PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 7-03-2007 11:22 Pagina 87 I Monsieur del futuro NEL NOME DI MIO FIGLIO [ DI G I A N L U C A T E N T I - F OTO D I C R I S T I N A N U Ñ E Z ] PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 7-03-2007 11:22 Pagina 88 PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 7-03-2007 11:22 Pagina 89 I Monsieur del futuro c Per me la famiglia è un punto fisso nell’Universo C’è un’espressione che evoca in me il ricordo di una piccola parete di radica, fiorita di pois, linee regimental e graziosi animaletti in una selva di lane, in un mare di cotone: «Talis pater, talis filius». Quando lo stile lo facevano le piccole botteghe dei sarti, le forbici, il gessetto, quando le tomaie erano tagliate a mano sotto i tuoi occhi e l’odore della colla era profumo per gli astanti (un po’ come quello della stampa nelle tipografie). Nel rito quotidiano del nodo alla cravatta, osservato con curiosità e sete di scoperta da un bimbo che calza una scarpa del babbo, si rinnova quel legame che ha cucito le generazioni dalla notte dei tempi. È un’eredità del passato, ma nel contempo una proiezione nel futuro. E richiama al ruolo di padri e figli nel grande gioco della vita. Apro così l’armadio dei ricordi che riaffiorano davanti a un’immagine di timeless elegance. I creativi di Patek Philippe su questo concetto hanno realizzato una pubblicità che è il sale della vita: padre e figlio nella stessa identica posizione, l’uno proiezione dell’altro. Un po’ come ha fatto, in un camminamento di generazioni l’italiano Valentini. Un po’ come ciascuno di noi culla gelosamente nei frammenti di memoria e come, in fondo, auspica sognando il futuro. «Nel nome del padre e del figlio» potrebbe titolarsi questo articolo. Non che voglia sminuire il ruolo fecondo e solare della «mater», ma se penso all’arte di tramandare valori, complicità ed essenza, credo che all’uomo continui a spettare la responsabilità del vecchio «pater familias». Anche se i soliti esperti sostengono, secondo la pubblicistica corrente, che proprio questo ruolo sarebbe quello più in crisi nella società contemporanea. Ora è un fatto che in questa società a essere in crisi sia per prima la famiglia trasformata (prim’ancora che da certi disegni di legge) dal caotico rincorrere una presunta felicità perduta, in un’unione tra due persone che scoprono, magari dopo vent’anni di convivenza, di non conoscersi affatto. E proprio da questa incertezza di fondo deriva la generazione dei figli cui troppo spesso viene trasferito un surrogato di affetto, frainteso nella generosità di oggetti donati e nella licenza di un’autogestione di tempi e libertà che produce a sua volta un’ulteriore dispersione del senso delle cose, ma soprattutto della vita. E invece, se la natura è stata generosa, non c’è niente di più stimolante, di più appagante che coltivare con cura quella pianta delicata che è un figlio. Una sfida. Una prova suprema, difficile. Che produce un esito, uno e uno solo: i figli come risultato della propria esistenza. Aristocratici, capitani d’industria, borghesi, LA GIOIA SEMPLICE MA INCONTENIBILE DELLA PATERNITÀ SI MANIFESTA IN TUTTA LA SUA FORZA EVOCATIVA NELLO SGUARDO RAGGIANTE DI GUGLIELMO MIANI, 30 ANNI, AMMINISTRATORE DELEGATO DI LARUSMIANI, QUI FOTOGRAFATO CON IL FIGLIO LEONARDO NELLA LORO CASA AFFACCIATA SUL LAGO DI COMO. 88 APRILE 2007 operai. Tutti siamo uniti da una missione, indicata con saggezza da John Adams nell’anno di grazia 1786: «Devo studiare la politica e la guerra, in modo che i miei figli abbiano la possibilità di studiare la matematica e la filosofia, la navigazione, il commercio e l’agricoltura, per poter fornire ai loro figli la possibilità di studiare la pittura, la poesia, la musica e… le porcellane». Ce lo ricorda Donatella Sartorio, autrice di un volume dal titolo Young Italian Gentle Men (per Valentina edizioni, con fotografie di Cristina Nuñez). Ce lo ricorda nell’introduzione di questo suo lavoro, nato con un obiettivo: «Riuscire a fermare in un libro la voglia di un gruppo di persone perbene: dimostrare che oggi nella generazione dei 3040enni esiste una caratteristica non rara, ma poco visibile, e giustamente maschile, che rende alcuni di loro diversi, anzi opposti ad altri che appaiono vincenti». Concetto complesso, esigenza di far capire che «l’eleganza esteriore, se autentica, coincide sempre con quella interiore». Che «il denaro può essere valutato in maniera intelligente e non ossessiva, che le relazioni possono sopravvivere secondo il principio dell’accettare e del restituire, che la nobiltà d’animo non dipende solo dall’educazione né dai privilegi». E giù con una selezione di caratteri che rifuggono dal plotone dei soliti noti (e questo è senz’altro un merito dell’autrice) che brillano nei loro gessati, in barca, in ufficio, davanti a uno specchio ad annodarsi la cravatta, immersi nella natura e nell’armatura. Altra cosa rispetto al tornaconto commerciale di altre pubblicazioni, pronte e prone a raccontare la dinastia dei «figli di». Al tempo: non che siano ignoti i protagonisti di questa ricerca. Anzi. Solo che prediligono la qualità della vita all’apparenza del successo comunemente noto. Ma esprimono, tutti, la ricchezza più sublime. I figli. Che sono sì «piezz’e core» come insegna Eduardo, ma sono soprattutto la somma delle nostre scelte. Ecco allora che il rapporto padre-figlio torna di prepotente attualità. Anche se c’è chi non tarda a fotografare una realtà ben più amara del sogno. È l’aggiornamento di Luigi Zoja con il suo Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri editore, Torino). Una lunga ricerca anche questa. Antropologica, mitologica. Dalle Grandi Madri del passato al patriarcato descritto «in decadenza». È un altro libro interessante, che affronta l’evoluzione della figura del Padre nella storia, nella cultura, «dal mito di Ulisse con la sua responsabilità familiare, a quello di Ettore, la cui anima “femminile” e paterna si svolge accanto alle virtù militari». «PIÙ UNA PERSONA CREDE NELLA VITA, PIÙ LASCIA QUALCOSA DI SÉ ATTRAVERSO I FIGLI». PER LUIGI ORLANDO, 40 ANNI (SOPRA, CON LEOPOLDO E FILIPPO), DIRIGENTE DEL GRUPPO METALLURGICO KME, LA PATERNITÀ È IL MODO SUPREMO PER TRASMETTERE I PROPRI VALORI. ORLANDO HA ANCHE UNA FIGLIA, CARLOTTA. APRILE 2007 89 PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 7-03-2007 11:24 Pagina 90 PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 7-03-2007 11:25 Pagina 91 I Monsieur del futuro r Se riesci a tramandare il senso di lealtà, hai reso onore al ruolo di padre Ritengo che il rapporto privilegiato, rispetto al comune sentire, resti però quello tra un padre e un figlio maschio. Perché l’amore per la prole si moltiplica esponenzialmente per figli e figlie (senza distinzioni), ma è pur vero che molti aspetti del vivere quotidiano appartengono necessariamente alla emulazione-competizione che si crea tra appartenenti allo stesso sesso. Come altro considerare altrimenti il trasferimento di emozioni che trasmette un vecchio guardaroba? Le giacche allineate, le camicie che profumano di nitore, la parete con le cravatte che scendono come cascate di colori e disegni, le scarpe vissute. Ma anche le letture, certe complicità nel raccontarsi le avventure amorose, le conquiste della vita. Il piacere di assaporare una saggezza fatta riposare per anni in un Glen Avon di 25 anni. Il Cohiba fumato sulla terrazza aperta al mare. Una battuta di caccia. La sempiterna, virile, partita di pallone. Sono pertinenze dell’essere, non dell’apparire. È un rapporto privilegiato, che richiede tempo per maturare. Ma rimane l’unica strada per costruire un futuro che non può essere delegato. E per questo richiede dedizione e sacrificio. Ma fare un figlio non è un obbligo. «Non sai mai chi ti metti in casa», come ebbe a dire il grande Indro Montanelli, che aveva ragione, dal suo punto di vista. Osservo l’Italia di oggi. Vedo i giovani sbandare. Sfarsi con bombe alcoliche servite da coetanei che si improvvisano dietro a un bancone e non conoscono neppure l’abc del barman. Li vedo disintegrarsi tra droghe sintetiche e una cocaina che ormai si vende al prezzo di un pacchetto di figurine. Vedo crescere pericolosamente il branco, non la compagnia come usava qualche decennio fa. Vedo attecchire la violenza ovunque: le botte a un giovane portatore di handicap, lo stupro di gruppo, la guerriglia contro chi, lavorando, veste la divisa. Vedo aree urbane trasformate in zone franche dove tutto è lecito al di fuori delle leggi e del rispetto per gli altri. Vedo tutto questo e non mi piace affatto. E se ricerco una responsabilità in questo decadimento la trovo nella famiglia che non dialoga (o non lo fa con la fermezza necessaria). È questa la base della società, il nucleo fondante. Solo che oggi la famiglia si riscopre svuotata di valori. Con genitori troppo vocati al carrierismo o al successo personale (non parlo certo di chi lavora sodo per necessità), con tempi sempre più contingentati da dedicare alla prole, con l’effetto-delega di un affidamento ai nonni (dove possibile), che sono diventati «nonni di nuova generazione» e viziano invece che tramandare antichi saperi. Fi- nisce così che i figli, invece di tirar calci a un pallone all’oratorio (un tempo anche quando pioveva), si sfidino sì a calcio, ma alla Playstation, privandosi così di quello spirito di gruppo che ha formato intere generazioni. E non valga qui il discorso dell’offerta televisiva scadente o dei giochi violenti davanti al video nei pomeriggi degli studenti, perché vorrei sapere chi deve controllare i figli: chi compila un palinsesto commerciale e programma il file dei videogame o, appunto, i genitori? Poi mi rendo conto anche di un altro fatto: la nostra società è minata alle basi da una scuola che non prepara alla vita e alla competizione. E non è solo una questione di filmati su Internet, di «prof» sorprese in classe con adolescenti o di insegnanti uomini che entrano in classe con i tacchi alti e di maestre che tagliano la lingua ai bambini: questo è circo! Il problema è più complesso e coinvolge ideologie, anarchie... No, quello che serve è un richiamo ai valori. A questo proposito mi torna alla mente un bel servizio giornalistico. Qualche numero fa, Franz Botré ha pubblicato un pezzo sulla Scuola Navale Militare Morosini, dove una leva di cadetti si prepara ad affrontare non solo i mari, ma la vita. Seguendo una ferrea disciplina, uno spirito di corpo, un’educazione rigida e solenne. Lo ha fatto per raccontare un mondo nel quale muove i propri passi il figlio, Alessandro. Conosco Franz e mai favorirebbe col suo amore una delle due anime della progenie: so quanto ama Cecilia. Ma quell’articolo era davvero interessante. Non la solita marchetta di cui pure una certa stampa vive. Raccontava l’essenza di valori che sono scolpiti nel Dna dell’amico Franz, abituato a trattare ogni materia con la franchezza che lo contraddistingue. Rimasi piacevolmente colpito da quel servizio. Mi fece tornare alla mente quanto educativo fosse anche il servizio di leva, che insegnava la disciplina, imponeva le punizioni (non parlo degli eccessi di nonnismo), ma soprattutto aiutava i giovani a convivere con i coetanei e a rispettare l’altro indipendentemente dal grado. Era, a suo modo, un’altra scuola di vita. Anche se fatto da raccomandato, quantomeno t’insegnava a rifarti il letto e a tener puliti anfibi e divisa. Penso a questo mondo che non c’è più. E penso alla formazione delle future generazioni di uomini. Alle scuole all’estero dove, non a caso, vanno a studiare i figli delle migliori dinastie. Qui imparano a condividere con giovani provenienti da tutto il mondo le esperienze di studio e le scoperte del vissuto. In quei campus che ancora difettano in un’Italia ricca di baronie universitarie e lezioni-assembleari. Da noi non c’è educazione ENRICO HINTERMANN (IN ALTO A SINISTRA), 37 ANNI, DIRIGENTE NELL’AZIENDA CARTOGRAFICA DI FAMIGLIA, CON EDOARDO E SOFIA: «SI IMPARA SOLO DALL’ESEMPIO», DICE. A DESTRA, TITO CANELLA, 37 ANNI, ARCHITETTO, COL PICCOLO CLEMENTE: «VORREI FARGLI CAPIRE IL VALORE IRRIPETIBILE DELLA VITA». 90 APRILE 2007 al bello. Non c’è abitudine al gusto. Non c’è rispetto. Ma anche se gravi responsabilità le ha il mondo della scuola, l’errore primordiale resta quello della famiglia. E chiama direttamente in causa proprio i genitori e in particolare l’uomo. Mi ritrovo così a fantasticare su mio figlio, Francesco, che già a due anni prendeva la sua seggiolina gialla per mettersi all’altezza dello specchio e giocava a farsi la barba assieme a me. O, crescendo, a volersi fare il nodo della cravatta. Sono piccoli gesti quotidiani che riempiono la vita. E rinnovano quel legame tra padre e figlio di cui stiamo parlando. E anche se non è replicabile l’immagine hollywoodiana di un padre che davanti a intere vallate cinge il figlio sotto il braccio e gli dice: «Vedi, tutto questo un giorno sarà tuo», mi è venuto spontaneo immaginare quale sarebbe il più bel dono da fare al mio di figlio (se la natura mi concederà di seguirlo nei suoi passi), che non vive in villa, non ha il maggiordomo e nemmeno una collezione di auto storiche o case sparse per il mondo. Vorrei essere capace di donargli quella che considero la vera ricchezza dell’uomo. Il senso di lealtà e correttezza, il rispetto per gli altri nel rispetto prima di tutto per se stesso. Il bagaglio di conoscenze. L’opportunità di fare la propria scelta di vita dopo aver potuto ascoltare il lungo racconto di un mondo in costante mutamento. Non so se saprò esserne capace. Certo, cercherò di non proteggerlo in un vaso, magari raffinato, di ovatta. Ma spero di riuscire a raccontargli che l’ignoto futuro è lo stesso solcato dai nostri padri. Che dietro a ogni abito, corazza del quotidiano c’è una ricerca e una cura. Che una cravatta è un’elegante appendice dello stile. Che si è eleganti con un maglione di cashmere come con un jeans, purché quello sia il proprio sentire. E già che parliamo di vestire torno indietro nel mio ragionamento. Vedo i giovani ormai omologati col jeans venduto già pieno di tagli (più facile comprarle quelle sdruciture, che procurarsele), li vedo tutti uguali e senza il desiderio di dedicarsi alle raffinatezze di una scelta davvero indipendente rispetto a certe vetrine. Anche in questo caso mi domando dove i padri difettino: non che debbano imporre uno stile, ma certo hanno il dovere di iniziare il figlio all’eleganza. A un’eleganza che non è la pochette, ma una forma di rispetto verso gli altri e soprattutto verso se stessi. Un po’ come certe letture e in particolare il gusto per quelle letture. Un po’ come accompagnare il figlio a teatro e fargli scoprire che non ci sono solo i reality o i presunti vip a far parte del variegato universo dello spettacolo. O come far ascoltare un brano di musica classica e non solo l’ultima suoneria del telefonino. Far riscoprire i sapori di una volta, una tavola anche semplice, una belle fetta di pane con olio e sale, un pomodoro pigiato con le mani, e non solo il microonde. Far visitare un museo e non solo camminare per far shopping. È questa l’educazione alla vita. Vorrei dire a mio figlio che le mode passano, ma certe scelte (così come certi errori) restano. Che la protesta, per aver ragion d’essere, deve necessariamente venire abbinata a una proposta. Che aveva ragione Richard Kipling quando scriveva: «Se riesci a conservare il controllo / quando tutti intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa; Se riesci ad aver fiducia in te quando tutti / ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio; Se riesci ad aspettare e non stancarti d’aspettare / O se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne / O se odiano, a non lasciarti prendere dall’odio / Se riesci a parlare con la folla e a conservarti retto / E a camminare coi Re senza perdere il contatto con la gente / Se non riesce a ferirti il nemico né l’amico più caro / Se tutti contano per te, ma nessuno troppo; Se riesci a occupare il minuto inesorabile / dando valore a ogni istante che passa / Tua è la terra e tutto ciò che è in essa / E, quel che è più, tu sarai un Uomo, figlio mio!». Perché un figlio non ha bisogno di soldi che compensino il vuoto di un rapporto. Non ha bisogno di griffe se non si è procurato prima qualche graffio. Un figlio ha bisogno di capire i valori della vita, l’educazione, ha bisogno di studiare per prepararsi al lavoro. Ha bisogno di crescere in un ambiente di franca armonia. Ha bisogno di entrare in un’azienda, partendo dai gradini più bassi, facendo esperienza prima di entrare nella sala dei bottoni. Ha bisogno di capire se il cammino che immagina è adatto alle sue caratteristiche, non di subire ciò che il padre ha disegnato per lui. Ha bisogno di amore, anche quando questo lo costringe a rimettersi in discussione. La certezza della vita deriverà allora dalla consapevolezza che solo una somma di errori, poi corretti, porta alla soluzione. Non è retorica. È vita. IN ALTO, A SINISTRA, PIERO MARANGHI, 37 ANNI, IMPRENDITORE, A PASSEGGIO CON LA FIGLIA MADDALENA. AL CENTRO, L’INDUSTRIALE TESSILE BEPPE BELLORA (40 ANNI): HA TRE FIGLIE, ISABELLA, ANGELICA E CAMILLA. A DESTRA, KEAN ETRO, 43 ANNI E QUATTRO FIGLI (ALICE, JOYCE, SWA NN E GEROLAMO). APRILE 2007 91 PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 7-03-2007 11:25 Pagina 92 PADRI E FIGLI_bis_mago_CR 12-03-2007 12:32 Pagina 93 I Monsieur del futuro Senza genitore un bambino resta senza identità LE ORIGINI DEL PADRE? SONO DIETRO UNA CORAZZA Una domanda capitale per i genitori di sesso maschile: vi siete mai chiesti che padre siete o che padre vorreste essere? Se il dubbio vi attanaglia, il libro Il gesto di Ettore - Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (Bollati Boringhieri editore, 25 euro), di Luigi Zoja, psicoanalista di fama internazionale, può esservi utile. Si tratta di un contributo alla comprensione della figura del padre e del suo ruolo, così come si è sviluppato durante i secoli della storia umana, mettendone in luce il significato psicologico. Il titolo del libro si riferisce a un momento dell’Iliade in cui Ettore va ad abbracciare la moglie Andromaca e il figlio Astianatte sulle mura di Troia, prima della battaglia fatale con Achille. Nel momento in cui Ettore si volge verso il figlio per prenderlo dalle braccia della madre, il bimbo scoppia a piangere. Ettore si accorge che è stato spaventato dal suo elmo, e quindi lo toglie. La novità, soprattutto metaforica, è tutta in questo gesto. Ettore, infatti, si mostra al figlio come uomo comune, come essere fragile, e la corazza assume un valore fortemente simbolico di indumento che protegge, ma sbarra la strada alle emozioni. Togliersi l’elmo significa, dunque, aprirsi alla relazione. Secondo Zoja, pertanto, all’origine del rapporto tra padre e figlio ci deve essere un atto di riconoscimento: l’autore ha sviluppato la sua analisi utilizzando, con frequenti citazioni, la descrizione dei padri presentati nella letteratura di tutte le epoche. Per cominciare, viene fuori che il padre non è una figura naturale della specie umana. Lo studio dei nostri cugini primati, come orango, scimpanzé e gorilla, lascia supporre che agli albori dell’umanità le femmine avessero una funzione qualitativa, dato il numero limitato dei discendenti che ognuna di esse poteva generare, mentre era propria dei maschi una funzione quantitativa che era però prerogativa dei più forti, gli unici che si accoppiavano con le femmine del branco. Zoja ci rammenta che la vita della maggior parte dei nostri progenitori maschi era «caduca quanto quella di una foglia di insalata» e aveva, per quanto riguardava la continuità della specie, lo stesso valore dei loro spermatozoi: nulla. Nel codice dell’antichità, invece, il bambino che restava senza padre rimaneva anche senza identità. Nel tempo, famiglia e società sono diventate una cosa sola: dunque, senza padre si era anche tagliati fuori dal «civile consesso», fino a scomparire dal punto di vista sociale. Oggi, invece, l’immagine del padre si è rarefatta. Per Zoja, è rappresentata dall’immagine dell’assenza. Il padre contemporaneo è assente non perché, come Ettore, è andato a combattere una guerra, ma perché non affronta il suo ruolo e il rapporto che ne deriva. Un esempio: il padre che c’è nel corpo ma non nello spirito, perché è «separato in casa». Al padre, ancora più di quello che ha fatto, viene oggi addebitato quello che non ha fatto e non ha detto. Il figlio dell’era industriale non vede e non conosce le attività del suo genitore maschio, non ha più nella sua esperienza un’immagine diretta dell’adulto che sostiene la famiglia. Eppure, conclude Zoja, i figli hanno bisogno del padre: perché favorisce la crescita, la differenziazione e l’autonomia, e dunque la definizione dell’identità. Per questo, al contrario del sottotitolo del libro, il padre non scomparirà mai. Forse. (M.B.) A L E S SA N D R O D E L B O N O ( S O P R A ) , 4 0 A N N I , C EO D E L L A M E D I O L A N U M FA R M AC E U T I C I , C O N I F I G L I A M I R A E R I N A L D O . « A N OV E A N N I PA P À M I P O RT Ò DA L S U O SA RTO P E R FA R M I P R OVA R E U N A G I AC CA C O M E L A S UA » , R I C O R DA , « C O S Ì , DA A D U LTO , M I È S E M B R ATO N AT U R A L E C O N T I N UA R E C O N I L S U - M I SU R A » . 92 APRILE 2007 L ’ AV V O CATO F R A N C E S C O D ’ U R S O , 41 A N N I , AC C O M PAG N A A S C U O L A L A F I G L I A CA R O L I N A . « V O R R E I T R A S M E T T E R L E VA LO R I E T I C I C O M E I L R I S P E T TO P E R L A N AT U R A E L A L E A LT À » , D I C E . L E I M M AG I N I D I QU E S TO S E RV I Z I O S O N O T R AT T E DA L L I B R O « YOU N G I TA L I A N G E N T L E M E N » ( VA L E N T I N A E D I Z I O N I ) . APRILE 2007 93 PADRI E FIGLI_ultima doppia_CR 7-03-2007 13:56 Pagina 94 PADRI E FIGLI_ultima doppia_CR 7-03-2007 13:57 Pagina 95 I Monsieur del futuro IN PUBBLICITÀ IL PADRE NON È PIÙ LO STESSO s www.henrycottons.it Valori da trasmettere da una generazione all’altra: ecco il rapporto coi figli visto dai creativi «Uno dei primi obiettivi della Secondo Maurizio Sala, vicepubblicità, d’altra parte, è quelpresidente e direttore creativo lo di generare empatia con il dell’agenzia di pubblicità Arpotenziale consumatore: il comando Testa (quella di Carinvolgimento è necessario. Quemencita, giusto per citare un suo sto modello, inaugurato da Volgrande successo), lo spartiacvo, è stato poi applicato nelle que risale all’anno 1979, ed è relazioni padre-figlio, con un rappresentato da una rivoluzioelemento supplementare: quelnaria campagna di Volvo Amelo della trasmissione dei propri rica. Per la prima volta in una valori di uomo, oltre che di papubblicità, il ruolo del padre pà. Senza complicità, la figura viene rafforzato e modernizzapaterna apparirebbe incompleto. Da austero diventa compliDI MARCO BASILEO ta». I risultati di una ricerca ce, passando da classico a conrealizzata dalla facoltà di Scientemporaneo, da educatore a ze linguistiche per la comunicazione e l’impresa dell’università Catconfidente. Lo scenario è quello di una villetta della campagna ametolica di Milano confermano questa tesi: da alcuni anni la figura paricana. Tutto comincia con un ragazzo che parcheggia e smonta da un terna ha subito modifiche sostanziali in ambito sociale e pubblicitaimprobabile catorcio, la sua automobile. Sorridente, si avvicina alla porrio: dopo essere stata sottovalutata per lungo tempo, si è riappropriata d’ingresso della villetta e suona il campanello. ta del suo ruolo nella crescita sociale della prole. «La causa principaApre la porta un uomo serio, che lo guarda di traverso. Alle sue spalle le», si legge sulla ricerca, «potrebbe derivare dalla situazione demoentra in campo una ragazza, sua figlia: evidentemente, è la fidanzata del grafica italiana: secondo l’Istat, l’età media del padre al primo figlio giovane che attende all’uscio. Il padre li osserva mentre si allontanano si è alzata dai 26,7 anni del 1991, ai 35,6 anni del 2005. Se prima si insieme, felici, verso il catorcio. Comincia a piovere, ma la capote deldiventava genitori in una fase di non completa maturità, nella sociela macchina del ragazzo sembra sfondata. Così, il padre lo chiama, mettà odierna i “neobabbi” hanno un’identità ben definita e duramente conte una mano in tasca e gli lancia un mazzo di chiavi: «Take my Volvo», quistata. Ecco, allora, perché delineare una figura che possa essere padice. «Prendi la mia Volvo». Fine dello spot. «Oggi sembra un comdre, marito e soprattutto uomo, con i suoi desideri e il suo bagaglio di portamento ordinario», spiega Maurizio Sala, «ma dobbiamo consideesperienze e valori da trasmettere». rare la grande valenza simbolica di questo gesto: il padre non gli cede Un concetto raccolto e sviluppato in celebri campagne pubblicitarie, cosolo la macchina, ma passa la sua esperienza. Non è poco: il ragazzo esce me, giusto per fare qualche esempio, quella di Valentini, che punta sul con, presumiamo, la sua unica figlia. L’esito dell’incontro romantico popayoff «Modelli da seguire», mostrando un bimbo che, appunto, segue trebbe essere quello che immaginiamo, perché questo vissuto appartiesuo padre e suo nonno sulla strada dello stile. Anche se, in fatto di apne anche al padre. Che non esita a impegnarsi personalmente, grazie alplicazione del modello inaugurato da Volvo nel 1979, è fondamentale la sua esperienza, per rendere più confortevole la serata dei ragazzi. Pecitare la campagna di Patek Philippe, che mette un punto conclusivo al raltro, si rivolge al maschio. Come per una paterna, ma anche complitema, affermando che «Le cose che si amano di più non si posseggono ce, strizzata d’occhio. Un messaggio molto forte». Era un modello mai mai veramente, semplicemente si tramandano». Nella fotografia, c’è un visto prima, perché rompeva gli schemi: «Ma, allo stesso tempo, appadre che trasmette al figlio il valore più prezioso: quello del tempo. parteneva a quei tempi così come appartiene ai nostri», prosegue Sala. [ ] IN ALTO, DUE CAMPAGNE CHE RACCONTANO IL RAPPORTO TRA PADRI E FIGLI: VALENTINI (A SINISTRA) PUNTA SUL TEMA DELL’IDENTIFICAZIONE, MENTRE HENRY COTTON’S MOSTRA UN UOMO E UN BAMBINO TALMENTE COMPLICI DA DIVENTARE UNO IL RIFLESSO DELL’ALTRO. A FIANCO, LA PUBBLICITÀ DI PATEK PHILIPPE. 94 APRILE 2007 APRILE 2007 95