durante la visita congiunta.
Nel modello di doppia visita invece di una visita congiunta ha luogo una prima visita del tirocinante seguita
dalla sua breve presentazione del caso e delle ipotesi diagnostiche. A questo punto il tutor visita e successivamente
induce la riflessione come nel modelli “one-minute”.
Il modello SNAPPS prende il nome dall’acronimo che indica la sequenza di azioni successive alla visita da
parte del tirocinante: per prima cosa presenta il caso al tutor (Summarize), poi esegue la diagnosi differenziale
(Narrow), analizza l’ipotesi diagnostica scelta (Analyze), chiede aiuto al tutor che indaga sulle parti problematiche del
processo diagnostico (Probe), pianifica la gestione del caso (Plan) e infine sceglie un argomento di studio (Select). Si
tratta qui di un tirocinante già autonomo.
Anche nella presentazione del caso al letto del paziente abbiamo un tirocinante esperto e una buona armonia e
conoscenza con il tutor. La presentazione del paziente, visitato dal tirocinante, è fatta al tutor coinvolgendo il paziente
stesso.
Nel setting ambulatoriale la prossemica ha molta importanza: la disposizione spaziale delle sedie del tutor e
del tirocinante determina il grado di coinvolgimento dello stesso nella consultazione, come è rappresentato graficamente
nelle seguenti schematizzazioni.
TIPOLOGIE RELAZIONALI ZONA ROSSA
TIPOLOGIE RELAZIONALI ZONA ROSSA
A. tir osservatore, tutor gestisce il paziente
B. tir osservatore partecipe, tutor gestisce il paziente tir
tutor
tutor
pz
pz
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR Bolzano, dic 2010 genn 2011
24
TIPOLOGIE RELAZIONALI ZONA ROSSA
C. tir e tutor gestiscono alla pari il paziente
tutor
25
TIPOLOGIE RELAZIONALI ZONA ROSSA
tutor
tir
Parisi ESSERE TUTOR Parisi ESSERE TUTOR D. tir gestisce paziente, con presente tutor
tir
pz
Bolzano, dic 2010 genn 2011
tir
pz
26
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 27
Pagina 20 TIPOLOGIE RELAZIONALI ZONA ROSSA
E. tir gestisce paziente, con tutor assente
Tutor?
tir
pz
Bolzano, dic 2010 genn 2011
Parisi ESSERE TUTOR 28
La supervisione
La supervisione è l’azione strutturata e riconosciuta dal tirocinante eseguita da un medico esperto che ha
finalità di assicurare che il tirocinante eroghi prestazioni di buona qualità quando ha la responsabilità autonoma
dell’attività clinica e al tempo stesso assicurargli una buona esperienza di pratica e una sua crescita professionale.
Inoltre, la supervisione ha l’obiettivo di prevenire eventuali problemi. Non è supervisione il debriefing offerto dal tutor
al tirocinante riguardo ad un compito preciso che gli era stato assegnato e che si era svolto in autonomia. In questo caso
l’autonomia del tirocinante è legata ad un compito specifico valutato e concordato con il tutor che pur essendo non
presente, svolge la sua funzione a pieno titolo. La supervisione invece avviene quando il tirocinante ha la responsabilità
totale in un certo lasso di tempo e presuppone una capacità di gestire la normale attività.
Il supervisore deve essere reperibile e disponibile a discutere ogni problema, ma deve anche prendersi il tempo
di osservare il tirocinante mentre lavora, oltra a prendere informazioni sul suo operato sia dai colleghi, che dagli
infermieri, che dai pazienti oltre naturalmente dal tirocinante stesso. Anche le cartelle possono dire molto sull’operato
del giovane medico.
Deve essere valutata tutta l’attività, non solo gli atti clinici, ma la capacità di comunicazione con il paziente e
la professionalità.
Counselling o consulenza formativa
E’ un intervento di tutorato effettuato attraverso incontri individuali con il discente, singoli o multipli, di durata
predeterminata (di solito un’ora) su richiesta del tirocinante (a sportello) al quale viene data l’opportunità di analizzare
e discutere particolari problemi incontrati durante il tirocinio, che coinvolgono la sfera personale e affettiva e che hanno
a che fare con il processo formativo ostacolandolo o perturbandolo. La tecnica raccomandata è quella del counselling.
Fare counselling è ascoltare in modo costruttivo le persone sotto stress, dar loro informazioni accurate sulla loro
situazione e sul loro comportamento come noi lo percepiamo, trovare spiegazioni alternative riguardo ai loro sentimenti,
esplorare nuove strategie per farvi fronte. In definitiva, rendere il tirocinante capace di identificare e portare a
compimento le sue proprie uniche soluzioni ad un particolare problema. Ciò di solito richiede una modificazione del
comportamento del tirocinante, che non viene imposta, ma deve essere trovata dal soggetto. Nel counselling non si
suggeriscono le soluzioni, si aspettano quelle del tirocinante e lo si aiuta a soppesarle e a sceglierle. Alla fine della
seduta nulla di quello che viene deciso dovrebbe essere stato suggerito dal tutor, eventualmente può essere il risultato di
una riformulazione.
1 "Come pensa che io possa aiutarla?", serve per capire la percezione che il tirocinante ha del ruolo del tutor e per
identificare gli obiettivi.
2 Empatizzare con il contenuto dei problemi del tirocinante (mettersi nei suoi panni)
3 Chiedersi quali sono le determinanti del problema con distacco cognitivo
4 Aiutare il tirocinante ad identificare tali determinanti
5 Falsificare le ipotesi (fare l’avvocato del diavolo)
6 Ipotizzare la natura del problema e comunicare l'ipotesi al tirocinante riformulando ciò che ha detto
7 identificare gli obiettivi (riduzione della paura, risoluzione del conflitto, adattamento alla perdita...), e i mezzi per
raggiungerli
8 la seduta deve essere terminata dal tuor, che è responsabile del tempo, nel tempo concordato
9 Dopo la seduta, giudicare i progressi o le ragioni dell'insuccesso, senza per questo sentirsi incapaci
Compiti del tutor nel counselling
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 21 Nel counselling formativo non ci si ferma a considerare il semplice problem solving, ma si allarga lo sguardo
alle ragioni più intime dell’agire clinico, basate sull’esperienza, sulla conoscenza, ma anche sui valori peculiari del
medico inserito nel contesto. Si può spiegare al discente cosa dovrebbe essere fatto, ma anche e specialmente perché
dovrebbe essere fatto qualcosa, le ragioni etiche e la loro concordanza con le possibilità dell’agire clinico.
La diversità di intenti e di stile di lavoro tra supervisione e counselling formativo è data quindi da una maggior
profondita dell’azione tutoriale nel counselling, accompagnata da una maggior ambizione nel igliorare la professionalità
del tirocinante, mentre il supervisore deve semplicemente assicurarsi che i pazienti incontrino con quel tirocinante
standard adeguati di assistenza e che i problemi affrontati ordinariamente vengano risolti di routine.
Valori
Azioni strategiche:
il perché delle
azionicliniche
Azioni cliniche
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 22 Per approfondimento:
Bertolini G. (a cura di) Diventare medici. Milano: Guerini, 1994.
Boud DJ. Come aiutare gli studenti ad imparare dall’esperienza. In: Cox KR, Ewan CE. Insegnare la medicina. Cortina,
1989
Coles C, Holm HA, eds. Learning in Medicine. Scandinavian University Press, Oslo 1993.
Formenti L, Gamelli I. Quella volta che ho imparato. Milano: Cortina, 1998.
Gordon J. ABC of learning and teaching in medicine. One to one teaching and feedback. BMJ 2003; 326: 543-545 (e
vedi anche tutti gli altri articoli della serie)
Irby DM et al. Teaching when time is limited. BMJ 2008; 336: 384-386
Knowles, M.S..Quando l'adulto impara. Milano: Franco Angeli, 1996.
Lake FR, Ryan G. Teaching on the run. The medical journal of Australia 2007.
Maturana H, Varela F. L’albero della conoscenza. Garzanti, 1987
Morelli U, Weber C. Passione e apprendimento. Cortina, Milano 1996.
Morin E. La testa ben fatta. Cortina, Milano 2000.
Quaglino GP. Fare formazione. Il Mulino, Bologna 1985.
Quaglino GP. Uno scenario dell’apprendere. In: ISFOL, Montedoro C (a cura di). Dalla pratica alla teoria per la
formazione: un percorso di ricerca epistemologica. Milano: Franco Angeli, 2002.
Schoen DA. Il professionista riflessivo. Dedalo, 1983.
Simon HA. La scienze dell’artificiale. Il Mulino, Bologna 1988.
Weick KE. Senso e significato dell’organizzazione. Milano: Cortina, 1997
Wimmers PF et al. Influence of clerkship experiences on clinical competence. Med Educ. 2006 Oct;40(10):1053.
Materiale di consultazione per il corso ESSERE TUTOR Trento, marzo 2011 Pagina 23 
Scarica

MINI-GUIDA PER I TUTOR - Scuola di Medicina Generale