FRANCO
CALIFANO
UN ATTIMO
DI VITA
a cura di
Antonio Gaudino
Paolo Silvestrini
con una nota introduttiva
di Vincenzo Mollica
Alla memoria di mio padre Salvatore,
che mi ha insegnato l’educazione,
l’umiltà, la saggezza e a non arrendermi mai.
E soprattutto al Maestro,
per la sua immensa poesia. (AG)
A Elena ed Elena. (PS)
“Io vivo perché domani
sarà il mio tempo migliore”
Ho sempre considerato Franco Califano un poeta e non solo
un cantautore, oppure un cantante, oppure un personaggio che ha
alimentato le cronache dai colori più variegati. L’aspetto più importante
per me erano i suoi versi, quelli con cui sapeva raccontare il suo vivere,
l’essenza dell’avventura umana. Ogni parola che ha scritto la sento figlia
di qualcosa che ha vissuto o delle emozioni che lo hanno attraversato.
Mi piacevano la sua voce piena di ruggine e il suo modo di cantare
irrituale. Le sue canzoni in forma di monologo, ma anche le altre, nel suo
cantare diventano pezzi di teatro. Sembrava che il suo poetar cantando
arrivasse dalle sorgenti che videro nascere la bellezza della poesia.
Una volta mi disse, con la sua ironia sanguigna, che il suo verso “Tutto
il resto è noia” aveva battuto per popolarità “M’illumino d’immenso”
di Ungaretti. E aggiunse: “Uno a zero!”. Questa piccola provocazione
lo divertiva immensamente.
Franco aveva un’umanità che avvicinava, e non si è mai posto sul
piedistallo del Poeta che allontana. Aveva un cuore grande e una simpatia
contagiosa. E anche quando era di cattivo umore lo salvava l’ironia.
Di guai ne ha passati tanti e li ha pure scontati, con vera dignità.
La sua scrivania era piena di fogli sparsi che riempiva quando aveva
l’urgenza di dire qualcosa. Tra i suoi orgogli, quello di aver ridato vita
alla canzone romana, la lingua che amava di più. L’ultima volta che
lo incontrai mi feci scrivere su un foglio i versi che preferisco, tratti
dal brano Un tempo piccolo che scrisse insieme ad Antonio Gaudino:
“Dipinsi l’anima su tela anonima”.
Il più bell’autoritratto che un poeta si possa regalare!
Vincenzo Mollica
Cantante, poeta, ma anche scrittore e attore, autore di brani
indimenticabili del pop italiano quali Minuetto, E la chiamano estate,
Un’estate fa, La musica è finita, Un grande amore e niente più e molte altre
ancora, Califano un bel giorno prese la decisione di cantare le sue
canzoni, di non darne più a nessuno, e sfornò La malinconia, Tutto il resto
è noia, Me ’nnammoro de te, Tac, fino ad arrivare al grande successo.
Un successo che trova le sue ragioni in una voce unica nel panorama
nazionale, in quell’aspetto da latin lover che faceva impazzire le ragazze
dei tempi e nell’ammirazione di tutti coloro che si sono riconosciuti
in quei versi nudi e crudi che sapevano raccontare l’amore, l’intensità
e il fallimento dei sentimenti.
Il personaggio, l’artista, il poeta Califano è stato e sarà irripetibile, perché
ci sono alcuni su questa terra che sembrano avere tutto: sono belli,
ispirati e hanno il dono di diffondere intorno a loro un po’ di quella
verità che è in dote ai saggi. Lui apparteneva di diritto a questa categoria
di privilegiati che riescono a condividere gioia, felicità, malinconia
e la voglia di vivere con tutti noi, e ogni canzone da lui scritta è un dono
insperato, un regalo inatteso per chi lo ascolta.
Franco ha conosciuto nella sua vita momenti di estrema sofferenza,
soprattutto per le vicende giudiziarie che lo hanno visto coinvolto,
nonostante ne sia sempre uscito con la fedina penale pulita. Spesso
ripeteva: “Ho la faccia del colpevole, quando serve un nome in qualche
inchiesta sono il primo chiamato a rapporto, anche se poi mi scagionano
perché il fatto non sussiste. Però la galera me la sono fatta…”. Per questo
non ha concesso sconti a nessuno, e al momento giusto, nel 1994,
ha presentato il conto scrivendo la sua “Avvelenata” contro giudici,
giornalisti e colleghi nel brano Razza bastarda, togliendosi ogni sassolino
(o macigno) dalle scarpe sul tappeto sonoro del funky scritto da Alberto
Laurenti. Per ritrarli, al passo coi tempi, ha scelto il linguaggio del rap
con versi che esprimono tutta l’amarezza di chi ha pagato ingiustamente
gli errori altrui, la malafede dei media e la presa di distanza dei colleghi.
Questo era Franco Califano, capace di testi intensi e meravigliosi come
Minuetto ma anche di graffiare mortalmente, con sferzante ironia, dopo
essere stato ferito per una vita intera.
Ascoltare “il Califfo” non lascia mai indifferenti. Del resto, come sarebbe
possibile? Il genio poetico si è incarnato in lui investendolo
di una missione, quella di essere interprete, ma anche autore, facendolo
diventare uno dei punti di riferimento della canzone italiana d’autore.
L’unica pecca, se così si può dire, è quella di non aver mai fatto una scelta
politica – quella dei cantautori del ’68 e del ’77 – e un prezzo l’ha
pagato, non c’è alcun dubbio. Califano è stato un indagatore dell’anima,
attraverso i versi poetici più delicati così come nei monologhi più crudi
sul sesso, sul rapporto uomo-donna, marito-moglie. Il risultato finale,
al netto di quanto fatto come autore per gli altri e interprete di se stesso,
è un’opera musicale in cui ha esplorato i sentimenti con sincerità
disarmante, sondando l’anima in profondità fino a dove solo alcuni grandi
come lui si sono spinti.
Pochi sanno che Franco Califano aveva una tecnica sopraffina, e se agli
inizi, nei primi anni Sessanta, non ne era consapevole e scriveva per
talento e istinto, in seguito è stato capace di sfidare i grandi della poesia
italiana: componeva in quartine endecasillabe, come nella Divina
Commedia, e usava gli stessi accenti utilizzati da Dante per comporre
i suoi versi. L’amico e compositore Alberto Laurenti tempo fa mi confessò
di aver composto Fori la porta (che vinse il Festival della Canzone romana
nel 1994) scambiando degli sms con Franco, tipo “309” e “709”. Alberto
mandava i numeri dei vari versi di Dante per consentirgli di scrivere il
testo senza ancora conoscerne la musica, poiché comprendeva la metrica
grazie ai versi della Divina Commedia. E, quando Alberto il giorno dopo
portò il provino finito, Franco non aveva idea di quale musica l’altro
avesse composto per i suoi versi, scritti nella solitudine notturna del suo
studio. Roba da brividi…
Qualcuno, sbagliando, ha pensato a Califano come a un personaggio
di Romanzo criminale; qualcuno ne ha fatto un’amichevole parodia
– in parte consentendo al vecchio tombeur de femmes un nuovo trampolino
di lancio –, forse senza sapere che stava imitando uno dei migliori poeti
della seconda parte del Novecento.
Questo poeta, che ha saputo svecchiare la canzone romana (e non)
portandola in tutto il paese con i suoi successi, ha fatto scrivere come
epitaffio sulla sua tomba il titolo della canzone scritta per l’ultimo
Sanremo a cui partecipò, Non escludo il ritorno. Ma, se mi è concesso,
ritengo che il titolo che sintetizza tutta l’opera del Maestro sia
certamente Tutto il resto è noia: è il suo manifesto esistenziale ed esprime
appieno il destino di un grande amatore consapevole di non poter restare
a lungo nei rapporti. Una canzone tanto bella che gli valse la laurea
honoris causa in filosofia all’Università di New York “per aver scritto una
delle più belle pagine della canzone italiana”, così recita la motivazione.
Prima di lui la stessa Università aveva conferito la laurea a Eduardo
De Filippo. E non è poco, se permettete.
Antonio Gaudino
Ho aperto una cartellina che da tempo chiudevo in un cassetto.
Sono molto ordinato, ma a volte metto così bene a posto le cose che
rispuntano fuori solo dopo anni. Sulla copertina c’è un’intestazione scritta
a macchina “Franco Califano, appunti vari”. Questa cartella contiene
brani in ordine sparso, testi di canzoni, pezzi d’interviste fatte anni
fa e mai pubblicate. Pensavo di avere meno cose che parlassero di lui
e invece ne trovo tante, forse troppe.
Apro qualche pagina e m’imbatto in una frase bellissima e allo stesso
tempo malinconica: “E questa notte Roma è tutta nera, nera, tutto
il disprezzo degli altri è falsa letteratura”. Poi trovo una foto del Maestro:
era così giovane che forse c’era da chiedersi chi era – domanda inevitabile
per riassumere una vita –, se era o se è mai stato felice. La risposta
equivarrebbe alla storia dei suoi amori e delle sue amicizie.
Amore e amicizia, si sa, comprendono tutto, anche se vissuti nel massimo
riserbo e, una volta scritta questa storia, forse non ci sarebbe più nulla
da aggiungere.
E, anche se è difficile, cercherò di descrivere gli incontri sporadici
e fugaci con Franco Califano, l’amicizia e la generosità che mi ha regalato
in quei momenti, intrecciando alcuni fili che cercano di oltrepassare
il velo del tempo.
Paolo Silvestrini
Un’intervista inedita
“Non mi fa paura la vita che passa
ma il tempo che non ritorna”
Mi dava sempre appuntamento dopo le quattro
di pomeriggio. Ad accogliermi in casa c’era Donatella,
sua grande amica e donna di fiducia, che mi faceva
accomodare su un divano in pelle bianca.
D’improvviso scendeva lui, si sedeva vicino a me
su una poltrona nera e mi salutava con un sorriso
sornione. Durante il discorso era inevitabile guardarsi
attorno e fissare lo sguardo su qualche foto di quand’era
giovane. Lui commentava: “Mi piace vedermi ritratto
qua e là per casa, hai visto quant’ero bello?”. (PS)
Se ti dovessi definire con un aggettivo.
Un uomoartista – tutto attaccato – direi.
Perché?
Io sono un uomo che va a cercare di rivivere le cose belle della vita e poi
le riferisce all’artista, che sono sempre io e che, a sua volta, le trascrive
per gli altri.
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UN ATTIMO DI VITA
UN’INTERVISTA INEDITA
Cosa si nasconde dentro di te?
E cos’altro?
Una persona sensibile e romantica, generosa, buona e coraggiosa.
Non lo hai notato? La bellezza. A vent’anni ero bello, di una bellezza
inquietante. Guardami adesso: il tempo fa sfaceli, fa stragi.
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La vecchiaia ti può toccare?
Sì, da giovane eri proprio di una bellezza sfrontata.
No, assolutamente no, non mi interessa proprio la vecchiaia. Neanche ne parlo
mai. Non fa parte del mio vocabolario.
Secondo te chi è il miglior cantautore?
I francesi: Charles Aznavour, Georges Brassens, Renaud… Léo Ferré.
Insomma questi.
Come cantautore sei diverso, non hai mai cantato la politica.
No, io no. Perché dovrei cantare la politica? Prendere un giornale e trascrivere
su una musica sette righe che leggo su un quotidiano… no, non mi interessa.
Le canzoni politiche non lasciano traccia.
Che ricordo hai di Mina che ha cantato i tuoi pezzi?
Con lei ho un rapporto di amicizia, mi piacerebbe vederla, ma so che è difficile.
Ma no, la vivevo in maniera giusta e non mi sono mai atteggiato, lasciavo
fare agli altri. La bellezza, i fotoromanzi, i film che giravo… se non ci fosse
stata di mezzo la galera sarei potuto diventare un grande attore
internazionale, ero l’unico con la faccia giusta per andare negli Stati Uniti.
Ti invidiavano per questo i tuoi amici?
A qualcuno non stava bene. Allora se ne andava. O si riprendeva la donna,
se era la sua. Ma io non ho dato mai fastidio e non attaccavo briga.
Sei diventato personaggio anche per quello che la bellezza si porta
appresso.
Non lo rinnego il personaggio, anzi, ci sono affezionato, ma mi stanca parlare
solo di lui. Però poi capisco le donne, il playboy belloccio, magari artista,
un po’ poeta, sciupafemmine e guascone le diverte. Diverte molto anche me,
quando ci ripenso.
Tutto il resto è noia: che cos’è tutto il resto?
Non puoi abbandonarlo per strada, il personaggio, sarebbe un peccato.
Tutto quello che non è vita.
Qual è il tuo primo ricordo di infanzia?
La fuga dal collegio. Avrò avuto undici anni. Mi ci avevano mandato i miei,
perché non c’erano soldi per tenerci tutti in casa, ma la notte c’era sempre
qualcuno che mi infilava le mani sotto le lenzuola. Io li mandavo via, finché
una volta ho aspettato sveglio e ci ho affondato un coltellino. E poi sono
scappato, ritornando a casa da mamma e papà, che hanno capito.
E portiamocelo appresso, purché non appanni le belle canzoni che ho scritto.
Sono un po’ ingrati quelli che le hanno cantate, ma non sono qui
a recriminare. Facciamo così: considerami un “uomoartista”– e scrivilo per
favore tutto attaccato – dal quale è uscito questo personaggio che ha cominciato
a vivere per conto suo e poi ha riportato al cuore del poeta le sue esperienze
e il poeta ci ha scritto sopra le canzoni. Ricordati di ricordarmi.
(da un’intervista rilasciata a Paolo Silvestrini, 19 dicembre 2011)
Sul filo dei ricordi
“Uno come me deve dissiparsi in tante donne
proprio perché ne cerca continuamente una sola”
I testi che seguono sono tratti da un libro mai pubblicato
che avrebbe dovuto chiamarsi Solo sino al capolinea.
Nel titolo è già racchiusa la cifra della vita di Franco
Califano: la solitudine, autentica compagna di strada,
la fedele amica che non l’ha abbandonato fino all’ultimo
istante. Malinconico, rabbioso, appassionato, il Califfo
ha sempre camminato da solo. Fino al capolinea. (PS)
Ero un artista particolare, che poteva servire a qualcosa: una pagina
di esperienza di vita, un attimo di vera passione, minuti di sincera
confidenza… In fondo la vita è un letto, dove bisogna centrare almeno
un terno, presto e bene… Le donne, del resto, mi hanno voluto sempre dare.
Difficile è accettare. L’ho imparato a mie spese. Il prezzo è sempre agguantare
a loro piacimento. Diventare loro schiavo, è troppo facile…
Luigi Tenco mi trovò in mezzo alla strada che bevevo la pioggia con la
bocca spalancata! Con pochi passi mi sarei riparato sotto una galleria, ma
non sarebbe servito a niente. Luigi restò con me sotto l’acqua. Saremmo rimasti
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UN ATTIMO DI VITA
là chissà per quanto tempo, forse saremmo affogati perché ne avevamo voglia,
se non fosse arrivato il sole a schiarire il tutto, improvvisamente. Un sole
inutile, che asciugava la pioggia di due poveri artisti, forse coglioni, forse
poeti fuori dal tempo. Luigi aveva la faccia dura da condottiero, gli occhi
spiritati di un cucciolo affamato di carezze. Parlava poco con me, e come me
s’interrompeva di frequente. Sapevamo che i silenzi a volte valgono più dei
discorsi e così finimmo per capirci a sguardi.
Ci vedevamo spesso, ci facevamo delle lunghe telefonate per non sentirci
soli, mentre il tempo lavorava a fuoco il suo spirito e travolgeva la sua mente.
Non vidi più neanche lui. Si era stufato di fare a schiaffi col suo presente,
e un giorno ha voluto perdere… ma poi chissà se ha perso… certo è che
un’altra parte di me cadeva nel vuoto.
All’epoca, era la metà degli anni Cinquanta, le ragazze non la davano
facilmente. Poi magari capitava che riuscivi a scappare per un’ora, durante
il pomeriggio, per andarti a fare una bella pomiciata sotto Monte Mario.
Non sapete quante me ne sono fatte, fra i prati dove adesso hanno costruito
il tribunale. Furono quelli gli anni in cui diventai “il Califfo”, proprio perché
tutte le donne ce le avevo io… della Dolce Vita è stato detto un po’ di tutto,
di come un Paese che stava rinascendo volesse buttarsi alle spalle il proprio
passato più brutto e gridare al mondo: “Ho vinto!”. C’era il benessere, c’era
la voglia di divertirsi e c’era lo star system: e i paparazzi erano pronti
a fissare ogni momento della nostra sbornia, testimoni di attimi per cui chiunque
su questo pianeta avrebbe voluto dire: “Io c’ero”. Ma io c’ero davvero…
Io, Renato Speziali, Gianfranco Piacentini, Beppe Piroddi, Franco
Ripetti, Maurizio Arena, Renato Salvatori, Gigi Rizzi, Beppe Ercole
e pochissimi altri eravamo i cosiddetti playboy, quelli veri… belli come il sole,
amati dalle donne e invidiati dagli uomini…
I miei errori sono il risultato di una sciagurata infanzia.
C’è a chi capita l’infanzia con le case piene di giocattoli, chi va in giro
con i vestitini di velluto, a fare il doveroso pellegrinaggio da parenti
e conoscenti, e ci sono invece i bambini trovatelli. Io sono suppergiù uno
di quelli. A otto anni fui rinchiuso in un collegio ad Amalfi…
Poi mi trovai a Roma, un posto più accogliente… allora c’era mio padre,
SUL FILO DEI RICORDI
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che per me era tutto. A mio modo l’ho amato così tanto da non riuscire
ad amare più… mio padre, che nelle mie convinzioni doveva restare sempre
giovane, morì a trentotto anni, lasciandomi diciottenne.
La prima volta che mi misero le manette provai molta pena per me,
disprezzo per il resto del mondo e vergogna per la memoria di mio padre…
io stavo pagando il mio esibizionismo, la mia poltrona in prima fila, la mano
tesa che non ho mai ritrattato dopo avere lanciato il sasso. Uno come me era un
odioso, un superficiale, un montato, uno scomodo, uno difficile, uno insomma
che andava punito perché parlava chiaro e non aveva bisogno di nessuno.
Io stavo pagando il successo che avevo e la mia faccia tosta, altro che droga.
Il casino cominciò tutto con una telefonata. Una sera mi chiama
Roberto Ruggiero, mio amico e avvocato di fresco e mi fa: “Franco, ti cerca
Squillante…”. “E chi è? – dico io – un cantautore nuovo?”. “Non scherzare
– insiste Roberto con tono serio e preoccupato – è il giudice che istruisce la
faccenda della droga, dove sono implicati Lelio Luttazzi e Walter Chiari”.
Trenta giorni sono tanti e sono pochi. Fuori di galera sono un attimo
di vita, dentro sono secoli infernali, anche se i condannati o quelli che sono
in attesa di giudizio si arrangiano come possono, inventandosi rimedi di ogni
tipo. “Cara mamma, il fattaccio della droga è un gran colpo che mi servirà
per arrivare al successo…” continuavo a scriverle. Quando finalmente
ci riabbracciammo le dissi: “Hai visto? Il gioco è finito… sono tornato.
Adesso vedrai che ti combino!”.
Chissà perché ora mi sale alla mente questo dubbio! Chissà perché
mi ritornano in mente le belle donne, stupide, importanti, fragili. Ne ho avute
di donne, ma non so se mi hanno amato veramente! Ne ho avute tante per
gioco, per malinconia, per rabbia. Anni fa, più mi sentivo estraneo a questo
mondo più cercavo nel letto di una donna il senso meno ingiusto e sprecato
dei miei sogni. Le donne sono entrate nella mia vita non come amore, ma come
proprietarie di un letto nel quale passare una notte al caldo.
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