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«No, ti prego, sto dormendo, non adesso.»
Mi viene addosso, si struscia sul mio corpo, io
provo ad allontanarlo con la mano ma lui insiste, facendo un balzo all’indietro. Adesso è alle mie spalle, si muove agile fra il comodino e il letto e mi lecca prima i capelli e poi il collo.
Provo disperatamente a non sganciarmi da quello che sto sognando. Ci sono io, in mezzo a una strada, in sella a una bicicletta con una macchina che mi
suona alle spalle. Io provo a rallentare per capire chi
possa esserci al volante ma l’auto rallenta assieme
a me, mantenendo una distanza costante tra di noi.
Quando mi fermo, quella si ferma per poi ripartire
appena riprendo a pedalare. Andiamo avanti così per
un po’, finché la macchina accosta e io cerco di capire
chi sia il conducente. Ho appena il tempo di aspetta15
re che abbassi il finestrino, la mano che intravedo è
sicuramente maschile ma non la riconosco. Mi prende un brivido all’idea di identificare finalmente quel
viso. Ma non ce la faccio, ho perso anche stavolta.
«Ancora un po’, lasciami dormire ancora un po’»
sussurro, provando a identificare questo sconosciuto. Metto a fuoco, provo a dimenticarmi di lui,
del mio compagno che nel letto cerca di svegliarmi, ma ormai l’ho perso, la pellicola si è interrotta,
ci sono solo io in questa stanza.
Lui è impaziente, non ha alcuna voglia di mollare
e anche se mi tiro la coperta sugli occhi per difendermi, si allunga su di me, appoggiando il muso e
le zampe sul mio seno.
Lo accarezzo e quello, puntualmente, inizia a
fare le fusa. Non sono le coccole che sta cercando:
col muso si insinua fra collo e mento, sollevandomi la faccia, quasi volesse esporre il mio viso al fresco della stanza, all’aria frizzante della casa. Nella
classifica dei risvegli coatti lo sistemo fra il metodo di mia madre – bacio e “dài, su, svegliati” bisbigliato all’orecchio per convincermi a tirarmi su – e
quello di mio padre, più brusco, meno soave: spalancamento della finestra, sguardo, in caso di pronto risveglio, rapido sollevamento delle coperte ed
esposizione del mio corpo alle intemperie.
«Mi alzo, Filou, mi alzo.»
Lui non si fida e continua con la sua combinazione di fusa e pressioni sul collo.
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Mi arrendo, apro gli occhi e rimango un attimo,
come ogni mattina, a osservare il paesaggio fuori
dalla finestra, la casetta in cui vivo stabilmente già
da un po’, così diverso da tutto quello che ho visto in passato, e il mio letto così grande e comodo.
«Ok, colazione» dico.
La stanza è fredda, per via della stufa spenta,
mi infilo un enorme maglione di lana, prima di
cominciare a tremare. Filou mi viene dietro fiducioso, mi raggiunge e mi supera nei pressi della cucina e in un attimo riesco a mettergli qualcosa da
mangiare nella ciotola: qualche crosta di formaggio e un pezzo di prosciutto avanzato della sera
prima che lui divora immediatamente, dimenticandosi delle croste.
«Sì, Spiros, arrivo.»
Vado verso la porta e la spalanco, facendo irrompere così dall’esterno il freddo e il bianco accecante della neve. Il cielo è terso, rimango a osservare il
sole che risplende un po’ pallido, mentre Spiros si
dirige sicuro verso un albero, seguito da Filou che
sembra soddisfatto della sua colazione.
Sulla grondaia c’è ancora la brina della notte e i
raggi del sole non riescono affatto a scaldarmi. A
giudicare dalla sua posizione saranno le otto.
«Che freddo fa qui» hai detto la prima volta che ci
siamo svegliati in questa casa assieme, accorgendoci che ormai era pieno inverno.
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«Torniamo a letto» ti ho detto quella volta e tu
non mi hai lasciato finire la frase che già eravamo
sotto le coperte, abbracciati, uniti.
Quando arriverai? Stasera, forse domattina. La lettera ti sarà arrivata almeno da una settimana – ormai
conosco a memoria i tempi, appena scende la neve
si allungano, ma io ho fatto attenzione a mandartela con largo anticipo –, forse avevi qualche piano
per Natale, probabile che tu abbia dovuto spostare
qualche impegno con tua madre. Come l’avrà presa lei? Be’, credo bene, non faceva che ripetere che
sperava che fra noi, fra me e te, andasse bene, che
finalmente avevi trovato la persona giusta. Sì, certo,
non ti piaceva affatto che te lo dicesse e io mi sono
sempre limitata a sorridere. Ma mi rassicurava sapere che lei faceva il tifo per me.
Mia madre, invece... Le ho promesso di chiamarla per gli auguri di Natale. È meglio che le telefoni
stamattina, poi non avrò molto tempo, tante sono
le cose che devo fare. Mi vesto veloce, ci sarà poi
tempo di prepararmi meglio più tardi, devo essere pronta, potresti arrivare persino stasera, non lo
devo dimenticare, e sarebbe un peccato che mi vedessi come sono ora, con indosso giusto una vestaglia da casa, delle pantofole più calde che sensuali,
gli occhiali. Niente parrucchiere qui in montagna,
neppure al paese, mi dovrò organizzare.
Mi dirigo verso la radio, l’accendo ma non c’è
nient’altro che il notiziario, e io non ho nessuna vo18
glia di sentire le notizie. Però, hai visto?, ho comprato la radio: non c’è più solo il giradischi. No, non
ne sentivo il bisogno, ma il mese scorso sono andata in paese e l’ho presa perché non voglio che tu ti
senta troppo isolato a stare qui con me. Indosso il
giubbotto ed esco di nuovo all’aperto, in giardino:
ricordi?, era un terreno con tutt’al più qualche ciuffo d’erba d’estate ma adesso è cambiato completamente; certo, dovrai aspettare la primavera per rendertene conto ma ti garantisco che ti piaceranno i
lavori che ho fatto.
Apro la porticina della legnaia e vengo subito avvolta dal profumo dei ciocchi, ne prendo quattro o
cinque arcuando le braccia contro il petto: devo comprare una gerla, lo so, è un po’ che ci penso, ma mi
piace scrollarmi di dosso i pezzettini di legna dal
giubbotto o dal golf. Rientro in casa e accendo le
stufe. La casa è piccola ma la legna dà sempre un
sacco di lavoro, bisogna di continuo prenderne di
nuova, si consuma molto rapidamente.
«Devi usare il carbone, col carbone sei a posto» mi
ha consigliato mio padre la prima volta che è venuto.
«Cosa diavolo ti è venuto in mente di rintanarti qui?» è stato invece il commento di mia madre,
che credo non sia mai stata più di un’ora da sola in
vita sua. Prima è stata una figlia, poi una moglie,
poi una madre primipara, di Lara, che sarei io, poi
la mamma di Antonio, non cercato ma ugualmente amato, come si suol dire. Quando, intorno ai ses19
sant’anni di mia madre, anche lui è riuscito ad abbandonare il tetto familiare per andare a vivere da
solo, lei ha commentato, dopo aver visto casa sua:
«Io non vi capisco».
“Ma io da sola sto bene” mi dico, versandomi
il caffè. Il sole nel frattempo è salito un po’, alcuni raggi entrano nella mia cucina, lasciando un riflesso dorato sul tavolo di legno antico che io stessa ho risistemato.
«Ah, pure restauratrice sei, adesso?» mi ha detto
lei osservando i mobili quella prima e unica volta
che è venuta a trovarmi.
«La formica, la formica dovevi usare che non ti
porta le termiti» ha poi aggiunto. «Qui appena arriva l’estate, ti ritrovi tutto con i buchi.»
Il caffè è caldo e anche nella stanza si comincia
a stare meglio: con le stufe è così. Basta lasciarle
spente per un’ora e la casa diventa gelida, ma, appena le si accende, scaldano così rapidamente che
quasi viene voglia di aprire le finestre. Mi siedo al
tavolo, mi accendo una sigaretta e guardo verso
il posto in cui ti vedrò seduto fra qualche ora, al
massimo domani. Per un attimo mi viene paura,
penso che magari potresti aver deciso di non venire, ma no, prendo in mano la lettera che ti ho scritto: è perfetta, è una lettera di pace, di una che ha
smesso di fare la matta e non ti chiederà più di esserci solo per lei, non pretenderà più un’esclusi20
vità assoluta che forse ti soffocava. “Eccomi, sono
qui, per starti accanto, per amarti” penso mentre
assaporo la sigaretta.
Ma si è fatto tardi. E devo andare in paese.
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«No, ti prego, sto dormendo, non adesso.» Mi viene