Direzione Generoso Andria, Napoli Gianni Bona, Novara Antonio Cao, Cagliari Liviana Da Dalt, Padova Alberto Martini, Genova Pierpaolo Mastroiacovo, Roma Luigi Daniele Notarangelo, Boston Fabio Sereni, Milano Luigi Titomanlio, Napoli Alberto Villani, Roma Redazione e Amministrazione Pacini Editore S.p.A. Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Redattore Capo Marina Macchiaiolo, Roma Invio gratuito per i Soci SIP. Volume 39 153 Gennaio-Marzo 2009 Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Abbonamenti Comitato di Redazione Salvatore Auricchio, Napoli Stelvio Becchetti, Genova Sergio Bernasconi, Parma Andrea Biondi, Monza Alessandro Calisti, Roma Mauro Calvani, Roma Antonio Correra, Napoli Maurizio de Martino, Firenze Pasquale Di Pietro, Genova Alberto Edefonti, Milano Renzo Galanello, Cagliari Carlo Gelmetti, Milano Achille Iolascon, Napoli Riccardo Longhi, Como Giuseppe Maggiore, Pisa Paola Marchisio, Milano Bruno Marino, Roma Eugenio Mercuri, Roma Paolo Paolucci, Modena Luca Ramenghi, Milano Franca Rusconi, Firenze Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi dell’abbonamento annuo sono i seguenti: Italia € 53,00; estero € 67,00; istituzionale € 53,00; specializzandi € 30,00; fascicolo singolo € 27,00 Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa – Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 – E-mail: [email protected] I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa. 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PACINI EDITORE MEDICINA INDICE numero 153 Gennaio-Marzo 2009 Editoriale Pasquale Di Pietro .........................................................................................................................................................................................1 IMMUNOLOGIA (a cura di Luigi D. Notarangelo) Nuove frontiere dell’immunologia clinica Davide Montin, Ottavia Maria Delmonte, Pier-Angelo Tovo ...........................................................................................................................2 Sindromi emofagocitiche e malattie linfoproliferative da difetto dei meccanismi di citotossicità Valentina Cetica, Maurizio Aricò ..................................................................................................................................................................12 Evoluzione della terapia con immunoglobuline Annarosa Soresina, Stefania Bolognini, Vassilios Lougaris, Alessandro Plebani .........................................................................................20 CARDIOLOGIA (a cura di Bruno Marino) Aggiornamenti in cardiologia pediatrica. Una revisione della letteratura 2006-2008 Paolo Versacci, Gerardo Piacentini, Bruno Marino .......................................................................................................................................27 Tachicardia parossistica reciprocante sopraventricolare del neonato e del lattante: profilassi delle recidive ed evoluzione a lungo termine Mario Salvatore Russo, Fabrizio Drago ........................................................................................................................................................35 Emergenze ipertensive in età pediatrica Riccardo Lubrano, Giuliana Guido, Elena Bellelli, Paolo Versacci ................................................................................................................40 FRONTIERE (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon) Immunodeficienza con iper-IgE: ruolo di STAT3 nella biologia cellulare e nel rimodellamento tissutale, e funzioni immunologiche dei linfociti Th17 Fausto Cossu ...............................................................................................................................................................................................49 FOCUS SU: (a cura di Liviana Da Dalt) Infezione delle vie urinarie febbrile nel bambino di età 3 mesi-3 anni. Analisi critica di due linee guida Lorena Pisanello, Claudio La Scola, Giovanni Montini..................................................................................................................................59 Diagnosi molecolare delle malattie batteriche invasive in età pediatrica Clementina Canessa, Chiara Azzari, Maria Moriondo, Laura Becciolini, Martina Cortimiglia, Elisa Bartolini, Maurizio de Martino, Massimo Resti .............................................................................................................................................................................................65 LINEE GUIDA (a cura di Riccardo Longhi) La gestione del bambino con convulsioni febbrili Linea Guida della Società Italiana di Pediatria (SIP)............................................................................................................................ 73 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • P. 1 EDITORIALE L’indagine SIP sull’allattamento al seno Nel programma con il quale mi sono candidato, due anni fa, alla presidenza della Società Italiana di Pediatria (SIP) indicavo, tra le priorità della nostra Società, una maggiore attenzione alla ricerca. Una Società Scientifica, compatibilmente con le proprie limitate risorse, non può limitarsi ad essere un autorevole “commentatore” di ricerche condotte da altri, ma deve contribuire in prima persona a produrre sapere. Con questo spirito, sostenuto da tutto il Comitato Direttivo, ho fortemente voluto che la SIP realizzasse una propria indagine su un tema importante e delicato come l’allattamento al seno. Autorevoli studi di società affiliate alle SIP, quali SIN e SINUPE, ci indicavano, come dato di partenza, una percentuale di mamme che allatta al seno all’uscita dall’ospedale, dopo il parto, del tutto soddisfacente (oltre il 90%) e ai più alti livelli tra i paesi europei. Ma già al terzo mese, e ancor più al sesto, la “caduta” risultava particolarmente significativa e non in linea con le raccomandazioni dei pediatri di protrarre l’allattamento esclusivo (se non c sono controindicazioni evidenti) fino al sesto mese. L’obiettivo principale della nostra ricerca è stato quindi cercare di comprendere quale fosse il “vissuto” delle neo-mamme di fronte a questo tema e di individuare le cause dell’abbandono precoce. E, soprattutto, se ci fosse, tra queste cause, una reale responsabilità dei pediatri, spesso indicati dai media come sostenitori molto tiepidi dell’allattamento al seno. Proprio per la delicatezza del tema e perché il nostro desiderio era avere un risultato che non potesse essere “sospetto”, abbiamo deciso di affidare l’indagine ad un prestigioso Istituto di Ricerca indipendente (l’ISPO del prof. Mannheimer) e di finanziarci il lavoro in totale autonomia senza il contributo di alcuno sponsor. Non è questa la sede per un commento ai risultati dell’indagine, ma voglio sottolineare un solo aspetto che considero di grande rilevanza. Dalle risposte delle mamme il pediatra risulta essere il principale punto di riferimento nel periodo dell’allattamento ed è indicato al primo posto tra i soggetti che più spingono all’allattamento al seno. La consapevolezza di ciò è importante soprattutto perché sappiamo bene che fino agli anni ’80 l’atteggiamento della classe medica (pediatri inclusi) nei riguardi dell’allattamento al seno era stato differente. Questo non significa che venisse disincentivato, ma si dava peso a controindicazioni di tipo medico risultate poi assolutamente infondate. Oggi le cose sono profondamente cambiate, ma era importante verificare – attraverso il parere delle dirette interessate – che i pediatri stessero svolgendo un ruolo determinante nell’avvicinare le mamme all’allattamento al seno. Questo non significa, però, che non ci sia ancora strada da fare. Sempre dalla nostra indagine emerge, infatti, che “promuovere” e proclamare la superiorità del latte materno (concetto ormai universalmente condiviso) non basta per portare un numero sempre maggiore di mamme ad allattare fino al sesto mese, ma è necessario essere loro concretamente vicini nei momenti difficili e sostenerle in un impegno non sempre facile. Ed è proprio in questo ambito che i margini di miglioramento, per ciò che concerne il ruolo del pediatria, possono ancora essere ampi. Ma al di là anche dei risultati ottenuti (che sono un rilevante ed aggiornato patrimonio di dati), aver realizzato questa indagine ci ha consentito di avere un ruolo di propulsore nei confronti delle Istituzioni per il concreto avvio della Commissione Ministeriale - Comitato Nazionale Multisettoriale per l’allattamento materno, della quale siamo autorevoli componenti, e di essere in avanzato contatto con il Ministero della Salute per proseguire nel nostro lavoro di indagine. Sarà importante che la SIP che ha in questi anni, come ha dimostrato l’ultimo Consiglio Nazionale, rafforzato la propria rete regionale sia sul piano scientifico che organizzativo lavori affinché i lavori della Commissione Nazionale Ministeriale, di cui prima, trovino un forte corrispettivo a livello regionale. Credo che questo sia il modo giusto di operare per una Società Scientifica ed il modo corretto di allocare le proprie risorse. Pasquale Di Pietro Presidente della Società Italiana di Pediatria 1 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 2-11 IMMUNOLOGIA Nuove frontiere dell’immunologia clinica Davide Montin, Ottavia Maria Delmonte, Pier-Angelo Tovo Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza, Università di Torino Riassunto Molte malattie immuno-mediate che esordiscono in età evolutiva trovano oggi una chiara spiegazione patogenetica, con conseguenti importanti risvolti terapeutici; al pediatra è quindi richiesto uno sforzo notevole di aggiornamento in un campo complesso come quello dell’attuale immunologia. Vengono qui valutate e commentate alcune scoperte degli ultimi anni che trovano già applicazioni cliniche rilevanti. Recentemente, sono state identificate immunodeficienze primarie spesso non evidenziabili con i comuni esami di laboratorio e caratterizzate dalla suscettibilità ad un gruppo limitato o ad un solo agente infettivo. In un altro gruppo di immunodeficienze primarie le manifestazioni autoimmuni prevalgono su quelle infettive. La terapia genica è ormai una opzione reale per un numero crescente di pazienti affetti da immunodeficienze primarie, anche se sono necessarie ulteriori indagini per verificarne non solo l’efficacia, ma anche la sicurezza. Sono state identificate e caratterizzate nuove popolazioni cellulari, come le Th17 e le NKT, dotate di specifici percorsi differenziativi e funzioni effettrici; tali cellule proteggono verso infezioni da funghi e batteri e sono cruciali anche nei processi autoimmuni e nell’induzione della flogosi tissutale. Di rilievo infine i continui avanzamenti nell’ambito dei farmaci biologici ad attività immunomodulante, che entrano sempre più nell’armamentario terapeutico del pediatra. Si tratta di anticorpi monoclonali o proteine di fusione che agiscono prevalentemente sui recettori della membrana cellulare, utilizzati per il trattamento di malattie infiammatorie croniche o autoimmuni. Summary Today, many paediatric immune-mediated diseases have a newly defined pathogenesis with established diagnostic tests and targeted therapeutic options. As a result, it is important for paediatricians to remain updated in the complex and quickly evolving field of immunology. To assist with this process, we have reviewed important recent immunological findings and the associated clinical applications. Initially, we discuss newly identified primary immunodeficiencies characterized by susceptibility to an individual pathogen or a small group of pathogens. In another group of primary immune disorders, autoimmune manifestations predominate over infectious complications. Currently, gene therapy for primary immunodeficiencies, obtained through gene transfection into target cells, is a possible option for an increasing number of patients, although further safety studies are necessary. In addition to recently defined diseases, new populations of cells have been identified, such as Th17 cells and NKT cells. The path of differentiation and function of these cells is currently being further studied. These cell types are involved in host defense against fungal and bacterial infections, but they also have a crucial role in autoimmunity and tissue inflammation. Finally, we discuss newly discovered biological drugs and their effects on the immune response. These drugs include monoclonal antibodies and fusion proteins that are increasingly being used also by paediatricians for therapy of chronic inflammatory illnesses and autoimmune diseases. Obiettivo della revisione In questa breve revisione prenderemo in considerazione alcune immunodeficienze primarie (IDP) non convenzionali, caratterizzate dalla suscettibilità a un gruppo limitato di patogeni o da manifestazioni autoreattive, che permettono di comprendere meglio le intime modalità di funzionamento del sistema immune. Verranno analizzate le applicazioni della terapia genica in pazienti con IDP, le peculiarità di nuove popolazioni di linfociti (quali i Th17 e le cellule NKT) e l’impiego di farmaci biologici nelle malattie autoimmuni o con flogosi cronica. Metodologia della ricerca Tramite PubMed è stata condotta una ricerca con le seguenti parole chiave: immunodeficiency, Th17, TNK, immune modulators, monoclonal antibodies, anti-TNF, T-cell costimulation, autoimmune diseases, gene therapy, ristretta a 2005-2008 e talvolta a all child (0-18 years). Introduzione Negli ultimi decenni l’immunologia clinica è riuscita a trasferire un buon numero di conoscenze scientifiche sperimentali alle applicazioni diagnostiche e terapeutiche in pazienti affetti da un’ampia gamma di malattie a patogenesi immunologica. Il sistema immune svolge infatti un ruolo cardine non solo per combattere le infezioni, ma anche in molte altre patologie, come alcuni tumori, l’AIDS, i trapianti, le forme 2 di ipersensibilità come l’asma o altre malattie allergiche, nonché le manifestazioni autoimmuni sistemiche od organo-specifiche. Le malattie immuno-mediate rappresentano oggi uno dei maggiori problemi medici e sociali, con notevole impatto economico, e richiedono una costante attenzione da parte dei clinici e dei ricercatori. La rapidità delle nuove conoscenze, l’acquisizione di sofisticate metodologie diagnostiche e di approcci terapeutici innovativi rendono però sempre più impegnativo per il clinico un aggiornamento adeguato. Per il pediatra il compito è ancora più complesso, dal momento che molte malattie immuno-mediate esordiscono durante l’età evolutiva ed un loro corretto inquadramento può cambiarne radicalmente la prognosi. Predisposizione dei bambini alle malattie infettive La funzione primaria del sistema immune è difendere l’ospite dall’invasione quotidiana di una miriade di agenti invasivi. La suscettibilità di un bambino alle malattie infettive risente da un lato della frequenza e virulenza dei microrganismi presenti nell’ambiente circostante e dall’altro dalla sua capacità di attivare una risposta immune adeguata. Nel caso di patogeni emergenti, le mutazioni nel loro genoma provocano variazioni nella struttura antigenica e nella virulenza che richiedono adattamenti continui da parte dei meccanismi di difesa dell’ospite. Per i germi ubiquitari, i difetti dell’immunità innata e/o di quella adattiva sono invece le maggiori cause di infezioni severe o ricorrenti. La distinzione fra soggetti normali, che Nuove frontiere dell’immunologia clinica Figura 1. Principali vie di segnalazione intracellulare coinvolte nella patogenesi di immunodeficienze primarie non convenzionali. Sono indicate le più importanti molecole coinvolte nella risposta immune aspecifica: recettori di membrana (IFNγR, IFNα/βR, IL-12/23R, TNFRs, TIRs: TLRs e IL-1R), proteine adattatrici (MyD88, IRAK-4), chinasi (IRAK-4, TYK-2), attivatori della trascrizione (STAT1, STAT3), subunità regolatorie (NEMO) o inibitorie (IKBA). Le citochine secrete in risposta all’attivazione di queste vie di segnalazione sono riportate in basso, in corrispondenza degli agenti patogeni associati a loro deficit. Sono evidenziate le proteine per le quali sono state riscontrate mutazioni causa di IDP (da Bustamante et al., 2008, mod.). possono sviluppare infezioni gravi, e pazienti immunocompromessi, pur concettualmente valida, va un po’ affievolendosi con la crescente identificazione di individui con anomalie immunologiche minori; diventa inoltre sempre più evidente che la suscettibilità e il decorso delle infezioni hanno una base genetica (Casanova et al., 2008). Le immunodeficienze primarie Le IDP costituiscono ancora oggi un modello unico per comprendere il funzionamento dei singoli meccanismi di difesa nell’uomo. Esse possono essere classificate sulla base del fenotipo clinico o cellulare nonché del genotipo responsabile. Le novità nel campo sono state oggetto di una recente nuova classificazione, che offre l’opportunità non solo di un corretto inquadramento nosologico, ma anche interpretativo (Geha et al., 2007). Nelle fattispecie, oltre alle forme classiche, con alterazioni a carico dei linfociti T (o loro sottopopolazioni CD4+ o C8+), B, NK o fagociti, vengono annoverate IDP in cui spesso non sono evidenziabili anomalie con i comuni test di laboratorio e la suscettibilità alle infezioni è spesso ristretta a un gruppo limitato o ad un solo patogeno. Immunodeficienze primarie non convenzionali Queste IDP non convenzionali raggruppano un’ampia serie di difetti genetici, per lo più a carico dell’immunità innata, e sono dovute ad alterazioni funzionali di specifici recettori cellulari o delle vie di tra- smissione del segnale (Bustamante et al., 2008) (Fig. 1). La Tabella I riporta un l’elenco aggiornato di queste forme. Alcune, quali i difetti dell’asse IL-12/IL-23/IFN-γ/STAT1 in soggetti con decorso anomalo di infezioni da micobatteri o il deficit di IRAK-4 in bambini con gravi infezioni da piogeni, sono state oggetto di un precedente brillante articolo di revisione su questa rivista (Forino e Notarangelo, 2005); per altre malattie, riportate in Tabella I (così come in altre Tabelle) ma non discusse in questo articolo, rimandiamo ad altri lavori specifici (Geha et al., 2007; Bustamante et al., 2008). Ricordiamo qui solo alcune forme di nuova identificazione. L’infezione da Herpes simplex virus (HSV) ha una prevalenza elevata nella popolazione generale ed è pressoché innocua nella quasi totalità dei casi. Talora può però causare un’encefalite devastante (Herpes Simplex Encephalitis – HSE). Recentemente sono stati identificati due difetti genetici responsabili della HSE: il deficit di UNC-93B, che si manifesta in forma autosomica recessiva (Casrouge et al., 2006), e il deficit di Toll-Like Receptor (TLR) 3, che si manifesta in forma autosomica dominante (Zhang et al., 2007). I TLRs sono in grado di riconoscere molecole di derivazione batterica e virale. UNC-93B è una proteina transmembranosa associata a diversi TLRs, fra cui TLR3, e garantisce la trasmissione del segnale all’interno della cellula. Il deficit di uno dei due geni impedisce la produzione da parte delle cellule infettate da HSV di interferoni di tipo I (α e β) e di tipo III (λ), permettendo così una replicazione virale incontrollata che conduce alla morte della cellula. Anche il deficit di STAT1 può favorire lo sviluppo 3 D. Montin et al. Tabella I. Immunodeficienze primarie non convenzionali caratterizzate dalla suscettibilità ad un gruppo limitato di patogeni o ad un solo agente infettivo. Tipo di immunodeficienza Quadro clinico XLP1 (X-linked Lymphoproliferative Syndrome) Alterazioni cliniche ed immunologiche scatenate dall’infezione da EBV, comprendenti epatite, anemia aplastica, linfoma Trasmissione XL SH2D1A; codifica per una proteina che regola la trasmissione di segnali intracellulari XLP2 (X-linked Lymphoproliferative Syndrome) Come sopra XL XIAIP; codifica per un inibitore dell’apoptosi Deficit di IL-12Rβ1 e IL-23Rβ 1 Suscettibilità ad infezioni da micobatteri e salmonella AR IL-12Rβ1: recettore β1 di IL-12 e IL23 Deficit di IL-12p40 Come sopra AR Subunità p40 di IL-12 e IL-23 Deficit di IFNγR1 Come sopra AR (forma completa) AD (forma parziale) Alterazione genetica IFN-γR1: subunità legante l’IFN-γ Deficit di IFNγR2 Come sopra AR IFN-γR2: subunità accessoria del recettore per l’IFNγ Deficit di STAT1 (forma autosomica recessiva) Suscettibilità ad infezioni da micobatteri, salmonelle e virus AR STAT1 Deficit di STAT1 (forma autosomica dominante) Suscettibilità ad infezioni da micobatteri e salmonella AD STAT1 Sindrome da Iper-IgE (Sindrome di Giobbe) Infezioni da Staphylococcus aureus e Candida; eczema, ascessi cutanei freddi, polmonite, dimorfismi facciali, alterazioni scheletriche AD (mutazioni de novo) STAT3 Sindrome da Iper-IgE con infezioni virali e da micobatteri Suscettibilità a infezioni da patogeni intracellulari (micobatteri e salmonella), funghi, virus; eczema AR TYK2 Sindrome da Iper-IgE con infezioni virali e vasculite Infezioni batteriche, virali e fungine; eczema; vasculiti; emorragie SNC AR Sconosciuto Deficit di IRAK-4 Infezioni da piogeni (specie Streptococcus pneumoniae) AR IRAK-4, codifica per una proteina deputata alla trasmissione dei segnali dei TLRs Deficit di MyD88 Infezioni da piogeni (specie Streptococcus pneumoniae) AR MyD88, codifica per una proteina adattatrice della via di segnalazione dei TLRs Displasia ectodermica anidrotica con immunodeficienza (X-linked) Displasia ectodermica anidrotica; infezioni da micobatteri e piogeni XL NEMO; coinvolto nell’attivazione di NFkappaB Displasia ectodermica anidrotica con immunodeficienza (autosomica dominante) Displasia ectodermica anidrotica; infezioni da vari patogeni, compresi micobatteri e virus AD IKBA, inibitore di NF-kappaB Epidermodisplasia verruciforme Infezioni da HPV (gruppo B1) AR EVER1 e EVER2, regolano l’accumulo di Zn2+ a livello nucleare Encefalite da Herpes Simplex Encefalite da HSV1 AR UNC93-B; codifica un componente della trasmissione dei segnali del TLR3 Encefalite da Herpes Simplex Come sopra Deficit di fattori del complemento (C5, C6, C7, C8, C9) e properdina Infezioni da Neisseria AD (mutazioni de novo) AR TLR3 C5, C6, C7, C8, C9 e properdina XL: X-linked; AR: autosomica-recessiva; AD: autosomica-dominante; SNC: sistema nervoso centrale; HPV: Human Papilloma Virus; HSV: Herpes Simplex Virus; TLRs: Toll-like receptors; TLR3: Toll-like receptor 3. di HSE, questi soggetti sono però esposti anche ad altre infezioni virali e a micobatteriosi, vista la loro scarsa capacità di risposta anche all’IFN-γ. Recentemente, in un gruppo di 9 bambini con infezioni severe da piogeni, incluse infezioni pnuemococciche invasive, è stata descritta una forma autosomica recessiva di deficit di MyD88 (Myeloid Differentiation primary response protein 88), molecola che media le interazioni fra la porzione intracitoplasmatica dei TLRs e di IL-1R con IRAK-4 (von Bernuth et al., 2008) (Fig. 1). 4 Sindromi autoimmuni monogeniche Un altro gruppo di IDP monogeniche è caratterizzato da un fenotipo in cui prevalgono le manifestazioni autoimmuni su quelle infettive (la Tabella II sintetizza queste forme, solo alcune delle quali saranno qui prese in considerazione). Il concetto di immunodeficienza viene così ad estendersi ad una disfunzione del sistema immune che conduce a una patologia autoaggressiva. La capacità di riconoscere gli antigeni Nuove frontiere dell’immunologia clinica self e il mantenimento della tolleranza immunologica richiedono il corretto funzionamento di più meccanismi. Per tolleranza centrale si intende l’eliminazione di cloni di linfociti T autoreattivi all’interno del timo (selezione negativa); per tolleranza periferica si intende l’insieme di processi per cui cloni autoreattivi sfuggiti alla selezione negativa o generati in periferia vengono soppressi tramite l’azione di cellule regolatorie che inducono apoptosi o anergia. La scoperta che alcune patologie autoimmuni insorgono in seguito ad alterazioni di singoli geni ha permesso di gettare nuova luce sui meccanismi della tolleranza e la patogenesi dell’autoimmunità (Bacchetta et al., 2007). La sindrome APECED (Autoimmune Polyendocrinopathy, Candidiasis, Ectodermal Dystrophy) (Tab. II) è dovuta a mutazioni nel gene AIRE (Auto Immune REgulator), che promuove la trascrizione nelle cellule midollari del timo di centinaia (forse migliaia) di geni, incluse proteine normalmente espresse in tessuti periferici. Questo “riassunto” timico del self viene presentato ai timociti immaturi e quelli reattivi vanno incontro a delezione clonale per apoptosi (Mathis e Benoist, 2007). Nell’APECED, la mancanza di espressione nel timo degli antigenici periferici impedisce la selezione negativa. Senza trascurare che riscontri nel topo non possono essere trasferiti direttamente nell’uomo, è interessante osservare che nel modello murino la poliendocrinopatia è sostenuta dalla produzione di autoanticorpi e l’eliminazione dei linfociti B con anticorpo monoclonale previene la patologia. IPEX (Immune dysregulation, Polyendocrinopathy, Enteropathy Xlinked) è invece una sindrome da alterata tolleranza periferica, caratterizzata da un vasto spettro di patologie autoimmuni (enteropatia, diabete mellito precoce, ipotiroidismo, dermatite e altre manifestazioni d’organo o sistemiche). È causata da mutazioni in FoxP3, un gene che codifica per una proteina necessaria alla differenziazione dei linfociti T regolatori (Treg). I Treg sono deputati alla soppressione della risposta immune attraverso diversi meccanismi (Vignali et al., 2008). L’assenza dei Treg o la loro totale carenza funzionale conduce al fenotipo IPEX, ma alterazioni parziali nel loro numero o funzioni sono state riscontrate in altre patologie autoimmuni, fra cui l’artrite reumatoide e l’artrite idiopatica giovanile (AIG), il Lupus Eritematoso Sistemico (LES), la sindrome di Sjögren, la sarcoidosi e la sclerosi multipla. Un fenotipo clinico sovrapponibile a quello dell’IPEX si osserva nel deficit di CD25, subunità α del recettore per IL-2. L’elevata positività per CD25 è un marker fenotipico utilizzato per identificare i Treg (CD4+, CD25high, FoxP3+): non sorprende dunque la sovrapposizione clinica dei difetti di FoxP3 e CD25. Per quanto riguarda infine le diverse forme di sindrome autoimmune linfoproliferativa (ALPS), si rimanda alla Tabella II e alla revisione citata (Bidère et al., 2006). Terapia genica nelle immunodeficienze primarie Il trattamento di pazienti affetti da IDP va individualizzato. Oltre al trapianto di cellule staminali emopoietiche, per un numero crescente di bambini con IDP a prognosi severa sta diventando una realtà il ricorso alla terapia genica effettuata mediante l’integrazione, nel DNA delle cellule malate, del gene normale tramite l’utilizzo di un vettore (Tab. III). Tale scelta deve basarsi sul rapporto rischio/beneficio alla luce anche degli altri trattamenti disponibili. L’efficacia risente dell’entità della correzione richiesta e dei vantaggi selettivi di espansione che le cellule con il gene normale inserito presentano su quelle patologiche (Aiuti et al., 2007). La sicurezza della terapia genica non è un elemento marginale. Su 10 pazienti affetti da SCID legata al sesso (dovuta ad un deficit di Tabella II. Sindromi autoimmuni monogeniche. Sindrome Quadro clinico ALPS (Autoimmune Lymphoprolife- Splenomegalia, linfoadenopatia, citopenia rative Syndrome) tipo Ia autoimmune, rischio di linfomi Trasmissione AD Difetto genetico Mutazioni nel recettore di FAS (TNFRS6, CD95), causano un difetto di apoptosi dei linfociti T AR (fenotipo grave) ALPS tipo Ib Splenomegalia, linfoadenopatie, citopenia autoimmune, sindrome Lupus-like AD Mutazioni in FAS (TNFS6, CD95L), ligando di TNFRS6 AR ALPS tipo IIa Splenomegalia, linfoadenopatia, manifestazioni autoimmuni AD Difetti in caspasi 10, coinvolta nella segnalazione intracitoplasmatica dell’apoptosi ALPS tipo IIb Splenomegalia, linfoadenopatie, infezioni ricorrenti, ipogammaglobulinemia AD Difetti in caspasi 8, coinvolta nella segnalazione intracitoplasmatica dell’apoptosi APECED (Autoimmune Polyendocri- Poliendocrinopatia autoimmune, candidasi nopathy, Candidiasis, Ectodermal mucocutanea, displasia ectodermica Dystrophy) AR Mutazioni in AIRE (Autoimmune Regulator), che codifica per un fattore di trascrizione necessario al mantenimento della tolleranza immunologica centrale IPEX (Immune dysregulation, Polyen- Enteropatia, diabete, tiroidite, anemia docrinopathy, X-linked) emolitica, piastrinopenia, eczema XL Difetti in FoxP3 (Forkhead Box P3), fattore di trascrizione necessario alla maturazione dei linfociti T regolatori Deficit di CD25 AR Difetti in CD25, subunità α del recettore per IL-2 Fenotipo IPEX-like XL: X-linked; AR: autosomica-recessiva; AD: autosomica-dominante (vedi in dettaglio Bidère et al., 2006). 5 D. Montin et al. Tabella III. Terapia genica in immunodeficienze primarie. Fase sperimentale Patologia Pazienti trattati SCID (deficit ADA) SCID (deficit di γc) SCID (deficit JAK3) CGD LAD Prossima applicazione clinica Wiskott-Aldrich Fase preclinica Difetto RAG1/RAG2 Difetto di Artemis Deficit di ZAP-70 Deficit di PNP Deficit di BTK Deficit di SAP Deficit di Perforina IPEX N. pazienti 33 24 1 15 2 ADA: adenosine deaminase; γc: catena gamma comune per il recettore di varie interleuchine; JAK3: Janus kinase 3; CGD: chronic granulomatous disease; LAD: leukocyte adhesion deficiency; RAG: recombinase activating gene; PNP: purine nucleoside phosphorylase; BTK: Bruton’s tyrosine kinase; SAP: Slam associated protein; IPEX: immune dysregulation, polyendocrinopathy, enteropathy X-linked syndrome. catena γ comune al recettore di più interleuchine) il difetto fu corretto attraverso la terapia genica in 9, ma 4 svilupparono una leucemia a causa dell’inserimento del nuovo gene con il suo vettore in prossimità di proto-oncogeni (Hacein-Bey-Abina et al., 2008). La chemioterapia riuscì ad eliminare i cloni neoplastici in 3 soggetti (mantenendo la ricostituzione T), ma il quarto è deceduto. Al fine di migliorare la sicurezza della terapia genica numerosi studi sono in corso per identificare il vettore ottimale, onde impedire l’attivazione di proto-oncogeni che possano determinare l’espansione clonale delle cellule bersaglio. spiegare la suscettibilità di questi soggetti alle infezioni da Candida e da Stafilococco, nonché i tipici ascessi “freddi” (Fisher, 2008; Ma et al., 2008). Le Th17 sono anche le maggiori responsabili della flogosi autoimmune. I linfociti T stimolati dall’antigene, in presenza di IL-6 e TGFβ, si differenziano in Th17, che sono i primi ad infiltrare l’organo bersaglio e a secernere chemochine che richiamano altre cellule infiammatorie, tra cui le Th1 (Fig. 2). L’IL-17, prodotta dai Th17, e l’INF-γ, prodotto dai Th1, promuovono l’infiammazione ed il danno tissutale. I Th17 tendono ad andare rapidamente in apoptosi; i Th1 vengono invece soppressi da cellule T regolatorie, che gradualmente si accumulano nell’organo bersaglio e conducono alla risoluzione della flogosi. L’espressione di IL-17 è aumentata nei pazienti affetti da malattie autoimmuni, quali la sclerosi multipla, la psoriasi e l’artrite reumatoide, ove contribuisce all’erosione della cartilagine e dell’osso. Visto il suo potenziale ruolo patogenetico in malattie autoimmuni è stato realizzato un anticorpo monoclonale contro IL-17 (AIN457). Sono in corso studi per valutarne gli effetti in pazienti con morbo di Crohn. Cellule NKT: rapide effettrici che regolano la risposta immune Le NKT sono cellule del sistema immune che esprimono contemporaneamente il T cell receptor (TCR) e l’NK1.1, un marcatore tipico delle cellule natural killer (NK). Possono essere suddivise in tre gruppi sulla base del repertorio del TCR. Le meglio caratterizzate sono Th17: cellule T effettrici con proprietà infiammatorie Circa 20 anni fa venivano identificate due sottopopolazioni di linfociti T helper, chiamate rispettivamente T helper di tipo 1 (Th1) e Th2. Le prime intervengono nelle reazioni di ipersensibilità ritardata, nell’attivazione dei macrofagi e, in generale, nel processo di eliminazione dei patogeni intracellulari. Le Th2 sono fondamentali per la sintesi di anticorpi, specie IgE, e la difesa contro elminti. Recentemente è stata identificata una nuova sottopopolazione di T helper, denominata Th17, poiché produce preferenzialmente IL-17 (A e F). Le Th17 hanno un ruolo chiave nella protezione verso funghi o batteri extracellulari, nell’indurre la flogosi tissutale e l’autoimmunità organospecifica. L’IL-17 inducendo la sintesi di chemochine e di citochine proinfiammatorie (IL-1β, TNF, IL-6 e CSF) determina il reclutamento e l’attivazione dei neutrofili e macrofagi all’interno dei tessuti (Fig. 2). In ambito pediatrico è importante sottolineare il ruolo patogenetico dei linfociti Th17 e di IL-17 nella sindrome da Iper-IgE, una rara IDP caratterizzata da eczema, ascessi cutanei, polmonite, infezioni da Candida e deformità scheletriche. Come riportato nella Tab. II vengono distinte tre forme di sindrome da Iper-IgE (Geha et al, 2007); mutazioni eterozigoti del fattore di trascrizione STAT-3 sono responsabili della forma dominante della sindrome (Mineghishi et al., 2007). Le Th17 sono assenti o molto basse nel sangue periferico di soggetti con sindrome da Iper-IgE (Renner et al., 2008). Il mancato reclutamento di cellule infiammatorie nei siti di infezione può 6 Figura 2. Differenziazione e funzione dei linfociti Th17. IL-1 e IL-6 secrete dalle cellule dendritiche promuovono la differenziazione delle CD4+ in Th17 mediante l’attivazione del fattore trascrizionale STAT3 che induce l’espressione di ROR-γt. L’IL-23, di origine dendritica, è fondamentale per il mantenimento delle Th17 già differenziate e che espletano la loro funzione producendo IL-17, IL-21 e IL-22 (da Fischer, 2008, mod.). Nuove frontiere dell’immunologia clinica quelle di tipo 1, dette anche “invarianti” (iNKT), poiché esprimono un repertorio limitato di TCR. Le iNKT riconoscono una proteina di superficie simile alle molecole MHC di classe I, chiamata CD1d, espressa dalle cellule epiteliali della mucosa delle vie aeree e dell’intestino, dagli epatociti, dai linfociti e dai macrofagi. A differenza dei linfociti T, che riconoscono antigeni proteici, le cellule iNKT “vedono” antigeni glicolipidici presentati dal CD1d. I glicolipidi possono essere endogeni, provenienti da cellule danneggiate, o esogeni, derivati da batteri Gram- o Rickettsie, nonché da aero-allergeni come i pollini. Il riconoscimento dei glicolipidi associati a CD1d da parte delle cellule iNKT è altamente conservato nella filogenesi, suggerendo un loro ruolo cardine nei meccanismi difensivi (Bendelac et al., 2007). In seguito a tale riconoscimento le iNKT producono rapidamente elevate quantità di citochine che amplificano la risposta immune e vengono a costituire un ponte tra immunità innata ed adattativa. L’attività antimicrobica delle iNKT è stata dimostrata nei confronti dell’HSV, del virus dell’epatite B, di batteri, funghi e Plasmodium falciparum. Inoltre, esse sono coinvolte nella patogenesi di numerose malattie immunomediate, come l’artrite, l’epatite autoimmune, le malattie croniche intestinali, il lupus, il diabete, l’asma allergico. Nel diabete le iNKT hanno un chiaro ruolo protettivo nei modelli murini; nei pazienti è stato inoltre riscontrato un ridotto numero di cellule iNKT. Per quanto riguarda l’asma, le cellule iNKT promuovono lo sviluppo dell’iper-reattività bronchiale. Topi transgenici privi di cellule iNKT non sviluppano iper-reattività bronchiale, che ricompare dopo loro trasferimento. Un’aumentato numero di iNKT è stato riscontrato nelle vie aeree sia di adulti che di bambini asmatici (Pham-Thi et al., 2006). Due caratteristiche delle iNKT polmonari le rendono particolarmente interessante dal punto di vista clinico (Meyer et al., 2008): 1) esse mostrano una resistenza ai corticosteroidi maggiore rispetto alle Th2. Ciò potrebbe in parte spiegare la patogenesi dell’asma corticoresistente. 2) Aumentano il repertorio di antigeni che generano flogosi polmonare (quali antigeni glicolipidici esogeni derivanti da microbi o pollini delle piante) e inducono iper-reattività bronchiale indipendentemente dalla sensibilizzazione dovuta ad allergeni Th2 specifici. Sarà interessante verificare se farmaci in grado di inibire l’attivazione delle iNKT polmonari permettono di curare soggetti asmatici resistenti alle terapie convenzionali, in particolare ai cortisonici. Farmaci biologici Una delle principali innovazioni in campo farmacologico degli ultimi anni è rappresentata dall’utilizzo dei farmaci biologici, che puntano a colpire in modo mirato una singola struttura proteica. Questi prodotti esplicano la loro azione all’esterno della cellula, agendo su recettori di membrana, oppure su recettori o sostanze solubili. La maggior parte appartiene alle famiglie degli anticorpi monoclonali e delle proteine di fusione (Box 1, Tab. IV). Benché vi siano ormai farmaci biologici utilizzati in molti ambiti, nella Tabella V vengono indicati solo quelli ad attività immunomodulante usati prevalentemente per il trattamento di malattie autoimmuni; fra questi prenderemo in considerazione quelli con dati o indicazioni pediatriche. Farmaci anti-citochine: anti-TNF, anti-IL-1 e anti-IL-6 Il Tumor Necrosis Factor (TNF) è uno dei più importanti mediatori dell’infiammazione. È prodotto soprattutto da macrofagi attivati, ma anche da linfociti T, NK e mast-cellule. Grandi quantità di TNF vengono rilasciate in seguito all’interazione fra il lipopolisaccaride (LPS) della parete dei batteri gram-negativi con i TLRs dei fagociti. Il TNF determina il reclutamento e l’attivazione dei neutrofili e dei monociti nelle sedi di infezione, agisce sugli epatociti stimolando la produzione delle proteine di fase acuta e come pirogeno sui centri termoregolatori dell’ipotalamo. L’IL-1 e l’IL-6 sono prodotte anch’esse dai macrofagi in risposta a LPS e al TNF stesso; TNF, IL-1 e IL-6 agiscono quindi sinergicamente nel dare inizio e nel mantenere la risposta infiammatoria locale e sistemica. Molte evidenze sperimentali attestano che l’asse TNF/IL-1/IL-6 è coinvolto nella patogenesi di malattie con flogosi cronica, fra cui l’artrite reumatoide. L’evidenza clinica ha confermato che l’utilizzo di agenti bloccanti il TNF riduce l’attività della malattia e ne modifica il decorso (Tab. V). Etanercept è una proteina contente il dominio extracellulare del recettore per il TNF fuso con il frammento costante di IgG1 umana. Legando il TNF circolante ne previene l’interazione con il suo recettore. Etanercept è stato utilizzato in bambini con AIG fin dal 2000 ed è attualmente consigliato per i pazienti con inadeguata risposta al metotrexate (MTX). Altre patologie in cui il farmaco è stato utilizzato con risultati favorevoli in età pediatrica sono l’artrite psoriasica e le spondiloartropatie. Gli effetti collaterali sono solitamente lievi e legati a reazioni locali; nel corso della sorveglianza post-marketing Box 1 - Anticorpi monoclonali e proteine di fusione Gli anticorpi monoclonali (MoAb) sono anticorpi monospecifici, identici fra di loro perché prodotti da un singolo clone cellulare. È possibile generare monoclonali in grado di legare specificamente qualsiasi struttura proteica. • I primi MoAb erano di derivazione murina (suffisso -omab). Le differenze con gli anticorpi umani portarono spesso al fallimento del loro uso clinico per la scarsa efficacia ed un’elevata immunogenicità, causa di reazioni avverse. • Gli anticorpi monoclonali chimerici (suffisso -ximab) sono costituiti dalla regione variabile di un anticorpo murino e dalla regione costante di un isotipo umano (IgG1), fuse mediante la tecnologia del DNA ricombinante. Viene così a ridursi l’immunogenicità mentre aumenta l’attività specifica. Un ulteriore avanzamento in questo senso è rappresentato dagli anticorpi umanizzati (suffisso –zumab), nei quali la regione ipervariabile murina è innestata su un anticorpo umano, che rappresenta così circa il 95% dell’intera molecola. Tuttavia, gli anticorpi umanizzati legano spesso il bersaglio specifico con minor affinità rispetto agli omologhi ricombinanti. • Infine, gli anticorpi monoclonali umani (suffisso -umab) sono prodotti trasferendo i geni delle immunoglobuline umane nel genoma murino; si ottiene così un topo transgenico che può essere utilizzato per produrre immunoglobuline umane. Le proteine di fusione, altrimenti dette proteine chimeriche, derivano dalla fusione di due o più geni che originariamente codificano per proteine distinte. La trascrizione del nuovo gene porta alla sintesi di una molecola con le funzioni delle proteine originarie. Le proteine di fusione utilizzate in clinica sono prodotte mediante la tecnologia del DNA ricombinante e, per lo più, sono costituite da un frammento recettoriale (CTLA-4, TNF-receptor) legato alla regione costante di un’immunoglobulina umana (suffisso -cept). 7 D. Montin et al. Tabella V. Principali farmaci biologici ad azione immunomodulante. Farmaco Nome commerciale Famiglia Funzione Indicazioni cliniche Abatacept Orencia Proteina di fusione (CTLA-4 + IgFc) Blocco della co-stimolazione dei linfociti T Artrite reumatoide Adalimumab Humira Anticorpo monoclonale umano ricombinante Anti-TNF Artrite reumatoide, artrite psoriasica, spondilite anchilosante (> 18 anni), uveite associata ad AIG Anakinra Kineret Proteina ricombinante Antagonista del recettore di IL-1 Artrite reumatoide Simulect Anticorpo monoclonale chimerico Anti-CD25 (IL2Ra) Prevenzione del rigetto nel trapianto di rene Belimumab3 LymphoStat-B Anticorpo monoclonale umano ricombinante Anti-BlyS (B-Lymphocyte Stimulator) LES Daclizumab1 Zenapax Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-CD25 (IL2Ra) Prevenzione del rigetto nel trapianto di rene Eculizumab2 Soliris Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-C5 (proteina del complemento) Emoglobinuria parossistica notturna Efalizumab Raptiva Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-CD11a Psoriasi Etanercept1 Enbrel Proteina di fusione (TNFR + IgFc) Blocco di TNF Artrite reumatoide, artrite psoriasica, psoriasi, spondilite anchilosante, AIG poliarticolare (bambini > 4 anni) Ibritumomab tiuxetano Zevalin Anticorpo monoclonale murino Anti-CD20 Linfoma non-Hodgkin, alterazioni ematologiche autoimmuni Infliximab1 Remicade Anticorpo monoclonale chimerico Anti-TNF Malattie infiammatorie intestinali (> 6 anni), psoriasi, artrite reumatoide, spondilite anchilosante (> 18 anni), uveite associata ad AIG Muromonab-CD31 Orthoclone OKT3 Anticorpo monoclonale murino Anti-CD3 Rigetto acuto Natalizumab Tysabri Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-α4β1 integrina Sclerosi Multipla Omalizumab1 Xolair Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-IgE Asma bronchiale (> 12 anni) Palivizumab1 Synagis Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-RSV (Epitopo di superficie del Virus Respiratorio Sinciziale) Prevenzione dell’infezione da RSV nei prematuri Ranibizumab Lucentis Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) Degenerazione maculare della retina Rilonacept2 Arcalyst Proteina di fusione (IL-1R + IgFc) Blocco di IL-1 Criopirinopatie Rituximab Mabthera Anticorpo monoclonale chimerico Anti-CD20 Linfoma non-Hodgkin, artrite reumatoide Tocilizumab3 Actemra Anticorpo monoclonale umanizzato Anti-IL-6 Artrite reumatoide, AIG ad esordio sistemico Basiliximab 1 1 Farmaci approvati in Italia per uso pediatrico. 2 Farmaci approvati dalla FDA non ancora in commercio in Italia. 3 Farmaci in corso di sperimentazione (fase II-III). Tutti gli altri farmaci sono attualmente in commercio in Italia per le specifiche indicazioni. sono tuttavia state segnalate infezioni sistemiche (Box 2). Un studio su pazienti affetti da AIG in terapia con etanercept per otto anni ha però rilevato un basso tasso di infezioni gravi (0,03 per pazienteanno) (Lovell et al., 2008). Infliximab è un anticorpo monoclonale chimerico ottenuto dalla fusione della regione variabile di un anticorpo murino anti-TNF con la regione costante di un anticorpo umano IgG1. È indicato in pazienti con artrite reumatoide o morbo di Crohn. Rispetto a Etanercept 8 sembra più efficace nel trattamento di patologie caratterizzate da reazione granulomatosa, pare però associato ad un maggior rischio di riattivazioni tubercolari (Box 2). Infliximab è stato impiegato in altre malattie autoimmuni, quali vasculiti, malattia di Behçet, morbo di Chron, sarcoidosi e malattia di Kawasaki, ed è considerato il farmaco di scelta per l’uveite associata ad AIG. Nei pazienti trattati non è infrequente la comparsa di anticorpi anti-nucleo e anti DNAnativo, senza manifestazioni cliniche di LES. Frequente è anche la Nuove frontiere dell’immunologia clinica Tabella IV. Nomenclatura degli anticorpi monoclonali. Prefisso Target -o(s)- Variabile Osso Origine -u- Suffisso Umano -vi(r)- Virus -o- Topo -ba(c)- Batteri -a- Ratto -li(m)- sistema immunitario -e- Criceto -ci(r)- apparato cardiovascolare -i- Primate -mu(l)- sistema muscoloscheletrico -xi- Chimerico -ki(n)- Interleuchine -zu- Umanizzato -me(l)- Melanoma -xizu- Chimerico + umanizzato -ma(r)- tumore della mammella -pr(o)- tumore della prostata -tu(m)- altri tumori -mab -neu(r)- sistema nervoso Il sistema di nomenclatura degli anticorpi monoclonali prevede un prefisso variabile e un suffisso che ne definisce il target biologico e l’origine. Esempi: – Ab-ci-xi-mab è un anticorpo monoclonale (-mab) chimerico (-xi-) ad azione sull’apparato cardiovascolare (-ci-) – Inf-li-xi-mab è un anticorpo monoclonale (-mab) chimerico (-xi) ad azione sul sistema immunitario (-li-) – Pali-vi-zu-mab è un anticorpo monoclonale (-mab) umanizzato (-zu-) ad azione antivirale (-vi-) formazione di anticorpi anti-infliximab, che sembrano correlati con un maggior numero di reazioni infusionali e con una riduzione dell’emivita del farmaco, fenomeni in parte controllati associando un immunodepressore come il MTX. Adalimumab è un anticorpo umano anti-TNF ricombinante di tipo IgG1; rispetto ad etanercept e infliximab è stato usato meno estesamente e scarse sono le sperimentazioni in età pediatrica. Anakinra è un analogo dell’antagonista del recettore per IL-1 (IL1Ra) ottenuto da Escherichia coli tramite la tecnologia del DNA ricombinante. IL-1Ra è una proteina normalmente presente nel siero ove svolge attività anti-infiammatoria, impedendo il legame di IL-1 col suo recettore sulla cellula. Nel bambino Anakinra viene utilizzato soprattutto per forme di AIG ad esordio sistemico; i bambini con una risposta rapida, completa e duratura hanno un minor numero di articolazioni interessate e segni laboratoristici di flogosi più elevati rispetto a quelli non responsivi, in cui prevalgono i sintomi articolari su quelli sistemici (Gattorno et al., 2008). Il farmaco, che va somministrato quotidianamente, viene anche utilizzato in alcune rare patologie autoinfiammatorie dette criopirinopatie, che raggruppano quadri clinici sostenuti da difetti della stessa proteina, chiamata criopirina. La forma più grave, definita CINCA (Tab. VI), risponde in modo ottimale all’anti-IL-1, con pressoché totale risoluzione dei sintomi. Rilonacept è una proteina di fusione derivante dalla porzione extracellulare del recettore per IL-1 e dal frammento costante della IgG1 umana. Agisce come anakinra legando IL-1, ma è caratterizzata da una maggior efficienza biologica ed un’emivita più lunga, per cui è possibile somministrarla con cadenza settimanale. È stata approva- Box 2 - Farmaci biologici ed infezioni Per quanto gli effetti collaterali dei farmaci biologici siano limitati, non si può trascurare che essi interferiscono significativamente sui processi di flogosi e di risposta immune; vengono quindi a modificare la risposta adattiva dell’ospite agli agenti infettivi. Ad esempio, su 3000 pazienti affetti da morbo di Crohn o sclerosi multipla inseriti in un trial con anticorpo monoconale anti-integrina-α (Natalizumab), tre svilupparono una leucoencefalite multifocale progressiva da JC virus, quadro tipico di pazienti fortemente immunocompromessi. Etanercept, infliximab e adalimumab sopprimono l’attività di TNF, citochina cardine nel generare la rispsosta infiammatoria; non sorprende dunque che una vasta gamma di infezioni siano state segnalate in corso di trattamento con farmaci anti-TNF. Nel corso della sorveglianza post-marketing, sono state riportate infezioni da patogeni opportunisti come Coccidiodes immitis, Listeria, Nocardia, Histoplasma capsulatum, Aspergillus o micobatteri, così come infezioni da comuni piogeni. L’infezione o riattivazione tubercolare riveste particolare importanza, in quanto nei pazienti trattati il decorso è spesso grave o atipico, con localizzazione extrapolmonare o disseminata. Va quindi ricordato che: • prima dell’inizio della terapia con anti-TNF è necessario ricercare eventuali fattori di rischio per un’infezione tubercolare latente (provenienza geografica da zone a rischio, condizioni sociali, ecc …). • ogni paziente deve eseguire l’intradermoreazione secondo Mantoux e una lastra del torace per ricercare eventuali segni di pregressa infezione • l’infezione tubercolare latente deve essere trattata secondo le linee-guida correnti. L’anti-TNF può essere iniziato dopo almeno un mese di terapia antitubercolare con isoniazide; • occorre prestare attenzione, in tutti i pazienti in terapia con anti-TNF, a sintomi polmonari (tosse) o ad eventuali sintomi sistemici (febbre), calo ponderale e astenia. 9 D. Montin et al. Tabella VI. Criopirinopatie. Criopirinopatia Quadro clinico Sindrome di Muckle-Wells Orticaria, ipoacusia neurosensoriale, amiloidosi Trasmissione Difetto genetico AD Sindrome autoinfiammatoria familiare da Rash orticarioide non pruriginoso, brividi, freddo febbre e leucocitosi in seguito ad esposizione al freddo AD Sindrome CINCA (Chronic Infantile Neuro- Rash cutaneo neonatale, meningite cronica, logic Cutaneous and Articular Syndrome) artropatia, febbre e segni di infiammazione o NOMID (Neonatal-Onset Multisystem In- sistemica flammatory Disease) AD Mutazioni in CIAS1 (anche detto PYPAF1 o NALP3), che codifica per la criopirina, proteina coinvolta nell’attivazione di NF-kB, nella processazione di IL-1 e nell’apoptosi dei leucociti AD: autosomica-dominante; CIAS1: Cold Induced Autoinflammatory Syndrome 1. ta dalla FDA per il trattamento delle criopirinopatie in soggetti con età superiore ai 12 anni. Tocilizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato che contiene la regione ipervariabile di un anticorpo murino anti-IL-6. IL-6 svolge un ruolo importante nella patogenesi dell’AIG ad esordio sistemico. Un recente lavoro (Yokota et al., 2008) mostra un ottima efficacia di Tocilizumab, con risposta rapida e duratura in molti pazienti con AIG sistemica. Gli effetti collaterali sono per lo più lievi, anche se è segnalato un caso di reazione anafilattica. Farmaci inibitori della co-stimolazione linfocitaria L’attivazione dei linfociti T richiede l’azione combinata di almeno due segnali: 1) l’interazione del TCR (T Cell-Receptor) con l’antigene specifico e 2) l’interazione di CD28, presente sulla superficie dei linfociti T, con CD80 o CD86, molecole co-stimolatorie espresse sulla superficie delle cellule presentanti l’antigene. CD80 e CD86 legano anche un altro recettore dei linfociti T, chiamato CTLA-4. Quest’ultimo ha una maggior affinità di legame con CD80 e CD86 rispetto a CD28 ed ha una funzione inibitoria; è come se fosse un freno per impedire un’eccessiva stimolazione dei linfociti T. Abatacept è una proteina di fusione derivante dalla porzione extracellulare di CTLA-4 e dal frammento costante di IgG umana. Legando CD28 sulla superficie dei linfociti T ne previene l’interazione con CD80 o CD86 e ne blocca così l’attivazione. Approvato per l’uso nell’artrite reumatoide nell’adulto e dalla FDA per la terapia dell’AIG in pazienti non responsivi ai farmaci biologici convenzionali, ha dimostrato una discreta efficacia nel prevenire le ricadute articolari in bambini (Ruperto et al., 2008). Più studi attestano quindi l’efficacia di farmaci biologici per il trattamento della forma sistemica di AIG. Rimane da chiarire quale pro- 10 dotto scegliere nel singolo paziente e se iniziare precocemente la terapia con questi farmaci invece di attendere il fallimento di quelli convenzionali. Conclusioni Il rapido progredire delle conoscenze dell’immunologia di base offre al clinico l’opportunità di giungere ad una diagnosi più circostanziata, interpretare la patogenesi di quadri clinici complessi ed operare la scelta terapeutica più adeguata nel singolo paziente. Ad esempio, le IDP sono tradizionalmente considerate malattie rare, gravi, caratterizzate da infezioni politopiche sostenute da un vasto gruppo di agenti patogeni o opportunisti; alcune nuove IDP dimostrano che in realtà si tratta di patologie a prevalenza più elevata, spesso caratterizzate da una predisposizione selettiva ad uno o pochi patogeni, a prognosi non necessariamente infausta, anzi, in alcuni casi, soggette a graduale miglioramento. Il clinico dovrà quindi porre particolare attenzione nel valutare il bambino con infezioni ricorrenti o singoli episodi infettivi con decorso anomalo. La terapia genica è ormai una realtà, anche se saranno necessarie ulteriori ricerche, specie su vettori ottimali, per estenderne le applicazioni e garantirne non solo l’efficacia ma anche la sicurezza. L’identificazione di nuove popolazioni cellulari, come i Th17 e i TNK, apre nuovi approcci diagnostici e interpretativi e stimolanti prospettive terapeutiche a breve. Le malattie autoimmuni e le sindromi con flogosi cronica o ricorrente trovano oggi la possibilità di intervenire sui meccanismi patogenetici con farmaci specifici, mirati a modulare la risposta immune agendo sui recettori cellulari e sui loro ligandi. La conoscenza di tali farmaci (sempre più utilizzati anche in ambito pediatrico) e dei loro effetti collaterali non può rimanere patrimonio del solo specialista, ma deve entrare a far parte del bagaglio culturale del pediatra di famiglia per garantire un’assistenza ottimale ai suoi assistiti. Nuove frontiere dell’immunologia clinica Box di orientamento Cosa sapevamo prima • Un paziente affetto da un’immunodeficienza primaria è suscettibile ad un ampio spettro di agenti infettivi • L’unica opzione terapeutica per i gravi deficit cellulari è il trapianto di cellule staminali emopoietiche • Le malattie autoimmuni hanno una patogenesi multifattoriale, presumibilmente poligenica • La terapia delle malattie autoimmuni o delle flogosi croniche si basa su farmaci che entrano nella cellula e ne deprimono in modo aspecifico le funzioni. Cosa sappiamo adesso • Fra le immunodeficienze primarie vengono sempre più identificati difetti dell’immunità innata che provocano suscettibilità solo a certi agenti infettivi. • Alcune malattie autoimmuni sono sostenute da difetti di singoli geni. • Sono state identificate nuove popolazioni linfocitarie (Th17, NKT) deputate all’attivazione e/o al mantenimento della risposta infiammatoria in condizioni fisiologiche, ma potenzialmente coinvolte nella patogenesi di varie malattie immuno-mediate. • L’utilizzo di farmaci biologici che agiscono all’esterno o sulla superficie della cellula (anti-citochine o loro recettori, inibitori della co-stimolazione linfocitaria) permette di intervenire in modo efficace in molte patologie autoimmuni, riducendo gli effetti collaterali. … e per la pratica clinica? • Un bambino che presenti anche un singolo episodio infettivo grave o inusuale dovrebbe essere indagato per un possibile deficit immunologico, specie a carico dell’immunità innata. • La terapia genica è in grado di correggere un numero crescente di immunodeficienze primarie, anche se occorreranno ulteriori indagini per identificare i(l) vettori(e) ottimali(e). • In chiave diagnostica (e terapeutica) va ricordato che esistono forme monogeniche di malattie autoimmuni ad ereditarietà mendeliana. • Di fronte al sempre più esteso utilizzo di farmaci biologici è importante conoscerne il meccanismo d’azione ed i possibili effetti collaterali, quali l’aumentata suscettibilità ad alcune infezioni (ad es. 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[email protected] 11 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 12-19 IMMUNOLOGIA Sindromi emofagocitiche e malattie linfoproliferative da difetto dei meccanismi di citotossicità Valentina Cetica, Maurizio Aricò Dipartimento Oncoematologia Pediatrica e Cure Domiciliari, Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer, Firenze Riassunto La sindrome emofagocitica è una sindrome caratterizzata da febbre persistente, epatosplenomegalia e citopenia. La malattia si sviluppa in quanto i linfociti T proliferano in maniera aberrante, trascinando nella iperattivazione i macrofagi; questi ultimi aumentano la frequenza della fisiologica attività di fagocitosi delle cellule ematiche dando origine alla immagine di “emofagocitosi”. La forma familiare della malattia, la Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare è una patologia autosomica recessiva ad esordio solitamente molto precoce, con una frequenza stimata di circa 1:50.000. Ad oggi sono stati identificati 4 loci corrispondenti a 4 tipi clinici di Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare: il locus 9q21.3–22 mappato in un gruppo di 4 famiglie pakistane consanguinee il cui gene non è stato identificato ed i loci corrispondenti a geni che codificano per proteine espresse dalle cellule NK e CD8: PRF1, UNC13D e STX11. Accanto alle forme isolate, le emofagocitosi comprendono forme sindromiche con un quadro da difetto di citotossicità. La Sindrome di Griscelli è una malattia autosomica recessiva che origina da mutazioni del gene RAB27A, caratterizzata da deficit di pigmento. Una parte dei casi di Sindrome di Chediak-Higashi, causata da mutazioni nel gene LYST, accompagnata ad albinismo parziale, disturbi oculari e inclusi a carico dei precursori dei neutrofili, può essere complicata da una sindrome emofagocitica. La Sindrome di Hermansky-Pudlak di tipo 2 è causata da mutazioni nel gene che codifica per la subunità beta-3A del complesso adaptor protein-3. È una rarissima malattia, caratterizzata da difetto piastrinico e albinismo oculo-cutaneo associato a suscettibilità alle infezioni e neutropenia congenite. La Malattia linfoproliferativa X-linked è caratterizzata da incapacità a controllare l’infezione da virus di Epstein-Barr, cui segue un quadro clinico che può manifestarsi con mononucleosi severa, ipogammaglobulinema acquisita o linfoma. Mutazioni nel gene SAP identificano la forma di tipo 1, mutazioni nel gene Xiap il tipo 2. Grazie ai progressi della genetica molecolare negli ultimi 10 anni, oggi è possibile la identificazione genetica delle diverse forme di sindrome emofagocitica su base familiare, che permette di offrire al clinico ed alla famiglia una conferma alla diagnosi clinica ed una consulenza genetica con implicazioni rilevanti anche dal punto di vista terapeutico. Summary Haemophagocytic syndrome is a disorder characterized by fever, hepatosplenomegaly and cytopenia. The syndrome manifests with aberrant proliferation of T lymphocytes and macrophage activation which leads to typical hemophagocytosys. Familial Haemophagocytic Lymphohistiocytosis is an early-onset, autosomal recessive disease with estimated prevalence of 1:50.000. Four loci have been identified corresponding to different subtypes of Familial Haemophagocytic Lymphohistiocytosis. The 9q21.3–22 locus was mapped in 4 Pakistan consanguineous families but correspondent gene was never identified. Other three loci contain PRF1, UNC13D and STX11 genes. There are other syndromes characterized by cytotoxic defect. Griscelli syndrome is an autosomal recessive disorder characterized by pigment deficiency, which originates from RAB27A gene defects. A subgroup of patients with Chediak-Higashi Syndrome can manifest haemophagocytosys associated with partial albinism, ocular abnormalities and granules in neutrophil precursors. Lyst gene mutations have been related to this phenotype. Type 2 Hermansky-Pudlak syndrome, a rare genetic defect with platelet abnormalities, oculo-cutaneous albinism and congenital neutropenia, is caused by mutation of the b3a subunit of adaptor protein-3 complex. X-linked lymphoproliferative disease manifests in response to Epstein-Barr virus infection with limphohystiocytosis, hypogammaglobulinaemia and lymphomas. SAP gene mutations identify type 1 XLP, while XIAP gene mutations the type 2. Molecular genetics tests permit nowadays to discriminate among different types of FHL and to offer a confirmation to clinical diagnosis with relevant therapeutics consequences. I meccanismi di citotossicità linfocitaria mediata dai granuli lisosomiali costituiscono un baluardo essenziale nella difesa dell’ospite da infezioni e tumori. Come per molte altre funzioni dell’organismo, la complessità di questi meccanismi rende solitamente assai difficile chiarire il relativo contributo delle diverse componenti. In questo senso alcune malattie congenite che compromettono selettivamente una o più componenti della catena funzionale hanno permesso, con un vero “experimentum naturae”, di interpretare il ruolo fondamentale di questa catena metabolica nella complessità del sistema immunitario umano. Quando l’organismo è esposto ad un patogeno infettante, l’immunità innata e quella adattativa collaborano nell’eliminare l’infezione e 12 lavorano in parallelo per costruire una memoria efficace di questo fenomeno. I virus rappresentano dei patogeni di frequente incontro, cui l’organismo risponde espandendo la popolazione linfocitaria T CD8+. Queste cellule si attivano metabolicamente, producono una grande quantità di mediatori infiammatori tra cui un ruolo prevalente è giocato da interferon-gamma (IFN-γ) e riescono solitamente a uccidere le cellule infettate. Il contributo di IFN-γ sta nella inibizione – più o meno efficace – dei meccanismi di replicazione virale, ma anche nella attivazione metabolica dei macrofagi e più specificamente nella generazione di una risposta infiammatoria. La sopravvivenza e l’integrità dell’ospite, specie per quanto riguarda Sindromi emofagocitiche e malattie linfoproliferative da difetto dei meccanismi di citotossicità l’universo dei microrganismi ambientali, è quindi il risultato di un equilibrio costante tra gli insulti che vengono dall’esterno e le capacità dell’organismo di tenerli sotto controllo. Questo equilibrio deve finalisticamente volgere a favore dell’organismo per permettere la sua integrità. Eventi eccezionali quali una straordinaria virulenza del patogeno o una insufficiente funzionalità dell’apparato di difesa possono condizionare l’equilibrio in maniera sfavorevole, portando ad un danno locale a carico di cellule e tessuti coinvolti, ma talora anche ad un esito fatale. In alcune occasioni il paziente che va incontro ad una infezione, anche da patogeni comuni, può risultare inadeguato al suo controllo efficace e quindi sviluppare una quadro clinico di malattia apparentemente inatteso. Alcune volte questo sarà il risultato di particolare aggressività del virus, e quindi l’organismo potrà trovare in sé le risorse per una successiva guarigione. In alcuni casi invece il paziente può essere del tutto inidoneo ad una risposta efficace e la malattia risultare quindi non guaribile per decorso spontaneo. Come in molte altre condizioni cliniche quindi la malattia eventuale risulta da un bilancio tra la capacità del patogeno di aggredire e quella dell’ospite di difendersi. La sindrome emofagocitica: un esempio di insufficienza della risposta immunitaria Il quadro clinico della sindrome emofagocitica è caratterizzato innanzitutto dalla febbre persistente, che resiste alla terapia antibiotica, in un paziente che manifesta anche epatosplenomegalia e citopenia. Meno costanti sono elementi come linfoadenomegalia, rash cutaneo, turbe della coagulazione, disturbi neurologici. La Histiocyte Society ha sviluppato nel 1994 dei criteri diagnostici per aiutare i clinici a giungere alla diagnosi. Tali criteri sono stati recentemente aggiornati ed integrati (Tab. I). La malattia si sviluppa in quanto i linfociti T proliferano in maniera aberrante, trascinando nella iperattivazione i macrofagi; questi ultimi aumentano la frequenza della fisiologica attività di fagocitosi delle cellule ematiche, specie eritrociti, dando origine alla immagine di “emofagocitosi” che ne è divenuta un eponimo. Queste cellule possono dare origine ad un infiltrato ubiquitario, a carico di organi e tessuti, che può risultare gravemente nocivo per la funzione, fino a provocare la necrosi. Il fenomeno è potenziato dalla produzione eccessiva di citochine infiammatorie tra cui IFN-γ, TNFα, IL-1 ed IL-6, che spiegano aspetti quali febbre, iperlipidemia, turbe della coagulazione e la stessa emofagocitosi (Aricò et al., 2001). Il quadro clinico e bioumorale descritto sopra identifica una sindrome, che può essere il risultato di eventi sovrapposti o di un difetto congenito. Di fatto un bambino può sviluppare la sindrome perché sottoposto ad immunosoppressione farmacologica, ad esempio con steroidi o chemioterapia, (Risdall et al., 1979) o perché costituzionalmente immunodepresso. Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare Descritta inizialmente nel 1952 da Farquhar e Claireaux (Farquhar e Claireaux, 1952) la Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare (LEF o FHL, Familial Hemophagocytic Lymphohistiocytosis) è una forma familiare di sindrome emofagocitica. L’esordio è solitamente molto precoce, nei primi mesi di vita, occasionalmente già alla nascita o nei primi anni. La frequenza è stata stimata in 1:50.000 nati. Il quadro clinico, solitamente molto severo, si sviluppa dopo un intervallo libero che suggerisce che la malattia sia scatenata dalla Tabella I. Criteri diagnostici aggiornati per la Linfoistiocitosi Emofagocitica (da Henter et al., 2007, mod.). La diagnosi si basa su due condizioni: • Una diagnosi molecolare di Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare • Presenza di almeno 5 dei seguenti criteri diagnostici Criteri originali 1. Febbre 2. Splenomegalia 3. Citopenia (con interessamento di almeno 2 linee): a. Emoglobina < 9 g/dL (neonati: < 10 g/dL) b. Piastrine < 100 x 109/L c. Neutrofili < 1,0 x 109/L 4. Ipertrigliceridemia e/o ipofibrinogenemia: a. Trigliceridi a digiuno > 265 mg/dl b. Fibrinogeno < 150 g/dL 5. Emofagocitosi all’esame morfologico di midollo osseo o milza o linfonodi 6. Nessuna evidenza di malignità istologica Criteri addizionali 7. Attività NK ridotta o assente 8. Ferritina > 500 mg/L 9. CD25 (recettore IL-2) solubile > 2,400 U/ml Commenti 1. Se la emofagocitosi non è documentata alla diagnosi, dopo valutazione ampia e prolungata del preparato morfologico, è utile ricercarla nel corso della malattia, specie in occasione di riattivazioni. 2. Ulteriori elementi a favore della diagnosi sono: • pleiocitosi liquorale; • iperproteinorachia; • quadro istologico nel fegato simile a quello della epatite cronica attiva. 3. Altri elementi clinici che possono essere presenti sono: meningismo, linfoadenomegalia, ittero, edema, rash cutaneo, alterazione degli enzimi epatici, ipoproteinemia, iponatremia. esposizione ad un patogeno, assai verosimilmente un virus ad ampia circolazione. Studi retrospettivi hanno associato questa forma con infezioni comuni, respiratorie o intestinali. L’analisi funzionale dei bambini affetti da FHL documenta un difetto di attività natural killer (NK) come base patogenetica. Le cellule NK sono normali come numero ma non hanno capacità citotossiche (Perez et al., 1984; Aricò et al., 1988); Schneider et al., 2002). Il difetto è caratteristicamente persistente, per cui la sua dimostrazione, anche ad un singolo test, deve assumere un valore fortemente orientativo sulla diagnosi; al contrario, nelle forme acquisite (IAHS: Infection-Associated Hemophagocytic Syndrome; VAHS: VirusAssociated Hemophagocytic Syndrome), l’eventuale difetto durante la fase acuta è parziale e seguito da una normalizzazione in fase di risoluzione clinica, già entro poche settimane. Nella fase iniziale dello studio di questa malattia sono state ripetutamente ricercate anomalie cromosomiche che peraltro non sono documentabili. Al contrario, a partire dal 1999, analisi di linkage su famiglie informative hanno permesso di identificare regioni cromosomiche associate alla FHL. In un gruppo di 4 famiglie pakistane consanguinee è stato identificato un linkage con la regione 9q21.3–22 (Ohadi et al., 1999). Purtroppo, a questo non è seguita la identificazione di un gene malattia in quella regione. Inoltre, la associazione non è stata confermata con altre famiglie pakistane né di altra etnia. La limitatezza della osservazione non ha permesso di 13 V. Cetica, M. Aricò approfondire ulteriormente le caratteristiche di questo sottogruppo, dal punto di vista genetico e funzionale. Contemporaneamente, ed usando la stessa metodica di analisi di linkage, è stato identificato un legame con la regione 10q21–22 in un gruppo di pazienti di origine etnica diversa, definiti affetti da FHL2 (Stepp et al., 1999). Successivamente, nel 2003 è stato identificato un linkage con una terza regione, 17q25, definita FHL3 (Feldman et al., 2003), ed infine più di recente anche con una quarta regione, 6q24, definendo il sottogruppo FHL4 in un gruppo di pazienti che condividono l’origine curda (Zur Stadt et al., 2005). Complessivamente questi sottogruppi permettono la classificazione della maggior parte dei casi di FHL, anche se i dati oggi disponibili suggeriscono l’esistenza di almeno due ulteriori sottogruppi non ancora definiti. Sindromi emofagocitiche isolate Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare da deficit di perforina (OMIM 603553) Il primo gene correlato con la FHL è PRF1, che codifica per la proteina perforina (Stepp et al., 1999). Il gene contiene tre esoni, di cui il 2 ed il 3 codificano per una proteina di 555 aminoacidi. La proteina è composta di 21 aminoacidi e viene processata nel lume del reticolo endoplasmico per ottenere una forma attiva di 60-kDa che ne permette la esposizione e quindi il legame calcio dipendente del dominio C2 ai fosfolipidi. La perforina è espressa dai linfociti T citotossici e dalle cellule NK anche in fase di riposo. Dopo il suo rilascio dai granuli litici, si ritiene che la perforina formi degli oligo-polimeri (verosimilmente dei tetrametri) che si dispongono a formare dei “pori” nella membrana della cellula bersaglio, con un meccanismo simile a quanto accade per la frazione C9 del complemento. Uno studio cooperativo recente ha raccolto 124 pazienti con FHL2 osservati in diversi continenti; questa numerosità ha permesso di eseguire per la prima volta una ampia analisi genotipo-fenotipo in questa malattia. Sono state identificate oltre 60 mutazioni diverse (Fig. 1), distribuite lungo i due esoni codificanti del gene; di esse, 11 sono nonsense, 10 frameshift, 38 missense e 4 delezioni in-frame. Alcune mutazioni sono state osservate più di frequente: 1122G > A (W374X), associata ad origine turca, in 32 pazienti; 50delT (L17fsX22) associata ad origine africana o afro-americana, in 21 pazienti; 109091delCT (L364fsX), in 7 pazienti giapponesi. Lo studio funzionale in citofluorimetria ha mostrato che la espressione di perforina intracitoplasmatica era assente in 40, ridotta in 6 e normale in 4 pazienti. L’età mediana all’esordio era 3 mesi (quartili: 2, 3 e 13 mesi), in tutti i casi con febbre, splenomegalia e piastrinopenia. L’attività NK era assente in 36 casi (51%), ≤ 2% in 18 (26%), 3-5% in 10 (14%), > 5% in 4 (6%), “ridotta” in 2 (3%) pazienti. Le mutazioni nonsense erano associate in maniera statisticamente significativa ad un’età più bassa alla diagnosi (p < 0,001) ed assenza della attività NK (p = 0,008) (Trizzino et al., 2008). Al contrario, pazienti con almeno una mutazione missense che permette una attività residua della proteina, hanno una esordio relativamente più tardivo e una parziale attività NK residua. È importante ricordare che in rari casi la malattia può esordire in età più avanzata o addirittura adulta (Allen et al., 2001; Clementi et al., 2002). Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare da deficit di Munc13-4 (FHL3; OMIM 608898) Solo circa il 40% dei casi di FHL rientrano nel sottogruppo FHL2. In molti dei rimanenti pazienti, caratterizzati da un quadro clinico praticamente indistinguibile, il difetto di citotossicità non è spiegabile con un difetto di perforina. Studi condotti su un gruppo di famiglie consanguinee con la tecnica di homozygosity mapping hanno permesso di identificare nel 2003 un secondo sottogruppo genetico (FHL3), accomunato dal legame con una regione cromosomica in cui è contenuto il gene UNC13D noto anche come Munc13–4 (Feldmann et al., 2003). Questo gene contiene 32 esoni e codifica la proteina Munc13-4, di 123-kDa, implicata anch’essa nel meccanismo della Figura 1. Dettaglio di 63 mutazioni di PRF1 documentate in 124 pazienti con FHL2. Le mutazioni sono distribuite lungo i due esoni codificanti. (Trizzino et al., 2008). In alto sono rappresentati i domini della proteina: MAC (membrane attack complex), EGF (epidermal growth factor-like domain), C2 (calcium-binding). 14 Sindromi emofagocitiche e malattie linfoproliferative da difetto dei meccanismi di citotossicità identificazione delle mutazioni patogenetiche potrebbe mancare, con evidenti implicazioni cliniche. In una serie di 30 famiglie con FHL3 studiate dal nostro gruppo, l’età mediana alla diagnosi era di 4 mesi, ma ben sei pazienti avevano sviluppato la malattia a 5 anni o più, addirittura talora da giovane adulto. Il sistema nervoso centrale sembra essere interessato più spesso che nei casi di FHL2, forse in relazione al fatto che la famiglia Munc13 svolge un ruolo rilevante nelle sinapsi del sistema nervoso. Figura 2. Rappresentazione grafica della interazione tra alcune delle principali proteine che interagiscono nella funzione dei granuli lisosomiali e quindi alla risposta linfocitotossica. Sono indicati i livelli in cui si verifica il difetto funzionale in alcune delle forme genetiche di FHL (da Ménasché et al., 2005, mod.). citotossicità; in particolare essa è indispensabile per la fusione dei granuli alla membrana e quindi per la loro esocitosi (Fig. 2). Mutazioni del gene limitano la possibilità di immettere le proteine effettrici, perforina e granzymes, nella cellula bersaglio e quindi inducono un difetto di citotossicità. Ad oggi sono note 58 diverse mutazioni di Munc13-4, sia delezioni che nonsense, frameshift o missense con alterazioni maggiori della proteina (Fig. 3). A differenza di quanto accade nella FHL2, mutazioni introniche responsabili di alterazioni dei meccanismi di splicing sono molto frequenti nella FHL3 (Feldmann et al., 2003). Questo ha indotto delle modifiche specifiche nella strategia di analisi di mutazione in questi pazienti, in cui altrimenti la corretta Forme meno frequenti di sindrome emofagocitica su base genetica Sulla base degli studi eseguiti finora, si può affermare che oltre l’80% dei casi di sindrome emofagocitica su base genetica ricadono nelle forme da deficit di perforina (FHL2) o Munc13-4 (FHL3) (M. Aricò, dati non pubblicati). Nei pazienti rimanenti, le cause genetiche sono diverse. Va ricordato che la maggioranza di questi pazienti condivide un difetto di attività NK. Pertanto altre proteine coinvolte in questa catena funzionale possono essere responsabili di un quadro clinico analogo. Linfoistiocitosi Emofagocitica Familiare da deficit di Sintaxina 11 (OMIM 603552) In una ampia famiglia consanguinea di origine Curda con FHL Zur Stadt et al. (Zur Stadt et al., 2005) hanno identificato mediante homozygosity mapping un nuovo locus legato alla malattia (6q24). Una delezione di 5-bp nel gene sintaxina-11 (STX11) era responsabile di un difetto della omonima proteina nelle cellule mononucleate. La stessa mutazione è stata identificata in altre due famiglie di origine etnica simile; in un’altra famiglia si è identificata una ampia delezione Figura 3. Struttura del gene UnC13-D/Munc13-4, elenco e distribuzione delle mutazioni riportate in pazienti con FHL3. In alto è riportata l’organizzazione della proteina con i due domini C2 di legame con il calcio e due domini MHD omologhi all’antigene del melanoma. In basso i 32 esoni del gene e le mutazioni conosciute. 15 V. Cetica, M. Aricò di 19.2-kb pari all’intera regione codificante, cioè l’esone 2; altre due famiglie avevano una mutazione nonsense (Q268X). Sintaxina11 è un membro della famiglia di proteine interessate al traffico intracellulare definite soluble N-ethylmaleimide-sensitive factor attachment protein receptors (SNAREs). È espressa nei linfociti T ed NK e gioca un ruolo nella esocitosi dei granuli, mentre non è indispensabile per la citotossicità anticorpo-mediata. Emofagocitosi associate a forme sindromiche Sindrome di Griscelli (OMIM 607624) La Sindrome di Griscelli (SG) è una malattia autosomica recessiva caratterizzata da un deficit di pigmento la cui distribuzione anomala è identificabile alla microscopia ottica. Il quadro clinico dei bambini con SG è praticamente indistinguibile da quello della FHL se non per il difetto di pigmento la cui manifestazione più vistosa sono i capelli grigi. La malattia origina da mutazioni del gene RAB27A (che mappa nella regione 15q21), di sette esoni di cui solo gli ultimi cinque codificanti per una proteina di 221 aminoacidi di 25kDa, regolatrice del trasporto nel pathway funzionale della esocitosi, espressa diffusamente (Griscelli et al., 1978; Pastural et al., 1997). Sindrome di Chediak-Higashi (OMIM 214500) La Sindrome di Chediak-Higashi (CHS) è causata da mutazioni nel gene LYST (lysosomal trafficking regulator) che mappa in 1q42.1q42.2. Il quadro clinico è caratterizzato, oltre che dalla sindrome emofagocitica, anche da un deficit di pigmento a carico di capelli ed occhi (albinismo parziale), disturbi oculari (fotofobia e nistagmo), e presenza di inclusi a carico dei precursori dei neutrofili. I bambini hanno una suscettibilità alle infezioni che deriva da un difetto della citotossicità T ed NK. Il deficit della proteina CHS1/LYST, di 419-kDa, è causa della CHS e del suo modello animale (beige mouse). Studi recenti suggeriscono che un difetto della proteina CHS1/LYST alteri il trasporto dei granuli verso la loro forma matura ma il suo ruolo esatto non è ancora ben definito. Poiché il gene è molto lungo (13.5 kb), la analisi di mutazioni è impegnativa. Mutazioni nonsense sono responsabili della forma classica mentre mutazioni missense sono state documentate in rari pazienti con fenotipo meno severo (Barrat et al., 1996). Sindrome di Hermansky-Pudlak tipo 2 (OMIM #608233) La Sindrome di Hermansky-Pudlak tipo 2 (HPS2) è causata da mutazioni nel gene che codifica per la subunità beta-3A del complesso adaptor protein-3 (AP3), che trasporta proteine dal trans-Golgi e dal compartimento tubulare-endosomiale agli organuli correlati ai lisosomi. Il gene mappa in 5q14.1. Si tratta di una rarissima malattia appartenente ad un gruppo di patologie clinicamete e geneticamente eterogeneo, caratterizzata da difetto piastrinico e albinismo oculo-cutaneo associato a suscettibilità alle infezioni e neutropenia congenite. Nei pazienti è stato dimostrato che il contenuto di perforina nelle cellule NK e di elastasi dei neutrofili è assai ridotto, a causa di un difetto del loro trasporto. Questo giustifica la neutropenia ed il deficit di attività NK che può stare alla base della comparsa di una sindrome emofagocitica. Malattia linfoproliferativa X-linked (X-linked lymphoproliferative syndrome; Duncan disease; OMIM 308240) La Malattia linfoproliferativa X-linked (XLP) è caratterizzata da incapacità a controllare la infezione da virus di Epstein-Barr, cui segue un quadro clinico che può manifestarsi con mononucleosi 16 severa, ipogammaglobulinema acquisita o linfoma; più raramente può esprimersi anche con anemia aplastica o aplasia della serie rossa (Purtilo et al., 1975). Mutazioni del gene SH2D1A, che mappa in Xq25 e codifica per la signalling lymphocyte activation molecule (SLAM)-associated protein (SAP), sono state identificate nel 60% di pazienti con XLP. (Coffey et al., 1998, Latour, 2007). La proteina, espressa nei linfociti T ed NK, è un regolatore cruciale della ontogenesi delle cellule NK-T, la cui assenza è responsabile della XLP. Linfociti di pazienti con XLP, difettivi per SAP, mostrano una marcata incapacità di lisare cellule B infettate dal virus di Epstein-Barr; un quadro simile è riproducibile in vitro bloccando il recettore 2B4 nei linfociti normali e quindi inibendo la polarizzazione dei granuli, fenomeni critici nella patogenesi della XLP (Duprè et al., 2005). Poiché il fenotipo della XLP nella sua variante “mononucleosi fulminante” può assumere caratteristiche simili a quelle della sindrome emofagocitica, abbiamo analizzato in passato una coorte di pazienti con diagnosi clinica di linfoistiocitosi. Su 25 pazienti maschi, 4 (16%) erano portatori di mutazioni a carico di SH2D1A/ SAP, sia delezioni che nonsense, responsabili di una proteica prematuramente tronca. Di questi 4 pazienti, solo due avevano una storia familiare in qualche modo suggestiva di XLP. Sulla base di questo, i pazienti maschi con diagnosi di sindrome emofagocitica andrebbero studiati anche per escludere la diagnosi di XLP. Malattia linfoproliferativa X-linked di tipo 2 (XIAP deficiency; OMIM 300635) Mutazioni del gene che codifica per la proteina X-linked inhibitor of apoptosis o XIAP (nota anche come BIRC4) sono state identificate nel 2006 in pazienti con XLP da tre famiglie esenti da mutazioni di SAP (Rigaud, 2006). Queste mutazioni erano causa di una espressione difettiva di XIAP. L’apoptosi dei linfociti di pazienti con XIAP è aumentata in risposta a vari stimoli tra cui il complesso T-cell receptor-CD3, il recettore CD95 (noto anche come Fas or Apo-1), e il TNF-associated apoptosis-inducing ligand receptor (TRAIL-R). I pazienti con deficit di XIAP, come quelli con deficit di SAP, hanno un numero ridotto di linfociti NK-T, suggerendo che XIAP è necessario per la loro sopravvivenza e/o differenziazione; questo conferma inoltre il ruolo centrale di questa sottopopolazione nella immunità nei confronti di EBV. Approccio clinico alla sindrome emofagocitica La sindrome emofagocitica, descritta sulla base di una costellazione di alterazioni cliniche e bioumorali, è una condizione clinica di diagnosi complessa ma che richiede un trattamento precoce in quanto la mortalità nelle prime due settimane può essere estremamente elevata (Aricò et al., 1996; Aricò et al., 2002). Il trattamento attuale utilizza una chemio-immunoterapia con steroidi, ciclosporina e etoposide (Henter et al., 2002; Henter et al., 2007), che permette in oltre l’80% dei pazienti di raggiungere una stabilizzazione clinica e quindi di avere tempo per una valutazione diagnostica più estesa. Questa si basa su due elementi fondamentali: 1) l’identificazione di una eventuale causa scatenante facilmente trattabile; 2) l’identificazione di eventuali fattori predisponenti su base genetica. Ad esempio va ricordato che alcuni pazienti con leishmaniosi viscerale possono presentarsi con un quadro clinico assolutamente simile a quello della FHL; in questi casi l’identificazione del parassita Sindromi emofagocitiche e malattie linfoproliferative da difetto dei meccanismi di citotossicità Chemioterapia (8 settimane) Difetto geneticofamiliare Terapia fino al TCSE Malattia persistente non-familiare non-genetica Terapia fino al TCSE Risoluzione della malattia (non-familiare, non-genetica) Arresto della terapia Riattivazione Terapia fino al TCSE Figura 4. Approccio clinico e terapeutico ai pazienti con sindrome emofagocitica (da Henter et al., 2007, mod.). sullo striscio di aspirato midollare e la sua conferma (mediante IFI – Immunofluorescenza Indiretta o PCR – Polimerase Chain Reaction) permetterà di avviare una terapia risolutiva. La maggior parte dei pazienti con sindrome emofagocitica ha segni diretti o indiretti di una infezione virale da patogeni comuni, quali EBV o citomegalovirus (Aricò et al., 1996). La loro presenza non è indicativa in quanto il loro ruolo scatenante è identico nei pazienti con o senza difetto genetico. È indispensabile capire se un quadro clinico così impegnativo si è sviluppato per una incapacità temporanea del bambino a controllare l’infezione o al contrario per una sua immunodeficienza costituzionale. Dati clinico-anamnestici come la consanguineità, la familiarità o la presenza di albinismo (Stinchcombe et al., 2004), saranno elementi a favore di una predisposizione costituzionale. La dimostrazione del difetto di attività NK è una evidenza assai indicativa di un difetto costituzionale e dovrà suggerire di avviare rapidamente l’analisi di mutazioni dei geni correlati. Al contrario la sua normalità depone per un quadro più frequentemente “secondario” cioè indotto da una depressione transitoria delle difese, ma con potenziale di recupero completo. Questa strategia è rispecchiata nelle indicazioni terapeutiche fornite dalla Histiocyte Society e dall’Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatrica (AIEOP) (Fig. 4). Poiché la valutazione della attività NK non può che essere riservata a laboratori con chiara esperienza specifica, sono stati sviluppati strumenti aggiuntivi per lo screening delle forme più frequenti di FHL. A questo scopo la citofluorimetria assume un ruolo rilevante: la dimostrazione della normale espressione di perforina intracitoplasmatica da parte dei linfociti T ed NK è solitamente sufficiente ad escludere la presenza di mutazioni di PRF1 e quindi di FHL2. Parallelamente la possibilità di documentare una normale attività di degranulazione dei linfociti sotto stimolo antigenico adeguato permette di escludere la presenza di difetti proteici connessi con la catena funzionale della degranulazione, come accade per Munc13-4 e Sintaxina 11, rispettivamente in FHL-3 e FHL-4. Il test di espressione del CD107a, sviluppato dal nostro gruppo, è divenuto lo standard diagnostico (Marcenaro et al., 2006) (Fig. 5): pazienti con difetto di espressione di CD107a dovranno quindi andare direttamente all’analisi di mutazioni per FHL3 ed FHL4. Nei casi in cui lo screening citofluorimetrico non sia indicativo, l’analisi della attività NK, ottenibile in seguito, sarà dirimente: se normale, l’ipotesi più verosimile è che il paziente abbia una sindrome cosiddetta Figura 5. La mancata espressione del CD107a da parte delle cellule NK dopo stimolazione appropriata identifica un difetto di degranulazione presente nei pazienti con FHL3 (UPN293, UPN336) da deficit di Munc13-4 ma non in quelli con FHL2 (UPN314) da deficit di perforina (Marcenaro et al., 2006). 17 V. Cetica, M. Aricò “associata ad infezione” o secondaria, con ampie possibilità di recupero. Dopo la fase iniziale, ottenuta la stabilizzazione, la terapia andrà interrotta per valutare la possibilità di una risoluzione completa. Solo nel caso di una mancata risposta o di una riattivazione il paziente andrà rivalutato accuratamente per escludere che si tratti di una forma atipica. Un difetto della attività NK, così come la presenza di albinismo parziale, dovranno essere considerati assai suggestivi di una condizione genetica. Nel caso di pazienti maschi, specie se con anamnesi familiare positiva per casi analoghi, dovrà far ricordare la possibilità di una malattia X-linked. A questo scopo lo studio citofluorimetrico ed immunologico potrà essere di aiuto nella valutazione della espressione della proteina SAP, nella conta dei linfociti NK-T o nel comportamento del recettore 2B4, test questi riservati a laboratori centralizzati con esperienza specifica nel campo. Si ricorda che la anamnesi familiare e soprattutto la sospetta o dimostrata consanguineità dei genitori sarà un elemento aggiuntivo di sospetto di una forma genetica. La diagnosi genetica di immunodeficienza congenita alla base della sindrome emofagocitica sarà una indicazione assoluta al trapianto di cellule staminali emopoietiche (TCSE), unica procedura che ad oggi garantisce la guarigione competa dalla malattia. Al contrario, è importante che pazienti con forme “secondarie”, quindi reversibili, siano prontamente riconosciuti e quindi trattati senza ricorrere al TCSE. È oggi noto che pazienti con artrite sistemica possono sviluppare una sindrome emofagocitica nel corso della malattia o, più insidiosamente, al suo esordio. In questi casi il trattamento immunosoppressivo potrà limitarsi alla ciclosporina con o senza steroidi, e più raramente richiederà l’impiego di etoposide, certamente mai del TCSE. È interessante dal punto di vista scientifico l’osservazione che pazienti con artrite complicata da sindrome emofagocitica (spesso definita anche “sindrome da iperattivazione macrofagica – MAS) hanno una maggiore frequenza di mutazioni eterozigoti dei geni implicati nella FHL. Infine va ricordato che la sindrome emofagocitica può essere osservata come complicanza di diverse forme di immunodeficienza congenita, dalla SCID alla XLA (Cesaro et al., 2003). In conclusione, la sindrome emofagocitica rappresenta una sfida diagnostica e terapeutica per il pediatra, specie in ambito immunologico ed onco-ematologico. La migliore e più diffusa conoscenza della malattia ottenuta negli ultimi 20 anni ha portato il numero di casi diagnosticati assai vicino a quelli attesi; si può così prevenire l’elevata mortalità precoce mediante l’uso di un trattamento efficace ed avviare un iter diagnostico articolato. Con questo approccio la maggior parte dei casi può essere inquadrato correttamente, conducendo alla rapida guarigione nelle forme secondarie, ma anche al successo nelle forme genetiche in cui il paziente può essere curato dal TCSE; l’intera famiglia può avere una consulenza genetica appropriata, che apre le porte al riconoscimento dei portatori ma anche alla diagnosi prenatale ove questo sia richiesto. Rimane aperta la sfida che riguarda la identificazione del difetto genetico nel rimanente 20% dei casi familiari. La identificazione di alcune mutazioni nei geni connessi, ha aperto un dibattito sul loro ruolo predisponente – attraverso il difetto parziale del meccanismo di citotossicità – nei confronti di altre malattie, autoimmuni o neoplastiche (Cannella et al., 2007; Cappellano et al., 2008; Clementi et al., 2005; Orilieri et al., 2008; Trambas et al., 2005). Bibliografia Coffey AJ, Brooksbank RA, Brandau O, et al. Host response to EBV infection in X-linked lymphoproliferative disease results from mutations in an SH2-domain encoding gene. Nature Genet 1998;20:129-35. ** Identificazione del gene SH2D1A mutato nella XLP. Dupré L, Andolfi G, Tangye SG, et al. SAP controls the cytolytic activity of CD8+ T cells against EBV-infected cells. Blood 2005;105:4383-9. Farquhar J, Claireaux A. Familial haemophagocytic reticulosis. Arch Dis Child 1952;27:519-25. Feldmann J, Callebaut I, Raposo G, et al. 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E-mail: [email protected] 19 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 20-26 IMMUNOLOGIA Evoluzione della terapia con immunoglobuline Annarosa Soresina, Stefania Bolognini, Vassilios Lougaris, Alessandro Plebani Clinica Pediatrica, Università di Brescia Riassunto Dal 1952 le immunoglobuline hanno trovato impiego sistematico nella pratica clinica, modificandosi negli anni e nei diversi paesi del mondo la via di somministrazione, ma soprattutto trovando sempre maggior utilizzo in un numero crescente di patologie. Nel tempo sono stati anche raggiunti per tutti i prodotti disponibili i requisiti fondamentali di qualità (efficacia, sicurezza e tollerabilità). Attualmente le immunoglobuline umane sono disponibili in preparazioni somministrabili per via endovenosa (IVIG) e per via sottocutanea (SCIG). Il trattamento con IVIG è quello più diffuso nel mondo. Il trattamento con SCIG costituisce attualmente un’alternativa al trattamento sostitutivo con IVIG nelle Immunodeficienze primitive ed in alcuni paesi ha preso il sopravvento sulle IVIG. Le immunoglobuline hanno un meccanismo d’azione complesso con molteplici effetti. L’impiego principale è come terapia sostitutiva nelle immunodeficienze primitive caratterizzate da difetto anticorpale, per le quali costituisce la terapia cardine “salvavita”. Il trattamento sostitutivo è indicato anche in condizioni con difetto anticorpale secondario, come alcuni tumori, il trapianto di midollo osseo ed il trapianto d’organo, nei bambini con infezione da HIV e nei neonati prematuri. I preparati di IVIG, inoltre, possono essere impiegati come terapia immunomodulante e antinfiammatoria, grazie alla loro capacità di interagire con i fattori del complemento, di prevenire il danno tissutale complemento-mediato, di modulare l’attività dei linfociti T e di modificare il profilo delle citochine. Infatti, le IVIG si sono dimostrate efficaci in numerose malattie autoimmuni e malattie infiammatorie sistemiche. In particolare vengono utilizzate nella Porpora Trombocitopenica Idiomatica, nella Malattia di Kawasaki e recentemente, vengono sempre più utilizzate nel trattamento di alcune malattie neurologiche caratterizzate da un’eziopatogenesi autoimmune, come la malattia di Guillain-Barré, la Chronic Inflammatory Demyelinating Polyradiculoneuropathy, la Multifocal Motor Neuropathy e la Miastenia gravis. Le IVIG hanno trovato impiego anche in numerose altre condizioni, considerate il risultato di un’abnorme risposta immune; molte di queste patologie hanno poche o nessuna alternativa terapeutica. Ad esempio alcune malattie dermatologiche (la sindrome di Stevens-Johnson, le dermatosi bollose, l’orticaria vasculitica, il pioderma gangrenoso), la poliabortività, lo shock settico, le malattie infiammatorie intraoculari croniche come le uveiti refrattarie e il pemfigo cicatriziale oculare. Tuttavia, nonostante tutte queste patologie presentino un razionale per il trattamento con IVIG, la disponibilità del prodotto ed anche il costo di tale terapia hanno portato negli ultimi anni a promuovere la diffusione di linee guida evidenced-based sull’impiego delle IVIG, basate sulle prove di efficacia disponibili in letteratura definendone le indicazioni terapeutiche e quelle off-label. Tale strumento insieme al monitoraggio del consumo di IVIG si sono dimostrati efficaci nell’ottimizzarne l’utilizzo. Summary Since 1952, immunoglobulins have been largely used in clinical practice, with different ways of somministration varying in years and in different countries, but mainly they have had an increasing indication for use in numerous pathologies. During time, the highest quality standards have been met for all products (efficacy, safety and tolerability). At present, human immunoglobulins are available in two preparations, for endovenous (IVIG) and for subcutaneous (SCIG) somministration. IVIG replacement therapy is the most frequent modality used. On the other hand, the subcutaneous somministration represents currently a valid alternative to IVIG in primary immunodeficiencies (PIDs). Immunoglobulins have a complex mechanism of action. Their main utilization is the replacement therapy in PIDs with antibody deficiency, where they represent the essential life saving therapy. Replacement therapy is also indicated in conditions where the antibody deficiency is secondary, i.e., in some tumours, bone marrow transplantation, solid organ transplantation, paediatric HIV and premature newborns. In addition, IVIG preparations may find indications as immunomodulants and anti-inflammatory drugs, thanks to their ability to interact with components of the complement cascade, prevent complement-mediated tissutal damage, modulate T lymphocyte activity and finally modify the chemokine profile. Indeed, IVIG have been demonstrated as an efficient therapeutical approach in numerous autoimmune and systemic inflammatory diseases. In particular, they find major indications in Idiopathic Thrombocytopenic Purpura and Kawasaki Disease, while recently they have found increasing applications in autoimmune related neurologic disorders such as Guillain-Barré syndrome, Chronic Inflammatory Demyelinating Polyradiculoneuropathy, Multifocal Motor Neuropathy and Myasthenia Gravis. IVIG have also been used in other conditions where the main pathogenetic mechanism is considered an abnormal immune response; for many of these disorders, no alternative therapy is available. For example, some dermatologic disorders (Stevens-Johnson syndrome, bolus dermatitis, vasculitic orticaria, pioderma gangrenosum), multiabortivity, septic shock, chronic intraocular inflammatory diseases, such as refractory uveitis and ocular pemphigo with scars. Nonetheless, although these disorders may represent an indication for IVIG treatment, in recent years the limited availability of this product and its elevated cost have created the necessity for evidence-based guide lines for IVIG treatment, based on scientific data available in the literature, allowing therefore the definition of its use as therapeutic or off-label. These guidelines together with a strict monitoring of IVIG consumption have been efficient in optimizing its utilization Introduzione Nel 1901 il primo premio Nobel per la Medicina fu assegnato a Emil von Behring per aver salvato una bambina affetta da una grave forma di difterite con il siero proveniente da una pecora resa precedentemente immune mediante iniezioni seriali di tossina difterica. Nei decenni successivi l’utilità del siero immune o meglio di sostanze “antitossine” nel prevenire le infezioni fu dimostrata per diversi patogeni, come il morbillo, il tetano, la difterite appunto e l’epatite A. Negli anni ’30 Tise- 20 lius, mettendo a punto la tecnica dell’elettroforesi delle proteine, riuscì a dimostrare che le proteine prima denominate “antitossine” erano contenute nella frazione gamma globulinica e presero quindi il nome di gamma-globuline o immunoglobuline (Ig). Nel l952 Bruton utilizzò per la prima volta le Ig in un bambino con Agammaglobulinemia. Queste erano state ottenute con la tecnica di frazionamento del plasma, messa a punto da Cohn negli anni ’40. Dagli anni ’50 agli anni ’80 si è assistito al progressivo perfezionamento di questi preparati, con Evoluzione della terapia con immunoglobuline immissione in mercato di prodotti sempre più stabili, duraturi, sicuri ed efficaci e più facilmente somministrabili. Da qui l’utilizzo delle Ig è diventata una opzione terapeutica importante tanto da divenire attualmente il principale prodotto ottenuto dal plasma, con un consumo mondiale quasi triplicato nell’ultimo decennio. E l’aumento della domanda è certamente legato al progressivo aumento di nuove indicazioni terapeutiche. Le Ig specifiche o “iperimmuni” sono sovrapponibili alle preparazioni standard sia per modalità di preparazione sia per contenuto di IgG, ma provengono da un pool di donatori selezionati, immunizzati nei confronti di un determinato patogeno, contenendo perciò un titolo di anticorpi specifici almeno 5 volte superiore rispetto a quello delle preparazioni standard (Ugazio et al., 1995). In questo articolo ci occuperemo delle Ig “normali” e non tratteremo quindi in dettaglio le Ig specifiche. Che cosa sono I preparati di Ig derivano da un pool di plasma ottenuto da migliaia di donatori sani. Sui pool di plasma destinato al frazionamento vengono eseguite le ricerche dei markers virali per il virus dell’immunodeficienza umana (HIV), il virus dell’epatite C (HCV) e l’epatite B, già eseguite sulle singole donazioni. Le fasi stesse del processo produttivo delle Ig sono in grado di per sé di rimuovere ed inattivare i virus. Secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i preparati commerciali contengono IgG monomeriche in concentrazione > al 95%, con presenza di tutte le sottoclassi di IgG in proporzione simile a quella sierica, contenendo anche tracce di IgM e di IgA e di altre proteine (Garcia et al., 2007; Duse, 2000). Tutti i prodotti attualmente disponibili, prima di essere commercializzati devono rispondere ad alcuni requisiti fondamentali di qualità che riguardano: l’efficacia, la sicurezza e la tollerabilità. Inoltre, le attuali metodiche di preparazione non modificano la molecola immunoglobulinica garantendone la piena efficacia biologica. I frammenti F(ab)2, regione variabile delle Ig, sono responsabili del legame specifico con l’antigene. I frammenti Fc, regioni costanti della molecola, conferiscono le proprietà biologiche delle Ig (Fig. 1). L’ampiezza del pool di donatori garantisce la presenza di anticorpi a un titolo 10-20 superiore a quello del plasma normale contro un largo spettro di patogeni ed antigeni “estranei”. La loro presenza è critica nella terapia sostitutiva dei soggetti con immunodeficienza di tipo anticorpale. Invece, la presenza di anticorpi naturali a numerosi antigeni self è ritenuta essenziale per gli effetti immunoregolatori dei preparati di Ig per via endovenosa nelle patologie immuno-mediate. Le Ig umane sono disponibili in preparazioni “normali” (Ig standard) o “iperimmuni” (Ig specifiche). I preparati di Ig normali contengono anticorpi a un titolo 10-20 superiore a quello del plasma normale contro un ampio spettro di virus e batteri. Preparati e vie di somministrazione Le Ig umane sono disponibili in preparazioni somministrabili per via intramuscolare, per via endovenosa e per via sottocutanea. Immunoglobuline per via intramuscolare Le Ig per via intramuscolare (IMIG) sono costituite dalla frazione II di Cohn stabilizzata con glicina e preservata con composti a base di mercurio. La concentrazione di IgG è mediamente del 16%. Gli aggregati di IgG sono presenti in concentrazioni variabili tra il 10-15% e sono dotati di spiccata attività anticomplementare: se iniettate in vena, le IMIG possono appunto innescare la cascata del complemento e causare reazioni anafilattoidi anche gravi. Attualmente le IMIG normali non sono praticamente utilizzate nella terapia sostitutiva delle immunodeficienze primitive ed il loro utilizzo è limitato alla profilassi di contatti suscettibili al virus dell’epatite A, al morbillo (Ugazio et al., 1995). Immunoglobuline per via endovenosa Il trattamento con immunoglobuline per via endovenosa (IVIG) è quello più diffuso nel mondo. Secondo le indicazione dell’OMS, le preparazioni commerciali di IVIG derivano da un pool compreso tra 1000 e 15.000 donatori e contengono IgG monomeriche in concentrazione superiore al 95% con presenza di tutte le sottoclassi IgG, mentre contengono trascurabili quantità di IgM e di IgA ed, infine, hanno una minima attività anti-complementare. L’emivita delle IgG infuse è in media di 20 giorni circa ma varia considerevolmente da soggetto a soggetto e anche nello stesso soggetto, a seconda della patologia di base e della situazione clinica (Garcia et al., 2007; Ugazio et al., 1995). Immunoglobuline per via sottocutanea Il trattamento con Ig per via sottocutanea SCIG costituisce attualmente un’alternativa al trattamento sostitutivo con IVIG nelle Immunodeficienze primitive (Garcia et al., 2007; Gardulf et al., 2004). Nelle preparazioni in commercio di SCIG la concentrazione di IgG è mediamente del 16% e contengono IgG monomeriche in concentrazione di almeno il 95% con presenza di tutte le sottoclassi IgG, trascurabili quantità di IgA. Indicazioni terapeutiche Figura 1. Rappresentazione schematica della struttura delle Immunoglobuline, con descrizione delle principali caratteristiche biologiche della regione variabile (Fab) e della regione costante (Fc). Le Ig hanno un meccanismo d’azione complesso, determinando molteplici effetti, e possono quindi essere impiegate in diversi ambiti. L’impiego principale è come terapia sostitutiva nelle immunodeficienze caratterizzate da difetto anticorpale (Tab. I). Il trattamento sostitutivo con Ig, per via endovenosa o sottocutanea, infatti costituisce la terapia cardine “salvavita” delle immunodeficienze primitive (IDP) con difetto anticorpale. Da quando sono disponibili le Ig la prognosi di queste patologie è drasticamente cambiata: è aumentata la sopravvivenza ed è ridotta la morbilità dei soggetti con IDP con una significativa riduzione delle infezioni sistemiche 21 A. Soresina et al. Tabella I. Immunodeficienze con difetto anticorpale per le quali è indicata la terapia sostitutiva con Ig. Immunodeficienze primitive • • • • • • • • Agammaglobulinemia X-recessiva Agammaglobulinemia aut.recessiva Immunodeficienza Comune Variabile Sindrome linfoproliferativa X-recessiva Immunodeficienza con Iper-IgM Immunodeficienze combinate gravi Sindrome di Wiskott-Aldrich Ipogammaglobulinemia in Atassia Teleangectasia, Sindrome da Del 22 Immunodeficienze secondarie • • • • • Bambini con infezione da HIV Tumori con difetto anticorpale Trapianto di midollo osseo Trapianto d’organo Prematurità gravi, come sepsi ed encefaliti (AAAI, 2006; Quartier et al., 1999; Plebani et al., 2002). Oltre all’uso nelle IDP la terapia sostitutiva con Ig è indicata in alcune condizioni con difetto anticorpale secondario, come i tumori con difetto anticorpale, il trapianto di midollo osseo ed il trapianto d’organo, nei bambini con infezione da HIV e nei neonati prematuri (AAAI, 2006). Il razionale dell’utilizzo delle Ig in tutte queste condizioni è facilmente intuibile: il difetto di anticorpi viene “sostituito” con i preparati di Ig, ma è possibile dare delle priorità di indicazione terapeutica in base alle prove di efficacia e alla loro forza, attualmente disponibili in letteratura. Ad oggi, la efficacia e la forza delle raccomandazioni disponibili per le diverse condizioni sono descritte nella Tabella II. Per quanto riguarda le immunodeficienze primitive, la qualità e la forza dei lavori non è particolarmente forte: B, 2b. Questo perché? Innanzitutto, si tratta di patologie rare e arruolare grandi numeri di pazienti non è possibile in tempi relativamente brevi. Inoltre, gli evidenti risultati di efficacia nella prevenzione delle infezioni, causa di morte nei primi anni di vita, ha reso non possibile e non etico costruire studi randomizzati con un gruppo di pazienti trattati e un gruppo di pazienti non trattati. Infatti, in uno studio retrospettivo di 31 pazienti con Agammaglobulinemia è stato dimostrato un crollo dell’incidenza delle infezioni gravi sistemiche durante terapia sostitutiva con Ig rispetto al periodo precedente alla diagnosi e quindi alla terapia con Ig (Quartier et al., 1999). Lo stesso risultato è stato ottenuto in un più recente lavoro retrospettivo del nostro Network italiano per le immunodeficienze su 73 pazienti con diagnosi certa di XLA: la incidenza di sepsi e meningite è significativamente crollata durante la terapia sostitutiva (Plebani et al., 2002). Infine, fondamentale è sottolineare che per questi soggetti non esiste alcuna terapia alternativa ed attualmente le Ig normali sono inserite tra i farmaci essenziali per i soggetti con immunodeficienza primitiva (WHO, 2007). Dagli studi disponibili sono considerati protettivi nel prevenire le infezioni gravi livelli di IgG sieriche pre-infusione superiori a 500 mg/dl. Tali livelli possono essere raggiunti e mantenuti utilizzando mediamente un dosaggio di 400 mg/kg ogni 21-28 giorni di IVIG. Per una ottimale assistenza dei pazienti che necessitano di terapia con Ig è fondamentale conoscere i più corretti schemi terapeutici. La diffusione delle conoscenze in tema di immunodeficienze primitive e delle raccomandazione terapeutiche più aggiornate costituisce uno degli obiettivi principali di IPINet (Network for Italian Primary Immunodeficiences), nato nel 1999 all’interno dell’Associazione Italiana di Ematologia ed Oncologia Pediatrica (AIEOP), che ha creato su tutto il territorio nazionale una rete di 59 centri, alcuni di expertise ed altri periferici non specialistici, che si occupano di soggetti (bambini e adulti) con immunodeficienze primitive, avvalendosi del supporto attivo dell’Associazione dei Pazienti con Immunodeficienze Primitive (AIP). Tale network ha consentito infatti l’adozione di protocolli comuni di diagnosi e terapia per alcune delle principali Immunodeficienze primitive (AIEOP, 1999; AIEOP, 2001; AIEOP, 2004), al fine di garantire a tutti i pazienti sul territorio nazionale lo stesso tipo di assistenza basato su schemi terapeutici aggiornati. Tali protocolli sono consultabili in una pagina web specifica, cercando semplicemente “IPINet”. Da pochi anni, inoltre, la terapia sostitutiva con Ig può essere effettuata oltre che con preparati per via endovenosa (IVIG) anche con preparati per via sottocutanea (IGSC) al dosaggio di 100-150 mg/ kg/settimana. È dimostrato ormai che i livelli minimi delle IgG sono stabili in entrambi i regimi. Per la diversa via di somministrazione ed i diversi intervalli i livelli mediani risultano più elevati e stabili nella somministrazione IGSC. Sovrapponibile efficacia protettiva nei confronti delle infezioni è stata confermata sia per la modalità di somministrazione intravenosa che sottocutanea. Riguardo alla tollerabilità, in letteratura numerosi sono i lavori con diversa incidenza e gravità di eventi avversi a seconda delle casistiche studiate, della metodologia dello studio e della numerosità del campione. Mediamente gli eventi avversi sistemici sono l’1% con i preparati SC vs. 4% con i preparati IV. Le reazioni locali ovviamente sono frequenti nella somministrazione sottocutanea, ma transitori. Abbiamo quindi a disposizione due diverse opzioni terapeutiche: le IVIG che possono essere somministrate solo in ambiente ospedaliero e le IGSC che possono essere somministrate sia in ospedale che a domicilio. Tabella II. Efficacia e forza delle raccomandazioni disponibili per le diverse condizioni per le quali è indicata la terapia sostitutiva con Ig. Condizione Grado di evidenza Terapia alternativa Immunodeficienze primitive con difetto anticorpale B, II b Nessuna Ipogammaglobulinemia secondaria nei tumori, nel trapianto di midollo osseo in patologia tumorale B, II b Nessuna Prevenzione delle infezioni batteriche nei bambini HIV+ A, I b HAART Prevenzione/trttamento della sepsi neonatale A, I a antibiotici 22 Evoluzione della terapia con immunoglobuline La terapia domiciliare consente al paziente di non doversi più recare regolarmente in ospedale e, considerando che l’infusione può essere effettuata nei momenti più convenienti per il paziente, si vengono così a ridurre le ore di assenza da scuola o dal lavoro. Nella scelta dei pazienti idonei a ricevere le Ig per via sottocutanea, vanno considerati alcuni parametri quali: la tollerabilità nei confronti del preparato somministrato, le condizioni cliniche presentate dal paziente, la compliance del paziente e della famiglia oltre che l’affidabilità e la capacità del paziente e della famiglia a gestire la terapia a domicilio. È necessario che i pazienti che scelgono la via di somministrazione sottocutanea vengano adeguatamente istruiti mediante un periodo di “addestramento” da parte del personale sanitario qualificato. Il periodo di formazione in ospedale è mediamente di 4-8 settimane, da adattare poi ad ogni singolo paziente/familiare, per insegnare la modalità e la tecnica di esecuzione della terapia, ma anche per fare loro conoscere i fattori che controindicano l’esecuzione della terapia (febbre, ecc.), come riconoscere gli eventi avversi e quali misure intraprendere il caso di insorgenza degli stessi. Si capisce da quanto detto che nella terapia domiciliare è previsto il coinvolgimento di una figura aggiuntiva quale il pediatra di famiglia. Le Ig possono essere utilizzate anche come terapia immunomodulante ed antinfiammatoria. In questo caso solo i preparati da somministrare per via endovenosa trovano indicazione, soprattutto per via del dosaggio elevato richiesto per ottenere questo effetto (1-2 g/kg per uno o più giorni, a seconda delle diverse patologie e dei diversi schemi proposti) (Jolles et al., 2005; Negi et al., 2007). Come abbiamo precedentemente detto, i principali costituenti dei preparati di Ig da somministrare per via endovenosa sono le IgG, che comprendono sia anticorpi naturali che adattativi, e alcune molecole solubili. Proprio la presenza di anticorpi naturali per numerosi antigeni self è ritenuta essenziale per gli effetti immunoregolatori delle IVIG nelle patologie immuno-mediate. Molto schematicamente possiamo dire che gli anticorpi naturali costituiscono una notevole frazione delle Ig sieriche e principalmente servono a controllare nel soggetto sano l’autoreattività e a mantenere l’omeostasi del sistema immune, prevenendo l’espansione incontrollata di specifici cloni autoreattivi (Jolles et al., 2005; Negi et al., 2007; Vani et al., 2008). L’attività immunomodulante ed antinfiammatoria viene espletata dal frammento Fc attraverso i seguenti meccanismi: Figura 2. Descrizione dei diversi meccanismi che contribuiscono al mantenimento della tolleranza del self e dell’omeostasi dei fenomeni fisiologici (da Negi et al., 2007, mod.). • blocco del recettore per il frammento Fc dei macrofagi e delle cellule effettrici; • induzione attività citotossica Ab-mediata; • inibizione del danno complemento mediato; • modulazione della produzione di citochine. Anche il F(ab)2 svolge un’attività antinfiammatoria ed immunomedulante attraverso: • neutralizzazione dei superantigeni; • innesco di reazioni idiotipo-antiidiotipo; • induzione di apoptosi; • anticorpi anticitochine (Jolles et al., 2005). La Figura 2, elaborata sulla base di un recente lavoro di Negi et al. (Negi et al., 2007), riassume le varie modalità attraverso cui i meccanismi sopraelencati, contribuiscono al mantenimento della tolleranza del self e dell’omeostasi dei fenomeni fisiologici rappresentando il razionale per l’impiego delle IVIG in numerose malattie autoimmuni e malattie infiammatorie sistemiche (Tab. III). Tabella III. Malattie autoimmuni e infiammatorie per le quali è indicata la terapia immunomodulante/antiinfiammatoria con Ig per via endovenosa. Malattie ematologiche • Porpora Trombocitopenica Idiopatica • Neutropenia autoimmune • Anemia emolitica autoimmune Malattie neurologiche • • • • • • • • Sindrome di Guillain-Barré Miastenia gravis Polineuropatia demielinizzante cronica (CIDP e varianti) Encefalomielite disseminata Neuropatia Motoria Multifocale Sindrome di Lambert-Eaton Stiff person Syndrome Malattie reumatologiche Malattia di Kawasaki • Malattie autoimmuni non organo-specifiche e vasculiti sistemiche • Dermatomiosite, polimiositi In particolare, la piastrinopenia trombocitopenica idiopatica (PTI) è stata la prima patologia autoimmune ad essere trattata con successo con le IVIG nel 1981. Da allora molti studi sono stati condotti per definire la terapia più efficace (AAAAI, 2006; Imbach e Kuhne, 1998; Robinson et al., 2007). La PTI è causata da una distruzione periferica immunomediata delle piastrine e le IVIG sono in grado di rallentarne la distruzione, attraverso diversi meccanismi immunomodulanti (Nimmerjahn e Ravetch, 2007). Le revisioni sistematiche e gli studi randomizzati finora condotti raccomandano in particolare l’impiego di IVIG nei bambini con PTI e piastrine < 20.000/mm3 per diminuire il rischio molto raro, ma gravato da alta mortalità, di emorragia intracranica (Beck et al., 2005). Molto meno forti sono ad oggi le raccomandazioni per l’anemia emolitica autoimmune e la neutropenia autoimmune. In questi casi la terapia con IVIG va riservata ai casi che falliscono con terapia steroidea o quando l’anemia è associata a problemi che controindicano il trattamento steroideo. Un altro gruppo di patologie per le quali esiste l’indicazione alla terapia con IVIG sono le malattie neurologiche, come descritto in Tabella II. I principali meccanismi d’azione delle IVIG nelle patologie neurologiche immuno-mediate sono: 23 A. Soresina et al. • l’innesco di reazioni idiotipo-antiidiotipo, che sono in grado di prevenire l’innesco di reazioni autoimmunitarie, attraverso la neutralizzazione di auto-anticorpi e la riduzione della sintesi di autoanticorpi; questo è stato dimostrato nella Miastenia gravis, nella Sindrome di Lambert-Eaton e nella Neuropatia motoria; • la modulazione della produzione di citochine con produzione di citochine antinfiammatorie (quali interleuchina-4, interleuchina-10) e la diminuzione delle molecole pro-infiammatorie (come interleuchina-1, tumor necrosis factor-α), come avviene in particolare nella Sindrome di Guillain-Barré, Miastenia gravis, polineuropatia demielinizzante; • la riduzione del danno complemento mediato, come nella Sindrome di Guillain-Barré, Miastenia gravis. L’efficacia delle IVIG nella terapia dei pazienti con patologie neuromuscolari immunomediate è stata dimostrata in numerosi trial. Vi è consenso unanime per un loro impiego nella Sindrome di Guillain-Barré (AAAAI, 2006; Hughes et al., 2001; Hughes et al., 2007), nella Miastenia gravis, nella Polineuropatia demielinizzante cronica e nella Neuropatia Motoria Multifocale (Dalakas 2004; EFNS & PNS, 2006; Nobile-Orazio et al., 2003; Bain et al., 1996). Dall’inizio degli anni ’90 sono stati condotti numerosi studi fino alla più recente review sistematica dei trials randomizzati sulla immunoterapia nella Sindrome di Guillain-Barré, che ha permesso di dimostrare l’appropriatezza del trattamento con IVIG. Più precisamente, IVIG e plasmaferesi sono ugualmente efficaci nel migliorare il controllo e l’outcome della malattia. Essendo più convenienti e maggiormente disponibili, le IVIG costituiscono appropriatamente il trattamento di scelta e nei bambini, che hanno una prognosi migliore rispetto agli adulti, è stata dimostrata in modo consistente l’efficacia delle IVIG (Hughes et al., 2007). L’impiego di IVIG ha trovato spazio anche in alcune patologie reumatologiche: • malattia di Kawasaki; • malattie autoimmuni non organo-specifiche e vasculiti sistemiche; • dermatomiosite, polimiositi. Le IVIG sono state impiegate per la prima volta nel 1984 nella Malattia di Kawasaki; sono seguiti numerosi altri studi, che hanno dimostrato l’efficacia delle IVIG nel prevenire la sviluppo di aneurismi coronarici. Anche se l’esatto meccanismo d’azione delle IVIG rimane ancora poco chiaro, sembrerebbe essere coinvolta la neutralizzazione di superantigeni che determinano il danno vascolare endoteliale. Altri meccanismi proposti includono l’inibizione degli autoanticorpi antiendoteliali e l’inibizione del danno complemento mediato. Più di 20 studi controllati randomizzati e 2 meta-analisi hanno chiaramente e fortemente stabilito l’efficacia delle IVIG nella Malattia di Kawasaki (Burns e Glodé, 2004). Non unanime consenso vi è circa l’impiego delle IVIG nelle vasculiti sistemiche e nella dermatomiosite anche se alcune segnalazioni sporadiche ne hanno dimostrato l’efficacia in casi di particolare gravità. Le IVIG hanno trovato impiego anche in numerose altre condizioni, considerate il risultato di un’abnorme risposta immune; molte di queste patologie hanno poche o nessuna alternativa terapeutica. Mi riferisco in questo caso ad alcune malattie dermatologiche (la sindrome di Stevens-Johnson, le dermatosi bollose, l’orticaria vasculitica, il pioderma gangrenoso), alla poliabortività, allo shock settico o all’uveite autoimmune refrattaria (Staubach-Renz et al., 2007; Hutton et al., 2007). 24 Figura 3. Consumo di IVIG nel mondo nel 2006, tratto dal The Marketing Research Bureau (www.marketingresearchbureau.com). Figura 4. Consumo di IVIG in Europa nel 2006, tratto dal The Marketing Research Bureau (www.marketingresearchbureau.com). Aspetti socioeconomici e di politica sanitaria Sempre più numerose sono le patologie che presentano un razionale per il trattamento con Ig. Attualmente le IVIG sono utilizzate in patologie per le quali l’uso è ancora off-label ma di cui è stato dimostrata in letteratura l’efficacia. Questo è quanto abbiamo osservato soprattutto nel campo delle malattie neurologiche, dove l’impiego delle IVIG è passato dal 16% del 2000 al 40% nel 2006. Di pari passo il mercato mondiale di consumo di Ig è passato da 7400 kg nel 1984 a 68.200 kg nel 2006 (Figg. 3, 4). Fino alla metà degli anni ’90 i produttori sono stati in grado di far fronte al mercato globale senza particolari difficoltà. A partire dal ’97 un insieme di fattori hanno portato ad una crisi di disponibilità di Ig, soprattutto negli Stati Evoluzione della terapia con immunoglobuline Uniti. La crescente domanda di Ig, insieme alle conseguenze della diffusione dell’AIDS e dell’HCV, nonché il problema della diffusione della variante della Malattia di Creutzfeldt-Jakob (vCJD) hanno imposto una serie di misure precauzionali per assicurare la massima sicurezza dei prodotti emoderivati: test più sofisticati, introduzione di metodi di inattivazione virale e maggiori controlli sui donatori e sui pool di sangue; ritiro di prodotti provenienti da donatori a rischio di vCJD; divieto di usare plasma da sangue intero raccolto in Inghilterra ed altri paesi europei. Questi eventi hanno forzato l’industria del plasma ad effettuare delle ristrutturazioni portando già nel 1998 ad una riduzione della produzione ed a una notevole carenza di Ig. A partire dagli inizi 2000 le aziende produttrici sono state in grado di incrementare la produzione di Ig, aprendo nuovi centri di raccolta ed aumentando la resa di produzione. Dal 2006 produzione e fabbisogno si sono nuovamente bilanciati, ma la continua crescita della domanda inizia a causare alcune sporadiche carenze. In base al normale trend di crescita si prevede che la domanda di Ig raggiungerà i 100.000 kg nel 2012, con un aumento di 32.000 kg. Per far fronte al fabbisogno di Ig nel 2012 il volume di plasma necessario sarà di oltre 25 milioni di litri, con un aumento di 3,3 milioni di litri. Dagli inizi del 2000 di pari passo le strutture sanitarie hanno iniziato a promuovere la diffusione di linee guida evidence-based sull’impiego delle IVIG, basate sulle prove di efficacia disponibili in letteratura definendo le indicazioni terapeutiche e quelle off-label delle IVIG. Tale strumento insieme al monitoraggio del consumo di IVIG si sono dimostrati efficaci nell’ottimizzare l’utilizzo delle IVIG (Frayha et al., 1997; Constantine et al., 2007). Conclusioni Le Ig rappresentano attualmente il prodotto principale derivante dal frazionamento del plasma e sono stati raggiunti per tutti i prodotti disponibili i requisiti fondamentali di qualità (efficacia, sicurezza e tollerabilità). Le Ig costituiscono la terapia fondamentale ed in alcuni casi l’unica terapia disponibile per pazienti, bambini e adulti, affetti da patologie congenite e rare, come le Immunodeficienze primitive e numerose altre condizioni caratterizzate da un’eziopatogenesi autoimmune. Durante gli ultimi anni notevoli acquisizioni nella conoscenza dei meccanismi di azione delle IVIG sono stati fatti, tuttavia ancora molto rimane da imparare. Ulteriori conoscenze potrebbero portare allo sviluppo di nuove terapie (ad es. lo sviluppo di un nuovo gruppo di anticorpi monoclonali, di prodotti di IVIG con specifico repertorio, ecc.) (Collin et al., 2008; Kaveri et al., 2008). Tuttavia il continuo trend in crescita della domanda deve tener conto della limitata disponibilità di Ig ed in attesa di nuove opzioni terapeutiche diventa fondamentale l’attento monitoraggio del consumo di Ig così da garantire la migliore possibilità di cura ai nostri pazienti in qualsiasi parte del mondo. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Dal 1952 le Ig hanno trovato impiego sistematico nella pratica clinica, costituendo essenzialmente la terapia sostitutiva nelle immunodeficienze primitive caratterizzate da difetto anticorpale. Nel corso degli anni si è assistito al progressivo perfezionamento dei preparati disponibili, con immissione in mercato di prodotti sempre più stabili, duraturi, sicuri ed efficaci e più facilmente somministrabili. Cosa sappiamo adesso Attualmente le Ig costituiscono il principale prodotto ottenuto dal plasma, con un consumo mondiale quasi triplicato nell’ultimo decennio. E l’aumento della domanda è certamente legato al progressivo aumento di nuove indicazioni terapeutiche, L’impiego principale rimane come terapia sostitutiva nelle immunodeficienze primitive caratterizzate da difetto anticorpale ed in altre condizioni con difetto anticorpale secondario. Ma i preparati di IVIG trovano impiego come terapia immunomodulante e antinfiammatoria, in alcune malattie ematologiche, neurologiche ed altre condizioni caratterizzate da un’eziopatogenesi autoimmune, grazie al loro meccanismo d’azione complesso con molteplici effetti. Durante gli ultimi anni notevoli acquisizioni nella conoscenza dei meccanismi di azione delle IVIG sono stati fatti. Quali ricadute sulla pratica clinica Tuttavia ancora molto rimane da imparare ed ulteriori conoscenze potrebbero portare allo sviluppo di nuove terapie. Quindi la continua crescita della domanda di immunoglobuline da una parte e la loro limitata disponibilità ed i costi dall’altra hanno portato negli ultimi anni a promuovere la diffusione di linee guida evidenced-based sull’impiego delle Ig, basate sulle prove di efficacia disponibili in letteratura definendone le indicazioni terapeutiche e quelle off-label. È auspicabile che l’utilizzo di linee guida ed il monitoraggio costante del consumo di Immunoglobuline entrino a far parte della quotidiana pratica clinica per garantire la disponibilità di un farmaco fondamentale nella cura di pazienti con patologie complesse, rare e per i quali spesso non esistono terapie alternative. Bibliografia AIEOP, Comitato Strategico e di Studio Immunodeficienze. Agammaglobulinemia X-recessiva: protocollo diagnostico e terapeutico. AIEOP, 1999. https://www. aieop.org/stdoc/prot/racc_xla_2004.doc ** Documento aggiornato e condiviso a livello nazionale che fornisce le informazioni fondamentali sulla patologia specifica discusse, fornisce gli strumenti diagnostici essenziali (compresa la possibilità e le modalità per eseguire indagini genetiche molecolari) e gli schemi terapeutici più aggiornati. Il documento è disponibile direttamente e gratuitamente via internet su pagina web specifica. AIEOP, Comitato Strategico e di Studio Immunodeficienze. Immunodeficienza Comune Variabile: raccomandazioni per la diagnosi e la terapia. 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La diagnostica per immagini, con l’ecocardiografia bidimensionale e tridimensionale e la risonanza magnetica, permette non solo una sempre più accurata diagnosi delle cardiopatie congenite in storia naturale e operate ma anche una precisa valutazione funzionale del cuore. 2. L’inarrestabile progresso della cardiologia interventistica consente di risolvere tramite cateterismo cardiaco diverse malformazioni congenite e complicanze postoperatorie, che in passato era possibile correggere soltanto con la cardiochirurgia tradizionale. 3. La cardiochirurgia pediatrica nel corso degli ultimi anni ha raggiunto traguardi eccellenti anche nel trattamento di cardiopatie complesse e gravi, incompatibili con la vita, come il cuore sinistro ipoplasico. 4. La popolazione dei cardiopatici congeniti adulti operati è in continua espansione e la loro qualità di vita è spesso sovrapponibile a quella di soggetti non cardiopatici. Questo traguardo così importante è raggiunto da un numero sempre più grande di pazienti, grazie soprattutto alle tecniche cardiochirurgiche ormai così raffinate e standardizzate, nonché all’attuazione attenta e precisa di protocolli di follow-up. 5. Gli importanti progressi effettuati nel campo della genetica porterà a migliorare sempre di più le nostre conoscenze sulla eziopatogenesi dei difetti cardiaci e permetterà di fornire un counselling genetico sempre più accurato. Summary In the last 3 years the clinical research in pediatric cardiology has developed on different fields of application: 1. imaging techniques including bidimensional and tridimensional echocardiography and magnetic resonance imaging are useful not only for a better understanding of the heart’s anatomy but also for functional studies; 2. the interventional catheterization is more and more useful not only for the correction of cardiac defects but also, in selected cases, for the correction of postoperative complications; 3. technical improvement of cardiac surgery results in the correction of very complex cardiac defects such as hypoplastic left heart syndrome; 4. the quality of life of grown-up congenital heart patients is frequently overlapping with that of people without congenital heart disease due to improvement of surgical techniques and due to post-surgical follow-up protocols; 5. the important progress obtained in the field of genetics will lead to a better comprehension of etiopathogenesis of cardiac defects and will allow a more complete genetic counselling. Introduzione Metodologia di ricerca Negli ultimi 3 anni si è assistito ad importanti sviluppi scientifici che interessano il cardiopatico congenito dalla vita prenatale all’età adulta. Continui contributi provengono poi dalla genetica clinica e dalla biologia molecolare, aprendo sempre di più uno spiraglio sui meccanismi eziopatogenetici e sulla correlazione genotipo-fenotipo di cardiopatie congenite e aritmie. La letteratura scientifica è molto ricca di argomenti di cardiologia pediatrica e comprende sia articoli originali di ricerca clinica e di base sia revisioni monotematiche, quest’ultime spesso molto approfondite ed esaurienti. È evidente che una revisione bibliografica su un argomento così vasto come la cardiologia pediatrica, risulta inevitabilmente parziale ed arbitraria. La selezione dei contributi scientifici rappresenta il nostro intento di mettere a fuoco le novità di “frontiera” e quelle basate sulla ricerca clinica, cercando di dare una visione d’insieme su una materia che rimane costantemente di estrema attualità medica, soprattutto se consideriamo la popolazione sempre più folta di cardiopatici congeniti adulti. La ricerca bibliografica è stata effettuata tramite il sito internet PubMed (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/entrez) indicando parole chiave riguardanti la cardiologia pediatrica e i diversi campi in cui opera: congenital heart disease (CHD), cardiac surgery of CHD, genetic of CHD, echocardiography, bicuspid aortic valve, cardiovascular MRI, Grown-Up Congenital Heart Disease (GUCH), catheterization, heart septal defects, Fontan operation, Noonan syndrome, long QT syndrome. Il periodo preso in considerazione è stato quello che va dall’1/1/2006 al 30/6/2008. La scelta degli autori di selezionare solo alcuni lavori giudicati rilevanti è stata arbitraria così come è stata soggettiva la suddivisione in argomenti. Sono rimasti inoltre esclusi i temi trattati più ampiamente dal dott. Drago e dal dott. Lubrano. Diagnostica per immagini Una delle rivoluzioni tecnologiche, che ha profondamente mutato l’approccio diagnostico strumentale in cardiologia pediatrica, è stato lo sviluppo delle tecniche di imaging non invasivo. Fino a circa 27 P. Versacci et al. 30 anni fa, gli unici mezzi a disposizione del medico in grado di guidarlo verso la comprensione dell’anatomia e la funzione di un cuore affetto da cardiopatia congenita, erano lo stetoscopio, l’elettrocardiogramma e la radiografia del torace. Alla base della diagnosi c’erano l’abilità clinica del medico e la sua esperienza professionale. Il cateterismo negli anni ’60, ma soprattutto l’ecocardiografia negli anni ’80, hanno dato un volto all’anatomia, spesso così complessa, delle cardiopatie congenite. L’ecocardiografia e, più di recente, la risonanza magnetica nucleare (RMN), si sono rivelate tecniche non invasive di importanza fondamentale per la diagnosi di cardiopatia congenita fin dalla vita in utero. L’ecocardiografia, in particolare, è un mezzo diagnostico cui il cardiologo pediatra non può rinunciare e per la sua non invasività e facile esecuzione, può essere utilizzata al letto del malato fornendo preziose informazioni non solo sulla morfologia del cuore ma anche sulla sua funzionalità, apprezzandone le modificazioni in rapporto alla terapia medica e/o chirurgica. Un’esauriente panoramica su quelle che sono le evoluzioni più importanti nell’imaging in cardiologia pediatrica, vengono illustrate da Mertens et al. in una review sull’European Journal of Pediatrics (Mertens et al., 2008). Combinando le esperienze dell’ultrasonografia intravascolare, sempre più usata nei pazienti adulti per studiarne le pareti coronariche, e dell’ecocardiografia transesofagea, sono state realizzate e continuamente perfezionate, delle sonde ecocardiografiche miniaturizzate, in grado di essere posizionate all’interno delle cavità cardiache via vena femorale. Il vantaggio di questa metodica, è la possibilità di visualizzare le diverse strutture del cuore con un altissimo potere di risoluzione e di guidare con elevata affidabilità procedure interventistiche come la chiusura percutanea dei difetti interatriali o interventricolari. Sonde intracardiache così piccole, possono inoltre essere utilizzate in tutta sicurezza in neonati al di sotto di 3 kg di peso corporeo come sonde transesofagee, da impiegare nel periodo peri-operatorio. Un’interessante review sulle diverse applicazioni dell’ecocardiografia intracardiaca, è stata pubblicata da Kort sul Journal of American Society of Echocardiography nel 2006 (Kort 2006). Il cuore è una struttura tridimensionale piuttosto complessa e ottenere una ricostruzione 3D è stato possibile soltanto a partire dai primi anni ’90. Le prime sonde ecocardiografiche utilizzate erano piuttosto ingombranti, venivano fatte ruotare sul torace del paziente e una volta acquisite le immagini bidimensionali, soltanto in un momento successivo, off-line, si potevano ottenere immagini 3D tramite la ricostruzione con software dedicati. Il tempo costituiva pertanto un fattore piuttosto limitante e l’impiego nei neonati e nei bambini piccoli era fortemente ridotto se non impossibile. È stato soltanto con l’avvento di sonde 3D di nuova generazione, in grado di processare i fasci di ultrasuoni trasmessi nei tessuti del cuore contemporaneamente in differenti direzioni, che si è potuto ottenere l’ecocardiografia 3D real-time. La produzione scientifica su quest’ultima metodica è in continuo incremento e nell’ambito delle cardiopatie congenite segnaliamo tre lavori, che sottolinenano come l’ecocardiografia 3D real-time può fornire al cardiochirurgo preziose informazioni sulla malformazione da correggere. Rawlins et al. riportano la loro esperienza nell’utilizzo della sonda 3D real-time poggiata direttamente sull’epicardio subito prima della correzione cardiochirurgica, dimostrando un’esatta corrispondenza tra la diagnosi strumentale e quella chirurgica (Rawlins et al., 2006). Chen et al., descrivono una casistica di 38 pazienti affetti da difetto interventricolare e studiati con il 3D real-time. I risultati sono poi stati comparati con i dati ottenuti con l’ecocardiografia convenzionale bidimensionale e con la diagnosi chirurgica fatta al momento dell’intervento, individuando 28 una buona correlazione fra i tre tipi di osservazione. Il 3D, è in grado di fornire una sensazione di “virtuale profondità” del difetto interventricolare nonché la posizione, le dimensioni e la forma in maniera estremamente precisa (Chen et al., 2006). Nel lavoro di van de Bosch et al., apparso sull’International Journal of Cardiology nel 2006, diciannove pazienti affetti da canale atrioventricolare completo, sono stati studiati con il 3D real-time al fine di valutare la morfologia della valvola atrioventricolare comune per fornirne una dettagliata descrizione. Anche in questo studio, le caratteristiche anatomiche identificate al 3D si sono dimostrate esattamente sovrapponibili a quelle riscontrate dal cardiochirurgo. La RMN del cuore è una metodica di imaging che viene sempre più spesso utilizzata nell’ambito delle cardiopatie congenite, sia in storia naturale che trattate chirurgicamente. La principale indicazione rimane lo studio delle strutture vascolari extracardiche, come le arterie polmonari fin nelle loro branche più distali, l’aorta, le vene polmonari e le vene sistemiche. Anche i vasi più piccoli, come le arterie coronarie, possono essere visualizzati con un’ottima definizione. A questo proposito, segnaliamo la pubblicazione di Mavrogeni et al., apparsa sul Journal of Cardiovascular Magnetic Resonance (Mavrogeni et al., 2006), in cui viene presentata una casistica di 20 pazienti pediatrici affetti da Malattia di Kawasaki e sottoposti ad angiografia RMN con mezzo di contrasto (Gadolinio-DTPA). Tale metodica, implementata dalla cine-RMN (acquisizione di immagini dinamiche) è in grado di visualizzare gli aneurismi e/o la dilatazione delle coronarie nonché le discinesie delle pareti del ventricolo sinistro sede di pregresso infarto, quale complicanza della malattia, con una risoluzione pari a quella di un’angiografia invasiva convenzionale ma senza l’impiego di radiazioni ionizzanti. Con la RMN è possibile studiare non solo l’anatomia del cuore e dei vasi ma anche la funzione del ventricolo sinistro e del ventricolo destro. Soprattutto quest’ultimo, considerata la particolare geometria anatomica, risulta difficile da valutare con l’ecocardiografia e la RMN rappresenta un’ottima alternativa. Knauth et al., hanno sottoposto a RMN 88 pazienti sottoposti ad intervento correttivo di tetralogia di Fallot e con insufficienza della valvola polmonare residua emodinamicamente significativa. La conseguente dilatazione severa del ventricolo destro così come la disfunzione di entrambi i ventricoli evidenziate alla RMN, hanno permesso di stratificare il rischio di eventi avversi maggiori, come la morte, la tachicardia ventricolare sostenuta, l’incremento della classe NYHA nonché di orientare le scelte terapeutiche (Knauth et al., 2008). Cardiologia interventistica Il grande sviluppo dell’emodinamica interventistica cui si è assistito negli ultimi 25 anni, ha consentito la correzione percutanea di cardiopatie congenite, che fino a poco tempo fa potevano essere trattate solo dal cardiochirurgo. Da un utilizzo iniziale esclusivamente diagnostico degli anni ’60, il cateterismo cardiaco ha acquisito progressivamente un ruolo terapeutico dapprima nelle stenosi congenite delle valvole polmonare e aortica e in seguito anche per malformazioni come il difetto interatriale, il difetto interventricolare e il dotto arterioso. Con queste metodiche si evitano la circolazione extracorporea e la cardioplegia, e si riducono drammaticamente i tempi di degenza. Inoltre, l’emodinamica interventistica trova sempre più spazio nel trattamento dei difetti residui di cardiopatie congenite complesse già operate. Szkutnik et al., riportano la loro casistica di 10 pazienti affetti da difetto interventricolare perimembranoso sottoaortico e sottoposti a chiusura percutanea tramite dispositivo di Amplatzer per difetti interventricolari muscolari (distanti cioè dalla valvola aortica). La scel- Aggiornamenti in cardiologia pediatrica ta di utilizzare questo tipo di occluder è nata dall’esigenza di evitare il blocco atrioventricolare completo osservato come complicanza non rarissima (0,7-5% a seconda dei centri) dopo l’applicazione di dispositivi asimmetrici forgiati ad hoc per la chiusura dei difetti sottoaortici. Le procedure non hanno presentato complicanze tranne in 1 paziente, in cui è residuato uno shunt con emolisi, risoltasi dopo 10 giorni (Szkutnik et al., 2007). In un interessante articolo pubblicato su Circulation, Mullen et al. (2006) riportano uno studio prospettico e multicentrico in cui sono stati arruolati 58 pazienti di età compresa tra 28 e 68 anni, affetti da difetto interatriale o forame ovale pervio clinicamente significativo e sottoposti a chiusura percutanea tramite un nuovo dispositivo realizzato con materiale bioriassorbibile. L’impianto del dispositivo ha avuto successo nel 98% dei casi (57 su 58 pazienti) e ad un controllo ecocardiografico a 30 giorni e a 6 mesi, la completa chiusura del difetto è stata evidenziata nel 92% e nel 96% dei casi rispettivamente. In 5 pazienti si è verificata una transitoria aritmia atriale subito dopo l’impianto mentre in nessun paziente si sono verificate complicanze maggiori. L’uso di questo dispositivo è finalizzato ad ottenere una chiusura biologica del difetto interatriale dal momento che circa il 95% del materiale con cui è stato realizzato viene riassorbito e rimpiazzato da tessuto nativo. Inoltre, al contrario di altri dispositivi, è possibile ottenere un futuro accesso all’atrio sinistro qualora si renda necessario. Diverse cardiopatie congenite complesse, caratterizzate dal punto di vista anatomico da un’ostruzione all’efflusso ventricolare destro, vengono trattate con l’interposizione di condotti protesici tra il ventricolo destro e l’arteria polmonare. Purtroppo, il condotto è inesorabilmente destinato ad una progressiva ostruzione calcifica, che richiede, più o meno tardivamente, una o più sostituzioni o disostruzioni. Segnaliamo a questo proposito due lavori pubblicati nel 2006 e nel 2007 e che sottolineano come continua ad essere complicata la gestione della stenosi del condotto. Aggarwal et al. riportano la loro casistica di 28 pazienti sottoposti al posizionamento di uno stent all’interno del condotto polmonare stenotico, ottenendo un’importante riduzione della pressione all’interno del ventricolo destro e un considerevole allargamento del condotto (in media da 8 a 12 mm). Dei pazienti in cui lo stent è stato impiantato con successo, il 29% non ha richiesto un secondo intervento. I restanti pazienti hanno dovuto risottoporsi alla procedura, in media, dopo 16 mesi, ottenendo un successo in 8 casi su 13. Le complicanze sono consistite nella rottura del palloncino (necessario a fissare lo stent in sede) in 4 casi, frattura dello stent in 2 e la formazione di uno pseudoaneurisma in 1 (Aggarwal et al., 2007). Coats et al., hanno pubblicato su Circulation la loro esperienza sull’impianto percutaneo di valvola polmonare all’interno del condotto ostruito in 18 pazienti, in cui il gradiente pressorio trans-condotto era > 50 mmHg e non presentavano un rigurgito polmonare severo. In media il gradiente si è ridotto da 51 a 22 mmHg e la pressione in ventricolo destro da 73 è scesa a 47 mmHg. Dal punto di vista clinico i pazienti hanno mostrato un miglioramento della tolleranza allo sforzo fisico e un incremento della frazione di eiezione sia del ventricolo destro che del sinistro. Questa soluzione, utilizzata negli ultimissimi anni, appare la più fisiologica, ma quanto tempo potrà durare e se sarà difficoltoso rimuovere la valvola chirurgicamente se necessario, sono domande che al momento non trovano risposta dato il brevissimo follow-up. Segnaliamo infine un lavoro apparso sul Journal of American College of Cardiology nel 2006, dove viene riportato l’uso di stent ricoperti di Cheatham-platinum in 30 pazienti (range di età 8-65 anni) affetti da coartazione aortica. Di questi pazienti, 16 erano già stati sottoposti in passato a procedure interventistiche e da cui erano esitate com- plicanze come aneurismi o fratture dello stent, mentre gli altri presentavano una coartazione anatomicamente complessa o un istmo aortico quasi atresico. Dopo la procedura, il gradiente sistolico si è ridotto in media da 36 a 4 mmHg e il diametro del tratto coartato si è incrementato da 6 a 17 mm. Il follow-up medio è stato di 11 mesi e tutti gli stent si trovano in sede e sono pervi, come mostrato dalla TC o dalla RMN eseguite a 3 e a 6 mesi dalla procedura. Un altro dato importante, che emerge da questo studio, è che nel 43% dei casi, la terapia antiipertensiva seguita dai pazienti, è stata ridotta o sospesa dopo la procedura. L’impiego di questo tipo di stent, che in passato è stato utilizzato solo in pazienti adulti affetti da aneurismi dell’aorta addominale o toracica, sembra essere ideale per quelle coartazioni dalla complessa anatomia o precedentemente trattate e complicate dalla formazione di aneurismi (Tzifa et al., 2006). Cardiochirurgia Il continuo miglioramento delle tecniche cardiochirurgiche insieme ad una sempre più profonda conoscenza delle caratteristiche fisiopatologiche delle cardiopatie congenite, hanno consentito in questi ultimi anni di ridurre drasticamente la mortalità peri e post-operatoria. Attualmente, il momento più critico per un neonato affetto da cardiopatia congenita è il periodo che va dalla nascita a subito prima dell’intervento: migliori sono le condizioni cliniche del bambino, grazie alla diagnosi precoce e al trattamento medico del neonatologo e del cardiologo pediatra, migliore è l’outcome cardiochirurgico. Una delle più gravi cardiopatie congenite, incompatibili con la vita se non corretta, è la sindrome del cuore sinistro ipoplasico. Sebbene la tecnica di palliazione da eseguire in tre stadi successivi sia da tempo standardizzata, alcune modifiche vengono proposte dai cardiochirurghi al fine di migliorare la sopravvivenza tra uno step e l’altro. Ghanayem et al., descrivono uno studio randomizzato prospettico in cui vengono messe a confronto due tecniche, che hanno entrambe lo scopo di garantire un flusso di sangue in arteria polmonare: l’interposizione di un condotto ventricolo destro-arteria polmonare versus lo shunt sistemico-polmonare di Blalock-Taussig, previsto originariamente dall’intervento di Norwood I stadio. Nei primissimi giorni dopo l’intervento, nel gruppo trattato con il condotto si sono verificati 2 decessi mentre 1 nel gruppo trattato con lo shunt. La pressione diastolica è risultata inferiore nei pazienti con lo shunt sistemico-polmonare mentre la saturazione arteriosa, l’ossimetria venosa, la pressione arteriosa media e il rapporto portata polmonare/portata sistemica (Qp/Qs) non hanno mostrato differenze nei due gruppi. Gli autori non hanno evidenziato sostanziali differenze nei risultati ottenuti con le due tecniche e sottolineano l’utilità della fenossibenzamina nel ridurre il post-carico sia nella procedura con il condotto che con lo shunt (Ghanayem et al., 2006). Sostenere il circolo sistemico con l’infusione di generose dosi di farmaci inotropi positivi, è sempre stata una scelta seguita dai cardiochirurghi e dagli intensivisti subito dopo un intervento per cardiopatia congenita come il cuore sinistro ipoplasico. Li et al., riportano la loro esperienza sugli effetti negativi della dopamina sullo stato emodinamico e sul trasporto di ossigeno in pazienti sottoposti ad intervento di Norwood I stadio per cuore sinistro ipoplasico. Il consumo di ossigeno sistemico è stato continuamente monitorato per 72 ore in 13 neonati sottoposti alla procedura di Norwood, sedati, in paralisi farmacologica e ventilati meccanicamente. La sospensione della dopamina non si è associata a modifiche della pressione arteriosa, né del rapporto Qp/Qs né della distribuzione di ossigeno. Gli autori hanno dimostrato che la dopamina induce un incremento del consumo di ossigeno nei neonati sottoposti ad intervento di 29 P. Versacci et al. Norwood e la sua sospensione si associa ad un miglioramento del VO2 e del trasporto di ossigeno. Questi dati enfatizzano la necessità di usare le dovute cautele nell’utilizzo di inotropi, in particolare la dopamina, in neonati così fragili dal punto di vista emodinamico (Li et al., 2006). Vogliamo inoltre segnalare una review sull’approccio diagnostico e terapeutico ed il follow-up post-operatorio del difetto interatriale (DIA), dal momento che spesso il pediatra si trova coinvolto direttamente nel management ambulatoriale di pazienti affetti da questa cardiopatia. Kharouf et al. riportano i risultati di un sondaggio basato su questionari distribuiti in 15 centri di cardiologia pediatrica negli Stati Uniti e in altri 8 in Europa, Asia ed Australia selezionati in modalità random. Nonostante il difetto interatriale sia una delle più comuni cardiopatie congenite, dallo studio emerge che non viene adottato un atteggiamento univoco dai diversi centri, riguardo la frequenza dei controlli cardiologici, il tipo di indagini strumentali impiegate, l’uso o meno della terapia farmacologica e il timing e la modalità di chiusura del difetto (cardiochirurgica o interventistica). Gli approcci diagnostico-terapeutici risultano differenti indipendentemente dal tipo di DIA (ostium primum, ostium secundum, tipo seno venoso) e dalle dimensioni (piccolo, moderato, grande). In più dell’80% dei casi, l’ecocardiografia è la metodica più utilizzata nel follow-up, seguita dall’elettrocardiogramma. In alcuni centri l’intervento di chiusura di un DIA tipo ostium secundum è fatto precedere da una RMN o da un cateterismo cardiaco al fine di stabilire con esattezza le dimensioni del difetto e la sua significatività emodinamica. Tale approccio è meno seguito per il difetto tipo ostium primum e tipo seno venoso. C’è invece unanimità riguardo al follow-up post-operatorio: controlli cardiologici per tutta la vita, soprattutto se il difetto era di grandi dimensioni (Kharouf et al., 2008). Un altro difetto cardiaco molto frequente nella popolazione mondiale (1-3%) è la valvola aortica bicuspide (VAB), spesso silente clinicamente per diversi decenni ma talvolta associata a stenosi aortica congenita. La VAB è inoltre gravata sia da una più rapida degenerazione calcifica rispetto alla valvola aortica tricuspide sia da una concomitante progressiva dilatazione dell’aorta ascendente, che espone il paziente al rischio di dissecazione aortica precoce. Beroukhim et al. hanno messo a confronto pazienti portatori di VAB con pazienti affetti da sindrome di Marfan, che, com’è noto, anch’essa è molto spesso complicata da una dilatazione aneurismatica dell’aorta e conseguente dissecazione. Nei pazienti con VAB la dilatazione dell’aorta era maggiore nel suo tratto ascendente rispetto ai pazienti Marfan, in cui la dilatazione è massima in corrispondenza dei seni di Valsalva. Questi differenti pattern di dilatazione, nonostante la simile alterazione istologica della parete aortica, non permettono di applicare le stesse raccomandazioni chirurgiche individuate per i pazienti affetti dalla sindrome di Marfan, ai pazienti con VAB (Beroukhim et al., 2006). In questo contesto, si inserisce l’importante contributo di Brooke et al., pubblicato nel 2008 nella prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine, e che riguarda l’uso di inibitori selettivi dell’angiotensina II in pazienti pediatrici affetti dalla sindrome di Marfan. Recenti studi avevano suggerito, sul modello murino di sindrome di Marfan, che la progressiva dilatazione della radice aortica è causata da un’eccessiva stimolazione intracellulare da parte del TGF-β (Trasforming Growth Factor-β) e che la sua azione poteva essere contrastata da antagonisti come appunto gli inibitori selettivi dell’angiotensina II. Nello studio di Brooke et al., sono stati arruolati 18 pazienti Marfan pediatrici, diciassette dei quali sono stati trattati con Losartan e 1 con Irbesartan, e precedentemente sottoposti ad altra terapia farmacologica incapace di prevenire la progressiva dilatazione dell’aorta. Nel follow-up durato da 12 a 47 mesi, si è 30 assistito ad una significativa riduzione della velocità di dilatazione della radice aortica: da 3,54 ± 2,87 mm all’anno durante la precedente terapia a 0,46 ± 0,63 mm all’anno dopo l’inizio della somministrazione degli inibitori selettivi dell’angiotensina II. La giunzione sinotubulare dell’aorta, che di solito tende anch’essa a dilatarsi, ha mostrato una ridotta velocità di dilatazione durante la terapia mentre l’aorta ascendente, il cui diametro non è influenzato dalla sindrome, non ha mostrato sensibilità ai suddetti farmaci. Il messaggio lanciato da questo studio è di forte impatto clinico e prognostico: l’uso degli inibitori selettivi dell’angiotensina II sarebbe in grado di contenere la dilatazione aneurismatica della radice aortica e, quindi, di ritardare considerevolmente l’intervento cardiochirurgico correttivo. Prognosi in età adulta Grazie al costante progresso nella gestione medica e chirurgica dei pazienti affetti da cardiopatia congenita, la prognosi dei bambini trattati con intervento cardiochirurgico correttivo o palliativo, è radicalmente migliorata. Si è assistito, così, negli ultimi decenni, ad un continuo e significativo incremento del numero di pazienti in grado di raggiungere l’età adolescenziale e l’età adulta, di integrarsi socialmente e di inserirsi appieno nella vita lavorativa. Questa sempre più folta popolazione di cardiopatici congeniti adulti, necessita, però, di un approccio multidisciplinare, considerato il sommarsi delle problematiche inerenti alle diverse fasi della vita: un esempio per tutti, il desiderio di gravidanza nelle donne. La condizione ideale per una GUCH community, termine coniato dagli anglosassoni per indicare i cardiopatici congeniti adulti (Grown-Up Congenital Heart Disease), è rappresentata da centri in grado di accogliere nel proprio ambito, più figure specialistiche, per assicurare un supporto non solo da un punto di vista cardiologico e cardiochirurgico, ma anche medicosportivo, psicologico o osterico-ginecologico. La prognosi in età adulta del cardiopatico congenito è un argomento trattato ampiamente in letteratura e molte pubblicazioni riguardano il follow-up a distanza di pazienti sottoposti ad intervento di Fontan, spesso gravato da complicanze a medio e lungo termine. Questa procedura palliativa, è impiegata in tutti quei pazienti con un cuore anatomicamente o funzionalmente univentricolare o con una cardiopatia non idonea ad una riparazione a due ventricoli. L’intervento prevede l’anastomosi delle vene cave con l’arteria polmonare, escludendo così la sezione destra del cuore. Il primo studio che vogliamo segnalare è di un gruppo italiano (Giannico et al., 2006), che riporta la propria casistica di 193 pazienti sottoposti ad intervento di Fontan extracardiaca, impiegando cioè un condotto destinato a trasportare il sangue della vena cava inferiore in arteria polmonare e che non passa all’interno del cuore, prevenendo l’abnorme e progressiva dilatazione dell’atrio destro. Lo stato funzionale e la performance cardiopolmonare dei pazienti si sono dimostrate ottimali. L’incidenza di morte a distanza e l’ostruzione dell’anastomosi cavo-polmonare sono risultate più basse rispetto agli altri tipi di Fontan. L’ostruzione del condotto utilizzato rimane una potenziale complicanza a lunga distanza. Su 36 pazienti con più di 10 anni di follow-up, l’ostruzione del condotto si è verificata soltanto in 5. Il meccanismo dell’ostruzione consiste nella torsione longitudinale legata al rapido accrescimento corporeo del bambino. Questi risultati sono incoraggianti soprattutto alla luce, come già accennato in precedenza, della storia dei condotti utilizzati per la correzione di altre cardiopatie congenite (Giannico et al., 2006). Bernstein et al., riportano l’outcome di pazienti con Fontan in fallimento entrati in lista per trapianto cardiaco. I 97 pazienti provenivano da più centri ed avevano un’età inferiore ai 18 anni. L’età media Aggiornamenti in cardiologia pediatrica di entrata in lista era di 9,7 anni con un 25% < 4 anni. Settanta pazienti sono stati trapiantati e la sopravvivenza ad 1 anno è stata del 76% e del 68% a 5 anni, lievemente inferiore rispetto ai pazienti trapiantati con o senza cardiopatia congenita. Le infezioni hanno costituito la causa di morte più frequente, seguite dal rigetto, dalla morte improvvisa e dalla malattia coronarica secondaria al trapianto (graft coronary artery disease). L’enteropatia proteino-disperdente, complicanza piuttosto frequente dell’intervento di Fontan e secondaria alla stasi venosa intestinale, si è risolta in tutti i 34 pazienti sopravvissuti oltre 30 giorni dal trapianto. Il trapianto cardiaco rappresenta quindi un’efficace terapia per i pazienti con l’intervento di Fontan in fallimento; i risultati a medio termine sono incoraggianti e l’enteropatia proteino-disperdente sembra risolta definitivamente (Bernstein et al., 2006). Rimanendo nell’ambito del trapianto cardiaco, segnaliamo le linee guida sulle indicazioni per il trapianto cardiaco in età pediatrica, apparse su Circulation nel 2007. Esse offrono un’occasione per capire le dimensioni del problema e per avere una visione d’insieme delle patologie del cuore che possono colpire i bambini alla nascita e nelle età successive: dalle cardiopatie congenite, già corrette o in storia naturale, ai diversi tipi di cardiomiopatia (dilatativa, ipertrofica, restrittiva). Vengono inoltre illustrate le indicazioni per un retrapianto (Canter et al., 2007). Se gli eccezionali successi ottenuti dalla cardiochirurgia sono tangibili e facilmente quantificabili, più difficile è interpretare l’evoluzione psicofisica del soggetto con cardiopatia congenita operata o plurioperata. Sull’argomento vogliamo segnalare due lavori, entrambi pubblicati nel 2006. Van der Rijken et al., riportano l’outcome di 101 pazienti in età scolare sottoposti a correzione chirurgica per cardiopatia congenita ad un’età compresa tra 6 e 16 anni. I questionari forniti ai pazienti e ai loro genitori, contenevano domande finalizzate ad ottenere informazioni riguardanti lo stato fisico, il rendimento scolastico, il comportamento sociale e la sfera delle emozioni. Il 26% dei pazienti presentava una comorbidità, cioè patologie senza un nesso causale con la cardiopatia congenita operata. Il 39% dei soggetti senza comorbidità, lamentava frequenti disturbi fisici mentre il 28% limitazioni legate alla cardiopatia. Tuttavia, i pazienti dichiaravano una percezione soggettiva positiva riguardo al proprio stato di salute e non riportavano problematiche legate al comportamento sociale né alla sfera delle emozioni. Per quanto riguarda il rendimento scolastico, i soggetti presentavano difficoltà molto più frequentemente rispetto ai coetanei sani e molti di loro avevano dovuto ripetere una o più classi. Infine, i pazienti con comorbidità, quelli di sesso femminile e coloro che avevano subìto un intervento di cardiochirurgia complesso, si sono dimostrati più a rischio di sviluppare problemi di tipo fisico, comportamentale ed emozionale (Van der Rijken et al., 2006). Nel secondo studio, pubblicato su Congenital Heart Disease, sono stati arruolati 361 pazienti di età compresa tra 14 e 45 anni e sottoposti ad intervento correttivo per cardiopatia congenita durante l’infanzia. Lo scopo degli autori è stato quello di verificare un’eventuale correlazione tra i parametri cardiologici oggettivi, la percezione soggettiva del proprio stato clinico e i disturbi psicologici. Lo stato cardiologico è stato valutato con un completo assessment clinicostrumentale comprensivo di test spiroergometrico e la sintomatologia residua è stata espressa in accordo con la classificazione NYHA (New York Heart Association). La valutazione psicologica si è basata sul Brief Symptom Inventory, che permette di ottenere informazioni sui seguenti disturbi: somatizzazione, ossessione-compulsione, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ostilità, ansia fobica, ideazione paranoide e psicoticismo. L’analisi dei risultati ha rivelato un’associazione statisticamente significativa tra classe NYHA e sintomi psicologici, indipendentemente dal sesso dei pazienti. Non è emersa, invece, una correlazione significativa tra i parametri che riflettevano la fitness dei soggetti (in particolare il picco di consumo di ossigeno) ed i sintomi psicologici. Lo studio suggerisce che lo stato psicologico non è direttamente dipendente dalla forma fisica oggettiva dei pazienti. Invece, la percezione soggettiva della gravità della malattia e la convinzione che il grado di severità dipenda dall’intervento cardiochirurgico subìto, sono fattori in grado di influenzare in maniera determinante lo stato psicologico di questo tipo di pazienti (Norozi et al., 2006). Questi due studi, come diversi altri, sottolineano la necessità di distinguere tra quello che è lo stato fisico “misurabile” con valutazioni clinico-strumentali e la percezione soggettiva del paziente del proprio stato psicofisico legato alla cardiopatia con cui è nato e continua a convivere, nonostante la correzione chirurgica. Aspetti genetici delle cardiopatie congenite Le cardiopatie congenite rappresentano i più comuni difetti congeniti nell’uomo ma solo negli ultimi anni i progressi nel campo della citogenetica e della biologia molecolare hanno permesso l’identificazione delle cause genetiche e molecolari di alcune cardiopatie congenite, in particolare quelle associate a sindromi genetiche. Un esempio di come i progressi della genetica abbiano permesso di ampliare le conoscenze dei meccanismi patogenetici e di studiare in modo più approfondito la correlazione genotipo-fenotipo cardiaco è proprio quello delle sindromi Noonan/LEOPARD e sindromi correlate. La sindrome di Noonan (NS) e la sindrome LEOPARD (LS) sono condizioni clinicamente e geneticamente correlate. Il fenotipo è principalmente caratterizzato da bassa statura, dismorfismi facciali e cardiopatie congenite (CC). La LS è caratterizzata da un ampio spettro di anomalie: le principali raggruppate nell’acronimo “LEOPARD” (Lentigginosi, anomalie ECG, ipertelorismo Oculare, stenosi Polmonare, Anomalie dei genitali, Ritardo di crescita e sordità neurosensoriale – Deafness). È caratterizzata da ereditarietà di tipo autosomico dominante, elevata penetranza ed espressione variabile. I dimorfismi facciali presenti nella LS sono simili a quelli della NS. La lentigginosi multipla è tipica della LS ed è caratterizzata da macchie diffuse, di colore scuro, presenti soprattutto sulla faccia, sul collo, sulla parte superiore del tronco. In circa il 70-80% dei pazienti possono esserci macchie caffellatte che precedono la comparsa della lentigginosi. NS e LS sono associate a CC nel 50-80% dei casi e le cardiopatie più comuni sono la stenosi valvolare polmonare (SVP), la cardiomiopatia ipertrofica (CMI) e il difetto interatriale. Studi sulla correlazione genotipo-fenotipo mostrano che la SVP è la CC più frequente nella NS mentre la CMI è la più frequente nella LS. La CMI infatti è presente in circa l’80% dei pazienti con LS e solo nel 10% dei pazienti con NS. Occasionalmente è presente ritardo psicomotorio mentre il ritardo mentale è raro. Una mutazione del gene PTPN11 è stata identificata come causa del 40-50% delle NS e di circa il 90% dei pazienti con LS, anche se le due sindromi presentano mutazioni in regioni diverse del gene PTPN11 che sono correlate con il fenotipo cardiaco: quelle della NS (esoni 3, 8 e 13) sono correlate con la SVP mentre quelle della LS (7, 12 e 13) sono correlate con la CMI. Ma, come abbiamo detto, le mutazioni del gene PTPN11 spiegano solo il 40-50% dei casi di NS e il 90% dei casi di LS, quindi una percentuale di pazienti con le caratteristiche fenotipiche della NS o della LS non avevano, fino a poco tempo fa, una mutazione genetica identificata. 31 P. Versacci et al. Negli ultimi tre anni, importanti passi sono stati fatti nell’identificazione di nuove mutazioni. Carta et al, in un lavoro pubblicato nel 2006 su The American Journal of Human Genetics, hanno dimostrato una mutazione del gene KRAS in una piccola percentuale di pazienti con sindrome di Noonan (< 5%) che presentano un fenotipo più severo rispetto ai pazienti con NS e mutazione del gene PTPN11 e caratteristiche fenotipiche parzialmente sovrapponibili a quelle delle sindromi cardiofaciocutanea e di Costello. Nel 2007 Tartaglia et al. e Roberts et al. hanno invece identificato mutazioni del gene SOS1 in circa il 10% dei pazienti con NS. Questi pazienti mostrano un fenotipo caratteristico della sindrome di Noonan, ma presentano una maggiore occorrenza di anomalie ectodermiche e presentano generalmente un normale sviluppo neuro-cognitivo e una normale crescita staturale rispetto ai pazienti con NS e mutazione di PTPN11. Sempre nel 2007, Pandit et al. e Razzaque et al. hanno identificato una mutazione nel gene RAF1 responsabile di circa 1/3 dei casi di LS e di circa il 3% dei casi di NS che non presentano mutazione di PTPN11. I pazienti con mutazione di RAF1 hanno un’alta prevalenza di cardiomiopatia ipertrofica. È interessante notare che tutti i geni finora identificati come causa delle sindromi di Noonan e LEOPARD codificano per proteine responsabili della trasduzione del segnale nella cascata di RAS/MAPK (RAS-mitogen-activated protein kinase), importante nel controllo della crescita, della differenziazione, dell’invecchiamento e della morte cellulare. Ed è altrettanto interessante notare che quelle che sono state finora conosciute come Noonan-like syndromes, a causa della parziale sovrapposizione del fenotipo, come la neurofibromatosi tipo 1 (causata dalla mutazione del gene NF1), la sindrome di Costello (gene HRAS), la sindrome cardiofaciocutanea (geni KRAS, Figura 1. La cascata di RAS/MAPK e le sindromi Noonan-like. 32 BRAF e MEK), sono tutte causate da mutazioni di geni che codificano per proteine della stessa cascata di RAS/MAPK. Alcuni autori suggeriscono che tutte queste sindromi potrebbero rappresentare spettri fenotipici diversi di un’unica sindrome che potrebbe essere chiamata sindrome neuro-cardio-facio-cutanea (Fig. 1). Queste nuove acquisizioni permettono una sempre più accurata caratterizzazione della correlazione genotipo-fenotipo che è utile nella pratica clinica perché permette di mirare gli studi molecolari e la consulenza genetica, di anticipare la diagnosi nel tempo e di preparare protocolli assistenziali specifici a seconda della mutazione identificata. Un altro settore della cardiologia pediatrica in cui la genetica ha ottenuto importanti risultati negli ultimi anni è quello dello studio della sindrome del QT lungo (LQTS – Long QT Syndrome). Sebbene l’ipotesi che la sindrome del QT lungo possa essere una delle cause di sindrome della morte improvvisa del lattante (SIDS – Sudden Infant Death Syndrome) sia supportata da vari studi molecolari, non c’erano finora sufficienti dati sulla reale prevalenza delle mutazioni che causano aritmie nei casi di SIDS. Nel 2007 su Circulation è stato pubblicato un interessante lavoro di Arnestad et al., in cui sono stati analizzati un gran numero di casi di SIDS per studiare la reale prevalenza di mutazioni di geni della LQTS nei bambini deceduti per morte improvvisa. Gli autori hanno effettuato uno screening di 7 geni associati con LQTS (KCNQ1, KCNH2, SCN5A, KCNE1, KCNE2, KCNJ2, CAV3) e hanno trovato 19 mutazioni in 201 casi di SIDS (circa il 10%). Interessante anche un recente articolo pubblicato sull’European Journal of Pediatrics (Baruteau et al., 2009) in cui gli autori operano una revisione della letteratura sull’associazione tra SIDS e LQTS concludendo che, in seguito ad un caso di SIDS, che spesso può avere carattere familiare, l’integrazione di una precisa raccolta anamne- Aggiornamenti in cardiologia pediatrica stica con l’esecuzione di un elettrocardiogramma a tutti i parenti di I e II grado può aiutare nella diagnosi di eventuali casi di LQTS, con importanti implicazioni di tipo preventivo per l’intera famiglia. Così come avviene per altre cardiopatie, anche per la LQTS le ricerche di biologia molecolare permettono di scoprire nuove mutazioni come nel caso del gruppo giapponese che recentemente ha descritto una nuova mutazione del gene KCNE3 responsabile della sindrome del QT lungo (Ohno et al., 2009). I recenti dati della letteratura confermano che la morte improvvisa da causa aritmica su base genetica contribuisce in maniera significativa alla patogenesi della SIDS (circa il 10%) ma i continui progressi della biologia molecolare, con la scoperta di nuove mutazioni responsabili di LQTS potrebbero portare ad un incremento di tale percentuale. Questi dati rafforzano l’ipotesi dell’utilità dell’elettrocardiogramma come metodica di screening per identificare una parte significativa di bambini a rischio di morte improvvisa per LQTS. Box riassuntivo Diagnostica per immagini Combinando l’esperienza nel campo della ultrasonografia intravascolare e dell’ecocardiografia transesofagea, i progressi della tecnica hanno permesso di creare sonde sempre più piccole in grado di essere posizionate, attraverso la vena femorale, all’interno delle cavità cardiache ottenendo immagini di incredibile risoluzione. Nel campo dell’ecocardiografia 3D, l’utilizzo di sonde sempre più precise permette di ottenere immagini molto accurate che possono fornire al cardiochirurgo preziose informazioni sulla malformazione da correggere. La RMN è una metodica non invasiva sempre più utilizzata non solo nello studio dell’anatomia delle strutture vascolari, come gli aneurismi delle coronarie nei pazienti affetti da sindrome di Kawasaki, ma anche nello studio della funzionalità del ventricolo destro e del ventricolo sinistro. Cardiologia interventistica L’emodinamica interventistica trova sempre più applicazioni nel campo della cardiologia pediatrica ed è stata utilizzata con successo nella chiusura dei difetti interventricolari sottoaortici, nella chiusura dei difetti interatriali con materiale bioriassorbile, nell’impianto di stent sia nei condotti protesici polmonari stenotici sia nei casi di coartazione aortica con anatomia complessa. Cardiochirurgia Sebbene la tecnica di palliazione da eseguire in tre stadi successivi per la correzione della sindrome del cuore sinistro ipoplasico sia da tempo standardizzata, alcune modifiche vengono proposte dai cardiochirurghi al fine di migliorare la sopravvivenza tra uno step e l’altro. La somministrazione di inibitori selettivi dell’angiotensina II è stata utilizzata con successo per ridurre la velocità di dilatazione della radice aortica nei pazienti affetti da sindrome di Marfan e ritardare considerevolmente l’intervento cardiochirurgico correttivo. Prognosi in età adulta Recenti studi di follow-up a lungo termine indicano che l’incidenza di morte a distanza e l’ostruzione dell’anastomosi cavo-polmonare nei pazienti sottoposti ad intervento di Fontan con condotto extracardiaco sono risultate più basse rispetto agli altri tipi di Fontan. Diversi studi suggeriscono che lo stato psicologico dei pazienti operati per cardiopatia congenita non dipenda tanto dal reale stato fisico del paziente ma piuttosto dalla percezione soggettiva del proprio stato psicofisico. Particolare attenzione va quindi rivolta, nella cura di questi pazienti, all’aspetto psicologico. Aspetti genetici delle cardiopatie congenite Importanti progressi sono stati effettuati nel campo della genetica per quanto riguarda una più precisa definizione della correlazione genotipo-fenotipo nella sindrome di Noonan e sindromi correlate attraverso l’identificazione di nuove mutazioni che causano fenotipi specifici. Una più esatta correlazione genotipo-fenotipo è utile nella pratica clinica, perché permette di mirare studi molecolari e consulenza genetica, di anticipare la diagnosi e di preparare protocolli assistenziali specifici. Bibliografia Aggarwal S, Garekar S, Forbes TJ, Turner DR. Is stent placement effective for palliation of right ventricle to pulmonary artery conduit stenosis? J Am Coll Cardiol 2007;49:480-4. * In questo lavoro viene sottolineato come continua ad essere complicata la gestione della stenosi più o meno tardiva del condotto interposto tra ventricolo destro ed arteria polmonare nelle cardiopatie congenite con grave ostruzione all’efflusso destro. Arnestad M, Crotti L, Rognum TO, et al. Prevalence of long-QT syndrome gene variants in sudden infant death syndrome. Circulation 2007;115:361-7. ** In questo lavoro sono stati analizzati un gran numero di casi di SIDS per studiare la reale prevalenza di mutazioni di geni della LQTS nei bambini deceduti per morte improvvisa. Nel 9,5% dei casi è stata identificata una mutazione, confermando che la morte improvvisa da causa aritmica su base genetica contribuisce in maniera significativa alla patogenesi della SIDS. Baruteau AE, Baruteau J, Joomye R, et al. Role of congenital long-QT syndrome in unexplained sudden infant death: proposal for an electrocardiographic screening in relatives. Eur J Pediatr 2009;168:771-7. * Interessante revisione della letteratura sull’associazione tra SIDS e LQTS. In caso di SIDS, è fondamentale una precisa anamnesi da integrarsi con un ECG a tutti i parenti di I e II grado col fine di svelare eventuali casi di LQTS, con importanti implicazioni di tipo preventivo per l’intera famiglia. Bernstein D, Naftel D, Chin C, et al. Outcome of listing for cardiac transplantation for failed Fontan: a multi-institutional study. Circulation 2006;114:273-80. * In questo studio multicentrico è riportato l’outcome di pazienti con Fontan in fallimento entrati in lista per trapianto cardiaco. Il trapianto rappresenta un’efficace terapia con risultati a medio termine incoraggianti e l’enteropatia proteino-disperdente, che spesso complica l’intervento di Fontan, sembra risolversi definitivamente. Beroukhim RS, Roosevelt G, Yetman AT. Comparison of the pattern of aortic dilation in children with the Marfan’s syndrome versus children with a bicuspid aortic valve. Am J Cardiol 2006;98:1094-5. * I differenti pattern di dilatazione dell’aorta, nonostante la simile alterazione istologica, non permettono di applicare le stesse raccomandazioni chirurgiche individuate per i pazienti affetti dalla sindrome di Marfan ai soggetti con valvola aortica bicuspide. Brooke BS, Habashi JP, Judge DP, et al. Angiotensin II blockade and aortic-root dilation in Marfan’s syndrome. N Engl J Med 2008;358:2787-95. ** Studio estremamente interessante, che riguarda l’uso degli inibitori selettivi dell’angiotensina II in pazienti pediatrici affetti dalla sindrome di Marfan: il loro impiego è in grado di rallentare significativamente la progressiva dilatazione della radice aortica. Canter CE, Shaddy RE, Bernstein D, et al. Indications for heart transplantation in pediatric heart disease: a scientific statement from the American Heart Associa- 33 P. Versacci et al. tion Council on Cardiovascular Disease in the Young; the Councils on Clinical Cardiology, Cardiovascular Nursing, and Cardiovascular Surgery and Anesthesia; and the Quality of Care and Outcomes Research Interdisciplinary Working Group. Circulation 2007;115:658-76. ** Linee guida internazionali sulle indicazioni per il trapianto e il retrapianto cardiaco in età pediatrica. Utile per capire le dimensioni del problema. Carta C, Pantaleoni F, Bocchinfuso G, et al. Germline missense mutations affecting KRAS Isoform B are associated with a severe Noonan syndrome phenotype. Am J Hum Genet 2006;79:129-35. * Una mutazione del gene KRAS è stata identificata in una piccola percentuale di pazienti con sindrome di Noonan ma senza mutazione di PTPN11. Il fenotipo di questi pazienti è più severo di quello dei pazienti rispetto ai pazienti con mutazione del gene PTPN11. Chen FL, Hsiung MC, Hsieh KS, et al. Real time three-dimensional transthoracic echocardiography for guiding Amplatzer septal occluder device deployment in patients with atrial septal defect. Echocardiography 2006;23:763-70. * L’ecocardiografia 3D fornisce una sensazione di “virtuale profondità” del difetto interventircolare nonchè la posizione, le dimensioni e la forma in modo estremamente preciso. Coats L, Khambadkone S, Derrick G, et al. Physiological and clinical consequences of relief of right ventricular outflow tract obstruction late after repair of congenital heart defects. Circulation 2006 2;113:2037-44. Ghanayem NS, Jaquiss RD, Cava JR, et al. Right ventricle-to-pulmonary artery conduit versus Blalock-Taussig shunt: a hemodynamic comparison. Ann Thorac Surg 2006;82:1603-9. * Interessante studio prospettico in cui vengono messe a confronto due tecniche cardiochirurgiche, di cui una piuttosto recente, nell’ambito dell’interveto di Norwood I stadio per il cuore sinistro ipoplasico. Giannico S, Hammad F, Amodeo A, et al. Clinical outcome of 193 extracardiac Fontan patients: the first 15 years. J Am Coll Cardiol 2006;47:2065-73. ** Outcome di un’ampia casistica di pazienti sottoposti ad intervento di Fontan tramite l’impiego di un condotto extracardiaco tra vena cava inferiore ed arteria polmonare: i risultati a medio termine sono piuttosto incoraggianti. Kharouf R, Luxenberg DM, Khalid O, et al. Atrial septal defect: spectrum of care. Pediatr Cardiol 2008;29:271-80. * Nonostante il difetto interatriale sia una delle più comuni cardiopatie congenite, da questo studio emerge che non viene adottato un atteggiamento univoco nei diversi centri di cardiologia pediatrica nel mondo. Knauth AL, Gauvreau K, Powell AJ, et al. Ventricular size and function assessed by cardiac MRI predict major adverse clinical outcomes late after tetralogy of Fallot repair. Heart 2008;94:211-6. ** La RMN permette di stratificare il rischio di eventi avversi maggiori nei pazienti adulti operati durante l’infanzia per tetralogia di Fallot e con insufficienza valvolare polmonare severa progressiva. Kort S. Intracardiac echocardiography: evolution, recent advances, and current applications. J Am Soc Echocardiogr 2006;19:1192-201. * Interessante review sulle diverse applicazioni dell’ecocardiografia intracardiaca. Li J, Zhang G, Holtby H, et al. Adverse effects of dopamine on systemic hemodynamic status and oxygen transport in neonates after the Norwood procedure. J Am Coll Cardiol 2006;48:1859-64. * Nonostante gli inotropi positivi siano largamente utilizzati subito dopo un intervento complesso come quello per la correzione del cuore sinistro ipoplasico, gli autori enfatizzano la necessità di utilizzare la dopamina con le dovute cautele in pazienti così fragili dal punto di vista emodinamico. Mavrogeni S, Papadopoulos G, Douskou M, et al. Magnetic resonance angiography, function and viability evaluation in patients with Kawasaki disease. J Cardiovasc Magn Reson 2006;8:493-8. * La RMN nei pazienti con pregressa malattia di Kawasaki, è in grado di visualizzare gli aneurismi e/o la dilatazione delle coronarie nonché le discinesie delle pareti del ventricolo sinistro sede di pregresso infarto, con una risoluzione pari a quella di un’angiografia, ma senza l’uso di radiazioni ionizzanti. Mertens L, Ganame J, Eyskens B. What is new in pediatric cardiac imaging? Eur J Pediatr 2008 167:1-8. Mullen MJ, Hildick-Smith D, De Giovanni JV, et al. BioSTAR Evaluation STudy (BEST): a prospective, multicenter, phase I clinical trial to evaluate the feasibility, efficacy, and safety of the BioSTAR bioabsorbable septal repair implant for the closure of atrial-level shunts. Circulation 2006 31;114:1962-7. ** Studio prospettico e multicentrico in cui pazienti affetti da difetto interatriale o forame ovale pervio clinicamente significativi, sono stati sottoposti a chiusura percutanea tramite un nuovo dispositivo realizzato con materiale bioriassorbibile. Questa metodica consente una chiusura biologica del difetto. Norozi K, Zoege M, Buchhorn R, et al. The influence of congenital heart disease on psychological conditions in adolescents and adults after corrective surgery. Congenit Heart Dis 2006;1:282-8. * Da questo studio emerge come sia necessario distinguere tra quello che è lo stato fisico “misurabile” con valutazioni clinico-strumentali e la percezione soggettiva del paziente del proprio stato psicofisico legato alla cardiopatia con cui è nato e continua a convivere, nonostante la correzione chirurgica. Ohno S, Toyoda F, Zankov DP, et al. Novel KCNE3 mutation reduces repolarizing potassium current and associated with long QT syndrome. Hum Mutat 2009;30:557-63. * Studio di biologia molecolare condotto da un gruppo di scienziati giapponesi, che ha permesso di individuare una nuova mutazione del gene KCNE3 responsabile della sindrome del QT lungo. Pandit B, Sarkozy A, Pennacchio LA, et al. Gain-of-function RAF1 mutations cause Noonan and LEOPARD syndromes with hypertrophic cardiomyopathy. Nat Genet 2007;39:1007-12. ** Gli autori hanno identificato una mutazione nel gene RAF1 responsabile di circa 1/3 dei casi di LS e di circa il 3% dei casi di NS che non presentano mutazione di PTPN11. I pazienti con mutazione di RAF1 hanno un’alta prevalenza di cardiomiopatia ipertrofica. Rawlins DB, Austin C, Simpson JM. Live three-dimensional paediatric intraoperative epicardial echocardiography as a guide to surgical repair of atrioventricular valves. Cardiol Young. 2006;16:34-9. Razzaque MA, Nishizawa T, Komoike Y, et al. Germline gain-of-function mutations in RAF1 cause Noonan syndrome. Nat Genet 2007;39:1013-7. Roberts AE, Araki T, Swanson KD, et al. Germline gain-of-function mutations in SOS1 cause Noonan syndrome. Nat Genet 2007;39:70-4. Szkutnik M, Qureshi SA, Kusa J, et al. Use of the Amplatzer muscular ventricular septal defect occluder for closure of perimembranous ventricular septal defects. Heart 2007;93:355-8. * In questo studio, gli autori utilizzano un dispositivo di solito impiegato per la chiusura percutanea di difetti interventricolari muscolari, per chiudere difetti interventricolari sottoaortici, evitando la non rara e grave complicanza del blocco atrioventricolare completo. Tartaglia M, Pennacchio LA, Zhao C, et al. Gain-of-function SOS1 mutations cause a distinctive form of Noonan syndrome. Nat Genet 2007;39:75-9. ** In circa il 10% dei pazienti con sindrome di Noonan ma senza mutazione di PTPN11 sono state trovate mutazioni del gene SOS1. Questi pazienti mostrano un fenotipo caratteristico della sindrome di Noonan ma presentano una maggiore occorrenza di anomalie ectodermiche e presentano generalmente un normale sviluppo neuro-cognitivo e una normale crescita staturale rispetto ai pazienti con NS e mutazione di PTPN11. Tzifa A, Ewert P, Brzezinska-Rajszys G, et al. Covered Cheatham-platinum stents for aortic coarctation: early and intermediate-term results. J Am Coll Cardiol 2006;47:1457-63. * L’impiego di stent ricoperti di Cheatham-platinum sembra essere ideale per risolvere coartazioni aortiche dall’anatomia complessa o precedentemente trattate e complicate dalla formazione di aneurismi. van den Bosch AE, Ten Harkel DJ, McGhie JS, et al. Surgical validation of realtime transthoracic 3D echocardiographic assessment of atrioventricular septal defects. Int J Cardiol 2006 20;112:213-8. van der Rijken RE, Maassen BA, Walk TL, et al. Outcome after surgical repair of congenital cardiac malformations at school age. Cardiol Young 2007;17:64-71. Corrispondenza prof. Bruno Marino, Dipartimento di Pediatria, viale Regina Elena 324, 00161 Roma. Tel. +39 06 49979210. Fax +39 06 49970356. E-mail: bruno. [email protected] 34 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 35-39 CARDIOLOGIA Tachicardia parossistica reciprocante sopraventricolare del neonato e del lattante: profilassi delle recidive ed evoluzione a lungo termine Mario Salvatore Russo, Fabrizio Drago* Dipartimento Clinico-Sperimentale di Medicina e Farmacologia, Università di Messina; * Dipartimento Medico-Chirurgico di Cardiologia Pediatrica, I.R.C.C.S. Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma Riassunto La ricerca degli articoli rilevanti sul comportamento clinico delle tachicardie da rientro e sull’utilizzo della stimolazione atriale transesofagea per lo studio dei meccanismi alla base delle tachicardie e l’evoluzione dei circuiti di rientro è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole chiave “supraventricular tachycardia; infants; medical treatment; transesophageal atrial pacing”. È stato utilizzato il seguente filtro “all infant: born-23 months”. Sono anche stati inclusi gli Studi chiave sul pacing atriale transesofageo conosciuti dagli Autori. Particolare attenzione è stata data allo studio pubblicato da Drago et al. su Europace nel 2008, che rappresenta il più recente articolo sull’argomento e anche l’esperienza con il più lungo follow-up sull’evoluzione dei circuiti di rientro valutati con la stimolazione atriale transesofagea ad oggi pubblicata, oltre che uno dei pochi studi che ha verificato l’efficacia della terapia farmacologica elettroguidata. Summary Paroxysmal reciprocating supraventricular tachycardia is the most common tachyarrhythmia during the first year of life. At this age, it can cause severe symptoms and heart failure. Transesophageal atrial pacing is the easiest and most accurate method used to induce and show the presence and electrophysiological mechanism of supraventricular tachycardia. In neonates and infants, transesophageal atrial pacing can be safely performed and repeated. Therefore, it may be useful in assessing the effectiveness of treatment used in the prevention of supraventricular tachycardia recurrences or in evaluating the evolution of a re-entry circuit later on. Over the past twenty years, some authors have reported the clinical and the electrophysiological development of supraventricular tachycardia during the first year of life. Recently, in our published experience on supraventricular tachycardia with a long-term follow-up, we analyzed the development of the electrophysiological characteristics of the re-entry circuit in the first three years of life by means to transesophageal atrial pacing and assessed the effectiveness of an electrophysiologically-guided drug therapy in preventing supraventricular tachycardia recurrences. We summarize the most important studies reported in the literature about the treatment and the evolution of supraventricular tachycardia in newborns and infants, in order to suggest the correct management of these particular patients. Introduzione Le tachicardie parossistiche sopraventricolari (TPSV) rappresentano le aritmie complesse di più comune riscontro nel primo anno di vita. In quest’epoca possono causare importanti sintomi fino ad un quadro di scompenso cardiaco. La stimolazione atriale transesofagea (SATE) è il metodo più semplice e accurato per svelare la presenza di una tachicardia e il meccanismo elettrofisiologico che la sostiene. La SATE può essere eseguita e ripetuta con sicurezza nel neonato e nel lattante, quindi può essere utilizzata anche per valutare l’efficacia del trattamento farmacologico instaurato o per esaminare l’evoluzione del circuito di rientro. Negli ultimi venti anni diversi Autori hanno effettuato studi per individuare parametri clinici o elettrofisiologici in grado di predire il comportamento della tachicardia durante il primo anno di vita. Recentemente è stata pubblicata la nostra esperienza di follow-up a lungo termine di pazienti con TPSV in cui, utilizzando la SATE, è stata analizzata l’evoluzione dei circuiti di rientro nei primi 3 anni di vita ed è stata verificata l’efficacia della terapia farmacologica elettroguidata nel prevenire le ricorrenze. In questo articolo riporteremo le esperienze ad oggi fatte su questo argomento e ci soffermeremo sul modo in cui noi affrontiamo quotidianamente que- ste patologie, spiegando il perché e il come dei nostri protocolli di comportamento e i risultati clinici che ne derivano. Back to school La tachicardia è una condizione di accelerazione del ritmo cardiaco di oltre il 20% della normale frequenza di base. Il termine “parossistica” definisce la particolare modalità di insorgenza e di interruzione dell’aritmia, che avvengono improvvisamente. Il termine “reciprocante” presuppone l’esistenza di un circuito di rientro che permette alla tachicardia, una volta innescata, di automantenersi. Il termine “sopraventricolare” indica il sito anatomico sede del meccanismo elettrofisiologico che è responsabile del mantenimento della tachicardia. Incidenza e patogenesi La vera incidenza delle TPSV nei bambini è sconosciuta, ma è stata stimata da un minimo di 1 su 25000 ad un massimo di 1 su 250 con due picchi: nel primo anno di vita e tra gli 8 e i 12 anni. 35 M.S. Russo, F. Drago Le forme più comuni, in tutte le età pediatriche, sono le tachicardie da rientro. I circuiti di rientro, in genere “avviati” da extrasistoli, possono avere varia estensione e coinvolgere più strutture cardiache. Infatti possono essere estesi ed interessare da una parte il normale asse di conduzione atrioventricolare e dall’altra una via accessoria, oppure possono essere limitati a poche fibre miocardiche nel contesto degli atri o della giunzione atrioventricolare (microrientri). Le vie accessorie sono la causa più frequente di TPSV in età pediatrica, con una percentuale variabile tra il 60% e l’80% dall’infanzia all’adolescenza. È invece più bassa, rispetto alla popolazione adulta, l’incidenza di TPSV da doppia via nodale, che è la più frequente forma di microrientro. Le vie accessorie capaci di condurre l’impulso dall’atrio al ventricolo possono essere manifeste all’elettrocardiogramma (ECG) in ritmo sinusale, determinando il classico quadro della preeccitazione ventricolare, con PR corto e onda delta, tipica della sindrome di WolffParkinson-White (WPW). Le vie accessorie capaci di conduzione solo retrograda, cioè dal ventricolo all’atrio, possono determinare la TPSV ma non sono visibili all’ECG durante ritmo sinusale. Quadro clinico In genere le TPSV si manifestano in bambini con normale anatomia cardiaca. Nei rari casi in cui si associano cardiopatie, le più comuni sono: l’anomalia di Ebstein, il prolasso della mitrale, il difetto interventricolare. L’età, chiaramente, influenza il quadro clinico. Nel lattante la presenza di una tachicardia è spesso misconosciuta. I sintomi sono aspecifici, si manifestano anche dopo giorni dall’insorgenza dell’aritmia e consistono in modificazioni dell’umore, pallore, inappetenza, difficoltà ad alimentarsi, eccessiva sonnolenza, tanto che la tachicardia viene spesso diagnosticata quando si evidenzia un quadro franco di scompenso cardiaco (Marsico et al., 1982; Lundberg et al., 1982; Benson et al., 1984). Nel bambino più grande la palpitazione è il sintomo più riferito e a volte viene descritto come “dolore precordiale”. Nei casi in cui la TPSV è meno tollerata dal punto di vista emodinamico, si ha anche astenia, difficoltà a mantenere la stazione eretta, vertigine. Terapia Il trattamento acuto ha soltanto lo scopo di interrompere l’aritmia e prevede l’utilizzo di manovre vagali, farmaci antiaritmici o terapia elettrica. La decisione di iniziare una terapia domiciliare per la profilassi delle recidive spetta al Cardiologo, ma la gestione di un piccolo paziente con tachicardia coinvolge inevitabilmente anche il Pediatra. Sulla profilassi delle recidive e sull’evoluzione a lungo termine delle TPSV la letteratura è scarsa e per la maggior parte piuttosto datata. Le domande che i Pediatri ed i genitori del piccolo paziente si pongono dopo il primo episodio di TPSV, sono ancora: “questa aritmia si ripresenterà?”, “come facciamo a riconoscerla?”, “può essere pericolosa per la vita?”, “si può e si deve curare?”, “sarà presente anche in età più adulta?” A tali domande spesso la risposta degli operatori meno esperti è un luogo comune più pericoloso della tachicardia stessa: “è un’aritmia benigna che scompare nell’80-90% dei casi nel I anno di vita”, “il trattamento farmacologico preventivo può non essere instaurato al primo episodio”, “la Digossina è il farmaco di I scelta”. Attraverso i dati riportati in letteratura e con l’ausilio della nostra esperienza nel campo, cercheremo di dare una risposta a queste domande e di sfatare i più pericolosi luoghi comuni sull’argomento. 36 Profilassi delle recidive e prognosi a lungo termine: stato dell’arte Già Marsico nel ’76 riportò che la TPSV che si manifesta nell’infanzia può regredire dopo il primo anno di vita e la ricorrenza è più comune tra i pazienti in cui il primo episodio si è manifestato entro i primi quattro mesi di vita. Lundberg, invece, nel 1982, dopo uno studio condotto su 49 neonati con TPSV seguiti per un periodo medio di 24 anni, verificando la persistenza della tachicardia nel 60% dei pazienti, notò che i fattori correlati con una maggiore probabilità di ricorrenza erano la sindrome di WPW e il sesso maschile (Lundberg et al., 1982). Pochi anni dopo, Dunnigan, analizzando le modalità di innesco spontaneo della tachicardia sopraventricolare (TSV) nei pazienti pediatrici, rilevò che questa era spesso iniziata da una extrasistole atriale o, più raramente, da una graduale accelerazione del ritmo sinusale (Dunnigan et al., 1986). Alla luce di questi dati, la riduzione delle extrasistoli atriali spontanee dopo il I anno di vita, che era stata documentata da Salice qualche anno prima, poteva facilmente spiegare la riduzione degli episodi di tachicardia dopo tale età notata da molti autori (Salice et al., 1983). La SATE è considerata il metodo più semplice e accurato per svelare la presenza di una tachicardia sopraventricolare ed il meccanismo elettrofisiologico che la sostiene (Benson et al., 1983; Pongiglione et al., 1988; Rhodes et al., 1994). La SATE può essere eseguita e ripetuta con sicurezza nel neonato e nel lattante e quindi può essere utilizzata allo scopo di valutare l’efficacia del trattamento farmacologico instaurato per prevenire le ricorrenze di TPSV e per valutare l’evoluzione a distanza del suo circuito di rientro. Benson fu il primo a riportare i risultati della SATE eseguita su bambini di età media di 12 mesi con TPSV da via accessoria manifestatasi entro i primi due mesi di vita. Egli descrisse una ricorrenza della tachicardia dopo il I anno di vita nel 68% dei casi e la persistenza dell’aritmia risultò correlata con la presenza dell’onda delta all’ECG durante ritmo sinusale (Benson et al., 1987). Quest’ultimo dato è stato confermato molti anni dopo da Tortoriello, che ha anche riportato la maggiore necessità di iniziare una terapia per prevenire le ricorrenze nei pazienti con preeccitazione ventricolare e ha rilevato che nei bambini con sindrome di WPW, in cui il trattamento con digossina e/o propranololo è inefficace, il rischio di ricorrenze è più alto (Tortoriello et al., 2003). Poco prima di Tortoriello però, Etheridge aveva pubblicato uno studio in cui affermava che i dati osservati all’esordio della TPSV o durante la SATE hanno scarsa predittività sul decorso clinico della tachicardia (Etheridge et al., 1999). Alcuni degli studi sin qui riportati sono basati sull’osservazione del comportamento “clinico” delle TPSV, mentre quelli in cui è stata utilizzata la SATE per verificare la persistenza del circuito di rientro hanno un follow-up breve. Di recente è stata pubblicata una nostra esperienza di follow up a lungo termine delle TPSV ad esordio neonatale con l’utilizzo della SATE ed è stata valutata l’efficacia della terapia farmacologica elettroguidata nel prevenirne le ricorrenze (Drago et al., 2008). Riguardo a quest’ultimo metodo di valutazione della efficacia della terapia, prima del nostro studio, una sola esperienza era stata pubblicata riportando, in maniera del tutto inaspettata, l’inefficacia della Digossina nella inattivazione del circuito di rientro responsabile della TPSV ad esordio neonatale (Benson et al., 1985). La nostra esperienza Presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, è stata studiata una popolazione composta da 55 neonati o lattanti con tachi- Tachicardia parossistica reciprocante sopraventricolare del neonato e del lattante Tabella I. Livelli progressivi di trattamento orale con farmaci antiaritmici per la profilassi delle ricorrenze delle tachicardie sopraventricolari da rientro. Livello Trattamento Posologia 1 Propafenone 10-20 mg/kg/die 2 Flecainide 3-5 mg/kg/die 3 Flecainide + propranololo* *1-3 mg/kg/die 4 Amiodarone Dose di carico: 10-25 mg/kg/die 5 Amiodarone + flecainide Come in monoterapia 6 Amiodarone + flecainide + propranololo Come in monoterapia darone è risultato efficace nel 12% dei restanti pazienti e quindi l’associazione di amiodarone + propranololo ha avuto successo 71% degli ultimi pazienti rimasti. Solo per 4 di essi è stato necessario ricorrere alla triplice terapia prevista al sesto livello di trattamento. A 12 mesi, dopo il wash-out farmacologico, la tachicardia non è stata più inducibile nel 60% dei bambini. Valutando tutti i parametri clinici ed elettrofisiologici della TSV all’esordio, la persistenza del circuito di rientro è risultata statisticamente correlata solo alla necessità di somministrare l’Amiodarone in monoterapia o in associazione, per la prevenzione delle ricorrenze. Al compimento del II anno, tra i pazienti ancora in terapia, la TSV non è risultata inducibile nel 14% dei casi e al III anno nel 13% (Fig. 1). N.B. Per il meccanismo d’azione dei farmaci antiaritmici elencati nel testo si rimanda alla Classificazione di Vaughan Williams riportata in tutti i testi di Farmacologia e di Medicina Interna. cardia parossistica sopraventricolare da rientro da via accessoria o nel nodo atrioventricolare. In assenza di un protocollo di trattamento antiaritmico universalmente accettato (molti farmaci antiaritmici sono “off-label” in età pediatrica!), tutti i bambini sono stati trattati con farmaci antiaritmici in cronico seguendo un schema terapeutico basato sulla nostra esperienza personale e quindi costituito da sei livelli progressivi di trattamento (Tabella I) che nell’ordine sono stati: 1) propafenone; 2) flecainide; 3) flecainide + propranololo; 4) amiodarone; 5) amiodarone + propranololo; 6) amiodarone + flecainide + propranololo. Dopo la diagnosi e l’analisi delle caratteristiche elettrofisiologiche della tachicardia effettuate con la SATE, in culla e senza sedazione, ogni paziente è stato trattato secondo lo schema soprariportato. Durante ogni livello di trattamento, in caso di ricorrenza clinica della TPSV o di inducibilità della stessa alla SATE, il dosaggio dei farmaci utilizzati veniva progressivamente aumentato fino alla dose massima consentita. Se un trattamento non aveva comunque successo, si passava al successivo utilizzando inizialmente il dosaggio minimo previsto, e così via. Il trattamento orale era considerato efficace se non si osservavano episodi spontanei e se la tachicardia non risultava inducibile alla SATE. Ogni bambino veniva dimesso solo quando era stata individuata una terapia efficace. Durante il follow-up, i dosaggi terapeutici sono stati adeguati al peso dei pazienti, ad eccezione dell’amiodarone per il quale la dose è stata mantenuta costante la dose di carico, nonostante l’incremento ponderale, fino a raggiungere una posologia di mantenimento di 5-7 mg/kg/die. Al I anno di vita la terapia è stata sospesa in tutti i bambini e dopo un tempo pari a 5 emivite dei farmaci utilizzati o, per l’amiodarone, dopo 45 giorni di sospensione, è stata eseguita una SATE, in anestesia generale, sia in condizioni basali che durante infusione di isoproterenolo. Nei pazienti in cui non è stata indotta la tachicardia, non è stata più somministrata alcuna terapia, mentre nei pazienti con tachicardia spontanea o ancora inducibile la terapia è stata ripresa. Lo stesso protocollo è stato eseguito al II e al III anno. Dopo i primi 3 anni di vita, tutti i bambini con tachicardia ancora inducibile sono rimasti in terapia e sono stati valutati periodicamente con ECG ed Holter-ECG delle 24 ore. Tutti i pazienti non in trattamento sono stati contattati telefonicamente annualmente. In questa popolazione di pazienti, il Propafenone è risultato efficace nel 33%. Tra i refrattari a tale farmaco, il 21% ha risposto alla flecainide mentre nei “non responder” alla flecainide, l’associazione flecainide + propranololo è stata efficace nel 45% dei casi. L’amio- Figura 1. Kaplan-Meier della scomparsa di inducibilità della TSV. Usando il nostro protocollo, non è stata mai osservata la ricorrenza di TPSV sintomatica a casa durante i primi 3 anni di vita. Durante il follow-up medio di 104,3 mesi, tra i pazienti in cui la TPSV è scomparsa entro i primi 3 anni di vita, la ricomparsa della tachicardia si è osservata solo nel 3% dei casi. Considerazioni finali I risultati riportati dalle diverse esperienze fatte in questi anni hanno dimostrato che: 1. la TPSV che si presenta in epoca neonatale scompare, dal punto di vista elettrofisiologico, all’incirca nella metà dei pazienti nel primo anno di vita; 2. il 20% dei pazienti non guariti nel primo anno di vita possono guarire nei successivi 2 anni; 3. l’unico fattore in grado di predire la persistenza di un circuito di rientro dopo il I anno di vita è la necessità di ricorrere all’amiodarone da solo od in associazione con altri farmaci antiaritmici (ciò potrebbe dipendere dalla presenza di una via accessoria più grossa e quindi più resistente all’apoptosi e inattivata solo da un trattamento farmacologico che agisce a più livelli); 4. solo in rarissimi casi, una tachicardia da rientro non più inducibile dopo i primi 3 anni di vita, può ripresentarsi durante la prima decade di vita; 5. il trattamento farmacologico elettroguidato è sicuro ed efficace e quindi l’ablazione deve essere riservata solo a quei casi che non rispondono in maniera sufficiente ai trattamenti medici con disfunzione ventricolare o sintomatologia importante (Weindlig et al., 1996; Grutter et al., 2004); 6. il trattamento di prima scelta dovrebbe essere la flecainide da sola od in associazione con il beta-bloccante; 37 M.S. Russo, F. Drago 7. la digossina è inefficace nella inattivazione del circuito di rientro responsabile della TPSV ad esordio neonatale (Benson et al., 1985). Conclusione In conclusione le esperienze maturate negli ultimi 30 anni ci insegnano che il meccanismo patogenetico alla base della TPSV che si manifesta nei primissimi mesi di vita scompare in oltre il 50% dei casi entro il I anno di vita e in un altro 20% nei successivi due anni. La minor frequenza di episodi sintomatici di TPSV dopo il I anno di vita è dovuta alla diminuzione delle cause d’innesco. Solo raramente, una TSV non più inducibile dopo i primi 3 anni di vita, può ripresentarsi nelle successive età pediatriche. I fattori predittivi di persistenza della TPSV dopo il primo anno di vita sono la persistenza della preeccitazione ventricolare e la necessità di utilizzare l’amiodarone per la prevenzione delle ricorrenze dopo il primo episodio. Il trattamento farmacologico elettroguidato è sicuro ed efficace. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima • Le tachicardie parossistiche sopraventricolari dei neonati sono aritmie benigne • Scompaiono nell’80-90% dei casi nel primo anno di vita • Gli unici fattori correlati con una maggiore probabilità di ricorrenza della tachicardia sono la sindrome di WPW e il sesso maschile • Non esistono fattori in grado di predire l’evoluzione clinica della tachicardia • Il trattamento farmacologico preventivo può non essere instaurato al primo episodio • La digossina è il farmaco di prima scelta Cosa sappiamo adesso • Le tachicardie parossistiche sopraventricolari sono aritmie insidiose che possono manifestarsi clinicamente anche dopo diversi giorni dal loro esordio con un quadro di scompenso cardiaco, specie nel lattante • Quando queste aritmie si presentano in epoca neonatale, scompaiono in circa il 50% dei casi entro il primo anno di vita. In un altro 20% dei casi possono regredire entro il terzo anno di vita • L’unico fattore in grado di predire la persistenza di un circuito di rientro dopo il primo anno di vita è la necessità di ricorrere all’amiodarone per la prevenzione delle ricorrenze • È possibile, ma solo raramente, che una TPSV non più inducibile con la SATE dopo i primi 3 anni di vita, si ripresenti durante in resto dell’infanzia o nell’adolescenza • La stimolazione atriale transesofagea consente, in tutta sicurezza, di individuare la terapia farmacologica più efficace nel prevenire le ricorrenze. • Il trattamento di prima scelta dovrebbe essere la flecainide da sola od in associazione con il beta-bloccante Quali ricadute sulla pratica clinica • Usando un protocollo di trattamento elettro-guidato si evitano le ricorrenze • È possibile formulare una prognosi sulla base dei farmaci che risultano efficaci nell’impedire l’induzione della tachicardia con la SATE. • La SATE dopo wash-out farmacologico permette di interrompere il trattamento nei pazienti realmente guariti Bibliografia Benson DW, Dunnigan A, Beneditt DG, et al. Tresesophageal study of infant supraventricular tachycardia: electrophysiologic characteristics. Am J Cardiol 1983;52:1002-6. È stato uno dei primi Lavori in cui è stata utilizzata la SATE in neonati per studiare il meccanismo elettrofisiologico delle tachicardie sopraventricolari. Benson DW, Dunnigan A, Sterba R, et al. Atrial pacing from the esophagus in the diagnosis and management of tachycardia and palpitations. J Pediatr 1983;102:40-6. Benson DW, Dunnigan A, Benditt DG. Follow-up evaluation of infant paroxysmal atrial tachycardia: transesophageal study. Circulation 1987;75:542-9. * La SATE fu eseguita in bambini con TPSV da via accessoria manifestatasi entro i primi due mesi di vita. La ricorrenza dell’aritmia dopo il I anno di vita fu descritta nel 68% dei pazienti e risultò correlata con la presenza dell’onda delta all’ECG durante ritmo sinusale. Benson DW Jr Stanford M, Dunnigan A, et al. Transesophageal atrial pacing threshold: role of interelectrode spacing, pulse width and catheter insertion depth. Am J Cardiol 1984;53:63-7. Benson DW Jr, Dunningam A, Benditt DG, et al. Prediction of digoxin failure in infants with supraventricular tachycardia: role of transesophageal pacing. Pediatrics 1985;75:288-93. ** È stata per oltre 20 anni l’unica esperienza di terapia farmacologica elettroguidata fatta su una popolazione pediatrica con TPSV. Ha riportato l’inefficacia della Digossina per la profilassi delle ricorrenze confutando l’idea radicata che la digossina è il farmaco di prima scelta nel trattamento delle tachicardie sopraventricolari. 38 Drago F, Silvetti MS, De Santis A, et al. Paroxysmal reciprocating supraventricular tachycardia in infants: electrophysiologically-guided medical treatment and long term evolution of the reentry circuit. Europace 2008;10:629-35. ** È il primo lavoro in cui è stata analizzata l’evoluzione delle caratteristiche elettrofisiologiche del circuito di rientro nei primi 3 anni di vita, mediante l’utilizzo della SATE. È stata anche valutata l’efficacia della terapia farmacologica elettroguidata nel prevenire le ricorrenze seguendo un protocollo di trattamento per livelli progressivi. Dunnigan A, Beneditt DG, Benson DW. Modes of Onset (“initiating events”) for paroxysmal atrial tachycardia in infant and children. Am J Cardiol 1986;57:1280-7. * In questo studio sono state osservate le modalità di innesco spontaneo di una tachicardia sopraventricolare nei pazienti pediatrici, rilevando che questa è spesso iniziata da una extrasistole atriale o, più raramente, da una graduale accelerazione del ritmo sinusale. Etheridge S, Judd VE. Supraventricular tachycardia in infancy. Arch Pediatr Adolesc Med 1999;153:267-71. Grutter G, Silvetti MS, De Santis A, et al. 3-D mapping and radiofrequency transcatheter ablation in infants with highly symptomatic drug resistant right accessory pathway mediated tachycardia. Ital J Pediatr 2004;30:58-60. Lundberg A. Paroxysmal atrial tachycardia in infancy: long-term follow-up study of 49 subjects. Pediatrics 1982;70:638-42. * 49 neonati con TPSV furono seguiti per un periodo medio di 24 anni registrando la persistenza della tachicardia nel 60% dei pazienti. In questi pazienti i fattori correlati con una maggiore probabilità di ricorrenza furono la sindrome di WPW e il sesso maschile. Tachicardia parossistica reciprocante sopraventricolare del neonato e del lattante Marsico F, Musto B, Greco R. Le aritmie in età pediatrica. G Ital Cardiol 1976;6:732-41. * Fu il primo studio italiano a riportare che la TPSV che si manifesta nell’infanzia può regredire e che la ricorrenza è più comune tra i pazienti in cui il primo episodio si è manifestato entro i primi quattro mesi di vita. Pongiglione G, Saul JP, Dunningam A, et al. Role of transesophageal pacing in evaluation of palpitations in children and adolescents. Am J Cardiol 1988;62:566-70. Rhodes LA, Walsh EP, Saul JP. Programmed atrial stimulation via the esophagus for management of supraventricular arrhythmias in infants and children. Am J Cardiol 1994;74:353-6. Salice P, Segantini A, Locati E, et al. The prognosis of premature atrial beats in infancy: a prospective study of 6900 infants (abstr). Circulation 1983;68(Suppl. 3): III-395. Tortoriello TA, Snyder CS, Smit EO, et al. Frequency of recurrence among infants with supraventricular tachycardia and comparison of recurrence rates among those with and without preexcitation and among those with and without response to digoxin and/or propranolol therapy. Am J Cardiol 2003;92:1045-9. * È stato osservato che nei bambini con sindrome di WPW il rischio di ricorrenze è più alto se il trattamento con digossina e/o propranololo è inefficace. Weindlig SN , Saul JP, Walsh EP. Efficacy and risks of medical therapy for supraventricular tachycardia in neonates and infants. Am Heart J 1996;131:66-72. Corrispondenza dott. Fabrizio Drago, Struttura Semplice di Aritmologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, piazza S. Onofrio 4, 00165 Roma. Tel. +39 06 68592171. Fax +39 06 68592922. E-mail: [email protected] 39 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 40-48 CARDIOLOGIA Emergenze ipertensive in età pediatrica Riccardo Lubrano, Giuliana Guido, Elena Bellelli, Paolo Versacci* “La Sapienza”, Università di Roma, Dipartimento di Pediatria, U.O.S. di Nefrologia Pediatrica; * “La Sapienza”, Università di Roma, Dipartimento di Pediatria, U.O.C. di Cardiologia Pediatrica Riassunto L’incidenza dell’ipertensione arteriosa in età pediatrica è attualmente in aumento e sempre più spesso i medici dei dipartimenti di emergenza si trovano di fronte a bambini con crisi ipertensive. Si definisce urgenza ipertensiva una condizione di ipertensione severa (pressione arteriosa > 99° centile + 5 mmHg) non associata a danno d’organo ed emergenza ipertensiva una condizione nella quale l’ipertensione severa è associata a danno d’organo. Nei bambini le cause di ipertensione sono differenti a seconda dell’età: fino a sei anni le forme secondarie sono molto più frequenti della forma primaria; tra sei e dodici anni la forma primaria aumenta di prevalenza e dopo i dodici anni diventa la causa più frequente. L’iter diagnostico-terapeutico da seguire in un dipartimento di emergenza in caso di crisi ipertensiva prevede una valutazione al momento dell’accettazione, volta ad evidenziare il grado di ipertensione e la compromissione delle attività cerebrale, cardiaca e respiratoria per stratificare la gravità del paziente e stabilire il livello di cure necessario. Infatti, la maggior parte dei bambini con crisi ipertensiva in atto potrà essere agevolmente gestita nelle sezioni sub-intensive dei reparti specialistici, principalmente di nefrologia o di cardiologia pediatrica. Al momento del triage va offerto un supporto pediatrico di base e confermata la presenza di un’urgenza/emergenza ipertensiva; va istituito un monitoraggio non invasivo dei parametri vitali di base e sarebbe anche opportuno iniziare un bilancio idrico ed un monitoraggio della diuresi. Al contempo è necessario posizionare un accesso vascolare periferico per poter somministrare la terapia infusionale e prelevare un campione di sangue per gli esami di laboratorio. L’anamnesi e l’esame obiettivo possono indirizzare verso la causa della crisi ipertensiva ed evidenziare gli eventuali segni di sofferenza d’organo secondari alla patologia. Essenziale è, in caso di ipertensione severa, istituire tempestivamente una terapia farmacologica con lo scopo di riportare i valori pressori nei range di normalità in modo rapido e cauto, vale a dire ottenere una riduzione della pressione arteriosa del 25% nelle prime due ore e poi fino ai valori normali nei tre-quattro giorni successivi. Summary In young children and adolescents the incidence of hypertension is rising and, with increasing frequency, doctors of emergency departments have to deal with children with hypertensive crisis. Hypertensive urgency is defined as a condition of severe hypertension (blood pressure > 99° centiles + 5 mmHg) without evidence of end-organ damage or dysfunction. Hypertensive emergency describes a situation in which elevated blood pressure is associated with evidence of end-organ damage. The causes of hypertension in children are different according to age: up to six years old secondary hypertension is more common than primary form; from six to twelve there is an increase of primary hypertension and from twelve years old onwards primary hypertension is the main cause. In the emergency department the diagnostic and therapeutic procedures in cases of hypertensive crisis are a consequence of initial valuation of the degree of hypertension followed by an assessment of the cerebral, cardiovascular and respiratory activities. This evaluation will determine the condition of the patient and the level of care needed. In fact, most of the children with hypertensive crisis can be managed in the sub-section area of pediatric nephrology and cardiology departments. An initial basic life support should be offered to the child at the triage and, after having confirmed an hypertensive urgency/emergency, a non-invasive monitoring of vital parameters should be guaranteed. Hydric balance sheet and monitoring of diuresis should also initiated. At the same time peripheral vascular access should be set up in order to administer the infusion therapy and to take blood samples for laboratory tests. Case history and clinical examination could be indicative of the cause of the hypertensive crises and could highlight signs of end-organ damage secondary to hypertension. In cases of severe hypertension it is important promptly set up a pharmacotherapy in order to restore blood pressure to normal level. The treatment must be rapid but, at the same time, cautious. It is recommended that blood pressure be reduced by 25% within the first two hours and then restored to normal values in the three/four days later. Obiettivi Introduzione • Saper fare diagnosi di ipertensione arteriosa e distinguere i casi da trattare in regime di emergenza. • Saper distinguere le urgenze dalle emergenze ipertensive. • Conoscere le principali cause di ipertensione e la loro relativa frequenza in base all’età. • Sapere qual è l’iter diagnostico-terapeutico da seguire in caso di urgenza ed emergenza ipertensiva. • Conoscere le indicazioni terapeutiche e le controindicazioni dei farmaci antiipertensivi più frequentemente impiegati nel trattamento delle emergenze/urgenze ipertensive. L’ipertensione arteriosa è una patologia che si riscontra sempre più frequentemente in età pediatrica, come viene messo in evidenza da numerosi studi epidemiologici (Sorof et al., 2004). Questo è dovuto principalmente ad un incremento dei casi di ipertensione essenziale e all’aumento del sovrappeso e delle cattive abitudini di vita (Robinson et al., 2004; Sarah et al., 2005), sebbene l’ipertensione secondaria continui ad essere la forma più frequente di ipertensione soprattutto nei primi sei anni di vita. Secondo il Fourth Report del “National High Blood Pressure Education Program Working group on High Blood pressure in Children 40 Emergenze ipertensive in età pediatrica Tabella I. Stratificazione dei valori pressori nel bambino. Tabella II. Dimensioni raccomandate delle cuffie. Classificazione Valutazione del centile della Pressione Arteriosa Modello neonatale 4 x 8 cm Modello pediatrico 6 x 12 cm Normale Con valori pressori < al 90° centile Modello pediatrico 9 x 18 cm Preiperteso Con valori pressori > al 90° centile ma < 95° Modello adulto piccolo 10 x 24 cm Stadio 1 o ipertensione moderata Con valori pressori tra il 95° ed il 99° centile + 5 mmHg Modello adulto 13 x 30 cm Modello adulto large 16 x 38 cm Modello per coscia 20 x 42 cm Stadio 2 o ipertensione severa Con valori pressori superiori al 99° centile + 5 mmHg Il centile della PA va sempre valutato sulla base del sesso, dell’età e del centile dell’altezza and Adolescents” (National High Blood Pressure Education Program Working group on High Blood Pressure in Children and Adolescents, 2004) un bambino viene definito iperteso se i suoi valori pressori sono superiori al 95° centile per sesso, età e centile dell’altezza. Successivamente, sulla base dei valori pressori stimati, il bambino verrà classificato come descritto nella Tabella I. Dopo la diagnosi di ipertensione arteriosa nel dipartimento di emergenza, la conferma della patologia e la sua corretta stratificazione potrà essere effettuata attraverso il monitoraggio pressorio ambulatoriale di 24 ore (Norwood, 2003; Elke Wuhl et al., 2002; Urbina et al., 2008) ma questa fase dello studio è riservata al successivo inquadramento del paziente presso i servizi specialistici di nefrologia e cardiologia pediatrica. Urgenze ed emergenze ipertensive Il corretto approccio nel dipartimento di emergenza ed accettazione prevede una esatta e specifica conoscenza della stratificazione pressoria della patologia, perchè da questo dipenderà il successivo iter diagnostico e terapeutico. A tal fine si definisce urgenza ipertensiva un bambino che presenta valori di pressione arteriosa superiori al 99° centile più 5 mmHg senza evidenza di danno d’organo. Questa condizione generalmente non deriva da uno sviluppo clinico immediato ma si instaura in giorni o settimane. Si tratta invece di un’emergenza ipertensiva, la condizione in cui i valori pressori sono simili a quelli dell’urgenza ma associati a danno d’organo secondario, come l’encefalopatia ipertensiva, l’edema polmonare acuto e l’insufficienza ventricolare sinistra acuta. Generalmente questa condizione si sviluppa in poche ore ed è tipica dei bambini con ipertensione cronica, scarsamente controllata dalla terapia farmacologica. Nei bambini normotesi, un’emergenza ipertensiva è più spesso causata da un trauma cranico, dall’assunzione di sostanze d’abuso, dalle glomerulonefriti o da un feocromocitoma. Il metodo consigliato per la misurazione della PA è l’auscultatorio, soprattutto nei bambini con età superiore a 5 anni. Nei bambini molto piccoli ed in tutti i casi in cui l’auscultazione è difficoltosa, nei reparti di terapia intensiva, di sub-itensiva e nei dipartimenti di emergenza, si preferisce l’uso di dispositivi automatici oscillometrici. Questi ultimi hanno il vantaggio di minimizzare gli errori legati all’impiego dello sfigmomanometro determinati sia dal malfunzionamento dell’apparecchio che dall’insufficiente esperienza dell’osservatore. D’altra parte, possono essere responsabili di grossolani errori di valutazione dovuti ad un’errata calibratura dell’apparecchio. I valori pressori ottenuti con la tecnica oscillometrica, tuttavia, non sono identici a quelli ottenuti con l’auscultazione ed ogni volta che si riscontrano valori pressori alterati o non conformi alle condizioni cliniche del paziente con il metodo oscillometrico, è opportuno rivalutare la PA anche con il metodo auscultatorio. Vi sono delle indicazioni da seguire per una giusta misurazione della PA: • uso di bracciali di dimensioni adeguate: la cuffia da insufflare deve avere un’altezza pari al 40% della circonferenza del braccio misurata nel punto medio tra l’acromion ed il processo olecranico. La lunghezza deve essere tale da circondare l’80-100 % della circonferenza del braccio. Se si usa un bracciale troppo grande, la misurazione della PA si sottostima, al contrario, se si usa un bracciale troppo piccolo si sovrastima. Se il paziente ha un braccio intermedio tra le dimensioni di due cuffie, si preferisce utilizzare il bracciale con la cuffia di dimensioni maggiori (Tab. II); • lo stetoscopio va posto sopra l’arteria brachiale, cioè 2 cm sopra la fossa cubitale e deve essere tenuto fermo senza esercitare un’eccessiva pressione; • secondo l’American Heart Association bisogna insufflare il bracciale fino ad una pressione di 20-30 mmHg sopra la pressione sistolica e poi sgonfiare lentamente con un gradiente di 2-3 mmHg/sec (Christine et al., 2002 ); • quando si valuta la PA con il metodo auscultatorio, va considerato che il rilievo del I tono di Korotkoff (K1) corrisponde alla pressione sistolica, mentre quello del V tono (K5) indica la diastolica. Se K5 è udibile fino a 0 mmHg, per la valutazione dei livelli pressori diastolici si considera il IV tono di Korotkoff. Misurazione della pressione arteriosa Un’accurata valutazione della pressione arteriosa (PA) richiede l’utilizzo di una strumentazione adeguata e di una corretta tecnica di misurazione. Da almeno 5 minuti il paziente dovrebbe essere a riposo ed a suo agio, seduto con i piedi che toccano il suolo e con l’arto superiore poggiato su una superficie allo stesso livello del cuore, in posizione orizzontale. Si preferisce il braccio destro per la misurazione anche se in realtà sarebbe più corretto misurare la pressione arteriosa su entrambe le braccia o ancora meglio su tutti e quattro gli arti per escludere una coartazione aortica. Eziologia dell’ipertensione arteriosa Le cause di ipertensione arteriosa in età pediatrica variano in base all’età del bambino (Tab. III). Quando non è possibile individuare una causa specifica che determini l’alterazione dei valori pressori, l’ipertensione viene definita idiopatica o primaria o essenziale. L’incidenza dell’ipertensione essenziale aumenta con l’età ed è la forma più comune di ipertensione a partire dai dodici anni. Sebbene non se ne conosca con precisione la fisiopatologia, studi longitudinali hanno dimostrato un coinvolgimento di fattori genetici (Robinson et al., 2005) 41 R. Lubrano et al. Tabella III. Cause più frequenti di ipertensione in base alle diverse età. < 1 mese Tra 1 e 6 anni Tra 6 e 12 anni Tra 12 e 18 anni Trombosi arteria renale Patologie del parenchima renale Patologie del parenchima renale Ipertensione essenziale Coartazione aortica Patologie nefrovascolari Patologie nefrovascolari Patologie del parenchima renale Sindrome adrenosurrenalica Cause endocrine: feocromocitoma, Cause endocrine: feocromocitoma, Patologie nefrovascolari cushing, ipertiroidismo Cushing o ipertiroidismo Malformazioni renali congenite Coartazione aortica Coartazione aortica Iatrogene Displasia broncopolmonare Iatrogene Coartazione aortica Stenosi arteria renale Ipertensione essenziale Cause endocrine Trombosi vena renale (mutazioni dei geni codificanti per le proteine del sistema renina-angiotensina-aldosterone, insulino-resistenza, mutazione dei canali del sodio e del calcio, etc.), ambientali e fetali (Lurbe et al., 2004). L’ipertensione arteriosa secondaria è più comune nei bambini che negli adulti e le cause variano a seconda dell’età. Nei neonati, le più comuni cause di ipertensione sono: la trombosi dell’arteria renale, le malformazioni renali congenite, la displasia broncopolmonare, la coartazione aortica, la trombosi della vena renale, la sindrome adrenogenitale e la stenosi dell’arteria renale. Nei bambini sotto i 6 anni di età, la coartazione aortica, le malattie del parenchima renale, i disturbi endocrini (dismetabolismi degli ormoni steroidei surrenalici, tiroidei e delle catecolamine) e la stenosi dell’arteria renale sono le principali cause. Nei bambini di età compresa tra i 6 ed i 12 anni l’ipertensione essenziale costituisce la principale causa di ipertensione moderata, mentre la stenosi dell’arteria renale e le malattie del parenchima renale sono fonti comuni di ipertensione severa. Nelle età successive, come negli adulti, la diagnosi nella maggior parte dei casi è di ipertensione essenziale anche se un posto di rilievo nel determinare una PA elevata è svolto dalle patologie del parenchima renale. Nelle ragazze adolescenti tra le possibili cause di ipertensione va considerato l’uso di contraccettivi orali ed in tutti i gruppi di età va sempre tenuta presente la possibile assunzione di sostanze d’abuso o di altri farmaci (Tab. IV). Valutazione clinica Dipartimento di emergenza ed accettazione. Nel sospetto di una crisi ipertensiva, il primo passo è sempre la misurazione della PA: siamo infatti in presenza di una possibile emergenza/urgenza ipertensiva quando i valori pressori sono superiori al 99° centile + 5 Tabella IV. Farmaci e droghe che possono causare ipertensione transitoria o intermittente. Categoria farmacologica Esempio Simpaticomimetici Cocaina, amfetamine, femciclidina Ormoni Corticosteroidi, ACTH (ormone adrenocorticotropo; corticotropina) Immunosoppressori Ciclosporina, tacrolimus Contraccettivi orali Estroprogestinici Metalli (in seguito ad intossicazione) Cadmio, tallio, mercurio 42 mmHg per sesso, età ed altezza. In questa fase sarebbe opportuno servirsi della striscia di Broselow, che permette di calcolare approssimativamente il peso e l’altezza del piccolo paziente e fornisce il giusto dosaggio da utilizzare dei più comuni farmaci impiegati in rianimazione. Al momento dell’accettazione, è necessario valutare il grado di criticità e la presenza di danno d’organo a carico del sistema nervoso centrale, del cuore e dei polmoni. Per un’iniziale valutazione neurologica bisogna ottenere informazioni dai genitori sulle eventuali alterazioni del comportamento del bambino nelle ultime ore e ricercare i sintomi di un danno oculare: annebbiamento dello sguardo e deficit del visus improvviso. Quando si valuta la funzione cardiovascolare bisogna porre particolare attenzione al tempo di riempimento capillare, ad un polso centrale e periferico e alla frequenza cardiaca per evidenziare i segni clinici dello scompenso cardiaco acuto. Per quanto riguarda l’attività respiratoria, vanno ricercati i segni del distress respiratorio acuto: tachipnea, dispnea con rientramenti e cianosi periorale o delle estremità; se c’è espettorazione roseo-schiumosa il paziente è in edema polmonare e va intubato. Il paziente con urgenza/emergenza ipertensiva è un codice giallo o rosso e perciò preferibilmente va trattato inizialmente nell’area rossa o critica del DEAp fino ad ottenere la sua stabilizzazione. Va istituito immediatamente il monitoraggio della PA (misurazione ogni 5-10 min, a seconda delle necessità imposte dalle condizioni cliniche), della saturazione dell’ossigeno, della frequenza cardiaca (ECG). Tra le misure da attuare immediatamente vi è anche quella di istituire un accesso vascolare periferico per una razionale somministrazione di farmaci ipotensivi per via endovenosa, qualora lo richiedano le condizioni cliniche. Quando si posiziona l’accesso vascolare sarà bene prelevare un campione di sangue per gli esami ematochimici. Infine, dovrebbe essere prontamente istituito un bilancio idrico con una stretta valutazione della diuresi. Esami di laboratorio e strumentali. I primi esami di laboratorio che devono essere richiesti sono: emogasanalisi arteriosa, creatininemia e azoto ureico nel sangue (BUN) (va sempre tenuto conto del fatto che un danno renale potrebbe essere la causa e/o la conseguenza di un episodio ipertensivo); emocromo con formula per evidenziare un’anemia, suggestiva di insufficienza renale e di sindrome emolitico-uremica; spot test per escludere in emergenza la presenza di un feocromocitoma, come anche una prima valutazione del filtrato glomerulare con la formula di Schwartz. La formula di Schwartz si calcola moltiplicando la lunghezza in centimetri per una costante che varia in base all’età del bambino e tale prodotto così ottenuto diviso per la creatinina sierica. Emergenze ipertensive in età pediatrica Successivamente, nel reparto di degenza potranno essere effettuati studi ormonali più approfonditi per escludere un’eziologia endocrina della crisi ipertensiva (le cause endocrine più comuni di ipertensione sono: il morbo di Cushing, il feocromocitoma e l’ipertiroidismo). A completamento degli esami laboratoristici, andrebbe poi valutata la velocità del filtrato glomerulare (Glomerular Filtration Rate – GFR) con il metodo della raccolta delle urine di 24 ore per escludere la presenza di una riduzione della funzionalità renale. Gli esami strumentali da eseguire in prima istanza sono: la radiografia del torace (in particolare se all’auscultazione sono stati rilevati rumori patologici), che permette di evidenziare un polmone bianco caratteristico dell’edema polmonare acuto o uno stato di sub-edema caratterizzato da imbibizione dei tessuti interstiziali. In presenza di sintomi neurologici indicativi di ipertensione endocranica vanno eseguiti una tomografia computerizzata (TC) al fine di rilevare la presenza di lesioni occupanti spazio (ematoma da trauma, tumore endocranico) e un fondo dell’occhio per evidenziare la presenza di papilledema ed emorragie retiniche. Tali esami possono essere inoltre dirimenti per la scelta della terapia farmacologica. Nei pazienti con ipertensione endocranica ed emorragia retinica sono da evitare farmaci vasodilatatori. All’ECG vanno valutati i segni di iperpotassiemia (onde T aguzze, appiattimento del QRS, sottoslivellamento del tratto ST), che possono essere indicativi di insufficienza renale acuta. Una ecocardiografia va sempre eseguita qualora siano presenti i segni dello scompenso cardiaco acuto. Un’ecografia dell’apparato urinario va eseguita per la ricerca di alterazioni del parenchima renale. Ricovero in osservazione breve o nei reparti specialistici. Un primo approccio diagnostico terapeutico potrà essere realizzato nel reparto di osservazione breve ma, in seguito, i bambini dovranno essere presi in carico da reparti di nefrologia o di cardiologia pediatrica. I bambini con urgenza ipertensiva potranno essere trattati preferibilmente con farmaci somministrabili per via orale, come la nifedipina o la clonidina. I bambini con emergenza ipertensiva dovrebbero essere ricoverati in un reparto di terapia intensiva qualora fosse necessaria un’assistenza ventilatoria, gli altri potranno sicuramente trovare una migliore collocazione nelle aree sub-intensive dei reparti specialistici di cardiologia o di nefrologia pediatrica. Anamnesi. L’anamnesi deve essere focalizzata sulle cause di ipertensione e l’eventuale presenza di danno d’organo. Ad esempio, in un neonato andrà ricercata una pregressa cateterizzazione dei vasi ombelicali, che potrebbe far sospettare un’ipertensione secondaria a trombosi della vena renale. In tutti andranno comunque ricercate notizie relative ad alterazioni a carico dell’apparato genitourinario (ematuria, infezioni delle vie urinarie ricorrenti, febbri di natura sconosciuta, edema e disuria), recenti lesioni o traumi cranici, assunzione di sostanze d’abuso e di farmaci. Inoltre flushing, tachicardia, perdita di peso, potrebbero essere indicativi di una patologia endocrina, in particolare di un feocromocitoma. Infine, un’anamnesi familiare di ipertensione essenziale o di endocrinopatie, può indirizzare sull’eziologia dell’ipertensione. Bisogna indagare sulla presenza di disturbi della vista, disturbi a carico del sistema nervoso centrale, malattie renali e compromissioni cardiovascolari, che costituiscono importanti segni di danno d’organo su base ipertensiva. Esame obiettivo. L’esame obiettivo del sistema cardiovascolare dovrebbe essere condotto per valutare l’eventuale presenza di ipertrofia ventricolare ed i segni di insufficienza cardiaca (cardiomegalia, tachicardia, edema polmonare, epatomegalia). I polsi femorali devono essere sempre palpati e la loro assenza o iposfigmia deve suggerire la diagnosi di coartazione aortica, che può essere confermata con la valutazione della PA ai quattro arti e successivamente con l’ecocardiografia. L’esame del fondo oculare ed un esame completo neurologico, dovrebbero essere effettuati per individuare la presenza di encefalopatia ipertensiva o ipertensione endocranica da lesioni occupanti spazio (ematomi e tumori). L’esame obiettivo dell’addome potrebbe rilevare la presenza di un soffio paraombelicale in caso di stenosi dell’arteria renale o di reni palpabili, indicativi di una patologia renale. Trattamento delle emergenze ed urgenze ipertensive Le emergenze ed urgenze ipertensive nei dipartimenti di emergenza devono essere sempre trattate farmacologicamente. I farmaci antiipertensivi possono essere somministrati sia per via endovenosa che per via orale. Entrambe le vie di somministrazione presentano dei vantaggi e degli svantaggi: in generale, la somministrazione endovenosa dei farmaci viene preferita nelle condizioni di emergenza in quanto si caratterizza per un assorbimento rapido e più prevedibile (Friedman et al., 2002; Flynn et al., 2008). D’altra parte la somministrazione di un farmaco per via orale risulta più agevole nei dipartimenti di emergenza (nella Tabella V principali caratteristiche dei farmaci). La correzione dei valori pressori deve essere al tempo stesso rapida e cauta per evitare danni neurologici dovuti a improvvisi abbassamenti o innalzamenti pressori (Vaughan et al., 2000; Rose et al., 2004). Nel sistema nervoso centrale, infatti, esiste un sistema di autoregolazione del flusso ematico cerebrale: quando la PA supera un determinato livello, i vasi si costringono e quando scende al di sotto di tale livello si dilatano. Nei pazienti con PA molto elevata o persistentemente elevata, il sistema di autoregolazione si ristabilisce ad un livello più alto ed il provocare un abbassamento repentino della pressione, induce una vasodilatazione massiva causando ischemia cerebrale. I primi segni di sofferenza ischemica cerebrale sono costituiti dal deficit del visus e da alterazioni dei riflessi pupillari, per questo è consigliabile durante la correzione farmacologica dell’ipertensione eseguire esami neurologici frequenti con particolare attenzione alla funzione visiva (Erika Costantine et al., 2005). La pressione va ridotta del 25% nelle prime due ore e poi, gradualmente, fino al raggiungimento dei valori normali nei tre-quattro giorni successivi (Erika Costantine et al., 2005; Linakis et al., 2000). La terapia farmacologica ha il duplice obiettivo di ridurre i valori pressori e di trattare qualsiasi sequela secondaria all’ipertensione. La scelta del farmaco da utilizzare in un bambino con crisi ipertensiva dipende dall’entità dei valori pressori, dalla terapia in atto, dalla sospetta causa di ipertensione, dagli organi colpiti e dalle sue patologie associate. Ad esempio, in caso di crisi ipertensiva scatenata dalla secrezione di catecolamine come nel feocromocitoma, i farmaci più indicati sono gli α-bloccanti come la fentolamina. In caso di emorragia cerebrale, devono essere assolutamente evitati la nifedipina e la nicardipina in quanto aumentano il flusso ematico cerebrale. Nei casi di ipertensione con alti valori di reninemia, i farmaci consigliati sono gli ACE-inibitori e in presenza di scompenso cardiaco e segni di ipoperfusione periferica, vanno utilizzati farmaci con effetto inotropo positivo come il milrinone. Va sottolineato che la scelta del farmaco si deve basare anche sulla familiarità del medico con la molecola. I farmaci più comunemente usati nel trattamento delle emergenze ipertensive sono: il labetalolo, la nifedipina e il sodio nitroprussiato. 43 R. Lubrano et al. Tabella V. Farmaci usati in caso di crisi ipertensiva. Farmaco Dosaggio Inizio d’azione Durata di azione Meccanismo d’azione Commenti Nitroprussiato di sodio 0,3-8 mcg/kg/min ev infusione Secondi Solo durante l’infusione Vasodilatazione di arteriole e vene Può aumentare la pressione endocranica. Rischio di intossicazione da cianuro Labetalolo 0,4-3 mg/kg/h ev infusione o 2-5 min 0,2-1 mg/kg bolo iniziale poi infusione 0,25-1,5 mg/kg/h o 0,2-1 mg/ kg/dose massimo 20 mg 2-6 ore α-β bloccanti adrenergici Controindicato in pazienti con asma, malattie polmonari croniche ed insufficienza cardiaca. Può mascherare i segni di una crisi ipoglicemica Nicardipina 0,5-3 mcg/kg/min ev infusione 30 min-4 ore (la durata Bloccante dei canali di azione aumenta con il del calcio tempo di infusione) Esmololo 100-500 mcg/kg dose iniziale Immediato poi 50-300 mcg/kg/min 10-30 min β-bloccante adrenergico Può causare broncospasmo ed insufficienza cardiaca congestizia Idralazina 0,1-0,5 mg/kg/dose max 20 5-30 min mg/dose 4-12 ore Vasodilatatore diretto arteriolare Meno potente degli altri farmaci Fenoldopam 0,1-2 mcg/kg/min 60 min Vasodilatazione dei vasi Poco studiato nei bambini renali, coronarici, cerebrali e splancnici Nifedipina 0,25-0,5 mg/kg/dose max 10 mg 5-15 min 6 ore Bloccante dei canali del calcio-diminuisce la resistenza periferica vascolare Difficile da somministrare in dosaggio esatto. Rischio di ipotensione ed ipertensione rebound Enaprilat 5-10 mcg/kg/dose Fino a 60 min 4-6 ore Bloccante dei canali del calcio Utile in caso di ipertensione con alta renina Fentolamina 0,1 mg/kg bolo ev, max 5mg Secondi 15-30 min α-adrenergico Bloccante Usato in ipertensione secondaria a feocromocitoma Milrinone 50 mcg/kg, dose iniziale ev poi 0,25-1 mcg/kg/min, 1,13 mg max dose/die 30-60 min, raddoppia nei Inibitore delle pz con scompenso fosfodiesterasi cardiaco acuto Può causare trombocitopenia, cefalea, ipotensione, tachiaritmie ventricolari e dolori addominali Clonidina 5-10 mcg/kg/die da somministrare in dosi frazionate ogni 6 ore 6-24 ore Può causare sedazione e secchezza delle fauci. Se somministrato ev può provocare un aumento acuto della PA 2-5 min 5-40 min 1-3 ore Labetalolo. Il labetalolo è un bloccante dei recettori α- e β-adrenergici. Può essere somministrato ev per infusione continua o in bolo ed agisce dopo 2-5 minuti dalla somministrazione per una durata di 12-24 ore. Il dosaggio raccomandato in letteratura è di 0,2-3 mg/kg/ h in infusione continua, oppure 0,2-1 mg/kg in bolo, eventualmente seguito dall'infusione continua di 0,25-1,5 mg/kg/h. Gli effetti collaterali sono: astenia, disturbi gastrointestinali e cefalea. È controindicato in pazienti asmatici, con cardiopatie e feocromocitoma. Va usato con cautela in pazienti diabetici perché maschera i sintomi ed i segni di una crisi ipoglicemica. Dati i casi segnalati di ipotensione ortostatica provocati dalla somministrazione del labetalolo, è consigliabile che il paziente mantenga una posizione supina durante e per qualche tempo dopo la somministrazione. L’efficacia di tale farmaco nei casi di ipertensione severa nei bambini è stata dimostrata in diversi studi (Deal et al., 1992; Bunchman et al., 1992). Nifedipina. La nifedipina è un bloccante dei canali del calcio ed agisce principalmente diminuendo le resistenze vascolari periferiche. Si somministra per via sublinguale o per os a 0,25-0,5 mg/kg (anche se non è stato stabilito con certezza il dosaggio ottimale) ed agisce 44 Bloccante selettivo dei recettori α2-adrenergici Può aumentare la pressione endocranica dopo 5-15 minuti dalla somministrazione per una durata di 3-6 ore. Gli effetti collaterali sono: disturbi gastrointestinali, tachicardia e flushing. È segnalato il fenomeno del rebound, con ipotensione seguita dalla rapida risalita dei valori pressori: per tale motivo è fondamentale monitorizzare strettamente il paziente dopo la somministrazione. L’uso di questo farmaco in età pediatrica attualmente è oggetto di controversia. Blaszack et al., hanno effettuato uno studio retrospettivo su 117 bambini trattati con Nifedipina, dimostrando che il farmaco è sicuro ed efficace a condizione che la dose di attacco non sia superiore a 0,25 mg/kg (Blaszak et al., 2001). Sodio nitroprussiato. Il sodio nitroprussiato è un vasodilatatore arterioso e venoso senza effetti cronotropi ed inotropi significativi sul cuore. Riduce il precarico cardiaco migliorando la gittata ed è particolarmente utile nelle emergenze ipertensive con danno cardiaco secondario. Viene somministrato in infusione continua (0,30,5 mcg/kg/min, fino a un massimo di 8 mcg/min) ed agisce in pochi secondi con un’elevata efficacia ma la sua durata d’azione è brevissima. Il sodio nitroprussiato è metabolizzato dagli eritrociti a cianuro, convertito a tiocianato nel fegato ed escreto con le urine. Emergenze ipertensive in età pediatrica È sconsigliato somministrare tale farmaco per più di 48 ore e nei pazienti con insufficienza renale ed epatica al fine di prevenire l’accumulo dei suoi metaboliti e l’intossicazione da cianuro, che si manifesta con dolori addominali, nausea, vomito, acidosi, dolore toracico, tachicardia e cefalea. Un effetto collaterale importante è l’ipotensione ortostatica e, pertanto, è opportuno somministrare il farmaco mantenendo il paziente in posizione supina, al fine di prevenire gli episodi sincopali. Nicardipina. La nicardipina è un bloccante dei canali del calcio a struttura diidropiridinica. Si somministra per infusione continua partendo da un dosaggio di 0,5 mcg/kg/min e aumentando ogni 1530 min fino ad un massimo di 3 mcg/kg/min. Agisce riducendo le resistenze vascolari periferiche senza provocare diminuzione della gittata cardiaca ed è particolarmente efficace nel ridurre l’ischemia cerebrale e cardiaca nei pazienti con emergenze ipertensive. Agisce in pochi minuti e ha un’emivita di 10-15 min. I principali effetti collaterali sono: aumento della pressione endocranica, che ne rende sconsigliato l’impiego in presenza di emorragia intracerebrale e lesioni del Sistema Nervoso Centrale (SNC) occupanti spazio, cefalea, nausea e ipotensione. Può essere considerata una valida alternativa al Nitroprussiato (Yang et al., 2004). Milrinone. Il milrinone è un inibitore della fosfodiesterasi del cAMP abbastanza specifico per l’isoenzima III, che ha un duplice effetto: agisce sul cuore stimolando la contrattilità miocardica e sui vasi periferici arteriosi e venosi determinando vasodilatazione. È particolarmente utile in caso di ipertensione severa e scompenso cardiaco acuto. Si somministra ev con una dose di attacco di 50 mcg/kg, proseguendo con l’infusione lenta di 0,25-1 mcg/kg/min. L’emivita di eliminazione è di 30-60 minuti nei pazienti sani ma raddoppia nei pazienti affetti da grave scompenso cardiaco. Gli effetti collaterali sono rari (cefalea, ipotensione, tachiaritmie ventricolari, epatotossicità e dolori addominali) ed il più comune è la trombocitopenia, che si verifica molto più frequentemente con agenti meno selettivi come l’amrinone. Idralazina. L’idralazina è un potente vasodilatatore arterioso. Viene somministrato ev in bolo ogni 4-6 ore al dosaggio di 0,1-0,5 mg/kg/ dose, fino ad un massimo di 20 mg/dose. Agisce dopo 5-30 minuti dalla somministrazione con una durata di azione di 4-12 ore. Gli effetti collaterali sono: tachicardia, flushing, ipotensione e sindromi lupiche. Questo farmaco, un tempo molto diffuso, è attualmente poco utilizzato. Clonidina. La clonidina è un agonista selettivo α2-adrenergico, che agisce sui recettori centrali determinando una diminuzione del flusso di impulsi dal sistema nervoso simpatico in periferia con conseguente diminuzione delle resistenze vascolari periferiche. Si può somministrare ev o per os ed agisce dopo 1-3 ore quando somministrata per os e dopo 15-30 minuti quando somministrata ev. Ha un’emivita di 6-24 ore. I principali effetti collaterali sono secchezza delle fauci e sedazione. Quando somministrato per infusione, può provocare un innalzamento acuto della PA a causa dell’azione sui recettori α2 post-sinaptici della muscolatura liscia vasale. Diazossido. Il diazossido ha una struttura simile a quella dei diuretici tiazidici ed è un vasodilatatore arterioso. Si somministra in boli ev al dosaggio di 1-2 mg/kg da somministrare in 5-10 secondi ogni 10-15 min. Agisce in 3-5 min ed ha una durata di azione di 4-12 ore. Ad oggi questo farmaco è scarsamente usato in quanto sono stati segnalati casi di coma e insufficienza renale acuta dovuti all’ipotensione correlata. Esmololo. L’esmololo è un β-bloccante cardioselettivo, che viene utilizzato soprattutto nei pazienti con ipertensione arteriosa secondaria a cardiopatie congenite, e non esiste ad oggi una chiara indicazione al suo impiego nei bambini. Secondo alcuni autori, nei bambini con urgenze ipertensive è più opportuno utilizzare la nifedipina e l’idralazina, che hanno un’efficacia minore e una azione più lenta rispetto agli altri farmaci. Inoltre in caso di urgenze ipertensive, alcuni autori sostengono che sia più opportuno somministrare i farmaci per os e monitorizzare il paziente in un reparto di degenza e non di terapia intensiva (Hebert e Vidt, 2008; Varon, 2008; Ardigos et al., 2008). L’iter diagnostico-terapeutico di un bambino con crisi ipertensiva è riassunto nella Figura 1. Trattamento delle complicanze della crisi ipertensiva In caso di emergenza ipertensiva è importante trattare anche le complicanze successive all’ipertensione arteriosa: ai pazienti con distress respiratorio acuto va fornita assistenza ventilatoria invasiva o, se possibile, non invasiva (NIV). Ai pazienti con scompenso cardiaco acuto vanno somministrati farmaci antiipertensivi ad azione cardiostimolante: alcuni autori sostengono l’utilizzo di una terapia di associazione con diuretici, ACE (angiotensin converting enzyme)-inibitori e digossina. Altri prediligono gli inibitori delle fosfodiesterasi come il milrinone, che ha contemporaneamente un effetto inotropo sul cuore e vasodilatatore in periferia e viene somministrato in monoterapia o in associazione alla dopamina o alla dobutamina. I pazienti con danno renale vanno trattati con terapia infusionale volta a riequilibrare la diselettrolitemia, caratteristica di questa condizione: l’iperpotassiemia va trattata con le resine scambioioniche, con il calcio gluconato o cloruro e con insulina + glucosio e sodio bicarbonato. L’acidosi metabolica va trattata con i bicarbonati se il pH scende al di sotto di 7,15 e i bicarbonati al di sotto di 8 mEq/l. L’ipocalcemia va corretta con farmaci che incrementino l’escrezione di fosfati (calcio carbonato, sevelamer). In caso di insufficienza renale acuta, i prelievi ematochimici vanno ripetuti ad intervalli regolari per valutare l’equilibrio idroelettrolitico e acido-base. Possono anche essere utilizzati i diuretici (mannitolo 0,5 g/kg e furosemide 2-4 mg/kg in bolo). La diuresi va monitorizzata per stabilire l’eventuale necessità di terapia dialitica. Va tenuto conto del fatto che, in caso di IRA o IRC riacutizzata, la causa più probabile di crisi ipertensiva è la ritenzione idrica spesso secondaria a una cattiva gestione del paziente. In caso di encefalopatia ipertensiva, alla terapia antiipertensiva va associato un trattamento sintomatico, come gli anticonvulsivanti, da somministrare al bisogno. Conclusioni Le emergenze e le urgenze ipertensive in età pediatrica costituiscono una condizione grave, che può mettere in pericolo la vita del paziente: è fondamentale riconoscerle tempestivamente e istituire una terapia mirata a ridurre gradualmente la PA e correggere le eventuali complicanze. Va sottolineato che l’obiettivo da ottenere nella situazione di emergenza è quello di abbassare i valori pressori, intervenendo contemporaneamente per prevenire e trattare le complicanze associate 45 R. Lubrano et al. Figura 1. Paziente con ipertensione severa. 46 Emergenze ipertensive in età pediatrica all’ipertensione (convulsioni, ipertensione endocranica, edema polmonare, insufficienza cardiaca). L’iter diagnostico-terapeutico da seguire in caso di crisi ipertensiva comprende un iniziale supporto pediatrico di base (A-B-C-D) ed il monitoraggio della pressione arteriosa, della SaO2 (saturazione in ossigeno dell’emoglobina) e dell’ECG. In primis bisogna valutare l’attività respiratoria: in caso di grave distress respiratorio, tale da richiedere l’intubazione, è opportuno inviare immediatamente il paziente in un reparto di terapia intensiva. Al contrario, il paziente può essere seguito nella sezione di terapia sub-intensiva del reparto specialistico di cardiologia o nefrologia pediatrica. A questo punto bisogna posizionare un accesso vascolare periferico per disporsi ad iniziare una terapia infusionale, e nello stesso tempo prelevare un campione di sangue per effettuare gli esami di laboratorio (emogasanalisi, emocromo con formula, elettroliti, creatinina e azotemia, spot test per feocromocitoma). La diuresi andrebbe monitorizzata e la raccolta delle urine potrà essere utilizzata per effettuare esami laboratoristici (esame urine e funzionalità renale). Gli esami strumentali da eseguire in prima istanza sono: radiografia del torace, fondo dell’occhio, TC cerebrale se lo richiedono le condizioni cliniche. In anamnesi bisogna indagare circa la durata dell’ipertensione, per valutare se la crisi è insorta durante un periodo di benessere o nel contesto di un’ipertensione cronica di base, sulla presenza di sintomi che suggeriscano una causa all’origine della crisi e sui fattori di rischio per danno d’organo. L’esame obiettivo deve mirare a ricercare i segni di una patologia di base che potrebbe aver provocato la crisi e ad evidenziare i segni di compromissione d’organo correlati. È consigliabile istituire al più presto una terapia antiipertensiva, preferibilmente endovenosa in caso di emergenza e orale in caso di urgenza, scegliendo un farmaco in base alla familiarità del medico con la molecola e agli effetti collaterali dello stesso e monitorizzando continuamente il paziente in un reparto di terapia intensiva. La correzione dei valori pressori deve essere allo stesso tempo rapida e cauta: la terapia farmacologica deve essere istituita tempestivamente ma l’abbassamento della PA deve essere ottenuto gradualmente al fine di prevenire l’insorgenza di danni ischemici cerebrali conseguenti alle brusche variazioni pressorie. L’obiettivo deve essere di ridurre la pressione del 25% nelle prime due ore e poi gradualmente nei tre-quattro giorni successivi. Box di orientamento Con il presente articolo ci si propone di fornire delle linee guida per la gestione clinica di una crisi ipertensiva nel dipartimento d’emergenza pediatrico. Tenendo conto della definizione di emergenza e di urgenza ipertensiva, si sottolinea l’importanza di effettuare una valutazione prioritaria degli eventuali danni d’organo severi al fine di stratificare il rischio e di indirizzare ai reparti di terapia intensiva i pazienti in insufficienza respiratoria che necessitano di ventilazione assistita ed invece, alle sezioni subintensive dei reparti di nefrologia e cardiologia pediatrica i pazienti che necessitano di un attento e continuo monitoraggio; gli altri pazienti potranno essere gestiti tranquillamente nei reparti di cardiologia e nefrologia pediatrici. Sulla base della suddivisione delle crisi ipertensive in condizioni di emergenza e di urgenza ipertensive si pone inoltre l’attenzione del lettore sull’utilizzo dei farmaci, chiarendo che mentre nelle condizioni di emergenza ipertensiva è indispensabile somministrare la terapia per via endovenosa preferendo il nitroprussiato sodico o il labetalolo, nelle condizioni di urgenza ipertensiva si può scegliere di somministrare nifedipina per via sublinguale. Il presente articolo fornisce inoltre un elenco delle principali cause di crisi ipertensiva a seconda dell’età del bambino ed istruisce il lettore circa le principali complicanze di una crisi ipertensiva al fine di facilitarne il rilievo semeiologico e di renderne tempestiva la gestione terapeutica. Bibliografia Ardigos S, Rutschmann O, Waeber B, et al. How urgent is it to decrease high blood pressure? Praxis 2008;16:431-6. Blaszak RT, Savage JA, Ellis EN. The use of short-acting nifedipine in pediatric patients with Hypertension. J Pediatr 2001;139:34-7. * Studio effettuato dagli autori sull’impiego della nifedipina nel trattamento delle crisi ipertensive in pediatria. Fornisce dati sulla sicurezza di questo farmaco e sulla posologia di impiego. Bunchman TE, Lynch RE, Wood EG. Intravenously administered labetalol for treatment of hypertension in children. J Pediatr 1992;120:140-4. Couch SC, Daniels SR. Diet and blood pressure in children. Curr Opin Pediatr 2005;17:642-7. * In questo articolo viene messa in evidenza l’importanza di impostare un adeguato regime dietetico iposodico e talvolta ipocalorico nei bambini con valori pressori elevati. Costantine E, Linakis J. The Assessment and Management of Hypertensive Emergencies and Urgencies in children. Pediatr Emerg Care 2005;21:391-9. Deal JE, Barrett TM, Dillon MJ. Management of hypertensive emergencies. Arch Dis Child 1992;139:38-4. * L’uso del labetalolo e del nitroprussiato di sodio in infusione lenta ha portato ad un miglior controllo della crisi ipertensiva senza improvvisi episodi ipotensivi rispetto ai boli somministrati per via endovenosa. Flynn JT, Tullus K. Severe hypertension in children and adolescents: pathophysiology and treatment. Pediatr Nephr 2008 Oct 7. Friedman AL Approach to the treatment of hypertension in children. Heart Dis 2002;4:47-50. Hebert CJ, Vidt DG. Hypertensive Crises. Prim Care 2008;35:475-87. James G. Linakis. Hypertension. In: Ludwig S, Fleisher GR, eds. Textbook of Pediatric Emergency Medicine, 4th Edition. Philadelphia: Lippincott Williams and Wilkins 2000; pp. 309-15. ** Con questo capitolo gli autori forniscono utili indicazioni sull’inquadramento diagnostico, sulle indagini strumentali e laboratoristiche e sulla gestione terapeutica delle emergenze ed urgenze ipertensive in età pediatrica. Lurbe E, Rodicio JL. Hypertension in children and adolescents. J Hypertens 2004;22:1423-5. National High Blood Pressure Education Program Working group on High Blood Pressure in Children and Adolescents. The fourth Report on the Diagnosis, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure in Children and Adolescents. Pediatrics 2004;114:555-76. ** Articolo cardine che costituisce il punto di riferimento per tutta la letteratura medica sull’ipertensione pediatrica, in quanto fornisce le tabelle di riferimento di valori pressori per età, sesso e centile dell’altezza ed un orientamento sull’iter diagnostico-terapeutico da seguire. Norwood VF. Hypertension. Pediatr Rev 2002;23:197-208. Robinson RF, Batisky DL, Hayes JR, et al. Body mass index in primary and secondary pediatric hypertension. Pediatr Nephrol 2004;19:1379-84. * Interessanti la correlazione esistente tra l’incremento del BMI e l’ipertensione primaria e secondaria in una popolazione di bambini e adolescenti e la corre- 47 R. Lubrano et al. lazione tra l’età d’esordio dell’ipertensione primaria e il BMI. Il BMI può essere considerato un indice del rischio di sviluppare ipertensione in età pediatrica. Robinson RF, Batisky DL, Hayes JR, et al. Significance of heritability in primary and secondary pediatric hypertension. Am J Hypertens 2005;18:917-21. * L’ipertensione primaria e secondaria non condividono lo stesso tipo di profilo genetico. L’ipertensione primaria nei bambini e negli adolescenti può probabilmente essere determinata da diversi fattori genetici anche se i fattori ambientali non possono essere esclusi. Rose JC, Mayer SA. Optimizing blood pressure in neurological emergencies. Neurocrit Care 2004;1:287-99. * Spiega i meccanismi fisiopatologici che si instaurano a livello cerebrale durante una crisi ipertensiva. Sorof JM, Lai D, Turner J, et al. Overweight, ethnicity and the prevalence of hypertension school-aged children. Pediatrics 2004;113:475-82. * Questo articolo fornisce i dati della prevalenza dell’ipertensione arteriosa in età pediatrica su una popolazione di oltre 6700 bambini e adolescenti, studiata applicando i criteri per la diagnosi di ipertensione forniti dal National High Blood Pressure Working Group del 2004. Urbina E, Alpert B, Flynn J, et al. Ambulatory blood pressure monitoring in children and adolescents: recommendations for standard assessment: a scientific statement from the american heart association atherosclerosis, hypertension, and obesity in youth committee of the council on cardiovascular disease in the young and the council for high blood pressure research. Hypertension 2008;52:433-51. * Fornisce le tabelle da tenere come punti di riferimento per la lettura dei monitoraggi pressori ed evidenzia l’importanza del monitoraggio pressorio stesso. Varon J. Treatment of acute severe hypertension: current and newer agents. Drugs 2008;68:283-97. Vaughan CJ, Delanty N. Hypertensive emergencies. Lancet 2000;356:411-7. * Il lavoro contiene indicazioni importanti sulla definizione di emergenza ed urgenza ipertensiva e fornisce una panoramica dei farmaci antiipertensivi attualmente disponibili e maggiormente utilizzati. Williams CL, Hayman LL, Daniels SR, et al. Cardiovascular health in childhood: A statement for health professionals from the Committee on Atherosclerosis, Hypertension, and Obesity in the Young (AHOY) of the Council on Cardiovascular Disease in the Young, American Heart Association Cardiovascular Health In Childhood. Circulation 2002;106:143-60. * La malattia coronarica costituisce la principale causa di morte negli Stati Uniti negli adulti ed è correlata ad un accelerato processo aterosclerotico. L’aterosclerosi inizia durante l’infanzia e sono stati individuati diversi fattori di rischio. Seguire uno stile di vita sano e corretto durante l’infanzia è importante in quanto promuove una migliore salute cardiovascolare nella vita adulta. Wuhl E, Witte K, Soergel M, et al. Distribution of 24-h ambulatory blood pressure in children: normalized reference values and role of body dimensions. J Hypertens 2002;20:1995-2007. * Il monitoraggio ambulatoriale delle 24 ore costituisce un elemento indispensabile per la diagnosi di ipertensione molto più preciso delle rilevazioni pressorie sporadiche. Yang HJ, Kim JG, Lim YS, et al. Nicardipine versus niptroprusside infusion as antihypertensive therapy in hypertensive emergencies. J Int Med Res 2004;32:118-23. Corrispondenza dott. Riccardo Lubrano, “La Sapienza”, Università di Roma, Policlinico Umberto I, UOS di Nefrologia Pediatrica, viale Regina Elena 324, 00161 Roma. Tel. +39 06 49979328. E-mail: [email protected] 48 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 49-58 FRONTIERE Immunodeficienza con iper-IgE: ruolo di STAT3 nella biologia cellulare e nel rimodellamento tissutale, e funzioni immunologiche dei linfociti Th17 Fausto Cossu Centro Trapianti Midollo Osseo, Clinica Pediatrica II, Ospedale Microcitemico, ASL 8, Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologie dell’Università di Cagliari Riassunto L’Immunodeficienza con iper-IgE (Hyper-IgE Syndrome; Sindrome di Giobbe), caratterizzata da IgE sieriche elevatissime, dermatite ed infezioni ricorrenti di cute e polmoni, era l’ultima delle immunodeficienze primitive “maggiori” senza causa genetica identificata. Recentemente sono state scoperte mutazioni dei geni della Tyrosine kinase 2 e del Signal Transducer and Activator of Transcription 3 in pazienti con rispettivamente la forma autosomica recessiva e quella autosomica dominante. Sia Tyrosine kinase 2 che Signal Transducer and Activator of Transcription 3 sono proteine della JAK-STAT-SOCS signaling pathway. Tyrosine kinase 2 è una delle Janus Kinases ed ha un più specifico ruolo immunologico, mentre Signal Transducer and Activator of Transcription 3 ha un ruolo universale, oggetto di moltissimi studi, dalle cellule embrionali fino a quelle più differenziate. E infatti la Hyper-IgE Syndrome con mutazione di Signal Transducer and Activator of Transcription 3 è una malattia multisistemica con anche anomalie di tessuto connettivo e scheletro, e con caratteristico deficit dei linfociti T helper Th17. La Hyper-IgE Syndrome è una sindrome eterogenea, e non tutti i pazienti hanno mutazioni di questi due geni. Le nuove conoscenze genetiche ed immunologiche consentono una migliore definizione delle diverse varianti cliniche, e più razionali strategie diagnostiche e terapeutiche. Summary Immunodeficiency with hyper-IgE (Hyperimmunoglobulin E Syndrome; Job’s syndrome), characterized by extraordinary elevated serum IgE, dermatitis, and recurrent infections of the skin and lung, was the last “major” primary immunodeficiency without identified genetic cause. Recently, mutations of Tyrosine kinase 2 and of Signal Transducer and Activator of Transcription 3 genes were finally discovered in, respectively, autosomal-recessive and autosomal-dominat Hyperimmunoglobulin E Syndrome patients. Both Tyrosine kinase 2 and Signal Transducer and Activator of Transcription 3 are proteins of the JAK-STAT-SOCS signaling pathway. Tyrosine kinase 2 is one of the Janus Kinases and has a more specific immunological role, while Signal Transducer and Activator of Transcription 3 has an universal estraordinary studied role from embryonic to the most differentiated cells; so Hyperimmunoglobulin E Syndrome with stat3 mutation is a multisystem disease with a variety of connective tissue and skeletal abnormalities, and with the characteristic deficiency of Th17 (T helper 17) lymphocytes. Hyperimmunoglobulin E Syndrome is a heterogenous syndrome, and not all Hyperimmunoglobulin E Syndrome patients have mutations of these two genes. New, evolving, genetic and immunologic understandings of Hyperimmunoglobulin E Syndrome allow a better definition of its different clinical variants, and better diagnostic and therapeutic strategies. Obiettivo e ricerca bibliografica Si vogliono presentare le novità sull’immunodeficienza con iper-IgE iniziate con la scoperta di un primo gene mutato, pubblicata nel Novembre 2006. Si è effettuata una ricerca su PubMed da quella data ad oggi, con le parole chiave: hyper-IgE (40 articoli pertinenti), hyper-IgE e tyk2, hyper-IgE e stat3, hyper-IgE e Th17 (24); stat3 (1300!), Th17 (395). Si sono esaminati gli articoli (molti “Epub ahead of print”), riconsiderando però anche importanti lavori precedenti. La revisione aggiorna le informazioni sui diversi fenotipi clinici, oggi meglio interpretabili con la conoscenza, pur ancora incompleta, delle basi genetiche. Si descrivono poi i geni e le mutazioni appena scoperti, le correlazioni con le principali manifestazioni immunologiche ed extra-immunologiche, e le possibili conseguenze pratiche diagnostiche e terapeutiche. Introduzione Dopo molti anni dalla prima descrizione di due bambine affette da Immunodeficienza con iper-IgE (HIES, Hyper-IgE Syndrome; Sin- drome di Giobbe, Job’s Syndrome) (Davis et al., 1966) la HIES ha svelato in parte la sua patologia molecolare. Si è scoperta una mutazione null in omozigosi del gene tyk2 codificante la TYK2 (Tyrosine kinase 2) in un paziente con HIES Autosomica Recessiva (AR-HIES, MIM n. 243700) (Minegishi et al., 2006). Subito dopo si sono individuate mutazioni missense in eterozigosi a effetto dominante-negativo del gene stat3, codificante la proteina STAT3 (Signal Transducer and Activator of Transcription 3), in oltre il 70% dei pazienti con la forma più comune multisistemica di HIES Autosomica Dominante a trasmissione familiare o, più spesso, presentazione sporadica (AD-HIES, MIM n. 140760) (Minegishi et al., 2007a; Holland et al., 2007). Aspetti clinici L’Immunodeficienza con Iper-IgE comprende più forme eterogenee, per cui si deve parlare di Hyper-IgE Syndromes (Tab. I). Sono però costanti dermatite, IgE elevatissime, infezioni ricorrenti, eosinofilia, e per la diagnosi è sempre indispensabile lo score di Grimbacher (Tab. II). 49 F. Cossu Tabella I. Classificazione, provvisoria, delle diverse forme di Immunodeficienza con Iper-IgE (AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva). Mutazione genica Aspetti distintivi oltre a dermatite, IgE altissime, infezioni Gravità stat3 (~ 75%) Anomalie scheletro, denti, facies; pneumatoceli; ascessi freddi; anafilassi -/+ ? (~ 25%) Anomalie scheletro, denti, facies; ascessi freddi; pneumatoceli +/-; anafilassi +++/- +/++ ? Gravi infezioni virali, gravissime complicanze snc ++++ tyk2 Associate infezioni da batteri intracellulari (bcg) ++ ++ Multysistem AD-HIES Nonskeletal AR-HIES Tabella II. Scoring System delle HIES secondo Grimbacher. In base allo score si definisce un paziente: > 60, affetto da HIES; 40-59, probabilmente affetto; 16-39, possibilmente affetto; 0-15, non affetto (da Grimbacher et al., 1999, mod.). Parametro clinico Max IgE [IU/mL] Punteggio 0 1 < 200 200-500 2 3 4 5 6 7 8 10 > 2.000 501-1.000 1.001-2.000 Ascessi cute (n° totale) 0 1-2 3-4 >4 Pneumoniti (n° totale; documentate Rx) 0 1 2 Alterazioni del parenchima polmonare NO Altre infezioni gravi NO SI Sepsi NO SI Max conta eosinofili /μL Rash neonatale < 700 700-800 NO 3 >3 Bronchiectasie Pneumatocele > 800 SI Eczema (stadio peggiore) Assente Lieve Moderato Grave Sinusiti, otiti (n° totale max in un anno) 1-2 3 4-6 >6 Candidosi NO Orale, Vaginale Unghie Sistemica 0 1 2 3 >3 10-14° 15-20° > 20° 0 1-2 >2 NO SI Denti decidui ritenuti Scoliosi, max curvatura Fratture “spontanee” Iperlassità legamentosa Facies tipica Aumentata larghezza nasale Palato ogivale < 10° NO < 1 SD NO Anomalie linea mediana NO Linfoma NO Correzione per l’età > 5 anni Lieve 1-2 SD SI > 2 SD SI SI SI 2-5 AD-HIES con mutazione di un gene stat3 (multisystem AD-HIES) In tre diverse casistiche (Minegishi et al., 2007a; Holland et al., 2007; Woellner et al., in press), su 166 pazienti con AD-HIES familiare o sporadica, 122 (73%) presentano una mutazione in eterozigosi di un gene stat3 (anche la prima paziente del 1966 – Fig. 1). La proteina STAT3 è attiva già nelle cellule embrionali (ed infatti il topo knockout stat3null muore in fase embrionale – Takeda et al., 1997; Torres e Watt, 2008) e poi in quelle di molti tessuti (di tutti?), e la HIES con mutazione di stat3 è una malattia da difetto funzionale, parziale, di STAT3 (un deficit completo non è compatibile con la vita) e multisistemica: anche anomalie di tessuto connettivo, scheletro, vasi e tessuto nervoso (Freeman e Holland, 2008); è poi peculiare il deficit di linfociti T helper Th17 (Milner et al., 2008). La dermatite, talvolta già presente alla nascita, compare entro i primi 50 1-2 <1 due mesi di vita, raramente dopo il primo anno (Eberting et al., 2004). È legata alla colonizzazione della cute da parte degli Stafilococchi, sia Staphylococcus aureus (S. aureus) che coagulasi-negativi, ed è una grave dermatite cronica papulo-pustolosa e pruriginosa, con noduli cutanei-sottocutanei scarsamente dolenti, grigiastri e tendenti alla colliquazione (“ascessi freddi”, oggi molto meno frequenti grazie alla profilassi/terapia antisettica e antibiotica). Va differenziata da certi rash benigni (eritema tossico/acne neonatali), dal rash di altre immunodeficienze primitive con IgE aumentate (Tab. III), e dall’eczema atopico. Le IgE sieriche totali sono per definizione almeno 10 volte il limite superiore normale per l’età e quindi, dopo i 5-10 anni, > 2.000 UI/mL; in genere si hanno picchi molto più alti, persino > 100.000 UI/mL; dopo l’adolescenza il livello di solito si riduce, e in età adulta Immunodeficienza con iper-IgE Figura 1. La famiglia della prima paziente con AD-HIES (Davis et al., 1966; da Renner et al., 2007, mod.). La paziente (attualmente 50 anni) ha trasmesso la mutazione di un gene stat3 al suo secondo figlio (deceduto a 29 anni per “pneumopatia cronica”), presumibilmente anche al primo (deceduto a soli 3 giorni di vita per polmonite e sepsi), e poi al nipotino (già a 3 mesi di vita polmonite ascessualizzata da S. aureus e fratture costali “spontanee”). La seconda paziente del 1966, che presentava già bronchiectasie all’età di 4 anni, è deceduta a 19 anni per “pneumopatia cronica”. può scendere entro i limiti normali (Grimbacher et al., 1999). Nel neonato/lattante affetto le IgE sono lievemente (es., 46 IU/mL rispetto a v.n. < 10 IU/mL – Freeman et al., 2006) o già molto aumentate (Walsh e Reardon, 2008); da ricordare che le IgE non passano la barriera placentare e di norma sono indosabili nel sangue cordonale (Grimbacher et al., 2002). Nelle HIES le IgE sono policlonali e rivolte con titoli altissimi sia contro antigeni di S. aureus e Candida sia contro i più svariati antigeni e allergeni (ha poco senso un RAST). Pur con intensa positività del prick test verso molti antigeni (Buckley et al., 1972), c’è una paradossale assenza di manifestazioni cliniche di ipersensibilità di I tipo “reaginico” – anafilassi, orticaria, angioedema, asma allergico – nonostante i livelli straordinari di IgE, paradosso tipico della HIES con mutazione di stat3 ma non delle AD-HIES variants (vedi oltre), che pure condividono l’altra modalità anomala di reazione (“ascessi freddi”, cioè il difetto dei segni della flogosi – eritema, aumento della temperatura locale, dolore – nei focolai di infezione purulenta). Le gravi infezioni ricorrenti sono principalmente causate da Stafi- lococchi e altri batteri extracellulari piogeni, e da miceti. Sia lo S. aures che Stafilococchi coagulasi-negativi come Staphylococcus hominis oppure S. hominis, Staphylococcus haemolyticus, ecc., spesso multiresistenti agli antibiotici, colonizzano costantemente la cute causando la dermatite ed inoltre la sua impetiginizzazione, ascessi, cellulite, e facile sepsi. Sono costanti, già dall’età infantile, le pneumoniti ricorrenti da batteri piogeni: Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, ma soprattutto ancora S. aureus. In analogia con gli ascessi cutanei, le pneumoniti si manifestano spesso con una sintomatologia attenuata (riguardo a febbre, tosse, dolore, espettorazione), con facile ritardo diagnostico e ad es. scoperta inaspettata negli esami Rx di un ascesso polmonare. Oltretutto, nonostante le pneumoniti rispondano di per sé prontamente alla terapia antibiotica appropriata, nella HIES con mutazione di stat3 il tessuto polmonare ha una modalità di riparazione abnorme (lung aberrant healing) con formazione di bronchiectasie e soprattutto di pneumatoceli; una volta instaurati, questi predispongono a sovrainfezioni con batteri gram-negativi (Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella pneumoniae) e con miceti (Aspergillus spp., Scedosporium neoformans), a decorso indolente e con elevata mortalità per emorragie polmonari fatali o disseminazione micotica nell’encefalo (Freeman e Holland, 2008). Sono possibili infezioni anche da altri miceti: Candida (molto frequente l’onicomicosi cronica); Cryptococcus neoformans, Histoplasma capsulatum (forme localizzate o disseminate); polmonite, anche nel lattante, da Pneumocystis jiroveci, che può inoltre “colonizzare” i polmoni (Freeman et al., 2006). Come detto, il difetto di STAT3 ha effetto multisistemico con oltre al lung aberrant healing un “modellamento anomalo” dell’intero organismo e molte manifestazioni extra-immunologiche (Tab. IV) variamente associate in ciascun paziente (Grimbacher et al., 1999; Freeman e Holland, 2008; Walsh e Reardon, 2008). C’è infine un rischio aumentato anche se difficilmente quantificabile di neoplasie: soprattutto linfomi sia Hodgkin che non-Hodgkin, comparsi anche in età pediatrica (Freeman e Holland, 2008). AD-HIES senza mutazione di un gene stat3 (multisystem AD-HIES variants) In 44/166 pazienti (27%) con AD-HIES multisistemica a trasmissione familiare o sporadica la sequenza dei geni stat3, regioni introniche di splicing comprese, non presenta dunque mutazioni. Si può parlare per questi pazienti di “AD-HIES variants”. È un gruppo, a sua volta eterogeneo, con molti aspetti in comune con la HIES con mutazione di stat3: dermatite e ascessi freddi (Fig. 2), IgE elevatissime, pneumoniti e ascessi polmonari con sintomatologia subdola (Fig. 3), alterazioni connettivali, scheletriche e dentarie, facies, ecc.; e, però, oltre appunto all’assenza di mutazione stat3, altre differenze: Tabella III. Immunodeficienze primitive del neonato/lattante con dermatite, ed altre condizioni con aumento marcato delle IgE totali sieriche (da Grimbacher et al., 2002, mod.). Malattia Hyper-IgE Syndromes (AD-HIES; AR-HIES) Max IgE UI/mL Da 2000 a > 100.000 Wiskott-Aldrich Syndrome (WAS) Da normale fino a 5.000 Omenn Syndrome Da normale fino a 45.000 Comèl-Netherton Syndrome Immunodysregulation, Polyendocrinopathy, Enteropathy, X- linked (IPEX) Eczema atopico Parassitosi Da normale a > 10.000 Anche > 10.000 Fino a 10.000 Fino a 1.000; Raramente > 1.000 51 F. Cossu Tabella IV. Manifestazioni extra-immunologiche della AD-HIES multisistemica, sia AD-HIES con mutazione di stat3 che AD-HIES variants. Manifestazione Note Anomalie del cranio Di solito non necessaria correzione chirurgica (Craniosinostosi; malformazione di chiari tipo 1) Ritenzione dei denti decidui, Molto frequente e tipica Mancato riassorbimento delle radici, necessarie estrazioni; era affetto da ad-hies il bambino, malato, hanno dei buddenbrok di thomas mann? Fratture spontanee da traumi minimi (Osteopenia e fragilità ossea) A tutte le età, soprattutto costole e ossa lunghe; nel lattante possibile misdiagnosis di bambino maltrattato Scoliosi In oltre il 75%, dall’adolescenza; variabile gravità, possibile necessità di trattamento chirurgico Anomalie congenite linea mediana Palato ogivale, solco mediano della lingua (“glossite” romboide mediana), emivertebre, schisi vertebrale, spina bifida occulta, ipospadia Altre anomalie scheletriche Arti corti o/e di lunghezza asimmetrica, coste bifide, tibia vara (malattia di blount) Iperlassità legamentosa Piccole e grandi articolazioni; frequente precoce artropatia degenerativa soprattutto della colonna Facies tipica Dopo l’adolescenza; asimmetrica (tipo quadri astratti di picasso) o/e grossolana (coarse), fronte prominente, occhi infossati, naso largo Anomalie pareti arteriose Tortuosità e aneurismi coronarie e carotidi interne; non aterosclerosi; possibili infarto miocardio o ictus Anomalie sistema nervoso centrale Di solito asintomatiche, nella mri lesioni puntiformi t2-iperintense sostanza bianca, molto più precoci e numerose rispetto alla popolazione generale normale pneumatoceli meno costanti, assenza del deficit dei linfociti Th17, e invece frequente deficit di linfociti CD4+ Th1 produttori di IFN-γ (Milner et al., 2008; Woellner et al., in press), possibile presenza di severe manifestazioni cliniche da “reagine” (anafilassi compreso shock anafilattico, orticaria, angioedema, asma allergico), gravità in generale minore con espressività variabile e nei casi ereditari più evidente fenomeno della “anticipazione genetica” (quadro più grave nei figli rispetto al genitore affetto), concentrazione dei pazienti in certe aree geografiche (es. Sardegna). Si può ipotizzare la mutazione di uno o più geni codificanti proteine delle stesse signaling pathways di STAT3, ma il cui deficit ad es. non impedisce le manifestazioni di tipo anafilattico. Figura 2. Un bambino di 4 anni di età affetto da AD-HIES multisistemica, negativa per mutazione di stat3. Dermatite papulo-pustolosa pruriginosa e infetta, noduli con aspetto di ascessi freddi; IgE totali 92.100 UI/mL, eosinofili 5900/μL; ripetute pneumoniti, candidosi. 52 Figura 3. Voluminoso ascesso da S. aureus del segmento apicale lobo polmonare inferiore sn. in un ragazzo di 13 anni di età affetto da AD-HIES multisistemica, negativa per mutazione di stat3. Sintomatologia subdola; guarigione con terapia antimicrobica ev, senza evoluzione in pneumatocele. Immunodeficienza con iper-IgE AR-HIES (non-skeletal AR-HIES) Molto rara, si osserva quasi sempre in figli di genitori consanguinei. Sono assenti le manifestazioni extra-immunologiche “connettivali” (alterazioni scheletriche e dentarie, fratture, facies, ecc.) e invece presenti IgE elevatissime, estrema eosinofilia (eosinofili fino a 17.500/μL rispetto a v.n. < 700/μL), dermatite, ascessi freddi cutanei da Stafilocco, candidosi muco-cutanea, e altre infezioni ricorrenti (sinusiti; pneumoniti e ascessi polmonari ma senza pneumatoceli; sepsi). Altri aspetti distintivi: frequenti e gravi infezioni virali (mollusco contagioso molto esteso; stomatite e cheratite da herpes simplex; varicella-zoster necrotizzanti); devastanti manifestazioni a livello del sistema nervoso centrale (vasculiti, aneurismi, emorragie) spesso causa di morte anche in età pediatrica; patologie autoimmuni, es. anemia emolitica. In generale, la forma AR è più severa, con mortalità precoce: su 13 pazienti descritti nella casistica più importante (Renner et al., 2004 – 5 famiglie della Turchia e una del Messico, score nei pazienti di età > 1 anno da 36 a 53) ben 5 sono deceduti prima dei 2 anni e altri 3 prima dei 13 anni. Dei pazienti di questa casistica non si conosce ancora il gene mutato. Invece, come detto, si è scoperta una mutazione null del gene tyk2 in un paziente AR-HIES con però un quadro un po’ diverso: anche infezioni da batteri intracellulari e assenza dei problemi neurologici e delle infezioni virali gravi (Minegishi et al., 2006). Aspetti di biologia molecolare e cellulare Gli STATs (Signal Transducers and Activators of Transcription; STAT1-4, STAT5a, STAT5b, STAT6) vengono attivati in risposta a citochine (Interleuchine – IL; ecc.), fattori di crescita, ormoni, mediante la fosforilazione di residui di tirosina (Y705 nel caso di STAT3), seguita da dimerizzazione per interazione reciproca tra la fosfotirosina ed il Src homology 2 (SH2) domain di due molecole. I dimeri traslocano rapidamente (entro 30 minuti) nel nucleo, dove si legano a sequenze specifiche del DNA e avviano la trascrizione dei geni target; altrettanto rapidamente (emivita circa 15 minuti) vengono inattivati per defosforilazione e ritornano nel citoplasma. Le principali tirosin-chinasi che attivano gli STATs sono: le JAKs (Janus Kinases: JAK1-3, e TYK2, associate a recettori privi di attività chinasica), i recettori con attività propria di tirosin-chinasi (es. Epidermal Growth Factor Receptor, HER), e le tirosin-chinasi della famiglia src. L’inattivazione di STATs ed anche JAKs e recettori attivati è opera es. di SOCSs (Suppressors of Cytokine Signalling), PIASs (Protein Inhibitors of Activated STAT), e PTPs (Protein Tyrosine Phosphatases) (Lim e Cao, 2006; Yoshimura et al., 2007). La patologia molecolare delle HIES riguarda componenti di queste “(IL)-(JAK)-STAT-(SOCS) signaling pathways”, che trasmettono il segnale dalla membrana al nucleo e controllano così le principali funzioni delle cellule, da quelle embrionali alle staminali fino a quelle più differenziate (Shuai e Liu, 2003). La mutazione di tyk2 e la TYK2 deficiency In un paziente giapponese di 22 anni, di genitori consanguinei, affetto da AR-HIES (score 48) e con all’anamnesi linfoadenite da BCG (Minegishi et al., 2006), sono risultate assenti mutazioni nei 5 geni della MSMD autosomica (Mendelian Susceptibility to Micobacterial Disease – Filipe-Santos et al., 2006). Si è allora esaminata la risposta in vitro dei suoi linfociti CD4+ all’IL-12 ed all’IFN-α (Interferon-α): produzione di IFN-γ e fosforilazione di STAT4 assenti. IL-12 e IFN-α sono tra le molte citochine che attivano la Tyrosine kinase 2 (TYK2), e nel gene tyk2, localizzato in 19p13.2 e codificante una proteina di 1187 aminoacidi, si è scoperta in omozigosi nel paziente (in eterozigosi nei genitori) la delezione di 4 nucleotidi GCTT (nt 550–553) con frame-shift generante un codone stop prematuro all’aminoacido 90. La proteina è troncata per la maggior parte (Fig. 4), e completamente assente all’immunoblotting (mutazione null). A differenza di JAK3 (il cui gene è in 19p13.1, molto vicino a tyk2) espressa quasi solo nelle cellule ematopoietiche, TYK2 ha come JAK1 e JAK2 espressione ubiquitaria, anche se il suo deficit appare agire solo sul sistema immunitario, e si associa a più catene recettoriali di più citochine. Nei T-linfociti e macrofagi del paziente si ha in vitro un grave deficit di risposta (normalizzata dal gene tyk2 integro di un vettore retrovirale) a molte citochine: IFN-α e β (suscettibilità alle infezioni virali); IL-12, con difetto di differenziazione dei T naive in linfociti Th1 produttori di IFN-γ (suscettibilità alle infezioni da batteri intracellulari e virus) e prevalenza di linfociti Th2 produttori di IL4 (iper-IgE); IL-6, citochina “proinfiammatoria” (chemoattrazione dei neutrofili e infiammazione scarse, ascessi freddi); IL-10, e IL-23. Figura 4. Il gene tyk2 è composto da 25 esoni codificanti la proteina Tyrosine kinase 2, di 1187 aminoacidi. Nel paziente AR-HIES è presente in omozigosi la delezione di 4 nucleotidi, GCTT (nt 550–553), con frame-shift codone 70-89 fino a un codone stop prematuro in 90; la proteina è troncata di tutti i domini funzionali e assente all’immunoblotting (da Minegishi et al., 2006). 53 F. Cossu Una mutazione di tyk2 è stata finora individuata in quest’unico paziente con AR-HIES “atipica” (l’infezione da BCG in pazienti HIES era comunque già descritta); altri gruppi di ricercatori non hanno trovato mutazione in numerosi altri pazienti, peraltro soltanto sequenziando le regioni codificanti del gene, e considerano la TYK2 deficiency una forma genetica distinta dalla AR-HIES “classica” (Woellner et al., 2007; Minegishi et al., 2007). La HIES con mutazione di stat3 La scoperta della mutazione di tyk2 ha indicato la via per svelare il mistero anche della AD-HIES: lo stesso gruppo (Minegishi et al., 2007a) ha esaminato in due pazienti di 9 e 21 anni con AD-HIES multisistemica (score 58 e 66) le risposte di monucleati e macrofagi a IL-12 e IFN-α (normali, a differenza del paziente tyk2null) ed a IL-6 e IL-10 (deficitarie). Era noto che l’IL-6 attiva STAT3, proteina di 770 aminoacidi codificata dal gene stat3 localizzato in 17q21.31. E, in entrambi i pazienti si è identificata in stat3 una mutazione in eterozigosi nel DNA-binding domain di STAT3: delezione di un aminoacido DV463, e mutazione missense R382W (che poi si è visto era anche la mutazione della prima “bambina con i capelli rossi” del 1966 – Fig. 1). Sequenziando stat3 in altri 13 pazienti si è individuata mutazione in 6 di loro. Numerose altre mutazioni sono state in seguito pubblicate (Holland et al.; 2007; Renner et al., 2008; Woellner et al., in press; database http://bioinf.uta.fi/STAT3base); sono più frequenti nel DNA-binding (hot-spot: R382W/Q) e nel Src homology 2 (SH2) (hot-spot: V637M) domain, ma si osservano anche in altre parti del gene oltre che in siti di splicing (Fig. 5). La struttura e la viability della proteina STAT3 mutata è sempre conservata, e l’effetto patologico è dominante-negativo, cioè appare legato alla formazione di dimeri difettosi STAT3wt/STAT3mut o STAT3mut/STAT3mut (probabilità del 75%), con difetto di legame al DNA (DNA-binding domain), di fosforilazione della tirosina 705 (SH2 e transactivation domains), o/e di legame con recettori e altre proteine (Coiled-coil domain). STAT3 è una molecola di importanza straordinaria, la “proteina STAT primordiale”. Al contrario che per gli altri STAT, il topo knockout stat3null muore in fase embrionale (Takeda et al., 1997); invece i topi con delezione condizionale di entrambi i geni stat3 in specifiche linee cellulari (prodotti con incroci mediante Cre recombinase – lox P system) sono vitali ma hanno appunto un deficit completo di STAT3 selettivo tessuto- e organo-specifico e il loro fenotipo permette di chiarire il ruolo complesso che STAT3 svolge nei diversi tessuti (Levy e Lee, 2002). STAT3 trasmette e trascrive il segnale di moltissime citochine e fattori di crescita (IL-6, L-10, IL-11, IL-21, IL-22, IL-23, IL-27, IL-31, LIF, Oncostatin M, Leptin, G-CSF, EGF, PDGF, ecc.), ed ha la capacità di attivare differenti set di geni in differenti tipi di cellule. Anche l’oncogene src (come altre molecole intracellulari) può fosforilare la tirosina di STAT3, che tra i suoi geni target ha vari altri oncogeni quali c-Myc, JunB, e Mcl-1; a sua volta stat3 è considerato un oncogene, e STAT3 è attivato in modo permanente nelle cellule di numerosi tipi di neoplasie (carcinomi, leucemie, linfomi) ed è al centro della ricerca di nuovi farmaci antineoplastici (Yu et al., 2007). Vari effetti dell’ablazione organo-specifica di stat3 nel topo rimandano al fenotipo della HIES con mutazione di stat3 umana: ad es., le cellule dell’epitelio bronchiolare e alveolare stat3null hanno danni molto gravi dall’infezione con Adenovirus, con estese aree di distruzione ed enfisema che ricordano l’evoluzione in pneumatoceli (Matsuzaki et al., 2006); IL-6, tramite STAT3, inibisce la differenziazione degli osteoclasti e stimola la proliferazione degli osteoblasti, ed il topo stat3null per queste cellule presenta osteopenia e fragilità ossea (Itoh et al., 2006). Il “modellamento tessutale anomalo” della HIES con mutazione di stat3 trova poi riscontro nel ruolo di STAT3 ad es. nella migrazione e attivazione dei fibroblasti indotta dal Platelet Derived Growth Factor (PDGF) (Nagai et al., 2007), nel rimodellamento tessutale ad opera delle Matrix MetalloProteinases (MMPs), delle quali tra l’altro si è osservato in questi pazienti un pattern sierico anomalo (Yuan et al., 2008; Sekhsaria et al., 2008), e nell’organizzazione del citoscheletro, polarizzazione e motilità-migrazione cellulari controllate dalle Rho GTPases (Deibbda et al., 2005) e dalla sathmin (Gao e Bromberg, 2006), in cui interviene anche la forma di STAT3 non fosforilata (Yang e Stark, 2008). Il deficit di linfociti T helper Th17 e Tfh, e altre anomalie immunologiche I linfociti CD4+ naive si differenziano in quattro principali sottotipi: T helper 1 (Th1) produttori di IFN-γ, con ruolo anti-microrganismi intracellulari (virus e batteri; mediante attivazione di CD8+ citossici e macrofagi) e in patologie autoimmuni; T helper 2 (Th2) produttori di IL-4, IL-5 e IL-13, helper privilegiati dei B linfociti (immunità anticorpale) e anti-macroparassiti (nematodi) ma anche effector delle patologie allergiche; T regulatory (Treg), segnati dal fattore di tra- Figura 5. Il gene stat3 è composto da 24 esoni codificanti la proteina STAT3, di 770 aminoacidi, attivata per fosforilazione della tirosina 705. Le mutazioni ( ) sono più frequenti nel DNA-binding e nel SH2 domain, con due hot-spot in 382 e 637. È importante anche l’isoforma STAT3β di 715 aminoacidi (Maritano et al., 2004). ■ 54 Immunodeficienza con iper-IgE scrizione FOXP3, addetti a tolleranza immunitaria e anti- malattie autoimmuni e infiammatorie croniche; e, di recente scoperta, T helper 17 (Th17), produttori appunto di IL-17A (e inoltre IL-17F, IL-21, IL-22, IL-26, IL-6, TNF-α) e con attività anti-batteri extracellulari e anti-funghi ed inoltre pro-infiammatoria (Thi, inflammatory T helper, con ruolo es. nella Collagen-induced arthritis e nella Experimental Autoimmune Encephalomyelitis) (Tesmer et al., 2008). La differenziazione dei linfociti Th17 (ancora da chiarire le diversità o meno fra topo e uomo) è sotto il controllo di IL-1β, IL-6, IL21, IL-23,TGF-β (Transforming Growth Factor β), ha come fattori di trascrizione finali RORγt e RORα (Retinoid-related Orphan Nuclear Receptor γt e α) e come trasduttore del segnale da membrana a nucleo proprio STAT3 (Bettelli et al., 2008; Romagnani, 2008; de Beaucoudrey et al., 2008). E infatti se si contano al citofluorimetro i Th17 (colorazione intracitoplasmatica per IL-17) e si dosa l’IL-17 nel sovranatante su mononuleati da sangue periferico stimolati overnight a 37°C con SEB (Staphylococcal Enterotoxin B, un superantigene), nei pazienti con AD-HIES con mutazione di stat3 si osserva rispetto ai controlli normali grave deficit del numero di Th17 e, di conseguenza, dell’ IL-17 prodotta (Milner et al., 2008; Renner et al., 2008; Ma et al., 2008). I deficit di STAT3/Th17/IL-17 possono giustificare vari aspetti dell’immunodeficienza dei pazienti con mutazione di stat3. Microrganismi eterogenei (batteri Gram+ e Gram-, funghi) stimolano una risposta di tipo Th17; la principale azione delle citochine liberate dai Th17 è di attivare, soprattutto a livello di epiteli e mucose, varie cellule a produrre molecole che poi causano il recrutiment di granulociti neutrofili (azione rapida contro batteri extracellulari e funghi) e macrofagi (infiammazione cronica) (Fig. 6). È evidente l’attinenza con il famoso “deficit di chemiotassi” della Sindrome di Giobbe, con gli “ascessi freddi”, ed anche con la torpidità delle lesioni polmonari croniche. STAT3, come detto, ha però un ruolo “universale” certo non limitato ai soli Th17, e si possono ad es. ipotizzare vari meccanismi per altre tre anomalie immunologiche tipiche delle HIES: 1) iper-IgE: i precisi meccanismi che determinano in tutte le forme di HIES livelli altissimi di IgE sieriche sono ancora oscuri; IL-4 e IL-13 (Th2) e nell’uomo, al contrario del topo, anche IL-21 (Avery et al., 2008) stimolano nei B linfociti lo switching di classe Ig e la produzione delle IgE, mentre IFN-γ (Th1), IL-10, CD23 (FcεRII, low affinity IgE receptor) e il fattore di trascrizione BCL-6 hanno azione inibitoria. In vitro i B linfociti di pazienti stat3mut non hanno un’iperproduzione intrinseca di IgE, ed esprimono CD23 in modo anomalo con livelli molto più elevati del normale e già nello stadio naive (Avery et al., 2008). L’ipotesi principale resta quella della ridotta produzione di citochine ad effetto negativo sulla produzione di IgE, soprattutto IFN-γ ad es. di norma prodotto da T linfociti e NK cell per stimolazione da parte di IL-21, una delle citochine dei Th17 e STAT3 dipendente (anche l’azione inibitoria anti-IL-4 svolta da IL-10 sui B linfociti è mediata da STAT3). Figura 6. Le principali azioni dei linfociti Th17 (da Romagnani 2008, mod.). CXC – CCL, Chemokine Ligands; NOS-2, Nitric Oxide Synthase; MMP3, Matrix MetalloProteinase 3; G-CSF – GM-CSF, Granulocyte/Granulocyte Macrophage Colony-Stimulating Factor; TNF, Tumor Necrosis Factor. 55 F. Cossu Dati molto recenti indicano proprio nella IL-21 una citochina chiave per il fenotipo immunologico iper-IgE: in particolare, STAT3 è necessario per la produzione di IL-21 ed il difetto di IL21 (topi knockout IL-21 null) si associa nel topo ad aumento dei livelli di IgE. Oltre che dai linfociti Th17, IL-21 è secreta principalmente dai linfociti T helper Tfh (T follicular cells): un altro sottotipo di linfociti CD4+ T helper di recente identificazione, caratterizzati dall’intensa espressione di CXCR5 (chemokine receptor 5) e che svolgono nei centri germinali linfatici un fondamentale ruolo helper verso i B linfociti per la produzione di anticorpi ad alta affinità (Silver e Hunter, 2008). La HIES con mutazione di STAT3 sembra configurarsi come una patologia in cui vi è alterazione sia dei linfociti Th17 che di quelli Tfh. Come detto, nei pazienti con AD-HIES variants senza mutazione di stat3 la stessa stimolazione con SEB non evidenzia deficit di Th17 ma invece di linfociti CD4+ produttori di IFN-γ (Th1) e quindi, ancora, di IFN-γ. 2) Suscettibilità alle infezioni da Stafilococchi: anche questa è comune a tutte le forme di HIES, con primaria colonizzazioneinfezione della cute; il deficit di Th17 o comunque di attività IL-17 comporta un deficit di richiamo dei neutrofili ed inoltre dell’attivazione della NO-sintetasi (Fig. 6 – l’NO, ossido “nitrico” ha un’importante azione anti-Stafilococchi – Richardson et al., 2008); inoltre STAT3 trasmette il segnale delle hBDs (human β-Defensins), peptidi antimicrobici che stimolano la migrazione dei cheratinociti (infatti deficitaria nei topi con cellule cutanee stat3null; Sano et al., 1999) e la loro produzione di citochine e chemochine infiammatorie (Niyonsaba et al., 2007). 3) Paradossale assenza di manifestazioni cliniche da “reagine” (anafilassi, asma): come detto, è tipico della HIES con mutazione di stat3 ma non delle AD-HIES variants; da un lato STAT3 media l’inibizione delle mast cell da parte di IL-10 (Kennedy Norton et al., 2008), ma all’opposto STAT3 è necessario anche per la proliferazione e la funzione delle stesse mast cell (Sonnenblick et al., 2004); i topi con cellule dell’epitelio respiratorio stat3null St non sviluppano asma allergico (Simeone-Penney et al., 2007), e STAT3 media l’iperplasia delle cellule muscolari lisce delle vie aeree indotta dal PDGF (Simeone-Penney et al., 2008). Infine, per alcuni i Th17 non sono coinvolti nell’asma (Romagnani, 2008), secondo altri invece hanno un ruolo e non solo come reclutatori locali di granulociti, e infatti nell’espettorato dei pazienti con asma allergico è presente un’elevata concentrazione di IL-17 (Tesmer et al., 2008). Conclusioni e prospettive Nella pratica, si possono ora capire e affrontare meglio molti aspetti delle diverse forme di HIES. Certo, per la diagnosi della HIES con mutazione di stat3 non si può pensare di usare come test di primo livello il sequenziamento del gene stat3 (> 75.000 bp!); più realistica la conta in citofluorimetria dei Th17 (IL-17 intracitoplasmatica o/e CCR6, chemokine receptor 6, da loro espresso; Ma et al., 2008); però, come detto, e tanto più per le altre forme di HIES, la diagnosi si basa sullo score clinico di Grimbacher. Un punto trascurato ma molto importante è quello della diagnosi di HIES nel neonato/lattante/bambino piccolo senza storia familiare 56 (nella Bibliografia sono evidenziati gli articoli che descrivono i quadri clinici a queste età). La diagnosi precoce è ovviamente importante per un tempestivo trattamento. C’è una frase molto istruttiva nella descrizione della prima paziente, allora bambina (Davis et al.,1966): “she is at present much improved, and is receiving oxacillin 2000 mg daily and frequent hexachlorophene baths”. Molti problemi partono dalla dermatite (di per sé già causa di grande sofferenza per i pazienti): è una dermatite infettiva da Stafilococchi, non è un eczema atopico, e la profilassi/terapia di base consiste in: • bagni quotidiani o a giorni alterni (immergere tutto il corpo) con soluzione disinfettante anti-Stafilococchi: usando una soluzione commerciale di ipoclorito di sodio 1,15 g/100 mL, si sciolgono 20 mL in 30 litri di acqua con concentrazione finale circa 0,07%; nei lavori in lingua inglese (Freeman e Holland, 2008) si trova scritto di diluire nella vasca la household bleach, cioè la candeggina di casa, che però ha troppe impurità tossiche (es. mercurio, ecc.); • antibiotici (es. amoxicillina-clavulanico) in profilassi quotidiana fissa; • antimicotici, attivi anche su Aspergillus spp.; • antistaminici per il prurito (che però si giova principalmente dei bagni con NaClO). Serve naturalmente un high index of suspicion per le infezioni gravi (soprattutto pneumoniti, ma anche sepsi; ricordarsi la sintomatologia subdola), da trattare in modo tempestivo e aggressivo. Con l’aumentare dell’età diventa poi indispensabile una prevenzione e assistenza multidisciplinare (problemi dentari, ortopedici, psicologici, eventualmente cardiaci e neurologici, ecc.). Non servono e anzi hanno creato danni cronici molto gravi i cortisonici per via sistemica e gli immunosoppressori; sono pure inutili (a parte la crema eudermica idratante e, solo nelle fasi di più intensa riaccensione, i cortisonici topici) i tubetti e i barattoli di creme e pomate di tutti i tipi che vengono prescritti a questi pazienti. L’IFN-γ sarebbe in teoria indicato, ma nella pratica è risultato inefficace (probabilmente è attivo solo nelle “sinapsi” strette tra cellule del sistema immunitario); poco si sa sulla possibile utilità dell’Omalizumab (anticorpo monoclonale anti-IgE), mentre è probabile l’utilità dei bifosfonati per l’osteopenia. I pazienti con AD-HIES variants con asma/anafilassi hanno spesso beneficio dal trattamento prolungato con montelukast, e devono portare sempre con sé i farmaci anti-shock anafilattico (idrocortisone, clorfenamina, adrenalina pronta, salbutamolo spray). Infine, va detto che la paziente HIES trapiantata di midollo all’età di 7 anni con successiva apparente ricomparsa della malattia (Gennery et al., 2000), in seguito ha invece presentato un notevole miglioramento clinico (Freeman e Holland, 2008): la possibile efficacia del trapianto assume tanto più importanza per i rari pazienti con AR-HIES tipica, che come visto è di preminente interesse pediatrico ed ha un decorso molto grave e rapidamente fatale. La lunga attesa per conoscere il difetto molecolare delle HIES è stata davvero ben ripagata: a parte TYK2, STAT3 è una molecola di importanza straordinaria ed al centro dell’attenzione dei ricercatori. Restano ancora da scoprire i geni mutati nelle AD-HIES variants e probabilmente nell’AR-HIES “tipica”; di certo sarà di nuovo utile il modello della MSMD: più geni di una stessa pathway del tipo IL/JAK/ STAT/SOCS, e le cui mutazioni causano quadri simili ma con aspetti particolari e gravità differenti. Immunodeficienza con iper-IgE Box riassuntivo Cosa si sapeva prima L’immunodeficienza con iper-IgE è caratterizzata da IgE sieriche elevatissime, eosinofilia, dermatite (con “ascessi freddi”) ed infezioni ricorrenti causate soprattutto da Stafilococchi ma anche funghi. Nella forma più comune, a eredità autosomica dominante o presentazione sporadica, si associano pneumatoceli post-polmonite ed inoltre manifestazioni extra-immunologiche “connettivali” (alterazioni scheletriche e dentarie, fratture, facies, ecc.); nella forma autosomica recessiva, molto rara, le manifestazioni extra-immunologiche sono assenti, e si hanno invece devastanti infezioni virali e complicanze neurologiche, con mortalità precoce. Cosa sappiamo adesso La forma più comune di AD-HIES è la HIES con mutazione di stat3, mentre in un primo paziente con AR-HIES “attenuata” c’è invece deficit completo di TYK2. Sia STAT3 che TYK2 sono componenti delle “(IL)-(JAK)-STAT-(SOCS) signaling pathways”; TYK2 ha un ruolo più limitato al sistema immunitario; invece STAT3 è la “proteina STAT primordiale” (oltre che un’oncoproteina) indispensabile già nelle cellule embrionali, ed il suo difetto funzionale parziale (vedi i topi con stat3 knockout selettivo per i diversi tessuti e organi), spiega sia le manifestazioni immunologiche che quelle “connettivali”. Esistono anche AD-HIES variants senza mutazione di stat3 (e con possibili asma e anafilassi, anche molto gravi); si discute se la AR-HIES “tipica”, molto grave, sia dovuta o no a mutazioni di tyk2. Sono in corso le ricerche degli altri geni mutati. … e nella pratica clinica Le diverse forme di HIES sono oggi meglio definite, se ne conoscono in parte le basi molecolari (a iniziare da quelle dei difetti immunologici), e si può affrontare il trattamento in modo più razionale. Per la diagnosi resta fondamentale lo score di Grimbacher; la ricerca in citofluorimetria del deficit di Th17 e, solo nei casi indicati, il sequenziamento del gene stat3 (che è molto grande) possono consentire diagnosi certa di HIES con mutazione di stat3. E molto importante sospettare e riconoscere la HIES anche nel bambino molto piccolo, persino nel neonato. Il trattamento si basa prima di tutto sulla profilassi antisettica e antibiotica contro gli Stafilococchi che, per meccanismi molecolari oggi meglio noti, colonizzano e infettano la cute, e sulla diagnosi e terapia tempestive di pneumoniti, sepsi e altre infezioni profonde. Nella AD-HIES con il crescere dell’età si devono poi affrontare i vari problemi di denti, articolazioni, scheletro, ecc. Bibliografia Avery DT, Ma CS, Bryant VL, et al. STAT3 is required for IL-21-induced secretion of IgE from human naive B cells. Blood 2008;112:1784-93. Bettelli E, Korn T, Oukka M, et al. Induction and effector functions of T(H)17 cells. 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Novel signal transducer and activator of transcription 3 (STAT3) mutations, reduced T(H)17 cell numbers, and variably defective STAT3 phosphorylation in hyper-IgE syndrome. J Allergy Clin Immunol 2008;122:181-7. Richardson AR, Libby SJ, Fang FC. A nitric oxide-inducible lactate dehydrogenase enables Staphylococcus aureus to resist innate immunity. Science 2008;319:1672-6. Romagnani S. Human Th17 cells. Arthritis Res Ther 2008;10:206. Sano S, Itami S, Takeda K, et al. Keratinocyte-specific ablation of Stat3 exhibits impaired skin remodeling, but does not affect skin morphogenesis. EMBO J 1999;18:4657-68. Sekhsaria V, Ding L, Holland S, et al. Changes in plasma metalloproteinase levels in hyper IgE syndrome. Clin Immunol 2008;127(Suppl.1):S72. Shuai K, Liu B. Regulation of JAK-STAT signalling in the immune system. Nat Rev Immunol 2003;3:900-11. ** Una bellissima review sulla JAK-STAT pathway. Silver JS, Hunter CA. 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Crosstalk between cancer and immune cells: role of STAT3 in the tumour microenvironment. Nat Rev Immunol 2007;7:41-51. ** Una bellissima review sul ruolo di stat3 come oncogene (al centro attualmente di numerosissimi e assai importanti studi). Yuan G, Qian L, Shi M, et al. HER2-dependent MMP-7 expression is mediated by activated STAT3. Cell Signal 2008;20:1284-91. Corrispondenza dott. Fausto Cossu, Centro Trapianti Midollo Osseo, Clinica Pediatrica II, Ospedale Microcitemico, ASL 8, via Jenner s/n, 09121 Cagliari. E-mail: fcossu@ mcweb.unica.it 58 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 59-64 FOCUS SU: Infezione delle vie urinarie febbrile nel bambino di età 3 mesi-3 anni. Analisi critica di due linee guida Lorena Pisanello, Claudio La Scola*, Giovanni Montini** PLS, Presidente APREF (Associazione per la Ricerca e Formazione in Pediatria), Padova; *Scuola di Specializzazione in Pediatria, Palermo; ** Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Ospedale Sant’Orsola, Bologna Riassunto Le infezioni febbrili delle vie urinarie rappresentano il 5% delle infezioni batteriche nel bambino tra tre mesi e tre anni. Il 15-20% dei casi svilupperà una cicatrice permanente con rischio di sequele cliniche quali proteinuria, ipertensione arteriosa e insufficienza renale cronica. Nel presente articolo abbiamo analizzato due tra le principali linee guida sull’argomento (American Academy of Pediatrics e Cincinnati Children’s Hospital Medical Center) e rivisto la letteratura scientifica, focalizzando l’attenzione su tre degli aspetti più rilevanti dal punto di vista clinico: diagnosi, terapia antimicrobica in fase acuta e protocollo diagnostico strumentale. Summary Five percent of children between three months and three years of age, with fever and no localizing signs, have urinary tract infection as the cause. 15 to 20% of whom will develop a permanent scar, with the possible sequelae of proteinuria, hypertension and progressive kidney damage. In this article we have examined two of the main guidelines (American Academy of Pediatrics and Cincinnati Children’s Hospital Medical Center) and reviewed the scientific literature focusing on three of the most relevant aspects: diagnosis of febrile UTI, antimicrobial therapy in the acute phase and the subsequent investigations. Introduzione Cenni metodologici Le infezioni urinarie (IVU) febbrili sono frequenti in età pediatrica, e costituiscono il 5% circa delle infezione batteriche del lattante con febbre e senza segni di localizzazione. Nel 60-70% delle IVU febbrili il microrganismo (generalmente Escherichia Coli – E. Coli) raggiunge il parenchima renale, determinando il classico quadro di pielonefrite, che può essere documentato con una scintigrafia renale con dimercaptosuccinic acid (DMSA), eseguita entro 10 giorni dall’inizio della terapia antibiotica. La maggior parte dei bambini guarisce dal focolaio infettivo senza alcun reliquato. Il 30% delle pielonefriti attiva invece il meccanismo di fibrosi che produce quindi un danno renale permanente (cicatrice o scar). Molta attenzione è stata riservata negli scorsi decenni, alla possibile associazione tra cicatrici renali (Lin et al., 2003) e comparsa di sequele cliniche a lungo termine, quali proteinuria, ipertensione (Wennerstrom et al., 2000) e insufficienza renale cronica (Hansson et al., 1999). Per tale motivo è stata sviluppata una strategia di studio clinico, laboratoristico e strumentale del bambino con primo episodio di IVU, con l’obiettivo di giungere ad una diagnosi rapida, ad un trattamento antibiotico tempestivo e all’identificazione di eventuali malformazioni delle vie urinarie associate, per poter prevenire le recidive ed il conseguente danno parenchimale. Nell’ultimo decennio, sono state elaborate numerose linee guida per consigliare un approccio razionale e, per quanto possibile, basato sull’evidenza per i bambini con il primo episodio di IVU febbrile. La ricerca di linee guida è stata condotta consultando una serie di Banche Dati di Linee Guida (Piano Nazionale Linee Guida, National Guideline Clearinghouse, Canadian Medical Association, SIGN, NICE, Michigan, Effective Health Care, RCPCH, Prodigy). Abbiamo così trovato 7 linee guida riassunte nelle Tabelle I e II, tutte sono state valutate con l’applicazione della checklist AGREE (Appraisal of Guidelines for Research and Evaluation) ed abbiamo preso in considerazione quelle che hanno ottenuto la migliore valutazione: “The diagnosis, treatment, and evaluation of the initial urinary tract infection in febbrile infant and young children” dell’American Academy of Pediatrics (AAP) pubblicata nel 1999 e “Acute urinary tract infection” pubblicata dal Cincinnati Children Hospital Medical Center (CCHMC) nel marzo del 1999 e successivamente revisionata in aprile 2005. La Linea guida NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) pur avendo ottenuto un’ottima valutazione non è stata presa in considerazione per la trattazione in quanto di recente pubblicazione (agosto 2007) e pertanto non ci è stato possibile fare valutazioni sull’implementazione della stessa alla pratica clinica. Tra i diversi aspetti presi in considerazione dalle Linee Guida, abbiamo deciso di analizzare e valutare quelli più rilevanti dal punto di vista clinico: 1) diagnosi di IVU; 2) terapia antibiotica della fase acuta; 3) protocollo diagnostico-strumentale. 59 L. Pisanello et al. Tabella I. Valutazione delle Linee Guida mediante AGREE. Organismo AAP (1) CINCINNATI(2) Anno di produzione Ultima citazione Gruppo multidisciplinare Ricerca evidenze Grading Leggibilità Applicabilità 1999 1996 4 4 3-4 4 2 2004 4 4 3 4 2-3 1999 (2005) * ** Ogni raccomandazione è accompagnata dalla forza, dal tipo di studi e dal bilancio rischi e benefici. Forza della raccomandazione, basata sul level of evidence. Età < 12a Tabella II. Altre Linee Guida. • La LG NICE è stata esclusa dalla valutazione perché di recente pubblicazione (agosto 2007) • La LG Michigan (2005) prende in considerazione solo femmine adulte • La LG EHC (2005)in realtà è una revisione di letteratura, non fornisce raccomandazioni • La LG RCPCH (Royal College of Paediatrics and Child Healt Research Unit) è uno studio multicentrico che confronta la pratica clinica con le linee guida di riferimento nazionali del 1991 La LG Prodigy (2002, agg. 2006) è stata esclusa dalla valutazione perché ha riportato un punteggio di valutazione AGREE molto basso Tabella III. Sintomi suggestivi di IVU (modificato da Linee Guida Cincinnati, 2005). < 2m 2m < 3° > 3a Ittero Sepsi Diarrea Scarsa crescita Scarsa crescita Vomito Febbre Vomito Febbre Febbre Urine maleodoranti Urine maleodoranti Dolore addominale Dolore addominale o al fianco Incontinenza recente Abbiamo, inoltre, scelto come range di età la fascia compresa tra 3 mesi e 3 anni, perché la diagnosi in questa fascia di età è spesso difficile sia per la scarsità di sintomi specifici e sia per la difficoltà nella raccolta del campione urine. Abbiamo infine deciso di considerare solo le IVU febbrili perché più gravi e perché, coinvolgendo spesso il parenchima renale, sono quelle che impongono un follow-up con esecuzione di indagini strumentali. Diagnosi di IVU Sintesi delle principali raccomandazioni Entrambe le linee guida si riferiscono al primo episodio di infezione urinaria in bambini per altro sani, escludendo quei soggetti che presentano nefrouropatie note o patologie gravi preesistenti. Il sospetto di IVU nel bambino con febbre, si fonda su criteri epidemiologici (età < ai 6 mesi nei maschi; età < ai 2 anni nelle femmine e nei maschi non circoncisi; razza caucasica) e clinici (Tab. III). Una infezione urinaria deve essere sospettata in qualunque bambino che presenti sintomatologia specifica oppure una febbre isolata > 38°. Nel sospetto di IVU è necessario ottenere appena possibile e, comunque entro 24 ore dalla comparsa dei sintomi, un campione di urine Disuria Urgenza minzionale Pollachiuria per l’esecuzione di esame urine completo ed urinocoltura. Per l’AAP il campione di urine deve essere raccolto esclusivamente tramite puntura sovrapubica o cateterismo vescicale. Solo se il bambino è in buone condizioni generali l’urinocoltura può essere eseguita in un secondo tempo, qualora l’esame urine risulti suggestivo di infezione urinaria e in quest’ultimo caso è ammessa la raccolta con mitto intermedio. Nella linea guida Cincinnati, la raccolta di urine con mitto intermedio è ammessa, in qualunque condizione, in aggiunta alle metodiche precedentemente menzionate purché ottenuta tempestivamente. La diagnosi presuntiva di IVU è possibile valutando alcuni parametri dell’esame urine: 1) con lo stick urine esterasi leucocitaria, che rivela la presenza di globuli bianchi nel campione, e nitriti, indice indiretto di batteriuria; 2) presenza di globuli bianchi o batteriuria all’esame microscopico diretto. In Tabella IV sono riportati i valori di sensibilità e specificità di tali parametri. Tabella IV. Sensibilità e Specificità dei test urinari considerati singolarmente o in associazione (modificato da AAP, 1999). Test Sensibilità % (range) Specificità % (range) Esterasi Leucocitaria 83 (67-94) 78 (64-92) Nitriti 53 (15-82) 98 (90-100) Esterasi o Nitriti pos. 93 (90-100) 72 (58-91) GB (microscopio) 73 (32-100) 81 (45-98) Batteri (microscopio) 81 (16-99) 83 (11-100) 99,8 (99-100) 70 (60-92) Esterasi o nitriti o microscopio pos. La riga evidenziata rispecchia la situazione che si verifica quando usiamo lo stick urine in cui vengono testati due parametri contemporaneamente e positivo con positività di uno o entrambi i test. 60 Infezione delle vie urinarie febbrile nel bambino di età 3 mesi-3 anni La diagnosi presuntiva deve sempre essere confermata dall’esame colturale, a cui deve sempre associata l’esecuzione dell’antibiogramma, per verificare la sensibilità del germe alla terapia antibiotica, che deve essere iniziata empiricamente, una volta ottenuto il campione per l’urinocoltura. In entrambe le linee guida considerate non viene consigliata l’esecuzione di esami ematochimici per la definizione di sede dell’infezione, non essendo stato individuato un parametro utile allo scopo. Il quadro clinico generale e soprattutto la febbre > 38° sono indici indiretti e sufficienti a definire un coinvolgimento del parenchima renale da parte dell’infezione. Discussione Dalla valutazione delle Linee Guida e dall’esperienza clinica, il punto più critico della diagnosi di infezione urinaria è sicuramente la raccolta del campione: in entrambe le linee guida vengono presi in considerazione metodi invasivi quali la puntura sovrapubica o il cateterismo vescicale. La scelta di tali metodiche oltre a riflettere il setting a cui sono indirizzate, prevalentemente ospedaliero o di pronto soccorso, è determinata dalla necessità di ridurre i falsi positivi. Queste metodiche presentano però numerosi problemi, che ne rendono difficile, se non impossibile, l’adozione non solo a livello della pediatria del territorio (setting in cui prevalentemente dovrebbero essere sospettate e diagnosticate le IVU), ma anche a livello ospedaliero e dei centri specializzati. La puntura sovrapubica, considerata il gold standard, di fatto non viene eseguita perché è una metodica invasiva, presenta una percentuale di successo variabile dal 23 al 90%, essendo operatore dipendente, la percentuale si eleva al 100% solo se eseguita sotto guida ecografica, con conseguente necessità di costi e tempi elevati. Il cateterismo vescicale ha una specificità tra 83 e 89%, se confrontato con la puntura sovrapubica; la specificità aumenta al 95-99% se si considera positiva una crescita > 1000 ufc (AAP). Solo la linea guida Cincinnati prende in considerazione la raccolta con mitto intermedio, che presenta sensibilità dal 75% al 100% e specificità dal 57% al 100% se comparata con la puntura sovrapubica (Whiting et al., 2006). Nella pratica clinica, sia in ospedale che nel territorio, la raccolta delle urine avviene prevalentemente con l’applicazione di sacchetto perineale, metodica demonizzata dall’AAP e da altri autori (Al-Orifi et al., 2000) per l’alto numero di falsi positivi, ma studi più recenti (Chevalier et al.,2005) hanno dimostrato una buona qualità del campione, se la raccolta viene eseguita osservando precise norme igieniche. Anche la nostra esperienza (dati non pubblicati) sembra confermare l’affidabilità di tale metodica. Nell’ambito dello studio IRIS (Italian Renal Infection Study) abbiamo eseguito un totale di 2020 urocolture di routine in bambini senza febbre sotto i 30 mesi, raccolte con sacchetto sterile. Abbiamo riscontrato 29 contaminazioni (1,4%) ed inoltre abbiamo trovato un’alta specificità (97,3%) e un alto valore predittivo negativo (97,6%) dell’esame urine rispetto all’urocoltura, sottolineando che un esame urine negativo ha comportato quasi sempre un’urocoltura negativa con conferma del basso rischio di contaminazione. Riteniamo comunque che la metodica del mitto intermedio sia la più adeguata alla pratica ambulatoriale e che la raccolta con il sacchettino perineale, pur essendo una metodica da non demonizzare, debba essere riservata a quelle condizioni in cui il mitto intermedio sia impossibile da realizzare. La Linea Guida NICE 2007 propone a questo riguardo un atteggiamento analogo, precisando anche che sono da evitare tutti i metodi di raccolta urine di tipo invasivo. Tutti i bambini che presentano febbre isolata dovrebbero raccogliere un campione urine su cui eseguire lo stick urine, se i parametri valutati sono tutti negativi è poco probabile che il bambino abbia come causa di febbre una IVU e non è necessario eseguire l’urinocoltura; va ricordato tuttavia che in assenza di una diagnosi alternativa e in caso di persistenza di febbre il test deve essere ripetuto dopo 24 ore. L’uso dello stick urine è molto diffuso tra i pediatri di famiglia come risulta da un questionario somministrato ai pediatri della provincia di Padova: il 92% lo utilizza routinariamente a livello ambulatoriale (A.P.R.E.F., dati non pubblicati, 2008). L’osservazione delle urine al microscopio, per valutare la presenza di batteri, è molto utile in quei casi in cui lo stick sia positivo solo per l’esterasi leucocitaria. L’utilizzo di tale strumento è più diffuso a livello ospedaliero, mentre nel territorio è raro. È auspicabile pertanto che nelle forme organizzate di pediatria territoriale venga adottata come strumento del self-help. Per quanto riguarda gli esami ematochimici è utile ricordare che in passato si riteneva che leucocitosi e PCR fossero utili allo scopo di distinguere le pielonefriti dalle IVU basse; negli anni ’90 l’utilizzo della scintigrafia con il DMSA, durante la fase acuta di infezione, ha smentito questa convinzione ed ha stabilito in maniera inequivocabile che gli accertamenti ematochimici eseguiti per la diagnosi di sede sono del tutto aspecifici. A tal proposito un marker biochimico più affidabile è la procalcitonina (Leroy et al., 2007; Buzzetti et al. 2006) ma nella pratica quotidiana questo esame non viene eseguito routinariamente dai laboratori per l’alto costo. Nella pratica, la necessità di eseguire accertamenti ematici induceva spesso il pediatra ad inviare i piccoli pazienti, per altro spesso in buone condizioni cliniche, in Pronto Soccorso delegando la presa in carico dell’evento patologico. Le linee guida non danno questa raccomandazione ma nella nostra esperienza tale evenienza è stata molto frequente fino a qualche tempo fa. Terapia dell’infezione Sintesi delle principali raccomandazioni L’AAP raccomanda terapia antibiotica per via parenterale e ospedalizzazione nei bambini disidratati, che vomitano e con condizioni generali compromesse e in quelli con dubbio di compliance alla terapia. Negli altri bambini la terapia può essere somministrata per via parenterale o orale per un totale di 7-14 giorni. Gli antibiotici raccomandati sono l’amoxicillina, il cotrimoxazolo e le cefalosporine. Un breve commento viene fatto sull’aumento delle resistenze da parte dell’E. Coli all’amoxicillina, senza però sottolinearlo in maniera particolarmente importante. Se vi è una mancata risposta clinica alla terapia antibiotica entro due giorni, è necessario ristudiare il bambino. Le linee guida Cincinnati sono molto simili per quanto riguarda il trattamento antibiotico; non prendono però più in considerazione l’uso dell’amoxicillina e sottolineano la necessità di un trattamento precoce dell’infezione per ridurre la severità del danno renale secondario alla pielonefrite. Discussione Il più frequente agente etiologico delle IVU è l’E. Coli (fino al 9095% delle prime IVU febbrili del bambino), la cui resistenza deve essere considerata nella scelta dell’antibiotico. Nella realtà italiana questi patogeni urinari sono resistenti all’amoxicillina (40%) ed è stato notato un aumento della resistenza anche al cotrimoxazolo (10-15%); hanno resistenze più basse l’amoxiclavulanato, le cefalosporine di terza generazione, gli aminoglicosidi e i fluorchinolonici, questi ultimi farmaci molto poco utilizzati. Entrambe le linee guida non prendono in considerazione l’uso dell’amoxicillina clavulanato, antibiotico largamente utilizzato nella realtà italiana, anche grazie ad un recente nostro trial randomizzato, condotto in 28 pediatrie del nord-est dell’Italia (Montini et al. 2007). Tale studio non ha dimostra- 61 L. Pisanello et al. to differenze significative tra il trattamento per os con amoxiclavulanato (n = 244) e quello parenterale con ceftriaxone (n = 258), sia per quanto riguarda l’outcome primario (presenza di cicatrici alla scintigrafia a 12 mesi: 27/197 (13,7%) vs. 36/203 (17,7%), differenza del rischio −4%, 95% IC da −11,1 a 3,1%) e outcome secondari (tempo di sfebbramento: 36,9 ore (Deviazione standard - DS - 19,7) vs. 34,3 ore (DS 20), differenza media 2,6 (da −0,9 a 6,0); percentuale di urine sterili a 3 giorni: 85/186 vs. 203/204, differenza del rischio −0,05% (da −1,5% a 1,4%)). Tale antibiotico appare pertanto un farmaco di scelta e largamente utilizzato nella pratica clinica ospedaliera e territoriale. Le restanti raccomandazioni relative alla terapia sono semplici e sono generalmente utilizzate; in particolare la durata media del trattamento di 10 giorni e la tempestività della terapia antibiotica per ridurre l’entità del danno renale. Quest’ultimo aspetto comporta, dopo un primo episodio di IVU febbrile, una elevata attenzione da parte della famiglia, con elevata medicalizzazione di ogni episodio di febbre. Un lavoro molto recente, comparso su Pediatrics (Hewitt et al 2008), smentisce questa tesi, dimostrando che un trattamento antibiotico precoce della pielonefrite acuta in lattanti e bambini non ha un effetto significativo sulla riduzione dell’incidenza delle cicatrici renali. Questo nuovo concetto porterà ad un atteggiamento meno ansioso dei medici e della famiglia nei confronti delle recidive di IVU febbrili. Protocollo diagnostico Sintesi delle principali raccomandazioni Le indagini strumentali prese in considerazione da entrambe le linee guida sono l’ecografia delle vie urinarie, la cistografia radiologica (CUMS) o isotopica (RNC) e la scintigrafia renale statica con DMSA. Entrambe le Linee Guida consigliano l’esecuzione di routine di una ecografia per identificare eventuali anomalie strutturali e di una cistografia radiologica o isotopica, per identificare la presenza di reflusso vescico-ureterale (RVU). Non vengono date indicazioni riguardo al timing di esecuzione, anche se l’AAP suggerisce di anticipare tali indagini nel caso in cui il bambino non presenti una risposta alla terapia antibiotica, entro due giorni. Entrambe le linee guida non prendono invece una posizione chiara sulla necessità di eseguire la scintigrafia con DMSA. In particolare le Linee Guida Cincinnati ne consigliano l’esecuzione solo nel caso in cui l’identificazione di una pielonefrite o di una scar renale sia in grado di influenzare il management clinico del bambino con IVU febbrile. Discussione Entrambe le linee guida prevedono l’esecuzione di almeno una ecografia e una cistografia in tutti i bambini, dopo una prima IVU febbrile. Questa raccomandazione ha trovato e trova tuttora una elevata implementazione nella routine clinica, sia a livello di pediatria ospedaliera che di famiglia, nella maggior parte del territorio nazionale. Tale approccio deriva dalla necessità di individuare i soggetti con fattori predisponenti la ricorrenza di IVU (es., reflusso vescico ureterale) e con danno renale (scar) in quanto considerati a rischio (Smellie et al., 2001; Larcombe, 2005; Vernon et al., 1997) di sviluppare insufficienza renale cronica ed ipertensione, come già discusso nell’introduzione. Wennerstrom et al. hanno tuttavia dimostrato che la funzionalità renale, 20 anni dopo la prima infezione delle vie urinarie, in una coorte di individui con scar renale, era ben preservata e che il rischio di proteinuria e ipertensione erano molto bassi (Wennerstrom et al., 2000). Una revisione sistematica della letteratura da noi condotta (dati non pubblicati, A. Toffolo 2008) sull’esito a distanza (soprattutto danno 62 renale e ipertensione) delle infezioni urinarie in età pediatrica, ci ha permesso di concludere che i dati riportati in letteratura negli ultimi 25 anni, sui quali si è basata la pratica clinica, sono: 1) molto eterogenei (in particolare per quanto riguarda la composizione delle casistiche, i criteri diagnostici di IVU, la lunghezza e il modo di condurre il follow-up, la misura degli outcome considerati), non permettendo una valutazione complessiva. 2) gravati da importanti bias di selezione che condizionano fortemente le casistiche quali: a) epoca di arruolamento spesso antecedente agli anni ’80, quando non esisteva ancora l’uso di routine dell’ecografia fetale e l’IVU rappresentava il primo campanello di allarme per la diagnosi di malformazioni complesse, associate o meno a displasia renale; b) molti studi retrospettivi con casistiche (14/23) di bambini selezionati per la presenza di RVU o scar e non di infezione urinaria; c) perdita al follow-up di oltre il 40 % dei casi inizialmente arruolati (10/23 casistiche). È quindi verosimile che, a proseguire il follow-up, siano stati i casi più gravi rispetto ai casi meno gravi. Tutto questo ha dunque portato a selezionare in prevalenza popolazioni con RVU di alto grado, scar severe e displasia (danno congenito), che però rappresentano solo una piccolissima parte dei bambini con IVU che vediamo nella quotidianità dei nostri ambulatori. Tali bambini sono oggi, per la maggior parte, diagnosticati grazie alla diagnosi ecografica prenatale, eseguita routinariamente. Come detto, le linee guida consigliano l’esecuzione di un imaging diagnostico completo (ecografia e CUMS prevalentemente), anche se la reale utilità di questi esami non è provata. La valutazione del protocollo diagnostico utilizzato tra il Giugno 2000 e il Luglio 2005 (dati non pubblicati) nell’ambito dello studio prospettico IRIS1 (Italian Renal Infection study) (Montini et al., 2007) sulla terapia antibiotica dell’episodio infettivo acuto ci ha consentito una rivalutazione del problema. Obiettivo secondario di questo studio era determinare il potere diagnostico delle principali tecniche di imaging (ecografia, cistografia minzionale radiologica e scintigrafia con DMSA), valutato in una coorte di 300 bambini, sotto i 2 anni di età, che ha completato un anno di follow-up. Il protocollo diagnostico strumentale prevedeva: 1) ecografia dei reni e delle vie urinarie e scintigrafia renale con DMSA entro 10 giorni dall’episodio acuto; 2) cistografia entro due mesi dall’episodio; 3) DMSA di controllo a 12 mesi solo nei bambini in cui il primo esame è risultato patologico. Infatti i bambini con DMSA in acuto negativo non sono a rischio di sviluppare scar (Hoberman et al., 2003; Camacho et al., 2004). 38/300 (13%) ecografie sono risultate patologiche, per anomalie comunque di lieve entità, eccetto un caso in cui è stata documentata una ostruzione pielo-ureterale, che ha necessitato di intervento chirurgico di pieloureteroplastica. L’ecografia ha mostrato uno scarso potere predittivo positivo per il reflusso vescico ureterale (RVU), essendo risultata alterata solo in 18/66 bambini con diagnosi successiva di reflusso, che della comparsa di danno renale da cicatrice: l’esame era patologico solo in 12/45 bambini con scar renale. L’ecografia delle vie urinarie eseguita di routine non è consigliata da tutti (Zamir et al., 2004); ci sembra interessante richiamare l’approccio delle linee guida NICE: tale esame viene riservato solo ai bambini con particolari condizioni cliniche (Tabb. V-VII), questo alla luce anche della diffusa implementazione della diagnostica ecografica pre-natale. Riteniamo dunque importante, nel caso di IVU febbrile di prendere visione delle immagini ecografiche pre-natali e, nel caso in Infezione delle vie urinarie febbrile nel bambino di età 3 mesi-3 anni Tabella V. Raccomandazioni per l’imaging nei bambini sotto i sei mesi (da NICE 2007, mod.). Test Buona risposta al trattamento (48 h) Ecografia in acuto IVU atipica * No Si ** *** IVU ricorrente * Si Ecografia entro 6 sett. Si No No DMSA a 4-6 mesi No Sì Sì No Sì Sì CUMS * ** *** Vedi Tab. VII; se anormale considera CUMS; se l’infezione è causata da un germe diverso da E. Coli ma non ci sono altri segni di infezione atipica, l’ecografia può essere rimandata entro sei settimane. Tabella VI. Raccomandazioni per l’imaging nei bambini tra i sei mesi e i tre anni (da NICE 2007, mod.). Test Buona risposta al trattamento (48 H) Ecografia in acuto IVU atipica * *** IVU ricorrente * No Sì No Ecografia entro 6 sett. No No Si DMSA a 4-6 mesi No Sì Sì CUMS No No ** No ** Vedi Tab. VII; ** la CUMS di routine non è raccomandata tranne se è presente dilatazione ecografia, scarso flusso urinario, storia familiare di reflusso. *** Se l’infezione è causata da un germe diverso da E. Coli ma non ci sono altri segni di infezione atipica, l’ecografia può essere rimandata entro sei settimane * Tabella VII. Definizione di IVU atipica secondo le linee guida della NICE (da NICE 2007, mod.). IVU atipica • • • • • • • Condizioni cliniche compromesse Scarso flusso urinario Massa addominale e vescicale Incremento della creatinina Setticemia Scarsa risposta all’antibiotico-terapia dopo 48 h Infezione causata da un germe diverso da E. Coli IVU ricorrenti • 2 o + episodi di pielonefrite/IVU alte • 1 episodio di pielonefrite/IVU alta più 1 o + episodi di cistite/IVU bassa • 3 o + episodi di cistite/IVU bassa cui queste non fossero disponibili questo potrebbe essere un motivo ulteriore per l’esecuzione dell’esame ecografico. Nel nostro studio, la cistografia minzionale ha dimostrato la presenza di RVU in 66/300 (22%) bambini. Sono stati evidenziati solo un reflusso di IV grado e uno di V, i restanti erano RVU di I, II e III. Dei 45 bambini che hanno sviluppato scar ad un anno, solo la metà presentava un RVU, confermando i dubbi espressi dalla letteratura sull’associazione tra VUR e formazione di scar renale (Gordon et al., 2003). Quindi, visto anche il crescente numero di studi che stanno evidenziando la non-utilità della profilassi antibiotica nella prevenzione delle IVU ricorrenti e degli scars renali (Garin et al., 2006; Pennesi et al., 2008; Roussey-Kesler et al., 2008; Montini et al., 2008) e dell’approccio chirurgico del reflusso (Hodson et al., 2004; Piepsz et al., 1998), l’esecuzione della cistografia di routine non è più giustificata. Ragionevole invece sembrerebbe l’esecuzione di un esame scintigrafico a 4-6 mesi secondo quanto suggerito dalle linee guida NICE al fine di valutare l’eventuale presenza di scar. In conclusione l’iter diagnostico proposto dalle linee guida internazionali è costoso, basato su evidenze piuttosto limitate, e impegnativo per il paziente e la famiglia. Le recenti evidenze, dopo anni di applicazione dei precedenti iter diagnostici, portano a rivedere e modificare l’atteggiamento fino ad oggi raccomandato per quanto riguarda la diagnosi, il trattamento e il follow-up delle IVU febbrili. Per di più, in una review sul problema (Westwood et al., 2005) gli autori concludono: “Se l’informazione che deriva da un test diagnostico non può essere utilizzata per prevenire la patologia renale allora il beneficio nel suo utilizzo è scarso. Il test dovrebbe essere condotto solo se: (a) il risultato condurrà a una modifica nel management e se (b) tale modifica condurrà ad un miglioramento dell’outcome”. Box di orientamento IVU febbrile nel bambino di età compresa tra 3 mesi e tre anni 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. Sospetto clinico di IVU febbrile Eseguire stick urine (+ es. microscopico se possibile) Eseguire urinocoltura (necessaria per confermare la diagnosi) + antibiogramma (verifica corretta terapia) Iniziare terapia antibiotica empirica dopo aver raccolto campione per urocoltura da rivalutare quando ottenuto esito urocoltura + antibiogramma Ecografia renale b < 6m e/o IVU complicata e/o IVU ricorrenti DMSA dopo 4-6 m: b < 6m e/o IVU complicata e/o IVU ricorrenti Cistografia: casi selezionati 63 L. Pisanello et al. Bibliografia Al-Orifi F, McGillivray D, Tange S, et al. Urine culture from bag specimens in young children:are the risks too high? Journal of Pediatrics 2000;137:221-6. American Academy of Pediatrics. Committee on Quality Improvement. Subcommittee on Urinary Tract Infection. Practice parameter: the diagnosis, treatment, and evaluation of the initial urinary tract infection in febrile infants and young children. Pediatrics 1999;103:843-52. 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E-mail: [email protected] 64 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-72 FOCUS SU: Diagnosi molecolare delle malattie batteriche invasive in età pediatrica Clementina Canessa, Chiara Azzari, Maria Moriondo, Laura Becciolini, Martina Cortimiglia, Elisa Bartolini, Maurizio de Martino, Massimo Resti Dipartimento di Pediatria, Università di Firenze, Ospedale Pediatrico Anna Meyer Riassunto Le nuove tecnologie consentono oggi di utilizzare metodi molecolari per la diagnosi di infezione e per la sierotipizzazione delle malattie invasive batteriche. Non richiedendo la vitalità del germe, tali metodi non vengono alterati dalle condizioni di trasporto e conservazione del campione e possono essere utilizzati in pazienti che hanno già iniziato la terapia antibiotica. Consentono la diagnosi in poche ore, permettendo così non solo una immediata terapia mirata ma anche la programmazione di interventi di sanità pubblica (come profilassi dei contatti) solo quando realmente necessari. Presentano una sensibilità significativamente più elevata rispetto ai metodi colturali tanto che l’incidenza di malattie batteriche invasive appare significativamente più elevata quando misurata con metodi molecolari rispetto ai colturali. La più alta sensibilità viene raggiunta dai metodi in realtime con primer specifici per i singoli germi. I metodi che si basano sull’amplificazione di regioni comuni a più batteri (16S) presentano rischio di contaminazioni e falsi positivi se non vengono eseguiti in laboratori superspecialistici. Al contrario i metodi che utilizzando primers specifici per i singoli germi presentano la massima sensibilità e specificità e minor rischio di contaminazione e possono essere utilizzati in laboratori di routine. Nell’ambito dello studio dei portatori i metodi molecolari consentono di individuare i portatori di multipli germi o di multipli sierotipi dello steso germe, risultato non ottenibile con i metodi colturali standard. I metodi molecolari dovrebbero quindi essere inclusi nella definizione di caso di malattia. Summary Molecular assays can be used for diagnosis and serotyping of invasive bacterial infections. Molecular assays can be performed directly on biological sample. They do not need germ viability so they are not affected by shipping or storage conditions or by antibiotic treatment started before sample collection. They are rapid and allow to obtain a definitive diagnosis within few hours. Therefore they can be useful both to plan correct antibiotic treatment and perform public health procedures (such as prophylaxis of contacts) only when really needed. The sensitivity of molecular methods appear significantly higher than that of cultural methods so that incidence of invasive bacterial infections appear significantly higher if evaluated with molecular methods. Realtime PCR performed with primers/probes specific for a unique germ has the highest sensitivity and specificity. On the contrary, methods based on amplification of genomic region which are common to different bacteria (16S) can have specificity problems if the most stringent procedures for avoiding contamination are not used. Molecular methods can be very useful in evaluating nasopharyngeal carriers: actually molecular methods can show the presence of multiple colonizations due to different pathogens or to different serotypes of the same pathogen. This information cannot be obtained with cultural methods which are less sensitive in the diagnosis of nasopharyngeal colonization and much more expensive. Introduzione Le metodiche molecolari sono impiegate da decenni nella diagnosi delle malattie infettive. Si tratta di tecniche in grado di individuare il germe responsabile di un’infezione evidenziando la presenza del suo materiale genetico, come DNA o RNA, nei liquidi biologici del paziente. Esse tuttavia sono largamente impiegate solo in ambito virologico, settore in cui le tecniche colturali, abitualmente utilizzate per i batteri, sono difficilmente utilizzabili. Fino ad oggi invece le applicazioni di routine nelle malattie batteriche erano ancora limitate. Metodi diagnostici standard Il gold standard nella diagnosi delle malattie batteriche era rappresentato fino ad oggi dalla dimostrazione dell’agente responsabile attraverso la coltura dei liquidi biologici (sangue, liquor, liquido pleurico etc); essa è ampiamente utilizzata sia nelle forme meno gravi che nelle forme invasive come sepsi, meningite, polmonite complicata. Altri metodi classici di diagnosi di infezione batterica sono l’esame microscopico del campione, la ricerca di antigeni batterici, i test sierologici. Tuttavia la coltura non ha caratteristiche di sensibilità soddisfacenti: può infatti risultare falsamente negativa a causa di una precedente terapia antibiotica impostata a domicilio, che riduce la vitalità del germe e la sua possibilità di crescere su terreni di coltura. Anche altri fattori compromettono il risultato, come un volume di liquido biologico troppo piccolo o condizioni inadeguate di conservazione o trasporto del campione. Ciò impedisce una diagnosi eziologica delle varie forme cliniche, che è fondamentale conoscere soprattutto nel caso di forme invasive, per impostare una terapia antibiotica mirata ed ottenere informazioni sulla prognosi. Inoltre, dal punto di vista epidemiologico, una ridotta sensibilità del metodo diagnostico comporta una sottostima della reale incidenza di tali forme. L’identificazione rapida ha anche importanti implicazioni di salute pubblica, come il trattamento dei contatti, il riconoscimento di cluster di casi e la pianificazione di interventi in caso di epidemie. Inoltre, in seguito allo sviluppo dei vaccini coniugati per Haemophilus influenzae, pneumococco e meningococco, è aumentata la necessità di una conferma accurata di infezione per monitorare l’efficacia delle strategie di prevenzione. Per tutte queste ragioni negli ultimi anni la ricerca si è indirizzata verso lo sviluppo di metodiche molecolari che possano affiancare i metodi colturali con una simile specificità ed una maggiore sensibilità (Murdoch, 2003). 65 C. Canessa et al. Obiettivo della revisione PCR real-time Il presente articolo si propone di offrire una revisione della letteratura riguardante le recenti applicazioni delle metodiche di biologia molecolare nella diagnosi di malattie invasive batteriche in età pediatrica. Si propone inoltre di inquadrare tali metodiche alla luce dell’attuale protocollo diagnostico che prevede come gold standard l’esame colturale, proponendo quindi un confronto tra le due metodiche nei vari settori di applicazione. Esiste poi un’analisi molecolare ancora più rapida e più sensibile, la PCR real-time (RT-PCR): essa rileva il DNA batterico grazie all’emissione di un segnale fluorescente che avviene ad ogni ciclo di amplificazione, permettendo quindi anche un’analisi quantitativa simultanea oltre che qualitativa (Kubista et al., 2006). Questo metodo supera inoltre gran parte dei limiti dei metodi disponibili in biologia molecolare per misurare la quantità di acidi nucleici specifici: essi infatti spesso sono complessi, e se non correttamente eseguiti possono essere a rischio di contaminazione. La RT-PCR, oltre a essere più rapida (45 minuti invece che 4 ore), ha un rischio di contaminazione scarsissimo, in quanto la manipolazione del campione nella procedura è ridotta al minimo (Valasek et al., 2005). Metodologia della ricerca bibliografica effettuata La ricerca degli articoli rilevanti è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole chiave i termini Mesh “Molecular”, ottenendo Molecular Diagnostic Techniques, e “Infectious disease”, ottenendo Communicable diseases. Sono stati quindi incrociati questi due termini e in seguito la ricerca è stata limitata alle infezioni batteriche come sepsi, meningite e infezioni respiratorie gravi. In particolare è stata approfondita l’applicazione delle metodiche molecolari nella diagnosi di malattie invasive da pneumococco e nella sierotipizzazione di questo germe, che rappresenta uno degli agenti eziologici più temibili in età pediatrica. Metodi diagnostici molecolari Dalla revisione della letteratura recente è emerso prima di tutto che i metodi molecolari, non richiedendo la vitalità del germe, hanno una sensibilità significativamente più alta rispetto alla coltura. Possono essere applicati direttamente sul campione biologico, senza cioè prima coltivare il campione in mezzo di coltura; si possono utilizzare su tutti i tipi di liquidi biologici: sangue, urine, liquor, pus, liquido pleurico, essudato timpanico, liquido intrarticolare, secrezioni tracheobronchiali. Inoltre, essendo metodi semplici e spesso automatici, offrono risultati in tempi rapidi e consentono di effettuare la diagnosi anche in ospedali meno attrezzati dei centri specializzati di III livello (Poxton, 2004). I metodi molecolari che si basano sull’uso di primers specifici per un singolo agente infettivo presentano inoltre un’elevatissima specificità, non inferiore a quella dei metodi colturali (Azzari et al., 2008a) mentre i metodi che si basano sull’utilizzo di geni conservati in più batteri diversi possono talvolta, se non correttamente utilizzati, indurre false positività. PCR Il metodo più usato è la Polymerase Chain Reaction (PCR): è una tecnica che permette di amplificare il DNA di una regione selezionata del genoma di un microrganismo anche un miliardo di volte, purché si conosca almeno una parte della sua sequenza nucleotidica. La parte nota della sequenza viene usata per disegnare due oligonucleotidi sintetici, complementari a tratti di sequenza che si trovano su lati opposti della regione che deve essere amplificata e su filamenti diversi. Questi oligonucleotidi vengono chiamati “primers” e servono per dare inizio alla sintesi di DNA in vitro, che è catalizzata da una DNA polimerasi. Gli oligonucleotidi determinano le estremità del frammento finale di DNA che si ottiene; è possibile verificare l’avvenuta reazione e quindi determinare la positività o negatività di un campione per un determinato agente batterico mediante elettroforesi su gel di agarosio del frammento di DNA amplificato (Alberts, 1995; Saiki et al., 1988) (Fig. 1). 66 Identificazione di patogeni multipli Tali tecniche offrono il vantaggio di poter “cercare” in un liquido più patogeni insieme con un’unica reazione. Utilizzando contemporaneamente primers specifici corrispondenti a diverse sequenze geniche note di vari patogeni, si possono allestire reazioni per pannelli di germi specifici a seconda del sospetto clinico e dell’età del paziente (Corless et al., 2001; Morozumi et al., 2006; Azzari et al., 2008a). Una delle più importanti applicazioni è la diagnostica delle meningiti, descritta nel prossimo paragrafo. Uso della PCR nel sospetto di meningite batterica e sepsi Con la biologia molecolare, conoscendo geni specifici dei diversi batteri spesso in causa in queste infezioni, è possibile ricercare con un’unica reazione più germi. È molto importante utilizzare però primers specifici per regioni geniche peculiari di ciascun batterio e non primers che amplifichino zone di genoma comuni a più batteri. L’uso di primers diversi e specifici è fondamentale per raggiungere la più elevata specificità. L’uso di reazioni multiple consente di escludere o confermare in poco tempo la responsabilità degli agenti più comuni; soprattutto in epoca neonatale, quando i segni e i sintomi di malattia sono molto aspecifici e il quadro clinico può degenerare in poco tempo, si può capire in breve tempo se siamo di fronte ad un quadro infettivo o di altra natura. L’utilizzo nella medesima reazione di primers specifici per S. pneumoniae, H. influenzae tipo b e N. meningitidis consente di effettuare diagnosi di meningite/sepsi in oltre il 90% dei bambini (Corless et al., 2001; Azzari et al., 2008a); le combinazioni di primers possono essere opportunamente variate a seconda degli obiettivi diagnostici (Tzanakaki et al., 2005; Clarke, 2006; Van Gastel et al., 2007). Tra le più recenti, da citare l’applicazione di una PCR real-time in grado di riconoscere contemporanemente, oltre ai tre precedenti germi, anche E. coli, S. agalactiae, Staphylococcus aureus, Listeria monocytogenes – spesso coinvolti nelle meningiti del neonato – e Mycoplasma pneumoniae. Essa si è dimostrata molto più sensibile sul liquor nel sospetto di meningite rispetto alla coltura, anche nei bambini che avevano già effettuato terapia antibiotica (Azzari et al., 2008a; Resti et al., 2009; Chiba et al., 2009; Tab. I). In particolare è stato dimostrato che la coltura non risulta più positiva dopo 1-2 giorni di terapia antibitoica mentre i metodi molecolari possono mantenersi ancora positivi per un tempo medio di 4,5 giorni dall’inizio della terapia (Resti et al., 2009). Anche in caso di sepsi la batteriemia è difficilmente rilevabile con l’emocoltura. Invece con le tecniche molecolari applicate su san- Diagnosi molecolare delle malattie batteriche invasive in età pediatrica Figura 1. Procedimento schematico di 2 cicli di amplificazione genica mediante Polymerase chain reaction (PCR). Durante ogni ciclo di amplificazione il DNA viene denaturato mediante alte temperature, successivamente, abbassando la temperatura i primers si legano alla sequenza omologa ed inizia la sintesi della nuova catena di DNA. La sintesi avviene ad opera di un enzima, la Taq polimerasi che, utilizzando dei nucleotidi liberi del terreno di reazione, crea una “collana” di nucleotidi. Via via che la sintesi procede le sequenze nuove si appaiano alle sequenze “stampo” cosicché per ogni ciclo di amplificazione partendo da 1 copia di DNA si ottengono 2 copie di DNA. Alla fine del secondo ciclo dalla coppia iniziale si saranno ottenute 4 copie. Alla fine di 35 cicli da 2 copie di DNA si ottengono 235 copie. Tabella I. Maggior sensibilità di PCR Real-time nei confronti dei metodi colturali nella diagnosi di meningite su liquor di 68 pazienti (da Chiba et al., 2009, mod.). Patogeno Campioni positivi in PCR n (%) Campioni positivi con il metodo colturale n (%) Streptococcus pneumoniae 36 (21,4) 27 (16,1) Haemophilus influenzae 76 (45,2) 48 (28,6) Streptococcus agalactiae 4 (2,4) 2 (1,2) E. coli 3 (1,8) 3 (1,8) Listeria monocytogenes 1 (0,6) 1 (0,6) Mycoplasma pneumoniae 1 (0,6) 0 67 C. Canessa et al. gue è possibile dimostrare con maggior sensibilità la presenza di un germe specifico; ciò fornisce una guida razionale per una terapia antibiotica e un trattamento del paziente più appropriato (Mussap et al., 2007; Andrade et al., 2008). PCR nel sospetto di polmonite batterica La PCR si è dimostrata utile anche nella diagnosi eziologica delle polmoniti complicate: anche in questo caso esistono reazioni specifiche per il singolo germe, o che sono in grado di rilevare la presenza di diversi batteri contemporaneamente utilizzando miscele di primers specifici; tali tecniche sono applicabili, oltre che sul sangue periferico, anche sull’escreato o sul liquido di lavaggio bronco-alveolare (BAL) (Bayram et al., 2005). La metodica di PCR è in grado di identificare contemporaneamente più germi, quali Chlamydia pneumoniae, Legionella pneumophila e Mycoplasma pneumoniae. Tali tecniche hanno permesso una diagnosi più sensibile e più rapida rispetto ai metodi basati sugli antigeni o ai metodi sierologici tradizionali. L’analisi molecolare quantitativa è un’ulteriore risorsa, perché correla con la prognosi e, quando effettuata su terreni non sterili (escreato) dimostra una correlazione lineare tra carica batterica e probabilità di diagnosi di polmonite. I metodi molecolari forniscono risultati positivi quando ancora gli anticorpi sono negativi, e permettono quindi di impostare una terapia idonea (Murdoch, 2003; Raggam et al., 2005). I metodi sierologici, offrendo risposte tardive e scarsamente specifiche non sono indicati per la diagnosi di malattia batterica invasiva. Applicazione della PCR 16S Recentemente, nel sospetto di infezione batterica invasiva, è possibile utilizzare anche la PCR cosiddetta 16S. Si tratta di una PCR che amplifica la subunità di RNA ribosomiale (rRNA) 16S (detta così per il peso molecolare) del rRNA batterico, comune alla maggior parte dei batteri patogeni in grado di causare infezioni invasive, altamente conservata; quindi la sua rilevazione permette di discriminare davanti ad un quadro clinico se si tratta di un’infezione batterica o di un’altra causa. Con questa reazione ad ampio spettro si individuano virtualmente tutti i batteri; in realtà le metodiche basate sull’utilizzo del 16S peccano molto in specificità; infatti, proprio perché amplificano più germi anche molto diversi tra loro si prestano a dare risultati falsamente positivi e richiedono delle norme estremamente drastiche nella manipolazione del campione spesso impossibili da rispettare nei laboratori di routine microbiologica. Inoltre, dopo che il gene 16S è stato amplificato sono necessari ulteriori passaggi quali il sequenziamento del DNA od altri, per identificare il germe in causa (Lue et al., 2000). Il metodo è superiore ai metodi colturali tradizionali (Pandit et al., 2005) in sensibilità, ma la scarsa specificità lo confina a casi molto selezionati e a laboratori super-specialistici Diagnosi molecolare delle infezioni invasive da pneumococco Un altro recente settore d’impiego dei metodi molecolari sono le malattie invasive da S. pneumoniae. L’incidenza di infezioni varia tra i diversi paesi, ed è fortemente sottostimata in quanto la diagnosi si basa sulla coltura del sangue o del liquor, il cui risultato, come per gli altri batteri, può essere inficiato da una terapia antibiotica precedente o da un errore nelle varie tappe di esecuzione. La biologia molecolare si è dimostrata utile nel valutare in modo più preciso l’epidemiologia di queste infezioni. Dati italiani dimostrano che, utilizzando la PCR, l’incidenza delle malattie pneumococciche invasive appare significativamente più elevata rispetto ai dati ottenuti con la coltura (Azzari et al., 2008a; D’Ancona et al., 2005). La sensibilità della RT-PCR è risultata doppia rispetto a quella della coltura nella diagnosi di meningite/sepsi e 10 volte maggiore in caso di polmonite: questo perché i pazienti con meningite e sepsi hanno una carica batterica molto alta, per cui anche la coltura, seppur meno sensibile, può individuarla; inoltre queste forme sono così rapidamente evolutive che spesso prima del ricovero non c’è il tempo per impostare una terapia antibiotica, che può compromettere la coltura (Azzari et al., 2008a, Tab. II, Fig. 2). Terapia antibiotica e diagnosi di infezioni pneumococciche invasive Riguardo all’effetto di una precedente terapia antibiotica sul risultato dei metodi diagnostici attualmente a disposizione, sia colturali che molecolari, è stato condotto uno studio specifico per valutare la relazione tra durata della terapia antibiotica prima del ricovero e il risultato di tali test diagnostici. I metodi molecolari si dimostrano molto più sensibili nei pazienti già trattati: la PCR real-time appare 3 volte più sensibile nella diagnosi di meningite/sepsi e quasi 10 volte Tabella II. Risultati positivi per Streptococcus pneumoniae di PCR e coltura in 92 pazienti con sospetta malattia pneumococcica invasiva: la PCR risulta significativamente più sensibile della coltura. Nessun campione risultato negativo alla PCR è risultato sensibile con la coltura (da Azzari et al., 2008a, mod.). Pazienti n = 92 Artrite 4 Polmonite 80 Meningite/sepsi 8 § Risultato dell’indagine molecolare (Realtime PCR) 2/4 (50) Positivi 1/4 (25) Negativi 2/4 (50) Negativi 3/4 (75)§ Positivi 16/80 (20) Positivi 1/80 (1,2) Negativi 64/80 (80) Negativi 79/80 (98,8) Positivi 4/8 (50) Positivi 2/8 (25) Negativi 4/8 (50) * Negativi 6/8 (75) # 1 era positivo per Staphylococcus aureus tutti i 4 campioni erano positivi in Realtime PCR per Neisseria meningitidis # 1 era positivo per Neisseria meningitidis con metodo colturale 68 Risultato dell’indagine colturale Positivi Diagnosi molecolare delle malattie batteriche invasive in età pediatrica Figura 2. Incidenza di malattia invasiva pneumococcica (polmonite complicata, sepsi, meningite, artrite) in una popolazione pediatrica tra 0 e 14 anni residente nella provincia di Firenze, valutata con metodo colturale e molecolare. L’incidenza risulta di gran lunga maggiore se valutata con la PCR rispetto ai dati ottenuti con la coltura (da Azzari et al., 2008a,). Con entrambe le metodiche si conferma una maggior incidenza di forme invasive sotto i 2 anni, l’età più a rischio. nei pazienti con polmonite. Inoltre riescono a fornire informazioni anche fino ad una settimana dopo l’inizio della terapia (Resti et al., 2009; Tab. III). Sierotipizzazione con metodi molecolari Con i nuovi metodi molecolari inoltre, è possibile determinare anche i diversi sierotipi di un germe, come nel caso di haemophilus, meningococco o pneumococco. Ciò è importante per avere informazioni sul possibile decorso, sulla prognosi e, dal punto di vista epidemiologico, per monitorizzare l’eventuale emergenza di nuovi sierotipi in seguito al trend secolare o all’utilizzo di massa di vaccini che ne contengono solo alcuni. Fino ad oggi la sierotipizzazione è stata effettuata con metodo sierologico o in biologia molecolare, su isolato da coltura (Kong et al., 2006; Pai et al., 2006), quindi era possibile solo nei casi in cui la coltura da campione biologico risultava positiva. Questa è ovviamente una limitazione importante, cosicché sono stati creati nuovi metodi capaci di effettuare la tipizzazione del germe direttamente da campione biologico, in biologia molecolare, in modo da superare gli ostacoli presentati dagli esami colturali. Per lo pneumococco ad esempio, per la prima volta è stata ottenuta la sierotipizzazione direttamente sul campione biologico, attraverso la tecnica della PCR multiplex sequenziale: si tratta di una PCR in cui vengono inseriti più primers specifici per sequenze geniche note di ogni sierotipo. Sono stati così sierotipizzati molti più casi rispetto ai metodi tradizionali (Azzari et al., 2008a; Tab. IV). Anche nel caso del meningococco è possibile individuare il tipo mediante analisi su qualsiasi campione, persino su campione bioptico nei casi di infezione fulminante (Fernàndez-Rodrìguez et al., 2008; Moriondo et al., 2008). Un ulteriore vantaggio dei metodi di biologia molecolare consiste nel loro costo estremamente contenuto. Nel caso dello Streptococcus pneumoniae, ad esempio, con le metodiche home-made, è sufficiente una spesa inferiore a 15 euro di reagenti per ottenere sia la diagnosi di infezione che la sierotipizzazione e un costo legato al personale umano significativamente inferiore ai metodi colturali. Microarrays Un altro strumento di recente scoperta sono i microarrays, noti anche come chip genici: essi permettono di analizzare contemporaneamente l’attivazione di decine di migliaia di geni. I chip sono formati da moltissime molecole di DNA (detti sonde) depositate in una posizione nota su un supporto a formare una microgriglia che consente di identificarle in modo univoco. Ogni sonda è costituita da un segmento di DNA a singola elica di un gene e, nel loro insieme, tutte le sonde di un DNA chip rappresentano tutti, o la maggior parte, dei geni di un organismo. Si può utilizzare quindi anche nelle malattie infettive virali e batteriche, dove è utile per conoscere il meccanismo di interazione tra il patogeno e l’ospite sulla base dell’espressione genica e quindi la patogenesi (Chen, 2006). Per ora si sono rilevate utili nel riconoscimento di virus respiratori, HIV, CMV, germi opportunisti, micobatteri ma teoricamente, conoscendo la sequenza genica, è possibile il loro uso per il riconoscimento di qualsiasi germe, compresi quelli responsabili di malattie invasive in età pediatrica (Campbell et al., 2004; Mikhailovich et al., 2008). Tabella III. Influenza della terapia antibiotica sulla diagnosi colturale e molecolare di malattia pneumococcica invasiva in una popolazione pediatrica: la probabilità di diagnosi con la metodica molecolare è risultata 3,2 volte maggiore che con la coltura. La PCR può risultare positiva anche a distanza di giorni dall’inizio della terapia (da (Resti et al., 2009, mod.). (RT-PCR = PCR real-time: è una PCR ancora più rapida e sensibile della PCR standard, in cui è possibile quantizzare la carica batterica nel campione). Malattia Precedente terapia antibiotica n = 25 Positive sia coltura che RT-PCR n (%) Meningite/sepsi n = 17 Polmonite n = 36 Artrite n=2 2/6 (33,3%) Positiva solo RT-PCR n (%) 4/6 (66,7%) Non precedente terapia antibiotica n = 30 Positive sia coltura che RT-PCR n (%) Positiva solo RT-PCR n (%) p 6/11 (54,5) 5/11 (45,5) 0,373 2/19 (10,5) 17/19 (89,5) 6/17 (35,3) 11/17 (64,7) 0,083 - - 1/2 (50) 1/2 (50) - * la p è calcolata paragonando la frequenza di positività di metodi molecolari o metodi colturali in due gruppi di pazienti, quelli che hanno ricevuto terapia antibiotica prima del test e quelli che non l’hanno ricevuta 69 C. Canessa et al. Tabella IV Distribuzione dei sierotipi in 22 casi di malattia pneumococcica invasiva in base alla malattia e allo stato vaccinale, ottenuta con la coltura e con la diagnosi molecolare. La PCR applicata direttamente sul campione biologico permette di ottenere molte più informazioni sul tipo rispetto ai metodi tradizionali, che sono applicabili solo se la coltura è positiva (da Azzari et al., 2008). Risultato PCR-RT Età (mesi) Artrite (n = 2) Polmonite (n = 16) Meningiti/sepsi(n = 4) Vaccinato 6 No 10 No Coltura Sangue Liquor Liquido pleurico Tipo Pos NT* Pos Pos 22F 1 No Pos 6A/B 4 No Pos NT* 11 No Pos 14 22 Si Pos 19A 22 No Pos 8 24 No Pos 6A/B 38 No Pos 8 43 Sì Pos 3 50 No Pos 19F 51 No Pos NT* 55 Sì Pos 1 63 Si Pos 12 70 No Pos 18 71 No Pos 19F 85 Si Pos 4 108 No Pos Pos 18C 19 No Pos Pos 4 38 No 80 No 120 No Pos Pos Pos 6A/B Pos Pos 9 V/A Pos Pos 23 F • NT=non tipizzabile Biologia molecolare e valutazione dell’antibioticoresistenza Attualmente il gold standard per stabilire la sensibilità di un germe è l’antibiogramma, che consiste nel testare i vari antibiotici sul germe coltivato. Recentemente le tecniche di biologia molecolare hanno trovato una loro applicazione anche in questo settore: esse possono infatti rilevare geni associati alla resistenza, superando così le possibili difficoltà tecniche di interpretazione del classico antibiogramma (Qin et al., 2006; Zhanel et al., 2006). Biologia molecolare ed epidemiologia dei portatori sani Lo studio epidemiologico dei soggetti portatori è estremamente importante; nel caso ad esempio dello pneumococco consente di valutare la presenza di portatori di sierotipi multipli e consente di seguire nel tempo un eventuale shift di sierotipi (Azzari et al., 2008b). Tutto questo è molto difficile con i metodi colturali che sono scarsamente sensibili nello studio dei portatori faringei e che ricercano i sierotipi con il metodo a “singola colonia” che sierotipizza, come dice il termine, soltanto una delle colonie cresciute su piastra non consentendo, pertanto, l’individuazione di sierotipi multipli. 70 Discussione I vantaggi più importanti delle tecniche molecolari che emergono dagli studi considerati sono la maggior sensibilità e specificità, la scarsa influenza di una terapia antibiotica sui risultati, la rapidità e il loro possibile utilizzo su qualsiasi campione, senza particolari necessità di conservazione. Inoltre permettono di rilevare la presenza di germi che difficilmente crescono in coltura (Poxton, 2004; Andrade et al., 2008). Sono infine facilmente eseguibili in quanto per gran parte automatizzate, e quindi anche facilmente trasmissibili, non richiedendo competenze tecniche particolari. Queste metodiche tuttavia presentano qualche limite: non si ottengono isolati batterici a disposizione per ulteriori esami; esiste un rischio di contaminazione, seppur ormai sempre più limitato. Riguardo alla PCR 16S ad esempio, gli stessi lavori ne mettono in evidenza i limiti: richiede comunque un’ulteriore indagine più mirata, non discrimina bene l’infezione dalla contaminazione quando la carica batterica è bassa, non permette di ottenere dati sull’antibioticoresistenza (Deutch et al., 2006). Queste limitazioni non si hanno, invece, quando si utilizza la metodica Realtime con primers/sonde specifici per ciascun germe. Un altro elemento importante che dovrà essere affrontato per permettere a queste metodiche di entrare a far parte della routine diagnostica, è la standardizzazione dei metodi e dei valori di riferimento Diagnosi molecolare delle malattie batteriche invasive in età pediatrica utilizzati. Solo così sarà possibile il confronto tra risultati di analisi di laboratori diversi e lo scambio di conoscenze (Murdoch, 2006). Per quanto riguarda l’analisi dell’antibiotico-resistenza, al momento i test molecolari non consentono di dare risposte così estese e precise come i test colturali. La PCR fornisce un’analisi dei geni di resistenza di molti germi, ma non ancora di tutti; potrebbero poi emergere nuovi meccanismi di resistenza non inclusi nei protocolli di analisi genetica. Inoltre non è detto che un certo genotipo di resistenza correli con l’effettivo fenotipo, cioè col reale comportamento del batterio con l’antibiotico. Infine, solo l’antibiogramma con il calcolo della minima concentrazione inibente (MIC) di antibiotico sull’isolato colturale fornisce un dato di tipo quantitativo utile per impostare una terapia nella pratica clinica. Tuttavia è vero anche che quando l’esame colturale risulta negativo per una precedente terapia antibiotica, è impossibile ottenere l’antibiogramma, e in questi casi è solo la diagnosi molecolare che può venire in aiuto (Murdoch, 2003; Andrade et al., 2008; ReierNilsen et al., 2009). Conclusioni e prospettive per il futuro In conclusione, le metodiche di biologia molecolare sono un valido strumento per una diagnosi sensibile e rapida in caso di infezioni batteriche gravi in età pediatrica. Esse rappresentano un mezzo utile per il clinico, che potrà ottenere il risultato in tempi molto più rapidi rispetto all’esame colturale (ore anziché giorni) e potrà pianificare corrette terapie ed interventi di sanità pubblica solo quando richiesti. Quando diventeranno di routine, egli dovrà utilizzarle prima di tutto nel caso di sospetto di malattia batterica a rischio per la vita del paziente (sepsi, meningite), quando cioè è fondamentale conoscere l’eziologia per impostare una tempestiva terapia mirata. Sono quindi tecniche che dovrebbero affiancare la coltura nella definizione di caso di malattia batterica invasiva. Al momento attuale i metodi colturali rimangono assolutamente necessari: oltre a fornire dati unici sull’antibioticoresistenza, sono essenziali per individuare singoli patogeni non inclusi nei protocolli molecolari (Van Gastel et al., 2007). Box di orientamento Che cosa si sapeva prima La diagnosi delle malattie batteriche invasive è sempre stata formulata mediante coltura dei liquidi biologici, metodo con scarsa sensibilità in quanto risente di una terapia antibiotica effettuata e richiede tecniche di esecuzione particolari. Cosa sappiamo adesso Negli ultimi anni sono aumentate sempre di più le applicazioni delle tecniche di amplificazione del materiale genico nella diagnosi di malattie batteriche. La PCR (polymerase chain reaction) e la PCR real-time – tecnica in cui è possibile anche quantificare la carica batterica – hanno il vantaggio di poter essere utilizzate su qualsiasi campione biologico e direttamente, senza una precedente coltura; sono molto più sensibili delle tecniche colturali in quanto risentono meno di una terapia antibiotica; sono di facile esecuzione e forniscono il risultato in tempi estremamente rapido; permettono anche la sierotipizzazione del germe sempre direttamente dal campione biologico. Quali ricadute sulla pratica clinica Tali metodiche sono uno strumento utile per il clinico in età pediatrica, in quanto nei bambini le infezioni batteriche gravi come sepsi e meningiti possono essere molto pericolose, e potrebbero affiancare la coltura nella definizione di caso di malattia invasiva. Bibliografia Alberts B,Bray D, Lewis J, et al. Biologia molecolare della cellula. IV edizione. Bologna: Zanichelli 1995. Andrade SS, Bispo PJM, Gales AC. Advances in the microbiological diagnosis of sepsis. Shock 2008;30:41-6. Azzari C, Moriondo M, Indolfi G. Molecular detection methods and serotyping performed directly on clinical samples improbe diagnostic sensitivity and reveal increased incidence of invasive disease by Streptococcus pneumoniae in Italian children. J Med Microbiol 2008;57:1205-12. ** Primo lavoro che valuta l’incidenza di malattie invasive da pneumococco in Italia con metodi molecolari, dimostrando valori nettamente superiori rispetto a quelli ottenuti con la coltura; inoltre per la prima volta la PCR viene utilizzata direttamente sul campione biologico per la sierotipizzazione del germe. Azzari C, Resti M. Reducing carriage and transmission: the beneficial “side effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Clin Infect Dis, 2008;47:997-9. Bayram A, Kocoglu E, Balci I. Real-time polymerase chain reaction assay for detection of Streptococcus pneumoniae in sputum samples from patients with community-acquired pneumonia. J Microbiol Immunol Infect 2006;39:452-7. Campbell CJ, Ghazal P. Molecular signatures for diagnosis of infection: application of microarray technology. J Appl Microbiol 2004:96:18-23. Chen T. DNA microarrays - an armory for combating infectious diseases in the new century. Infect Disord Drug Targets 2006;6:263-79. Chiba N, Murayama SY, Morozumi M. Rapid detection of eight causative pathogens for the diagnosis of bacterial meningitis by real-time PCR. J Infect Chemother 2009;15:92-98. * Il lavoro descrive una PCR applicata su liquor in grado di identificare contemporaneamente 8 batteri, tra cui i maggiori in causa nelle sepsi neonatali. Questa si dimostra più sensibile della coltura, anche dopo terapia antibiotica. Clarke SC. Detection of Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae, and Haemophilus influenzae in blood and cerebrospinal fluid using fluorescencebased PCR. Methods Mol Biol 2006;345:69-77. Corless CE, Guiver M, Borrow R, et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae, and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time PCR. J Clin Microbiol 2001;39:1553-8. ** È il primo lavoro che propone la PCR allo scopo di cercare simultaneamente più germi in uno stesso campione, in particolare applicata su liquor nel sospetto di meningite. D’Ancona F, Salmaso S, Barale A, et al. Incidence of vaccine preventable pneumococcal invasive infections and blood culture practice in Italy. Vaccine 2005;23:2494-2500. * Questo lavoro rappresenta una delle poche fonti di informazione riguardo l’incidenza di infezioni pneumococciche invasive nel nostro paese, valutata con la coltura. Deutch S, Pedersen LN, Podenphant L, et al. Broad-range real time PCR ad DNA sequencing for the diagnosis of bacterial meningitis. Scand J Infect Dis 2006;38:27-35. * Lo studio paragona la PCR real-time ad ampio spettro (16S) con la PCR convenzionale, la coltura e la microscopia diretta su liquor nel sospetto di meningite batterica; conclude affermando che la PCR real-time ad ampio spettro può essere uno strumento utile nella diagnosi da affiancare a quelli tradizionali soprattutto nel caso di precedente somministrazione di antibiotico. Fernández-Rodríguez A, Alcalá B, Álvarez-Lafuente R. Real-time polymerase chain reaction detection of Neisseria meningitidis in formalin-fixed tissues from sudden deaths. Diagn Microbiol Infect Dis 2008;60:339-46. * Questo lavoro dimostra che le metodiche molecolari possono essere applicate su qualsiasi campione biologico, compresi frammenti di tessuo fissati, e non richiedono particolari condizioni di conservazione. 71 C. Canessa et al. Kong F, Brown M, Sabananthan A, et al. Multiplex PCR-based reverse line blot hybridization assay to identify 23 Streptococcus pneumoniae polysaccharide vaccine serotypes. J Clin Microbiol 2006;44:1887-91. Kubista M, Andrade JM, Bengtsson M, et al. The real-time polymerase chain reaction. Mol Aspects Med. 2006;27:95-125. * La PCR real-time è una tecnica molecolare estremamente utile perché è molto rapida e fornisce un’analisi qualitativa e allo stesso quantitativa della carica batterica contenuta in un campione. Lu J, Perng CL, Lee S, et al. Use of PCR with universal primers and restriction endonuclease digestions for detection and identification of common bacterial pathogens. J Clin Microbiol 2000;38:2076-80. Mikhailovich V, Gryadunov D, Kolchinsky A, et al. DNA microarrays in the clinic: infectious diseases. Bioessays 2008;7:673-82. Moriondo M., Olivito B, Guala A, et al. Rapid real-time PCR detection of neisseria meningitidis DNA in autoptic specimens in a fatal case of meningitis and septicemia. 26th Annual meeting of th European Society for Pediatric Infectious diseases - ESPID, Graz, May 13-17, 2008. Morozumi M, Nakayama E, Iwata S, et al. Simultaneous detection of pathogens in clinical samples from patients with community-acquired pneumonia by realtme PCR with pathogen-specific molecular beacon probes. J Clin Microbiol 2006;44:1440-6. Murdoch DR. Nucleic acid amplification tests for the diagnosis of pneumonia. Clin Infect Dis 2003;36: 1162-70. Murdoch DR. Molecular genetic methods in the diagnosis of lower respiratory tract infections. APMIS 2004;112:713-27. Mussap M, Molinari MP, Senno E, et al. New diagnostic tools for neonatal sepsis: the role of a real-time polymerase chain reaction for the early detection and identification of bacterial and fungal species in blood samples. J Chemother 2007;19:31-4. Pai R, Gertz RE, Beall B, et al. Sequential multiplex PCR approach for determining capsular serotypes of Streptococcus pneumoniae isolates. J Clin Microbiol 2006;44:124-31. Pandit L, Kumar S, Karunasagar I, et al. Diagnosis of partially treated culturenegative bacterial meningitis usig 16S rRNA universal primers and restriction endonuclease digestion. J Med Microbiol 2005;54:539-42. * La reazione PCR che amplifica la sequenza batterica 16S è in grado di discriminare se si tratta di una infezione batterica, ed è particolarmente utile quando l’esame colturale risulta negativo. Poxton IR. Molecular techniques in the diagnosis and management of infectious diseases: do they have a role in bacteriology? Med Princ Pract 2005;14(Suppl 1):20-6. Qin L, Watanabe H, Yoshimine H, et al. Antimicrobial susceptibility and serotype distribution of Streptococcus pneumoniae isolated from patients with communityacquired pneumonia and molecular analysis of multidrug-resistant serotype 19F and 23F strains in Japan. Epidemiol Infect 2006;134:1188-94. * I metodi molecolari sono molto utili anche per determinare l’antibioticoresistenza di un germe, identificando le mutazioni genetiche a questa associate. Raggam RB, Leitner E, Berg J, et al. Single-run, parallel detection of dna from three pneumonia-producing bacteria by real-time polymerase chain reaction. J Mol Diagn 2005;7:133-8. Reier-Nilsen T, Farstad T, Nakstad B, et al. Comparison of broad range 16S rDNA PCR and conventional blood culture for diagnosis of sepsis in the newborn: a case control study. BMC Pediatrics 2009;9:5. Resti M, Micheli A, Moriondo M, et al. Comparison of the effect of antibiotic treatment on the possibility of diagnosing invasive pneumococcal disease by culture or molecular methods: a prospective observational study of children and adolescents with proven pneumococcal infection. Clin Ther 2009;31:1266-73. ** Il lavoro dimostra che la PCR real-time è 3 volte più efficace rispetto alla coltura nel diagnosticare un’infezione invasiva pneumococcica anche dopo terapia antibiotica, rimanendo positiva fino a una settimana dopo l’inizio. Saiki RK, Gelfand DH, Stoffel S et al. Primer-directed enzymatic amplification of DNA with a thermostable DNA polymerase. Science 1988;239:487-91. Tzanakaki M, Tsopanomichalou M, Kesanopoulos K, et al. Simultaneous singletube PCR assay for the detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae type b and Streptococcus pneumoniae. Clin Microbiol Infect 2005;11:386-90. Valasek MA, Repa JJ. The power of real-time PCR. Advan Physiol Educ 2005;29:151-9. Van Gastel E, Bruynseels P, Verstrepen W, et al. Evaluation of a real-time polymerase chain reaction assay for the diagnosis of Pneumococcal and meningococcal meningitis in a tertiary care hospital. Eur J Clin Microbiol Infect Dis 2007;26:651-3. Zhanel GG, Wang X, Nichol K, et al. Molecular characterisation of Canadian paediatric multidrug-resistant Streptococcus pneumoniae from 1998-2004. Int J Antimicrob Agents 2006;28:465-71. Corrispondenza dott.ssa Clementina Canessa, Ospedale Pediatrico A. Meyer, viale Pieraccini 24, 50139 Firenze. Tel. +39 055 56662542. E-mail: [email protected] 72 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 73-78 LINEE GUIDA La gestione del bambino con convulsioni febbrili Linea Guida della Società Italiana di Pediatria (SIP) A cura di Società Italiana di Neurologia Pediatrica (SINP), Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza (SINPIA), Lega Italiana Contro l’Epilessia (LICE) Con la collaborazione dei rappresentanti di Società Italiana Medicina Emergenza e Urgenza Pediatrica (SIMEUP), Società Italiana di Infettivologia Pediatrica (SITIP), Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP), Associazione Famiglie Neurologia Pediatrica (FANEP), Infermieri professionali, Farmacologi, Neuroradiologi Partecipanti Coordinatore: P. Balestri (Siena) Referente SIP per le Linee Guida: R. Longhi (Como) Rappresentanti: - SINP: E. Franzoni (Bologna), S. Grosso (Siena), P. Iannetti (Roma), L. Pavone (Catania), A. Verrotti (Chieti) - SINPIA: G. Coppola (Napoli), B. Dalla Bernardina (Verona), G. Gobbi (Bologna), A. Parmeggiani (Bologna), P. Veggiotti (Pavia) - SIMEUP: G. Messi (Trieste), A. Palmieri (Genova) - LICE: G. Capovilla (Mantova), M. Mastrangelo (Milano), A. Romeo (Milano), F. Vigevano (Roma) - SIMEUP: G. Messi (Trieste), A. Palmieri (Genova) - SITIP: M. De Martino (Firenze) - FIMP: A. Ballestrazzi (Bologna) - FANEP: L. Del Gobbo (Bologna) - Infermieri Professionali: E. Bascelli (Bologna), G. Masiero (Siena) Farmacologo: F. Albani (Bologna) Neuroradiologi: B. Bernardi (Bologna), P. Galluzzi (Siena) Introduzione Metodologia Le convulsioni febbrili (CF) sono uno dei più comuni problemi in età pediatrica in quanto interessano il 2-5% dei bambini 1 2 ed in circa il 30-40% dei casi hanno la tendenza a recidivare 3. Nonostante la numerosa letteratura che nel corso degli anni si è andata accumulando su questo specifico argomento, non esiste ancora un unanime accordo sulla gestione di questi pazienti, soprattutto sul trattamento farmacologico che si debba eventualmente attuare. Per cercare di dare indicazioni unitarie e condivise sulla gestione dei bambini con CF, dalla prima crisi alle eventuali recidive, abbiamo ritenuto opportuno stilare una Linea Guida che possa risultare utile a tutti i pediatri, sia di famiglia che ospedalieri, ai neuropsichiatri infantili e ai medici del Pronto Intervento (118) e del Pronto Soccorso. Questo documento è riportato in forma sintetica per una più agevole consultazione, contenendo solo i quesiti posti dal Panel di esperti e le relative raccomandazioni, senza soffermarsi sulle valutazioni analitiche della letteratura che hanno portato alla formulazione delle classi di evidenza e della forza delle raccomandazioni. Anche la bibliografia è limitata alle voci più significative. La Linea Guida completa è scaricabile sul sito della SIP (www.sip.it) In accordo con la metodologia adottata dal Programma Nazionale per le Linee Guida, il documento è stato elaborato valutando le prove scientifiche raccolte, sintetizzando quelle più significative e definendo i livelli di prova in base alla gradazione indicata dal Programma stesso (Allegato 1). Premessa Nella proposta della ILAE (International League Against Epilepsy) sulla Classificazione e Terminologia delle Epilessie 4, le convulsioni febbrili sono state classificate come febrile seizures e quindi come crisi epilettiche, che non implicano però la diagnosi di epilessia. Anche se la semeiologia delle crisi non è sempre necessariamente “convulsiva”, abbiamo preferito mantenere il termine di “convulsioni febbrili” per motivi non solo “storici”, ma soprattutto di ordine psicologico nei confronti dei familiari dei soggetti affetti. Inoltre il Panel di esperti ha ritenuto opportuno non inserire nella definizione di CF i limiti di età, il livello della temperatura corporea e l’eventuale presenza di problemi neurologici, ma considerarli piuttosto come elementi da valutare nella gestione dei soggetti con CF. 73 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70 Definizione Le convulsioni febbrili sono eventi critici di natura epilettica che si verificano nel corso di episodi febbrili in bambini che non presentano segni di infezione acuta del sistema nervoso centrale (SNC) e senza precedenti convulsioni afebbrili. Nota. La febbre può non essere stata accertata prima della crisi convulsiva, ma deve essere presente nell’immediato periodo postcritico. Le convulsioni febbrili sono convenzionalmente distinte in semplici e complesse. Le CF semplici sono crisi generalizzate, di durata < 15’ e che si verificano 1 sola volta nell’arco di 24 ore. Le CF complesse sono crisi parziali o con segni di focalità nella fase post-critica (ad esempio paralisi post-ictale o paralisi di Todd) o di durata superiore a 15’ o che si ripetono nell’arco di 24 ore. Nota. Dobbiamo tenere presente che in corso di febbre si possono verificare altri eventi non convulsivi quali: sincopi febbrili, brividi, mioclono febbrile, crisi distoniche, crisi di pianto con ipertono che, per la loro semeiologia, devono essere considerati nella diagnosi differenziale Gestione delle convulsioni febbrili Poiché di fronte ad un bambino con una CF possiamo trovarci di fronte a differenti tipologie di soggetti, il Panel di esperti ha ritenuto opportuno, per pratici motivi gestionali, distinguere 2 gruppi che si differenziano per alcune fondamentali caratteristiche: • gruppo A. Bambini con CF semplice che si è verificata con febbre ≥ 38° (vedi Nota), ad un’età compresa tra 6 mesi e 6 anni e in soggetti senza problemi neurologici precedenti; • gruppo B. Bambini con CF complessa o con CF semplice che si è verificata con febbre < 38° (vedi Nota) o ad un’età < 6 mesi o > 6 anni o in soggetti con precedenti problemi neurologici. Nota. La temperatura corporea riferita dai familiari al momento della crisi non è sempre attendibile in quanto rilevata spesso in momenti precedenti o successivi l’esordio della convulsione o dopo somministrazione di antipiretici. Salvo i casi in cui non sussistano dubbi, l’entità della febbre deve essere considerata solo come indicativa. A. Gestione della prima convulsione febbrile 1. Un bambino con una prima convulsione febbrile deve essere ricoverato? In base alla valutazione della letteratura ed in considerazione delle variabili realtà sanitarie del territorio nazionale, degli aspetti culturali e delle aspettative della popolazione, il Panel di esperti ha ritenuto di dover dare le seguenti raccomandazioni: Gruppo A Raccomandazione 1 Nei soggetti di età < 18 mesi è opportuno il ricovero/osservazione per almeno 24h per valutare la presenza di eventuali 74 La gestione del bambino con convulsioni LINEEfebbrili GUIDA infezioni acute del SNC (classe di evidenza IV; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 2 I soggetti di età ≥ 18 mesi non necessitano di ricovero se, dopo adeguata osservazione clinica non inferiore alle 2 ore, risultino clinicamente stabili dopo la crisi e non presentino deficit neurologici post-critici né segni di infezione del SNC (classe di evidenza IV; forza della raccomandazione A). Gruppo B Raccomandazione 3 In questi casi è necessario il ricovero per approfondimento diagnostico (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione B). Nota. Una CF che venga fatta cessare con terapia farmacologia entro 15’ dall’esordio dovrebbe essere considerata, relativamente alle decisioni di ricovero, in questo gruppo. Gruppi A e B Raccomandazione 4 I genitori devono essere adeguatamente informati, possibilmente con consigli scritti, sulla gestione delle eventuali recidive (Allegato 2) (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione A). 2. Si devono effettuare esami di laboratorio? In base alla letteratura ed in analogia alle linee guida di altre società scientifiche 5, il Panel di esperti ritiene che non vi sia necessità di effettuare alcun esame di laboratorio specifico per le CF, a parte quelli relativi alla condizione febbrile ed al sospetto diagnostico. Gruppo A Raccomandazione 5 Non sono raccomandati esami di laboratorio, se non per identificare la causa della febbre (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione D). Gruppo B Raccomandazione 6 Effettuare gli opportuni esami in relazione alle condizioni cliniche ed al sospetto diagnostico (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione A). 3. Si deve effettuare la rachicentesi? Dall’esame della letteratura, l’utilità diagnostica della rachicentesi appare indiscutibile sia nel caso di CF semplici che di CF complesse quando vi siano segni clinici suggestivi di infezione del sistema nervoso centrale. D’altra parte, nei bambini più grandi, i segni meningei sono in genere facilmente identificabili, mentre nei bambini più piccoli (< 18 mesi) i segni di infezione del SNC possono non essere evidenti all’inizio della febbre. In questi soggetti l’effettuazione della rachicentesi deve essere considerata anche in assenza di segni meningei, tenendo sempre presente il rapporto “rischi/benefici”. La gestione del bambino con convulsioni febbrili Gruppi A e B Raccomandazione 7 La rachicentesi deve essere effettuata se sono presenti segni clinici di infezione del SNC (classe di evidenza I; forza della raccomandazione A). LINEE GUIDA Il Panel di esperti ritiene che sia opportuna una breve osservazione, per assicurarsi della stabilizzazione clinica del paziente, solo se le successive CF siano di più lunga durata rispetto alle precedenti o non vengano rapidamente interrotte dalla terapia farmacologia (vedi “Terapia delle CF”). Raccomandazione 8 Nei soggetti di età < 18 m la rachicentesi non deve essere effettuata “di routine”. Deve essere però considerata, anche in assenza di segni clinici, in particolare quando gli indici di flogosi siano alterati e non siano riferibili ad altre cause specifiche (classe di evidenza III; forza della raccomandazione A). Gruppo A e B 4. Si deve effettuare l’elettroencefalogramma (EEG)? L’EEG nei soggetti con CF semplici appare essere di limitato valore diagnostico. Inoltre l’EEG effettuato in corso di febbre può mostrare un diffuso rallentamento che può essere fuorviante se non correttamente interpretato (ad es. sofferenza cerebrale, infezione del SNC). Negli altri casi, il Panel di esperti ritiene che l’EEG possa essere utile all’inquadramento diagnostico, in particolare nei casi con prolungata alterazione dello stato di coscienza o con segni di infezione del SNC o con precedenti problemi neurologici. Raccomandazione 14 Raccomandazione 13 Non è necessario il ricovero se le successive CF mantengono le stesse caratteristiche delle precedenti (classe di evidenza IV; forza della raccomandazione D). È opportuna una osservazione per almeno due ore se le CF sono di più lunga durata rispetto alle precedenti o non vengono rapidamente interrotte dalla terapia farmacologica (classe di evidenza IV; forza della raccomandazione B). Nota. Poiché non si può escludere che una recidiva di CF sia correlata ad una infezione del SNC, una tale possibilità deve sempre essere tenuta presente ed opportunamente valutata. Gruppo A Raccomandazione 9 L’effettuazione dell’EEG non è raccomandata (classe di evidenza III; forza della raccomandazione D). Gruppo B Raccomandazione 10 L’EEG è utile per l’inquadramento diagnostico, in particolare nei casi con prolungata alterazione dello stato di coscienza o con segni di infezione del SNC o con precedenti problemi neurologici (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione B). 5. Si devono effettuare neuroimmagini (TAC, RMI)? Il Panel di esperti ritiene che le neuroimmagini non debbano essere effettuate di routine, ma possano essere utili per l’inquadramento della condizione di base. Salvo casi particolari, tali indagini non rivestono in genere carattere d’urgenza. Gruppo A Raccomandazione 11 L’effettuazione di neuroimmagini non è raccomandata (classe di evidenza III; forza della raccomandazione E). Prognosi 7. Quale è il rischio di recidiva delle convulsioni febbrili? Il rischio generico di recidiva di convulsione febbrile viene stimato intorno al 30-40% e dipende, verosimilmente, dall’interazione tra fattori genetici ed ambientali. Tra i fattori di rischio riportati in letteratura, il Panel di esperti ha ritenuto opportuno considerare i seguenti 6: • età precoce di insorgenza (≤ 15 mesi); • epilessia in parenti di primo grado; • CF in parenti di primo grado; • primo episodio di CF complessa; • frequenza dell’asilo nido o della scuola materna. Maggiore è il numero di fattori di rischio rilevati, maggiore è il rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenza è valutabile nell’ordine del 80100% in presenza di 3-5 fattori di rischio, del 50% se presenti due fattori di rischio, del 25% in presenza di un fattore di rischio, e del 12% in assenza di fattori predittivi. Gruppi A e B Gruppo B Raccomandazione 15 Raccomandazione 12 È opportuno effettuare neuroimmagini nei soggetti con prolungata alterazione dello stato mentale, segni di meningismo, persistenti deficit focali post-critici, precedenti deficit neurologici (classe di evidenza III; forza della raccomandazione A). Il rischio di ricorrenza dopo una prima CF si aggira, in generale, intorno al 30-40% e aumenta con l’aumentare del numero dei fattori di rischio considerati (classe di evidenza II; forza della raccomandazione B). B. Gestione delle successive convulsioni febbrili 6. Un bambino con una recidiva di convulsione febbrile deve essere ricoverato? Raccomandazione 16 Può essere utile, da un punto di vista pratico, considerare i fattori di rischio su riportati. È così possibile comunicare una più puntuale percentuale di rischio (classe di evidenza II; forza della raccomandazione B). 75 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70 8. Quale è il rischio di successiva epilessia? La relazione tra CF ed epilessia sembra essere correlata più a fattori genetici piuttosto che a “causa-effetto” 7. Il rischio globale di epilessia in soggetti con CF è compreso tra il 2% e il 5% e varia in relazione ai fattori di rischio associati ed in particolare alla presenza di epilessia idiopatica/genetica in un parente di primo grado, di anomalie neurologiche o dello sviluppo psicomotorio prima delle CF, di CF complesse 8 9. Comunque, nei soggetti con CF semplici, il rischio di successiva epilessia è stato valutato intorno allo 0,9% 10, mentre il rischio dopo CF complesse aumenta da circa il 6-8% fino al 49% a seconda che siano presenti 1, 2 o 3 caratteristiche di complessità 11. Gruppo A Raccomandazione 17 Il rischio di successiva epilessia nei soggetti con CF semplici è dello 0,9%. Si raccomanda quindi di comunicare che il rischio di epilessia nel gruppo A è analogo o di poco superiore rispetto alla popolazione generale (classe di evidenza I; forza della raccomandazione A). Gruppo B Raccomandazione 18 Il rischio di epilessia in questo gruppo è maggiore soprattutto se sono presenti più fattori di rischio (epilessia idiopatica in un parente di I grado, anomalie neurologiche precedenti la CF, CF complesse, in particolare se concomitano più caratteristiche di complessità). È opportuno comunque comunicare questo possibile rischio ai genitori sottolineando che la stragrande maggioranza di questi bambini (fino al 98%) non presenterà epilessia (classe di evidenza I; forza della raccomandazione A). 9. Le convulsioni febbrili possono causare “danni” al sistema nervoso centrale? Pur non emergendo dalla letteratura una sicura evidenza che le CF possano provocare “danni” al SNC, il Panel di esperti ritiene utile la seguente Raccomandazione: Gruppi A e B Raccomandazione 19 Anche se non vi è la certezza che una CF prolungata provochi una sclerosi mesiale temporale, è sempre opportuno interrompere una crisi febbrile prima che si instauri uno stato di male convulsivo (classe di evidenza V; forza della raccomandazione A). Terapia delle convusioni febbrili 10. Come si deve trattare una convulsioni febbrili in atto? È verosimile che i genitori di un bambino con una prima CF non abbiano ricevuto istruzioni sulla gestione della crisi, a meno che non vi sia già stato un familiare con lo stesso problema. Generalmente il bambino viene condotto al più vicino Pronto Soccorso, soprattutto mediante l’attivazione del 118. Al di là delle diverse realtà regionali, è comunque auspicabile un comportamento omogeneo delle singole strutture sanitarie al fine di ottimizzarne l’assistenza. L’approccio al paziente con CF, in base alle linee guida sulla rianima- 76 La gestione del bambino con convulsioni LINEEfebbrili GUIDA zione avanzata 12 ed alla revisione della letteratura 13-15, è costituito dai seguenti punti: • valutazione dei parametri vitali (temperatura corporea, frequenza cardiaca, saturazione O2, frequenza respiratoria, pressione arteriosa); • valutazione clinica delle condizioni generali e dello stato di coscienza (Glasgow Coma Scale – GCS – o Alert, Voice, Pain, Unresponsive scale – AVPU); • eventuale disostruzione delle vie aeree; • O2 terapia in caso di desaturazione, dispnea e/o cianosi; • approccio terapeutico ( terapia anticonvulsiva e terapia infusionale). Gruppi A e B Raccomandazione 20 Il primo momento operativo, nell’approccio al paziente con CF, è la stabilizzazione e la messa in sicurezza del paziente (grado di evidenza V; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 21 In attesa di reperire un accesso venoso, si raccomanda di somministrare Diazepam per via rettale alla dose di 0,5 mg/kg (grado di evidenza III; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 22 Se la crisi persiste, può essere effettuato, monitorando i parametri vitali, un bolo di Diazepam (0,3 mg/kg) o Lorazepam (0,1 mg/kg) per via endovenosa alla velocità massima di 5 e 1 mg/minuto rispettivamente (grado di evidenza V; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 23 In caso di persistenza della crisi, e quindi di non risposta ai precedenti farmaci, può essere utilizzato il Midazolam in infusione endo-venosa (0,1-0,3 mg/kg in bolo, seguito, se necessario, da 0,05-0,1 mg/kg/ora in soluzione fisiologica di mantenimento) concordando la procedura con il rianimatore (grado di evidenza I; forza della raccomandazione B). Nota. Dobbiamo considerare che il Midazolam è attualmente offlabel in Italia. Raccomandazione 24 Se la crisi persiste, passare alle linee guida dello stato di male con l’intervento dell’anestesista (grado di evidenza V; forza della raccomandazione A). 11. Deve essere effettuata la profilassi delle recidive? Dalla revisione della letteratura il Panel di esperti ha considerato i seguenti punti: Non vi è evidenza che la terapia farmacologica sia in grado di prevenire una successiva epilessia 16 17. Il numero delle CF semplici non correla né con il rischio di epilessia né con disordini dello sviluppo cognitivo 8 9. Non vi è evidenza circa la capacità degli antipiretici di ridurre il rischio di ricorrenza delle CF quando somministrati non associati a farmaci anticonvulsivanti 18. Un fattore limitante l’utilizzo della profilassi intermittente con far- La gestione del bambino con convulsioni febbrili maci antiepilettici è costituito dal fatto che la CF può verificarsi prima che la febbre venga registrata dai genitori 5. Vanno inoltre considerati gli effetti collaterali derivanti dall’uso del Diazepam e potenzialmente capaci di inficiare la sorveglianza clinica durante l’episodio febbrile. Il valproato di sodio e il Fenobarbital si sono dimostrati efficaci nel ridurre il rischio di ricorrenza delle CF 19 20, ma devono essere considerati gli effetti collaterali di un trattamento continuativo con tali farmaci. Gruppi A e B Raccomandazione 25 L’utilizzo degli antipiretici per prevenire le recidive di CF non è raccomandato (classe di evidenza I; forza della raccomandazione D). Gruppo A Raccomandazione 26 Le strategie terapeutiche con profilassi continua od intermittente non sono allo stato attuale raccomandate in questo gruppo (classe di evidenza I; forza della raccomandazione E). LINEE GUIDA Raccomandazione 28 Nei rari casi in cui si associno storia di CF di durata superiore ai 15 minuti, elevata frequenza delle CF e situazioni ambientali sfavorevoli si può considerare l’effettuazione di un trattamento valutando con i genitori, in base alle loro possibilità di gestione, l’opportunità di una profilassi continua o intermittente (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione B). Nota. Per la valutazione del rapporto rischi/benefici della profilassi continua rispetto alla profilassi intermittente è opportuno fare riferimento al testo completo della Linea Guida sul sito SIP. Raccomandazione 29 Per la profilassi intermittente è opportuno utilizzare il diazepam per via orale o rettale alla dose di 0,33 mg/kg all’esordio dell’episodio febbrile e successivamente ogni 8 ore per le prime 24 ore, qualora la febbre persista (classe di evidenza II; forza della raccomandazione A). Raccomandazione 30 Per la profilassi continua, quando attuata, è opportuno ricorrere all’acido valproico alla posologia di 20-30 mg/kg/die in 2-3 somministrazioni o al fenobarbital alla posologia di 3-5 mg/kg/ die in 1-2 somministrazioni (classe di evidenza I; forza della raccomandazione A). Gruppo B Raccomandazione 27 La profilassi intermittente o continua non è di norma consigliata (classe di evidenza VI; forza della raccomandazione D). Bibliografia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 American Academy of Pediatrics. Practice parameter: long term treatment of the child with simple febrile seizure. Pediatrics 1999;103:1307-9. Sadleir LG, Scheffer IE. Febrile seizures. BMJ 2007;334:307-11. 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Baumann RJ. Technical report: treatment of the child with simple febrile seizures. Pediatrics 1999;103:e86. Nota. Il fenobarbital è preferibile all’acido valproico nei bambini con età < 6 mesi per il minore rischio di danno epatico, mentre l’acido valproico è preferibile al fenobarbitale nei bambini più grandi per i minori effetti collaterali sul comportamento e sul versante cognitivo. 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Annegers JF, Hauser WA, Shirts SB, et al. Factors prognostic of unprovoked seizures after febrile convulsions. N Engl J Med 1987;316:493-8. IRC-SIMEUP. Pediatric Advanced Life Support (PALS): supporto delle funzioni vitali in pediatria. Milano: Ed. Elsevier Masson 2008. Fukuyama Y, Seki T, Ohtsuka C, et al. Practical guidelines for physicians in the management of febrile seizures. Brain & Dev 1996;18:479-84; Karande S. Febrile seizures: a review for family physician 2007. Indian J Med Sci 2007;61:161-72. Fetveit A. Assessment of febrile seizures in children. 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E-mail: [email protected] 77 Gennaio-Marzo 2009 • Vol. 39 • N. 153 • Pp. 65-70 La gestione del bambino con convulsioni LINEEfebbrili GUIDA Allegato 1 Livelli delle prove di efficacia e forza delle raccomandazioni. Le definizioni dei tipi di prova di efficacia e la classificazione delle raccomandazioni usate in questa linea guida sono derivate dal manuale metodologico “Come produrre, diffondere e aggiornare raccomandazioni per la pratica clinica” prodotto nell’ambito del Programma Nazionale Linee Guida (PNLG) e consultabile nel sito del PNLG (www.pnlg.it). Livelli di prova I = prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati II = prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato III = prove ottenute da studi di coorte con controlli concorrenti o storici o loro metanalisi IV = prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro metanalisi V = prove ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza gruppo di controllo VI = prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in linee guida o in consensus conference, o basata su opinioni dei membri del gruppo di lavoro responsabile di questa Linea Guida Forza della Raccomandazione A = l’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata (indica una particolare Raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II) B = si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura/intervento debba sempre essere raccomandata/o, ma si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata C = esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la Raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento D = l’esecuzione della procedura non è raccomandata E = si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura Allegato 2 Consigli per i familiari di bambini con convulsioni febbrili. • I genitori devono essere adeguatamente informati circa la natura benigna delle CF, la loro incidenza, la loro prognosi, il rischio di ricorrenza ed il rischio di sviluppare epilessia. Ciò faciliterà la condivisione delle scelte terapeutiche adottate. • La riduzione della temperatura corporea non diminuisce il rischio di ricorrenza delle CF, ma riduce il “disconfort” del bambino. I genitori devono pertanto avere precise informazioni e consigli circa i comportamenti da tenere in caso di febbre elevata. • I genitori devono tenere sempre a disposizione il diazepam da utilizzare per via endo-rettale. In Italia sono commercializzate, in fascia C, confezioni di microclismi di diazepam da 5 e 10 mg da utilizzare a secondo del peso del bambino. • I genitori devono avere precise istruzioni su come comportarsi in caso di crisi: - rimanere calmi; - registrare l’inizio della crisi, la sua durata e le sue caratteristiche; - allentare o slacciare i vestiti ed in particolare il colletto; - posizionare il bambino su un fianco con la testa “più in basso” rispetto al corpo; - pulire le secrezioni e l’eventuale vomito dalla bocca o dal naso; - non forzare l’apertura della bocca, né introdurvi le dita della mano; - non somministrare liquidi o farmaci per via orale; - rimanere vicino al bambino fino a completa risoluzione della crisi; - nel caso che la crisi si protragga oltre 2-3 minuti somministrare microclisma di diazepam alla dose di 0,5 mg/kg; - dopo l’estrazione del microclisma tenere i glutei serrati per evitare l’evacuazione del farmaco; - dopo la cessazione della crisi, avvertire il pediatra di famiglia anche per definire le cause della febbre; - nel caso la crisi non cessi entro pochi minuti (max 5 minuti) dalla somministrazione del Diazepam, ci si dovrà immediatamente attivare per il supporto medico d’emergenza (118 o Pronto Soccorso) al fine di evitare l’instaurarsi di uno stato di male febbrile; - il supporto medico va inoltre richiesto in caso di: 1) crisi con caratteristiche diverse dalle precedenti; 2) crisi ripetute (con o senza ripresa di coscienza tra le crisi); 3) cessazione delle più evidenti “scosse muscolari”, ma persistenza di lievi “contrazioni”; 4) prolungato disturbo della coscienza o irregolarità del respiro dopo la crisi; 5) presenza di sintomi post-critici non rilevati in precedenza. 78