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Appunti su agiografia
carmelitana ed
Inquisizione nel
Seicento
La censura della vita di
maddalena di gesù centurione
Di paolo del ss. Sacramento
Paolo Fontana
Un problema di specifico interesse nella storia della censura
dei libri da parte dell’Inquisizione è quello riguardante il controllo
dei testi di devozione ed agiografici. A fine Seicento, con la polemica quietista, si sarebbe verificata una stretta nel controllo di tale
letteratura1. All’interno di questo ambito si situano le brevi note
1
Le notizie su Paolo del SS. Sacramento si possono ricavare da Louis
Marie du Christ, «Paul du Saint Sacrement», DSp 12 (1984) 1, 578-579. Quelle
su Maddalena di Gesù e Maria Liesse di Lussemburgo da Philippus a SS. Trinitate, Decor Carmeli religiosi, Lion, Antonii Iuelliorum 1665, III, p. 166; 248 e dalla
Vita scritta da Paolo del SS. Sacramento. La pratica di censura che qui analizzo è
conservata nell’Archivio della Congregazione della Dottrina della Fede (ACDF),
Sant’Officio, Censurae Librorum 1690, n. 24.
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che qui presento circa la censura dell’Inquisizione su di un libro
scritto da un carmelitano ed illustrante vita, virtù e dottrina spirituale di due religiose carmelitane.
Paolo del SS. Sacramento, al secolo Giovanni Battista
Marini (+1673), era originario di Avignone e nel locale Carmelo
pronunciò i voti nel 1637. Fu lettore di teologia a Lione nel 1655
dove ricoprì incarichi di governo sino alla morte. Tra le diverse
opere agiografiche lasciateci affronteremo qui La vie de la V. M.
Magdelaine de Jesus-Maria carmelite dechaussée avec abbregé de celle de la
V. M soeur Marie-Liesse de Luxembourg aussi carmelite dechaussée (Lyon
1644, ristampata nel 1893); l’opera venne pubblicata in italiano,
tradotta da Leonardo di San Francesco, col titolo Vita della V. M.
Madalena di Giesù Maria Centuriona con il compendio della vita della
V. Madre suor Maria Liesse duchessa di Lussemburgo carmelitane scalze,
Roma, Mancini 1671.
La Centurione, figlia di Giovanni Agostino Centurione
e di Cornelia Pallavicino, nacque il 14 maggio 1586 e professò
la regola carmelitana nel 1602. Nel 1613 fu inviata, assieme
ad altre carmelitane, a fondare il monastero di Avignone, di
qui nel 1627 quello di Carpentras, ritornando subito dopo ad
Avignone per necessità di governo. Si recò quindi a fondare
il Carmelo di Chambéry nel 1634, dove ricoprì l’incarico di
priora e morì nel 1645. Fu durante la sua permanenza ad
Avignone che conobbe quella che sarebbe diventata Madre
Maria Liesse. Figlia di Enrico Duca di Lussemburgo e
Maddalena di Montmorency, nacque nel 1611 e, a 12 anni,
sposò il duca di Ventador. Quando ebbe 17 anni, assieme al
marito fece voto di castità. Entrò poi al Carmelo di Avignone
nel 1629 e partecipò alla fondazione di Chambéry nel 1634,
morendo nel 1660.
L’edizione italiana venne sottoposta all’Inquisizione.
Non sappiamo chi e perché abbia denunciato il libro alla
Suprema; il parere venne affidato ad un agostiniano della
provincia di Lombardia, Giuseppe Pezzola, che lo redasse il 3
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maggio 16902.
La critica di Pezzola si appunta su alcuni passi
dell’opera.
Il Censore cominciava col richiamare come a p. 3 si
affermi che «la virtù senza la nobiltà è una bella idea, che perde
molto del suo merito per la viltà della materia sopra la quale
l’artefice n’ha fatta l’espressione». Pezzola corregge affermando
che tale riflessione vale per le virtù naturali o acquisite, ma non
per la grazia che solo Dio dà e che non è legata alla nobiltà.
A p. 70 l’Agiografo aveva paragonato il monastero nel
quale abitava la Centurione alla casa di Obededon dove era
conservata l’arca dell’alleanza. Tale affermazione era ritenuta
esagerata da Pezzola perché in questa stava la presenza di Dio
arricchita, come dice la Bibbia (2Re 6), da ingenti benedizioni
per volontà dello Spirito Santo.
L’Agiografo affermava che nell’orazione Maddalena di
Gesù era immersa in una preghiera straordinaria e soprannaturale3
e poi, come citava criticamente il Censore, «Questa oratione
è quella che la Nostra Serafica Madre Santa Teresa chiama
Oratione di quiete la quale è amica della contemplatione, e che
tiene l’anima in uno stato, nel quale Dio opera per renderla
2
Il 3 maggio presentò la censura sulla Vita, concludendo che il libro
doveva essere sospeso donec corrigeatur; i cardinali decisero di inviarlo ad un
altro consultore: ACDF SO, Decreta 1690, p. 156v-157r.
3
«La sua oratione era straordinaria e sopranaturale era talmente vinta
dalli conforti divini che subito raccoglievasi senza discorso e senza meditatione et il suo cuore l’infiammava subito d’un sì ardente amore che restava
senza moto e fuori dell’uso de sensi»: p. 187. L’intenso itinerario spirituale di
Maddalena di Gesù si era manifestato anche in ritualità legate al controllo
del corpo come quando nel 1602, per la professione, si era incisa con un
ferro rovente il nome di Gesù sul petto, dalla parte del cuore, per poi scrivere
una professione di schiavitù perpetua, nel corpo e nell’anima, dando a Gesù
il possesso del suo cuore e firmando il documento col suo sangue; cf Decor
Carmeli, III, 166.
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sua, senza che contribuisca del suo altro che l’humiltà di cuore
e disprezzo di sé medesima. Questo gran dono d’oratione
merita di esser considerato, questa intermissione d’operationi
interiori, quell’abbandoni della sua anima sotto l’imperio delle
communicationi divine» (p. 188). Quest’affermazione, nota il
Censore, non è precisa perché, sebbene l’anima, guidata dallo
Spirito Santo, si sottometta a Dio e subisca l’azione divina, ciò
non esclude un’azione vitale dell’intelletto e della volontà. Infatti
se Dio parla all’anima ciò non avviene senza una sua percezione
perché Dio agisce infondendo delle specie nell’anima stessa.
Ciò è detto “locuzione all’anima” che non ode senza intelletto e
non prega senza azione, perché è proprio dell’orazione mentale
essere una salita in Dio, per cui, se l’anima viene interrotta nelle
operazioni interiori (come in modo assoluto e generale, secondo
il Censore, asserisce l’Autore quando afferma, nello spiegare
tale orazione, che la Centurione «non oraret sed ab oratione cessaret»)
tale situazione è più che altro di ozio. Per questo il Censore
rimandava al commento al Vangelo di Giovanni di sant’Agostino
(capitolo 49) e a san Tommaso (S. Th., II, q. 83, art. 17)4. Tale
posizione assimila, secondo Pezzola, la Vita «ad deliria Molinos iam
damnata» che voleva che l’anima e le sue potenze, nel cammino
spirituale, fossero annichilate, non facessero alcuna operazione,
né praticassero virtù. Questo ricorda a Pezzola le posizioni degli
Alumbrados, affermanti che, nello stato di unione dell’anima con
Dio, non era necessario operare, amare o fare qualcosa e che
furono condannate dagli inquisitori di Spagna nel 16235.
Di per sé non è facile capire, leggendo il capitolo di sant’Agostino in
questione, perché Pezzola lo usi come rimando in quanto non affronta, a mio
parere, il tema dell’orazione. Nella Summa san Tommaso dice che l’orazione è
divisa in quattro parti («obsecrationes, orationes, postulationes, et gratiarum actiones»),
presupponendo quindi un aspetto attivo.
5
Cf Alvaro Huerga, Historia de los Alumbrados (1570-1630), IV Los
Alumbrados de Sevilla (1605-1630), Fundación Universitaria Española Semi4
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Dopo aver assimilato la Vita al molinosismo, Pezzola
passava all’altra tipica accusa dell’epoca, quella di giansenismo.
Prendeva in esame una frase del libro: «Di tutte le virtù l’humiltà
deve essere la più naturale a l’huomo, poiché la privatione è uno
de suoi principi, che la fiacchezza gli è proprio et il peccato sola
opera sua quando non è aiutato dalla gratia del cielo» (p. 217).
Tale affermazione è falsa, afferma il Censore, perché l’uomo,
anche nello stato di natura decaduta, non è totalmente corrotto
dal peccato, né è estinto in lui il libero arbitrio, ma solo infermo ed
indebolito, come insegna il concilio di Trento6, cosicché l’uomo
può fare qualcosa di onesto nell’ordine della natura e consono
alla ragione. Il senso di tale affermazione non è dissimile a quella
condannata da san Pio V (e poi ribadita da Gregorio XIII) contro
Baio: «Liberum arbitrium sine gratiae Dei adiutorio nonnisi ad peccandum
valet» (DS 1927). Bisognava quindi, secondo il Censore, levare
tale affermazione dal libro.
Quanto sino a qui preso in esame era dall’Agiografo
riferito alla vita ed alla spiritualità di Maddalena Centurione.
Altre questioni riguardavano Maria Liesse.
A p. 401 si affermava, per mostrare il distacco della
religiosa dalle cose, come si fosse separata da un libretto nel
quale erano rappresentati dei cuori con diverse immagini di
Gesù7. Tale testo le era stato prestato da sua cognata, la Badessa
del monastero di San Pietro di Lione. Una volta una giovane
nario Cisneros, Madrid 1988, dove alle pagine 200-216 si riassume il Memoriale inquisitoriale sugli alumbrados.
6
«Si quis liberum hominis arbitrium post Adae peccatum amissum et extinctum
esse dixerit, aut rem esse de solo titulo, immo titulum sine re, figmentum denique a satana
invectum in ecclesiam: an. sit»: CT VI, can. 5 (DS 1555).
7
Il libretto era «assai galante riempito di cuori intagliati in mezzo de
quali v’erano diverse rappresentationi del Fanciullo Giesù con sentenze accomodate al soggetto di queste differenti immagini» (p. 401). Potrebbe trattarsi
di Typus mundi in quo eius calamitates et pericula nec non divini, humanique amoris
antipathia emblematice proponuntur a R.R.C.S.I.A., Antverpiae, Apud Ioan. Cnob-
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religiosa lo aveva chiesto in prestito alla Lussemburgo e letto con
grande edificazione. Il fatto si era ripetuto più volte e Liesse si
era resa conto di come la giovane desiderasse il volume. Le aveva
fatto però notare che non poteva darglielo senza licenza della
proprietaria. Quando ormai la giovane religiosa non ci pensava
più, Liesse, passando, glielo aveva fatto scivolare sotto lo scapolare
pregandola di tenerlo. Ciò perché, dice l’Autore, riportato dal
Censore, Liesse «non haveva, né voleva havere alcun impegno
verso cose che fussero del mondo». Cosa rimproverava Pezzola
al libro? In sostanza di eguagliare le immagini sacre alle realtà
mondane dalle quali è doveroso distaccarsi. Tale idea per il
Censore è sbagliata perché le immagini sacre non sono mondane,
ma rappresentano cose sante e perché conferiscono alla pietà
ed alla devozione. Perciò la Vita, scritta in volgare, arrivando a
donne ed in specie a religiose, potrebbe allontanarle dalle sacre
immagini (facile posset in eis alienationem a sacris imaginibus causare).
Inoltre a p. 439 la Vita affermava che una suora aveva
chiesto a Liesse di scrivere a suo marito perché gli procurasse
delle immaginette, di ciò la religiosa si era mostrata infastidita.
Ciò è un errore, afferma il Censore, perché le immagini vanno
accolte con rispetto, come sostiene il IV concilio di Costantinopoli
dove, al canone III, si afferma che bisogna onorare ed adorare
l’immagine di Cristo al pari dei vangeli (Enchiridion Oecumenicum,
p. 168).
Per queste ragioni tale affermazione presente nella Vita
è da mettere per Pezzola tra le «blasphemias illuminatorum haec erat
in ordine sexagesima sexta ut quis se ad orandum colligat nulla ratione
imaginibus utendum cum sit tantum blandimenta et illecebre»8.
baert 1627, una raccolta di emblemi sulla vanità del mondo che riproduce
immagini simili a quelle descritte dalla Vita.
8
Il Censore si riferisce qui probabilmente alle proposizioni di Molinos
condannate nel 1687, anche se quella contro il rifiuto di immagini mentali
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La conclusione tratta dal Censore è chiara. Riteneva che
fosse opportuno che, stante il parere degli inquisitori, tale libro
fosse sospeso donec corrigeatur. In realtà gli Eminentissimi presero
le distanze dal parere del Pezzola e, nella riunione di feria IV
del 9 maggio 1690, udita la censura, decisero di far vedere il
libro da un altro revisore. Non risulta che la Vita sia mai stata
messa all’indice. Le critiche di Pezzola non erano state ritenute
sufficienti. Sulla camicia del fascicolo si vede aggiunto «Nihil
decisum fuit».
Possiamo trarre alcune conclusioni. La grande paura
del quietismo provocò una reazione antimistica che fece porre
all’indice numerose opere di spiritualità. Nel parere di Pezzola si
nota come, al di là di questioni marginali, il problema principale sia
quello dell’orazione di quiete che Pezzola vede pericolosamente
simile alle posizioni dei quietisti. Anche la critica al culto delle
immagini di devozione viene visto come pericoloso ed il semplice
accenno al distacco da oggetti di devozione, un tema tipico della
pedagogia e dell’agiografia monastica, interpretato come un
inclinarsi verso l’aniconismo rimproverato ai quietisti. Pezzola
rimanda, oltre alle condanne contro alumbrados e molinosisti, ai
padri della chiesa come Agostino, a san Tommaso e al Concilio
costantinopolitano, mostrando una radicazione nell’antichità
cristiana ed un’arcaicizzazione della riflessione teologica presenti
nel secolo XVII, ma anche caratterizzanti la teologia del suo
ordine.
non è la 66, ma la 18: «Qui in oratione utitur imaginibus, figuris, speciebus et propriis
conceptibus, non adorat Deum in spiritu et veritate» (DS 2218).
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