Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi di Cassino
Programma Nazionale di Ricerca
INNOVAZIONI NEI SISTEMI LOCALI DI SVILUPPO
DELLA TERZA ITALIA:
INDICAZIONI PER NUOVE STRATEGIE DI GOVERNANCE
1
Nella copertina quadro di:
Raffaele Federici, Umoja, 1998. Acrilico su tela; Umoja è un termine Swahili
che indica le diverse identità, Collezione privata, Roma.
2
Creatività e Sviluppo locale
Scelte collettive e trasformazioni sociali
Studi di:
Francesco M. Battisti, Alban Bouvier
Sabina Curti, Martine Elzingre
Maria Caterina Federici, Fabrizio Fornari
Silvia Fornari, Rosita Garzi
Daniela Grignoli, Michel Maffesoli
Antonio Mancini, Albertina Oliviero
Christias Panagiotis, Marta Picchio
Domenico Secondulfo, Ruggero Villani
Francisco Lozano Winterhalder
Paolo Zurla
A cura di Maria Caterina Federici e Francesco M. Battisti
Edizioni di Sociologia
Lulu Press
New York 2006
3
Copyright © 2006 by Lulu Press, New York and by the Authors present in the volume
as far as their own writings are concerned.
All rights reserved.
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievalsystem or
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Requests for permission to reprint should be addressed to the editors: Francesco M.
Battisti, e-mail: [email protected] or Maria Caterina Federici, University of Perugia,
Italy.
Printed in the United States of America
ISBN 978-1-4303-0900-0
For Library Catalogues (ready for scanning):
Editors: Federici, Maria Caterina; Battisti, Francesco Maria
Other authors: Alban Bouvier, Sabina Curti, Martine Elzingre,
Fabrizio Fornari, Silvia Fornari, Rosita Garzi, Daniela Grignoli,
Michel Maffesoli, Antonio Mancini, Albertina Oliviero,
Christias Panagiotis, Marta Picchio, Domenico Secondulfo,
Ruggero Villani, Francisco Lozano Winterhalder, Paolo Zurla.
Title: Creatività e Sviluppo Locale.
Publisher: Lulu Press
Location: New York
Year: 2006
Edition: 1rst
Keywords: Development, globalization, cultural sciences, local culture, regional
planning, human resources, sociology, social planning, social processes, cities,
creativity, groups, industry, tourism, women, entrepreneurs, chocolate, jazz, music,
arts, artists.
4
Indice
M. CATERINA FEDERICI E FRANCESCO M. BATTISTI
Introduzione
9
MICHEL MAFFESOLI
La Sociologie comme connaissance de la socialité
17
MARIA CATERINA FEDERICI
Che cosa è la creatività o dove è la creatività ?
1.Introduzione
2.La creatività: un paradigma sociologico ?
3.La creatività e sviluppo locale
4. Il caso di Terni
5. I sogni della fabbrica
25
36
51
54
60
ALBAN BOUVIER
Choix rationnel, invention et innovation. Rationalité et irrationalité de
la collaboration interindividuelle et des engagements collectifs dans les
processus d’invention et d’innovation
67
1. Introduction
2. Trois types de questions:
I. Trois conceptions possibles de ce qu’est un choix rationnel
II. Innovation et invention comme moyens en vue d'autres fins
(ou d'autres « préférences ») dans une perspective rationaliste
individualiste et atomistique
III. Invention et innovation comme moyens en vue d’autres
fins ou comme fins en soi dans une perspective rationaliste
interactionniste et dans une perspective supra-individualiste.
(Coopération et engagements de groupe)
3. Conclusion
5
67
68
74
79
93
CHRISTIAS PANAGIOTIS
État européen et culture locale. Esquisse de la nouvelle
communication politique dans le continent européen
1. Les deux modèles d'organisation politique en Europe
2. Un nouveau modèle de communication politique européenne
3. Le printemps des communautés localesIntroduction
DOMENICO SECONDULFO
Creatività
97
98
99
101
105
1. Elementi generali del concetto
2. Devianza e creatività
3. Intelligenza e creatività
4. Follia e creatività
5. In conclusione
105
107
108
109
111
FRANCESCO MARIA BATTISTI
La creatività come processo sociale
115
1. Creatività ed identità individuale
2. L’intelligenza creativa
3. Gli ambienti sociali creativi
4. Gruppi e avanguardie culturali
5. La creatività nella progettazione industriale
6. Gli ambienti sociali ed urbani creativi
7. La creatività nel rapporto tra locale e globale
115
118
121
123
126
131
136
FRANCISCO LOZANO WINTERHALDER
¿Hacia Un Desarrollo Holísticamente Sostenible?
141
1. Presentación
2. El Universo y la vida - La paz con la naturaleza
1. Formamos parte de la naturaleza
2. Las etapas de la humanidad
3. El futuro de la vida - Justicia y paz
4. De la evolución biológica a la evolución ética
5. La cultura de la vida - La paz interior
1. Los colores de nuestro mundo
2. La cultura de la vida
6. Epílogo
6
141
142
143
144
145
146
146
147
148
FABRIZIO FORNARI
Grammatiche dell'immaginario e costruzione narrativa del
mondo: il punto di vista sociologico
151
1. Dal codice invariante all’intreccio testuale: l’unità perduta del
metodo scientifico
2. Conoscenza scientifica e teoria sociologica
3. La creatività nelle scienze sociali
4. Svolta linguistica e transazione tra codici simbolici: elementi
per una sociologia della narrazione
5. Metamorfosi del linguaggio e paradigma della coappartenenza
170
178
ROSITA GARZI
Nuove forme di lavoro nell'economia post-moderna. La creatività
a servizio della flessibilità
193
1. Introduzione
2. Nuovi modelli organizzativi e nuove forme di lavoro
3. Nuove forme di lavoro: flessibilità e creatività
4. Conclusioni
DANIELA GRIGNOLI E ANTONIO MANCINI
Sviluppo locale e identità
1. Premessa
2. I due diversi punti di vista dello sviluppo. Verso un punto di
equilibrio dello sviluppo attraverso il suo processo di
oscillazione nel tempo
3. Nuove prospettive di studio dello sviluppo
4. Sviluppo economico, capitale sociale e territorio
5. L’esperienza dello sviluppo locale in Molise
6. Un nuovo fenomeno socioeconomico: le “capitane” d’impresa
7. Le coordinate della ricerca
8. Osservazioni conclusive
151
159
165
193
196
199
204
209
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213
214
222
223
226
ALBERTINA OLIVERIO
L'individuo nell'era della globalizzazione. Genesi e descrizione del
tipo ideale dell'uomo 'ipermoderno'
229
MARTINE ELZINGRE
Vêtements et Parures: Arts et industries en sociétés. Origines et
variété. Ancrages et migrations
243
7
SILVIA FORNARI
L'elogio della creatività al tempo dei contratti a progetto
1. Considerazioni introduttive
2. La creatività
3. Le nuove forme economiche
4. Le nuove forme sociali
5. Il mercato delle opportunità
251
251
253
255
258
262
SABINA CURTI
UmbriaJazz, immaginario sociale e localismo postmoderno
1. Introduzione
2. Razionalismo moderno ↔ Nomadismo postmoderno: questioni
epistemologiche e metodologiche su “sviluppo locale e
immaginario”
3. Appunti per una teoria dell’immaginario sociale di
UmbriaJazz. Immaginario-Jazz Vs Immaginario-Pop
4. UmbriaJazz: un’esperienza estetica ed estatica del localismo
postmoderno?
5. A guisa di conclusione
MARTA PICCHIO
La “via del cioccolato” allo sviluppo locale. Aspetti economici,
socio-culturali e creativi della manifestazione EuroChocolate
Premessa
1. Eurochocolate: caratteristiche e dati
2. Gli sviluppi
3. Aspetti creativi
4. Considerazioni sociologiche
267
267
269
272
275
281
285
285
286
293
294
298
PAOLO ZURLA, RUGGERO VILLANI
Trasformazione dei distretti industriali e regolazione locale
1. Premessa
2. I distretti industriali
3. Profili di trasformazione dei distretti industriali
4. La regolazione locale dei distretti industriali bilire
Bibliografia generale (a cura di Silvia Fornari)
8
305
305
306
309
313
319
Introduzione
MARIA CATERINA FEDERICI E FRANCESCO M. BATTISTI
“Sono per noi contenuti della cultura in quanto li consideriamo alla stregua
di sviluppi potenziali di germi naturali e di tendenze, che superano la misura
dello sviluppo della pienezza e della differenziazione che sarebbe raggiungibile in base alla loro mera natura. Una energia o una disposizione di natura,
che certo devono esistere soltanto per essere superate dallo sviluppo reale,
costituiscono il presupposto del concetto di cultura”. Scrisse Simmel nel 1900
nella prima edizione della Filosofia del denaro. Ed è a partire da questa
riflessione che un gruppo di studiosi ha affrontato ed affronta con ottica altra e
diversa da quella economicista il tema della creatività e dello sviluppo locale
inteso come istinto delle combinazioni. Ma è anche a partire da una riflessione
ermeneutica che porta a non ricondurre il tema creatività alla tradizione latina
per cui creare è invenire, fabricare, reperire aedificare, ad creandum actus,
ma a connettere i saperi ed utilizzare la cultura e l’istinto delle combinazioni.
Il tema culturale costituisce la più importante e la più ricca delle conseguenze
fra le categorie scientifiche dell’umanità ed a partire da queste premesse che il
gruppo di lavoro coordinato da F.M. Battisti, M.C. Federici, E. Minardi, A.
Saporiti, prematuramente scomparso e di cui piace ricordare e sottolineare la
finezza metodologica e le rare doti umane, e P. Zurla ha preso le mosse per
superare un approccio datato di analisi dello sviluppo locale coniugandolo con
il tema della creatività intesa come istinto delle combinazioni. Il paradigma
alla base della ricerca si connette con lo sviluppo culturale e rende chiaro
come ciò, che un tempo accadeva inconsapevolmente ed istintivamente, oggi
accade per effetto di una chiara presa di coscienza e con consapevolezza: ciò
che è più antico diventa presente.
Questo libro ha origine non solo da una manifestazione di grossa rilevanza
culturale e politica che si è tenuta a Terni lo scorso autunno presso il corso di
laurea in “Scienze e Tecnologia delle Produzione Artistica” dell’Università
degli Studi di Perugia ivi delocalizzato che ha coinvolto quasi tutti gli attori
sociali più autorevoli della città, ma anche da una mutata considerazione di
due concetti, in precedenza non tenuti collegati: creatività e sviluppo locale.
L’opera si apre con una importante annotazione metodologica di Michel
9
Maffesoli che ci rende consci della polidimensionalità della società nella
quale viviamo.
«In diverse maniere, ci si rende conto che il sensualismo, la pregnanza
dell’immaginario, una concezione del tempo marcata dal senso del presente e
del tragico, dal relativismo intellettuale, tutto ciò pone l’accento sulla pluralità
degli aspetti della vita sociale e sul pluralismo degli approcci e dei suoi
aspetti. Sotto un’altra forma, più moderna, si può dire che l’unidimensionalità
del pensiero è inadatta a comprendere la polidimensionalità del vissuto».
Unidimensionalità del pensiero, ribadiamo con le nostre parole, quando si
intende la teoria scientifica come “dottrina” e si rifiuta il rapporto con il
gruppo umano e la vita quotidiana, che si rinnovano di giorno in giorno, nel
presente che tentiamo di studiare.
Unidimensionalità quando si manca, come nota Fabrizio Fornari in un
rilevante saggio metodologico contenuto in questo libro, di immaginazione
sociologica e di creatività scientifica; in altri termini di ripensare e ribaltare le
definizioni che vengono usate da decenni. Crescita oppure decrescita?
Sviluppo a tutti i costi oppure sostenibilità? Sistemi aperti, oltre allo sviluppo
anche a tutti i problemi sociali che questo comporta, compreso quello della
immigrazione, oppure sistemi controllati? Insostenibilità fino a giungere al
limite della catastrofe e del collasso delle infrastrutture civili, oppure
sostenibilità rispetto all’ambiente nel quale viviamo, storico e naturale allo
stesso tempo?
Il saggio di M.C. Federici mette a fuoco i paradigmi sociologici sottesi alle
riflessioni del gruppo di lavoro con l’intento di “decolonizzare l’immaginario
e deconomizzare i propri istinti”.
Fino a pochi anni fa, quando ancora si stava nel secolo scorso, si tendeva a
contrapporre i due concetti di “creatività” e “sviluppo economico”. Il primo
frutto delle bizzarrie individuali e di colpi di genio, di individualismo
incontrollato, il secondo opera di costante e pianificato fordismo, di una
impresa capitalistica razionale almeno nel perseguire i propri fini specifici. La
velocità del cambiamento culturale e la globalizzazione, che mette a confronto
le idee di tutto il mondo, ci costringono a pensare in termini originali ed a
bruciare le tappe per la realizzazione dei nostri progetti prima che siano
superati da iniziative che possono aver luogo in un altrove non ancora
specificato ma che sicuramente ci sarà. La componente creativa è vitale per la
trasformazione e l’innovazione; ma oltre la proposizione bisogna avere la
capacità manageriale di giungere alla realizzazione del progetto.
Il concetto di sviluppo implicava nello scorso secolo (ed implica ancora
adesso in molti paesi del Sud del mondo dove ha caratteristiche predatorie), la
“conquista della natura”, oppure il suo sfruttamento distruttivo per realizzare
un profitto produttivo e per fare spazio ad insediamenti urbani di frontiera dai
quali la natura vera (natura naturalis) è bandita in quanto ritenuta ostile e
10
pericolosa.
Oggi, costretti da livelli di inquinamento urbano e di degrado ambientale
sempre più elevati, lo sviluppo può avvenire come processo compatibile con
le caratteristiche del territorio e la sostenibilità garantita dall’ambiente
naturale. Questo concetto di sviluppo predatorio non è più ammissibile, e nei
paesi più urbanizzati si tende a contenere la devastazione ambientale
operando una integrazione territoriale tra natura ed habitat, conservando le
risorse rinnovabili, tra le quali la fertilità del suolo, la purezza dell’aria, la
potabilità dell’acqua. Ma non basta: il dialogo non viene stabilito solo tra
uomo e natura, ma anche tra uomini nella società, secondo modelli di
governance che debbono dare risultati a breve termine. La nostra situazione
sociale ed ambientale (compresa l’emergenza climatica) non ci permette di
rinviare troppo a lungo gli obiettivi, se non correndo gravi rischi.
Molti dei saggi contenuti in questo volume fanno riferimento al processo
di globalizzazione che mette in contatto ed in concorrenza tra loro le imprese
di paesi lontani, ed alla possibilità, offerta dai mezzi di trasporto più efficienti,
di trasportare e piazzare i prodotti in mercati lontani. Le articolazioni dei
rapporti di livello locale-globale meritano di essere approfondite, sotto la
sollecitazione di ripetuti episodi di cronaca. Gli scambi internazionali non
fanno altro che riflettere le mutate condizioni strutturali della popolazione che
abita i continenti del mondo. Anche nel Mediterraneo, la più grande città
costiera è oggi Alessandria/Cairo, piuttosto che Roma o Barcellona. Secondo
uno studio geografico di Christaller, per affermarsi nel mondo (essere
globale) la scala urbana dev’essere superiore ai cinque milioni di abitanti.
Invece, il livello “subglobale” si afferma da 4 a 1 milione di abitanti; a
discendere, la scala regionale si afferma da meno di 1 milione a 250.000
abitanti1.
Per quanto riguarda lo sviluppo locale basato su beni immateriali, come la
scienza e la cultura, l’effetto della globalizzazione provocato dai media, nel
passato la radio e la televisione, ma ormai prima fra tutti la piattaforma
digitale costituita da Internet, è di meraviglia, di confronto invidioso ed
antagonista, piuttosto che di ibridazione. La comunicazione provoca conflitto,
e poi – mediato il conflitto – eventualmente accettazione ed ibridazione. Solo
un livello di eduzione superiore, di “internazionalizzazione” o di spirito
“cosmopolita”, come affermava Robert K. Merton, permette una comprensione della innovazione che viene portata da altri, ed un suo utilizzo
intelligente. Il saggio di Alban Bouvier Choix rationnel, invention et
innovation. Rationalité et irrationalité de la collaboration interindividuelle et
des engagements collectifs dans les processus d’invention et d’innovation
1
Christaller, W. (1966), Central places in southern Germany (Tradotto da C. W.
Baskin), Englewood Cliffs: Prentice-Hall.
11
mette in evidenza i dilemmi che possono essere provocati sia dalla
innovazione, sia dalla invenzione, nel turbare gli equilibri precedenti, allo
stesso tempo economici e sociali.
Superato il problema della accessibilità del prodotto culturale, che viene
distribuito senza limiti posti dalle distanze, il problema della sua affermazione
riguarda una questione di informazione e di scelta, che possono essere basate
su molti motivi: la capacità culturale della utenza, l’associazione del prodotto
culturale a determinati tipi di utenza, la possibilità di diffusione attraverso le
reti sociali, politiche e religiose, la capacità organizzativa di creare eventi
culturali, la storia del paese di provenienza, la concentrazione di attività simili
nella stessa area sistema di mercato, ecc.
In questo contesto subentra l’importanza del fattore “creatività” del quale
si è parlato in precedenza. Se nell’antichità la creatività veniva considerata un
dono della divinità che ispirava il profeta, il comandante e l’artista, oggi la
creatività viene considerata sì un dono della natura, come l’intelligenza, ma
soprattutto una proprietà dei processi intellettivi di un gruppo organizzato, che
può essere coltivata seguendo strategie e metodologie collaudate. Nel caso di
prodotti unici ed irriproducibili, come le opere d’arte, la capacità creativa
viene ancora attribuita al genio dell’artista. La soluzione di altri problemi
complessi, collegati all’ingegnerizzazione delle scoperte scientifiche, alla
risoluzione di problemi tecnici complessi, allo sviluppo di prototipi industriali
ed alla applicazione di tecnologie biomediche, per fare un elenco non
completo delle istanze, implica il coordinamento della creatività di una
squadra di eccellenza che deve essere posto nelle condizioni migliori per
risolvere il problema. Paradossalmente, ciò sembra essere stato compreso più
facilmente negli ambienti di ricerca industriali, piuttosto che negli ambienti
universitari dove prevale un individualismo sconfitto prima ancora di iniziare.
Lo conferma anche Domenico Secondulfo in questo volume, “Dopo il
duemila con un concretizzarsi sempre più forte delle difficoltà economiche
del mondo occidentale ed in particolare dell’Europa, la creatività è diventata
una specie di ultima dea, alla quale rivolgersi e nella quale sperare per
risollevare le sorti delle stanche economie continentali, dimenticando spesso
che l’eventuale creatività ben poco avrebbe potuto fare in un contesto dove le
attenzioni infrastrutturali, gli investimenti sull’innovazione tecnologica e sulla
ricerca languivano da anni, ciò non toglie che la creatività sia stata
regolarmente chiamata in causa come salvagente cui attaccarsi nel mare della
crisi. Va infatti sottolineato con forza che le creatività non è soltanto una
lampadina che si accende sopra la testa di Archimede Pitagorico, ma è il
punto di intreccio di una serie complessa ed importante di fattori sociali,
culturali, politici ed economici, il cui peso non può essere trascurato ben al di
là della mistica individualistica e miracolistica che illumina questo concetto”.
Il ruolo della creatività esalta pure il ruolo delle nuove forze sociali che si
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profilano in questo mutato orizzonte. Christias Panagiotis nota che, “dopo
trenta anni di miserabilità politica, sia a livello nazionale e sia al livello
europeo, per forza delle cose, cioè, da un lato, a causa dell’immobilismo
politico e, dall’altro, a causa delle ambizioni personali dei nuovi principi,
sono state avviate le condizioni per una volta locale. Questa svolta sposta il
centro d’interesse, sia esso politico, sociale, culturale, o economico. Il
progetto di società globale, peraltro inesistente, è sostituito dal proliferare di
progetti di società locali, sempre nella speranza che questi progetti non siano
opposti gli uni contro gli altri e, nel timore del contrario, che ciò possa far
rivivere fantasmi del passato[...] Dopo duecento anni di repressione politica,
le comunità particolari rifioriscono nel loro patrimonio e nella loro cultura.
Ciò con l’aiuto dell’Europa, aiuto innanzi tutto politico-giuridico, che consiste
nei processi politici di autonomizzazione delle regioni a forte tendenza
indipendentista e risultato pubblico della maturità dell’idea che lo Stato
nazione, anche se non ha ancora i giorni contati, non è la sola forza ad
esercitare la piena autorità nel proprio territorio”.
Francesco M. Battisti esamina i vari usi sociali della creatività, da quelli
dell’intelligenza creativa del singolo ormai valutabile dalla neuroscienza, a
quella ottimale del gruppo intellettuale e di lavoro, fino ad arrivare alla
progettazione di ambienti urbani creativi che coinvolge una nuova
generazione di urbanisti.
Secondo Fabrizio Fornari “la societas appare, nella sua costituzione
ontologica, come il risultato, storicamente determinato, di costanti processi di
creazione, produzione e riproduzione di fatti istituzionali, che sussistono sulla
base delle credenze e dell’intenzionalità collettiva, nonché sull’effettiva
osservanza pratica delle regole e dei giochi linguistici che li costituiscono.”
“Separare ciò che tacitamente è confuso e confondere ciò che è apparentemente distinto diventa il compito di una sociologia che voglia fare del
racconto un modello di comprensione della stessa realtà sociale, interponendo
tra le forme simboliche delle nostre rappresentazioni sociali ed il linguaggio
di una sociologia priva di immaginazione – e quindi di teoria – quel filtro
creativo alla luce del quale la prassi diventa forma critica del mutamento
sociale”.
Rosita Garzi, esaminando le Nuove forme di lavoro nell’economia postmoderna. La creatività a servizio della flessibilità” nota come “Nella società
contemporanea sotto la triplice pressione della concorrenza del mercato,
dell’evoluzione delle nuove tecnologie e dell’aumento dei livelli di
competenza e di qualifica professionale, questo modello di relazione salariale
viene spazzato via e sostituito da nuovi e svariati modelli applicativi,
differenziati a seconda dei diversi sistemi economici, giuridici e sociali di
ogni nazione. L’organizzazione gerarchico – piramidale tipica del modello
fordista, si sgretola in favore di un’organizzazione per obiettivi sicuramente
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più moderna e adeguata”. Il nuovo modello produttivo, con tutte le sue
incertezze nella forma di sviluppo, prevede la dislocazione di interi settori
aziendali, e dunque la progettazione, gestione e organizzazione della
produzione per obiettivi di mercato. Ciò implica, oltre che ristrutturazioni
tecnologiche, anche grossi sacrifici da parte dei lavoratori che non possono
seguire queste dislocazioni.
Lo studio di Daniela Grignoli e Antonio Mancini esalta il nuovo ruolo
della imprenditoria femminile capace di svilupparsi non solo nelle grandi
città, ma anche nei piccoli centri, transitando da settori di attività economica
ritenuti marginali, come l’artigianato, a settori di crescente importanza produttiva come quello dei servizi e del turismo, ma avendo sempre come protagoniste le donne. “L’analisi sulla riorganizzazione del sistema economicoproduttivo molisano costituisce un importante elemento per comprendere il
fenomeno di crescenti politiche delle pari opportunità per le attività economiche. In questa ottica, il rinnovato modello del sistema economico
produttivo molisano suggerisce e promuove obiettivi prioritari quali quello
dell’inclusione socio-economica di categorie sociali deboli, le donne, ed il
conseguente aumento dell’occupazione attraverso lo sviluppo. Ciò detto, è
evidente che lo sviluppo di un territorio non può essere letto tradizionalmente
solo in chiave microeconomica, ma deve essere inserito in un sistema socioculturale. Infatti, a differenza di quanto accade nel sistema economico che
genera capitale economico e che da questo trae alimento, nel sistema socioculturale si ha una nuova prospettiva di analisi che muove dalla interazione tra
le persone e che dà vita al capitale sociale. Seguendo questo orientamento, nel
territorio si diffonde fiducia e lo si ri-costruisce in modo originale tanto da
creare caratteristiche peculiari del tessuto socioeconomico, che sono nel
contempo causa e conseguenza dello sviluppo”.
Silvia Fornari mette in evidenza che: “La trasformazione del mercato del
lavoro ha introdotto concetti nuovi che possono essere così riassunti:
flessibilità, lavoro atipico e deregulation. Gli effetti di questi tre elementi
strutturali stanno cambiando in Italia, e negli altri Paesi industrializzati il
profilo lavorativo richiesto dalle aziende per l’inserimento dei nuovi
lavoratori; così come si è determinata la nascita di nuove professioni. Negli
ultimi dieci anni del secolo scorso si è assistito al venir meno delle certezze di
ciò che si potrebbe definire il ‘recinto lavorativo’ costruito soprattutto in
Europa e in Italia, capace di garantire posizioni lavorative piuttosto fisse, con
diritti e doveri delineati. Il recinto si è dimostrato troppo rigido rispetto alle
esigenze di innovazione e ricerca che hanno portato le aziende a ridurre
drasticamente il numero del personale impiegato, preferendo investire in
nuove tecnologie”.
Altri casi studiati in questo volume, esaltano il successo della creatività
applicata non solo alla produzione industriale, ma alla organizzazione di
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eventi (fiere e feste) ai quali partecipano centinaia di migliaia di persone,
attratte sia dal gusto, sia dalla musica, sia dal desiderio di fuggire dalla routine
quotidiana.
Il saggio di Martine Elzingre, una delle maggiori esperte internazionali del
campo, ci apre gli occhi rispetto ai processi di trasformazione e di
innovazione che avvengono nella moda europea, che si svolgono sia nella
haute couture che nel prêt-à-porter di lusso.
Sabina Curti mette in evidenza come “UmbriaJazz sia un festival musicale
che nasce come motore dello sviluppo locale e che, contro ogni logica della
globalizzazione economica e razionalistica, rappresenta e testimonia
soprattutto l’esperienza estetica ed estatica del localismo postmoderno”.
Tuttavia, sottolinea la Curti, il festival nelle ultime edizioni più che fungere da
motore dello sviluppo locale, ha visto il locale delocalizzarsi verso il globale.
Marta Picchio ci descrive Eurochocolate che “è davvero un ‘fenomeno’
che di anno in anno continua a stupire e a suscitare interrogativi: per l’ultima
edizione di ottobre 2005 è stato stimato che quasi un milione di persone
abbiano raggiunto Perugia per visitare la kermesse, acquistare prodotti negli
stands delle oltre 130 aziende presenti, vivere la ‘festa’ nei suoi eventi
spettacolari e di intrattenimento, senza scoraggiarsi per le file da affrontare, la
difficoltà di trovare alberghi nelle vicinanze”.
Infine Ruggero Villani e Paolo Zurla rivolgono la loro indagine alla
organizzazione ed alla struttura dei distretti industriali. “In ultima analisi il
concetto di distretto industriale si incentra su due elementi strettamente
interrelati: una comunità di persone e una popolazione di imprese. La
comunità di persone condivide valori, comportamenti, aspettative e linguaggi
comuni. La popolazione di imprese si configura come una concentrazione di
imprese di piccole e medie dimensioni specializzate in uno o pochi settori di
attività complementari e in fasi diverse del processo produttivo”. Appare
sempre più rilevante per i distretti industriali la capacità di mettere in gioco
esplicite visioni strategiche e modalità di governance condivise al fine di
riprodurre i fattori economici e sociali alla base del proprio successo
competitivo. Il localismo è inteso come percezione distorta dell’equilibrio,
necessario allo sviluppo del sistema produttivo locale, fra le risorse derivanti
dai flussi economici globalizzati e quelle del territorio, a favore di queste
ultime.
I lavori qui presentati testimoniano la fertilità dei temi di ricerca che sono
stati intrapresi e la loro pressante attualità. Gli autori si augurano che esso
possa servire da stimolo per ulteriori riflessioni che vedano convergere
approcci diversi intorno all’analisi di una epocale e creativa trasformazione.
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La Sociologie comme connaissance de la socialité.
MICHEL MAFFESOLI
Professeur à la Sorbonne
Directeur du Centre d’Étude sur l’Actuel et le Quotidien
Directeur du Centre de Recherche Sur l’Imaginaire
L’effervescence épistémologique perceptible dans nos disciplines est
certainement l’indice le plus net des divers glissements à l’œuvre dans les
sociétés contemporaines. Il est inutile de revenir sur la saturation des grands
systèmes explicatifs, c’est maintenant chose admise. Par contre coup, cela a
fragilisé les grandes certitudes méthodologiques et les grilles de lecture
préétablies que l’on appliquait, a priori, à quelques situations sociales que ce
soit. Peut-être faut-il en venir à ce que Goffman appelait les « miniconcepts », et qui sont aussi éphémères que les objets auxquels ils
s’appliquent. Pour ma part, et dans une perspective purgative, j’ai conseillé,
fidèle à l’esprit simmélien, de s’en tenir à une analyse des formes. Il me
semble que la sociologie formiste (La Connaissance ordinaire, ch. IV) est en
congruence avec la labilité de la vie sociale : sans ce prononçait sur ce qui
devrait être, elle se contente d’épiphaniser ce qui est. C’est cela, en bout de
course, le grand intérêt de cette mise en perspective, qu’est la sociologie
approche de la socialité : intégrer dans et par la connaissance ce qui est au
plus proche ; « inventer » ( dans le sens latin « in-venire), faire ressortir tous
ces fragments, ces situations minuscules, ces banalités qui, par sédimentation,
constituent l’essentiel de l’existence. Il y a là un enjeu épistémologique non
négligeable, celui de nous introduire au cœur même des formes de la socialité
qui sont en train de naître, au cœur de ce nouveau rapport à autrui, qui
bouscule le nombre de nos manières de penser, au cœur de ce que j’appellerai
la logique du domestique.
Il faut en effet insister sur le fait que c’est l’expérience commune, en tant
que mouvement fondateur, qui est le véritable moteur des histoires humaines,
a fortiori lorsque l’on considère cette banalité quotidienne qui, on ne le réptera
jamais assez, est l’essentiel de la trame sociétale. En effet, il ne faut pas
17
oublier que l’expérience est le corollaire du vécu, qui tout au moins pour le
sociologue, ne peut être envisagée que d’un point de vue social.
Mais avant d’aborder de front l’importance que l’on peut attribuer à la
socialité, il faut encore dire un mot sur un problème qui est conjoint à celui de
l’expérience, c’est celui du polythéisme. De diverses manières, l’on se rend
compte que le sensualisme, la prégnance de l’imaginaire, une conception du
temps marquée par le présent et le tragique, le relativisme intellectuel, tout
cela met l’accent sur la pluralité des aspects de la vie sociale et sur le
pluralisme des approches de ses aspects. Sous une autre forme plus moderne,
on peut dire que l’unidimensionalité de la pensée est inapte à comprendre la
polydimensionalité du vécu.
Il est des périodes où une société (un ensemble de sociétés) fonctionne en
référence à une valeur dominante. Il est en est d’autre qui semble maintenir en
concurrence des valeurs différentes, « contradictorielles ». Dans le premier
cas, ce sont des moments actifs, conquérants, qui ont besoin d’une idéologie
unifiée, d’un corpus doctrinal directement efficace, intellectuellement ils
privilégie le concept. Dans le deuxième cas, ce sont des périodes plus
lascives, plus passives où l’accent est moins mis sur l’extension que sur
l’intensité, rétrécissement de l’espace, mais approfondissement des relations,
dès lors, il est possible de faire fonctionner une pluralité de valeurs.
Pour reprendre la distinction de W.Worringer, on vient de poser
l’antinomie de l’Abstraction et de l’Einfülhung ( empathie) . Naturellement,
aussi exclusive que soient ces catégories, elles se contaminent fréquemment .
Ainsi, très souvent , sous un monothéisme de façade, ont pu se cacher des
pratiques et des modes de pensée parfaitement polythéistes ; à cet égard le
catholicisme populaire est un exemple de choix . De même, il y a souvent au
sein des périodes polythéistes des grandes travées monothéistes qui gardent
cohérence et occupent une place invisible . On peut ainsi supposer dans les
décennies hédonistes qui s’annoncent, que si la forme économique n’a plus
une situation hégémonique, elle n’en sera pas moins négligeable . Ce qui est
certain pour le propos qui nous occupe, c’est qu’une attention à la vie
quotidienne voit à la fois ressurgir le syncrétisme religieux et le polythéisme
des valeurs. Le rapport intuitif à la nature tend à conforter ce processus et, à
coup sûr, le débat intellectuel ne peut plus l’ignorer1. C’est cela même que
l’on appelle un enjeu épistémologique. Il est bien évident que cette
perspective s’inscrit dans la tradition relativiste qui a de nombreuses
ramifications théoriques . Pour notre discipline, elle prend rang dans la lignée
illustrée par G. Simmel et M. Weber. Pour ce dernier, il est nécessaire de
reconnaître avec lucidité que l’existence sociale repose sur une lutte
1
Cf . W. Worringer, Abstraction et Einfülung, Paris, Klincksieck, 1978, p. 76. Cf. aussi M.
Augé, Le génie du christianisme, Paris, Gallimard, 1982.
18
inexpiable, entre différents ordres de valeurss. La guerre des Dieux, telle que
nous la rapporte la mythologie grecque peut ainsi servir, sinon d’explication,
du moins d’illustration à l’antinomie des valeurs. Chaque dieu du Panthéon
cristallise en quelque sorte une caractéristique, un ensemble d’attitudes, de
pratiques et de désirs qui se vivent et se mettent en scène dans l’existence
quotidienne. Il existe, dès lors des polarités qui regroupent attitudes et
sentiments, et qui, dans leurs tensions conflictuelles, constituent toute
structuration sociale. On trouve de nombreux textes où Max Weber revient
sur l’idée de polythéisme des valeurs, c’est d’une certaine manière un
leitmotiv chez lui. Mais il en est un qui caractérise admirablement cette
ensibilité intellectuelle et qui mérite d’être cité in extenso : « S’il est une
chose que de nos jours nous n’ignorons plus, c’est qu’une chose peut être
sainte non seulement bien qu’elle ne soit pas belle, mais encore parce que et
dans la mesure où elle n’est pas belle. Vous en trouverez les références au
chapitre LIII du Livre d’Isaïe et dans le psaume 21. De même, une chose peut
être belle, non seulement bien qu’elle ne soit pas bonne, mais précisément par
ce en quoi elle n’est pas bonne. Nietzsche nous l’a réappris, mais avant lui
Baudelaire nous l’avais déjà dit dans Les Fleurs du Mal, c’est là le titre qu’il a
choisi pour son oevre poétique. Enfin, la sagesse populaire nous enseigne
qu’une chose peut être vraie, bien qu’elle ne soit et alors qu’elle n’est ni belle,
ni sainte, ni bonne. Mais ce ne sont les que les cas les plus élémentaires de la
lutte qui oppose les Dieux des différents ordres et des différentes valeurs »2.
Ces lignes reflètent à la fois un relativisme profond et un amour de la vie
indéniable. En tous cas, c’est parce qu’il accentue cette lutte des dieux et des
valeurs, que Max Weber affirme, dans la même page, que « lorsqu’on part de
l’expérience pure on aboutit au polythéisme ».
C’est parce qu’il y a de l’hétérogène et de la tension entre des systèmes
différents qu’il y a de la vie. Il n’y a donc pas lieu de s’étonner que cette
hétérogénéité vitale nous renvoie à des différences d’interprétations3. Mais, il
faut bien reconnaître que c’est la sensibilité intellectuelle mettant l’accent sur
la vie, sur l’expérience, (j’ajouterai sur le banal et le tout venant) qui
accentuera d’avantage la pluralité des raisons et des sensations. L’expérience
et le comparatisme sont liés, ils sont tou deux causes et effet du pluralisme
sociétal qui de plus en plus, et de manières multiples, marque de son
empreinte la vie des sociétés. Il est presque lassant de le redire, mais de
quelque côté que l’on se tourne, c’est le collectif en actes, les regroupements
divers (sportifs, musicaux, sexuels, associatifs, réseaux, tribalisme) qui
reviennent sur le devant de la scène. L’accentuation de l’expérience vitale
induit ce que j’ai appelé la socialité émotionnelle.
2
M. Weber, Le Savant et le politique, Paris, Plon, 1959, p. 93.
Cf. à ce sujet G. Durand, L’âme tigrée, les pluriels de psyché, Paris, Denoël, 1980, p. 66.
Ou C. Lévi-strauss, Le regard éloigné, Paris, 1983, p. 15.
3
19
Il est constant lorque l’on parle de la vie quotidienne, de considérer qu’il
s’agit d’un repli sur soi, d’un rétrécissement idéologique, presque d’un « nonvouloir » social, bref le signe de ces fatigues civilisationnelles
caractéristiquent de toutes les décadences. On peut dire au contraire que
l’expérience et le relativisme qui, ainsi que je l’ai dit, semblent reprendre
force et vigueur, renvoient à une mise en commun, à un sentir en commun. Il
suffit d’ailleurs, à un premier niveau, de rappeler que l’attention portée au
quotidien accentue les gestes anodins qui constituent la vie de nos rues, de nos
marchés, qui structurent cette vie sans qualité, trop souvent tenue pour
insignifiante, et qui pourtant est bien le « résidus » (V. Pareto), autour duquel
s’articule dans son sens plus large, l’échange social. Or, l’analyse montre bien
que ces gestes relèvent de l’être-ensemble. Ils en sont la cause et l’effet, ils
dépassent la subjectivité en tant que catégorie métaphysique ou l’individu en
tant que catégorie politico-socio-économique. Faut-il le rappeler, une des
caractéristiques que W. Worringer attribuait à l’Einfühlung était le besoin de
dessaisissement de soi (Selbstentaüsserung), « se dessaisir de l’être
individuel »4, est toujours la propédeutique pour rentrer dans ce que j’ai
appelé « ordre confusionnel ». La perte du corps propre dans le corps
collectif, soit métaphoniquement, soit stricto sensu semble être la
caractéristique de la communauté sensible ou affectivequi prend le relai de la
« société » purement utilitaire. Le symbolique (sunbolein) est à cet égard
l’outrepassement du pur rationnel.
Dans le devenir cycliques des formes sociales, politiques ou religieuses, et
sans qu’il soit possible de donner une cause unique au remplacement de l’une
par l’autre, on voit se succéder des structurations individuelles/rationnelles, et
d’autres qui sont sociétales/affectuelles. Il s’agit là naturellement de
catégories qui ont pour seul ambition la mise en perspective. C’est-à-dire que
c’est à partir de leur éclairage que l’on peut comprendre les situations, les
pratiques, les représentations, des fictions qui seraient sans cela
incompréhensibles. Ainsi, pour ce qui regarde notre époque, on peut postuler
la prédominance du sociétal (plus trivialement du tribal) sur l’individuel. Il est
d’ailleurs possible que ce soit cette accentuation qui justifie mon assertion qui
voit dans la sociologie, l’idéologie de notre époque. En effet, et l’on peut
encore s’abriter derrière Max Weber : « l’identité n’est jamais, du point de
vue sociologique, qu’un état de choses simplement relatif et flottant »5. Il est
certain qu’ à la différence de la philosophie, de la psychologie, ou même de
l’économie, c’est moins l’individu ou le rassemblement contractuel et
rationnel des individus qui intéressent le sociologue, que la masse en tant que
telle, avec les caractéristiques spécifiques qui sont les siennes.
4
5
W. Woringer, op. cit. / 58.
Max Weber, Essais sur la théorie de la science, Paris, Plon, 1965, p. 360.
20
Le rapport à l’altérité, « l’orientation vers l’autre » de la phénoménologie
sociologique, ne serait plus l’épiphénomène issue d’une idéologie humaniste
et que l’on pourrait tenir pour quantité négligeable, mais bien la structure
essentielle de toute vie en société. Banalité, pourra-t’on rétorquer ; mais
comment expliquer que cette socialité n’entre pas (ou peu) dans l’appareillage
conceptuel des producteurs de théories sociales ? Dans la mesure où la
sociologie de la vie quotidienne est moins un objet qu’une lecture transversale
des divers moments qui structurent une société, on peut faire ressortir que ce
que j’appelle la socialiité est une catégorie nécessaire, tout au moins dans la
situation sociale qui est la nôtre actuellement. S’inspirant de toute la tradition
phénoménologique, A. Schütz a su, avec une grande pertinence, lier
l’expérience et l’altérité. En particulier à partir de l’analyse de ce qu’il appelle
« l’orientation-vers-le-Tu » (Du-Einstellung). C’est cette expérience d’autrui,
expérience de son vécu au travers du mien qui fonde la compréhension des
différents « mondes » constitutifs d’une période donnée. Ainsi en reprenant la
classification de Schütz : le monde des contemporains (Mitwelt), le monde des
prédécesseurs (Vorwelt), le monde des partenaires (Umwelt)6, tout cela
constitue le monde vécu, cause et effet de toutes les situations sociétales.
Cette « orientations vers autrui » est naturellement dans la perspective
« formiste » que j’emploie ici, une forme pure ; substrat de l’être-ensemble,
elle conditionne les divers investissements que l’on peut onserver. C’est en
effet en fonction de ce que Schütz appelle « l’Erlebnisnähe », la proximité à
partir de l’expérience vécue, que se constitue la tribu, qui est déterminant
pour notre analyse. Ce groupe, pourra être le « nous » fusionnel, le
rassemblement auquel on adhère par idéologie ou par besoin de protection, il
peut être le conglomérat productif ou l’association créée en vue d’une action
rationnelle. Les recherches spécifiques pourront faire ressortir leurs diverses
caractéristiques ponctuelles, mais avant cela, il faut bien insister sur leur
condition de possibilité, à savoir ce qui pousse vers l’autre. Pareto en avait fait
un de ses résidus, il s’agit bien d’une structure de base qui, quelque soit le
nom qu’on lui donne, se retrouve dans toute action sociale. Tous ceux qui ont
insisté sur l’aspect concret ou expérimental du donné social, n’ont pas
manquer de souligner le rôle fondateur de cette « co-existence »7. Étant
entendu, évidemment, que celle-ci se retrouve aussi bien dans la simple
sociabilité, que dans les formes érotiques intenses ou dans l’effervescence
conflictuelle. La sympathie sociale, (Max Scheler) ou, ce que j’ai appelé
l’empathie traduisent d’une manière plus ou moins intuitive l’expérience
vécue collectivement. Le tripode constitué par l’expérience, le collectif et le
vécu, peut être gros de conséquence pour le renouvellement méthodologique
6
Cf. l’analyse qu’en fait R. William, Les fondements phénoménologiques de la sociologie
compréhensive : A. Schütz et M. Weber, La Haye, Martin Nijhoff, 1973, p. 78-85.
7
Ainsi K. Manheim, Sociologie et utopie, Paris, Éd. M. Rivière, 1956, p. 127.
21
en sociologie, en particulier à partir de l’approche biographique, plus
spécifiquement celle qui concerne les groupes primaires.
Il faut cependant bien faire remarquer que l’analyse de la socialité qui est
induit par ce que l’on vient de dire, ne peut être compréhensible que si l’on
accepte de remettre en question quelques concepts clefs de la sociologie
classique, concepts introduits par Durkheim et qui sont les bases intouchables
de notre discipline. Il s’agit de tout ce qui a trait à l’organique et au
mécanique. Pour reprendre une remarque que j’avais formulé il y a quelques
années, je pense que l’on peut carrément inverser ces termes : en effet, en
nous appuyant sur les travaux récents d’anthropologues et d’historiens, il
semblerait que l’organicité fonctionnelle d’un tout ordonné soit un des
caractères majeur des sociétés traditionnelles, alors que ce qui prédomine dans
nos sociétés de type économique où règne l’atomisation, c’est le calcul
présidant aux relations, ce qui peut renvoyer au mécanisme. On peut dire, en
effet, que la solidarité organique est possible dans la mesure où la personnalité
individuelle se perd, est absorbé dans l’organisme collectif, alors que la
solidarité organique ne dépend que du « bon vouloir » de la décision d’une
personnalité typée. Nous inversons ainsi la définition donnée par E. Durkheim
(De la division du travail social, Éd. Félix Alcan, 1926, chapitres II et III, et
plus précisément p. 101). Il semblerait que ce soit le caractère « inconscient »
de l’organicité traditionnelle qui ait choqué le rationnalisme de Durkheim8.
Tout ce que l’on peut dire sur la socialité trouve là son point de départ : il
est nécessaire de repenser le thème de l’organique. La perdurances de formes
et de situatons archaïques, le « réenchantement » du monde que l’on peut
observer, un certain sensualisme et surtout, l’accentuation du local, trouvent là
leur origine. Et le développement technologique ne vient nullement battre en
brêche ce processus, au contraire, il peut lui servir d’adjuvant.
Ainsi faut-il trouver des définitions provisoires ou relativistes, des
définitions qui soient liées à l’expérience, qui l’accompagne en quelque sorte
plus qu’elles ne l’emprisonnent. D’une manière ou d’une autre, nombres de
philosophes ou de sociologues ont insisté sur le fait qu’il y a une pré-saisie de
l’environnement qui conditionnait l’action humaine. C’est le grand thème de
la sagesse populaire ou du bon sens, ce que j’ai appelé la « coenesthésie
sociale », que l’on peut reconnaître comme étant un élément structurel de
l’équilibre que l’on est bien obligé d’observer dans la vie des sociétés.
Trivalisée dans la discussion du Café de Commerce ou dans le « parler pour
ne rien dire », cette sagesse n’en reste pas moins une aide de choix dans
l’affrontement au destin, au temps qui passe, dans les liaisons affectives ou
« sympathiques », dans le rapport à la mort. Il s’agit là naturellement des
8
Je renvoie à mon analyse, M. Maffesoli, La violence totalitaire, (1979) .réed DDB 2000.
p. 210, note 1.
22
catégories générales, mais qui ne manquent pas de se diluer dans les créations
minuscules du quotidien. C’est-à-dire tout l’intérêt que le sociologue doit
porter à ce « sens-commun » dans son élaboration théorique. Schütz insite
pour qu’il y ait un rapport constant, un va-et-vient permanent entre le « stock
de connaissances » à la disposition des individus et les constructions
intellectuelles. Ainsi pour lui, « les concepts construits par le sociologue, en
vue de saisr (la) réalité sociale, doivent s’appuyer sur le sens-commun des
hommes vivants dans le monde social »9.
Sans jeu de mot, si on s’accorde sur l’hypothèse de l’organicité de la vie
sociale, ainsi que je viens de le proposer, il est nécessaire que la production
intellectuelle soit liée d’une manière organique à son substrat. À l’expérience
du monde qui est vécue collectivement, répond l’expérience de la pensée qui
ne fait que souligner tel ou tel trait, qui le compare avec d’autres, qui le met
en image ou le métaphorise ; en bref, l’attitude idéaltypique qui peut s’exercer
diachroniquement ou synchroniquement. Mais la crainte de la « sociologie
spontanée » a suffisamment marquée notre discipline pour qu’il soit
nécessaire d’insister sur l’efficacité propre de la socialit de base.
Ainsi, à l’opposé de ceux qui continuent à voir le social comme étant issu
d’une détermination économico-politique, ou encore à l’encontre de ceux qui
le voient comme le résultat rationnel, fonctionnel ou contractuel, de
l’association d’individus autonomes, la thématique de la socialité rappelle que
le monde social, « taken for granted » (A. Schütz), peut se comprendre
comme étant le fruit d’une interaction permanente, d’une réversibilité
constante entre les divers éléments de l’environnement social, à l’intérieur de
cette matrice qu’est l’environnement naturel.
Dans un telle perspective, l’homme maître et acteur de son histoire ou de
l’histoire sociale, laisse la place à l’homme qui « est agi », à l’homme qui se
perd dans la masse. Il s’agit de prendre au sérieux la désaffection vis-à-vis des
divers activismes qui marquèrent la modernité (politique, productive), ce que
l’on peut traduire de la manière suivante : ce qui ne dépend pas de nous
devient indifférent. D’où également la diffusion de ce que l’on peut appeler
une « esthétique de la réception » (Jauss). La mode, l’hédonisme, le culte du
corps, la prévalence de l’image, devenant les formes d’grégations sociétales.
J’ai tenté de résumer ces indices dans la métaphore du dionysiaque10.
Certains continuent à voir dans « l’ombre portée » de Dionysos sur nos
mégalopoles quelque chose de peu sérieux. Et pourtant, nombreuses sont les
manifestations (musicales, sportives, consommatoires) sociales qui plaident
en ce sens, à savoir le développement de ce que l’on a pu appeler « les formes
sensibles de la vie sociale ». C’est bien que se trouve le secret de toute
9
A. Schütz, Collected papers, La Haye, M. Nijhoff, p. 59.
M. Maffesoli, L’ombre de Dionysos, contribution à une sociologie de l’orgie (1982) Le
Livre de Poche 1991, ou Au creux des Apparences (1990) Le Livre de Poche 1995 .
10
23
socialité, et le nouveau défi pour notre discipline. Coment lier connaissance et
socialité.
24
Che cosa è la creatività o dove è la creatività?
M. CATERINA FEDERICI
Università degli Studi di Perugia
Facoltà di Scienze della Formazione
Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione
P.zza Ermini, 1 – 06123 Perugia (Italy)
[email protected]
1. Introduzione
Lo sviluppo è stato una categoria sociologica legata alla politica economica e all’economia tout-court. La storia dimostra che spesso le infrastrutture accompagnano piuttosto che non precedono lo sviluppo stesso. La
formazione del capitale è sicuramente un aspetto essenziale dello sviluppo
capace anche di collegare e nutrire l’intreccio e la contraddizione tra comunità e business community.
Questa sottolineatura, teoria fondata sull’esperienza che va oltre
l’esperienza per utilizzare il linguaggio paretiano, non è evidentemente
volta a suggerire che il cambiamento sociale non è sempre imprevedibile
ma soltanto che una società, in un certo momento tende, al di là di eventuali concomitanze strutturali e tradizioni storiche, a comporre un sistema
singolare. Ne risulta che l’incontro di serie indipendenti gioca un ruolo incontestabile.
La distinzione fondante è talvolta ancora presente oggi tra gli economisti che lasciano ai sociologi gli incanti e le curiosità del funzionamento economico, tra l’ordine economico retto dalla logica “efficiente” del mercato e diretto dalle condotte logiche e l’ordine incerto, mutevole del sociale,
abitato dalle azioni non logiche delle abitudini, delle credenze, dei pregiudizi, dei costumi, delle tradizioni porte all’ibridazione delle due discipline
separate alla nascita. Gli studi sociologici dei fenomeni d’innovazione restano relativamente rari nella nostra società eccetto quelli meramente mirati alla tecnologia. Kenniston aveva ragione di scrivere che la più parte degli studi sull’innovazione si concentra sul mondo primitivo o su qualche
25
segmento relativamente piccolo della società moderna (Kenniston 1962, p.
146).
Pareto, Durkheim, Weber e Simmel hanno creato una scienza sociale
che analizza le strutture, gli atti sociali, la loro disposizione in forma di costruzione. Inoltre il razionalismo è stato il brodo di coltura della società
moderna industriale. La pura intellezione può muoversi solo tra superlativi
assoluti, in un mondo geometrico che non è il mondo reale.
Il moderno razionale disprezza lo spontaneo e lo storico, costruisce un
futuro naturale e non altri: salva la ragione e annulla la vita (Ortega y Gasset). La ragione è un bene che non può prevalere ma spesso la riflessione
moderna è avulsa dal contesto della vita in senso simmeliano. La storia si
configura Magistra Vitae nella misura in cui riporta alla memoria gli errori
e impedisce che si dimentichino. Ancora oggi si sente ripetere la domanda
che si fece Pareto nel 1920 ”Sinteticamente e allentando alquanto il freno
della fantasia, andiamo incontro ad un nuovo Medio-Evo oppure a nuovi
tempi di prosperità mercantile o industriale?”.
La crisi della modernità ha messo in discussione il paradigma dello sviluppo tra locale e globale e la conseguente caduta dello schema unico
(M.C. Federici 2003).
Il processo di sviluppo non può essere guidato esclusivamente dal mercato come dimostrano molte realtà nel mondo, per es.: ex URSS. Il problema si pone in termini sociologici, tra identità e alterità, in termini di relazione positiva, ego e alter, in termini di libero gioco tra intelletto e immaginazione, anche in termini di piaceri relativi all’esperienza del bello.
La soggettività (“Io sono ciò che sono non quello che gli altri dicono
che io sia”) tenta di decifrare la complessa genesi delle relazioni sociali, a
tutto tondo.
L’itinerario sociologico del ‘900 cerca di individuare e comprendere la
genesi e gli sviluppi dell’individualità moderna. Già Tocqueville scriveva:
“L’esperienza mi ha provato che in quasi tutti gli uomini, in me certamente, si torna sempre ai propri istinti fondamentali e che si fa bene soltanto
ciò che è conforme ai propri istinti”. “Decolonizzare l’immaginario, deconomizzare gli spiriti” dice Serge La Touche, uscire dal dispotismo
dell’economia e mettere al centro della vita gli essere umani, significati
diversi rispetto a quelli dell’espansione della produzione e del mercato
(“più” è uguale a “meglio”?).
Come ha sottolineato già Cornelius Castoriadis, il capitalismo è il
dominio dell’immaginario economico in cui il mercato, il consumo, lo
sviluppo diventano la base di ogni scelta, di ogni progettualità, in una gara
della crescita per la crescita. Del resto l’attuale crisi dei modelli di
sviluppo pone molte domande: il bene è scientia rerum e il male rerum
imperitia?
26
Negli ultimi anni emerge un fiume carsico di azioni sociali che, anche a
fronte di una evidente crisi economica e istituzionale, privilegia il “noi”
rispetto all’”Io”, il noi del volontariato, della reciproca assistenza, della
familiarità del borgo rispetto all’anonimato delle metropoli, il noi della
convivialità, dei comportamenti virtuosi in ordine alle scelte e al consumo
dei cibi, alle condotte a rischio, agli stili di vita, al turismo.
Valori non economici che da un lato esprimono il rifiuto a sacrificare la
propria esistenza al mito della crescita che classifica le persone solo come
produttori e consumatori, dall’altro si prende atto di non poter controllare o
modificare l’andamento ormai finanziario e globalizzato dell’economia
fonte di un consumo come azione sociale non più soddisfacimento di un
bisogno ma mezzo di produzione e ri-produzione: le merci hanno “bisogno” di essere consumate e se questo “bisogno” non è, non può essere
spontaneo, se ne produce l’effetto.
Sotto l’imperativo categorico della crescita, il lavoro è l’azione meramente economica, non più percorso di identità, di ruolo, di cultura, di formazione, di integrazione, di adattamento. Soltanto l’economia si configura
in grado di dare espressività alle persone che hanno questo unico orizzonte
di senso, “il fare produttivo”.
Così il lavoro, che non ha altre finalità che concorrere all’incremento
globale della produzione, non è più il luogo in cui l’attore sociale si realizza nell’incontro con l’altro, mette alla prova le sue capacità, le sue ideazioni in senso simmeliano, attua la sua progettualità.
Nella società industriale, il lavoro è meramente il luogo in cui l’attore
sociale dà prova della sua strumentalità, della sua capacità adattiva alla
tecnica e alla tecnologia che si potenzia in un continuum di apparati che
non hanno alcuna attenzione alle persone.
Il lavoro come produzione ha come finalità la sua crescita esponenziale
senza ragione e senza perché ed anche senza incremento di occupazione,
che anzi infligge limitazioni e ferite all’individuo, fa crescere insoddisfazioni inquiete.
Bauman osserva che il valore del lavoro sembra perdere quella tangibilità che aveva contraddistinto il passato e questo cambiamento sembra avere un significato pregnante se, con il concetto di fluidità, esso finisce per
caratterizzare la fase storica attuale. Parlare dell’allontanamento del capitale dalle sue “fattezze” fisiche tradizionali non sembra una questione di poco conto: mettendo in gioco lo stesso concetto di modernità e la società
tutta che lo esprime. L’intangibilità del capitale cosiddetto emergente nelle
sue specificazioni di capitale culturale, sociale, economico ed intellettuale
travalica i confini della produzione per interessare direttamente la realtà
sociale largamente intesa. Una osservazione così complessa nel passaggio
27
dai “Trenta Gloriosi” ad oggi sembra richiedere un generale riorientamento anche epistemologico.
I “Trenta gloriosi” sono una espressione di Jean Fourastié, elaborata
anche da Alain Touraine, per designare il periodo di crescita forte e regolare osservato tra la fine della Seconda Guerra mondiale e il 1973-75 in Europa. L’espressione fa riferimento alle Tre Gloriose giornate del 1830 contro la Restaurazione. Jean Fourastié ha osservato che questa crescita ha generato profondi cambiamenti nel livello e negli stili di vita. È durante questo periodo che avviene in Italia il cosiddetto “miracolo economico”, che
indica gli anni dal 1956 alla fine degli anni sessanta, gli anni del boom; fu
il “Daily Mail” a parlare il 23 maggio 1959 di “miracolo economico”. Il
periodo si caratterizza per una crescita del reddito medio per abitante, del
tasso di accumulazione, del settore industriale, per una apertura
dell’economia verso l’esterno, per una notevole stabilità monetaria, con un
sostanziale equilibrio della bilancia dei pagamenti. L’Italia acquista in
questo periodo i connotati di un’economia aperta, industriale, esportatrice
di manufatti. Quel periodo fu in realtà contrassegnato anche da profondi
squilibri di natura strutturale che l’intensa crescita non ha cancellato e che
anzi hanno portato, all’inizio degli anni sessanta, all’arresto dell’espansione e alla crisi degli anni successivi. Fra gli aspetti negativi legati al periodo del miracolo economico vanno segnalati il dualismo nella struttura
industriale fra settori esportatori e settori rivolti al mercato interno, il ritardo tecnologico, la forte emigrazione, le sperequazioni nella distribuzione
del reddito, le incongruenze nella struttura dei consumi, il permanere
dell’arretratezza del Mezzogiorno, le inefficienze della spesa pubblica, la
disordinata urbanizzazione. L’industria italiana, non essendo mai riuscita a
realizzare una elaborazione tecnologica autonoma è rimasta esclusa dai
settori più innovativi, limitando la propria presenza ai settori produttivi
ormai consolidati e diffusi, nei quali le imprese riuscivano ad affermarsi
solo perché godevano di un regime di salari più basso rispetto agli altri paesi. Tuttavia, nonostante i problemi strutturali, nei “Trenta gloriosi” l’Italia
ha attraversato un momento di grande slancio.
Il fattore scatenante dell’effervescenza di quegli anni è il fattore lavoro
anche nella realtà locale. Dai dati statistici relativi al territorio del comune
di Terni, città scelta come case study della ricerca in corso, dagli anni sessanta ad oggi, coniugati e sovrapposti alle immagini cinematografiche ed
alle sceneggiature che hanno visto la città protagonista nel tentativo di individuare la composizione e la struttura del capitale sociale locale, si evince che il capitale sociale si origina dalle relazioni che vengono stabilite
all’interno di un gruppo sociale: è il valore che nasce dal sistema di relazioni costruite dall’attore sociale e che moltiplica gli effetti dell’azione individuale, sia collettivamente, sia individualmente. Il capitale sociale è un
28
vantaggio netto per la comunità: perché il suo valore si aggiunge alla
somma dei valori che, ciascuno singolarmente, sarebbe capace di generare.
La costruzione della variabile di senso civico è stata realizzata sulla base
degli indicatori scelti da Putnam per studiare il ruolo che il capitale sociale
ha rivestito in Italia nel determinare diversi livelli di rendimento istituzionale. Putnam ha costruito un indicatore ricorrendo all’analisi fattoriale di
variabili diverse; il modello sembra così aprirsi all’osservazione della civicness, una osservazione che sembra estendibile anche ad altre attività.
All’uscita dalla stazione ferroviaria, luogo di transito per eccellenza,
nella città di Terni passa non proprio inosservato un monumento sui generis. Si tratta di una enorme pressa da 12 mila tonnellate utilizzata negli anni trenta nelle acciaierie della città. In un altro luogo di passaggio della città, il punto di connessione stradale fra la autostrada e la viabilità urbana,
fra il globale ed il locale, è ancora la solidità del ferro che sembra segnare
l’identità di una comunità, una grande scultura “solida”, Hyperion di Agapito Miniucchi, che, come la pressa, segna il passaggio del tempo, di una
modernità legata dall’attore sociale alla grande industria, al tempo del lavoro. Ancora in un punto di connessione della città è un obelisco di Arnaldo Pomodoro che sembra segnare il tempo, La lancia di luce, un inno alla
materializzazione del lavoro, un esempio di come l’idea astratta dell’artista
possa sfidare l’irrealizzabile grazie all’industria. Queste immagini intendono riassumere con grande effetto visivo la particolare fisionomia industriale di questa città umbra, la Manchester italiana. Città in mutamento la
cui storia, sociale e culturale, è stata profondamente segnata dalla industrializzazione a partire dalla fine del XIX secolo. L’immagine che sembra
esemplificare la modernità dell’industrializzazione della fabbrica si materializza attraverso simboli solidi, un modello di relazione tra lavoro ed attori sociali che comportava il reciproco coinvolgimento tra gli attori in
campo e di fatto legava il potere allo stesso suolo dove i controllati svolgevano le proprie attività.
L’approccio sociologico formalizza un tacito negoziato tra il peso dei
fattori di identità e di comunità e quello dei fattori dello scambio economico. Un tempo, quando si pensava ai contadini, li si riteneva gli ultimi simboli di una società rurale ormai arcaica e in via di estinzione. Sembrava
lontano di secoli, quasi nell’immaginario fiabesco, un mondo in cui gli
uomini dovevano fronteggiare ogni giorno le dure leggi della scarsità di
risorse, della tradizione, dell’autoritarismo. I tempi moderni, invece, avevano come loro emblema l’operaio della catena di montaggio. I tempi postmoderni si configurano quelli in cui anche l’operaio della grande industria novecentesca potrebbe essere considerato un ricordo del passato per il
profondo mutamento della società. I valori industriali di standardizzazione, efficienze e produttività, sono via via stati soppiantati dai valori po29
stmoderni di creatività, soggettività, estetica, emotività e qualità della vita.
I bisogni materialistici che hanno caratterizzato l’esistenza dei lavoratori
industriali, sono sostituiti da una serie di bisogni nuovi di ordine culturale
e immateriale, propri di una società matura.
Se Negroponte sostiene che la società postindustriale è già finita1, mentre De Masi (2000), non fa misurazioni degli eventi ma osserva una nuova
epoca e ne attende gli sviluppi; le parole di Lyotard definiscono “quella
che stiamo vivendo (è) una stagione sconvolgente, attraversata da mutamenti rapidissimi, che lasciano in piedi le condizioni di stabilità per tratti
brevissimi […] lo spazio di un mattino travolto dalle trasformazioni scientifico-tecnologiche” (Lyotard 1979); Toffler (1971), ha la stessa idea di dinamismo, di trasformazione veloce e di mutamento radicale, di transitorietà, concepita come la nuova temporaneità della vita quotidiana: le cose, i
luoghi, le persone, le idee, le strutture organizzative, vengono consumate
più in fretta.
Figura n. 1 – Terni: la scultura in acciaio Hyperion di Agapito Miniucchi.
La scultura sembra rappresentare un gigante adagiato su dei supporti che
gli permettono di tendersi nella fatica e nello sforzo verso il cielo, che forse non raggiungerà mai.
1
Cfr. Negroponte 1997; Ferrari Occhionero, Nocenzi 2006.
30
Figura n. 2 – Terni: Lancia di Luce di Pomodoro
I blue collars sono stati superati, nel numero, dai white collars del
commercio, dall’amministrazione, delle comunicazioni, della ricerca,
dell’istruzione e di altre categorie di servizi, testimoniando il processo di
31
superindustrializzazione e lo sviluppo del terziario innovativo (M.C. Federici 1990).
Postmoderno è la definizione di un processo che accetta le sfide di una
nuova età della complessità e della pluralità, per avventurarsi nei rischiosi
territori di frontiera tra etica e tecnica, immaginario e produzione artigiana,
cultura e produzione industriale2.
Il postmodernismo dà voce alla ragione astratta, ad ogni progetto che
persegue l’emancipazione umana attraverso le forze della tecnologia e della scienza, cause di una notevole evoluzione non solo di beni materiali ma
soprattutto di quelli post-materiali, come le informazioni e la conoscenza,
tanto che molti oggi parlano di questa società, come della Società
dell’Informazione. Le possibilità di diffusione e di utilizzo che
l’informazione e la conoscenza hanno raggiunto, sono ormai notevoli e alla portata di tutti, grazie alla possibilità di usufruire di tecnologie (ICT)
come la radio, la televisione e l’informatica e soprattutto grazie alla rete
internet (De Masi 2000; Ferrari Occhionero 2002).
Questo permette al cittadino, vero attore sociale, di rapportarsi in modo
diverso con gli altri e con la società, diventando sempre più il protagonista, nella sua crescita continua, più creativo e libero di esprimersi
perché più padrone della conoscenza e del sapere. L’età Post-moderna da
nuova sottolineatura al soggetto, ad un ulteriore sviluppo di organizzazioni
flessibili, all’incremento delle comunicazioni e degli scambi, a una
maggiore velocità e facilità nella diffusione dell’informazione e della
cultura ad una internazionalizzazione dell’economia, ad una maggiore
parità tra i generi ed infine ad un’accresciuta sensibilità verso i diritti di
tutti i cittadini e delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di
handicap). In un unico Telos La sfida della felicità (M.C. Federici 1995;
Durand 1980) con una tensione verso una esistenza piena in tal senso e alla
riorganizzazione del lavoro e della vita, ad avere così, sempre più tempo
libero, per i rapporti sociali per la valorizzazione dell’ozio attivo. Come si
evidenzierà poi nelle interviste, il lavoro cambia da manuale e seriale si
trasforma in creativo, e non ripetibile, non è più espiazione dal peccato,
fatica e sforzo; viene meno la sua centralità per divenire espressione
creativa delle capacità e delle abilità intellettive umane. Esso riveste un
ruolo molto più marginale dal punto di vista quali-quantitativo nella vita
della maggior parte delle persone. Se per un ventenne della metà del
secolo scorso il lavoro rappresentava la metà delle ore da vivere, il suo
coetaneo di oggi dedicherà presumibilmente ad attività lavorative appena
2
Vedi anche la definizione di P.P. Donati di dopo moderno che mette in luce una
sostanziale continuità di valori ed anche quella di Alain Finkelkraut in Noi, i moderni e di Lindan che parla di postmoderni come “collaborazionisti” della modernità.
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un settimo della sua vita. È allora necessario conferire senso e valore al
tempo, categorie in mutamento arricchendolo di riflessione, di creatività e
di convivialità, riprogettare il sistema sociale per valorizzare l’ozio attivo,
come ideazione e produzione creativa, riproduzione vitale, gioco
inventivo, valorizzando alcuni tratti di uno stile di vita che si avvicina a
quello della civiltà dell’antica Grecia, sfida impegnativa in cui è
impegnato il cambiamento antropologico della città di Terni. Il
cambiamento più significativo sta nel fatto che le persone non cercano più
la loro identità nel lavoro, non lo considerano più come luogo esclusivo di
socialità e di realizzazione. La ricerca si sposta verso un nuovo equilibrio
tra i diversi luoghi dell’esistenza, tra l’attività lavorativa, la
formazione/studio e il gioco: ognuno cerca la propria realizzazione nella
vita e non più solo nel lavoro. Cresce il bisogno di distinguere i tempi del
lavoro, da quelli del non-lavoro e del tempo libero, conferendo loro un
nuovo significato ed uno scopo diverso. Cambiano i mezzi, i tempi, gli
spazi, i concetti e le teorie sul lavoro e nascono nuove tendenze. Nelle
aziende, per esempio, si sviluppano strutture più snelle
(downsizing/rightsizing) grazie all’uso delle ICT (Tecnologie della
Conoscenza e dell’Informazione), le quali permettono anche, un
collegamento più veloce con le reti di aziende più piccole alle quali sempre
più spesso viene affidata una parte dei compiti di produzione (outsourcing)
(M.C. Federici 2003, pp. 55, 155 e 189). Per quel che riguarda i lavoratori,
invece, da un lato, assistiamo alla scelta di alcuni, di licenziarsi
volontariamente da un lavoro di forte pressione e molto stressante, per
accettarne uno, meno snervante, anche se magari questa scelta comporta
un trend di vita più modesto (downshifting), che libera però risorse per la
formazione e la cultura. Le caratteristiche e le esigenze del lavoratore
cambiano e si evolvono: tendono sempre più verso la crescita personale e
verso esigenze di formazione e conoscenze costanti, per riuscire a stare al
passo con i cambiamenti continui del presente: il luogo di lavoro è ancora
momento di formazione e crescita personale. Una parte sempre più
numerosa di lavoratori, di conseguenza, svolge lavori creativi o che
richiedono poca manualità, sono più mobili grazie anche al maggior tempo
libero a loro disposizione. Nel lavoro i compiti vengono ampliati, arricchiti
e deroutinizzati, ci si basa sempre meno sulle mansioni e sempre più sulle
competenze:intelligenza, creatività e preparazione culturale. La creatività
considerata come insieme di fantasia e di concretezza, con una forte
tendenza alle riduzioni dell’astrazione, è alla base dei lavori e soprattutto
delle innovazioni del presente, generate prima, a livello teorico, dalla
fantasia umana e poi, nella pratica, dalla capacità della possibilità tecnica,
è alla base di ogni tipologia di lavoro intellettuale e di servizio grazie ad
essa si verificano ogni giorno nuove acquisizioni in campo tecnologico,
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come ad es.: testimoniano l’assimilazione del computer nel giro di
cinquanta anni, quello del fax nel giro di tre o quattro anni e ancora in
meno tempo quello del telefonino. La massiccia diffusione delle ICT
(Information & Communication Technology), in particolare quelle di tipo
informatico e telematico, ha trasformato la comunicazione nella chiave di
lettura prevalente del presente così come della storia. L’uso sempre più
pervasivo delle ICT porta all’automazione del lavoro e alle mutazioni
profonde dell’economia, dei mercati, delle strutture delle organizzazioni,
all’interno delle quali il lavoro viene svolto. Con l’avvento della società
postindustriale è stata vinta la lotta per la liberazione dalla fatica: le
macchine sostituiscono la forza muscolare e, come la società industriale è
riuscita a fare a meno delle masse contadine senza per questo rinunciare ai
prodotti della terra, così ora è possibile disporre dei prodotti industriali
sostituendo operai e impianti con robot e computer. La produzione è
sempre meno dipendente dalla manodopera, si assiste così al fenomeno
dello sviluppo senza lavoro, mentre i lavori creativi vanno diventando
quotidianamente la stragrande maggioranza con le figure professionali di
impiegati, professional-manager, dirigenti, knowledge workers. Si
manifesta però una evidente inadeguatezza delle organizzazioni e delle
imprese a questi cambiamenti: dalla gestione del tempo e dello spazio di
lavoro che ancora avviene nella contemporaneità alla mancanza di
attenzioni estetiche verso il luogo ove si svolge il lavoro all’orario
inutilmente lungo, in ossequio alla regola che la quantità di tempo che si è
disposti a passare sul luogo di lavoro, è considerata come uno degli
indicatori, e spesso addirittura il principale, di impiego e di dedizione.
In questo scenario di mutamento e di trasformazione della società ma
soprattutto del settore del lavoro e della sfera di vita quotidiana si inserisce
il presagio di una società del tempo libero, della creatività (De Masi
1999). Il lavoro va sempre più nella direzione di una nuova dimensione in
cui tempo libero, studio e gioco si confondono; l’uomo si sottrarrà sempre
più dalla tradizionale idea di lavoro come corvé e saprà puntare ad una attività mista di divertimento, formazione ma sempre densa di valore. C’è
chi come Accornero (Accornero 2000) pronostica un declino del lavoro
fino alla sua sparizione e al suo posto un ozio attivo pieno di senso, o chi
come Rifkin (1997), prevede l’aumento della disoccupazione fino a raggiungere i livelli massimi e la totale sostituzione del lavoro umano con le
macchine in quasi tutti i settori dell’economia globale, alternando visioni
pessimistiche del futuro e ottimismo. La flessibilità e il superamento delle
tradizionali barriere tra lavoro e tempo libero pongono alcuni interrogativi
nell’area della ricerca. Chi è occupato in settori creativi avrà benefici dagli
avanzamenti tecnologici, che porteranno maggiore flessibilità e libertà insieme ad un migliorato stile di vita, altri entreranno in misura maggiore in
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aree problematiche, come prevedono i teorici del conflitto. Le donne stanno diventando in misura crescente i lavoratori più richiesti in un mondo di
lavoro flessibile e i disabili guadagneranno in libertà grazie alla tecnologia
del computer in settori dai quali erano precedentemente esclusi. Il progresso tecnologico fornisce di un nuovo “senso” l’espressione tempo libero: il
lavoro offre soprattutto possibilità di guadagno, di prestigio e di potere, il
tempo libero offre soprattutto possibilità di introspezione, di gioco, di ricerca, di convivialità, di amore e di avventura.
Le teorie paradigmatiche neoclassiche, anche se di pluralità paradigmatica, pur se prive di predominio le une sulle altre, dopo il ripudio del paradigma neoclassico operato da Schumpeter e Keynes, dopo gli attacchi di
Sraffa e dei suoi seguaci neoricardiani, hanno fino ad oggi resistito, riformulando e addomesticando le idee non totalmente da respingere (Viale
2005).
La spiegazione di accorgimenti economici, di consumi, dei risparmi,
delle scelte, delle localizzazioni e delle delocalizzazioni produttive, dei
settori e via proseguendo, comporta una analisi sociologica che si approcci
ad essi come conseguenze di decisioni motivate di individui. La spiegazione sociologica va ricondotta a certi esiti sociali e/o economici delle azioni
dei singoli, una sorta di explanation by reasons.
La spiegazione economica, la massimizzazione sotto vincolo di una
funzione obiettivo, anche per le limitate capacità di calcolo e di informazione decisionali, non sembra più sufficiente a comprendere l’attuale nodo
critico dei fatti. La rappresentazione del processo di scelta come massimizzazione si configura lontana dalla realtà anche per l’impossibilità di ricalcolare tutto continuamente. Il mutamento sociale segue a volte una curva inerziale e storica contingente al funzionamento del sistema con attori
razionali e informati, ma solo imperfettamente razionali e informati. Da
che mondo e mondo e da che essere umano è essere umano soltanto stabilendo delle relazioni anche metafisiche e simboliche, si può capire il mondo e dare un senso all’ «Io e alla sua circostanza», per dirla con Ortega y
Gasset
La capacità di produrre idee o di trovare fra di esse nuove relazioni o
nuovi modi di esprimerle può essere una definizione di creatività ed anche
l’istinto di combinazione di paretiana memoria appartiene al suo dominio,
condizione fondamentale per il successo, chiave per realizzare innovazioni
che assicurino e preservino la competitività. Il processo che va sotto il nome di “creatività” e i suoi prodotti dipende da una serie di fattori che operano più o meno efficacemente, a secondo delle condizioni storiche e ambientali, alle realizzazioni di particolari obiettivi o risultati. Si tratta inoltre
di una sorta di “stato dello spirito” che si fonda sull’apertura e sul lavoro
condiviso e necessita di un profondo cambiamento culturale.
35
2. La creatività: un paradigma sociologico?
Una definizione del concetto di creatività è forse quella di particolare
capacità umana che permette di creare e di inventare qualsiasi cosa, ispirata dalla libera fantasia, sicuramente vera ma non esaustiva, di mettere in
rete cose nuove con nessi innovativi la creatività è qualcosa di complesso e
strettamente legato alla capacità di intelligere. Quando si parla di intelligenza e creatività, tutti capiscono di cosa si tratta ma di fronte al tentativo
di darne una definizione precisa, si creano discordanze e contrasti, trovando grande difficoltà nel definire i confini e le origini dell’una e dell’altra. Il
dibattito cominciato tanti anni fa è ancora aperto e fecondo; ci si domanda,
in primo luogo, quale sia il rapporto tra intelligenza, talento e creatività e
poi, se questa ultima sia riservata al genio, ad una persona dotata di un talento in campo artistico e scientifico, oppure se sia una caratteristica condivisa. La maggior parte degli Autori considerano la creatività come la
competenza specifica di qualsiasi individuo, di qualsiasi età, e sostengono
che la sola “intelligenza non è sufficiente e, per quanto brillante, può essere accompagnata da una sterilità creativa” (Anderson 1980, p. 299). Quando a metà del XX secolo, uno psicologo di spicco come Guilford proclamò
la necessità di studiare scientificamente non solo l’intelligenza ma anche la
creatività, non suscitò alcuna sorpresa e sembrò dar voce ad una convinzione diffusa. Guilford aveva in mente un programma che riproducesse il
cammino, apparentemente: sostenendo che la creatività non equivale
all’intelligenza, affermò che occorreva elaborare un insieme di misurazioni
atte a stabilire quali individui avevano potenzialità creative. L’idea chiave
della concezione psicologica della creatività è quella del pensiero divergente: le persone intelligenti ricorrono al pensiero convergente, sanno elaborare, di fronte a certi problemi, soluzioni corrette e convenzionali; le
persone creative, invece, tendono ad elaborare molte associazioni diverse,
originali, in alcuni casi addirittura uniche. Sicuramente al termine del dibattito aperto da Guilford si raggiunsero alcune conclusioni importanti:
• Creatività ed intelligenza non sono la stessa cosa: è vero che tra le due
c’è un rapporto fecondo, ma in ogni caso un individuo può essere più
creativo che intelligente, o più intelligente che creativo;
• Non è possibile dimostrare che i test di creatività sono validi: il fatto
che un individuo ottenga punteggi elevati ai test di creatività non comporta che egli sia necessariamente creativo, né sussistono prove convincenti del fatto che un individuo ritenuto creativo nell’ambito di una
disciplina o di una cultura dimostri necessariamente di possedere quelle capacità di pensiero divergente che i test di creatività dovrebbero rilevare (Gadamer 1994, pp. 36-36).
36
Da questo dibattito sono nate poi diverse concezioni e diversi approcci
allo studio della creatività. Gli studiosi cognitivisti, ad esempio, hanno descritto i modi in cui i “creativi” individuano il problema e gli spazi, gli approcci appropriati al problema in questione e gli indizi che possono rivelarsi utili, come valutano le soluzioni alternative dei problemi e come impiegano risorse, energia e tempo per promuovere efficacemente i propri
programmi di indagine, come fanno a stabilire quando occorrono prove ulteriori e quando invece, vale la pena considerare risolto il problema e di
procedere oltre; più in generale il filone cognitivista riflette sui processi
creativi. Nel complesso analizzare il lavoro creativo ad una livello di complessità appropriato, chiarisce il funzionamento di alcuni processi in campi
specifici, come ad esempio in quello dell’improvvisazione di musica jazz o
della creazione letteraria. Un altro approccio di studio sulla creatività è
quello che privilegia i vari aspetti della personalità e della motivazione, di
quegli individui considerati creativi dalla loro stessa comunità di appartenenza con un’incidenza molto forte di tratti della personalità come indipendenza, fiducia in sé stessi, anticonformismo, prontezza di spirito, facilità di accesso ai processi inconsci, ambizione e dedizione al lavoro. Il problema che si pone è se le persone diventano creative perché possiedono
queste caratteristiche, o se finiscono per mettere in mostra queste caratteristiche positive per il fatto di essere state riconosciute come persone creative e di aver reagito all’influenza di fattori personali, sociali, di contesto o
storici. Lo stesso Freud si pose il problema della creatività: “Dinanzi al
problema della creatività, l’analisi deve deporre le armi […] L’essenza
della creazione artistica ci è inaccessibile dal punto di vista della psicoanalisi” (Freud 1910). Dalla sua teoria emerse come l’attività creativa non sia
il riflesso diretto di un’intenzione deliberata, e che gran parte del suo impeto e del suo significato resta nascosta allo stesso individuo creativo e
molto spesso anche ai membri della sua comunità di appartenenza.
Freud studiò le creatività soprattutto in chiave di sessualità e di motivazione, sia per spiegarne i meccanismi, sia per scandagliare la personalità di
alcuni artisti famosi; la sua ipotesi fu che gli individui creativi tendono a
sublimare gran parte della loro energia libidica, la loro motivazione è di
tipo inconscio, sessuale e affonda le sue radici nell’infanzia, è paragonabile ad una nevrosi, ad un tentativo di risolvere conflitti interiori. Schachtel,
un neofreudiano, sostiene che “la principale motivazione alla base
dell’esperienza creativa è il bisogno dell’uomo di mettersi in rapporto col
mondo circostante, attraverso un’esperienza che consiste soprattutto
nell’apertura durante l’incontro e nell’accostarsi ripetuto e variato
all’oggetto, nel gioco libero e aperto all’attenzione, del pensiero, del sentimento, della percezione” (Schachtel 2003, p. 447). Così gli individui si
impegnano in attività creative soprattutto per le gratificazioni materiali che
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essi ricevono in abbondanza: la gente si impegna in queste attività quindi
soprattutto in cerca di rinforzi positivi (Skinner 1978, p. 138). C’è chi invece, come Amabile (Amabile 1983, p. 89), sottolinea l’importanza della
motivazione intrinseca, contraddicendo le tesi avanzate dalle ricerche psicologiche più tradizionali, affermando che proprio l’assenza di una valutazione esterna sembra liberare la creatività. Oppure chi, cerca dati quantitativi sulla creatività, dando origine ad un nuovo approccio storiometrico,
tralasciando quindi l’intervento sperimentale e adottando, invece, una metodologia basata sulla registrazione storica, stabilendo in questo modo, ad
esempio, qual è il decennio di vita in cui gli individui creativi sono più fecondi, o quale sia il contesto più adatto alla loro espressione creativa.
In generale, su un terreno di studio così difficile e complesso, come
quello della creatività, i progressi concettuali importanti sono rari, non facili, si può accantonare la domanda convenzionale “Che cos’è la creatività?” e di sostituirla con una più provocatoria: “Dov’è la creatività?” (Csikszentmihalyi pp. 325-339), prendendo in considerazione tre elementi o
nodi fondamentali e centrali per analizzare e capire la creatività: la persona
lavora e l’ambiente circostante giudica la qualità degli individui e dei prodotti. Ognuno di questi elementi, presi singolarmente non riesce ad esprimere a fondo la totalità del processo creativo. La creatività rappresenta un
processo dialettico o interattivo in cui entrano in gioco tutti questi elementi, essa non si trova né nella testa, né nelle mani dell’individuo creativo, né
nel campo delle pratiche correnti, né nel gruppo degli esperti, può essere
compresa più compiutamente solo a condizione di considerarla una funzione derivante dalle interazioni tra questi nodi. Per poter anche solo delimitare la creatività, occorre tener conto di un numero vastissimo di fattori
e delle loro multiformi interazioni, così la comprensione della creatività
necessita di un’indagine che comprenda quattro diversi livelli di analisi:
• Il livello infrapersonale che può essere studiato da discipline quali la
genetica e la neurobiologia, che cercano di stabilire se gli individui
creativi abbiano una particolare costituzione genetica;
• Il livello personale analizzato dai ricercatori di formazione psicologica
per la comprensione degli individui, dei processi e dei prodotti creativi;
• Il livello impersonale, l’analisi del campo o della disciplina specifica
tramite la quale vengono manifestate le potenzialità creative visto che
i contributi di un individuo creativo si collocano sempre in un campo
particolare grazie a discipline quali la filosofia, la storia, gli studi
sull’intelligenza artificiale;
• Il livello multipersonale, l’analisi sociologica dell’insieme degli individui e delle istituzioni che circondano l’individuo creativo e che sono
deputati a valutare la funzionalità e la qualità del contributo creativo,
38
visto che esaminatori, editori, agenti, professionisti dei media, autori e
critici, formulano giudizi e valutazioni condizionanti (Gadamer 1994,
pp. 45-57; R. Federici 2006).
La complessità di questa vera e propria “energia sociale” può essere
compresa e risolta solo grazie al contributo di tante scienze e di tante ricerche sul campo. Le neuroscienze hanno cercato di descrivere le strutture e i
meccanismi che presiedono all’attività creativa, la mappa delle aree cerebrali deputate alla creatività, le differenze e le similarità tra processi creativi artistici e scientifici. All’esplorazione fisiologica del cervello,
all’elaborazione di mappe per orientarsi nella localizzazione delle zone
creative, alla comprensione dei meccanismi fisici ed elettrici che determinano la creatività, le neuroscienze hanno fornito anche preziose nozioni sul
rapporto tra età dell’uomo e capacità creative ma soprattutto sul rapporto
tra la fisiologia della creatività artistica e la fisiologia della creatività
scientifica. Tra le due in realtà non esiste alcuna differenza per molti Autori, tra i quali vanno ricordati Rita Levi Montalcini (1985, p. 73) e M.D.
Grmek (1984, p. 45), perché in realtà questa differenziazione tra i due concetti, nasce solamente da un modo di pensare, che vede l’opera scientifica
con un fondamento materialistico e l’opera dell’artista con un fondamento
più idealistico “a dispetto della diversificazione delle branche attuali della
scienza e della tecnica, l’attività creatrice dell’intelligenza umana pone ovunque lo stesso problema. L’atto grazie al quale si realizza una scoperta
scientifica o un’invenzione tecnica è analogo, se non identico, all’atto che
crea un’opera d’arte” (Ibidem). La psicoanalisi con Freud e poi Arieti o
Hillman ha cercato di comprende quali pulsioni inconsce inducono a creare e quali tendono a reprimere questo istinto. Gli studi sulla creatività si
sono moltiplicati a dismisura e molti di questi si sono concentrati su una
domanda in particolare: “La creatività è appannaggio di poche persone geniali o è una dote universale, che solo in pochi individui raggiunge livelli
d’eccezione?”. Alcune persone sono completamente prive di creatività, altre sono dotate di una creatività ordinaria, solo poche hanno il privilegio
della creatività straordinaria. Ma per molti altri autori, Jung, Sinnott, Dow,
Fromm, May, Rogers, Maslow, Murray, Anderson, Hilgard, Stoddard,
Mead, Matussek, la creatività è una dote presente in tutti e a tutte le età, di
cui a volte forze esterne impediscono l’espressione. Ogni volta che sono
stati presi in considerazione fattori d’influenza diversi, si sono sviluppati
vari filoni di studio, da un modello orientato sui tratti: l’intelligenza viene
considerata come tratto unitario ereditario; ad un modello orientato sui
processi o sulle componenti cognitive: l’intelligenza viene studiata sulla
base di analisi qualitative del pensiero e sull’analisi delle componenti per
analizzare soprattutto le componenti dei processi cognitivi implicati nella
soluzione di problemi, nelle abilità spaziali, nei ricordi, ecc..; a modelli o39
rientati sul successo nella scuola e nella carriera: nell’analisi vengono
considerati anche fattori ambientali come la famiglia, la scuola, il gruppo
dei pari; ad un modello orientato sui fattori socioculturali: la situazione
economica, politica e i valori sociali dominanti hanno una particolare rilevanza nell’analisi (Antiseri 1996, pp. 39-54; autore che già nella premessa
mette in evidenza il ruolo della fantasia e la funzione dell’errore nella ricerca).
Molte aziende, investono una parte crescente delle loro attività formative per recuperare e coltivare nei propri managers, le attitudini alla creatività. L’epistemologia, invece, ha studiato come si struttura e si sviluppa la
conoscenza, per capire il percorso logico che segue. Osservando la vita
degli scienziati si cerca di spiegare i misteri della loro creatività, quali sono le doti e le vicende che li portano a realizzare le loro scoperte. Spesso
anche gli storici e i filosofi nel tentativo di rendere più chiare le imprese
del genere umano, si sono ritrovati a trasformare le convinzioni in miti, in
giustificazioni razionalizzate dei loro desideri (ivi, pp. 20-36). La ricostruzione storica delle scoperte brulica di questi miti, illusori ma diffusi.
Grmek elenca alcuni tipi che costituiscono spesso approcci epistemologici
alla spiegazione della creatività:
• Mito dell’anatomia e dell’analogia: si trascura a volte l’entroterra storico e si punta l’attenzione solo sul prodotto finale della scoperta vivisezionandolo;
• Mito della storia : quando, al contrario, ci si affida completamente alla
storia di un processo creativo, tanto che anche quando le ricostruzioni
storiche non sono sufficienti, alcuni epistemologi si ostinano a trovare
nelle leggende la spiegazione totale delle scoperte;
• Mito dell’autobiografia: si attribuisce una grande forza probatoria ai
resoconti autobiografici, anche se spesso si è dimostrato che gli scienziati vogliono soprattutto stupire il lettore per convincerlo e convincersi della sua creatività;
• Mito del pensiero senza mente: nel momento in cui il pensiero senza
mente è maturo per una determinata scoperta, prima o poi, casualmente o intenzionalmente, qualcuno la farà;
• Mito della scoperta bella e pronta: secondo alcuni storici della scienza, una scoperta nascerebbe già completa nella mente di un singolo
scienziato, in un luogo preciso e in momento determinato;
• Mito del discorso diretto: quando i percorsi della creatività scientifica
vengono descritti come diritti, lineari, fulminei, privi di possibili errori
e tentennamenti;
• Mito dell’evoluzione e della rivoluzione: un mito vuole il cammino
della scienza come una evoluzione continua, senza pause e senza acce40
lerazioni, mentre l’altro mito vede il progresso scientifico come dovuto solo a episodi rivoluzionari;
• Mito dell’osservazione – ipotesi: l’osservazione dei fatti precede sempre la formulazione delle teorie, mentre secondo altri la teoria precede
sempre ad illuminare e orientare l’osservazione dei fatti;
• Mito della conferma: la conferma delle ipotesi è molto più importante
della loro falsificazione, soprattutto quando si desidera che le novità
non contraddicano le nostre precedenti convinzioni;
• Mito del ragionamento logico: il ragionamento scientifico procede su
un piano strettamente logico senza mai intersecare quello psicologico
o sociologico;
• Mito del demone e mito del contesto: il mito secondo il quale la scoperta originerebbe sempre e tutta da premesse e percorsi irrazionali,
dal genio personale del ricercatore, dal demone che lo abita e lo rende
superuomo, o il mito contrario, secondo cui la scoperta deriverebbe
esclusivamente dai fattori esterni di natura socio-economica (Grmek
1984, p. 13).
Ma il mito più diffuso è quello in base al quale il progresso avviene in
modo semplice e lineare, attraverso un graduale incremento delle conoscenze. Questo processo si colloca all’interno di una realtà plurima, difficile, incerta, complicata, contraddittoria, complessa, caratteristiche che la
rendono un luogo perfetto per la nascita di nuove teorie, scoperte, conoscenze, invenzioni. Il postmoderno, o società dell’informazione o società
della conoscenza, è articolato, complesso e multiforme come mai nessuna
altra precedente epoca storica: forse è per questo, che l’innovazione,
l’informazione, la conoscenza, la creatività, nelle sue varie esplicazioni
sono caratterizzate da mutamenti veloci e progressi continui. Anche la sociologia, ha impiegato energie e tempo per la comprensione di quel processo che è la creatività. Sono state condotte nello specifico, ricerche su
come vengono create le organizzazioni (aziende, Stati, Costituzioni, procedure, regolamenti, ecc…), su come è possibile promuovere la creatività
a livello sociale attraverso l’educazione e la tolleranza, su come è possibile
rimuovere gli ostacoli sociali alla creatività, sulle particolarità organizzative che caratterizzano la creatività di gruppo.
Il rapporto che c’è tra dati ed informazioni da un lato, e conoscenza
dall’altro, è comparabile a quello che c’è tra materie prime e beni di consumo. La conoscenza, rispetto ai primi due, include un contributo umano e
un valore significativamente maggiori. Mentre il concetto di informazione,
intesa come merce, come risorsa, mette al centro gli aspetti tecnologici
(stoccaggio, gestione, trasferimento), il concetto di conoscenza, intesa come elaborazione creativa dell’informazione, mette al centro l’essere umano come unico depositario di questa capacità. A differenza dell’infor41
mazione, la conoscenza è insita nell’essere umano, che la crea, in una certa
misura, spontaneamente, nel corso delle relazioni sociali. La conoscenza
rappresenta la rielaborazione personale di una massa informe di informazioni: questo è un atto creativo. La conoscenza è definibile quindi, come
l’insieme di informazioni di valore contenute nella testa delle persone; la
tecnologia dell’informazione serve ad amplificare le capacità che sono già
insite nella natura umana. La conoscenza è un misto di esperienza, valori,
informazioni.
“Esiste anche un altro tipo di creatività che potremmo chiamare invenzione psicologica o sociale e i cui prodotti non sono oggetti tangibili. È la
creatività che non si esplica nelle cose bensì nelle persone, la creatività nei
rapporti umani. È una forma di creatività che richiede intelligenza, acutezza di percezione, finezza di sensibilità, rispetto all’uomo come individuo e
un certo coraggio personale per spiegare il proprio punto di vista e per
mantenere le proprie convinzioni. La creatività nei rapporti umani esige
l’integrità dell’individuo e una particolare capacità di operare con gli altri.
Ne troviamo esempi storici nei tentativi, compiuti in campo politico e sociale, per la composizione delle divergenze. La Magna Charta, il Bill of
Rights, il proclama di emancipazione della popolazione colored, le Costituzioni, gli statuti municipali e i loro emendamenti, le codificazioni e i regolamenti urbani, rappresentano tutti esempi interpersonali di creatività
sociale” (Anderson 1980, p. 151).
La grande innovazione, è stata quella di superare l’approccio allo studio
della creatività tipicamente psicologico e pedagogico, che punta tutto
l’interesse della ricerca, sulle singole personalità creative, sui rapporti e i
conflitti che possono verificarsi tra i vari livelli del mondo interno di quel
singolo individuo, per analizzare fattori esterni, ambientali, economici, politici, rapporti e conflitti tra i vari membri di un gruppo creativo: mancava
infatti, nel panorama delle varie ricerche, lo studio della creatività collettiva, dell’influenza esercitata dai fattori esterni sulla fecondità dei creativi. Il
progresso scientifico e tecnologico, lo sviluppo delle scienze organizzative, la globalizzazione, la diffusione della cultura scolastica, la diffusione
dei mass media e dei mezzi di trasporto, l’incremento demografico,
l’allungamento della vita media, le lotte di classe, le lotte di liberazione
proiettano la loro influenza su tutto il sistema sociale, mutando le istituzioni, le culture e le mentalità.
“Il XX secolo è stato prodigiosamente creativo: nel 1905 Einstein ha
posto le basi della teoria della relatività e della meccanica quantistica, nel
1919 Marconi ha inventato la radio a onde corte, nel 1941 è stata inventata
la penicillina come antibiotico, nel 1949 la RCS ha inventato la TV a colori; […] nel 1969 Armstrong e Aldrin sono giunti sulla luna; […] nel 1981
la IBM ha prodotto il primo personal e ha acquistato da Bill Gates il si42
stema operativo DOS.; […]nel 1999 Internet si è affermato definitivamente come sistema informatico universale; […] accanto ad ognuna di queste
imprese di creatività scientifica se ne può citare una altrettanto straordinaria di creatività artistica, politica, sociale, organizzativa. E dietro ognuno di
questi nomi, di queste scoperte e di queste invenzioni, si può rintracciare
un team, un istituto universitario, un laboratorio” (De Masi 2003, p. 521).
Nel XXI secolo la creatività richiede una maggiore attenzione sociologica anche in vista delle soluzioni di alcuni modi critici postmodernità.
Certo è che l’informazione risulta un fattore determinante per il manifestarsi di creatività scientifiche, artistiche, sociali; essa riesce a veicolare
molte idee e quando il ricettore ha la capacità e la volontà di capirle, assimilarle e valorizzarle può aver luogo un processo creativo dal quale scaturiranno sicuramente innovazioni importanti e significative: “Quando osservo me stesso e i miei metodi di pensiero, giungo alla conclusione che il
dono della fantasia è stato più importante per me della mia capacità di assimilare conoscenze” (Einstein 2003,p. 555) a sottolineare come le sue esperienze creative, sicuramente scientifiche, siano state invece poco influenzate da un insieme di informazioni, e quanto abbiano invece giocato
un ruolo fondamentale le sue intuizioni di fantasia. Anche per Niemeyer
“l’intuizione svolge un ruolo altrettanto importante della conoscenza […]
L’immaginazione e la spontaneità sono per me le fonti dell’architettura”
(Niemeyer, op. cit ).
La creatività rende capaci di vedere prima degli altri e di far vedere agli
altri, una sorta di istinto delle combinazioni (Pareto 1980, cap. VI, p. 720),
rende capaci di pervenire a risultati che il pensiero comune potrà capire,
accettare, apprezzare solo in un secondo momento, permette di liberarsi
delle scelte obbligate e abituali, è un quid di originale su cui grava la valutazione sociale, da origine ad un pensiero e ad una forma originale, unica e
dalle rare qualità: nell’arte conquista un alto grado di soggettività e nella
scienza un alto grado di oggettività.
La creatività corrisponde ad una sintesi magica (Arieti 1979, p. 12), ad
un processo terziario risultante dalla sintesi e dalla combinazione di meccanismi primari e secondari. Freud aveva parlato di processo primario per
indicare un funzionamento specifico della psiche, nella parte inconscia,
prevalente nei sogni e negli stati psicotici; il processo secondario corrisponde a quel funzionamento specifico della mente quando è sveglia e adotta la logica razionale. Il processo terziario di Arieti corrisponde alla capacità di far combaciare i materiali ricavati dal processo primario con
quelli ricavati dal processo secondario, dopo aver scartato tutte le forme
insoddisfacenti e parziali: “Il soggetto creativo conserva una possibilità più
grande della media, di accesso alle immagini, alla metafora, alla verbaliz43
zazione accentuata e ad altre forme connesse al processo primario […].
L’ispirazione è la facoltà che permette al soggetto creativo di trovare una
forma del processo primario che racchiuda un contenuto del processo secondario” (ivi, p. 205).
Figura n. 4 – Area della fantasia e area della concretezza da Silvano
Arieti.
Quindi conscio ed inconscio, alleati fra loro per dare vita al risultato
creativo, spingono a dare risposte inconsuete e ad eludere gabbie concettuali e convenzioni poste dalla coscienza, rendono capaci di avere emozioni più intense e di trasmetterle agli altri. Ma quello che per Arieti è un processo creativo lineare, come sintesi quindi di processo primario e processo
secondario, per De Masi è sintesi della sfera razionale (conoscenze ed abilità) e della sfera emotiva (emozioni, sentimenti, opinioni, atteggiamenti),
per Pareto, messosi alla ricerca d’una scienza diagonale delle società, è nei
residui e nelle combinazioni, “chiave” della creatività. Il pensiero primario
incontrandosi con la sfera emotiva da origine quindi alla fantasia e il processo secondario con la sfera razionale, da vita alla concretezza: la creatività quindi non si identifica con la sola fantasia ma consiste in una “sintesi
di fantasia e di concretezza” (De Masi 2003, p. 559), è fondamentalmente
la capacità di trasformare la casualità e la disparità in una struttura orga44
nizzata. Questa sintesi di fantasia e concretezza non sempre contiene in
ugual misura i due ingredienti: gli stessi creativi amano far credere che le
loro opere siano il frutto di una fulminante e miracolosa intuizione fantasiosa, mentre altri sottolineano come le loro idee derivino da piani precisi
di composizione più che da intuizioni. Quando invece la sfera emotiva si
incontra con il pensiero secondario da origine all’area delle emozioni gestite, mentre la sfera razionale con il pensiero primario da origine all’area
delle tecniche introiettate.
Figura n. 5 Area delle emozioni gestite e delle tecniche introiettate da Silvano Arieti
La creatività si esprime grazie ad una fantasia sbrigliata che ci fa sognare ad occhi aperti e di una spinta emotiva che ci incoraggia ad osare
l’inosato e a superare gli ostacoli che troppo spesso non permettono di trasformare i sogni in realtà, in prodotti creativi; allo stesso tempo ha bisogno
di strumenti concettuali e tecniche empiriche con cui elaborare le fantasie
in opere concrete: “un buon pilota automobilistico riesce a vincere la corsa
perché sa guidare così disinvoltamente da azionare i freni, scalare le marce, dare un colpo magistrale alla frizione o all’acceleratore, il tutto auto45
maticamente mentre il suo cervello concentra l’attenzione sulle scelta del
percorso ottimale, della tattica per superare l’avversario, della traiettoria
per tagliare la curva.
Solo quando ha completamente introiettato le tecniche che occorrono
alla sua arte, il creativo avrà la mente sgombra e potrà puntarla tutta sul
cimento dell’invenzione” (ivi, p. 572). Koestler afferma che “tanto maggiori sono la padronanza e la disinvoltura che acquistiamo nell’esercizio di
una tecnica, tanto più diventerà automatica perché il codice delle regole
che la governano opera ormai al di sotto della soglia della coscienza. Ma il
grado di attenzione conscia che accompagna l’esecuzione, dipende anche
da un secondo fattore: le condizioni dell’ambiente […]. Nell’atto creativo
c’è uno stimolo che sale dagli strati sotterranei della mente più ignoti e fertili; mentre il processo creativo che ho descritto è caratterizzato da una discesa che relega le operazioni tecniche in abitudini e riflessi” (Koestler
1975, pp. 145-146). L’emozione gestita corrisponde allo stimolo che sale,
la tecnica introiettata corrisponde al processo di discesa: “la creatività è
sintesi non solo di fantasia e di concretezza ma soprattutto di emozioni gestite e di tecniche introiettate” (De Masi 2003, p. 572). Pareto ha parlato di
“Combinazioni di cose simili od opposte, di cose rare ed avvenimenti eccezionali, di stato felice unito a cose buone, di bisogno di unire i residui e
di fede nell’efficacia delle combinazioni (Pareto 1980, pp. 720-721).
La creatività così descritta e definita, diventa una componente essenziale per lo svolgimento di qualsiasi lavoro. Il suo continuo mutamento e la
sua complessità, comporta essere in possesso di determinare caratteristiche, quali la fantasia e la concretezza capace di gestire le emozioni e la
preparazione per lo svolgimento di determinate mansioni, tecniche introiettate. In passato lo schiudersi di possibilità inimmaginabili di sviluppo
è stato fornito del passaggio dalla small science alla big science, e dalla
small art alla big art. quella che De Solla Price (De Solla Price 1967, pp.
36 e segg.) definisce la piccola scienza, era quella dei tempi di Galileo,
quella stessa di venti o trenta anni fa, che vedeva un uomo solo, chiuso nel
suo laboratorio, con qualche sovvenzione di un mecenate o di una organizzazione, che inventava, produceva, scopriva, creava la scienza. La grande
scienza, quella dei teams di ricerca, dei gruppi collettivi, finanziati in base
a stanziamenti astronomici, lavora per creare un cambiamento delle condizioni planetarie. I gruppi creativi sperimentali all’inizio del Novecento,
vennero costituiti sulla base di un concetto rivoluzionario: non c’è bisogno
di ricorrere a geni, completi di fantasia e concretezza, è sufficiente mettere
insieme delle persone dotate soprattutto di grande fantasia e delle persone
dotate soprattutto di grande concretezza, dando così vita ad organizzazioni
fertilissime di idee e di realizzazioni, a geni collettivi composti da singoli
soggetti non necessariamente geniali (De Masi 2003, p. 574; e riecheggia
46
Pareto delle uniformità imposte dagli altri, dei residui in relazione colla
socialità). In una società complessa e variegata, in cui la creatività,
l’informazione, la conoscenza, le innovazioni continue, sono alla base dello sviluppo e della crescita economica e sociale, l’organizzazione di gruppi
creativi, è vista come una delle soluzioni che più si confanno a rispondere
alle necessità delle organizzazioni, che debbono rispondere alle richieste di
una comunità sempre più esigente. Produrre creatività nelle organizzazioni
non consiste soltanto nello spingere le persone concrete ad essere più fantasiose o le persone più fantasiose ad essere più concrete, ciascuna coerente con se stessa e fedele alla propria vocazione naturale, un gruppo variegato, composto da personalità fantasiose e personalità concrete, un gruppo che si distingue per una marcata dose di interclassismo, antiburocratismo, internazionalismo, universalismo e sono attenti alla dimensione estetica ed etica, propensi alla modernità tecnologica, radicati nella propria
storia ma protesi al futuro, capaci di darsi modalità ludiche di lavoro e di
trasformare i vincoli in opportunità, i conflitti in stimoli, l’agonismo in
collaborazione. La creatività è la componente intellettiva che permette di
arricchire, comprendere, assecondare la complessità dell’“Io e della sua
circostanza”. Un tempo, la creatività, era associata al concetto della scoperta: oggi sempre più spesso al concetto di invenzione e innovazione, di
fronte ad innovazioni dovute all’inventiva dei managers o degli operai
che, incoraggiati e stimolati, producono nuove idee, nuove scoperte e nuove tecnologie, che consentono di soddisfare, bisogni che da lungo tempo
covavano sotto la cenere, come, per fare un esempio, è successo per i dischi in vinile, sostituiti nel giro di poco tempo dai compact disc, perché
meno fragili e più precisi nel suono. Si crea così un circolo virtuoso
all’interno del quale le nuove tecnologie, i nuovi sistemi creativi, le nuove
idee, in principio, nascono per rispondere a determinate esigenze e necessità, poi esse stesse stimolano la nascita di nuovi bisogni, i quali a loro volta
verranno superati in tempi brevi da altre idee creative. Le nuove tecnologie
hanno distrutto, con la loro pervasività, gli antichi confini tra settori, tra
attività, tra criteri gestionali e possono così anche abbattere le barriere tra
studio, lavoro e tempo libero: basti pensare alle modalità di gioco spesso
assunte dalla navigazione in internet, anche quando è fatta per scopi professionali. Ovunque arrivino le nuove tecnologie, nasce la creatività, si fertilizzano nuove attività, si introducono nuovi metodi organizzativi, nuovi
consumi per il tempo libero, nuove forme di interattività, nuove tipologie
lavorative. Di certo le nuove tecnologie da sole, non avrebbero cambiato il
mondo se gli organizzatori non ne avessero colto tempestivamente le potenzialità, non le avessero introdotte nei sistemi produttivi, nelle burocrazie e nei servizi, se non avessero preparato le strategie, gli uomini, le procedure, i luoghi adatti per esaltarne i vantaggi e ridurne i pericoli. Ed ecco
47
quindi, grazie soprattutto allo Scientific Management, che le tendenze nel
campo del lavoro sono quelle del:
• Downsizing/rightsizing : usati nelle aziende che si stanno riorganizzando, mediante la creazione di strutture manageriali più snelle e
gruppi di lavoro di stile giapponese, comprende anche l’uso
dell’Information Techonology (IT), dell’informatica, per i processi riguardanti le informazioni, per le progettazioni e ogni altra modalità
decisionale.
• Outsourcing : la pratica delle aziende maggiori di usare una rete di aziende più piccole cui affidare parte della produzione complessiva, legato ai problemi della globalizzazione in quanto questi collegamenti
sono scienze internazionali, così da ricercare i componenti più economici nelle economie a bassi salari.
• Downshifting : alcuni lavoratori si licenziano volontariamente da un
lavoro stressante, magari aiutati da un prepensionamento o da pacchetti di fine rapporto, per accettare lavori meno stressanti con uno stile di
vita più modesto ma più libero. In Nord America questo trend, in crescita tra alcuni dirigenti di alto profilo, è stato definito “riduzione a
una volontaria semplicità”: forse una versione moderna della emarginazione degli anni Sessanta.
• Work-rich/time-poor : può essere collegato al precedente downshifting.
Un crescente numero di professionisti, altamente pagati, lavorano più
ore del normale, per stipendi assai consistenti. Gershuny ha definito
questi gruppi work-rich/time-poor (tanto tempo per il lavoro/poco per
sé stessi). A causa delle pressioni, alcuni possono alla fine ridurre il
proprio tempo di lavoro ma molti impiegano lavoratori domestici come pulizie e lavori di cura, pagando così il tempo domestico e di non
lavoro.
• New Age management : ci sono state crescenti adozioni del modello
americano delle teorie di management come il Total Quality
management (TOM). Termini come potenziamento del lavoratore e
attenzione al cliente sono diventati di moda nella ricerca del continuo
miglioramento dell’efficienza di ogni tipo di organizzazione di lavoro,
dagli ospedali, alle scuole, alle ferrovie sotto questo nuovo ethos, non
ci sono più pazienti, allievi o passeggeri, ma customer e clienti. Statuti
dei consumatori e certificati di qualità vengono esibiti nelle sale
d’attesa delle aziende. I managers seguono corsi, spesso tenuti da aziende specializzate, in cui vengono esortati a migliorare la qualità in
tutte le aree delle loro organizzazioni, in un’atmosfera di grande zelo,
presentato come un problema di trasmissione di potere e responsabilità
a tutti i lavoratori di un’azienda al fine di migliorarne l’immagine e la
produttività. I lavoratori precedentemente invisibili, come gli uomini
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delle pulizie e i guardiani, vengono considerate figure chiave nella
presentazione di un’impresa al pubblico; in effetti la persona più importante dell’azienda, diventa l’addetto al Call Center o chiunque incontri per primo il cliente (Guiotto 2002, pp. 225-226).
La post modernità diventa così ipermodernità, prende atto del collasso
dell’idea di progresso che rimpiazza con la plasticità infinita della realtà
umana.
***
L’età post moderna è caratterizzata da un profondo mutamento degli
stessi valori alla base della società: da stare insieme di tipo caratterialistico
all’être ensemble emozionale. I valori industriali di standardizzazione, efficienza e produttività, infatti, sono via, via soppiantati dai valori postmoderni di creatività, soggettività, estetica, emotività e qualità della vita. I bisogni materialistici che hanno caratterizzato l’esistenza dei lavoratori industriali, sono sostituiti da una serie di bisogni nuovi di ordine culturale e voluttuario, propri di una società che ha raggiunto il benessere e che vuole
goderne. Sovente si sottolinea il fatto che la riorganizzazione necessaria, in
particolar modo nel campo del lavoro, in risposta a questi mutamenti, ancora stenta ad attuarsi nella sua totalità: le organizzazioni, le imprese, gli
ambiti sociali, sembrano non essersi accorti dell’avvento dell’Era postindustriale, e continuano, il più delle volte, a basarsi ancora su regole e modelli creati per un mondo industriale che mostra i suoi limiti. Il termine postmoderno o postindustriale, sottende un cambiamento, ma non sempre illustra pienamente i punti chiave. Soprattutto nel campo del lavoro i mutamenti sono veloci e spesso la società stenta ad adeguarsi in tempo reale al
cambiamento. I lavoratori dal colletto blu sono stati superati nel numero da
quelli dal colletto bianco, del commercio al minuto, dell’amministrazione,
delle comunicazioni, delle ricerche, dell’istruzione, e di altre categorie di
servizi dell’area della superindustrializzazione e dello sviluppo del terziario di persone che erano contadini, poi diventarono operai: e oggi sono addetti ai servizi (M.C. Federici 1990).
Postmoderno è una categoria sociologica che accetta le sfide di una
nuova età della complessità e della pluralità, per avventurarsi nei rischiosi
territori di frontiera tra etica e tecnica, politica e mercato, cultura e produzione industriale. Il postmodernismo dà voce alla ragione astratta, ad ogni
progetto che persegue l’emancipazione umana attraverso le forze della
tecnologia e della scienza, attraverso una notevole evoluzione non solo dei
beni materiali, ma soprattutto di quelli astratti,come le informazioni e la
conoscenza, fino ad una Società dell’Informazione. Le possibilità di diffusione e di utilizzo che l’informazione e la conoscenza hanno raggiunto sono notevoli e alla portata di tutti, alla possibilità di usufruire di tecnologie
(ICT) come la radio, la televisione e l’informatica e grazie alla possibilità
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di usufruire della rete internet, permettono al cittadino di rapportarsi in
modo diverso con gli altri e con la società rendendolo protagonista, facilitato nella sua crescita, sempre più creativo e libero di esprimersi, sempre
più padrone della conoscenza e del sapere. Le premesse dell’Età PostModerna sono quelle di una nuova importanza attribuita al soggetto come
persona, di un ulteriore sviluppo di organizzazioni flessibili, di un incremento delle comunicazioni e degli scambi, di una maggiore velocità e facilità nella diffusione dell’informazione e della cultura, di una internazionalizzazione dell’economia, di una maggiore parità tra uomo e donna, sia
nella famiglia sia nel lavoro ed infine, di un’accresciuta sensibilità verso i
diritti di tutti i cittadini e delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap), tutto tende verso un unico scopo: la sfida della felicità.
In un tempo neanche molto remoto, l’uomo è stato impegnato in ben altre
sfide, riguardanti soprattutto la sopravvivenza alla fame e alle malattie e la
difesa dalla natura. Il lavoro cambia e da manuale e faticoso si è trasformato in creativo, non è più espiazione dal peccato; cade la sua centralità per
divenire espressione creativa dell’intelletto umano, grazie alle scienze, alle
tecnologie, all’edificio teorico delle conoscenze e delle informazioni che
giorno, dopo giorno si costruisce e si amplia, e che permettono di migliorare costantemente la vita. Il lavoro riveste oggi, a differenza di qualche decennio fa, un ruolo molto più marginale dal punto di vista quantitativo
nell’esistenza della maggior parte degli individui.
Le caratteristiche e le esigenze del lavoratore del Post-Moderno tendono verso la crescita personale e verso esigenze di informazione e conoscenze costanti, proprio per riuscire a stare al passo con i cambiamenti
continui del presente; lo stesso luogo di lavoro diventa momento di formazione e di crescita personale. Una parte sempre più numerosa di lavoratori
svolgono lavori creativi o che richiedono poca manualità, sono più mobili
grazie anche al maggior tempo libero a loro disposizione rispetto ai cittadini di trent’anni fa. Nel lavoro i compiti vengono ampliati, arricchiti e deroutinizzati, ci si basa sempre meno sul compito e sempre più sulle competenze brain intensive. Ed è anche per questo motivo che la creatività diviene interesse di studio di molte discipline connesse al campo del lavoro;
considerata come l’insieme di fantasia e di concretezza, è alla base delle
innovazioni del presente, generate prima, a livello teorico, dalla fantasia
umana e poi, nella pratica, dalla capacità e dalla possibilità di renderle
concrete. Nel mondo basato sulla velocità e sulla esclusione di chi non è
rapido, oggi il valore non è nella capacità fisica di correre o di lottare ma
nella capacità intellettuale di pensare, tutto il resto è “protesi”. Le conseguenze sono da un lato una produzione sempre meno dipendente dalla manodopera, si assiste al fenomeno dello sviluppo senza lavori, dall’altro la
crescita di lavori creativi con la conseguenza che la “stragrande maggio50
ranza dei lavoratori è composta da impiegati, da professional-manager, dirigenti, knowledge workers (De Masi 1999).
Il lavoro basato più sulla conoscenza e l’informazione, può essere svolto in un luogo distante dall’ufficio, mediante l’impiego, più o meno intensivo delle ICT, della telematica e della tecnologia delle reti. L’introduzione
di questo sistema di teledecentramento, fa nascere naturalmente l’esigenza
di nuove professionalità, di un riciclaggio professionale e di una rivoluzione mentale che prevede la formazione permanente e fondamentale il
ruolo dei formatori sul luogo di lavoro. Il lavoro va sempre più nella direzione di una nuova dimensione in cui tempo libero, studio e gioco si intersecano; l’uomo si sottrarrà sempre più alla tradizionale idea di lavoro come corvè e saprà puntare ad una attività mista di divertimento, formazione,
densa di valore. Alcuni pronosticano già un declino del lavoro fino alla sua
sparizione e al suo posto ad un ozio attivo pieno di senso, e prevedono
l’aumento della disoccupazione fino a raggiungere i livelli massimi con la
totale sostituzione del lavoro umano con le macchine in quasi tutti i settori
dell’economia globale (Accornero 2000; Rifkin 1997). C’è chi ha una visione pessimistica del futuro e chi invece vede con ottimismo i cambiamenti del presente, appannaggi del futuro. La flessibilità e il superamento
delle tradizionali barriere tra lavoro e tempo libero fa sorgere il dubbio se
ciò porterà necessariamente a un migliore futuro, se si avranno benefici
dagli avanzamenti tecnologici, che porteranno maggiore flessibilità e libertà insieme ad un migliorato stile di vita.
3. Creatività e Sviluppo Locale
L’Italia si è formata attraverso i secoli grazie ad una combinazione di
stile, creatività, energie intellettuali e operative. Le componenti sociali del
patrimonio culturale di un gruppo sono gli elementi costitutivi sia del patrimonio culturale, sia del capitale sociale: l’atto creativo è unico, estremamente raro, profondamente legato sia al tempo, sia allo spazio. La cultura e lo sviluppo sono concetti indivisibili i cui risultati danno luogo a
formazioni di capitale anche sociale inevitabilmente legati al luogo e, in
termini sociologici, alla comunità ed alla sua storia. L’osservazione
dell’azione nasce dalla dispersione di livelli via via crescenti di tecnologia
che ha livellato il sistema competitivo e, spesso, ha reso i sistemi locali
vulnerabili sotto la spinta dei sistemi emergenti sostanzialmente fondati su
posizioni derivanti da bassi costi di produzione come è accaduto nelle Acciaierie di Terni (M.C. Federici 2005).
La condizione postmoderna è caratterizzata dalla tensione esistente fra
un mondo tecnologico diffuso e la creatività radicata nelle culture e molto
più antica e vitale dei mezzi tecnologici, un’energia capace di differenziare
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il contenuto di capitale umano e sociale e di influire positivamente sullo
sviluppo economico, un processo dinamico, una fondamentale risorsa nella
società. L’azione e lo sviluppo sono concetti legati nei contenuti ed hanno
necessità di affermarsi in forme definite.
L’attenzione va concentrata nelle nuove porzioni di capitale sociale di
natura individuale che hanno, probabilmente, effetti diversi legati ad indicatori cognitivi come la fiducia, l’identità, la reciprocità ed indicatori strutturali di densità sociale. Tale stock è multidimensionale ed ha la capacità
di influenzare e coordinare le azioni individuali, favorendo l’azione collettiva e permettendo agli attori sociali di perseguire fini altrimenti irraggiungibili. Il fattore “locale” ha nel bacino del Mediterraneo tradizioni millenarie ed è costituito dalle città, dai porti. Il rapporto fra sviluppo locale e città
sembra suggerire la sussidiarietà, il principio per il quale il governo del
territorio deve avvicinarsi quanto più possibile al territorio stesso. Le città
devono saper promuovere le innovazioni sia caratterizzate da processi di
generazioni per appartenenza, sia nei processi di sperimentazione.
Lo sviluppo locale non può essere progettato svuotando le relazioni economiche del loro contenuto sociale: può essere rappresentato e descritto
come una coppa, contenitore, territorio e contenuto, cultura. L’attività economica, per quanto si cerchi di isolarla, non solo è profondamente radicata
nei ritmi del quotidiano ma sembra trovare l’energia di processi di sperimentazione delle combinazioni relazionali radicate nella struttura sociale.
Accanto al capitale fisico, al capitale umano ed al capitale naturale, riferito
alle risorse presenti in natura, occorre considerare il capitale sociale. Al
posto di una società solida, il cui equilibrio era ricercato nell’equilibrio fra
domanda ed offerta, si afferma una dopo modernità differenziata ricca di
collegamenti intersettoriali e di complementarietà della domanda in cui il
rischio è un tratto dominante; complessità di cui le transizioni del locale
saranno caratterizzate da fasi in cui la persistenza intertemporale
dell’equilibrio sarà, probabilmente, difficile.
52
Figura n. 5 – Terni. Una pressa di acciaieria utilizzata come monumento
urbano
53
4. Il Caso Terni
La storia sociale e culturale della città di Terni è stata profondamente
segnata dall’industrializzazione a partire dalla fine del XIX secolo.
La particolare fisionomia industriale di questa città umbra è espressa
direttamente con grande effetto visivo dai tre monumenti urbani già descritti che si trovano in zone della città di intenso transito, in punti di connessione fra il globale ed il locale: un’enorme pressa da dodicimila tonnellate, utilizzata negli Anni ’30 nelle Acciaierie della città; una grande scultura solida, sempre in ferro, Hyperion di Agapito Miniucchi, che si trova
nel punto di congiunzione stradale fra l’autostrada e la viabilità urbana; ed
infine un obelisco, La Lancia di Luce, di Arnaldo Pomodoro, che si innalza in un punto di passaggio della città. La solidità del ferro sembra esprimere l’identità di una comunità, esse segnano il passaggio del tempo, di
una modernità legata alla grande industria, al tempo del lavoro dell’attore
sociale. Il localismo è stato spesso rappresentato come sentimento di chiusura, nemico delle dimensioni locale. Negli ultimi venti anni è al contrario
diventato uno strumento per attirare consenso, uno strumento rilevante di
progetto star dello sviluppo (Putman 1993; M.C. Federici, R. Federici.
2005).
Il passaggio dalla solidità moderna alla fluidità postmoderna è un percorso unico, in cui non è più possibile attraversare il fiume degli eventi
nelle stesse identiche condizioni. Questo passaggio non è lineare ma complesso, i suoi tratti essenziali sono la dinamicità e l’unicità degli eventi, le
trasformazioni della postmodernità.
La vita sociale segue progressi continui caratterizzati dall’incertezza e
dal progressivo allontanamento da una forma di equilibrio, in un flusso costante in cui ciascun elemento è in movimento. L’equilibrio sociale non si
realizza nella semplice somma dei singoli equilibri, in tutti i rapporti determinati tra bisogni e beni ma nella diversa combinazione di condizioni e
fattori, economici e sociali. La complessità è data dalle condizioni ambientali, mai le stesse e mai replicabili, e dai diversi aspetti che concorrono a
formare la realtà sociale unitariamente, non necessariamente afferenti alla
sfera economica e normativa, bensì riconducibili ai modelli relazionali e di
identità.
Molto spesso l’osservazione relativa ad un territorio si concentra
sull’analisi delle principali variabili economiche aggregate in cui si ritiene
che si rifletta lo stato di salute del sistema economico-sociale. Tuttavia,
sempre più di frequente, i benchmark dati dalla comparazione degli indicatori di crescita, degli indici della produzione industriale o del tasso di disoccupazione, hanno tracciato scenari non esaustivi poiché non vi è la
comprensione della complessità del fattore umano.
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È perciò necessario tentare di seguire, anche localmente, un percorso di
analisi alternativo al fine di cercare di “ascoltare l’erba che cresce”, per
usare una espressione di Maffesoli, in una società in continuo cambiamento. Economia, diritto, religione non sono componenti ad esistenza indipendente, né tra di loro, né rispetto alla società stessa come la storia del pensiero sociologico dimostra. Nessuno schema disponibile permette di cogliere le vere relazioni fra economia, diritto, politica, religione da una parte
e la società dall’altra; e neppure le relazioni fra questi settori. I valori sono
difficilmente determinabili attraverso schemi teorici, poiché i tipi di relazioni che si configurano sono sempre nuovi e non possono essere ricondotti ad induzioni predeterminate delle forme della vita sociale.
La postmodernità sembra riscoprire il valore relazionale del capitale
sociale: risorsa che sostiene le relazioni fiduciarie di cooperazione e di reciprocità fra le persone; esse sono alla base di ogni processo di cambiamento e di trasformazione poiché ogni cammino verso il nuovo ha la necessità di fondarsi sulla reciprocità: «Gli stimoli del sentimento, che sono
particolarmente rilevanti per la coscienza soggettiva dell’io, si manifestano
proprio dove l’individuo molto differenziato si trova in mezzo ad altri individui molto differenziati, e dove allora confronti, attriti, relazioni specializzate scatenano una molteplicità di reazioni che rimangono latenti nella
cerchia indifferenziata più ristretta, e che qui proprio con la loro molteplicità e diversità provocano il sentimento dell’io come di ciò che è “proprio”» (Simmel 1989: 643).
Si conferma particolare importanza a valori quali la fiducia ed a reti sociali come associazioni, volontariato o nelle produzioni artistiche di gruppo. La disgregazione della società industriale “solida” e l’avvento di una
società “liquida” – le trasformazioni in atto sembrano rendere liquide le
relazioni – impone una riflessione che ne rispecchi la complessità; situazione, che non costituisce solo un passaggio intermedio ma insiste sulla
natura stessa dell’identità dell’attore sociale. L’individuo riconosce se
stesso come diverso dagli altri, la sua particolarità ed individualità ma nello stesso tempo riconosce l’influenza del contesto sociale che lo circonda.
L’identità si forma attraverso l’interiorizzazione di valori e di norme che
provengono dal sistema sociale; tuttavia il campo delle esperienze nella
società “liquido-moderna” la formazione ed il mantenimento dell’identità
sembra costituirsi in fragili frammenti in cui il riconoscersi sembra difficile. La frattura si consuma tra l’individualità come pratica di autoaffermazione e la limitata capacità di controllare il contesto sociale in cui
l’autodeterminazione del proprio progetto di vita dovrebbe realizzarsi.
L’orizzonte di scelta degli attori sociali diventa così più fluido e, contemporaneamente, più limitato. Il passaggio dalla modernità al workstate liquido è il passaggio verso la precarietà che diventa uno strumento sospeso
55
fra Souffrance e vitalismo a la Simmel. La società individualizzata si costituisce lungo un percorso complesso il cui simbolo sembra essere quello di
Giano, annoverato tra le divinità marine, liquide in quanto, secondo una
versione del mito, sarebbe stato il primo dio di Roma dove giunse per mare, dalla Tessaglia. Lo stesso concetto di postmoderno contiene questa oscillazione indefinita fra presente e passato, il tentativo di ripensare il passato in termini contemporanei e viceversa.
La società postmoderna è caratterizzata da fragilità e vulnerabilità anche se la modernità solida non è scomparsa ma è presente in una parte significativa degli attori sociali. Il contesto di questa mutazione è quello di
un cambiamento culturale, forse necessario, verso il paradigma di nuove
progettualità. Tra sofferenze e nuove vitalità, costrette dalle mutazioni culturali in atto, si ritorna alla figura di Giano che guarda in direzioni opposte,
verso la fragilità liquido-moderna e, con un certa nostalgia, al passato. Le
due facce di Giano sembrano configurare il desiderio di un nuovo spazio,
un tentativo di conciliare realtà solo apparentemente inconciliabili.
Souffrance e vitalismo esprimono una contraddizione evidente. Il secondo caso del dilemma identifica un orizzonte di scelta degli individui
che può diventare più aperto e fluido ed in cui l’attore sociale può immaginarsi protagonista di diverse biografie.
Nella città di Terni la ricerca di sviluppo è un elemento fondamentale, è
indispensabile considerare l’immaginario sociale come inscindibile dallo
sviluppo.
Il possibile passaggio dall’industria pesante a quella leggera concentrata nelle tecnologie avanzate, sui materiali di nuova generazione, sul cinema e sulla multimedialità, costituisce una sorta di transfert dal mercato di
massa al mercato della specializzazione. Tuttavia, e questa sembra essere
la singolarità della presenza di Giano, la direzione non è quella del
transfert ma della presenza di una diversificazione in cui è ancora la produzione di energia e la presenza di massicci investimenti nell’acciaio inossidabile che ha fatto crescere l’export del 16% nel 2004. Al movimento di
accelerazione dei processi produttivi grazie alle nuove combinazioni tecnologiche nel settore dell’energia (Ansaldo Fuel Cells), nella produzione
di imballaggi usa e getta (plastica biodegradabile di origine vegetale), alle
produzioni cinematografiche e televisive caratterizzate da un uso intensivo
di tecnologia sembra accompagnarsi una certa entropia.
Lo sviluppo è soggetto sempre di più ad un precario e difficile equilibrio fra percorsi, spesso asimmetrici, dettati dalle convergenze della mondializzazione e dalle scelte locali, dove l’entusiasmo alla partecipazione
della vita socio-culturale può essere sostenuto e stimolato. Il tempo in cui
si articola la trasformazione e lo sviluppo locale sembra essere estrema-
56
mente variabile e per nulla omogeneo con dimensioni diverse in cui gli approcci creativi sono sia adattativi, sia innovativi.
La contraddizione interna nell’idea delle relazioni umane si realizza nel
superamento postmoderno della necessità di considerare il capitale sociale
nella prospettiva delle reti. In realtà il processo, da tempo avviato, si configura come una ricerca di nuove definizioni in cui la trasformazione sociale anticipa la trasformazione economica e non viceversa.
Nell’osservazione delle trasformazioni delle comunità locali l’approccio diventa necessariamente multidimensionale, in particolare in quelle aree dove la presenza dell’industria solida ha caratterizzato il capitale sociale in termini forti.
Il tempo del rischio sembra aver travolto tali equilibri ed il passaggio
può essere ora osservabile, come nella città di Terni, attraverso quei legami di reciprocità, centri di ricerca ed università (oggi presente a Terni con
diversi corsi di laurea dalla Facoltà di Medicina ad Ingegneria passando
per la Produzione Artistica e la Cooperazione Internazionale, e migliaia di
iscritti), e relazionalità, fra storie pubbliche e storie private, che le trasformazioni in atto sollecitano. Lo sviluppo di relazioni verso l’esterno (bridging) ed il mantenimento in efficienza delle reti costituiscono un possibile punto di partenza per il superamento del paradosso di Giano.
Tabella n. 1- Censimenti generali dell’industria e dei servizi confronto
unità locali e addetti (Fonte Istat)
IMPRESE
INDUSTRIA
U.L.
COMMERCIO
Addetti
U.L.
Addetti
ALTRE
ATTIVITÁ
U.L.
TOTALE
Addetti
U.L.
Addetti
1961
1.095
15.957
2.223
4.954
458
2.283
3.776
23.194
1971
1.119
18.506
2.385
5.614
623
3.352
4.127
27.472
1981
1.052
18.257
2.694
6.676
1.784
12.645
5.530
37.578
1991
1.175
12.809
2.811
7.795
2.024
7.881
6.034
28.485
2001
1.288
11.130
2.725
6.973
3.204
11.057
7.217
29.160
57
La creatività, alla base di ogni processo di trasformazione, si inserisce
quale fattore critico, nella (ri-)formazione del capitale sociale; il capitale
creativo è, soprattutto, capitale relazionale perché fatto di una molteplicità
di interessi, possibilità, combinazioni e, diretta espressione del capitale sociale di una comunità, nella fattispecie grazie ad un modesto costo della
vita ed un basso tasso di criminalità.
Dai dati delle tabelle successive, si può notare come, in quello stesso periodo, la città sia soggetta ad un forte spostamento di massa che vede
l’immigrazione dalle zone limitrofe verso il centro della città.
Tabella n. 2 Censimenti generali dell’industria – andamento degli addetti
per settore
Censimenti Generali dell’Industria
Andamento addetti per settore
20.000
18.000
16.000
1961
14.000
1971
12.000
1981
10.000
1991
2001**
8.000
6.000
4.000
2.000
0
INDUSTRIA
COMMERCIO
ALTRE ATTIVITÀ
Fonte Istat.
Le fabbriche e tutti i centri produttivi industriali sono sorti nella zona
est della città ma creano con essa un tutt’uno. Non esiste una vera e propria zona industriale perché questa risulta essere parte integrante della città, che si trasformerà ed evolverà anche strutturalmente su questa base. Il
numero delle famiglie residenti a Terni cresce negli anni ’60 di 7.183 unità
e si osserva un numero di componenti medio di 3.5 persone.
Nasce l’esigenza di rivedere l’assetto urbanistico della città sulla base
di un numero crescente di abitanti che necessitano di alloggi e servizi, il
Comune di Terni propone lo studio della città per valutare un nuovo Piano
58
Regolatore che possa mettere in atto un progetto di modernizzazione e
riorganizzazione della città. Artefice del Piano Regolatore del 1960
l’architetto Mario Ridolfi con la collaborazione di Wolf Frankl, attenti non
solo al grande disegno dell’organismo urbano ma anche ad ogni singolo
problema concreto della crescita e della trasformazione della città che in
pochi anni diventerà una città industriale ricca di identità e qualità urbana
in cui residenze e servizi si integrano senza barriere di tipo classista.
Tabella n. 3 - Famiglie residenti
Famiglie
1961
1971
1981
1991
2001
26.973
34.156
39.211
38.975
42.128
Variazione rispetto al
Censimento precedente
Assoluta
x 100
7.183
5.055
-236
3.153
26,6
14,8
-0,6
8,1
n. medio
componenti
3,5
3,1
2,8
2,8
2,5
Comune di Terni, 14° Censimento generale della popolazione, censimento generale delle
abitazioni, 8° Censimento generale dell’Industria e dei servizi.
La realtà locale sembra essere, sotto questo aspetto, un caso che si può
definire atipico rispetto a quanto accade in tutto il resto d’Italia. La città
che vede il suo primo Piano Regolatore nel 1884, rientra in un progetto in
quegli anni già determinato. Nel periodo che va dal 1960 al 1975, grazie
allo studio del nuovo Piano Regolatore la città subisce una grande
trasformazione seguendo però un disegno pianificato. Le condizioni della
finanza pubblica e del mercato edilizio improntate ad ottimismo, permisero
a Ridolfi e Frankl di assumere il principio della sostituzione come modello
assoluto e prioritario, di concerto con un’amministrazione comunale che
aveva aderito, con entusiasmo, a questa visione palingenetica dell’organismo, urbano. Il “complesso” di Terni “città brutta” si univa alla
presunzione di essere una città moderna che con le proprie energie avrebbe
potuto migliorarsi: nel dibattito in Consiglio Comunale il modello di città
proposto non solo non fu messo in discussione ma la preoccupazione per la
sua concreta attuabilità fece decidere, in quella sede, l’innalzamento di
tutti gli indici fondiari delle zone centrali fino a quei 10 mc/mq (Città
d’autore, guida ad un percorso Ridolfiano nel Comune di Terni). Questo
presupposto del totale rinnovamento della città consentì ai progettisti di
proporre un modello fisico di città che denota in modo molto marcato
quell’aproccio mediato fra urbanistica ed architettura che ha prodotto,
nelle parti realizzate, esiti urbani insoliti e comunque molto caratterizzati.
59
Intorno alla città “vecchia” i due architetti ipotizzano la nascita delle prime
torri con lo scopo di creare unità tra le due epoche. Le torri di via Turati e
degli altri quartieri adiacenti sono il frutto di un’ipotesi di città compatta,
ideale che, da sempre, Ridolfi perseguiva. Il concetto di città compatta
nasce attraverso l’osservazione della cultura ternana basata sullo stile di
vita comunitario che ruotava e si svolgeva all’interno della fabbrica. La
compattezza della fabbrica, che accomuna la vita dell’operaio deve entrare
in relazione con la città e l’abitazione dell’operaio stesso: il concetto di
compattezza lavorativa si affianca a quello di compattezza edilizia.
Nascono in questo periodo i nuovi quartieri operai uno dei quali viene
preso a modello per la sua funzionalità e vivibilità: quartiere Matteotti.
Questo tipo di sperimentazione nasce dalla volontà dell’architetto Ridolfi
di rompere il rapporto tra alloggio e spazio comune a vantaggio della
socialità. La caratteristica di questo, come di altri quartieri, è quella di una
tipologia a ballatoio, in cui gli ingressi degli appartamenti si affacciano su
di un unico grande corridoio che diventa luogo comune. I quartieri sono
provvisti di giardini e verde pubblico, luogo di incontro delle famiglie,
nonché dei servizi necessari: asili, scuole, strade. La vita comunitaria della
fabbrica, diventa cultura e abitazione. La città è anch’essa il frutto di una
sintesi fra un’ipotesi funzionale ed un’idea formale. Fu lo stesso Ridolfi ad
affermare di aver sempre concepito l’urbanistica come “un fatto
compositivo più generale”, “come un’architettura su scala più vasta” e di
avere voluto “modellare la città come si modella una casa od un quartiere”
(Città di Terni, Nuovo Piano Regolatore, 2002).
5. I sogni della fabbrica
La recente storia della zona de-industrializzata di Papigno sembra essere un esempio di particolare significato nell’osservazione dello sviluppo
locale attraverso le immagini: “La bacchetta da rabdomante della sua intuizione vibra a contatto di ciò che è insignificante, di ciò che è generalmente svalutato, di ciò che è trascurato dalla storia, e scopre proprio qui i
più alti significati” (S. Kracauer).
Questa prospettiva può essere identificata dalla osservazione che la deindustrializzazione sembra una caratteristica della seconda modernità e
“importare” nel dibattito scientifico altri risultati della ricerca intorno ai
cambiamenti locali può contribuire a sviluppare iniziative più consapevoli,
sia sul versante della politics, la politica dei partiti, dei movimenti, delle
associazioni, in una parola dei cittadini, sia sul versante della policy, la politica delle istituzioni pubbliche quale risposta ai problemi identificati e alle soluzioni proposte dalla politica nel senso precedente. La realtà locale
sembra essere segnata dalla complessità e da interdipendenze che possono
60
agire in maniere molto diverse sul dibattito, sulle decisioni, sulle realizzazioni della politica, contribuendo a migliorarne l’efficacia ma anche, talvolta, a vanificarne l’azione. Il contesto è segnato da pericoli di involuzione evidenti in particolare nella contrazione del settore “formale” ed “emerso” che si è avuta con la deindustrializzazione e con il blocco
dell’espansione del comparto pubblico.
Nel 1996 il Comune di Terni decise di iniziare le pratiche per l’acquisto
del complesso “Ex Calciocianamide”, di tutta l’area ad est del fiume Nera
lungo la Strada Statale Valnerina, sede fino al 1973 dell’industria per la
produzione del calciocianamide, un fertilizzante, con l’obiettivo di valorizzare e ripensare il patrimonio industriale della zona. Negli stessi anni vennero messi a nuovo gli edifici dell’ex Officine Bosco che verranno destinati alla creazione del progetto Videocentro. I due interventi sono successivamente stati la base del progetto di conservazione e riutilizzo del patrimonio
archeologico industriale; tali realizzazioni hanno permesso la conversione di
strutture industriali in industrie di produzione culturale. Le due aree,
nell’obiettivo dell’Amministrazione Comunale, sono state individuate per la
produzione dell’immagine cinematografica e televisiva. Per quanto riguarda
l’area di Papigno il Comune ha investito oltre 4,7 miliardi di lire.
L’obiettivo strategico sembra essere quello di creare le condizioni ottimali per convogliare, proprio in questa zona, le risorse e le opportunità
emergenti cercando, attraverso il riordino nuove linee di sviluppo.
“La storia della modernità (qualunque storia, in verità) si può raccontare in più modi diversi. Anche la storia delle lacerate comunità deindustrializzate sembra avere percorsi complessi e non lineari che sembrano richiedere conoscenze e sensibilità diverse. In altri termini il passaggio
dalla modernità “solida” ad una modernità “liquida” sembra configurarsi
come un processo non lineare, complesso, i cui tratti essenziali sembrano
essere comprensibili sono nella dinamicità e nella unicità degli eventi. Già
Eraclito di Efeso aveva individuato tale difficoltà: la società si configura in
un flusso costante ed ogni elemento è costantemente in movimento, e non
è perciò possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Così il passaggio
dalla solidità moderna alla liquidità postmoderna è un percorso unico, in
cui non è più possibile attraversare il fiume degli eventi nelle stesse identiche condizioni. In tale prospettiva le trasformazioni della post-modernità
sembrano così apparire come un passaggio obbligato della società e
un’osservazione della sociologia dello sviluppo si caratterizza come un fatto complesso. La vita sociale pur non ripetendosi mai, nella postmodernità, sembra seguire progressi continui sempre più caratterizzati
dall’incertezza e dal progressivo allontanamento dalle oscillazioni intorno
a forme sociali di equilibrio. L’equilibrio sociale non sembra configurarsi
dalla semplice somma dei singoli equilibri, da tutti i rapporti determinati
61
fra bisogni e beni, ma dalla diversa combinazione di condizioni e di fattori
sia economici sia sociali. La complessità è data dalle condizioni per così
dire ambientali, mai le stesse e mai replicabili, e dai diversi aspetti che
concorrono a configurare la realtà sociale unitariamente, non necessariamente afferenti la sfera economica e normativa ma anche e soprattutto riconducibili ai modelli relazionali e di identità” (Bauman 2002).
La direzione seguita sembra essere quella di dare un nuovo impulso al
settore turistico ed al terziario avanzato della produzione culturale. Le parole chiave di questo progetto sembrano essere sviluppo e cultura, cambiamento e trasformazione. Cultura e sviluppo sembrano essere due concetti indivisibili, il cui risultato da luogo alla formazione di un capitale sociale inevitabilmente legato al luogo, alla comunità ed alla sua storia, a
quella serie di norme che regolano la fiducia, le reti di associazionismo civico e la convivenza che contribuiscono al miglioramento dell’efficienza
dell’organizzazione sociale, con carattere di bene pubblico, alienabile ed
indivisibile, frutto della condivisione di valori all’interno di una generazione e della sua trasmissione a quelle successive, che si realizza
all’interno di agenzie di socializzazione quali la scuola, la famiglia ed in
generale delle interazioni sociali. Nello stesso modo il concetto di sviluppo
nasce da processi di modernizzazione che hanno luogo all’interno di una
società in quanto sommatoria delle azioni di gruppo svolte per il raggiungimento del benessere, un benessere che non è soltanto economico, in
quanto i fenomeni di sviluppo sociale sembrano esservi legati solo in parte.
Lo sviluppo sembra essere determinato dalle capacità individuali e successivamente da quelle collettive nel comprendere i bisogni e le necessità.
Una lettura delle necessità della società locale sembra essere quella di costruire sulle sue stesse radici le basi per un nuovo percorso. Alle origini di
un percorso di sviluppo locale si trovano due fattori importanti che riguardano, in primis, la presenza di risorse naturali che spingano alla specializzazione di un mestiere trasmissibile tra generazioni, e, successivamente, di
dare luogo ai rapporti con l’economia esterna. Punto di partenza di questo
processo sembra essere un film prodotto nel 1933 prodotto dalla Cines di
Roma, il film “Acciaio”, per la regia di Walter Ruttmann interpretato da
Pietro Pastore, Isa Pola, Vittorio Bellaccini, girato nella città di Terni. È la
storia di due operai delle acciaierie di Terni, innamorati della stessa donna.
Uno dei due muore in un incidente e i colleghi sospettano che sia invece
stato ucciso dal rivale in amore. L’originaria trama di Pirandello, più incentrata sul tema della passione e dell’amore, viene convertita a valorizzare l’opera dell’uomo nuovo, nella fabbrica, tanto che Pirandello, per le
modifiche apportate, rifiutò di riconoscere della trasposizione.
In questo caso è la storia della fatica, della città che tenta uno sviluppo
possibile, che tenta di costruire una realtà trasmissibile attraverso il lavoro.
62
Tale suggestione, sembra essere ancora parte del patrimonio culturale della
città: nella scelta di creare all’interno dell’area di Papigno un centro di
produzione culturale sembra possibile ri-trovare sia la storia locale, sia il
lavoro. Il lavoro diventa originale e creativo e la creatività si configura così come il prodotto specifico ed originale di una generazione grazie anche
all’influenza ed alla conoscenza storica acquisita dalle generazioni precedenti nella loro sequenza di condizioni di spazio e tempo così come si misura nella sociologia di Pareto per la quale i cambiamenti sociali sono originati in parte dagli istinti, che definisce come motore delle azioni non logiche che generano la creatività, ed in parte dalla persistenza degli aggregati, azioni logiche che consentono la conservazione dell’esistente, spiegando così anche la costruzione del tessuto economico-sociale, e quindi
del capitale sociale, che avviene anche grazie all’istinto delle combinazioni
mentre la ri-costruzione e la conservazione sono possibili grazie alla presenza della persistenza degli aggregati. Le azioni non logiche guidate
dall’istinto che generano la creatività, sono soggette per loro natura a movimenti oscillatori cui corrispondono l’alternanza di epoche e di società
più o meno dinamiche. Per meglio comprendere questo concetto, nella realtà locale si osservi l’alternarsi di una imprenditorialità e di opportunità
situazionali, anche di tipo normativo, che hanno generato cambiamenti anche profondi ciclicamente caratterizzati da una elevata dinamicità, come
accade in questo momento (M.C. Federici 2002).
Nell’osservare la realtà locale in questo ambito sembra necessario sottolineare l’importanza nella disposizione ad innovare, a inventare e a produrre fatti nuovi da elementi noti. La circolazione delle idee si afferma
come una fonte di sviluppo volta a generare i processi di accrescimento nel
capitale sociale, così in alcuni distretti italiani lo sviluppo locale sembra
essere caratterizzato non solo dalla produzione in serie di merci bensì dalla
produzione di idee e di prototipi.
Probabilmente sono proprio queste osservazioni che hanno guidato
l’Amministrazione Comunale alla produzione cinematografica e televisiva;
il luogo diventò la phantasia per “la vita è bella” di Roberto Benigni. Per
favorire il cambiamento è necessario abbandonare il terreno delle contrapposizioni gnoseologiche assolute, come quelle fra realismo e razionalismo,
e rendere disponibili i nuovi asserti muovendo dall’interno del cambiamento stesso (Bachelard 1998). Il luogo di produzione d’industria chimica
si trasforma in luogo della phantasia, dove è possibile, creativamente immaginare uno sviluppo plurale. Si afferma il concetto di società liquida tipico della società dopo-moderna ricca di collegamenti intersettoriali e di
complementarietà della domanda in cui il rischio è un fatto dominante, al
posto di una società solida il cui equilibrio era basato sulla corrispondenza
fra la domanda e l’offerta.
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66
Choix rationnel, invention et innovation
Rationalité et irrationalité de la collaboration interindividuelle et des engagements collectifs dans les processus d’invention et d’innovation.
ALBAN BOUVIER
Université d’Aix-Marseille I
et Institut Jean Nicod
(CNRS/EHESS/ENS), Paris.
Introduction
Mon but essentiel, dans cette contribution, est d’examiner dans quelle mesure il est rationnel – du point de vue de l’émergence possible d’inventions ou
du point de vue de la diffusion des innovations – de rechercher la coopération
et la collaboration interpersonnelle entre les individus ou les engagements de
ceux-ci au sein d’un groupe.1 La réponse à cette question ne va pas forcément
de soi, notamment selon les acteurs considérés et les fins diverses qu’ils peuvent se proposer et selon la diversité des contextes. Mais un certain nombre de
recherches récentes, notamment en histoire et sociologie des sciences mais
aussi plus généralement en philosophie sociale et en théorie sociologique,
permettent de renouveler en partie le traitement classique de ces questions.
Je ne consacrerai pas aux notions d’invention et d’innovation de développements spéciaux. Je les distinguerai simplement comme suit : l’innovation
consistera ici simplement dans l’introduction dans un domaine donné de quelque chose d’inventé ailleurs (il faudrait donc plutôt parler de « diffusion des
inventions »), qu’il s’agisse de techniques, de sciences ou d’arts, tandis que
l’invention sera considérée symétriquement comme l’élément initial, point de
départ initial de toute innovation, qu’il s’agisse de sciences, d’art ou de techniques2. Mais l’innovation peut se situer en un moment du temps très éloigné
1
Je préciserai le moment venu ce qu’il faut entendre exactement par « coopération » ou « collaboration » (que je ne distinguerai pas ici) et « engagement au sein
d’un groupe », mais le sens ordinaire de ces mots suffit pour le moment.
2
Je ne reprends donc pas le sens que l’opposition invention / innovation a chez
Schumpeter (1939), celui-ci réservant le terme d’inventeur à l’homme des simples
trouvailles ou bricolages destinés à ne pas avoir de suite, tandis qu’il réserve le terme
67
de sa source dans l’invention et consister dans le simple transfert dans un
domaine donné d’inventions faites dans un autre3.
Le problème de l’innovation est, en fait, beaucoup plus souvent étudié en
sciences sociales que celui de l’invention, en partie parce que, par nature, il
est incomparablement plus fréquent et que, de l’autre, la sociologie des sciences et des techniques est moins développée que, par exemple, la sociologie du
travail ou la sociologie des institutions4. Pourtant, l’invention étant le point de
départ même de toute innovation et étant donc plus fondamentale, c’est à la
question de l’invention et de l’inventivité que je m’intéresserai fondamentalement, tout en rappelant les études classique consacrées aux innovations. La
littérature sur ce domaine concerne le plus souvent l’invention scientifique,
l’invention technique ou institutionnelle donnant nettement moins lieu à analyse (à l’exception de l’inventivité politique supposée favorisée par les formes
démocratiques de débat public). Je m’y référerai donc de façon substantielle.
Trois types de questions
Trois types de questions plus particulières doivent être posées pour spécifier les problèmes à traiter. Les deux premières concernent les acteurs ordinaires, et considèrent, l’une que l’innovation et l’invention peuvent être prises
comme fins en soi par les acteurs, l’autre que celles-ci peuvent, au contraire,
être recherchées en vue d’autres fins, donc considérées comme de simples
moyens. La troisième question concerne plus particulièrement les leaders
idéologiques et les décideurs publics en tant qu’eux-mêmes peuvent considéd’innovateur à un véritable entrepreneur capable de modifier le système de la production par une mise en place coordonnée de son innovation. Cf. Boudon et Bourricaud
(1994), article « Schumpeter ». Mais Schumpeter, par son insistance sur le rôle des
innovateurs-entrepreneurs dans le fonctionnement du capitalisme, a grandement
contribué à faire du thème de l’innovation un thème majeur de la Théorie du Choix
Rationnel, que je solliciterai ici, même s’il ne s’est pas lui-même situé dans ce paradigme.
3
Contre certains usages, je considère donc ici a priori qu’il y a de véritables inventions ou découvertes – j’utiliserai ici « invention » et « découverte » à peu près
indifféremment – non seulement en sciences mais aussi dans les techniques et de
simples innovations aussi bien en sciences qu’en matière technique.
4
Même la nouvelle sociologie des sciences de Latour et Callon est une sociologie
de l’innovation (ou plutôt de la diffusion des « inventions » à travers des réseaux), et
non de l’émergence des inventions. Voir aussi Crane (1969). Je laisserai ici de côté
l’invention artistique parce que, posant des questions spécifiques, elle complexifierait
par trop le tableau analytique que je cherche à établir ici. En revanche le modèle général ici établi vaut a priori pour des entreprises dont la nature est, par exemple, de
commercialiser des produits artistiques ou artisanaux ou de diffuser des productions
artistiques (télévision, par exemple).
68
rer innovation et invention comme des moyens en vue du bien public et agir
dans une certaine mesure sur les conditions qui les favorisent.
1/La première question sera donc la suivante : dans quelle mesure est-il rationnel pour des acteurs sociaux qui visent l’invention et l’innovation comme
des fins en soi (pour le plaisir intrinsèque qu’il peut y avoir à inventer et à
innover) de choisir de coopérer avec d’autres ou/et de s’engager dans un
groupe ?
2/L’invention et l’innovation peuvent aussi être prises comme moyens en
vue de fins différentes : ainsi l’innovation technique peut être voulue non pas
en tant que telle mais parce qu’elle accroîtra les rendements des activités industrielles ou agricoles de ceux qui s’y adonnent et donc par là les gains financiers des acteurs ayant misé sur l’innovation ; ce genre de motif est même
probablement un motif fréquent, notamment de l’innovation. De la même
manière, faire une découverte scientifique ou inventer une nouvelle théorie
dont la fécondité est manifeste accroît en principe la reconnaissance sociale de
son auteur dans le milieu scientifique ; la recherche du prestige intellectuel est
aussi certainement une des fins fréquentes du désir d’innover et de faire des
découvertes en sciences, en dehors du plaisir intrinsèque que l’on peut y
éprouver. De sorte que l’on doive poser aussi une autre question : dans quelle
mesure est-il, pour des acteurs sociaux qui voient dans l’innovation et
l’invention de simples fins médiates en vue d’autres fins (donc de simples
moyens), rationnel de coopérer avec d’autres acteurs sociaux ou de s’engager
collectivement avec d’autres au sein d’un groupe ?
3/Enfin, l’on peut considérer le rôle spécifique des acteurs sociaux qui ont
une influence sur les valeurs que les autres acteurs sociaux peuvent se proposer (gains financiers ou monnayables, prestige social), donc le rôle des décideurs politiques et des leaders idéologiques et culturels5. Pour simplifier, je
m’en tiendrai au seul cas où ces décideurs et ces leaders idéologiques veulent
le bien public – quel que soit le degré de clarté de cette vision6 – et où les uns
5
Hirschman (1980) a donné une étude magistrale et exemplaire du rôle que des
décideurs politiques comme Turgot ou des « leaders idéologico-culturels » comme
Montesquieu et Steuart ont joué dans la modification des normes éthiques et
l’émergence et le développement consécutifs du capitalisme au XVIII° siècle. Parler
de leaders idéologico-culturels permet d’éviter de se poser la question de la vérité de
leur discours, considération dont on peut faire abstraction ici puisqu’on vise seulement à dégager des rapports de cause à effet.
6
On sait bien en effet depuis au moins Pareto et ses réflexions sur la nature de ce
qu’est un optimum social (cf la notion d’optimum de Pareto ou de Pareto-optimalité)
que la détermination de ce qu’est le bien public et de la façon dont il s’accorde ou non
69
et les autres pensent que l’émergence de découvertes (scientifiques, techniques, institutionnelles, etc.) et leur diffusion contribuent globalement au bien
public. D’où une troisième question : Dans quelle mesure est-il rationnel pour
ces décideurs et ces leaders idéologiques d’inciter les acteurs à la coopération en jouant pour ce faire, autant qu’il est en leur pouvoir, sur les valeurs et
les normes sociales ou/et sur la forme des institutions ?
Démarche suivie dans cette étude
La réponse aux questions précédentes supposant, de toutes façons, que l’on
précise ce qu’on entend par rationalité, je rappellerai en tout premier lieu les
grandes lignes de ce que l’on appelle la théorie du choix rationnel (TCR) ou la
théorie de l’action rationnelle (TAR) en sciences sociales7 et du paradigme sur
lequel celle-ci repose en général, l’individualisme méthodologique. J’y consacrerai un certain temps – le premier temps de cette contribution – parce que,
d’une part, de nombreux faux-sens ou contre-sens sont fréquemment commis
sur la perspective de la TCR, essentielle à mon propos, d’autre part parce que
les instruments conceptuels qu’elle fournit sont souvent très sous-exploités
dans les études empiriques mêmes qui s’en réclament.
Dans le même souci de traiter progressivement les questions, je consacrerai entièrement le second temps de mon analyse à l’examen des motifs divers
pour lesquels des acteurs sociaux peuvent espérer être des inventeurs ou décider d’être des innovateurs (et les décideurs et « idéologues » vouloir favoriser
ce processus) sans me soucier encore du rôle de la coopération interindividuelle et des groupes.
C’est en un troisième temps seulement que j’en viendrai à l’objectif essentiel de mon propos : l’analyse du rôle respectif de la coopération et de
l’engagement collectif dans l’innovation et l’invention. Et c’est dans ce cadre
tout spécialement que je ferai état de recherches assez nouvelles en ce domaine mais relativement dispersées.
I. Trois conceptions possibles de ce qu’est un choix rationnel
Au sein des sciences sociales, un paradigme a aujourd’hui une influence
avec le bien personnel de chacun, lui-même encore sujet à différentes caractérisations,
est en soi problématique.
7
Les expressions de TCR et de TAR peuvent être prises l’une pour l’autre, les variations contextuelles mises à part : les choix dont il s’agit étant des choix de comportements, donc des comportements intentionnels, i.e des actions, si le choix est rationnel, l’action choisie est rationnelle et si l’action est rationnelle, c’est que le choix
l’était, mais on peut focaliser son attention soit sur le choix lui-même soit sur l’action
qui en résulte.
70
particulièrement considérable, notamment en économie et en sociologie, le
paradigme dit du choix rationnel. Celui-ci est lui-même fondé, dans la plupart
du cas – i.e en gros les applications en biologie, de toutes façons métaphoriques, mises à part – sur des prémisses méthodologiquement individualistes.
1/ Ramené à son principe le plus simple, le paradigme individualiste dit
seulement qu’il est de bonne méthode, lorsque l’on veut expliquer complètement un phénomène social ou économique, de remonter aux individus en tant
que ceux-ci sont à sa source, au moins partiellement – les conditions extérieures naturelles ou sociales jouant également un rôle, mais à titre de ressources
ou de contraintes pour ces individus. Cette méthodologie, lorsqu’elle n’est pas
proclamée de façon dogmatique, n’est pas exclusive d’analyses qui se tiennent
au seul niveau macrosociologique ou macro-économique ; elle dit seulement
que l’explication peut être poussée plus avant et qu’elle doit l’être pour arriver
à une explication satisfaisante des phénomènes sociaux.
2/ La théorie dite du choix rationnel spécifie encore les caractéristiques des
individus en question en s’intéressant aux seules intentions conscientes ; en
outre, elle ne dote pas les individus seulement d’intentions conscientes, mais
elle suppose rationnelles ces intentions, en différents sens du terme « rationnel ». Dans ses versions non dogmatiques, là encore seules légitimes, elle ne
dit pas que tous les comportements qui ont un sens intentionnel sont rationnels ; elle dit seulement qu’il est de bonne méthode de commencer par expliquer les phénomènes sociaux en faisant cette supposition sans exclure, au
demeurant, là encore, d’autres points de départ et donc d’autres programmes
de recherche8. A la différence de la théorie wébérienne, la théorie du choix
rationnel assure un traitement explicite aux affects, aux émotions et également
aux instincts; ceux-ci et celles-ci l’intéressent comme ils intéressaient Pareto,
mais à la différence toutefois de Pareto, en tant qu’il peut se trouver de la
rationalité dans les émotions et les affects eux-mêmes et surtout dans les instincts, les uns et les autres devant être dissociés plus nettement que ne l’avait
fait Pareto. Les instincts sont pris en compte dans les comportements les plus
élémentaires de l’existence, ceux qui concernent la survie, comme la fuite par
exemple ou l’évitement d’un danger, la réponse la plus performante, i.e. la
plus rationnelle du point de vue de la conservation de la vie, étant purement
instinctuelle et précédant même parfois l’apparition de l’émotion, comme la
8
Von Mises fait de la rationalité un caractère définitionnel de l’action de sorte que
le principe de rationalité des actions peut être dit purement « analytique ». Mais la
question qui intéresse alors une science sociale empirique est celle de savoir ce qui
doit être tenu pour action dans l’ensemble des comportements humains, i.e quels
comportements sont rationnels et lesquels ne le sont pas.
71
peur. Bien entendu, cette rationalité est très limitée ; autrement dit elle n’est
efficace que dans des circonstances bien précises, dont on peut considérer
qu’elles correspondaient globalement à l’état naturel de l’homme avant le
développement de la civilisation. D’autre part, plus important pour notre propos, les affects, émotions, sentiments, passions sont pris en compte en tant
que puissants stimulants de l’activité, en l’occurrence cognitive, i.e. à la fois
intellectuelle, imaginative et perceptive. Bien entendu, la TCR ne nie pas a
priori, du moins dans ses versions non doctrinales, qu’il y ait des phénomènes
au bout du compte irrationnels, comme par exemple les paniques collectives
ou les émeutes ni que les émotions ne nuisent parfois considérablement à
l’exercice de l’intelligence, toute une littérature psychologique montrant le
rôle des émotions dans l’apparition des biais cognitifs. Mais ce point de vue
qui est le point de vue classique en théorie de l’erreur, notamment élaboré par
Stuart Mill – à savoir que les affects peuvent ruiner le jugement – n’est pas
récusé ; il est simplement amendé et contrebalancé au sein d’une théorie plus
englobante.
3/ La question qui surgit évidemment à ce stade, c’est de savoir ce qu’on
entend par rationalité. La littérature sur ce sujet est considérable car dès qu’on
soumet cette notion en réalité confuse à l’analyse, on s’aperçoit rapidement
qu’il y a un grand nombre de sous-problèmes à considérer et un plus grand
nombre encore de réponses alternatives à discuter. Je ne retiendrai ici que
quelques-unes de ces questions, celles qui ont une incidence immédiate sur la
suite de mon propos. Dans ce but je distinguerai trois sens du terme « rationalité ».
a) Le premier sens du terme rationalité est celui auquel on restreint très
souvent la théorie du choix rationnel, à savoir la recherche de l’intérêt personnel matériel ou self-interest, lui-même entendu d’abord en termes de coût ou
de gain financier, en tout cas de biens monnayables9. Est rationnel celui qui
agit de façon adaptée en vue de la satisfaction de ses intérêts primaires. Si on
utilise la théorie de l’action rationnelle de façon à la fois non dogmatique et
progressive, il pourra être de bonne méthode de commencer par examiner, à
propos de tout phénomène social, ce qu’on peut en expliquer si on suppose les
individus – ou les entités qu’on prend comme s’il s’agissait d’individus, par
exemple des entreprises ou des organisations en général – animés par leur
9
Cela inclut a fortiori qu’on préserve sa vie et son intégrité physique, les biens
monnayables étant supposés accroître le bien-être de l’individu, bien-être conçu ici
comme de type purement matériel. Il arrive bien entendu que la recherche de l’argent
devienne une fin en soi, de sorte que l’individu mette en danger sa vie (cf. les infarctus par suractivité). En ce cas, il est clair que la recherche de l’argent n’est plus rationnelle au premier sens du mot « rationnel ».
72
self-interest (entendu comme recherche de leur intérêt « personnel » matériel )10, i.e. par des motifs qu’on appelle souvent, de manière approximative
vu le sens historique (millien) tout différent du terme, « utilitaristes » et agissant de façon adaptée pour atteindre cette fin. Dans les sciences économiques,
on préfère parler à ce propos d’ « utilités » et il me semble que l’on devrait
restreindre l’usage de ce terme à ce genre de rationalité et donc de fins11.
b) Mais le terme « rationalité » a deux autres sens, usuels également dans
le cadre de la TCR, quoique le second de ces sens ne soit pas toujours soigneusement distingué du premier, notamment dans les études appliquées où
les énoncés « flottent » très souvent de l’un à l’autre. Selon cette seconde
acception, on appellera « rationnelle » toute activité orientée vers une fin,
quelle que soit celle-ci, i.e. même si elle est très différente de la recherche de
l’intérêt personnel matériel, du moment que les moyens d’y parvenir sont
adaptés. Il est d’usage de parler encore à ce propos d’intérêt personnel (ou de
self-interest) mais en donnant à cette notion un sens beaucoup plus large que
précédemment et qui n’est pas non plus éloigné de l’un des sens courants du
terme « intérêt personnel ». On prend simplement acte de ce que les individus
ne sont pas tous et toujours animés par la seule recherche de biens monnayables mais qu’ils ont d’autres motivations et que, d’une manière ou d’une autre, dussent-ils y perdre la vie, « ils s’y retrouvent ». Ils sont capables d’agir
gratuitement, généreusement, pour faire plaisir à quelqu’un d’autre, leur
épouse ou leur compagne, leurs enfants, des inconnus souffrant d’un cataclysme, etc. Ils sont capables encore de mettre leur vie en jeu pour une cause,
qu’on pourra juger bonne, moins bonne ou carrément mauvaise éthiquement
parlant : résistants contre le nazisme, suicide-bombers palestiniens, martyrs
d’Al-Khaida, etc. Ils peuvent être encore animés par la volonté de défendre
leur honneur, comme dans le duel, la vendetta, etc. Ils peuvent aussi viser la
connaissance scientifique ou la beauté artistique et éventuellement mettre en
danger pour ce but leur bien-être matériel ou même leur santé, voire leur survie et celle de leurs proches (à des degrés divers : Giordano Bruno et Galilée
10
Cela ne pose pas problème de parler de « self » pour les entreprises, en un sens
métaphorique (cf Coleman, 1990, chap. 19), ni même de « personne » en ce cas ; on
parle, en effet, en droit, des entreprises ou des institutions comme de « personnes
morales », ce qui signifie qu’elles peuvent être jugées en tant que telles responsables
de délits et être aussi comme telles condamnables.
11
Par définition, en effet, toute fin visée, toute « préférence » comme on dit aussi
est ici conçue comme monnayable. Quelle est la valeur d’un beau paysage ?
L’économiste fera une réponse du type suivant : le prix moyen que les individus
concernés seraient prêts à payer pour le voir pendant une durée donnée s’il leur fallait
payer un droit d’entrée, multiplié par le nombre de visiteurs attendus sur une période
donnée.
73
pour les sciences, Bernard Palissy pour l’art)12.
On remarquera que, du point de vue du premier critère de rationalité, tous
ces comportements sont irrationnels puisque, par nature, certains de ces comportements vont jusqu’à mettre en danger la vie de l’individu ; dans ce cas,
l’individu est donc a fortiori bien loin de rechercher de l’argent ou des biens
monnayables pour lui-même. Mais, du point de vue du second critère de rationalité, ils sont rationnels du moment que les moyens de parvenir à ces fins
sont adaptés.
c) Enfin, il y a un troisième sens pertinent du terme « rationnel » dans
l’analyse des phénomènes économiques et sociaux, celui qu’utilise la théorie
de la décision : la simple cohérence des fins entre elles, sans même considérer
les moyens (on peut parler aussi de « préférences »)13. Il s’agit par exemple de
ce qui peut motiver un individu à agir en vertu du seul souci de cohérence
avec ses choix antérieurs et donc d’engagement par rapport à soi14. Ce critère
surplombe les deux autres au sens où un comportement peut être rationnel au
premier sens ou rationnel au second sens mais irrationnel au troisième s’il est
en contradiction avec les comportements antérieurs de l’individu.
II. Innovation et invention comme moyens en vue d’autres fins (ou
d’autres « préférences ») dans une perspective rationaliste individualiste
et atomistique.
Armé de cette triple définition de la rationalité, on peut aborder en détail
l’examen de la question de savoir en quels sens variés il peut être rationnel
12
De façon générale, lorsque l’on introduit la considération des croyances des individus autres que celles qui concernent les fins matérielles, on parle de dimension
cognitive de la rationalité ou, elliptiquement, de rationalité cognitive.
13
Il est légitime de parler de préférences en théorie du choix rationnel lorsque l’on
veut mettre en évidence que les individus peuvent choisir entre différentes options,
que chaque choix donné suppose que l’une des options a été, de facto, préférée et que
des préférences successives doivent être cohérentes entre elles. C’est Pareto qui a
introduit cette manière de faire qui libère du « psychologisme » et de ses problèmes
spécifiques : on infère les préférences des individus à partir de ce que leurs choix en
révèlent au lieu d’avoir à scruter celles-ci. Cette démarche est particulièrement justifiée lorsque l’on a à faire à des données macro-économiques et que l’on peut se
contenter d’une schématisation des « fins » des individus à la source de ces faits. Mais
ici ce langage ne s’impose pas et la conceptualisation classique en termes de fins et de
moyens est plus claire.
14
Sur la théorie de l’engagement à l’égard de soi, voir le psychologue social Kiessler (1971), étranger comme tel à la TCR mais dont les résultats sont réinterprétables
dans les termes de cette dernière. Sur ce dernier point, je me permets de renvoyer à
Bouvier (2005).
74
pour des acteurs sociaux pris en tant qu’individus d’être favorables à
l’innovation – ou de se mettre soi-même en position de faire des découvertes
s’il s’agit de chercheurs – vu les différentes fins que ces différents acteurs se
proposent. Comme je l’ai annoncé en introduction, je fais pour le moment
provisoirement abstraction du fait que les acteurs sociaux susceptibles
d’innover ou d’inventer peuvent recherche la coopération ou l’intégration
dans des groupes ; l’approche reste donc non seulement individualiste mais
même, en quelque sorte, « atomistique ».
Je réexaminerai essentiellement, à la lumière du triple concept de rationalité exposé, un exemple très classique d’étude des processus d’innovation, effectué dans le domaine de l’innovation agricole ; j’étendrai ensuite les résultats de cet examen.
1/ le plus souvent, en économie et en sociologie, notamment lorsqu’il
s’agit d’innovations techniques, i.e. en fait de diffusion d’inventions faites
dans d’autres domaines ou dans d’autres lieux que ceux où l’invention a eu
lieu, la rationalité est implicitement comprise en fonction de la maximisation
des profits ou de la minimisation des pertes, profits et pertes étant à comprendre en termes financiers15 ; autrement dit le critère de rationalité utilisé est le
premier critère. L’économiste Amit Badhuri (1973, pp. 120-137) se demande
ainsi, dans une étude célèbre, pourquoi les paysans du Bengale refusent les
innovations en matière agricole16. A première vue, en effet, si l’on suppose
que les acteurs sociaux recherchent leur intérêt au sens primaire de ce terme
(l’intérêt personnel matériel), ils y auraient manifestement intérêt, la modernisation de l’équipement entraînant en principe un rendement beaucoup plus
important et des gains en conséquence. Une hypothèse non rationaliste (« parétienne », par exemple) vient tout de suite à l’esprit, qui supposerait qu’il y a
quelque chose comme une résistance à l’innovation, ce qu’on peut encore
expliquer en termes d’attachement à la tradition, voire repérer au travers de
simples métaphores du type de celle de la force d’inertie. Mais Badhuri ne
renonce pas à l’hypothèse selon laquelle les acteurs sociaux sont souvent guidés par leur self-interest au sens très primaire de ce terme même si, à première
vue, l’hypothèse semble infirmée. Il se livre simplement à un examen sociologique plus approfondi destiné à mettre à l’épreuve ce qui n’est encore que
première intuition. Cette analyse met aisément en évidence une structure sociale que Marx appellerait une structure de classe, avec d’un côté des proprié15
On parle souvent dans ce cas, et à propos, de maximisation des « utilités » ; voir
infra pour un usage plus discutable de ce même concept.
16
Voulant seulement rappeler un mode d’interrogation classique en la matière, je
me fonde ici sur la présentation que Boudon (1979) a donnée de cet article (p. 180
sq). Mais je m’écarte ensuite de son commentaire.
75
taires terriens, de l’autre des paysans pauvres qui louent leur terre aux grands
propriétaires. Il est clair que les petits paysans n’ont pas les moyens d’investir
et que ce n’est donc pas d’eux que peut venir l’innovation17. Mais pourquoi
les propriétaires, eux, n’investissent-ils pas dans la modernisation puisqu’ils
en ont les moyens ? L’analyse montre que, contrairement aux intuitions de
départ, ils n’augmenteraient pas leur profit. En effet, les paysans sont obligés
d’emprunter chaque année pour pouvoir semer le riz, mais comme ils sont
trop pauvres, ils n’offrent pas assez de garanties auprès des banques pour que
celles-ci leur prêtent. Ils sont donc obligés d’emprunter à leurs propriétaires,
qui y consentent, mais à un taux d’intérêt élevé, vu l’absence de concurrence.
Or, d’après Badhuri, si les propriétaires investissaient, ils ne seraient pas les
seuls à gagner plus (du fait du prix qu’ils reçoivent de la location des terres),
mais les paysans eux aussi gagneraient davantage ; et, en gagnant plus, ils
deviendraient solvables de sorte que les banques accepteraient alors de leur
prêter et que, ipso facto, les propriétaires cesseraient, eux, d’être des prêteurs
et donc de tirer profit des prêts qu’ils consentaient. De sorte qu’au bout du
compte, il n’est pas sûr qu’ils seraient gagnants ; ils craignent donc raisonnablement de perdre. Dans ce contexte, il est préférable de ne pas introduire de
nouvelles techniques. Le choix de refuser l’innovation n’est donc pas, dans ce
cas-là, l’effet d’une résistance mystérieuse à l’innovation, prenant éventuellement sa source dans une sorte de « résidu » à la Pareto, mais ce choix est
tout à fait rationnel du point de vue du premier critère de rationalité. On peut
encore dire que, dans certaines circonstances sociales, la recherche de
l’intérêt personnel matériel peut paradoxalement conduire à refuser
l’innovation technique.
On peut cependant tirer de l’analyse de Badhuri d’autres conclusions encore que celles qu’il en tire, si on tire parti d’autres instruments de la TCR. On
voit, en effet, que pour que l’innovation ait eu lieu, il faudrait qu’il y ait eu
des propriétaires fonciers qui soit aient pris le risque de perdre de l’argent en
espérant que cette prise de risque leur rapportera gros18, soit visent une autre
fin que leur intérêt personnel matériel, par exemple l’obtention du prestige ou
de la reconnaissance sociale que l’on accorde souvent aux innovateurs, no-
17
Par souci de brièveté, je ne retiens que le squelette de l’analyse en simplifiant
donc beaucoup et les faits empiriques et l’analyse qu’en donne Badhuri.
18
Dans une conception plus complète de la rationalité que celle à laquelle je me
réfère ici par souci de ne pas complexifier inutilement les modèles, on introduirait des
différences supplémentaires entre les choix en situation d’incertitude et les choix en
situation de risque. Le modèle simple dont je me contente n’introduit ni l’une ni
l’autre de ces notions sauf ici, i.e localement.
76
tamment aux pionniers19. Dans certaines situations sociales, la présence du
prestige comme valeur sociale peut donc être une condition plus favorable à
l’innovation technique que la recherche de l’intérêt personnel matériel. Cette
recherche du prestige comme fin est irrationnelle du point de vue du premier
critère de rationalité, mais le choix de l’innovation comme moyen est adapté à
la fin recherchée dans ce contexte donné et est donc rationnel par rapport à
cette fin du point de vue du second critère de rationalité20.
On remarquera que les décideurs au plan politique et les leaders idéologiques, s’ils souhaitent favoriser l’innovation, feront un choix rationnel par
rapport à cette fin (au sens du second critère de rationalité) s’ils ne cherchent
pas à valoriser absolument l’idéologie du bien-être mais préservent, au
contraire, le sens de l’honneur et du prestige social qui peuvent éventuellement exister dans ces sociétés et cherchent à orienter celui-ci en faisant valoir
le prestige qui peut être retiré du fait d’être un pionnier21.
2/ Le modèle précédent peut être appliqué à l’invention en sciences. En effet, si la motivation principale d’un chercheur n’est pas l’invention comme fin
en soi (i.e le plaisir intrinsèque que celle-ci procure) mais l’assurance d’une
carrière aussi rapide que possible, la carrière étant considérée en termes de
biens monnayables (salaire, ville attractive, campagne accueillante, etc.), le
plus rationnel est dès lors de choisir un type de recherche qui assurera la réussite probable sans trop de risques, donc un programme de recherche qui a déjà
montré sa fécondité et permettra de garantir le minimum de publications pour
franchir les différents grades et échelons de la carrière académique. En revanche, si la motivation principale est le prestige associé à une découverte importante, alors le chercheur prendra plus facilement des risques.
Le plus vraisemblable est, en fait, que les motivations sont le plus souvent
mélangées. Si les opportunités de carrière sont faibles mais que les besoins
élémentaires sont satisfaits (un salaire minimal garanti de façon définitive), on
a des conditions sociales favorables à l’apparition de chercheurs visant avant
19
On remarquera néanmoins que, si le prestige social est une valeur qu’on rencontre dans des sociétés économiquement archaïques, c’est loin d’être la règle alors
que le prestige social y soit accordé aux innovateurs.
20
Il serait, à mon sens, malvenu ici de parler d’ « utilités » à propos de cette fin
qu’est ici la recherche du prestige quoique bien des économistes le feraient. Pour que
cela ait un sens, il faudrait que l’on soit dans une situation où le prestige social n’est
en réalité pas la fin dernière mais un moyen pour maximiser ses profits (parce que,
par exemple, le statut social ainsi acquis ouvre de nouvelles possibilités de gains
financiers ; ce cas est envisagé notamment par Elster, 1999.). Sinon, la distinction
entre les deux premiers types de rationalité se trouve brouillée.
21
Ce résultat est évidemment paradoxal par rapport à la thèse développée par
Hirschman (1980) et que j’ai rappelée plus haut.
77
tout le prestige associé à toute découverte importante, laquelle exige souvent
qu’on prenne des sentiers qui sont éventuellement sans issue, donc qu’on
prenne des risques importants. L’exemple d’Einstein, employé dans un Institut de physique très marginal pendant qu’il élabore la théorie de la relativité
restreinte (mais néanmoins doté d’un salaire) est souvent cité en ce sens22.
Il est à peine besoin de préciser ici que les politiques et les idéologues qui
veulent encourager l’innovation scientifique doivent, rationnellement parlant,
entretenir cette culture du prestige. On pourrait penser que, dans les faits, ils
jouent aussi sur le mélange des mobiles en dotant les prix d’une dotation en
argent parfois assez importante ; mais le nombre des prix étant très restreint et
leur attribution assez aléatoire23, il est improbable que l’obtention d’un prix
soit un des mobiles de la recherche.
3/ On peut montrer encore qu’aussi bien dans le cas des innovations techniques (en matière d’agriculture, par exemple, comme on vient de voir) que
celui des inventions ou découvertes scientifiques, des comportements identiques de l’extérieur à ceux que je viens de décrire peuvent être rationnels au
troisième sens, mais que, à l’aune de ce troisième critère de rationalité – presque jamais exploité dans les études appliquées – des comportements opposés
aux précédents peuvent eux-mêmes être dits rationnels. Cela suggère évidemment qu’au niveau normatif on hiérarchise ces critères de rationalité.
Ainsi les propriétaires fonciers auraient pu refuser l’innovation pour une
autre raison – et cela a peut-être été le cas effectivement de certains d’entre
eux. Ils auraient pu refuser ces innovations par volonté d’être cohérents avec
leurs choix antérieurs, par fidélité avec eux-mêmes en quelque sorte ou engagement à l’égard d’eux-mêmes. On pourra dire encore qu’ils n’ont pas voulu
« perdre la face » par rapport à eux-mêmes, par exemple s’ils se trouvent
qu’ils avaient refusé auparavant toute innovation24. Du point de vue de
l’amélioration de l’agriculture comme du point de vue du prestige attaché aux
innovateurs, comme – plus fondamentalement – du bien public, ces comportements sont tout à fait irrationnels. Ils peuvent, en outre, paraître ridicules. Ils
sont pourtant attestés. Et ils ne requièrent pas nécessairement une analyse en
termes – métaphoriques et mécanistes – de résistance à l’innovation ou de
force d’inertie puisque l’acteur peut se sentir justifié, i.e. avec des arguments à
22
Un récent titulaire de la médaille d’or du CNRS français, Alain Aspect, un physicien hors pair, décrit lui-même son parcours dans des termes voisins (Alberganti,
2005).
23
Cf. l’exemple de l’attribution du prix Nobel de Chimie 2005 (prix destiné à
poursuivre les recherches à l’abri des pressions financières) à un chercheur retraité,
Yves Chauvin, pour des découvertes remarquables mais faites trente ans auparavant.
24
La « perte de la face » par rapport aux autres (que Goffman (1973) considère
essentiellement) peut mettre en jeu un autre type de mécanisme ; j’y viens en III.
78
l’appui (la fidélité par rapport à soi) à refuser rationnellement – au troisième
sens de ce terme – l’innovation.
Ce modèle de la rationalité au troisième sens vaut pour le monde scientifique également. On peut ainsi expliquer l’attachement de chercheurs à des
modes d’approche ou à des paradigmes qui manifestent depuis pourtant longtemps leur manque de fécondité par une volonté de cohérence avec des choix
antérieurs, laquelle peut s’exprimer par le souci de ne pas perdre la face en
manifestant que l’on s’est trompé dans les choix antérieurs. Dès lors des comportements opposés à ceux des inventeurs peuvent donc être rationnels – selon
le troisième critère de rationalité.
Ce type de rationalité – la cohérence avec soi-même – peut ainsi paradoxalement être un obstacle à l’innovation comme à l’invention. Les décideurs politiques et les leaders idéologiques qui visent le bien public seront, en
conséquence, rationnels à leur tour s’ils cherchent à dévaloriser la rationalité
comme fidélité par rapport à soi. Or, dans certaines cultures, il s’agit là d’une
valeur beaucoup plus importante que dans d’autres. Gambetta (1998) prétend
même que ce trait est caractéristique des sociétés méditerranéennes où
l’honneur et la préservation de la « face » sont hautement valorisés25.
On remarquera que le travail idéologique qu’il y aurait éventuellement à
faire pour favoriser l’innovation s’avère délicat car le sens de l’honneur peut
conduire aussi, comme on l’a vu précédemment, à vouloir l’innovation en
raison du prestige qui lui est associé dans certaines cultures.
III. Invention et innovation comme moyens en vue d’autres fins ou
comme fins en soi dans une perspective rationaliste interactionniste et
dans une perspective supra-individualiste. (Coopération et engagements
de groupe).
Dans ce troisième temps de mon analyse, je considérerai désormais
l’innovation et l’invention simplement comme moyens en vue d’autres fins
(gains financiers ou reconnaissance sociale, par exemple), donc comme fins
médiates, et je laisserai à l’horizon de mes analyses l’idée que ces fins peuvent, bien sûr, être parfois voulues aussi en elles-mêmes (en d’autres termes
que les acteurs sociaux peuvent prendre un plaisir intrinsèque à l’innovation et
à l’invention).
Mais je mobiliserai ici deux autres types de modélisations qui sortent du
cadre « atomistique » précédent et qui introduisent explicitement respectivement la dimension des interactions – rendant possible la coopération – avec
25
Des études récentes (Stewart, 1994) montrent que si des cultures de l’honneur
existent bien, leur localisation spécialement méditerranéenne est erronée.
79
les autres et la dimension du groupe. Je les prendrai successivement.
Rapporté aux analyses précédentes, on pourrait dire que le problème revient ici à examiner dans quelle mesure, d’un côté, les interactions entre les
individus, de l’autre leurs engagements dans des groupes, peuvent être rationnellement voulus ou au contraire évités par les acteurs dans la mesure où ils
jouent un rôle favorable ou au contraire néfaste, d’un côté à l’émergence de
nouvelles idées (moment de « l’invention »), de l’autre à leur diffusion (moment de l’ « innovation ») – sachant, bien entendu, que l’invention ne peut
avoir, de toutes façons, comme source directe quelle que soit par ailleurs la
nature des motifs prédisposants (soit essentiellement individuels soit plus
interactifs ou collectifs) que des capacités intellectuelles, imaginatives, sensitives, affectives individuelles, sans oublier le rôle de l’heureux hasard (la serendipity).
On peut formuler les questions précédentes de façon plus concrète : un entrepreneur qui souhaite augmenter les bénéfices de son entreprise (et par là ses
bénéfices personnels) et qui est convaincu que certaines innovations techniques peuvent y contribuer doit-il chercher à coopérer avec d’autres entrepreneurs dans des relations qui resteront interindividuelles ? Doit-il chercher à
s’engager avec d’autres de façon plus proprement collective ? Parallèlement,
un chercheur qui souhaite se faire reconnaître pour ses recherches et qui est
convaincu qu’il y réussira d’autant mieux que ses recherches sont de véritables découvertes doit-il chercher la coopération avec d’autres chercheurs ou
assistants de recherche? Doit-il s’engager dans des projets plus proprement
collectifs (autour de programmes de recherche communs, par exemple) ?
1/ le modèle des interactions.
Quand on utilise un modèle d’analyse interactionniste simple, on réintroduit l’existence d’interactions entre les individus – i.e. l’idée que les individus
exercent une influence les uns sur les autres – et même, plus élémentairement, l’existence de relations, que, par abstraction, j’avais laissées de côté
précédemment
On prendra garde à ce que, en général, i.e. sauf à être pathologiquement
misanthrope, les gens préfèrent les relations sociales à la vie tout à fait solitaire, de sorte qu’il est difficile de se déprendre d’une valorisation en quelque
sorte éthique des modèles interactionnistes par rapport aux modèles atomistiques. Mais cette valorisation ne doit pas prendre le pas sur ce qui est en jeu
quand il s’agit d’évaluer la pertinence explicative respective de plusieurs modèles, d’autant qu’il existe toutes sortes d’interactions – des interactions égalitaires ou, de façon générale, « horizontales », aux relations hiérarchiques et
« verticales » – et des relations de coopération aux relations de conflit, les
relations de coopération et de conflit pouvant être envisagées tant au niveau
80
horizontal – on peut coopérer avec ses pairs mais aussi être en concurrence
avec eux – que vertical – on peut coopérer avec des supérieurs en se soumettant à leurs exigences et avec des subordonnés en leur faisant faire ce qu’on
souhaite d’eux, comme on peut aussi se révolter contre l’autorité illégitime ou
réprouver ostensiblement le manque de travail de subordonnés26.
D’un point de vue rationaliste – et du point de vue des différents types de
rationalité distingués – il faut donc examiner en quelque sorte froidement les
avantages de la coopération sous ses différentes formes. Ici cependant, vu que
l’examen des différentes possibilités conceptuelles serait rébarbatif et qu’en
outre certaines « cases » seraient parfois à peu près vides, les études effectives
faisant défaut, je partirai d’études existant effectivement mais qui, ayant été
élaborées dans des cadres sensiblement différents, ne se soucient pas
d’appliquer systématiquement les distinctions conceptuelles mêmes que je
viens d’exposer. Il faudra donc les recadrer rétrospectivement pour les mettre
en cohérence avec la démarche adoptée ici.
A/ C’est d’abord dans le cadre des sciences politiques que la question de la
valeur ajoutée des interactions pour l’inventivité a été abordée. Le modèle
classique de la TCR en sociologie prend simplement acte, en effet, de ce que
les acteurs sont seuls dans l’isoloir ou que les membres des Parlements votent
eux-mêmes individuellement – du moins devrait-ce être le cas27. On peut appliquer le même modèle à des débats extra-parlementaires mais fonctionnant
sur un schéma analogue, telles les diverses procédures de débat public qui se
développent de plus en plus dans les démocraties occidentales en vertu de
l’exigence nouvelle de « gouvernance », i.e. de modes de gouvernements plus
près des riverains des grands ouvrages d’aménagements du territoire projetés
et donc plus aptes que les gouvernements à anticiper les réactions28.
Les individus en question peuvent là encore choisir en fonction de leur intérêt personnel matériel ; ils peuvent le faire aussi en fonction de valeurs ; ils
peuvent enfin se soucier simplement de cohérence avec les choix antérieurs,
quelle que soit la nature de ceux-ci. Mais on sait bien qu’il s’agit là d’une
abstraction et que, dans les faits, les électeurs comme les membres des Parlements discutent entre eux, a fortiori les participants d’un débat public organisé
par l’Etat. La question est de savoir, bien entendu, si ces discussions apportent
26
L’économie et la sociologie contemporaines distinguent aussi les relations de
coopération (ou de collaboration) des relations de simple coordination; je ne considèrerai pas ici ces dernières.
27
On sait, en effet, que dans les Parlements occidentaux, les votes sont parfois
groupés, un seul individu actionnant par exemple successivement le clavier électronique de chacun des membres du parti absents (parfois en très grand nombre).
28
Voir, par exemple, la loi Barnier de 1995 en France et la loi de «démocratie de
proximité » qui l’a perfectionnée.
81
quelque chose de nouveau, i.e. si elles modifient les idées des uns et des autres dans le sens d’un gain cognitif. Certaines caractéristiques de la discussion, comme l’exigence de formuler des arguments, peuvent favoriser a priori
l’émergence d’idées nouvelles intéressantes. D’où la valorisation actuelle de
la démocratie dite délibérative29. Mais la question régulièrement posée à son
propos est de savoir dans quelle mesure celle-ci est profitable pour dégager
une solution conforme au bien public, a fortiori pour que des innovations
adaptées soient adoptées. On peut, en effet, considérer qu’il y a là beaucoup
de dépense de temps sans que le résultat soit forcément proportionné.
L’argument le plus fréquemment employé alors est de dire que plus
d’intelligences sont réunies, plus il y a a priori de chances d’avoir des idées
neuves ou/et de bons arguments pour les étayer. Cela peut se décliner sous
différents modes. H. Simon avait par exemple attiré l’attention, bien avant
même que ces questions ne soient à l’ordre du jour, sur le fait que les individus raisonnaient forcément toujours avec un nombre limité d’hypothèses,
lesquelles avaient tendance à constituer un monde clos, ce qui signifie que,
spontanément, les individus éliminent des hypothèses pourtant logiquement
possibles30. Mais si l’on est plusieurs, il semble raisonnable de penser que le
nombre d’hypothèses auxquelles l’ensemble des individus réunis pensera sera
plus élevé et donc que, même si le monde des hypothèses restera, de toutes
façons, forcément encore clos, cette clôture sera reculée. Dans les faits, pourtant, il y a beaucoup de raisons pour qu’il n’en soit pas réellement ainsi, dans
la mesure, notamment, où la recherche de la vérité concernant le bien public
est souvent loin d’être le principal but des participants au débat.
On peut reprendre de ce point de vue une étude fameuse plus ancienne
concernant les avantages de la discussion publique argumentée – on dirait
aujourd’hui : de la délibération – du point de vue de l’innovation. Ici, les motifs en jeu relèvent bien du self-interest matériel, en l’occurrence très élémentaire. L’étude classique de Samuel Popkin réalisée sur les paysans du Vietnam
est à cet égard, fort intéressante31. Popkin posait la question de savoir s’il était
rationnel de recourir à la discussion lorsqu’il s’agissait de prendre une décision, en l’occurrence l’introduction d’innovations techniques. Popkin se situait ici dans la perspective d’acteurs sociaux qui visent individuellement la
satisfaction de leur self-interest matériel (1° critère de rationalité). Les palabres peuvent, en effet, prendre beaucoup de temps, lequel pourrait a priori –
i.e. du point de vue du sociologue et de l’économiste qui arrive sur le terrain –
29
Sur l’idée d’un gain cognitif par cette voie, voir notamment Eastlund (1997).
Cf Simon (1982).
31
Me contentant ici, à nouveau, de reprendre une étude classique, je le fonde sur
l’exposé qu’en a fait Boudon (1984), en l’abordant cependant de façon légèrement
différente vu le type de questions que je suis amené ici à poser.
30
82
être mieux employé en ce qui concerne la satisfaction même du self-interest
des acteurs. Mais, dans un pays comme le Vietnam de Popkin, l’économie
étant une économie de subsistance, le temps est loin d’être tout entier occupé,
ce qui fait que ce n’est donc pas une variable à beaucoup prendre en compte.
On pourrait penser, en outre, selon le modèle de Simon, que la multiplication
des intelligences va permettre de faire le meilleur choix. En l’occurrence Popkin, dans The Rational Peasant, montre que, dans le cas des villages vietnamiens, l’innovation technique est refusée si un seul y est opposé, ce qui risque
d’être irrationnel du point de vue du bien collectif (si la majorité pense bien)
mais pas forcément du bien de chacun. En effet l’augmentation de la productivité de la moisson chez l’un peut réduire le rendement du glanage chez
l’autre, parce que, dans ces villages il y a une sorte de droit de glane, qui autorise à ramasser à son profit les épis qui ont échappé au moissonneur ; or avec
la mécanisation, la quantité d’épis laissés diminue considérablement.
L’élément déterminant ici n’est pas que l’on a profité d’une intelligence de
plus mais que les individus se sont souciés du bien de chacun. On remarquera
que s’ils l’ont fait, il n’y a pas nécessairement à supposer qu’ils mettaient la
générosité, parmi leurs préférences, à un rang supérieur à celui de leur selfinterest matériel. Il suffit de prendre en compte le fait que, dans ces villages, à
la différence des villages bengalis qu’étudiait Badhuri, les différences de revenus économiques entre les individus sont si faibles que nul ne peut éliminer
la perspective qu’il sera un jour dans une position telle que les décisions majoritaires du groupe menaçassent jusqu’à sa survie. De sorte que le selfinterest matériel bien compris et prenant notamment en compte le cours ultérieur de l’existence plaide en faveur d’un vote à l’unanimité32. Ici, aussi paradoxal que cela puisse paraître, la coopération entre les acteurs quant à la prise
en compte du self-interest matériel élémentaire de chacun conduit donc à
refuser l’innovation. L’innovation serait ici favorable au bien public mais pas
forcément au bien de chacun.
Je ne m’étends pas davantage sur ce sujet car le domaine de la recherche
scientifique est un domaine où existent des études récentes assez nouvelles sur
la question de la pertinence de la coopération et je préfère donc maintenant
m’y reporter. En outre, la discussion scientifique ressemble à une délibération
démocratique idéale, la cité scientifique paraissant classiquement elle-même,
à tort ou à raison, comme une sorte de modèle approché de la cité démocratique idéale.
B/ Un historien des sciences, Paul Thagard (1997), a ainsi fourni une ana32
Axelrod (1992) a développé des modèles bien connus du fondement intéressé de
ces formes (apparentes) d’altruisme.
83
lyse des avantages et des inconvénients de la coopération quant à l’émergence
des découvertes scientifiques dès lors que cette coopération est prise par les
acteurs scientifiques comme fin médiate en vue d’une autre fin (notamment la
reconnaissance intellectuelle venant de la communauté scientifique) ; il montre que, dans certains cas, il faut aussi envisager que la coopération est choisie
comme fin intrinsèque (i.e. le plaisir qu’on éprouve à faire de la recherche à
plusieurs). L’essentiel de la contribution de Thagard est d’établir des distinctions pour montrer que, selon les types de collaboration (vertical / horizontal)
et les positions respectives qu’y occupent les collaborateurs en question, mais
aussi selon les disciplines, cette collaboration est plus ou moins « intéressante », i.e. est un moyen plus ou moins adapté à la fin visée. On peut prolonger cette analyse en distinguant plus explicitement que Thagard les différentes
formes de rationalité dont j’ai parlé. On peut évoquer également, furtivement,
les fins des décideurs publics et des leaders idéologico-culturels eux-mêmes,
dans les limites que nous nous sommes fixés (les avantages et les inconvénients de la coopération scientifique du point de vue du bien public posé
comme fin), ce que Thagard laisse aussi de côté.
Thagard (1997) s’intéresse d’abord à la coopération que l’on peut appeler
verticale – i.e. entre individus qui ne sont pas des égaux par la compétence et
ou le statut – par exemple un chercheur et un aide de laboratoire ou un chercheur et un étudiant. Il ne considère explicitement comme motif que le prestige lié aux découvertes. De ce point de vue, l’aide d’un assistant peut être
utile pour le chercheur si l’assistant est compétent et de bonne volonté et que
le former n’est pas trop long pour les tâches particulières à accomplir (montage d’expérimentations, par exemple). Si ces conditions sont remplies, le
temps ainsi libéré sera autant de gagné pour le chercheur. Sinon,
d’avantageuse la coopération deviendra un handicap. L’aide d’un étudiant, un
doctorant en général, peut également lui être utile de ce même point de vue –
avec les mêmes réserves – mais si le chercheur applique la déontologie en
vigueur, il devra partager avec lui la reconnaissance, ce qui représente une
nouvelle forme de coût.
Du point de vue de l’étudiant, Thagard fait remarquer que les choses sont
différentes, à l’heure actuelle, selon les disciplines. Thagard note en effet que
la coopération – chercheur / doctorant – est régulière dans les sciences physiques et biologiques et aussi dans les sciences cognitives mais qu’en revanche
elle est nettement moins répandue dans les sciences de l’homme et en philosophie. Dans ces deux derniers types de disciplines, cela vient d’abord d’une
part que les programmes de recherche collectifs, en dehors de programmes
ponctuels, sont nettement plus rares, de l’autre que le recherche n’y demande
pas, en général, des sommes d’argent considérables et que, si elle le requérait,
cet argent ferait, de toutes façons, défaut.
Dans les disciplines où la coopération verticale est répandue, la coopéra84
tion n’est rationnelle (au sens du second critère de rationalité) du point de vue
de l’étudiant que pour autant qu’elle ne dure pas trop longtemps, étant donné
que l’étudiant doit faire un jour la preuve de ses compétences personnelles en
tant que chercheur. De façon générale, on peut dire que, dans ces disciplines,
le chercheur – quel que soit son statut – a intérêt (du point de vue de la recherche de reconnaissance) à publier seul s’il est bon ou très bon et avec
quelqu’un de meilleur que lui ou de plus réputé que lui s’il est moins bon.
Mais cela n’est pourtant vrai que si le déséquilibre n’est pas trop grand, sans
quoi c’est au plus réputé que l’on attribue l’ensemble, ce qui se passe précisément dans la collaboration entre senior et doctorant33. Le doctorant n’a alors
« intérêt » à cette collaboration (i.e. il n’est rationnel pour lui de collaborer au
sens du second critère de rationalité) que pour autant qu’elle lui permet de se
former.
Mais, dans ces disciplines, Thagard distingue encore deux cas, selon que
l’exercice de la discipline requiert ou non un financement important. Dans le
premier cas, par exemple en physique nucléaire ou en physique quantique, on
ne demande pas au jeune chercheur de faire preuve d’indépendance d’esprit et
de mener un programme personnel pour être reconnu car, s’il avait un tel programme, il ne lui serait de toutes façons pas possible de le financer ; le chercheur est donc jugé sur son aptitude à s’inscrire dans un programme de recherche collectif ; on pourrait ajouter, ce que Thagard ne fait pas, que le jeune
chercheur est davantage soumis au risque de faire profiter des seniors de la
reconnaissance qui lui serait due. Cela pose des problèmes intéressants en
termes de paternité de découvertes34. Dans le second cas, comme en sciences
cognitives, il y a en revanche une pression normative pour que le jeune chercheur s’engage assez tôt dans un programme personnel.
Thagard ne s’y étend pas mais on peut dire que, du point de vue du bien
public, la coopération entre seniors et jeunes chercheurs est probablement en
règle générale très positive, d’une part en termes d’accroissement du savoir,
de l’autre en termes de formation des chercheurs et que les décideurs publics
devraient donc l’encourager. Cette exigence du point de vue du bien public a
toutefois tendance à entrer en conflit avec le désir de reconnaissance personnelle des chercheurs. Or on peut aussi considérer que si ce désir est l’un des
motifs les plus puissants de la recherche, il est nécessaire de ne pas le brimer
sous des contraintes normatives démobilisantes et donc de ne pas forcément
pousser à la collaboration. On retrouve ici les questions classiques, de Mandeville à Hayek, d’articulation entre « vices privés » et « vertu publique ».
33
Selon le cruel principe biblique : « A celui qui a on donnera encore ; à celui qui
n’a pas, on enlèvera même ce qu’il a ».
34
Généralement c’est « l’équipe du Professeur Untel » à qui est attribué la paternité de la recherche ; mais cela ne dit rien de la contribution effective de chacun.
85
Thagard s’intéresse surtout, en fait, à la coopération horizontale entre
chercheurs soit d’une même discipline, soit de disciplines différentes. Dans le
premier cas, on peut se demander quel peut être le bénéfice de coopérer avec
quelqu’un qui a les mêmes compétences, sinon éventuellement d’accélérer le
cours de la recherche dans les cas où celle-ci peut être divisée. Dans le second
cas, le bénéfice ne pas non plus de soi – comme les praticiens de
l’interdisciplinarité en sont souvent convaincus, du reste – car il faut souvent
un temps considérable pour arriver à ce que des chercheurs appartenant à des
disciplines différentes s’entendent sur leurs objets et leurs préoccupations
respectifs. Dans les deux cas, mais de façon encore plus nette dans le premier,
le bénéfice de la critique mutuelle est probablement l’un des bénéfices les
plus évidents.
Mais le bénéfice de la coopération dans les deux cas est probablement aussi d’un autre ordre : le simple plaisir qu’on y prend. Dans les cas d’une carrière heureuse, le chercheur peut ainsi prendre un plaisir intrinsèque à la coopération avec d’autres et un plaisir intrinsèque aux découvertes qu’il fait,
quels que soient les avantages matériels (augmentation de salaire) ou symboliques (reconnaissance des pairs) qu’il en retire ou non par ailleurs. Ce que ne
mentionne pas Thagard, c’est que ce plaisir peut avoir un rôle motivationnel
important dans la recherche, de sorte qu’un des bénéfices à tirer de la coopération relève des facteurs émotifs ou affectifs. Mais cette question précise
déborde notre sujet35.
On se récrie souvent contre la théorie du choix rationnel parce qu’elle
donne des acteurs sociaux une représentation d’acteurs constamment intéressés : quand ce n’est pas par la recherche de l’argent ou du pouvoir, c’est par
celle du prestige ou de la reconnaissance sociale. Mais, si nombre de recherches appliquées en théorie du choix rationnel tombent de fait sous ces critiques, il se trouve que c’est dû à une conception étroite de la rationalité des
choix et donc en contradiction avec les principes mêmes de la théorie du
choix rationnel. Au second sens du terme « rationnel », est en effet rationnel
tout comportement adapté à la fin recherchée, quelle que soit celle-ci. Or
celle-ci peut être le plaisir intrinsèque de la recherche comme le plaisir intrinsèque du travail à plusieurs (et, en général, de la vie relationnelle) et ces fins
sont différentes des plaisirs matériels (d’un appartement agréable à des voyages dans des climats accueillants en passant par une voiture fonctionnelle ou
sportive et la bonne chère ou les bons vins) ou de la reconnaissance des pairs
que les acteurs peuvent aussi chercher. Or si c’est cette fin que les acteurs
cherchent – le plaisir intrinsèque des relations sociales intellectuelles, quel
35
On ne manquera pas, en revanche, de faire la comparaison avec le fait que désirs d’invention ou d’innovation eux-mêmes peuvent avoir une finalité intrinsèque, i.e
prendre leur source aussi dans la seule satisfaction qu’on y éprouve (cf supra).
86
qu’en soit le profit même qu’on en tire pour ses propres découvertes – il est
rationnel (au second sens de « rationnel ») de rechercher la coopération.
L’exemple que Thagard (1998a et 1998b) étudie le plus en détail à propos
de la coopération entre chercheurs de niveau de compétence analogue appartenant à des disciplines différentes est celui de la découverte de l’existence de
la bactérie à l’origine de la plupart des ulcères à l’estomac. Il montre notamment comment l’hypothèse considérée comme la plus probable à cette époque
– à défaut d’avoir jamais pu être vérifiée, le processus mécanique en jeu
n’ayant jamais pu être identifié dans le détail – à savoir l’acidité excessive,
elle-même causée par le stress, n’a été démentie par la découverte d’une autre
cause, toute différente, à savoir le rôle d’une bactérie, Helicobacter pylori,
que par la collaboration entre plusieurs disciplines. Warren, spécialiste en
pathologie, découvre en 1979 des bactéries inhabituelles lors des biopsies de
l’estomac qu’il pratique mais il n’est alors pas certain que la bactérie ait quelque importance au plan médical. En 1981, il commence à travailler à l’Hôpital
Royal de Perth, en Australie, avec Barry Marshall, formé, lui, en gastroentérologie. Ils montent ensemble une expérience qui met en évidence le lien entre
cette bactérie et l’ulcère de l’estomac, dont ils publient les résultats en 1985.
Et ils réussissent ensuite, en 1988, à montrer que ces ulcères peuvent être
guéris par des antibiotiques ; mais cette dernière étude a requis à son tour les
compétences de spécialistes en microbiologie, microscopie électronique et
pharmacie, de sorte que, au bout du compte, l’article de 1988 est signé par
neuf co-auteurs. Dans ce cas, la découverte n’a été possible, vu les compétences très différentes requises que par la collaboration entre chercheurs – et de
chercheurs de disciplines différentes. Thagard ne dit rien des frustrations
éventuelles de la majorité des chercheurs ou au moins de celle de Warren du
fait que Marshall seul a été bénéficiaire du prestigieux prix Lasker en 1995 et
donc que la reconnaissance sociale intellectuelle a été bien peu partagée36.
C/ Thagard reste toutefois encore dans les généralités dans son mode
d’analyse du rôle fécond de la coopération dans les disciplines scientifiques.
On en trouve en revanche une analyse extrêmement détaillée dans l’ouvrage
que Mara Beller a consacré à l’émergence de la mécanique quantique au sein
de l’Ecole de Copenhague, Quantum Dialogue (1999). Il s’agit d’une collaboration entre des chercheurs d’une même discipline (Bohr, Heisenberg, Pauli,
Dirac, etc.), mais dont les compétences n’étaient pas exactement les mêmes.
Ainsi Bohr recourrait-il aux compétences plus grandes de Pauli en mathématiques pour mettre en forme ses articles techniques.
Le cas de l’émergence et du développement de la mécanique quantique est
36
D’autant que, selon le récit de Thagard, c’est une observation de Warren qui a
été le moment inaugural de cette découverte.
87
spécialement intéressant car il est très représentatif de la recherche actuelle :
la construction d’une théorie générale à partir de l’apport d’un nombre important d’individus alors que le cas illustré paradigmatiquement par Einstein d’un
chercheur construisant à lui seul une théorie d’envergure – voire deux au
moins, dans le cas d’Einstein37 – est exceptionnel. Mara Beller montre, en
outre, que chaque contribution individuelle, toute solitaire qu’elle soit – et
Einstein lui-même n’a pas échappé ici à cette règle (Beller M., R. Cohen and
J. Renn (eds), 1993) – est néanmoins le fruit d’interactions intenses entre
chercheurs. Dans le cas de l’Ecole de Copenhague, la coopération résidait
essentiellement dans des discussions orales et des échanges de lettres (alors
que dans le cas de Warren et Marshall, il s’est agi de mettre au point ensemble
des expérimentations). Certains des articles les plus originaux, comme le fameux article d’Heisenberg de 1927 sur le principe d’incertitude portaient particulièrement la marque de ces échanges épistolaires, de sorte qu’on peut
conclure à une véritable dialogicité de l’oeuvre d’Heisenberg.
Mais le gain en termes de reconnaissance dans cette coopération a été, là
aussi, très inégal selon les auteurs. Beller (1999) montre ainsi que Heisenberg
ne reconnaît pas sa dette à l’égard de tous ceux qui, dans ces échanges, ont
contribué de facto à sa propre découverte38. La coopération a eu beau, en effet, être entre des pairs, au sens où il s’agit toujours de chercheurs déjà reconnus, il y a néanmoins encore entre ceux-ci une hiérarchie intellectuelle assez
subtile, et telle qu’il est préférable pour le chercheur plus renommé de ne pas
reconnaître ses dettes à l’égard du moins connu du point de vue de sa propre
renommée39. De sorte que l’on peut dire que, du point de vue des chercheurs
les moins renommés de l’Ecole de Copenhague, les avantages en termes de
reconnaissance par les pairs ont été bien moindres. Tout au plus ont-ils pu
espérer la reconnaissance seulement privée des chercheurs le plus reconnus
publiquement, comme Heisenberg.
Thagard n’envisageait à aucun moment dans son étude le fait que la coopération ou la collaboration entre chercheurs de niveau de savoir et de statut
corrélatif très différents pouvait avoir aussi un effet néfaste du fait des relations d’autorité épistémique. L’Ecole de Copenhague en fournit précisément
un excellent exemple. Il a, en effet, aussi existé une coopération plus explicitement verticale dans cette école. La « déférence », comme on dit souvent
maintenant en ce contexte de façon un peu emphatique ou hyperbolique, à
l’égard d’une autorité, est une attitude à double tranchant. Contrairement à
37
La théorie de la relativité restreinte et la théorie de la relativité générale.
Cf notamment, chapter 4 : « Dialogues with ‘Lesser’ Scientists » (pp. 96-101).
39
Propos d’un universitaire français à qui on reprochait de ne pas toujours reconnaître ses dettes : « Les grands auteurs, on les cite, les petits, on les pille ». Ce topos
pourrait être assez communément répandu dans le communauté scientifique quoique
rarement affiché publiquement.
38
88
une vue répandue, l’argument d’autorité n’est pas entièrement irrationnel du
point de vue des valeurs mêmes de la connaissance, car il est impossible à un
étudiant de refaire toutes les expériences et toutes les démonstrations par luimême. De sorte qu’il y a beaucoup de choses que l’étudiant doit croire en
quelque sorte sur paroles. Mais, d’un autre côté, bien évidemment, la soumission à une autorité intellectuelle peut avoir un effet sclérosant. L’histoire de
l’école de Copenhague dans sa deuxième période, comme le montre Mara
Beller, illustre clairement ce deuxième cas. Niels Bohr est en effet connu pour
avoir exercé un vrai charisme auprès des jeunes doctorants mais un charisme
foncièrement négatif puisque ceux-ci « buvaient » littéralement ses paroles, y
compris lorsque Bohr était devenu de plus en plus obscur et donc peu apte à
indiquer des directions de recherche fructueuses.
De sorte que, au bout du compte, on peut dire que, sous certaines conditions, la coopération est bénéfique à la recherche et donc que, si l’inventivité
scientifique est la fin recherchée, il est rationnel – au sens du second critère de
rationalité – sous certaines conditions, de rechercher la coopération ; cela
vaut tant pour les chercheurs que pour les décideurs publics et les leaders
idéologico-culturels. Mais, du point de vue de chercheurs qui visent la reconnaissance de leurs pairs ou, dans le cas des étudiants, la reconnaissance de
chercheurs seniors, il pourrait être, au contraire, rationnel dans certains cas
d’éviter la coopération.
2/ le modèle « supra-individualiste ».
Il se trouve que l’exemple de Thagard a été repris récemment sous un tout
autre angle par une philosophe britannique, Margaret Gilbert, laquelle se livre
depuis une vingtaine d’années à une reconstruction de la notion durkheimienne de représentation collective en cherchant à expliquer la genèse des
représentations collectives à partir de processus interactifs. Margaret Gilbert
restaure ainsi en partie l’idée durkheimienne que l’on peut concevoir des représentations collectives comme distinctes des représentations individuelles et
comme irréductibles aussi bien à la somme de ces représentations individuelles qu’à leur noyau commun. Or elle montre, dans un des chapitres de Sociality and Responsability (Beller, 2000, chap. 3), comment ces représentations
collectives peuvent jouer un rôle très défavorable du point de vue de
l’inventivité et ensuite de la diffusion des découvertes en prenant l’exemple
même de Thagard. J’expose ici le traitement gilbertien de cet exemple40 et
40
Gilbert dit que c’est une conférence de Paul Thagard à laquelle elle assistait, à
la London School of Economics, en 1997, et un bref échange entre eux lors de la discussion, qui ont été le point de départ des analyses de ce chapitre (d’abord publié
comme article en italien) (Gilbert, 2000, p. 47).
89
j’applique ensuite le modèle gilbertien à l’exemple de l’Ecole de Copenhague
puis à un nouvel exemple, qui ne relève plus de l’histoire ou de la sociologie
des inventions ou découvertes scientifiques mais de la sociologie des innovations techniques.
A/ Margaret Gilbert part du fait que les hypothèses de Marshall et Warren
se sont heurtées pendant longtemps au rejet de la communauté scientifique,
alors même que la question des liens entre excès d’acidité et ulcère à
l’estomac restait une question ouverte puisqu’on n’avait pas trouvé le microprocessus causal qui menait de cet excès d’acidité à l’ulcère, encore moins du
stress à l’ulcère41. Le premier article de Marshall et Warren date, comme on
l’a vu, de 1981 mais l’hypothèse de Marshall et Warren ne fut finalement
largement acceptée qu’au début ou au milieu des années 90, ce que montre
finalement, selon Thagard, l’obtention par Marshall, en 1995, du prix Lasker,
couronnant, en quelque sorte, cette reconnaissance (cf supra).
L’interrogation de M. Gilbert, qui applique à cet exemple un modèle élaboré dans l’analyse de la vie quotidienne et de groupes informels de divers
types en retrouvant des intuitions de Georg Simmel, porte sur la nature de la
croyance des savants dans des cas de ce genre. On doit, en effet, exclure que
les savants spécialistes du domaine aient cru au sens fort de ce terme (disons :
en leur for intérieur) que la cause de l’ulcère à l’estomac fût le stress puisque
le processus qu’il aurait fallu avoir mis à jour pour que la croyance en question fût scientifiquement fondée n’avait pas été découvert. Au lieu de parler
de croyance (belief), il vaudrait mieux parler d’acceptation (acceptance) –
j’utilise ici moins la conceptualisation originale de Gilbert qu’un amendement
qui lui a été apportée par Meijers (1999) et Wray (2000) car Gilbert est moins
claire – pour signifier que c’est par une sorte d’acte volontaire que les savants
donnent leur adhésion à cette hypothèse qui, en l’état de la recherche, n’est
que la plus plausible. Mais ce modèle purement individualiste –dit en substance Gilbert – n’explique pas pourquoi, face à un nouveau type d’explication,
les savants n’abandonnent pas purement et simplement leurs croyances antérieures ou, plus exactement, leurs simples « acceptations » antérieures. Les
types d’explication exposés précédemment valent bien entendu ici, notamment l’idée d’une exigence de cohérence avec soi-même ou d’engagement par
rapport à ses choix antérieurs. Mais Gilbert reprend une autre hypothèse classique, à savoir qu’il peut aussi y avoir un phénomène de groupe.
Une telle conjecture peut être, bien entendu, modulée de bien des façons et
les études de psychologie sociale des cinquante dernières années se sont ainsi
intéressées aux phénomènes de conformisme (Asch). Mais elles décrivaient
41
Ce dont on disposait, c’était simplement de corrélations statistiques fortes entre
les deux phénomènes.
90
alors plus un phénomène qu’elles n’expliquaient vraiment le processus de sa
production. Ce qu’elles suggéraient, c’était l’existence d’un processus mécanique. Mais on peut aussi supposer un processus de type intentionnel, luimême rationnel sous un certain rapport. Le processus en jeu relèverait encore
de l’engagement avec des choix antérieurs mais il s’agirait d’un processus
d’engagement collectif, un « engagement de groupe » (group commitment),
comme disait déjà Kuhn à propos des paradigmes, mais sans rentrer lui non
plus dans le détail du processus. Gilbert propose d’envisager cet engagement
collectif comme un engagement conjoint (joint commitment) des individus les
uns par rapport aux autres dans une sorte de contrat tacite. Elle suppose donc
que l’acceptation de la théorie en question concernant l’origine probable de
l’ulcère de l’estomac dans le stress n’est pas un processus qui s’est opéré par
une simple addition d’actes d’adhésion individuels, mais dans des contextes
où un certain nombre de chercheurs étaient présents, par exemple lors de
conversations privées ou lors d’échanges dans des séminaires ou des colloques,
de sorte que les savants se sont sentis en quelque sorte engagés non seulement
par rapport à eux-mêmes mais aussi par rapport aux autres et devant eux, de
sorte que revenir sur ses propres opinions, c’eût été en même temps rompre ce
contrat tacite, donc se mettre hors groupe et se poser en outsider.
On devrait en conclure que, du point de vue de l’inventivité et de la
diffusion des innovations, les engagements collectifs sont néfastes et qu’il est
donc rationnel de les éviter, mais, si Gilbert a raison, ils sont plus ou moins
inévitables.
B/ On peut reprendre de la même manière l’exemple de l’école de Copenhague, intéressant parce qu’il présente à nouveau, sous ce rapport, un cas
paradigmatique. Beller a cherché à montrer, en effet, comment Bohr ayant
voulu donner une représentation collective des positions de l’Ecole de Copenhague, a écrit un texte syncrétique qui ne correspond à la pensée d’aucun des
membres de l’Ecole et pas même à celle de Bohr. Pourtant, cette pensée collective distincte de la pensée de chaque individu du groupe a pu légitimement
leur être imputée comme étant leur pensée en tant que membre de l’Ecole de
Copenhague. Dans ce cas particulier, la pensée collective n’a pas bloqué
l’inventivité des membres du groupe mais elle a rendu plus difficile la diffusion des idées propres à chacun, du seul fait qu’aucun n’a voulu rompre ce qui
le liait aux autres membres du groupe. Dans leurs conversations privées et
leurs échanges épistolaires, ils ont exprimé leur désaccord avec cette conférence de Niels Bohr. Mais ils n’en ont jamais fait état publiquement42.
42
Je ne m’étends pas ici sur cet exemple, que j’ai analysé longuement dans plusieurs publications, notamment Bouvier (2002) et Bouvier (2004a).
91
C/ Mais ce sont aussi les exemples politiques qu’il convient de reprendre,
ceux qui concernent l’introduction d’innovations technologiques – et éventuellement institutionnelles – armé de ce modèle « supra-individualiste».
Dans l’exemple étudié par Popkin, que nous avons considéré précédemment, il a en effet été possible de découvrir l’existence d’une tradition en
quelque sorte démocratique, qui consistait à requérir l’unanimité pour toute
décision collective. Se trouvait donc de facto éliminée une autre hypothèse,
qui aurait consisté à supposer l’existence d’un phénomène de groupe de type
« gilbertien », hypothèse qui n’oblige pas cependant à abandonner l’idée de
rationalité des choix des individus, même si elle oblige, en revanche, à situer
cette rationalité dans la cohérence des individus avec les choix antérieurs.
Dans d’autres cas, en effet, il est légitime de penser que les individus qui se
sentent liés au groupe refusent de rompre le contrat tacite qui le lie aux autres
individus de ce groupe. Dans le genre de cas étudié par Popkin, où les intérêts
matériels des individus sont directement concernés, il est difficile de prétendre
séparer par l’observation empirique ce qui pourrait relever de ce genre
d’exigence avec soi-même et de ce qui relève de l’intérêt bien compris.Dans
d’autres cas, on peut plus raisonnablement faire ce genre d’hypothèses.
Je prendrai ici l’exemple d’un type de débat public du type de ceux que
j’ai évoqués plus haut et qui relèvent de la démocratie de proximité. Ce débat
s’est passé en Provence-Côte d’Azur, en 1997–8. Un groupe d’écologistes, les
Verts du Var, prônaient l’installation d’éoliennes et de panneaux solaires au
lieu de l’installation d’une ligne électrique à Très Haute Tension qui aurait
acheminé l’électricité depuis les centrales nucléaires de la vallée du Rhône et
aurait été dégradante pour l’environnement (notamment parce qu’elle aurait
dû traverser le Parc Naturel du Verdon). Il s’agit bien ici d’un problème
d’innovation, en l’occurrence de nature technique. Or, tous les experts – aussi
bien ceux d’Electricité de France que ceux des autres groupes écologistes –
ont convenu après débat que ces solutions n’étaient pas proportionnées aux
besoins électriques de la région. On est donc en face d’une innovation qu’il
est manifestement irrationnel du point de vie scientifique de l’expertise (et du
point de vue du bien public) d’adopter en la circonstance Seuls les Verts ont
continué à s’opposer, faisant comme si les expertises n’avaient pas même été
mentionnées. Pour un motif a priori incompréhensible, ils ont continué à défendre ces énergies alternatives. Apparemment, leur position est donc irrationnelle.
On peut cependant aussi envisager – autre hypothèse – que les individus ne
voulaient pas se dédire personnellement par rapport à des choix antérieurs.
Mais, le fait que les individus en question sont membres d’un groupe qui a des
positions sur la question et que tous les membres de ce groupe adoptent la
même attitude de refus des conclusions des experts alors que les autres groupes écologistes ont modifié leur position pour l’adapter au cas en question
92
suggère une autre hypothèse encore, à savoir que c’est un phénomène de
groupe qui est en jeu et cette hypothèse se décline encore d’au moins deux
façons. Il n’est pas possible en effet d’éviter ici l’hypothèse du simple
conformisme, ne serait-ce que parce qu’il aurait fallu pour cela être capable au
moins de se livrer à des observations directes et des interviews à l’époque des
faits. Mais on ne peut non plus évacuer une hypothèse rationaliste en ce sens
que les membres de ce groupe ne voulaient pas rompre le « contrat tacite »
qui le laient aux autres membres du groupe. Peut-être l’évolution n’est-elle
possible en des cas de ce genre que s’il y a des individus, ou au moins un, qui
acceptent au contraire la possibilité de se retrouver hors-groupe, acceptant
aussi ce que les expertises semblent attester sans doute possible.
Conclusion
Je conclurai brièvement ce long examen en rappelant d’abord que des types très différents et parfois contradictoires de comportements peuvent être
justifiables par différentes formes de rationalités et, en conséquence, qu’un
point de vue normatif valorisant les choix rationnels doit nécessairement spécifier le type de rationalité qui est considéré et qui est valorisé.
Si l’on considère qu’inventivité et diffusion des innovations sont en soi des
valeurs, c’est bien entendu le second critère de rationalité comme recherche
des moyens adaptés à une fin quelle qu’elle soit qui est seul pertinent. Mais ce
critère est, à l’évidence, distinct du critère usuel de rationalité puisque, dans
l’usage le plus ordinaire du terme, nous considérons comme rationnel un
comportement qui sert les intérêts élémentaires de l’individu. On ne craindra
donc pas d’être paradoxal en disant que l’inventivité et l’innovation sont favorisées par les individus qui, du point de vue du concept ordinaire de rationalité, sont irrationnels.
J’ajouterai que, de la même manière, la rationalité comme recherche des
moyens adaptés à l’émergence de découvertes et à la diffusion d’innovations
impose de rompre – si nécessaire – ses engagements à l’égard de ses choix
personnels antérieurs comme à l’égard des engagements collectifs contractés.
En énonçant ce message non seulement libéral mais même, en quelque
sorte, libertaire, je ne prétends pas introduire quoi que ce soit de bien neuf. Ce
que j’ai essayé de faire de nouveau, en revanche, c’est de décrire à l’aide de
modèles définis plus précisément et plus complètement qu’à l’accoutumée,
appliqués à quelques exemples canoniques, divers types de processus favorisant inventivité et diffusion des innovations ou y faisant obstacle.
93
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95
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96
État européen et culture locale
Esquisse de la nouvelle communication politique dans le continent européen
PANAGIOTIS CHRISTIAS
Professeur de Sociologie
Université Démocrite de Thrace
[email protected]
Ce que l’observateur politique cherche en premier lieu, c’est d’identifier
les acteurs d’un espace politique donné, tracer les tendances et les dynamiques d’alliance et de lutte entre eux dans le but d’établir une esquisse compréhensive du terrain politique qu’il observe. Cette esquisse doit aller au-delà de
la simple constatation que des personnes concrètes accomplissent des actes
concrets. Elle doit pénétrer la communication politique de son temps dans
l’espace géographique donné. Par le terme de « communication politique »,
que nous empruntons à Carl von Clausewitz, nous entendons un état de choses
« objectif » qui dépasse la simple volonté des politiques et comprend le phénomène politique dans sa totalité, c’est-à-dire dans son rapport essentiel avec
un tout culturel pris dans le réseau de rapports possibles entres forces alliées
ou opposées. Suivant cette ligne compréhensive nous essaierons par la suite
d’esquisser un tableau de la nouvelle communication politique dans le continent européen.
Il devient de plus en plus évident que l’un des acteurs possibles dans ce
début de siècle en Europe est l’État central européen qui fraye son chemin à
travers l’opposition des États nationaux qui voient dans ce géant bureaucratique à la fois un ami économique et un ennemi politique. Il faut, sur ce point,
rappeler que la dernière ère politique européenne de laquelle nous sortons sûrement mais péniblement fut celle du nationalisme post-révolutionnaire. En
effet, la Révolution française et, notamment, les guerres napoléoniennes
avaient sombré le continent dans un climat nationaliste où le purisme culturel
constituait l’élément fondamental de la nouvelle idéologie d’État. L’histoire
des peuples européens fut réécrite faisant économie des éléments culturels
locaux, c’est-à-dire, les langues particulières, les us et les coutumes et les fêtes locales et, le plus souvent, une certaine aspiration à l’autonomie, visible
encore aujourd’hui dans des régions comme les Basques ou la Corse. La logi97
que de l’État national interdisait l’existence d’autres forces politiques et culturelles à part celles centralisées par l’État lui-même. Avec la fin de la première
guerre mondiale, les derniers empires multiethniques, l’Empire austrohongrois, l’Empire russe et l’Empire ottoman furent dissouts. Avec eux, fut
dissoute une certaine politique, au sens « objectif » du terme, en matière sociale et culturelle. Ce ne fut pas la volonté des politiques, des empereurs ou
des généraux que de créer l’ambiance culturelle multiethnique à Vienne du
début 1900. Ce fut par la force des choses qu’une telle communication politique fut établie. Ce n’est que dans les pages d’un Elias Canetti ou d’un Joseph
Roth que nous retrouvons la grandeur d’une époque où le mélange des civilisations donna naissance à un espace sans précédent de création artistique,
scientifique, culturelle et même politique. La deuxième guerre mondiale mit
fin à la chimère d’un monde nationaliste juste et heureux. C’est dans ce
contexte qu’entre en jeu l’État européen central. C’est le contexte de la renaissance des communautés locales, où communautarisme et localisme deviennent des éléments politiques à part égal avec les idéologies des États nationaux. La pointe de la contre-attaque du communautaire local n’est autre que la
culture.
Avant d’analyser le rapport des forces établi dans le contient européen,
nous examinerons les lignes politiques générales qui prévalaient dans la
communication politique dans cette ère que nous avons appelé nationaliste.
1. Les deux modèles d’organisation politique en Europe
Nous parlons donc de la corrélation entre État, communauté locale et
culture dans le contexte très spécifique des temps actuels dans le continent
européen. Quand nous disons État, nous entendons une structure centrale,
voire jacobine, qui détienne au moins les trois pouvoirs : exécutif, législatif et
judiciaire. Mais surtout, quand nous parlons d’État, nous entendons une volonté souveraine, qui exprime une certaine « volonté générale », ce qui sousentend l’existence d’un sujet de volonté, tel que la Nation ou le Peuple (Volk).
Sur ce, nous pouvons déjà établir une première grande différence entre les
nombreux pays des Communautés Européennes.
Si pour le modèle républicain français, le sujet de volonté est très abstrait,
c’est-à-dire libre de toute détermination et/ou surdétermination sociale et historique, pour le modèle fédéraliste allemand, ce sujet est ancré dans les traditions historiques, il procède à partir de ses racines et non par un acte souverain
le découpant de toute racine. Ce qui eut pour résultat, un développement économique, social et culturel beaucoup plus équilibré en Allemagne qu’en
France où le seul Paris regroupe à la fois la vie culturelle, économique et politique privant les autres départements des fonds nécessaires mais aussi de la
volonté nécessaire de se constituer en sujet d’une culture particulière. Autre98
ment dit, l’État dans le modèle républicain a longtemps joué un rôle de castrateur vis-à-vis des communautés locales. Pour le dire d’une façon plus
concrète, le modèle républicain remplace la « volonté générale » par la « raison d’État ». Quand on voit par exemple le nombre des travaux effectués sur
Paris tout au long de l’histoire française, il ne faut pas dire que l’État français
aime Paris, il faut dire que l’État français s’orne de tous les symboles de pouvoir possible et il le fait à Paris car c’est là où il siège. Il est intéressant de
noter que Berlin n’a attiré l’intérêt de l’État allemand que dans des moments
très particuliers de l’histoire de l’Allemagne, sous Guillaume II ou sous le
régime nazi. Les maquettes de von Speer pour la transformation de Berlin en
Germania sont aujourd’hui connues. Une troisième tentative de l’État allemand de se faire une belle maison à Berlin échoua il y a juste quelques années, juste après la réunification allemande. Malgré la volonté de l’État allemand, qui se sentit assez fort pour s’imposer en tant que « volonté générale »,
« les peuples » allemands n’ont pas suivi le projet. Autrement dit,
l’immigration interne escomptée des classes bourgeoises et même moyennes
n’a pas eu lieu, ce qui aurait pour conséquence la hausse des prix de
l’immobilier, une grande attractivité pour la ville de Berlin, donc investissements, achats, déplacements de capitaux financiers et sociaux, ce qui entraînerait l’intensification de la vie économique et culturelle, bref, une vie centralisée sur et à partir du seul Berlin. Comme c’est l’avis de tous les experts, cette
tentative échoua, notamment à cause de l’enracinement de la vie sociale et
culturelle allemande dans les Länder. Or, il nous est aujourd’hui très difficile
de comprendre la communication politique européenne à partir de ces deux
modèles. Et cela pour une raison très simple : l’État européen ne peut en ce
moment remplir aucune des fonctions qu’un État doit être en condition de
remplir pour être un État.
2. Un nouveau modèle de communication politique européenne
Si nous disons qu’aucun de ces deux modèles ne peut s’appliquer en Europe, c’est que le problème auquel répond la création d’un État européen n’a
rien à voir avec les nécessités et les conditions qui ont donné naissance aux
États européens. Il faut donc comprendre la communication politique actuelle
si nous voulons comprendre vers quelle structure étatique nous avançons,
c’est-à-dire quelles seront les nouvelles alliances et les nouveaux antagonismes au sein même de l’Europe. Et il nous faut tout d’abord commencer par la
question de l’État européen, ce géant aux pieds d’argile.
Il est vrai que les analogies historiques sont dangereuses mais c’est aussi
vrai qu’elles sont parfois utiles. Il nous faut relire Norbert Elias sur la création
des États européens, repérer les vecteurs de la communication politique de
l’époque et après s’en inspirer sans trop s’y attacher afin d’éviter les écueils
99
d’une analogie trop facile et profiter des avantages heuristiques d’un modèle
épistémologique rigoureux, c’est-à-dire la pensée analogique.
Il faut d’abord se demander quel est le rapport entre États européens et
État européen. En dépit des apparences fâcheuses, le fait même que
l’existence des uns met en cause l’existence de l’autre et vice-versa suffit pour
répondre que leur rapport et comme celui entre le Roi et les grands seigneurs,
c’est-à-dire un rapport constant d’antagonisme et d’hostilité. Disons que, pour
l’instant, mais seulement pour un instant, les grands-seigneurs profitent du
Roi pour asseoir leur plein pouvoir et le Roi tire sa légitimation de la reconnaissance des grands seigneurs. Or, cet équilibre est instable car la tendance
du Roi est d’avancer comme celle des grands-seigneurs est de disparaître. Ce
modèle est connu historiquement. Dans les temps de l’Athènes de Thucydide
la mise en application d’un projet politique inspiré de ce modèle était considérée comme une tentative de prise du pouvoir par un tyran. Alcibiade fut craint
pour son influence auprès du peuple qui pouvait mettre à genou le pouvoir des
aristocrates athéniens. Mais là où Athènes échoua fut la grandeur de Rome.
Le modèle s’appliqua sous des conditions particulières. La réalisation de ce
modèle, fut l’alliance de César et du peuple roman contre le sénat : l’Un s’unit
à la multiplicité pour renverser le petit nombre. Un équilibre dynamique
s’établit entre ces trois acteurs et promulgue la grandeur de l’organisme politique, social et culturel dont il est le pilier.
C’est pour déstabiliser les États nationaux que l’État européen joua jusqu’ici ses deux cartes majeures : les individus et les communautés locales. En
fait, ce qui donne la légitimation à l’état national est soit l’individu, dans le
modèle républicain, soit les communautés locales dans le modèle fédéraliste.
Le pari de l’État européen, ou de César, si vous voulez bien, est alors le suivant : pourquoi tirer la reconnaissance nécessaire à notre règne indirectement
par les senatus-consultes nationaux et non pas directement par ceux qui donnent la reconnaissance à ceux-là ? Ce jeu se concrétise par deux vecteurs majeurs de la politique européenne. D’un côté, par la création des structures juridico-politiques européennes, dont l’autorité est supérieure à celle des États
membres. De l’autre, en accordant une reconnaissance et un droit d’existence
quasi-inconditionnels aux forces politiques contre les quelles l’état national a
dû se battre et qu’il essaya de faire supprimer afin d’asseoir ses pleins pouvoirs, c’est-à-dire les communautés locales. En un mot, le État européen sape
le pouvoir des États nationaux en accordant sa reconnaissance et en offrant
son alliance aux bêtes noires de toute République : aux Vendéens et aux Corses, aux Basques et aux Catalans.
La mise en place de cette politique se fait dans le cadre de la politique de
la décentralisation et de la reconnaissance des droits des minorités communautaires, locales ou autres. Cette politique a eu jusqu’à aujourd’hui un effet
très favorable à la culture européenne étant en même temps bénéfique du
100
point de vue aussi bien économique que social. Jamais n’avait-on observé
dans le passé récent, dans le continent européen, une telle effervescence culturelle, la renaissance des langues que l’on croyait mortes, des coutumes et des
fêtes locales, voire même la renaissance d’un sentiment d’appartenance politique à une communauté locale, au sens fort du terme, c’est-à-dire, dans le
sens que le projet de société locale n’est pas nécessairement compatible avec
le projet de société globale, si nous admettons qu’aujourd’hui, à l’ère du parlementarisme généralisé, un tel projet existe.
3. Le printemps des communautés locales
Le fait est qu’après plus de trente ans de misérabilisme politique, au niveau national aussi bien qu’au niveau européen, par la force de choses, c’està-dire par l’immobilisme politique, d’un côté, et à cause des ambitions personnelles de nouveaux princes, de l’autre, furent mises en place les conditions
nécessaires du tournant local. Ce tournant déplace le centre d’intérêt, à la fois
politique, social, culturel et économique. Le projet de société global, déjà
inexistant, est remplacé par l’attente des projets de société locaux, toujours
dans l’espoir que ces projets ne soient pas opposés les uns aux autres et dans
la crainte du contraire, ce qui pourrait faire revivre les spectres du passé. Dans
ce tournant local de la communication politique européenne, il faut néanmoins
noter deux éléments majeurs.
Le premier élément est une forte renaissance culturelle et une mobilité jamais connue jusque-là. Après deux cents ans de répression politique, les
communautés particulières plongent de nouveau dans leur patrimoine et dans
leur culture. Ceci avec l’aide de l’Europe, aide d’abord politico-juridique, qui
consiste dans les processus politiques de l’autonomisation des régions à forte
tendance chauviniste et résulte notamment de la maturité de l’idée que l’État
nation, même s’il a encore de beaux jours devant lui, n’est plus la seule force
à exercer la pleine autorité dans son territoire. Ce fut alors un pari gagné par
César.
A ceci, il faut ajouter un deuxième élément, que nous discuterons par la
suite. Si effectivement les fêtes locales prennent la place des rituels républicains dans les États européens, ce n’est pas pour cela que l’Europe assoie son
autorité sur les sauvageons locaux. Elle est tolérée tant qu’elle ne se fait pas
d’illusion, c’est-à-dire tant que son antagonisme avec les États nations n’est
pas prêt à prendre fin. Autrement dit, les cultures locales voient dans cette
impuissance politique au niveau national aussi bien qu’au niveau européen
leur propre condition d’existence. Il n’est donc pas surprenant qu’un pays
puisse être pour l’Europe mais contre la Constitution européenne. C’est ainsi
donc que se dessine « la volonté européenne » : être des sociétés sans État(s).
101
Et pour reprendre les mots désormais célèbres, d’un roi qui se prend au
sérieux, on ne voit aucune utilité.
C’est justement cette « volonté européenne » qui met en place un processus de fragmentation des espaces étatiques nationaux. Les exemples les plus
forts de ce processus sont l’autonomie accordée aux Catalans, les plans de
séparation du Belgique en deux entités culturels et politiques distincts et
même le plan de découpage de l’Italie en Nord, fortement influencé par
l’esprit industriel, ayant vécu longtemps sous l’occupation austro-hongroise,
et Sud, délaissé à ses influences politiques mafieuses, sortis de l’économie
politique du moyen-âge. Ces tendances séparatistes sont motivées par les deux
éléments que nous venons de discuter. D’abord, par l’assurance de l’existence
d’un espace civil pacifié, au-delà de la crainte de la guerre ou du pillage organisé de la part d’une bande organisée, dictature ou autre mésaventure
politique. Cette assurance vient des liens entre les communautés dans le cadre
politique de l’Union. César est le garant de la paix intra-européenne et le
promulguer de la pax europea.
De cette dernière tendance, un autre exemple est peut-être plus parlant aujourd’hui. C’est celui de la Turquie. Il est intéressant de noter comment la
demande d’adhésion d’Ankara à l’Union européenne influença les politiques
locales internes pour ce qui concerne la question kurde. La question kurde,
même si elle n’était pas oubliée après la prise d’Occalan, le leader de la lutte
armée du PKK, suivait son lent et pénible chemin vers une lutte politique pour
la reconnaissance des droits individuels des Kurdes. Après la demande
d’adhésion de la Turquie et l’ouverture des négociations avec l’Europe, ce qui
signifie son de jure engagement de respecter César, les Kurdes se sont sentis
tout d’un coup forts d’un allié de taille. C’est la raison pour laquelle leurs revendications prennent une tournure radicale cette dernière année. De son côté,
César promet malgré lui, par la force des choses, ce que les politiciens européens ne peuvent pas promettre pour eux-mêmes. Tout au contraire, les
politiciens de l’Europe sont au service d’un capitalisme agressif qui cherche
sa voie au travers des craintes et des espoirs des peuples. César opère au-delà
de la sphère d’influence personnelle et individuelle de ceux qui le représentent
et qui sont son corps visible et même contre eux. Il opère au-delà même de la
sphère politique qui est la sienne. Sa volonté d’alliance avec les communautarismes de tout genre étant connue et appliquée dans l’espace européen, toute
extension possible de cet espace promet la liberté et la prospérité aux peuples
opprimés par les nationalismes du dix-neuvième siècle. Et ce n’est pas seulement les Kurdes qui sont aujourd’hui en mouvement en Turquie. Prise entre le
nationalisme héritier de Kemal et le fondamentalisme musulman qui avance à
pas de géant au sillage de la misère économique et sociale d’un pays tyrannisé
par des décennies de dictature militaire, la société turque trouve aujourd’hui
un autre allié. L’effervescence actuelle, les mobilisations pour les droits
102
communautaires, sociaux et culturels, est, d’un côté, le signe d’une société
turque vivante et en lutte avec les spectres du passé et, de l’autre, le signe de
la vigueur d’un César qui promet malgré lui et qui par sa présence, qui est en
même temps la promesse malgré lui de sa présence perpétuelle, arrive à mettre en mouvement toute une société. Et, dans ce cadre précis, cette vigueur lui
est accordée par la confiance et la force que les communautés locales européennes mettent entre ses mains en s’alliant avec lui contre des États nationaux qui n’auraient aucun espoir de faire bouger les choses en Turquie sinon
dans une guerre contre des anciens colonisateurs haïs et méprisés.
Nous avons esquissé les tendances et les dynamiques politiques de
l’Europe à l’intérieur et à l’extérieur du continent européen. La communication politique européenne suit en ce moment un modèle bien connu dans
l’histoire politique, l’alliance de l’Un et de la multiplicité contre le pouvoir du
petit nombre. Ceci a le privilège de faire entrer dans les jeux politiques européens plus d’acteurs individuels sortis des structures micro-sociales et communautaires. Cette tendance ne fera que s’accroître dans les années à venir et
il faut surtout l’estimer à sa juste valeur si l’on veut être à la hauteur d’un
quotidien qui prend les allures d’un retour aux racines traditionnelles après
tant d’années d’abstraction politique. Et ceci dans un contexte de mondialisation qui évalue la valeur humaine à l’aune de la productivité boursière, de la
capitalisation et du profit.
103
104
Creatività
DOMENICO SECONDULFO
Università di Verona
[email protected]
“C’è ancora del caos dentro di voi,
c’è ancora una stella danzante?”
Nietzsche
1. Elementi generali del concetto
Fino alla fine degli anni ‘90, la creatività è un concetto legato soprattutto al
mondo della pubblicità ancor più che al mondo dell’arte, i famosi “creativi”
venivano considerati il motore magico del mondo della merce, i sacerdoti di
quell’apostrofo d’oro tra le parole “quant’è” che è una delle migliori definizioni che io abbia mai sentito della pubblicità. In realtà, era uno dei modi con
cui la pubblicità, in quell’epoca di forte competizione sociale e di ri - stratificazione della società, giocata in buona parte anche attraverso nuovi stili di vita e nuovi status symbol, pubblicizzava e vendeva se stessa su un mercato vivace e ben pasciuto. Si è poi scoperto in seguito per questo non era molto vero, e soltanto con le strategie che intercettavano dei reali bisogni dei consumatori avevano in realtà qualche successo, ed il mito dei creativi è pian piano
sfumato. Dopo il duemila con una di concretizzarsi sempre più forte delle difficoltà economiche del mondo occidentale ed in particolare dell’Europa, la
creatività è diventata una specie di ultima dea, alla quale rivolgersi e nella
quale sperare per risollevare le sorti delle stanche economie continentali, dimenticando spesso che l’eventuale creatività ben poco avrebbe potuto fare in
un contesto dove le attenzioni infrastrutturali, gli investimenti
sull’innovazione tecnologica e sulla ricerca languivano da anni, ciò non toglie
che la creatività sia stata regolarmente chiamata in causa come salvagente cui
attaccarsi nel mare della crisi. Va infatti sottolineato con forza che le creatività non è soltanto una lampadina che si accende sopra la testa di Archimede
Pitagorico, ma è il punto di intreccio di una serie complessa ed importante di
105
fattori sociali, culturali, politici ed economici, il cui peso non può essere trascurato ben al di là della mistica individualistica e miracolistica che illumina
questo concetto. Sotto questo aspetto potremmo dire che ci troviamo di fronte
ad una sorta di parola magica, qualcosa in grado di attrarre fiducie quasi fideistiche rispetto alla capacità di risolvere problemi disperati o comunque molto
difficili, sia che si tratti di vendere sul mercato una merce pressoché inutile,
oppure di rinvigorire un ormai esausto PIL. Non voglio certamente a sobbarcarmi il compito di verificare se, nella realtà dei fatti, la creatività è stata effettivamente così utile e, in caso positivo, quale tipo di creatività ed applicata
a cosa, lasciando volentieri questo compito a colleghi più competenti sui fatti
“duri” dell’economia e della produzione, nella mia modesta veste di sociologo
della cultura mi sembra interessante cercare di fare un po’ di luce sul perché
questo concetto, come tanti altri, celi in sé una dimensione quasi magica, una
dimensione che facilita la proiezione di speranze, desideri, frustrazioni che
nella creatività sperano come in un elisir di giovinezza.
Un grano di questo fascino che aleggia sulla creatività già lo possiamo intuire nelle parole di Platone (Platone 2001) “In effetti, per qualsiasi cosa che
proceda da ciò che non e a ciò che è, senza dubbio la causa di questo processo
è sempre una creazione” far nascere quindi dal nulla qualcosa, generare il
nuovo, ciò che non c’era, sicuramente in questo è il nocciolo del fascino di
questo concetto, ma come si suol dire, procediamo per ordine e vediamo quali
possono essere le dimensioni principali di una sua possibile definizione.
Già nelle parole di Platone possiamo individuare almeno due elementi costitutivi di questo concetto, un fare, ed in questo caso un fare qualcosa di nuovo, ed un giudizio altrui che deve riconoscere questo oggetto come nuovo. Un
criterio quindi di novità del prodotto creato che richiama, per polarità semantica, il concetto di tradizione o di vecchio nei confronti del quale l’oggetto
nuovo apparirà, appunto, nuovo. Più sociologico un terzo criterio che possiamo inserire in coda a questi due e che prevede che l’oggetto nuovo, come tale
riconosciuto, debba anche avere una certa utilità, debba essere appetito oltre
che riconosciuto da parte del gruppo sociale in cui è stato prodotto o cui è rivolto, soltanto un prodotto nuovo e che risponda efficacemente, oltre che originalmente, ad un bisogno consolidato sarà riconosciuto come creativo, come
bene ci documenta la storia dell’arte, con ripescaggi post mortem di artisti
completamente ignorati in vita. Gli attori quindi sono molteplici: chi crea, chi
riconosce nella creazione un’utilità, elevandola al rango di bene (Secondulfo
1995), chi riconosce in questa creazione il carisma dell’originalità rispetto alla
tradizione consolidata. Soltanto dall’incontro di questi attori nasce la creatività come processo e forza sociale, culturale ed economica; ne consegue, ad esempio, che la creatività possa essere il risultato di un abile gioco ai confini
della tradizione; affinché l’oggetto creato sia riconosciuto come tale deve sì
distaccarsi dalla tradizione, ma non tanto da non essere compreso o ricono106
sciuto, pena il suo cadere nel limbo dell’inutilità. In altre parole, più sociologiche, il creativo si muove nello spazio grigio della coscienza possibile, cioè
in quell’area che pur distaccandosi dalla tradizione e da ciò che è, le resta ancora sufficientemente legata da garantire la decodifica ed il riconoscimento di
ciò che verrà prodotto, una sorta di azione per piccoli passi in cui i rimandi
all’indietro devono abilmente bilanciare le fughe in avanti. Nondimeno, una
certa abilità nella comunicazione e nelle relazioni sociali aiuterà sicuramente
il creativo a vedere accettata e valorizzata la sua opera.
2. Devianza e creatività
Un’altra componente celata all’interno delle pieghe del concetto di creatività è la distruzione. Un’innovazione creativa molto spesso provoca l’uscita di
scena di qualcosa che c’era già prima di lei e che, evidentemente inadeguata
all’evoluzione dei bisogni, galleggiava nella società in attesa di essere sostituita. La distruzione provocata dalla creazione può essere più o meno ampia,
in alcuni casi può giungere a dissestare un intero campo del sapere, come accade nelle rivoluzioni scientifiche, in cui un nuovo paradigma, creato a partire
dalle pieghe di quello precedente, lo azzera e lo sostituisce con conseguenti
terremoti nelle strutture sociali, professionali ed accademiche che sul vecchio
paradigma appoggiavano la propria esistenza ed il proprio potere. Accade
spesso, infatti, che il creativo, innovatore, sia considerato un deviante dalle
strutture sociali e di potere consolidato che si sentono minacciati dalla sua
creazione, la storia è piena di esempi di questo genere, in cui il potere precedentemente consolidato cerca di resistere alle minacce di distruzione che la
novità creativa porta con sé. In effetti, il creativo e la creazione sono quasi ontologicamente devianti, nella misura in cui devono distorcere, sorprendere,
ribaltare la realtà data per far nascere inaspettatamente dal suo interno una
strada non prevista in precedenza, una svolta a 90 gradi che apra nuovi orizzonti: una creazione. Verrebbe da dire che senza un pizzico di devianza la
creatività è quasi impossibile, per poter vedere ciò che non c’è, è necessario
molto probabilmente essere un po’ al di fuori di quello che c’è. Si apre a questo punto una delle dimensioni più vivaci della mistica della creatività, il creativo come ribelle, come genio maledetto, con tratti incomprensibili alle persone “normali” ma toccato dalla magia della generatività e quindi “sacro” come
i folli di un tempo, in una sorta di devianza positiva che ha nell’aspetto del riconoscimento dell’utilità delle sue creazioni il nocciolo dell’accettazione sociale. Una mistica ed uno stereotipo sociale che spesso il creativo o il deviante
devono interpretare loro malgrado, per vincere la diffidenza ed il sospetto che
deriva dal potenziale distruttivo insito nell’innovatività delle loro creazioni.
Uno stereotipo che svolge quindi anche un ruolo di protezione
107
nell’immaginario collettivo, di fronte alla paura della diversità e della potenzialità del creativo e del diverso, qualcosa che impedisca al timore di sovrastare l’ammirazione e che lo stesso creativo indossa volentieri, proprio come
strategie di difesa rispetto al suo potenziale di sovversione, coniugandolo sotto l’aspetto estetico ed artistico e non sotto quello, maggiormente pericoloso,
di tipo politico etico o religioso. Può accadere, e sicuramente molto spesso è
accaduto, che le strade innovative e creative che si sarebbero potenzialmente
potute aprire in una società, siano state inibite alla partenza dai rischi e dai pericoli che il creativo e l’innovatore intuivano di correre nel porre in atto il
proprio sforzo creativo, il fatto che un gruppo sociale, abbia all’interno del
proprio patrimonio di modelli di comportamento dei ruoli che permettano di
sviluppare l’innovazione e la creatività senza rischi, ma nella tolleranza se
non nella ammirazione generale, è una delle componenti fondamentali, a livello sociale, della capacità creativa di un gruppo o di una società. Di converso, sempre nell’ambito della dialettica tra devianza e creatività, possiamo anche osservare che molto spesso la creatività si genera nelle parti marginali di
un gruppo sociale, anche perché spesso chi si trova nei ruoli dominanti e
“normali” di un gruppo sociale ha più interesse nella difesa dello status quo e
della tradizione, che non nei rischi dell’innovazione e della creatività. Il desiderio di uscire dalla posizione di marginalità sociale all’interno di un gruppo,
unito alla minore interiorizzazione dello status quo come realtà data ed immutabile, derivante proprio dalla posizione marginale, possono essere due molle
preziose per stimolare la generazione di oggetti e soluzioni creative all’interno
di un gruppo sociale. Come dicevamo, l’equilibrio sociale che quel gruppo ha
strutturato tra normalità e marginalità, la sua capacità di ascolto e di rinegoziazione degli status ruoli al suo interno, giocano un ruolo essenziale nel favorire o inibire il potenziale creativo.
3. Intelligenza e creatività
Passando ad aspetti maggiormente individuali della creatività, ci si imbatte
immediatamente nel rapporto tra l’intelligenza e creatività. È sicuramente acquisito che non si tratta della stessa cosa e che le funzioni e le capacità cognitive che possono definire l’intelligenza non sono le stesse che possono definire la creatività. La capacità di risolvere problemi, ad esempio, è più apparentata con l’intelligenza che non con la creatività, nella misura in cui i problemi
possono spesso essere risolti restando all’interno di schemi già noti ed utilizzati. Maggiormente legata alla creatività, pare invece la capacità di individuare aspetti e caratteristiche non precedentemente prese in considerazione degli
oggetti conosciuti, con la capacità di modificare radicalmente il punto di vista
consolidato con cui viene ordinariamente osservata la realtà, una capacità che,
108
come dicevamo, spesso è strettamente imparentata con la marginalità se non
con la devianza. Sempre sotto questo aspetto, con una maggiore attenzione
alle sinergie tra intelligenza e creatività, molto probabilmente (Gardner 2000)
alcune caratteristiche tipiche dell’intelligenza, come la capacità di organizzare
ed elaborare efficacemente una grande mole di dati, senza esserne scoraggiati,
ma essendo quasi attratti dalla grande complessità del compito, favoriscono
fortemente lo sviluppo del potenziale creativo, ma non lo determinano. Studi
psicologici, indicano che se è vero che gli individui giudicati creativi tendono
a riportare ponteggi elevati in test che misurano l’intelligenza, questo non significa che un quoziente intellettivo elevato garantisca comunque ai soggetti
una capacità creativa. A quanto pare, rispetto alla creatività l’intelligenza è
una condizione necessaria ma non sufficiente. Probabilmente, un’utile strada
per approfondire questa relazione potrebbe risiedere nel passare da un concetto univoco e probabilmente ormai obsoleto d’intelligenza ad un concetto
complesso e multifattoriale, considerando l’intelligenza come un complesso di
dimensioni e fattori concorrenti, individuando quindi vari tipi di “intelligenze”, probabilmente in rapporto diverso con quel tipo di capacità che chiamiamo creatività. Con ogni probabilità, anche per la stessa creatività può essere
fatto un discorso simile, cioè può essere sfatato il mito della creatività come
caratteristica unica, una sorta di grazia o follia che cade su questa o quella
persona, a favore di una visione maggiormente multifattoriale della creatività,
come punto di incontro sinergico tra i diversi aspetti della personalità, così
come di diversi aspetti del gruppo sociale in cui il creativo può o non può realizzare il proprio potenziale. Notiamo di passaggio che, sempre più, alla mistica individualistica del creativo-folle, si sostituisce la visione della creatività
come frutto anche di metodi di lavoro comune, magari di una certa “atmosfera” in cui si svolge tale lavoro, sottolineando fortemente la componente sociale ed interattiva del processo creativo accanto alle doti individuali; si può vedere a questo proposito l’organizzazione del lavoro attuata in molte delle
principali software houses. Nella lista di aspetti della personalità prodotta alcuni studi psicologici, (Dellas, Gaier 1970) molti richiamano alla dialettica
marginalità-normalità, altri alla curiosità, altri ancora alla sensibilità artistica
ma anche alla debolezza rispetto a disturbi mentali come la depressione, la paranoia ecc. mi pare molto interessante, ragionando da sociologo, che alcuni di
questi studi psicologici (McKinnon 1962) abbiano inserito anche la devianza
tra i tratti psicopatologici che possono essere associati alla creatività.
4. Follia e creatività
Per questa strada si tocca un altro dei punti chiave della mistica della creatività, cioè la relazione tra creatività e follia. Una relazione che conduce ad un
109
aspetto già emerso in precedenza: il fascino che ruota attorno alla generatività
insita nel concetto di creatività, la creatività di generare ciò che è da ciò che
non è avvicina il concetto di creatività al recinto del sacro, giungendo per
questa strada a quello di follia, che nel suo essere altra rispetto alla normalità
veniva spesso associata al divino come capacità di vedere ciò che altri non
vedevano. Non sfugge come ambedue questi concerti siano contigui a quella
terza dimensione, appena ricordata, che pare fondamentale nell’immagine e
nelle determinanti sociali della creatività, quella cioè della devianza. Anche la
follia oscilla tra la dimensione negativa di una devianza da cancellare e rifiutare, ed una positiva, di una devianza che, in quanto diversa, porta in sé il soffio della trascendenza. Anche se la dimensione di sacralità precedentemente
collegata alla follia è stata azzerata dalla sua medicalizzazione ad opera della
psichiatria, resta comunque all’interno del concetto di creatività un mix di
concetti a cavaliere tra follia, devianza, generatività e sacralità assolutamente
interessante da esplorare.
Del rapporto tra creatività e follia è comunque possibile accennare una
brevissima storia sociale: questo enigma, particolarmente forte all’interno del
pensiero occidentale, trova la sua prima formulazione nel canone aristotelico,
sotto il nome di “problemataXXX”: “Perché tutti gli uomini eccezionali,
nell’attività filosofica e politica, artistica e letteraria hanno un temperamento
melanconico, alcuni a tal punto d’essere perfino affetti dagli stati patologici
che ne derivano? “(Aristotele 1981) quella che i greci chiamavano melanconia
oggi può essere inclusa nelle sindromi depressive, era una delle malattie mentali tra i le più gravi di quella note ai greci e ne soffrivano filosofi quali Empedocle, Socrate, Platone. Anche se la risposta che Aristotele dà questa domanda è che non era la malattia a far grande il filosofo, ma è la sua grandezza
a superare la malattia. Nel medioevo la necessità di sottomettere l’individuo al
gruppo ed alla tradizione fece scomparire la tematica della creatività in generale e del rapporto con la follia in particolare, che riappare successivamente,
assieme al ruolo dell’individuo, con la nascita del nuovo umanesimo rinascimentale. Anche in questa fase ritorna il rapporto tra creatività, originalità
e melanconia, questa volta con una funzione positiva della melanconia in
quanto favorisce, a chi ne soffre, l’accesso agli stati meditativi ed alla propria
profondità, garanzia dell’originalità creativa. È di Petrarca l’affermazione che
non esista alcun ingegno se non mescolato alla pazzia (Petrarca 1997). La trasformazione della tematica dell’introspezione, meditazione melanconia in
quella della sregolatezza e della passione, avviene durante il romanticismo. La
creazione artistica e la follia, il genio e la follia, si legano sotto il segno del
tormento, contrappasso per la creazione artistica. Una mistica alimentata dalle
figure di artisti come Michelangelo e Caravaggio, che stampano
nell’immaginario collettivo il binomio genio e follia, tuttora troneggiante
nell’immaginario collettivo che ruota attorno ai temi dell’arte, della creatività
110
e della genialità. Sempre in questo periodo si consolida anche, nella chiave
della follia, l’aspetto deviante del genio creativo, che in questa fase prende le
forme dell’artista incompreso, troppo eccentrico e troppo geniale per essere
capito ed accettato dai propri contemporanei, resi cechi ed ottusi dal rispetto
della tradizione e della normalità. Col positivismo inizia invece l’analisi di
come follia e devianza possono avvicinarsi alla creatività e alla genialità, è
Lombroso (1971) a “secolarizzare” il tema genialità e follia accomunando insieme genio, folle e criminale come casi, seppure diversi, di devianza dalla
media della popolazione generale, cercando poi, da buon positivista, di studiare queste tre “devianze” secondo un metodo comune ed oggettivo. E giungiamo al “creativo” odierno, che recupera soprattutto l’immagine romantica del
binomio genialità e follia, nella più modesta e commerciabile accezione di
creatività ed eccentricità. Sempre allo stereotipo soprattutto romantico di genio e follia, può essere scritta anche la tematica relativa all’uso di agenti psicoattivi nel campo dell’arte della creatività, sia nel tentativo di cambiare le
capacità mentali, quindi creative, sia come necessario condimento al cliché di
genio e sregolatezza, essenziale immagine di proiezione dei desideri delle persone “comuni” sugli eroi della comunicazione di massa e della società dello
spettacolo, anche se, come ognun sa, se il genio può portare alla sregolatezza,
la sregolatezza raramente porta al genio.
5. In conclusione
Il legame tra follia e creatività deriva probabilmente dalla necessità di
staccarsi dal mondo così come è per poter trovare strade diverse, strade che
l’immanenza della realtà preclude a chi vi è immerso, il folle come testimone
di un mondo altro funziona come memento dell’artificialità e limitatezza di un
mondo che invece ai più appare ovvio, naturale ed unico, suggerisce che la
creatività deve necessariamente avere al suo interno la capacità di questo tipo
di distacco e di messa in discussione del mondo “dato” per potersi staccare a
sufficienza da individuare strade diverse, nuove ed imprevedibili, per poter
generare l’inatteso. Questo aspetto, inoltre, entra anche negli stereotipi e nei
ruoli che molte culture prevedono per il creativo, al quale vengono perdonati
comportamenti e devianze che sarebbero sanzionati invece a dei componenti
“ordinari” della società.
In ogni caso, il pensiero creativo ed in particolare quello che mette maggiormente l’accento sulla follia, non diviene generativo se non attraverso una
forte padronanza delle tecniche proprie del pensiero logico, suggerite in antinomia del tipo ideale cui riferimento la follia. Il pensiero divergente, al quale
spesso si fa riferimento quando si parla di creatività, non potrebbe sviluppare
una fecondità di oggetti se i processi di pensiero convergente non si fossero
111
già sviluppati fino a permettere una padronanza del settore di applicazione
della creatività, come può risultare, ad esempio, dalla creatività artistica in cui
è soltanto attraverso il padroneggiare della tecnica e della “normalità” che la
creatività può compiere un balzo generativo, tale cioè da essere compreso e da
imprimere una spinta innovativa nella cultura condivisa. Poter accendere la
creatività in un contesto di padronanza delle regole, è ciò che differenzia la
creatività dall’arbitrarietà. Con il termine “pensiero divergente” intendiamo
qui riferirci a quel tipo di pensiero che non tende all’unicità di una risposta cui
vengano ricondotte tutte le problematiche, come invece nel pensiero convergente, ma che presenta capacità di riorganizzazione degli elementi dati fino a
produrre risposte diverse ed inattese. Qualcosa di molto vicino a quello che
Edward De Bono (1995) identificò col famoso concetto di pensiero laterale,
cioè un atteggiamento capace di modificare le idee dominanti, evitare che la
percezione di un problema venga polarizzata in un’unica direzione, riuscendo
quindi ad individuare modalità differenti di guardare le cose sfuggendo così al
controllo rigido del pensiero logico e lineare.
Questo collegamento tra creatività, follia e devianza è di grande interesse
ed anche, per alcuni tratti, quasi ironico nel suo paradosso: a quanto pare la
società è sottoposta ad una sorta di dialettica dolorosa tra sicurezza e sopravvivenza, trovandosi ad essere bloccata nella sua evoluzione e quindi nelle sue
capacità di adattamento e sopravvivenza, proprio dalla sua necessità di controllo sociale, di radicare nei suoi componenti un mondo dato, un patrimonio
di regole, di modelli, una weltanschauung stabile, coesa, indiscussa, radice
della stabilità e dell’equilibrio della società stessa, necessità però che ne soffoca la possibilità di sopravvivenza adattiva sotto il peso delle sue certezze,
sopravvivenza che non può essere affidata, necessariamente, che
all’innovazione ed alla creatività, per generare la quale però è necessario salvaguardare le aree di diversità e di devianza, soprattutto dal punto di vista culturale e simbolico, e quindi rompere la gabbia di ferro della sicurezza e del
controllo sociale accettando la distruzione insita nella stessa creatività. Essere
costretta a farsi travolgere dalla danza di Shiva, generativa ma distruttrice, o
perire sotto il peso delle sue certezze, questo il destino paradossale, la prova
del fuoco, ma anche il soffio vitale di ogni società.
Riferimenti bibliografici
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feruntur Problemata Pysyxca (1922)-Problemata 30, I,] (a cura di) Carlo
Angelino Enrica Salvaneschi-Il Melangolo, Genova, p. 7.
De Bono E. (1995), The use of lateral thinking [trad. it. Il pensiero laterale] (a cura di)
Mario Carelli, Rizzoli, Milano.
Dellas M., Gaier E.L. (1970), Identification of creativity in the individual, in
112
“Psychological Bulletin”, 73, pp. 55-73.
Gardner H. (2000), Frames of mind. The theory of multiple intelligences [trad. it.
Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza] a cura di Libero Sosio,
Feltrinelli, Milano.
Id. (1971), L’uomo di genio: in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all’ estetica,
Napoleone, Roma.
Lombroso C. (1971), L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla
giurisprudenza ed alle discipline carcerarie, Napoleone, Roma.
McKinnon D.W. (1962), The nature and nurture of creative talent, “American
Psychologist”, 17, pp. 484-495.
Nietzsche F. (1976), Also sprach Zarathustra Ein Buch fur Alle und Keinen [trad. it.
Così parlò Zarathustra] a cura di Michele Costa, Mursia Editore, Milano, p. 23.
Petrarca F. (1997), Epystole Métrice (ad Zoilum), in Id., Opera omnia, a cura di P.
Stoppelli, Lexis Progetti Editoriali, Roma.
Platone (2001), Simposio, testo critico John Burnet, a cura di G. Reale, Fondazione
Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Roma, p. 101.
113
Nicola Abbatangelo Diesis 2 (2005).
Giovane artista ternano, utilizza i più diversi mezzi espressivi e tecnologici per la
sua attività artistica: pittura, scultura, installazioni, video, fotografia, grafica,
ecc.
114
La creatività come processo sociale
FRANCESCO M. BATTISTI
Laboratorio per lo Studio dei Nuovi Servizi
Università degli Studi di Cassino, 03043, Cassino
[email protected]
1. Creatività ed identità individuale
In questo capitolo cerchiamo di inquadrare la creatività come processo che
si sviluppa dal livello individuale a quello sociale ed organizzativo, partendo
appunto dalla persona. È praticamente impossibile separare la creatività dal
carattere individuale, in quanto tra creatività ed identità esiste un nesso molto
stretto: l’esperienza della creatività contribuisce alla costituzione della identità
personale, al riconoscimento di se stessi rispetto agli altri (self looking glass)1.
Il termine creatività deriva sia dalla capacità di creare, che nella antichità
veniva reputata un “dono divino”, sia dall’atto della “creazione” di un essere
vivente, prerogativa esclusiva attribuita agli dei2. Il dono personale della
creatività implica quindi una specie di mistero di come ciò avvenga e possa
avvenire. La “creatura” costituisce il prodotto del processo di creazione; può
essere una creatura animata, un essere vivente, oppure un oggetto manufatto,
una icona, una raffigurazione o un simulacro.
Il mito della creazione del mondo caratterizza tutte le religioni antiche. La
terra e le creature della terra vengono create, cioè prima pensate e definite con
delle parole (le parole magiche della creazione, oppure della “metacreazione”)
e poi prodotte nelle loro fattezze materiali3.
Questa definizione della creazione come dono divino, come mistero della
intelligenza, si contrappone col punto di vista della sociologia, ed in particola1
George Herbert Mead, Mind, Self & Society: From the Standpoint of a Social Behaviorist,
edited with introduction by Charles W. Morris, Chicago, The University of Chicago Press,
1963; trad. it Giunti-Barbera, Firenze, 1966.
2
Nel caso della maternità si parla di “procreazione” e non di “creazione” dal nulla, non si
tratta di un atto volontario, ma di un processo biologico che viene iniziato con il concepimento.
3
Ci riferiamo al concetto di dove la creazione avviene attraverso la formulazione di nuove
parole che esprimono l’essere degli oggetti. M. Whitelaw, Metacreation: Art and Artificial Life,
Cambridge Ma.: MIT Press, 2006.
115
re della Wissensoziologie nella quale la creatività individuale viene considerata come una proprietà emergente da un contesto ambientale propizio4. La
contemporanea presenza di libertà individuale, di assenza di censure (o di
indebolimento delle stesse), e di una necessità che induca alla ricerca di
soluzioni nuove genera un clima intellettuale e sociale propenso alla creatività.
Anche la storia delle idee tende a negare che la creatività costituisca un aspetto del tutto nuovo ed originale dell’intelletto umano. In realtà, se si va a
cercare nel passato, quasi tutto è già stato pensato ed ideato, anche se potevano mancare le tecnologie per realizzarlo. I primi disegni di un’automobile,
una carrozza semovente tirando un argano, erano già attribuiti a Leonardo Da
Vinci5. Oggi ci stupiamo di quante tecnologie siano state anticipate dagli
inventori antichi.
È tuttavia certo che, ciò distingue il creatore da chi non ha creato nulla, è
la soddisfazione di aver ideato una soluzione o un prodotto o qualcosa di
nuovo, del quale il creatore è convinto e che ha voglia di propagandare e
diffondere agli altri6, molti dei quali, nella loro incompetenza, riconoscono la
presunta originalità della creazione.
Del resto la memoria collettiva è labile. Si tende a dimenticare il passato
ed a ritenere come nuovo anche ciò che non lo è in quanto preceduto da
invenzioni simili7.
Il significato della creatività è diverso per le categorie sociali più utilizzate
nella ricerca sociologica. Una recente ricerca Eurisko8 sull’argomento ha
messo in evidenza che:
– per i giovani intervistati, creativi significa “essere diversi”, eventualmente
trasgressivi per esprimersi diversamente;
– la convinzione di “essere creativi” esplode soprattutto negli “young adults”
(soprattutto uomini dai 25 ai 40 anni) per i quali la sfida significa “dare il
massimo” nel lavoro e ottenere risultati economici, soprattutto nelle professioni autonome;
4
Karl Mannheim, Sociologia della conoscenza, Bari: Dedalo, 1974. Cfr. anche: R. Federici, Elementi sociologici della creatività. La centralità creativa degli autori del pensiero
classico, Franco Angeli, Milano, 2006.
5
Leonardo da Vinci, Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci nella Biblioteca Ambrosiana
di Milano, Hoepli, Milano, 1894-1904.
6
J. N. Cohn, The Joy of Discovery, Journal of Cardiac Failure, vol. 3 n.1, march 1997: 1-2.
7
Altrimenti non vi potrebbe essere la storia come “riscoperta del passato”. Halbwachs, La
Memoire Collective, 2e edition, Presses Universitaires de France, Paris, 1968; trad it. Unicopli,
Milano, 1996.
8
Eurisko, La creatività degli italiani, Ricerca condotta da Eurisko per il convegno “Nuovo
e Utile”, Firenze, 28 settembre 2004.
http://www.nuovoeutile.it/upFile/Eurisko%20Neu.pdf
Nel contesto della stessa manifestazione: A. Testa, La creatività a più voci, Laterza, RomaBari, 2005.
116
– Le donne appaiono impegnate soprattutto nella creatività relazionale, alla
ricerca di nuove mediazioni comunicative e di ruolo, sia intergenerazionali
sia di genere.
– Per gli adulti “essere creativi” significa avere idee, essere geniali, ma
anche avere un riconoscimento sociale per la capacità di innovazione e di
leadership. Tale rappresentazione sociale declina verso il momento del
pensionamento ed entra in crisi con l’esperienza del licenziamento.
– Per gli anziani, “essere creativi” significa assumere un atteggiamento
diverso rispetto alla realtà, utilizzare una diversa filosofia di vita per affrontare gli anni della terza età.
Secondo il campione di 800 italiani intervistati dall’Eurisko, i maggiori esempi di creatività vengono espressi nel campo dell’arte, l’artigianato, la
cucina, la moda, la musica e l’architettura. Agli ultimi posti si trovano
l’industria, l’economia, la politica, la stampa, la finanza e solo leggermente
meglio vanno letteratura, scienza e tecnologia.
Tabella n. 1- Indice di creatività secondo settori di attività economica e
culturale
Settori di attività
Arte
Artigianato
Moda
Cucina
Architettura
Musica
Ricerca scientifica
Design
Pubblicità
Insegnamento
Cinema
Tecnologia
Fonte Eurisko 2004
Indice percentuale
52
50
47
47
39
39
38
35
35
34
32
30
Settori di attività
Università
Televisione
Marketing
Letteratura
Industria
Economia
Politica
Stampa
Finanza
Indice percentuale
27
26
24
24
23
18
16
15
13
Qualche sorpresa arriva dalle indicazioni sui «personaggi più creativi» della storia: il primo nome è Leonardo da Vinci seguito da Albert Einstein,
Michelangelo Buonarroti, Guglielmo Marconi, Pablo Picasso. Questi nomi
indicano la volontà di abbinare capacità artistiche con quelle di studio e
scoperta scientifica. Tra gli ulteriori nomi in graduatoria si trovano personaggi
contemporanei come Totò, Berlusconi e Sordi, inaspettatamente davanti a
Rita Levi Montalcini, Van Gogh e Volta. In lista anche cantanti ed attori come
Fiorello e Benigni. Preoccupante è invece che quasi il 30 per cento del cam117
pione non abbia saputo individuare nessun esempio di celebrità9.
2. L’intelligenza creativa
Gli italiani si ritengono a maggioranza un “popolo creativo”. Questa creatività, tuttavia sembra esprimersi più nel lato della vita privata, del bricolage
(arte, artigianato, cucina), piuttosto che di quella pubblica e lavorativa. Esiste
una differenza di genere rilevante nella espressione della propria creatività: la
creatività maschile tende ad assumere un carattere maggiormente competitivo,
affermativo, conflittuale di quella delle donne. La convinzione di essere
innovativi e creativi segue un trend di ciclo di vita. Aumenta con l’ingresso
nella età adulta e subisce un forte calo verso la fine della carriera lavorativa.
Occorre chiedersi se questi fenomeni rilevati dalla indagine empirica esprimano caratteristiche proprie della “intelligenza creativa”, oppure siano
provocati dai vincoli sociali che vengono imposti sulle capacità di espressione
individuale10.
Le interpretazioni sulla natura della creatività continuano ad essere divise
schematicamente tra il partito degli evoluzionisti (biologi, psicologi, neuroscienziati, ecc.) che ritengono di poter circoscrivere il fenomeno della creatività quasi esclusivamente rispetto alle doti del cervello umano, distinguendo
tra “cervelli più creativi” in quanto dotati di una maggiore capacità di ragionamento o connessioni tra neuroni, e “cervelli meno creativi” in quanto
limitati fisiologicamente, ed il partito dei “culturalisti” che ritengono che la
creatività sia una proprietà del gruppo e della struttura sociale che la mantiene, e che quindi la creatività dipenda dalle opportunità di ibridazione culturale
e da una maggiore capacità di accesso alla informazione.
Dal nostro punto di vista, occorre considerare in contemporanea le due
prospettive, anche perché i più recenti studi scoprono prospettive, nell’uso del
nostro cervello, che pochi anni fa non erano immaginabili.
Gli studi di psicologia e di neuroscienza sulla creatività hanno prima cercato di affermare un parallelo tra intelligenza e creatività caratterizzando la
creatività come dote di una intelligenza superiore (misurata con il Quoziente
di intelligenza > 120)11. Successivamente, le caratteristiche della creatività
sono state differenziate da quelle della intelligenza generale, preparando
appositi Creativity test per misurare la capacità di invenzione ed innovazio9
Stefano Bucci, Il creativo Sordi batte Volta e Van Gogh, “Corriere della Sera”, 29
settembre 2004.
10
A. Reddy, P. Reddy, Creativity and Intelligence in Psychological Studies, 1983 (28): 204.
11
Per uno studio che non conferma questo rapporto vedasi: F. Preckel, H. Holling, M.
Wiese (2006), Relationship of Intelligence and Creativity in Gifted and Non-gifted Students: An
Investigation of Threshold Theory, Personality and Individual Differences 40: 159–170.
118
ne12. Il rapporto tra intelligenza e creatività è quindi risultato reciproco, ma
non direttamente proporzionale, nel senso che non sarebbe necessario avere
una intelligenza superiore alla media per esprimere qualità creative e queste
ultime non aumentano in proporzione alla intelligenza.
Figura. n. 1- Differenze nella attivazione delle aree prefrontali degli emisferi cerebrali in due gruppi caratterizzati da alta e bassa creatività. Il colore in rosso (colore
più scuro nella riproduzione in bianco e nero) evidenzia le aree neurali attivate
nell’eseguire un test non verbale.
Fonte: Ingegerd Carlssona, Peter E. Wendta, Jarl Risberga, On the neurobiology of creativity.
Differences in frontal activity between high and low creative subjects, Neuropsychologia 38
(2000) pag. 878.
Gli studi di neuroscienza sulla creatività13 costituiscono un importante
12
M. Garaigordobil, J.-I. Pérez, Creative Personality Scale: An Exploratory Psychometric
Study, Estudios de Psicología, Vol. 26, N. 3, November 2005: 345-364.
13
D. Arne, The Cognitive Neuroscience of Creativity, Psychonomic Bulletin & Review,
Volume 11, Number 6, December 2004, pp. 1011-1026.
119
punto di innovazione nel settore, in quanto stanno approfondendo empiricamente l’analisi delle aree del cervello che vengono utilizzate dalle persone che
appartengono al gruppo creativo (v. Figura n. 1).
Il gruppo dei più creativi utilizza un maggior numero di aree per organizzare i propri ragionamenti, e soprattutto fa riferimento ad aree dei due emisferi, a differenza dei meno creativi che concentrano le proprie attività intellettive sull’emisfero sinistro. Ciò parrebbe confermare, in termini più specifici, la
differenziazione che è stata fatta tra pensiero unilaterale e bilaterale.
Una continuazione di questi studi – che ora sono da considerarsi all’inizio
– potrebbe contribuire ad un uso ottimale del nostro encefalo, nel senso di
insegnare ai bambini ad usare più elasticamente la propria intelligenza, cioè a
sviluppare la propria intelligenza creativa. Ciò sicuramente potrebbe contribuire non solo ad una crescita delle capacità intellettive e culturali, ma anche
ad un migliore adattamento della persona ai problemi che potrebbe incontrare
nella società, specialmente nella prospettiva di un allungamento della vita a
quasi cento anni, che implica una capacità di trasformazione individuale
davvero notevole.
D’altra parte, è anche vero che si ha l’impressione che la società italiana
contemporanea (alla quale facciamo riferimento per mancanza di informazione sulle altre società europee) non appare utilizzare a pieno le possibilità
creative espresse dal suo popolo.
Per esempio non vengono ritenuti, dalle risposte ricevute dagli intervistati
Eurispes, ambienti abbastanza creativi quelli della scuola, quelli della industria e della politica, che sono ambienti di lavoro e di decisionalità vitali per il
futuro del nostro paese.
Tabella n. 2 - Definizioni della creatività
Alcune definizioni di creatività
Indice percentuale
Esprimere se stessi, ciò che si ha dentro
Individuare soluzioni innovative ai problemi
Produrre qualcosa di utile
Rompere le regole
91%
82%
74%
31%
Le denominazioni più comuni concorrono a definire la creatività come
“capacità di esprimere se stessi, ciò che si ha dentro” (91%); individuare
soluzioni innovative ai problemi (82%); produrre qualcosa di utile (74%), e
rompere le regole del conformismo (31%) – l’ultima importante soprattutto
tra il gruppo giovanile.
Invece di impiegare la motivazione personale che si può esprimere creativamente in tutte le età, si preferisce privilegiare la creatività dei giovani,
magari sfruttandola attraverso operazioni di cool hunting, senza riconoscere il
120
merito di invenzione, il diritto di autore e la proprietà intellettuale agli innovatori14. I continui episodi di piracy, di imitazione e di clonazione di modelli e
di invenzioni che avvengono nella nostra industria e nel nostro commercio
non favoriscono l’emergere di soggetti creativi e la loro affermazione, così
come in nazioni nord europee dove si sta molto più attenti a sanzionare questi
ricorrenti episodi di white collar crime.
3. Gli ambienti sociali creativi
Non tutte le persone, ovviamente, sviluppano una passione per la
creatività; tuttavia vi sono determinate categorie professionali, come gli
artisti, che costruiscono la propria immagine sociale sulla distinzione rispetto
ad altri, ed un elemento fondamentale di questa distinzione è la creatività.
La capacità di produrre qualcosa di nuovo, di non usuale, di rompere
rispetto all’etichetta ed alla routine della vita quotidiana rappresenta un
elemento della meraviglia e della sorpresa provocata dall’opera artistica. Lo
espone bene Giovanni Filangieri (1753-1788) nella sua pedagogia dell’arte:
“Il piacere della sorpresa, [...] manifesta 1’azione della curiosità in noi, farà lo
scopo delle altre generali regole del gusto, delle quali ci rimane ora a ragionare.
Io chiamo con questo nome quel sentimento, che si desta in noi dalla percezione
d’una cosa, che non aspettavamo, o che non aspettavamo in quel modo, nel quale sì è
a noi presentata. Il sublime, il meraviglioso, il nuovo, 1’inaspettato sono i soggetti di
questa sorpresa, e sono i fonti di questo piacere. Le belle arti possono servirsi di tutti e
quattro per eccitarlo. Niuna produzione di gusto meriterà questo nome, se non produce quest’effetto. Il grande artefice non si contenterà soltanto di eccitare questo sentimento, ma procurerà di prolungarlo. Il capo d’ opera dell’ arte è quando la sorpresa,
che dà principio è mediocre, sì sostiene, si aumenta, e ci conduce per gradi
all’ammirazione”15.
La combinazione intellettuale ideale, per formare un artista, è quella di
“ragionamento” ed “immaginazione”.
14
Il cool hunter osserva, annota, gira per le strade, guarda le vetrine, frequenta mostre, locali appena aperti, discoteche e metropolitane: il suo compito, come spiega Paola Russo,
coordinatrice del corso Cool hunting, organizzato da Polimoda s.r.l [...], “è di ‘mappare’ il
sistema di valori estetici di tutte le fasce di consumatori potenziali per individuare nuove fasce
potenziali e poter offrire alle aziende informazioni e indicazioni circa i veri desiderata dei
consumatori finali”. Cfr. http://gdolargoconsumo.monster.it/5489_it_p1.asp
15
Giovanni Filangieri (1753-1788), Delle leggi che riguardano l’educazione, i costumi e
l’istruzione pubblica, Torino: Fratelli Bocca, 1922, pp. 180 e ss. Per una più estesa trattazione
dell’argomento si veda un mio saggio sulla comunità utopica di San Leucio, sorta sotto gli
auspici dei Borboni. Francesco M. Battisti, San Leucio: Arte e lavoro nella rivoluzione industriale, San Leucio, 2004; documento scaricabile a: www.lans.it/sleucio.htm
121
“La ragione, il principale ministero della quale è di dirigere le altre facoltà
dell’intelletto, deve anche essere per questo fine adoprata dall’artista; deve consigliare
la sua immaginazione, deve prevenirne o correggerne gli errori; deve somministrargli
de’ mezzi onde regolare il suo esame sulle sue produzioni; deve rassicurarlo contro la
diversità de’ giudizi, che quelle dovranno necessariamente subire”16.
Rispettando i canoni di una cultura illuministica, il Filangieri ammette che
la creatività artistica debba avvenire in un clima di libertà, con assenza di
vincoli troppo severi; ma dev’essere altresì contemperata dal rispetto delle
regole.
Tuttavia nell’ambiente raffinato della corte, la creatività artistica, come
qualsiasi altro tipo di creatività intellettuale veniva sottoposto ad una “disciplina”, di studio e di erudizione nel campo delle scienze e delle arti, ed un
controllo di tipo politico, essendo gli artisti sudditi del Sovrano e da lui mantenuti. La ribellione ed il tradimento potevano essere puniti con la morte.
Il rapporto col committente cambia dopo la Rivoluzione Francese e con il
processo di industrializzazione. La scelta del lavoro artistico viene fatta non
più dalla aristocrazia, ma dal mercante d’arte, come piazzista di prodotti sul
mercato del collezionismo e degli appassionati. L’uomo creativo si adatta
male ad una trattativa col mercante che ne svaluta le qualità per il proprio
profitto. Si stabilisce inoltre un rapporto di lavoro con una committenza non
educata; spesso non in grado di intendere il significato voluto dall’artista.
Questa situazione sociale di conflitto, tra intellettuali creativi e borghesia
attaccata al denaro, si stabilisce durante il Romanticismo in Europa, e continua con le avanguardie artistiche dei primi anni del Novecento (dadaismo e
surrealismo), che hanno proclamato apertamente una rivolta artistica contro la
commercializzazione dell’opera d’arte e lo sfruttamento dell’artista come
produttore di valore.
Si reagisce con l’isolamento e la ribellione: due condizioni che sembrano
esaltare il processo della creatività, portando i comportamenti individuali agli
estremi17. D’altra parte, proprio questo modo di mostrarsi e di atteggiarsi di
fronte al pubblico conferma lo stereotipo sociale degli artisti come “figli
saturnini” nati sotto uno strano pianeta18.
Gli studi psicoanalitici della creatività espressa da geni come Leonardo da
Vinci, mettono in evidenza aberrazioni e stranezze della personalità; una
presunta vicinanza tra genialità e follia. La creatività viene addotta ad una
16
Filangieri, op. cit., p. 191 (corsivo dell’autore).
M. Canevacci, Culture extreme. Mutazioni giovanili nei corpi delle metropoli, Meltemi,
Roma, 2002.
18
R. Wittkower, Born under Saturn: the Character and Conduct of Artists, New York:
Random House, 1963; trad. it. Nati sotto Saturno: la figura dell’artista dall’antichità alla
rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 1968; più recentemente, L. Frattale, Melanconia, crisi,
creatività nella letteratura spagnola tra Otto e Novecento, Bulzoni, Roma, 2005.
17
122
regressione al pensiero primario19, cioè la forma più primitiva dell’intelletto
umano.
Oggi, le verifiche scientifiche su questo rapporto tra “follia e creatività”
smentiscono definitivamente ipotesi sorte nel secolo XIX, che esistesse un
tale rapporto nei geni inventori. In particolare, in uno studio di O’Reilly,
Dunbar e Bentall (2001)20 viene smentito con indagini sperimentali un
rapporto tra schizotipia e creatività, ipotizzato ai primi del novecento
dall’illustre patologo Eugen Bleuer21. Non esisterebbe un rapporto statistico
tra test che indicano la presenza di questa malattia e la capacità di pensiero
divergente.
E. Noble, M.A. Runco e T.Z. Ozkaragoz hanno invece somministrato un
pacchetto di reattivi (incluso il Personality Creativity Scale) a famiglie di
alcolisti e non alcolisti, confermando statisticamente il dato che l’abitudine
all’alcol non favorisce la creatività. “I risultati indicano che in genere che i
padri alcolisti ed i loro figli hanno punteggi di creatività minori rispetto agli
altri gruppi sperimentali”22.
4. Gruppi ed avanguardie culturali
Gli studiosi sociali della creatività non possono dimenticare che tutto il secolo del Novecento è stato caratterizzato dalla formazione di gruppi intellettuali creativi, non solo dal punto di vista artistico, ma anche da quello culturale e politico. Una delle caratteristiche dell’avanguardia novecentesca è appunto quella di negare una divisione tra le aree di attività lavorativa e culturale e
la specializzazione dei mestieri, per includere il tutto in un processo di trasformazione della società.
Parliamo qui di “gruppi”, ma non di squadre industriali od organizzative
(teams) che sono il prodotto di una organizzazione che vuole incanalare
l’innovazione creativa all’interno di questioni che riguardano la produzione
aziendale. In questo contesto, la sola considerazione della letteratura psicologica riguardante il team working rischia di portarci al di fuori di un percorso
di costruzione della creatività come processo sociale.
Il gruppo sociale creativo non è legato da un contratto aziendale, ma da un
19
S. Arieti, Creatività: la sintesi magica, Il pensiero scientifico, Roma, 1990; v. anche F.
Vanni, Psicoanalisi della creatività artistica e scientifica, Ed. Cortina, Milano, 1976.
20
T. O’Reilly, R. Dunbar, R. Bentall, Schizotypy and creativity: an evolutionary connection?, in Personality and Individual Differences, 31 (2001): 1067-1078.
21
E. Bleuer (1911/1950), Dementia praecox or the group of schizophrenias. New York:
International Universities Press. Si veda anche J. H. Brod, Creativity and Schizotypy, in pp.
276-298, Schizotypy: implications for illness and health, a cura di G.S. Claridge, Oxford:
Oxford University Press.
22
E. Noble, M.A. Runco, T.Z. Ozkaragoz, (1993) Creativity in alcoholic and nonalcoholic
families. Alcohol 10, pp. 317–322.
123
patto di reciproca solidarietà, su obiettivi condivisi. Ha la connotazione del
gruppo simmeliano, basato innanzi tutto sull’affetto e sulla amicizia, sulla
reciproca stima, a prescindere dal particolare compito al quale si dedica il
gruppo stesso. Il gruppo culturale, estremamente sensibile all’ambiente, si
adatta e reagisce a prescindere da quelle che sono le richieste economiche di
una organizzazione23. Crede nella trasformazione della società e ne fa una sua
missione. Si dedica alla costruzione di “pacchetti ideologici” che possano
essere propagandati alla popolazione e possano diventare piattaforme
politiche.
La stabilità del gruppo amicale, formato su interessi comuni ed affetti, ne
favorisce il processo di creatività, che costituisce al suo interno un processo di
identificazione. Pensiamo, a tal proposito ai gruppi artistici e culturali che si
distinguono per il possesso di conoscenze particolarmente avanzate in un
settore e vengono peraltro riconosciuti come avanguardie competenti.
Il team industriale o la squadra militare non condividono necessariamente
questi sentimenti; in quanto sono gruppi creati in funzione di un particolare
lavoro e possono essere sciolti a piacimento dalla direzione non appena cessino le loro funzioni o divengano inefficienti e costosi.
Questi aspetti delle avanguardie culturali sono stati a lungo sottovalutati
dalla sociologia generale, eccetto che da alcuni autori, come Vilfredo Pareto e
Gaetano Mosca che hanno compreso l’importanza delle élite nella trasformazione della società24.
Gli studi di storia delle idee e quelli di storia della scienza hanno ripetutamente dimostrato che molto raramente si ha una “idea nuova”: qualcuno, in
altri termini, ci ha già pensato sopra. La ricerca di precedenti nel passato può
essere ardua, ma non impossibile.
Un recente articolo su Alfred Nobel, fondatore del premio Nobel, ma anche inventore della Dinamite, potentissimo esplosivo, tende a dimostrare
come una invenzione abbia un contesto sociale e culturale ben definibile25.
Alfred Nobel nasce a Stoccolma nel 1833, e dal 1842 al 1849 studia privatamente con due insegnanti di chimica, docenti di livello universitario. Successivamente, tra il 1850 ed il 1852, visita diverse sedi europee, tra le quali la
scuola di Theophile-Jules Pelouze (1807-1867), rinomato esperto di esplosivi,
presso la quale era stata scoperta accidentalmente la nitroglicerina da Ascanio
Sobrero (1812-1888), da quest’ultimo denominata “piroglicerina”.
Il persistente interesse di A. Nobel nella chimica degli esplosivi che lo
23
D. J. Maurício, Social Creativity, Collective Subjectivity, and Contemporary Modernity,
New York: St. Martin’s Press, 2000. Inoltre: Social Creativity, edited by Alfonso Montuori,
Ronald E. Purser, Cresskill, N.J.: Hampton Press, 1999.
24
Lewis A. Coser, Men of ideas: A Sociologist's View, New York, Free Press, 1970.
25
S. Sri Kantha, Alfred Nobel’s Unusual Creativity: an Analysis, Medical Hypotheses
(1999) 53(4), 338–344.
124
condurrà, dopo dieci anni di ricerche e sperimentazioni alla sua fondamentale
scoperta industriale, è dovuto ad interessi di famiglia, essendo il padre Immanuel Nobel (1801-1872), chimico lui stesso e costruttore industriale di mine
da mare, utilizzate nella guerra di Crimea (1853-56).
Nonostante un ambiente così favorevole, e contatti internazionali con i
massimi esperti del settore che sono continuati per anni, Alfred Nobel impiegò anni a maturare la sua invenzione, quella di rendere la nitroglicerina stabile
e trasportabile, facendola assorbire da un materiale inerte e poroso.
Secondo l’autore dell’articolo (Sri Kantha, 1999), l’esempio di A. Nobel
sarebbe canonico delle ipotesi di H. Gardner (1996)26 sullo sviluppo intellettuale della creatività. La creatività avviene a cicli ricorrenti e riguarderebbe
cinque competenze principali:
– la risoluzione di un problema ben definito;
– la presentazione di uno schema concettuale generale;
– la creazione di un prodotto che incorpora una idea;
– l’innovazione stilistica in una forma di espressione artistica;
– la dimostrazione di capacità straordinarie di leadership nel contesto sociopolitico27.
Da questo insieme risulta rinforzato il dato, promosso dagli studi di sociologia della scienza, che la capacità creativa richiede ovviamente intelligenza,
ma anche una capacità di promozione sociale che può essere data dal contesto
nel quale si agisce.
Per quanto riguarda il contesto scientifico, vi sono ormai complessi istituzionali stabili ed estesi, costituiti da laboratori, parchi scientifici e città
della scienza, che permettono l’attività intellettuale produttiva di élite scientifiche dalle quali scaturiscono anche premi prestigiosi28. Ma i “cultural
clusters”, come vengono chiamati da chi redige i piani culturali per le città,
possono essere di vario tipo29.
Al termine degli anni novanta la sociologia delle arti e della moda si è accorta dell’importanza dell’azione delle élite artistiche anche nell’avviare processi produttivi di importanza internazionale, nella costruzione di trend di stili
e di gusto che potessero caratterizzare un paese (ad esempio il “made in Italy”
nella moda).
A differenza dei primi del Novecento, tuttavia, la società contemporanea
26
H. Gardner, The Creator’s Patterns. In: Borden M. A., (ed) Dimensions of Creativity,
Cambridge, MA: MIT Press, 1996: 143–158.
27
H. Gardner, Creating Minds. New York: Basic Books, 1993: 359–390.
28
H. Zuckerman, Scientific Elite: Nobel Laureates in the United States. New York: Free
Press, 1977; H. Zuckerman, The proliferation of prizes: Nobel Complements and Nobel
Surrogates in the Reward System of Science. Theoret. Med 1992; 13: 217–231.
29
Mommaas, H., 2004. Cultural Clusters and the Post-Industrial City: Towards the Remapping of Urban Cultural Policy. Urban Studies, 41 (3), 507-532.
125
non combatte e reprime questi gruppi elitari, ma permette il loro prosperare e
la loro integrazione economica. L’insieme di questi gruppi, in azione nei
diversi contesti culturali ed organizzativi del Paese, può essere considerata
“classe creativa”, in quanto si distingue per il suo insediamento nelle attività
di una società della conoscenza, dove “mezzi di produzione” sono la ricerca,
la formazione, la comunicazione e la trasmissione culturale, l’informazione ed
il marketing, la gestione finanziaria ed immobiliare, il planning, la sicurezza e
la tutela ambientale.
Richard Florida, nella monografia intitolata The Rise of the Creative Class
descrive l’emergere di una particolare categoria demografica formata da una
popolazione altamente istruita, capace di gestire tecnologie avanzate, che dà
un valore elevato al proprio tempo e lo considera una risorsa preziosa. Sarebbe un mito considerare i lavoratori con alta tecnologia isolati nella campagna,
o rifugiati in zone tropicali. Una analisi demografica ed economica li colloca
invece nelle metropoli più importanti del mondo, ed in particolare in determinati quartieri che offrono vantaggi in termini di beni non materiali, ma culturali.
5. La creatività nella progettazione industriale
Anche le organizzazioni complesse, come quelle industriali, hanno bisogno di un contributo creativo, che ricercano in persone od in gruppi che
abbiano una capacità di innovazione. Il cool hunter è una figura professionale
che ha lo scopo, come “cacciatore di tendenze”, di individuare tra i giovani ed
i gruppi artistici mode emergenti, gusti, oggetti che possano ispirare il lancio
di nuove mode.
L’industria non è tanto interessata al processo di creatività, ma al risultato
economico dell’impiego di un “prodotto” creativo, cioè diverso dal precedente. Questa diversità può essere individuata nello stile del prodotto (re-styling,
rivestimento di un prodotto industriale già esistente come il motore di una
automobile), oppure in un prodotto che abbia nuove caratteristiche tecniche e
di impiego.
Per perseguire una innovazione, l’industria può perseguire strategie parassitarie, come il cool hunting30, l’head hunting di scienziati od inventori31, la
semplice ricopiatura di prodotti e di brevetti come hanno fatto le industrie
giapponesi negli anni settanta. Oppure l’industria può adottare strategie
innovative, costituendo centri di studio e di progettazione che siano capaci di
inventare (con tutta segretezza e sorpresa rispetto alla concorrenza) un prodotto innovativo.
30
http://www.coolhunting.com/
J. H. McConnell, Hunting Heads: How to Find & Keep the Best People, Washington
D.C.: Kiplinger Books, 2000.
31
126
Lo scopo della creatività nel contesto industriale è ben definito da
Crosby32: “Possiamo esaminare la questione di ciò che vogliamo ottenere dal
pieno uso della creatività nell'industria. Il primo obiettivo è senza dubbio
economico, date le priorità determinate storicamente dall’industria: dobbiamo
migliorare la produttività. Nel breve termine, ciò significa normalmente
ridurre i costi di operatività. Nel lungo termine, significa ideare e sviluppare
prodotti di eccellenza, ottenere risultati di ricerca che aggiungano valore, od
anche migliorare l’immagine aziendale, con mezzi diversi, per ottenere un
vantaggio sul mercato”.
Uno scopo secondario della creatività è quello di migliorare la soddisfazione dei dipendenti creativi nel posto di lavoro; lasciare loro una libertà di
espressione che non risulti conflittuale con gli scopi della organizzazione,
nell’attesa che questa maggiore libertà risulti anche produttiva di una migliore
performance industriale.
Tabella 3 – Dimensioni del Creative Climate Questionnaire di Ekvall (1983)
Impegno
Libertà
Dinamicità
Fiducia / apertura
Tempo dedicato
alle idee
Ironia, humour
Conflitti
Supporto alle
nuove idee
Dibattito
I partecipanti debbono essere convinti degli obiettivi che
stanno perseguendo. Solo così si impegneranno pienamente
nella risoluzione degli ostacoli che si frappongono al loro
conseguimento.
I partecipanti desiderano avere la libertà di compiere le loro
scelte quando lo richiede la situazione e di non essere eterodiretti.
I partecipanti fanno del loro meglio per raggiungere gli obiettivi sfidando gli ostacoli e la concorrenza di altri gruppi.
Il clima nel quale lavora il gruppo creativo deve essere caratterizzato da ottimismo e fiducia che comunque qualcosa di
buono verrà prodotto dalla iniziativa. Nuove idee sono ben
accolte
Importanza del tempo dedicato alla riflessione ed alla valutazione di quanto viene svolto dal gruppo.
Capacità di fare dell’ironia sul proprio ruolo, accettazione di
mettersi in gioco, anche dal punto di vista scherzoso ed amichevole.
Capacità di risolvere le controversie senza dividere il gruppo
ed interrompere il lavoro
Atteggiamento positivo verso nuove idee e proposte diverse.
Capacità di comunicare e discutere le idee, superando le
contraddizioni che provocano
32
Crosby A. EDT (2003), Creativity and Performance in Industrial Organizations, London: Routledge, p. 104.
127
Propensione al
rischio
Accettazione della dimensione del rischio e della scommessa
pur di ottenere un risultato
Adattato da G. Ekvall, J. Arvonen e I. Waldenstrom-Lindblad, Creative organizational climate. Construction and validation of a measuring instrument. Faradet Report
2 (Stockholm: The Swedish Council for Management and Work Life Issues, 1983).
Questo modo tradizionale di affrontare la creatività è stato messo in discussione da studi svolti negli ultimi venti anni, innanzi tutto da G. Ekvall e
collaboratori (1983) che hanno proposto e collaudato un questionario per
verificare il clima propenso alla creatività sul posto di lavoro che è stato
ripreso più volte da altri consulenti aziendali33 (Cfr. Tabella n. 3).
Non è particolarmente facile conciliare gli interessi di una organizzazione
capitalistica come può essere una grossa azienda internazionale, con le esigenze del gruppo creativo che vi lavora dentro. Nel suo libro Organisation en
analyse il sociologo clinico Eugène Enriquez ha posto in chiaro contrasto
bisogni di espressività individuali con le esigenze di divisione del lavoro in
una grossa azienda francese che aveva la sede della dirigenza a Parigi, ed una
delle filiali operative in Africa. Gli impiegati “africani” (cioè trasferiti in
Africa) si sentivano nettamente emarginati rispetto alle decisioni del centro ed
avevano perso le motivazioni a collaborare in maniera costruttiva34.
Le aziende che non si rinnovano sono destinate a vivere una “crisi di creatività”, alla quale possono far fronte con un outsourcing (cioè investendo su
una consulenza esterna per l’innovazione di prodotto e di processo) oppure
con un insourcing, cioè trasformandosi internamente e valorizzando le proprie
risorse umane. La questione è stata affrontata da Steve Arlington nello studio
della ricerca di nuovi farmaci35. Le aziende farmaceutiche si sentono sotto
pressione perchè il costo di sperimentare e produrre un nuovo farmaco può
raggiungere i 600 milioni di dollari. Di fronte ad un investimento così rilevante non si possono fare errori; occorre avere un sistema di ricerca e di sviluppo
del prodotto che sia il più efficace possibile. Le esigenze manageriali, tuttavia,
si scontrano con quelle dei ricercatori che appaiono insensibili alle esigenze di
produrre e si muovo secondo logiche autoreferenziali. “Storicamente, i dipartimenti di ricerca e la gestione imprenditoriale hanno avuto rapporti difficili”.
La gestione, se vuole avere risultati soddisfacenti, deve lasciare tempo e
libertà agli inventori, oppure si dovrà rivolgere ad altre aziende di ricerca
33
Si vedano anche gli altri lavori dello stesso gruppo: G. Ekvall, Y. Tångeberg-Andersson,
Working climate and creativity: a study of an innovative newspaper, Journal of Creative
Behavior, (1986): 215-225; G. Ekvall, Creativity in project work: a longitudinal study of a
product development project. Creativity and Innovation Management (1993): 17-26.
34
E. Enriquez (1992), L’Organization en analyse, PUF, Paris.
35
S. Arlington, Accelerating Drug Discovery: Creating the Right Environment, DDT vol.
2, n.12, dicembre 1997.
128
biotecnologica, per sviluppare ed ottenere la licenza di nuovi principi attivi (le
molecole) che servono per stabilire il suo primato.
Le strategie per sviluppare un clima creativo sono diverse. Ai gruppi creativi si richiede di affrontare problemi complessi, inizialmente mal formulati,
con una informazione che dev’essere ancora ricercata. Marci Segal mette in
contrasto i fattori facilitanti con quelli che possono peggiorare il clima del
gruppo (v. Tabella n. 4).
Il clima aziendale può variare da contesto a contesto, ed anche all’interno
della stessa impresa con l’avvicendamento della gestione. Vi possono essere
momenti felici, nei quali prevale uno spirito di collaborazione e di solidarietà,
ed altri momenti nei quali prevalgono le preoccupazioni e le restrizioni di
ogni genere.
Tabella n. 4 - Fattori che favoriscono la creatività in un setting industriale
Condizioni
Condizioni migliori
Condizioni peggiori
Atteggiamenti
delle persone
In generale di ottimismo, non
conflittuali e con una controllata concorrenza. Fiducia nella
capacità di gestione della
leadership.
Di pessimismo e di
scarsa fiducia sulla
capacità di raggiungere
gli obiettivi. Bassa motivazione dei componenti
del gruppo e scarsa
fiducia nella leadership.
Interazione tra le
persone
Rapporti di collaborazione e di
amicizia reciproca che tendono
a consolidare lo spirito di
gruppo. Entusiasmo per le
finalità del gruppo.
Rapporti di collaborazione formali, dovuti al
bisogno di lavorare
assieme agli altri, più che
alla condivisione degli
obiettivi.
Ambiente fisico
Piacevole, pulito ed ordinato
Brutto, spiacevole, stressante, sporco, inquinato
Risorse o mezzi
Più che sufficienti, tali da non
costituire un ostacolo per la
progettazione del gruppo
Limitati e difficili da
reperire, un continuo
ostacolo alla progettazione del gruppo
Adattato da Marci Segal, Creativity and Personality Type: Tools for Understanding and
Inspiring the Many Voices of Creativity, p. 18.
Un aumento della tensione entro il gruppo di ricerca ne peggiora il rendimento. D’altra parte lasciare i ricercatori completamente autonomi facilita la
129
dispersione degli interessi e i ritardi. Si deve infatti distinguere tra “creatività”
diretta alla ricerca teorica, come ideazione di uno schema mentale, di una
filosofia dell’arte o della scienza che sviluppi linee guida generali, e “creatività applicata” allo sviluppo di un prodotto, dove l’oggetto industriale costituisce la tappa finale del processo di creatività, vincolato da esigenze temporali.
Un paragone tra le società di informatica Microsoft ed Apple può essere
indicativo dei diversi approcci che possono assumere le organizzazioni rispetto alla creatività. La Microsoft viene strutturata dall’Ing. Bill Gates sul modello della rivale IBM36 come corporation gerarchica, nella quale comanda un
ristretto Board of Directors37. A ciascun Direttore spetta la gestione della
divisione che gli fa capo. Egli è il responsabile del lavoro e dei progetti. La
ripartizione dei compiti è rigida, il lavoro parcellizzato, la comunicazione tra
il personale è scarsa. Si tratta di un ambiente ottimale per lo sviluppo di
compiti che vengono divisi ed individualizzati.
Nel caso della Apple ideata da Steve Jobs e Steve Wozniak, la società continua ad essere la “creatura” di un “guru” dell’informatica, che adotta anche
uno stile di vita particolare38. Il destino della società, nei momenti di crescita
così come nei momenti di crisi, dipende dall’unico capo legittimato a comandarla. A discrezione del capo si possono aprire spazi di dialogo, iniziative
nelle quali vengono diretti ingenti investimenti, oppure si terminano i progetti
senza risultati. Al personale viene richiesto non solo di contribuire creativamente alla crescita della società, ma anche di avere un forte spirito di identificazione con l’impresa, di credere alla missione e partecipare agli eventi
sociali.
Questa differenza viene documentata da biografie e film fatti sui capitani
di queste imprese che hanno fondato il personal computing.
La pressione sociale ed economica a diventare più flessibili ed innovativi
non riguarda solamente il caso dell’impresa informatica, ma anche quello di
molti altri settori (dalle biotecnologie alla moda) dove la concorrenza è spietata ed il confronto si svolge di mese in mese.
“Al giorno d’oggi – nota la Polimoda – le società debbono riuscire a sopravvivere, a svilupparsi e prosperare in un sistema sociale dove il ritmo del
cambiamento è così rapido che la loro stessa capacità di cambiare costituisce
un vantaggio rispetto alla concorrenza”.
36
Bill Gates, La strada che porta al domani, A. Mondadori, Milano, 1996.
J. Edstrom, Barbarians Led by Bill Gates: Microsoft from the Inside, How the World's
Richest Corporation Wields its Power, H. Holt, 1998; W. G. Rohm, The Microsoft File: the
Secret Case against Bill Gates, Times Business, New York, 1998; J. Bick, The Microsoft Edge:
Insider Strategies for Building Success, Simo & Schuster, London, 1999.
38
O. W. Linzmayer, Apple Confidential : The Real Story of Apple Computer Inc., No
Starch Press, San Francisco, 1999; M. E. Kendall, Steve Wozniak - Inventor of the Apple
computer, Walker, 1994; L. Butcher, Accidental Millionaire: The Rise and Fall of Steve Jobs at
Apple Computer, Paragon House Publishers, 1988.
37
130
Ciò non vale solo per l’industria automobilistica, quella dei computer, ma
anche per quella della moda e dell’abbigliamento, stressata da ritmi stagionali
ed annuali di rinnovo delle offerte di prodotti.
In alcuni casi si tratta di cambiamenti puramente formali, come disegni e
colori; in altri casi vengono messe in discussione le tecniche di produzione e
di manifattura. Si aprono nuove linee di produzione parallele a quelle vecchie.
“Il concetto di cambiamento è l’essenza stessa della moda, costituita da cicli
rapidi, da immagine, da creatività, da comunicazione. Questi sono i problemi
del mercato mondiale che tutte le società debbono affrontare al giorno d’oggi,
non importa in quale settore operino”39.
Ciò porta anche le imprese a trasferire l’innovazione dal piano individuale
(dove avviene più frequentemente) al piano istituzionale, operando un trasferimento dalla “personal identity” alla “brand identity”. L’innovazione ed il
primato dell’invenzione possono infatti essere sfruttate per creare un marchio
che abbia una capacità di affermazione mondiale. Ci ricorderemo per molti
anni che è stato inventato un medicinale dal nome “Viagra”, ma ricordiamo
con più difficoltà il nome della società che lo produce (la Pfizer) nonostante
sia molto affermata nel settore.
Il settore della progettazione creativa diventa dunque trainante e vitale. Se
la produzione e la manifattura possono essere decentrate in paesi in via di
sviluppo o dove la manodopera è meno costosa, i centri di progettazione
devono essere al contrario collocati nei contesti tecnologici e scientifici più
adatti per promuovere la progettazione, nei pressi delle università, dei parchi
scientifici, di centri di calcolo e telecomunicazione, di biblioteche e di laboratori che forniscano tutti i servizi necessari alla ricerca. Non desta quindi
meraviglia che compagnie orientali abbiano stabilito i loro centri di ricerca in
California od in Europa, per essere capaci di cogliere al più presto le novità.
6. Gli ambienti sociali ed urbani creativi
Passiamo ad un punto ulteriore nell’esaminare l’interesse che può esprimere un territorio nel promuovere la creatività della sua popolazione40. Diciamo
che in linea generale, di fronte a problemi sollevati dal benessere, la creatività
non costituisce un obiettivo prioritario in una popolazione povera. Solo quando un certo livello di benessere è assicurato, la creatività diviene un argomento da discutere con attenzione41. Del resto nel passato lo sviluppo della creatività si verificava nella “Europa delle corti”. I mecenati, a partire dal primo
Mecenate sotto Augusto Imperatore, si circondavano di artisti che fornivano
39
http://www.polimoda.com/english/corsi/37_cen_corsi.html
S. Gorelick, Piccolo è bello, grande è sovvenzionato. Come le nostre tasse contribuiscono al degrado sociale e ambientale, Arianna Editrice, 2005.
41
Scott, A., The Cultural Economy of Cities. Sage, London, 2000.
40
131
loro opere in cambio di un mantenimento economico permanente. Si trattava
di una forma di investimento, dato che anche un tempo le opere di arte pregiate avevano un valore di scambio politico e potevano essere utilizzate come
una forma di dono tra potenti.
Il Ministero della Cultura, delle Comunicazioni e dello Sport britannico42
che sin dal 1998 ha creato una commissione di lavoro apposita, definisce
come “industrie creative” quelle che comprendono attività che hanno origine
nella individualità creativa, nella capacità e nel talento, e che abbiano un
potenziale di creare reddito e lavoro attraverso la generazione e lo sfruttamento della proprietà intellettuale. Queste industrie includono i seguenti settori
chiave: pubblicità, architettura, arti e beni culturali, artigianato, design, moda,
film, software per intrattenimento, musica, arti dello spettacolo, editoria,
televisione e radio. Naturalmente l’elenco dei settori di attività non è completo; ma si tratta di una aggregazione originale rispetto alla ripartizione che
viene generalmente fatta in Italia tra settori differenti e separati come (a) arti,
spettacolo e beni culturali, (b) telecomunicazioni e (c) informatica.
Fino agli ultimi anni del 1900, il fenomeno della creatività non veniva
considerato un oggetto di studio specifico da parte di geografi, architetti ed
urbanisti, né un motivo rilevante per organizzare una pianificazione dello
sviluppo urbano funzionale ad essa. Un punto di svolta è stato determinato dal
libro di Franco Bianchini e Charles Landry, The creative city (1995)43 e
successivamente dagli scritti di Peter Hall e Richard Florida44.
Ne è nato un dibattito tra coloro che intendono insediare le attività creative
nei centri urbani rivitalizzandoli, e coloro che invece desidererebbero spostarle nelle periferie e nei piccoli centri caratterizzati storicamente, ed infine
coloro che insistono sul rapporto locale globale, concependo la possibilità di
reti creative.
“Le grandi città – ha scritto Peter Hall – incoraggiano le idee e ne favoriscono il rimbalzo da mente a mente”45. In una monografia dedicata a Creativity and the city, la creatività viene considerata un elemento della qualità
urbana e entra a far parte degli indici di qualità del vivere cittadino.
Anche il confronto con la provincia può essere drammatico. Le città creative negli Stati Uniti, come New York, San Francisco e Boston, si distinguono
nettamente dalla campagna provinciale legata a tradizioni religiose (The Bible
42
DCMS Creative Industries Task Force, 1998. Creative Industries: Mapping Document.
DCMS, London, p. 10. Si vedano anche: DCMS, Creative Industries, Report of the Regional
Issues Working Group. DCMS, London, 2000; DCMS, Creative Industries: Mapping Document. DCMS, London, 2001.
43
F. Bianchini, C. Landry, The Creative City, Demos, London, 1995.
44
R. Florida, The Rise of the Creative Class, Basic Books, New York, 2002.
45
P. Hall, The future of cities, Computers, Environment and Urban Systems, 23 (1999)
173-185.
132
Belt o stati che rappresentano la “cintura della Bibbia”). Tale contrasto del
resto esiste anche in Europa, nelle contrapposizioni tra una Europa del Nord
più liberale e permissiva, ed una Europa del Sud più censoria, tra Europa
libera ed Europa dei paesi appartenenti alla ex-“Cortina di ferro”. Le città di
frontiera, di transizione tra il vecchio ed il nuovo, come Berlino, sono centri
che sviluppano al massimo la creatività, basata sul contrasto e sul confronto,
artistico, morale, politico.
L’autore – si noti – distingue tra quartieri creativi, artistici, più liberi, e
quartieri più ricchi e conformisti; oppure quartieri poveri e pericolosi, dove
queste forme di esibizionismo non sono accettate.
La concentrazione e la congestione secondo K. Ezell, autore di una guida
sul nuovo vivere urbano, sono altri aspetti dei laboratori urbani creativi. La
creatività infatti costituisce un dono precario e volatile. “I posti creativi sono
affollati e divertenti. Permettono ai residenti di vivere nell’arte. Queste aree
urbane contengono una varietà di opportunità espressive nel visivo, nello
spettacolo, nella partecipazione e le forme spettacolari dell’arte contribuiscono alla qualità urbana [...] I migliori quartieri urbani ispirano chiunque
e ciascuno a divenire un artista”. Il termine funky indica un quartiere od una
categoria di persone che “si muovono in modo diverso”46, utilizzando colori e
provocazioni, cambiando dal tradizionale all’alternativo.
I migliori laboratori urbani “incoraggiano l’espressione personale, sia
quando viene manifestata in qualcosa di semplice come indossare un paio di
pantaloncini particolari47, oppure travestirsi in costume, oppure suonare
all’aperto durante una festa. Nella città si è liberi di mostrare i propri tatuaggi
e di vestire in modo esibizionista – perché lo puoi fare! Nessuno di questi
comportamenti viene censurato in un quartiere creativo”48.
Se si adotta la distinzione tra “comunità” e “società”, introdotta dal
Tönnies, ci si rende conto che la creatività ha uno sviluppo nel contesto
urbano in particolari zone ristrette che la favoriscono, e che tendono a costituire entro la metropoli la dimensione della comunità. Il Village di New
York è una di queste. Ogni città ha il suo “quartiere creativo”, collegato a
teatri, spettacoli, feste, oppure campus universitari. La differenza sostanziale
tra quartiere urbano creativo e villaggio consiste proprio nella censura49, nel
46
Kyle Ezell, Get Urban! The Complete Guide to City Living, Capital Books, New York,
2003.
47
Ibidem p. 37. L’autore si riferisce a mutandine che sporgono dai pantaloni “Fuzzy house
slippers to the store”, che inducono una evidente attrazione sessuale.
48
Ibidem p. 36.
49
Non a caso Richard Florida inserisce, tra gli indicatori di un ambiente creativo, anche un
Gay Index, che indica la presenza di una popolazione omosessuale in un quartiere. Non si tratta
di sapere quanti abbiano preferenze diverse, ma di misurare il livello di tolleranza della diversità nel contesto sociale specifico, e la tolleranza verso i gay costituisce un fattore significativo,
almeno in questi anni.
133
rifiuto di accettazione della innovazione culturale da parte della comunità
tradizionale del villaggio. Al massimo, questa innovazione/trasgressione viene
accettata nei turisti, durante il periodo estivo.
Altri studiosi preferiscono compiere una scelta meno drastica, ammettendo
la possibilità che attività creative possano essere insediate e svolte anche in
centri minori, purché siano adeguatamente collegati alle infrastrutture nazionali50.
G. Grabher51 in particolare fa riferimento alle esperienze organizzative della filiera di produzione della pubblicità, che utilizza manodopera professionale geograficamente decentrata. Graham Drake52 compie delle interviste in
profondità con professionisti ed artigiani specializzati che hanno scelto di
vivere in centri provinciali di loro scelta. In generale non si tratta di strutture
urbanistiche anonime o recenti, ma di insediamenti storici che hanno una loro
tipologia ed un loro carattere particolare; sono spesso località che hanno
un’attrattiva turistica. Ciò che spinge i creativi a risiedere in questi centri è:
minore tensione e stress rispetto alla vita urbana; disponibilità di spazi adeguati e mezzi per operare, specialmente se si ha bisogno di uno studio; opportunità di intrattenere rapporti sociali; un clima sociale privo di contrasti e
conflitti; la possibilità di stare soli, con se stessi. Per ragioni di lavoro è tuttavia opportuno continuare ad avere collegamenti con i maggiori centri industriali e commerciali. L’emigrazione dei soggetti creativi dalle grandi città si
accompagna ad un trend generale verso la de-urbanizzazione collegato con
l’elevato prezzo delle proprietà immobiliari urbane e con uno stile di vita
dispendioso, che esige un reddito elevato.
Visto dal punto di vista delle amministrazioni locali, l’insediamento di
professionisti creativi dovrebbe essere incentivato. L’ente locale potrebbe
sostituirsi al ruolo di mecenate nel promuovere mostre, spettacoli ed altri
avvenimenti culturali. La capacità creativa in un settore (sia questo costituito
dalla oreficeria o dalla lavorazione della pietra, o dall’enogastronomia) costituisce un elemento di distinzione del contesto sociale che può essere facilmente associato ad altre caratteristiche storiche e culturali, com’è avvenuto in
molte città d’arte italiane minori.
Bisogna tuttavia avere il coraggio e la capacità di gestire questo tipo di
crescita economica che non è basato sulla quantità di produzione (come
50
E. Swyngedouw, Neither global nor local: ‘‘glocalization’’ and the politics of scale. In:
Cox, K. (Ed.), Spaces of Globalization: Reasserting the Power of the Global. The Guilford
Press, New York, 1997.
51
G. Grabher, Ecologies of Creativity: the Village, the Group, and the Hetarchic Organisation of the British Advertising Industry. Environment and Planning A 33, 2001, 351–374.
52
G. Drake, ‘This Place Gives Me Space’: Place and Creativity in the Creative Industries.
Geoforum 34, 2003, 511–524.
134
potrebbe essere un’industria di vasellame), ma sulla qualità della manifattura
e del design, sulla capacità di progettazione dell’evento e sulla diffusione
culturale. Jennifer Craikl ha messo in evidenza la difficoltà, da parte delle
istituzioni finanziarie interessate, a redigere un investment plan per un settore
di attività dagli esiti così imprevedibili, a meno che non si raggiunga un
volume di affari che garantisca un introito stabile di anno in anno53. Secondo
Mark Banks e collaboratori il successo dovuto alla creatività personale è
sottoposto a molteplici “fattori di rischio” che rendono questa impresa imprevedibile54, e non il frutto di un impegno istituzionale nel promuovere una
economia della conoscenza. Del resto gli stessi operatori delle arti, dello
spettacolo e della moda si rendono conto dello stato di precarietà dei loro
affari, con prospettive e profitti che possono cambiare drammaticamente di
anno in anno, e ammettono di programmare solo nel breve termine55.
In questi campi, oltretutto, la tendenza all’imitazione di ciò che è particolare, singolare, “cool” e “trendy” è molto spinta. Le novità si bruciano in pochi
mesi e vi è una obiettiva difficoltà a difendere i diritti intellettuali di una
ideazione. Questo giustifica anche il fatto che i vantaggi ed i profitti derivati
dalla attività culturale di successo vengano poi investiti in settori economici
più stabili (per esempio il settore immobiliare), e tocchi al settore finanziario
(investment banking) convertire il valore aggiunto prodotto dalla attività
creativa ed effimera in benefici di lungo termine56.
In pratica, non è neppure possibile dissociare la capacità di sviluppo locale
dalla caratteristica del Paese che la ospita. Per le sue tradizioni storiche ed
artistiche e per le sue capacità industriali, l’Italia appare un paese ideale per lo
sviluppo di una industria creativa, quindi un caso fortunato rispetto ad altri
paesi, dell’Europa dell’Est, dove queste tradizioni non sono così conosciute
internazionalmente. Quello che manca, probabilmente, è una capacità di
programmazione economica e di pianificazione strategica politica nel settore.
Lo si può constatare anche da un paragone tra le politiche culturali delle
regioni, che ne contraddistingue positivamente alcune regioni come la Toscana, l’Emilia Romagna, il Piemonte ed il Lazio. L’area culturale, invece di
essere concentrata nella città, diventa proprietà di un territorio che contiene
diversi poli di attività e sviluppo.
53
J. Craikl, Jennifer, Dilemmas in Policy Support for the Arts and Cultural Sector, Australian Journal of Public Administration, Vol. 64, N. 4, December 2005, 6-19.
54
M. Banks, A. Lovatt, J. O’Connor, C. Raffo, Risk and trust in the cultural industries,
Geoforum 31, 2000, 453-464.
55
H. L. Hughes, Theatre in London and the interrelationship with tourism, Tourism Management, Vol. 19, n. 19, 1998: 445-452.
56
A. Tickell, Creative finance and the local state: the Hammersmith and Fulham swaps
affair, Political Geography, vol.17, no.7, 1998: 865-881.
135
Una considerazione ulteriore merita anche l’aspetto, segnalato da Joel Savishinsky57 della creatività nella terza età, un aspetto del tutto trascurato in un
sistema sociale che tende a porre le sue maggiori attese sulla gioventù. Diverse attività economiche ed intellettuali caratterizzano la terza età: Savishinsky
ha studiato un gruppo di anziani che vivevano in una comunità rurale non
lontano da New York e scoprì tra essi attività legate a diversi interessi: pittura,
artigianato tessile, scrittura autobiografica, poesia, religione orientale, cucina
e gastronomia. Queste attività non venivano tenute isolate, ma costituivano la
piattaforma per una rete di scambio reciproco: il villaggio. Se pubblicizzate
avrebbero potuto divenire una discreta fonte di introito economico.
Insomma, così come esistono diverse forme di imprenditoria economica,
possono affermarsi diverse forme di creatività. La riflessione e la scrittura
sono anche forme di espressione creativa, pubblicamente riconosciute nei
premi letterari58.
Secondo il modello WICS (Wisdom, Intelligence, Creativity, Synthesized)
proposto da Robert J. Sternberg59 e che sta avendo ampio riconoscimento60, le
qualità intellettive non vengono separate da quelle morali e dalla capacità di
pensiero creativo, che permane durante tutta la vita. Semmai, ognuna di
queste qualità dell’intelletto riceve una diversa enfasi nei vari stadi del ciclo
di vita.
7. La creatività nel rapporto tra locale e globale
Il rapporto tra globale e locale rimane uno dei nodi strategici principali
dell’attuale secolo. Ne sono testimonianza i vari studi sociologici compiuti
sull’argomento. Secondo Zygmunt Bauman la scelta di collocare la propria
attività ed il proprio stile di vita a livello locale costituisce già un declassamento rispetto al superiore livello globale61. Seguendo questa indicazione,
dovremmo collocare la creatività principalmente nei laboratori urbani delle
principali metropoli anche se queste ultime ci possono fare paura62.
57
J. Savishinsky, The passions of maturity: Morality and creativity in later life, Journal of
Cross-Cultural Gerontology 16, 2001: 41–55.
58
R. O’Rourke, Living the Writing: Gendering Local Cultures of Writing, Women’s Studies International Forum, Vol. 25, No. 2, 2002: 235-246.
59
R. J. Sternberg, WICS: A Model of Positive Educational Leadership Comprising Wisdom,
Intelligence, and Creativity Synthesized, Educational Psychology Review, Vol. 17, No. 3,
September 2005.
60
Si veda ad esempio l’appello, che cita Sternberg, di Don Ambrose, Unifying Theories of
Creativity: Metaphorical Thought and the Unification Process, New Ideas in Psychology, vol.
14, n. 3, 1996: 257-267.
61
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione: Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma,
2001.
62
Z. Bauman, Fiducia e paura nella città (Trust and fear in the cities), B. Mondadori, Milano, 2005.
136
Nonostante si parli di “morte delle città” (Jane Jacobs)63 e di abolizione
delle distanze (F. Cairncross)64, il luogo dove si svolgono le proprie attività
lavorative continua ad avere importanza per la diffusione della innovazione e
per gli effetti della propria attività.
Tabella n. 6 - Euro-Talent Index and Creative Class in Europe (punteggio da
0 a 15)
Indice di talento
europeo
Posizione
1. Stati Uniti
2. Finlandia
3. Paesi Bassi
4. Belgio
5. Gran Bretagna
6. Svezia
7. Irlanda
8. Germania
9. Spagna
10. Danimarca
11. Francia
12. Grecia
13. Austria
14. Italia
15. Portogallo
Classe creativa
Punteggio
15,00
13,22
12,86
10,95
10,81
10,72
9,48
9,25
8,31
8,21
7,93
7,61
6,81
5,86
5,37
15,00
14,27
14,73
14,95
13,33
10,56
12,97
9,06
9,72
10,50
n.d.
11,01
8,44
6,58
6,55
Capitale
Umano
15,00
7,22
13,65
6,65
8,68
7,11
5,98
7,89
7,89
3,05
5,92
6,37
3,50
4,91
3,67
Talento
scientifico
11,41
15,00
7,13
8,63
7,82
11,92
7,23
8,57
5,32
9,12
8,67
3,63
6,86
4,70
4,62
R. Florida, I. Tinagli, Europe in the creative age, February 2004. Alfred P. Sloan
Foundation, 2004.
Irene Tinagli e Richard Florida hanno studiato innovazione e creatività in
Italia servendosi del modello delle 3 T (Talento, Tecnologia e Tolleranza). La
classe creativa è misurata come l’incidenza sul totale degli occupati delle
persone che svolgono le seguenti occupazioni: imprenditori, dirigenti pubblici
e privati e professionisti impegnati in “attività organizzativa, tecnica, intellettuale, scientifica o artistica da elevata specializzazione”, ovvero manager,
ingegneri, architetti, chimici, professori, musicisti, scrittori, giornalisti, ecc.
L’indicatore è elaborato dai dati del Censimento della popolazione e delle
63
J. Jacobs, Life and death of American cities, Harmondsworth: Penguin, 1965; trad it. Vita
e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Comunità, Torino, 2000.
64
F. Cairncross, The death of distance: how the communications revolution will change our
lives, Orion, London, 1997.
137
abitazioni 2001 dell’Istat. I risultati sono che dal 1991 al 2001 (periodo intercensuario) “il gruppo di professionisti del mondo intellettuale, scientifico così
come dell’arte e dello spettacolo, è aumentato complessivamente del 128%
passando da quasi un milione e novecentomila persone a oltre quattro milioni
e trecentomila persone. Si stima che l’incidenza della “classe creativa” sulla
forza lavoro in Italia sia passata dal 9% al 21%. Si riduce così il divario con
altri paesi europei segnalato da precedenti stime65.
Tra le città che si distinguono per attività creative vi sono Roma, Milano,
Trieste seguite da altre principali città del Nord (Bologna, Firenze, Genova e
Torino) ed alcuni centri minori del Nord Est (Modena, Parma, Padova)66.
In una prospettiva Europea, tuttavia, ed a confronto con gli alti paesi industriali avanzati come gli Usa, l’Italia mostra un indice di creatività decisamente meno elevato di quanto non credano gli italiani nei sondaggi. Il nostro
Paese, inoltre, si caratterizza per un elevato livello di tolleranza civica e
sociale, ma risulta debole nell’impiego di tecnologie e nelle strutture di ricerca.
Basandosi sulle indicazioni di questi studi, Scott Tiffin e Gonzalo Jimenez
(2006) hanno esaminato l’applicazione di un indice composito di creatività
urbana, da essi chiamato “Index to Measure the Capability of Cities in Latin
America to Create Knowledge-Based Enterprises”67. L’indice è composto
dalla seguente formula:
Indice di creatività urbana = (K+I+E)+(BF+CF+CM)+EM
dove gli indicatori sono:
K = Capacità di conoscenza (massa di persone ed organizzazioni adatte ad affrontare livelli di conoscenza superiori)
I = Innovazione (ricerca, internazionalizzazione e capacità di trasferimento della
conoscenza al mondo della produzione)
E = Imprenditorialità (motivazione, propensione e finanziamento della innovazione)
BF = Promozione di imprenditorialità (incubazione di impresa, consulenza, infrastrutture, comunicazioni e promozioni)
CF = Impostazione culturale (propensione al rischio, capitale sociale, affidabilità,
razionalità nelle scelte)
CM = Magnetismo creativo (capacità di attrarre elementi nuovi, diversi, originali
e capaci di realizzare le proprie idee in ambiente libero da vincoli)
65
51.
I. Tinagli e R. Florida, L’Italia nell’era creativa, Creativity Group Europe, Milano, 2005,
66
Ibidem, 47.
S. Tiffin e G. Jimenez, Design and Test of an Index to Measure the Capability of Cities
in Latin America to Create Knowledge-Based Enterprises, Journal of Technology Transfer, 31,
2006: 61–76.
67
138
EM = Capacità gestionale (flessibilità, sostenibilità, gestione, visione strategica
del futuro).
Ognuno degli indicatori è costituito da un gruppo di indici che possono essere raccolti empiricamente. Per esempio K, Capacità di conoscenza, è costituito da sette indici: 1) studenti iscritti in campi disciplinari relativi alla conoscenza; 2) altri studenti immatricolati; 3) dottorandi di ricerca; 4) dipendenti
nei settori della conoscenza; 5) ambienti di formazione comunitaria; 6) sinergie creative; 7) reti di apprendimento e formazione; mentre CM, Magnetismo
creativo, dai seguenti indici: 1) autenticità; 2) tolleranza; 3) diversità; 4)
sperimentazione; 5) meritocrazia; 6) sicurezza e 7) qualità.
Gli autori hanno sperimentato la raccolta degli indicatori sulla città di Santiago del Cile, e si promettono di farlo anche per altre metropoli latinoamericane per misurare la loro capacità di competere sul piano della conoscenza.
Altri studi, promossi dai municipi urbani delle maggiori metropoli, come
l’indice di creatività di Hong Kong, si propongono lo scopo di valutare le
capacità delle metropoli di competere con le altre su scala mondiale.
Secondo uno studio geografico di W. Christaller, per affermarsi nel mondo
(cioè essere globale) la scala urbana dev’essere superiore ai cinque milioni di
abitanti. Invece, il livello “subglobale” si stabilisce da 4 a 1 milione di
abitanti; a discendere, la scala regionale viene valutata per agglomerati minori
di 1 milione, fino a 250.000 abitanti68.
Si veda, altresì, il Piano Culturale promosso dalla città di Toronto, sofferente di un certo provincialismo rispetto alle città nord americane come Boston e Chicago, per inserirsi nel mercato internazionale69. Il raffronto, infatti,
non viene fatto con la regione circostante, oppure con le altre aree nazionali,
ma con il contesto del commercio globale così come studiato dal WTO,
oppure dal punto di vista socio-geografico fissato da Manuel Castells nella
economia delle reti70. I rapporti portanti delle economie sono stabiliti tra i
centri di potere mondiali, e non tra centro e periferia.
Il problema della creatività tuttavia potrebbe anche non adattarsi ai vincoli
economici posti dalle grandi organizzazioni. La schiera dei free-lance e degli
independent inventors secondo C. Weick e M. J. D. Wagner è in continuo
68
W. Christaller, Central Places in Southern Germany (Tradotto da C. W. Baskin), Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1966.
69
City of Toronto, Culture Plan for the Creative City. Culture Division, Toronto, 2003.
70
M. Castells, The information Age: Economy, Society and Culture, v. 1. The Rise of the
Network Society, Blackwell, Malden Mass., 1996. A differenza dei sociologi che considerano
soltanto rapporti di rete sociali, la visione di M. Castells si estende ai rapporti economici e
culturali che caratterizzano la scena globale dove vengono prese le più importanti decisioni
economiche e politiche. Si veda anche City, class, and power, St. Martin’s Press, New York,
1978.
139
aumento71. I creativity networks sono sistemi di comunicazione progettati per
mettere in collegamento persone che condividono gli stessi interessi o le
stesse esperienze di lavoro in una comunità virtuale. Possono sorgere spontaneamente, come quelli sostenuti da scrittori e da artisti che pubblicano le loro
opere nei forum sostenuti da queste reti, oppure possono fare parte di un
sistema di comunicazione aziendale72.
Vi sono comunque importanti differenze tra i due tipi di rete: nel primo caso, di comunicazione artistica e letteraria, non vi sono vincoli e filtri e censurare il prossimo potrebbe essere visto come sconveniente. Non vi sono obiettivi e tempi di produzione, né si afferma una gestione centralizzata della rete.
Il coordinatore sorveglia solo che vengano rispettate le regole di buona condotta nei rapporti tra interlocutori. Nel secondo caso, predomina la logica
societaria; il network è gestito gerarchicamente ed ha finalità che corrispondono agli obiettivi aziendali, non vi è accesso pubblico, i privilegi di accesso
sono limitati ad una ristretta cerchia.
La comunicazione creativa nel contesto di una società sostenibile, nella
quale si evitano i malesseri di una vita urbana congestionata ed inquinata,
sembra essere il futuro di un’immaginazione intellettuale che si avvale di
potenti strumenti di comunicazione globale. Le reti scientifiche più sviluppate
in fisica ed astronomia, costituiscono una valida anticipazione di questo
nuovo mondo della creatività. Questo tipo di futuro tuttavia può svilupparsi
adeguatamente ed essere tutelato nella sua indipendenza solo se si protegge la
libertà di espressione personale e pubblica di chi ne fa parte, passando dal
settecentesco principio della “libertà di stampa” sancito dall’articolo 7 della
Costituzione americana a quello di “libertà di comunicazione” ancora tutto da
definire e conquistare rispetto a stati-nazione e censure politiche ed ideologiche che mettono il bavaglio a chi si pronuncia diversamente.
71
C. Weick, M. J. D. Wagner, Full-time and Part-time Independent Inventors: Rising with
the Creative Class, The International Journal of Entrepreneurship and Innovation, Vol. 7, N. 1,
February 2006, 5-12(8).
72
B. Lamborghini, S. Donadel, Innovazione e creatività nell'era digitale. Le nuove opportunità della «Digital Sharing Economy», Franco Angeli, Milano, 2005.
140
Hacia Un Desarrollo Holísticamente Sostenible
FRANCISCO LOZANO WINTERHALDER
Centro de Estudios de la Biosfera-Instituto de
Cultura Holística, Apartado de Correos nº 12,
08193 Bellaterra, España
[email protected]
En primer lugar, quisiera dejar claro que el enfoque de este texto es el de
una visión desde el holismo y no desde el especialismo. Nuestra tradición
académica, ha partido siempre de la visión de los problemas desde la óptica
de la especialidad, lo cual ha permitido el extraordinario avance de las
diversas disciplinas, especialmente las científico-técnicas, y que en última
instancia han contribuido al progreso material experimentado por Occidente
durante la modernidad.
Pero ese mismo progreso, ha conducido a un envenenamiento progresivo
del planeta y quizás, de la propia experiencia humana, recordándonos que
somos seres limitados y que nuestro planeta también viene acotado por su
finitud. Para hacer frente a dichos retos, necesitamos un nuevo enfoque, no
hostil, sino complementario del especialismo: el enfoque holístico, entendido
como aquel que trata de estudiar las relaciones entre las partes en lugar de
detenerse en los detalles.
Es imposible abordar los grandes retos de nuestro tiempo sin la visión
holística que relacione entre si la de los especialistas. Necesitamos también
una visión integrada de las vías de solución.
Presentación
Partiré del hecho de que la vida en la Tierra está en peligro o cuando
menos la vida humana. Dado que la supervivencia es la prioridad máxima de
todo ser vivo y de toda especie, ya que sin ella, no se sigue nada más,
deberemos concluir que el problema ambiental es el más grave que tiene
planteado actualmente la humanidad.
Como propuesta de solución se habla del desarrollo sostenible, entendido
como aquel que no pone en peligro la supervivencia de las generaciones
futuras. Pero creo que deberíamos ir más lejos y hablar de desarrollo
holísticamente sostenible, que sería aquel que va más allá de las cuestiones
141
tecno-económicas. Estas son por supuesto, condición necesaria, aunque no
suficiente. Un desarrollo, en definitiva, basado en la búsqueda de las tres
paces fundamentales: la paz con la naturaleza, la paz social y la paz interior.
Todo desarrollo local debe hacerse en referencia a un marco; a un marco
universal. “Pensemos globalmente, pero actuemos localmente”, se dijo en Río
de Janeiro. De eso se trata, de contribuir a crear un referente en el cual se
diseñe cada acción creativa.
I. El Universo y la vida – LA PAZ CON LA NATURALEZA
I.1 – Formamos parte de la naturaleza
Somos naturaleza. Nuestra sangre o el líquido amniótico en el que se
desarrolla el embrión humano, nos recuerdan al agua de mar. Estamos hechos
de proteínas, glúcidos, ácidos nucléicos…, como cualquier otro ser vivo.
Aquello que mantiene nuestra vida es puramente biológico. Y
desgraciadamente parece que lo hemos olvidado.
Pero además, necesitamos de la naturaleza para vivir. Si los vegetales no
reciclasen el dióxido de carbono de nuestra respiración , nos asfixiaríamos.
No podemos sobrevivir sin la naturaleza. Y esto simplemente teniendo en
cuenta nuestro interés, pero es que además sabemos que ella tiene un valor
intrínseco independientemente de nuestro egoísmo.
Aunque lo más sensacional quizás, es que somos el resultado de la misma.
Formamos parte de una maravillosa historia que comenzó hace 13.700 m.a.
con el inicio de una expansión que lejos de terminar, sigue incrementándose
día a día, a la luz de los actuales modelos cosmológicos.
A pesar de todo, prosigue el misterio sobre las grandes preguntas: ¿hubo
algo antes del Big Bang? ¿Qué lo motivó? ¿Sobre qué se expande el universo
si es que la pregunta tiene sentido? ¿Es finito o infinito? Claro que quizás
todo se base en otro de los grandes misterios cósmicos, el del tiempo. Y
recordemos que para Albert Einstein este era tan sólo una ilusión “ por
persistente que esta sea en nuestra mente”.
Pero sigamos con nuestra apasionante historia… Mientras el universo se
expandía, se enfriaba. Así surgió la materia. Más tarde, durante los primeros
millones de años de existencia del cosmos, esta se aglomera, se agrupa y
forma las primeras galaxias. En su interior, nubes de gas y polvo, formadas
por los elementos más simples del universo, a saber, Hidrógeno y Helio. De
ellas, surgen las primeras estrellas. Las generaciones de estrellas se suceden y
en interior se fabrican nuevos elementos químicos, como por ejemplo C, O,
N, base de la vida o el Fe o el Si, fundamento de los planetas.
¡Por fin la vida y los mundos podían surgir!
142
Pero, ¿qué es la vida? Otro misterio. Hay quien dice que aparece por puro
azar. Otros piensan que es un paso más en la organización de la materia y la
energía del universo. Finalmente otros creen que el cosmos tiene una serie de
características que hacen inevitable la formación de la vida y en consecuencia,
de la vida humana.
Sea como fuere, lo cierto es que hasta donde se nos ha dado en observar, la
vida y la vida humana son la manifestación más elaborada de la materia y la
energía en el universo conocido.
Así, recordemos que vivimos en un bello planeta azul, parte de una galaxia
espiral –la Vía Láctea- que se halla en un gran universo en expansión.
No perdamos nunca de vista pues nuestras máximas:
– Nuestro cuerpo es parte de la vida y en consecuencia, limitado.
– Necesitamos de la biosfera y del medio ambiente para sobrevivir, y este
también es finito.
– Y no olvidemos conocer y maravillarnos ante el inmenso universo del que
formamos parte y del que somos parte de su historia.
I.2 Las etapas de la humanidad
La especie humana vivió en armonía con su entorno durante la mayor parte
de su existencia, cuando fuimos cazadores, recolectores o pescadores. Aunque
ser nostálgicos de dicha época tiene sus peligros ya que sin ir más lejos, la
esperanza de vida no superaba los veinte o treinta años, amén de los peligros y
enfermedades a que se veían sometidos.
Es cierto, sin embargo que es intrínsecamente humano buscar la seguridad,
la mejora de las condiciones alimenticias y sanitarias… en definitiva, mejorar
la calidad de vida. Así, con la llamada Revolución Neolítica se iniciaron las
primeras transformaciones significativas de nuestro entorno. Todo tiene un
precio, pues. Pero fue con el advenimiento de la Revolución Industrial y muy
especialmente, a partir de 1.950 aproximadamente, como se incrementó
notablemente la alteración de la vida y los medios que la sustentan.
No obstante, pronto surgieron las primeras voces de alarma (“Los límites
del crecimiento”) y las primeras reuniones internacionales (Estocolmo, 72).
En 1.987, la señora Brundtland introduce el concepto de desarrollo sostenible
y en 1.992, Río marca un máximo en los compromiso y en la sensibilidad
ambiental planetaria. No obstante, cinco años más tarde, en Nueva York
(conferencia Río+5), se produce una inflexión cuando se hace balance y se
observa una desaceleración en los compromisos adquiridos en Brasil. Yo
siempre he dicho que fue un honor y a la vez, un momento triste para mi.
Honor, porque participar como observador mundial fue un privilegio que
nunca olvidaré. Tristeza, por los resultados.
143
Johanesburg 02, consagró dichas desavenencias.
¡Pero la lucha no ha hecho más que comenzar!
…Trabajemos con el fin de restablecer la PAZ con la NATURALEZA que
nuestra negligencia ha perdido.
II. El futuro de la vida – JUSTICIA Y PAZ
¿Pero es posible la paz con la naturaleza sin una verdadera paz entre los
hombres?
¡No! Además la paz es impensable sin la Justicia.
Todo el mundo cuenta y es necesario y no puede haber futuro si no nos
implicamos todos: el Norte y el Sur; el Este y el Oeste.
La historia (y prehistoria) del hombre es un proceso de contante alienación
de nuestra especie respecto a la naturaleza al tiempo que se han ido
rompiendo los ritmos naturales hasta llegar a una situación insostenible. En
una época de fragmentación del saber, descubrimos la profunda interacción
naturaleza-hombre-sociedad. Es esta misma fragmentación la que ha
favorecido sin duda, el olvido de las estrechas relaciones existentes en un
Cosmos único.
Evidentemente el restablecimiento de la paz del hombre con la naturaleza
es un tema que va mucho más allá de las interacciones hombre-naturaleza
puramente, penetrando e implicando a todo el tejido social, exigiendo
cambios profundos en las instituciones políticas y en nuestras leyes.
Además, el uso racional de los recursos no renovables y el equilibrio de
los procesos humanos con los naturales, así como la protección de la
naturaleza, pasan por una remodelación profunda del sistema económico
vigente, con importantes consecuencias para toda la humanidad.
Renés Passet, escribe en su obra La ilusión neoliberal, escribe:
“Pretendemos que la economía crezca de forma indefinida olvidando que
depende de los recursos que el planeta le aporta, que son finitos”.
“Es razonable pensar que cuando una sociedad ha alcanzado un nivel
suficiente de satisfacción material de sus necesidades, debe proceder a
mejorar cualitativamente”.
Tras indicarnos que el consumismo no nos hace más felices, sino que este
concepto es asociado por los psicólogos a la esfera de las relaciones
interpersonales y sociales; a la autorealización y al ocio…, siendo aquel
origen de estrés más bien que nos conduce a innumerables afecciones físicas y
psíquicas, añade:
“No se trata de conformarse con menos de lo que necesitas, sino de saber
cuando tienes bastante”.
144
“Una disminución del consumo en los países industrializados podría
liberar recursos y reduciría la contaminación, permitiendo el desarrollo
industrial de los países en desarrollo”.
Sostenibilidad frente a crecimiento; producción para satisfacer la
autorrealización de las personas, serían esperanza de futuro; expresión de
inteligencia y sensibilidad, garantía de armonía con la naturaleza.
III. De la evolución biológica a la evolución ética
La prolongación de la evolución biológica a lo social ha comportado el
caos actual, del cual, la problemática ambiental es tan sólo la punta del
iceberg.
Hay que superar pues esta situación, si queremos tener futuro. Y la única
forma es a través de una evolución ética, controlando conscientemente nuestra
evolución en todos sus ámbitos y convirtiendo el caos en cosmos.
Tratando de superar el dilema antropocentrismo-biocentrismo, el gran
pensador alemán, Hans Jonas, apeló al PRINCIPIO DE RESPONSABILIDAD. Según él, el poder que la ciencia y de la técnica están acumulando
no tiene precedentes en la historia humana. Así, la capacidad de hacer el bien
o el mal, es cada vez mayor. En su opinión, las consecuencias negativas de las
acciones humanas deberían primar sobre las positivas. No porqué él sea
pesimista, sino por el carácter catastrófico e irreversible que estas pueden ir
adquiriendo.
Reclama así una nueva ética, ya que ninguna de las anteriores aparecidas a
través de la historia, es válida. Se fundamentaron en lo inmediato, en lo
interpersonal y ahora las coordenadas han variado sensiblemente. Esta nueva
ética debe basarse en un nuevo principio, en una nueva teoría, basada en la
responsabilidad.
Dicha ética se halla compuesta básicamente por dos elementos: el temor,
que nos frena en nuestras actuaciones para no cometer actos que nos
conduzcan al desastre y esperanza, para poder actuar en la línea correcta y que
el temor no termine por paralizarnos.
Su libro El principio de responsabilidad comienza con una lúcida y
vehemente alusión al mundo actual:
“Definitivamente desencadenado, Prometeo, a quien la ciencia le
proporciona fuerzas jamás antes conocidas, y la economía un infatigable
impulso, reclama una ética que, mediante frenos voluntarios, evite que su
poder lleve a los hombres al desastre”.
Quizás tengamos ya alguna herramienta para conseguirlo. De Rio 92
surgió la llamada Agenda XXI, un camino hacia la sostenibilidad.
145
“Que nuestro tiempo sea un tiempo que se recuerde por el despertar a una
nueva reverencia a la vida, la firme resolución de conseguir la sostenibilidad,
y la aceleración de la lucha por la justicia, la paz y la alegre celebración de la
vida” (Manifiesto por la Tierra, M. Gorbatchov).
IV. La cultura de la vida – LA PAZ INTERIOR
4.1 - Los colores de nuestro mundo
“No quiero que me bloqueen la casa, ni que me empareden
las ventanas. Quiero que la cultura de todas las tierras sople
alrededor de mi casa con la máxima libertad. Pero no
consiento que ninguna de ellas me abata”
Mahatma Gandhi
Todas las culturas del planeta tienen elementos maravillosos en favor de la
vida (y también en contra, desgraciadamente). El delicado momento que
estamos viviendo en la actualidad precisa de un diálogo entre todas culturas
de nuestro mundo o como me permito llamarles, los variados “colores”
culturales, de forma que entre todos, potenciemos una cultura de la vida,
caracterizada por la voluntad consciente de dirigir nuestros pasos hacia el
mutuo respeto, conocimiento y comprensión, con el deseo común de trabajar
por la continuidad de la vida en la Tierra y el de erradicar conscientemente y
en la medida de lo posible, la cultura de la muerte. Tarea difícil, pero
enormemente estimulante y absolutamente imprescindible para lograr
simplemente que la vida humana (y probablemente, toda o casi toda la vida
que hay sobre la Tierra) pueda tener futuro y por supuesto, lograr además una
vida más plena para toda la humanidad.
Así pues, de todos los rincones de nuestro mundo, que yo me permito
organizar casi arbitrariamente en las divisiones geográficas que llamamos
continentes, y por supuesto, tan sólo en forma de pinceladas, van a proceder
bocanadas de aire fresco en favor de la vida. Claro está que todos los pueblos
del planeta tienen de que avergonzarse. Pero repito, todos. Se trata aquí de
sembrar las semillas de la cultura de la paz, poniendo de manifiesto aquello
que de positivo hay en el mundo. Como digo yo en mis conferencias, si
ustedes desean ver la fealdad de las sociedades humanas; aquello que
representa el mal, vean cualquier informativo de televisión y en su mayor
parte les mostrará dicha cultura de la muerte.
En el acta fundacional del movimiento UNESCO figura el propósito de
sembrar las ideas positivas en la mente de hombres y mujeres a través de la
146
educación, la cultura, la ciencia…, para así contrarrestar, en la medida de lo
posible, el mal en el mundo. Ese es también mi propósito.
Se ha hablado mucho de como conjugar esta maravillosa riqueza cultural
con la llamada globalización.
Una de las aportaciones más interesantes a mi entender, procede del gran
antropólogo Claude Lévy-Strauss:
“Al hablar de civilización mundial, no nos referimos a un período
concreto de la historia ni a un grupo humano específico; utilizamos una idea
abstracta a la cual atribuimos un significado moral o lógico; moral en tanto en
cuanto pensamos en un objetivo al cual han de encaminarse las sociedades
existentes; lógico, en tanto en cuanto pretendemos agrupar bajo un mismo
término los elementos comunes que podemos deducir del análisis de las
diferentes culturas. En ambos casos, no podemos dejar de lado que la idea de
civilización mundial es imprecisa e imperfecta y que su contenido intelectual
y emocional tiene bien poca consistencia. El hecho de intentar evaluar las
contribuciones culturales, que tienen tras de si una historia milenaria, todo el
peso de las ideas, las aflicciones, las esperanzas y los afanes de los hombres y
mujeres responsables de su existencia, utilizando únicamente como criterio de
referencia una civilización mundial aún en estado embrionario, comportaría
empobrecerlas, desproveerlas de su savia y dejarlas en la pura carcasa.
La verdadera contribución de una cultura reside en su diferencia respecto a
las otras y no en la lista de sus inventos concretos. La sensación de gratitud y
respeto que cada miembro de una determinada cultura puede y ha de
experimentar hacia las otras tan sólo puede basarse en la convicción de que
estas son diferentes de la suya desde múltiples puntos de vista, incluso en el
caso de que no lleguemos a comprender la esencia de tales diferencias o que,
a pesar de los esfuerzos, lleguemos a una comprensión demasiado superficial.
Así pues, únicamente podemos aceptar la idea de civilización mundial
como una especie de concepto restrictivo o como un resumen de un proceso
muy complejo. No existe ni existirá jamás una civilización mundial en el
sentido absoluto que suele otorgarse al término, ya que la civilización
comporta – y de hecho consiste en – la coexistencia de culturas que
manifiestan la máxima diversidad. En efecto, una civilización mundial podría
ser tan sólo una coalición de culturas de todos los rincones del planeta que
conservasen cada una su propia originalidad”.
IV.2 – La cultura de la vida
A lo largo de la historia de la humanidad, nuestra especie ha ido poniendo
de manifiesto su ambigüedad moral, cuando no simplemente el triunfo de la
maldad: la cultura de la muerte. De alguna forma, el medio ambiente marca el
límite de nuestras posibilidades actuales de actuación, claro está, si aceptamos
147
la continuidad de nuestra vida y la de la vida sobre la Tierra. Precisamente esa
es la razón por la que debemos fomentar e incrementar si cabe, una cultura en
favor de la vida: la cultura de la vida:
– Que recupere la multidimensionalidad humana; el equilibrio entre las
distintas vertientes de la experiencia humana.
– Una cultura crítica con el conocimiento, especialmente el científico. Que
acepte su carácter de provisionalidad aunque sea el mejor instrumento de
que disponemos para intervenir sobre la realidad exterior.
– Una cultura que revalorice el arte, los sentimientos… el hemisferio
derecho del cerebro.
– Que priorice la ética de la vida.
– Que respete la opción de la trascendencia.
– Que tenga en cuenta la maravillosa variedad cultural humana y su riqueza
a favor de una vida más plena.
– Que nos conduzca en definitiva al equilibrio interior… a la paz interior,
desde donde será más fácil entendernos con los demás, y por extensión,
recuperar la paz con la naturaleza.
Epílogo
Como dice el reconocido naturalista de la BBC, David Attenborough, al
final de la serie The state of the planet: “lo que le suceda con la vida en la
Tierra a partir de ahora, depende tan sólo de nosotros”.
Y yo añadirá: “¡la lucha por la sostenibilidad no ha hecho más que
empezar!”.
Y a pesar de todo, parece que recibimos permanentemente una advertencia
desde el inmenso universo. En ella puede leerse:
– De momento, la Tierra es el único planeta con vida conocido.
– No obstante, el cosmos es inmenso y la vida parece aceptar la ciencia
moderna, se forma allá donde se den las condiciones adecuadas.
– Ya Fermi, en su famosa paradoja se preguntaba, ¿pero donde está la vida?
– ¡No será que la vida es como un milagro! Y con ello no pretendo darle
connotaciones religiosas específicamente, sino considerarla como un
hecho mucho más improbable de lo que creíamos.
– El universo está repleto de silencio, de esterilidad…
– Quizás aún no hayamos comprendido bien lo que tenemos.
– Y no es menos cierto que no podemos fallar. ¡Las futuras generaciones no
se lo merecerían!
148
Referencias
Jonas, H. (1995), El principio de responsabilidad, Ed. Herder, Barcelona.
Passet, R (2001), La ilusión neoliberal, Ed. Debate, Madrid.
Unesco (1997), La nostra diversitat creativa, Ed. Mediterrània, Barcelona.
149
150
Grammatiche dell’immaginario e costruzione narrativa del mondo: il punto di vista sociologico
FABRIZIO FORNARI
Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione
Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Perugia
P.zza Ermini, 1 – 06123 Perugia (Italy)
[email protected]
1. Dal codice invariante all’intreccio testuale: l’unità perduta del metodo
scientifico
Il tema delle transizioni e delle trasgressioni fra codici simbolici – nel suo
costituire l’effettivo humus nel quale deve collocarsi la recente rivisitazione
della questione dell’immaginario in sociologia – si connette, nell’ambito della
stessa conoscenza sociologica, alla polemica contro il naturalismo, ossia al
tentativo di mostrare l’inadeguatezza della pretesa di trattare l’orizzonte dei
fenomeni sociali in modo meramente descrittivo, prescindendo dalla consapevolezza metodologica secondo la quale le istituzioni sociali non sono fatti naturali, bensì sono prodotti artificiali basati sulla capacità degli individui di cooperare e di partecipare a desideri, intenzioni comuni, credenze (cfr. Searle
1995, 23 sgg.).
Partendo da questa constatazione di principio, John Searle, com’è noto, ha
sviluppato una teoria generale – di cui a tutt’oggi s’ignora per lo più la portata
epistemologica – dei processi che danno luogo all’esistenza di ciò che può essere variamente indicato come “istituzione sociale” o, in senso più ampio,
come “realtà sociale”. Searle muove dalla considerazione che, accanto agli
oggetti naturali quali gli alberi e le pietre, esistono oggetti fisici prodotti
dall’uomo, quali le automobili, le case, il denaro e via dicendo. La differenza
sostanziale tra gli oggetti naturali e quelli artificiali – che sono, da un lato, fisici e, dall’altro, cognitivi e immaginari (secondo il dettato weberiano per il
quale i processi di attribuzione di senso hanno un ruolo determinante
nell’agire sociale) –, è che i primi sussistono indipendentemente dalle nostre
rappresentazioni o dall’uso che possiamo farne, mentre i secondi esistono solo
in relazione a chi osserva o usa tali oggetti (cfr. ibidem).
Nella storia del pensiero occidentale, il tema della rappresentazione ha
sempre occupato un ruolo centrale, soprattutto quando, a partire da Descartes,
151
il soggetto conoscente è diventato l’asse intorno al quale far ruotare l’intera
dimensione della conoscenza.
In senso stretto, “rappresentazione” significa il ripresentarsi – representatio – di una percezione in assenza dell’oggetto percepito. Utilizzando
un linguaggio fenomenologico, si può dire che l’atto del rappresentare è ciò
che coglie l’esistenza di qualcosa in immagine (cfr. Sartre 1962, 23 e 91). Per
questa sua natura, lo diceva proprio lo stesso Husserl, la rappresentazione non
abbisognerebbe di inferenze o di mediazioni, ma sarebbe un dato immediato,
originario e intuitivo. Infatti, dal punto di vista fenomenologico, la distinzione
tra esistenza reale ed esistenza in immagine ciascun individuo la opera immediatamente e chiunque si stupirebbe se gli si chiedesse se gli capita mai di
confondere l’immagine di qualcosa, per esempio di una persona, con la sua
presenza reale (cfr. Sini 1982, 21). Da qui l’uso, divenuto classico nella lingua
francese, di intendere il “rappresentare” come sinonimo di “immaginare” (“imaginaire”). E da qui, inoltre, la necessità di intendere la rappresentazione
come una forma di corrispondenza: rappresentando il proprio oggetto, l’atto
del rappresentare non può che corrispondere al contenuto rappresentato da
tale atto (secondo quel processo di riproduzione simbolica di una cosa in
un’altra che caratterizza l’attività stessa dell’immaginare).
Già con Platone e Aristotele, il termine “rappresentazione” comporta un
doppio livello di concettualizzazione: da una parte esso indica l’atto con il
quale la coscienza riproduce un oggetto esterno – un albero, una pietra e così
via – o interno – uno stato mentale, un’immagine fantastica; dall’altra, con tale termine viene significato il contenuto medesimo di tale atto riproduttivo. Se
Platone, nella Repubblica, chiama eikasía l’immagine “simile” all’ente che si
riflette nella psyche (VI, 509d –511e), Aristotele, dal canto suo, nella celeberrima opera Peri psyches, oggetto nel corso dei secoli di innumerevoli discussioni, intese attribuire alla rappresentazione la funzione intermedia tra la sensazione e il concetto (cfr. 428b, 432a). Dopo aver distinto tra noein, phronein
e aisthanesthai (pensare, comprendere e sentire), egli individua un’altra funzione psichica, l’immaginazione (phantasia), che, per la stessa natura che le
compete, non può essere appunto identificata né con la pura sensazione, né
con il pensiero discorsivo, per quanto né l’immaginazione, né l’apprensione
intellettiva (hypolepsis) siano concepibili al di fuori della sensazione (cfr.
427b). L’immaginazione, da cui discende la rappresentazione, non è sensazione, né opinione, né scienza: piuttosto è kinesis (movimento) prodotto dalla
sensazione stessa (cfr. 429a).
Ma è anche interessante notare, di rimbalzo, come il termine “rappresentazione”, nella sua accezione platonico-aristotelica, fosse del tutto assente nel
pensiero greco arcaico o comunque pre-socratico. Nel 1978 sono state pubblicate alcune tavolette d’osso risalenti al V sec. a.C., di recente ritrovate nella
piccola colonia greca di Olbia, sul Mar Nero. Si tratta di materiale riconduci152
bile all’ambiente orfico, probabilmente di destinazione votiva, dal quale si
può ricavare un prezioso filo rosso per l’esplorazione degli apparati concettuali dei movimenti religiosi e filosofici appartenenti alla morale pre-platonica
(cfr. Vegetti 1989, 73). Ebbene, in una di esse si leggono le parole
«DION(YSOS) ALETHEIA /…/ PSYCHE». Le parole di questa tavoletta,
oltre a confermare che il movimento orfico continuò a collocarsi sotto l’egida
di Dioniso, mostrano con chiarezza come, nella visione orfica della morale,
l’anima (psiche) ha sì il ruolo di protagonista, di ‘soggetto’ del discorso iniziatico, ma solo in quanto evocata unitamente alla verità (aletheia), nel senso
religioso di “rivelazione”e non già in quello intellettualistico parmenideo di
saphes, akribes, orthon (chiarezza, certezza, precisione), e a Dioniso (Dionysos). Presente ancora nelle Baccanti di Euripide – «Beato (makar) chi
nell’anima è uno col tiaso» (v. 75), nel duplice senso di associazione religiosa
dedita al culto dionisiaco e di festa in onore di Dioniso –, il culto dionisiaco
pensa la psyche come percorso, almeno per la parte in cui Dioniso è il dio che
«scioglie» (Lysios), consentendo all’anima il passaggio dalla vita alla morte
entro quel ciclo di reincarnazioni nei corpi e nel tempo che caratterizza la versione dell’orfismo elaborata nella dottrina pitagorica della metempsicosi (cfr.
Vegetti 1989, 74-5).
Prima di questa straordinaria fase storica – nella quale, appunto, religiosità
dionisiaca, orfismo e pitagorismo s’intrecciano tra loro – «psyche non appare
investita, nella cultura greca, di alcuna particolare valenza religiosa né tanto
meno di una funzione privilegiata nella soggettivazione morale. Nei poemi
omerici, com’è noto, l’anima è una semplice forza vitale che acquista una sua
autonomia solo quando abbandona il cadavere sfuggendone dalla bocca con
l’“ultimo respiro”, oppure, insieme con il sangue dalla ferita mortale; in seguito essa sopravvive nell’Ade nella forma debole di un doppio fantasmatico,
quasi corporeo dell’uomo vivo cui apparteneva e di cui conserva la memoria,
senza incorrere in alcuna nuova vicenda, tanto meno in alcun sistema di premi
o punizioni. Ma anche nel pensiero medico, e in generale nei saperi laici del V
secolo, psyche mantiene le funzioni di principio animatore del corpo vivente,
per lo più connesso ai suoi fluidi vitali come l’aria inspirata, il sangue, lo
sperma; si perde anzi qui, com’è naturale, ogni interesse per l’eventuale destino dell’anima dopo la morte» (ivi, 75).
L’irrompere in Grecia dell’inaudita apparizione dell’anima va dunque circoscritto al VI secolo a.C, nel quadro del culto di Dioniso (cfr. Colli 19771980, vol. I, 51-71). Tuttavia, in questa fase pre-platonica, l’anima, lungi
dall’essere “rappresentazione” epistemica di un soggetto costituito da “idee”,
si presenta piuttosto come “rivelazione” o “espressione” di ciò che contiene e
trascende, al tempo stesso, l’anima medesima. Qui, anzi, è il mondo stesso –
giacché l’anima non è, in questo contesto, il momento sorgivo in cui si apre la
visuale delle cose, ma è essa stessa momento di ciò che si rivela prospettica153
mente – a valere come “espressione”, nel senso che esso rinvia a qualcosa che
non si lascia mai interamente determinare, né conoscere (cfr. Colli 1978, 10;
id. 1988, 15 e sgg.). Nella cultura dionisiaca e presocratica, l’accento non può
quindi cadere sull’oggetto che nella rappresentazione ha valore per un soggetto, ma sulla funzione ripresentante del conoscere, nel suo implicare memoria
e tempo – per questo motivo la grecità, nella sua originarietà, rifiuta la scrittura e si pone come un sapere sostanzialmente orale, raccontato (cfr. Colli
1978, 6; id. 1988, 299 e sgg.).
Individuando nella rappresentazione un aspetto intermedio tra la sensazione e il concetto, lungo la linea tracciata, appunto, da Platone, Aristotele dà invece corpo a quella tematizzazione dell’anima che sarà accolta e sviluppata
dalla filosofia scolastica. In effetti, la concezione aristotelica di una disposizione graduale delle funzioni della psyche inaugura un approccio al conoscere
che si articola in livelli di astrazione e che sarà organicamente ripreso da
Tommaso d’Aquino, per il quale, tra l’altro, la rappresentazione stessa, come
poi andrà sistematicamente a sostenere Husserl, rifacendosi proprio allo stesso
san Tommaso, costituisce il contenuto dell’atto intenzionale della mente che
porta nella presenza anche ciò che di fatto, è assente.
Semplice “segno” della cosa reale per il nominalismo, “corrispondenza”,
nel conoscere, delle nostre percezioni al linguaggio matematico di cui è fatto
il mondo per la cultura rinascimentale, con Descartes la rappresentazione assume un nuovo statuto ontologico. In Descartes, in effetti, ha luogo la coincidenza teorica di “rappresentazione” e di “idea”, nel senso che rappresentazione diventa un nome per tutto ciò che è presente nella coscienza (qualsiasi contenuto mentale od oggetto di conoscenza, inclusa la stessa percezione sensibile). Tuttavia, benché la rappresentazione risieda nell’anima pensante, ciò che
essa rappresenta si troverebbe, appunto, solo nell’essere in sé dell’oggetto
rappresentato (cfr. Descartes, 1969, 187 sgg.).
Da qui la questione epistemologica che ha attraversato tutto il pensiero
moderno, quella della corrispondenza tra “rappresentazione” come fatto mentale interno e realtà, intesa come insieme degli oggetti esterni. Ed è proprio in
questo snodo teorico che l’impostazione empirista si divarica da quella razionalista. Se per la prima, la rappresentazione è una copia sbiadita delle “impressioni primitive” o “idee semplici”, per la seconda l’attività del rappresentare va pensata entro una classificazione degli oggetti mentali che la suddivide
in rappresentazioni oscure e confuse (le sensazioni), in rappresentazioni chiare e confuse (le immagini) e, infine, in rappresentazioni chiare e distinte (i
concetti). E’ questo del resto il senso dell’idea di Vorstellung – rappresentazione – in Leibniz: «ogni corpo risente di tutto ciò che avviene nell’universo,
cosicché chi avesse la capacità di vedere tutto, potrebbe leggere in ogni corpo
ciò che avviene ovunque e persino ciò che è avvenuto e ciò che avverrà, osservando nel presente ciò che è lontano, sia nel tempo, sia nello spazio. […]
154
Ma un’anima non può leggere in se stessa se non ciò che essa si rappresenta
distintamente, non essendo in grado di svolgere in una sola volta tutte le sue
pieghe, perché vanno all’infinito» (Leibniz 1967, 294). Con Kant e poi con
Schopenhauer, sulla scia dell’eredità leibniziana così come essa era stata riformulata da Ch. Wolff, il termine “rappresentazione” andrà ad indicare la capacità della coscienza di rappresentarsi simpliciter il mondo fenomenico (quel
mondo che non ha una realtà indipendente dalla percezione). Per Husserl, invece, più vicino, in questo, a Descartes che al dualismo kantiano di fenomeno
e di noumeno, la rappresentazione non è soltanto un semplice tener fermo
l’oggetto della conoscenza in immagine, bensì è ciò consente la manifestazione dell’oggetto «in carne ed ossa» (cfr. Husserl 1960, 43 e sgg.).
Ma al di là dall’approccio epistemico, sia esso realista oppure fenomenista,
al problema della realtà esterna – giacché qui ciò che conta non è stabilire se
l’oggetto fisico percepito abbia o non abbia una realtà indipendente dalla percezione, e dalla rappresentazione, che noi ne abbiamo –, deve dirsi che la questione della rappresentazione sociale richiede strumenti d’analisi del tutto
nuovi rispetto a quelli elaborati dall’epistemologia classica di matrice socratico-platonica, nonché cartesiana.
In effetti, come ha mostrato Serge Moscovici, le “rappresentazioni sociali”
sono «sistemi cognitivi che hanno una logica e un linguaggio particolari, una
struttura di implicazioni relative sia a valori sia a concetti, uno stile di discorso che è loro proprio. Noi non vediamo in esse unicamente “opinioni su”,
“immagini di” e “atteggiamenti verso”, ma delle “teorie”, delle “scienze” sui
generis destinate alla scoperta del reale e a mettere ordine in esso» (Moscovici 1969, 10, corsivi miei). In questo senso, «la rappresentazione sociale è un
sistema di valori, di nozioni e di pratiche con una duplice vocazione. Innanzitutto instaurare un ordine che dia agli individui la possibilità di orientarsi
nell’ambiente sociale, materiale e di dominarlo. Poi assicurare la comunicazione tra i membri di una comunità offrendo a essi un codice per denominare
e classificare in maniera univoca le componenti del loro mondo, della loro
storia individuale e collettiva» (ivi, 11).
Ciò che più conta qui mettere in evidenza è come la stessa comunicazione
– ossia l’intera sfera del linguaggio – non sarebbe possibile se essa non istituisse con il proprio porsi un mondo di rappresentazioni sociali condivise.
Non c’è, in altri termini, un uso del linguaggio che sia svincolato dal riferimento non già alle cose “reali” – secondo quel falso presupposto che il filosofo americano Hilary Putnam ha chiamato «the magical connection between
the name and the bearer of the name» oppure «a magical theory of reference»
(Putnam 1989, 9 e 21) –, bensì a quelle attribuzioni di senso che costituiscono
la trama del nostro rappresentarci socialmente il mondo (Berger, Luckmann
1969; Moscovici 1969; Schütz 1974; Grande 1997; id. 2005; Tacussel 2000).
In merito, Gianni Losito scrive: «Una rappresentazione sociale, dunque, non è
155
soltanto una costellazione individuale di conoscenze e di valori, ma anche una
realtà condivisa, frutto e condizione, nello stesso tempo, della comunicazione
e delle interazioni sociali; un fatto sociale la cui esistenza prescinde dalle coscienze individuali, anche se sono gli individui a produrla e manifestarla. E
tuttavia si tratta di una realtà non definitivamente costituita, suscettibile di
cambiamento, tale da assumere forme relativamente diversificate intorno a
nuclei concettuali e valoriali che possono diversamente collegarsi tra loro. Per
questo motivo, il concetto di rappresentazione sociale non è riconducibile al
concetto di ideologia. Dell’ideologia non ha la stabilità, la compiutezza teorica, le istanze interne di autolegittimazione. E, inoltre, se l’ideologia si impone
dall’esterno e presuppone, per la sua accettazione, processi di adesione e di
interiorizzazione, la rappresentazione sociale, al contrario, è – lo si è detto –
esito spontaneo e condizione dell’interazione sociale» (Losito 1998, 178-79).
In questa stessa direzione, Willem Doise ha tentato di mettere in luce la
stretta connessione che intercorre tra il concetto di rappresentazione sociale e
quello di habitus (cfr. Doise 1985; id. 1990; Bourdieu 1972; id. 1983). Per
Doise, infatti, la rappresentazione socialmente connotata non è una mera riproduzione in immagine di una realtà già data, ma è una forma di conoscenza
e di interpretazione della stessa realtà sociale (cfr. ibidem, nonché Doise
1977, 49 e sgg.).
La rivisitazione della nozione durkheimiana di “rappresentazione collettiva” proposta da Moscovici e, successivamente dallo stesso Doise, esplicita
così un doppio registro entro il quale ripensare quella medesima nozione: in
primo luogo, le rappresentazioni sociali non devono essere considerate come
pure entità esplicative, irriducibili ad ulteriori analisi; piuttosto esse vanno
considerate come figure che possono essere analizzate nella loro struttura e
processualità. In secondo luogo, si tratta di comprendere come le rappresentazioni socialmente connotate, più che concetti, siano dei veri e propri fenomeni
sociali, ossia modi di organizzare l’esperienza nel quadro di una realtà sempre
più caratterizzata da un alto grado di mobilità e di mutamento sociale (cfr.
Moscovici 1989, 41 sgg.; Farr 1992, 380; Grande 2005, 56-57).
Per le ragioni qui sopra addotte, Searle è convinto che le rappresentazioni
sociali siano irriducibili alle rappresentazioni cognitive tipiche della riflessione naturalistica e fisico-matematica. Le istituzioni sociali sono, appunto,
“rappresentazioni socialmente connotate”, le quali, nel loro essere artificialmente costruite, sono ontologicamente diverse dalle rappresentazioni della realtà fisica (che appunto, a differenza del mondo sociale, continuerebbe ad esistere anche se non vi fosse nessuno a rappresentarsela).
Nella convinzione che i significati socialmente condivisi siano generati
dalla matrice costruttiva dell’uso in connessione con una specifica forma di
vita (secondo la lezione wittgensteiniana che Searle fa propria, e per la quale
l’azione sociale è rigorosamente normativa e prescrittiva e non può pertanto
156
essere colta con i parametri dell’approccio epistemico descrittivo e causalista), Searle ritiene che un oggetto socialmente prodotto può assumere una
consistenza ontologica solo in presenza di tre elementi fondamentali. Il primo
viene da lui indicato come assegnazione di funzioni. Se possiamo assegnare
funzioni anche ad oggetti naturali, come un albero o un fiume, nel loro caso
tale assegnazione non è costitutiva dell’oggetto, mentre lo è nel caso degli oggetti prodotti dall’uomo. Il secondo elemento è rappresentato
dall’intenzionalità collettiva, ovvero dalla capacità degli individui non solo di
cooperare, ma anche di partecipare a desideri, credenze, intenzioni comuni. Il
terzo elemento è infine la presenza di regole costitutive: senza queste ultime,
ad esempio, non potrebbe esistere qualcosa come il gioco degli scacchi (cfr.
Searle 1995, 23 sgg.).
Sulla base di tali presupposti, Searle individua i caratteri propri dei fatti istituzionali costitutivi della realtà sociale. Il primo carattere è quello
dell’autoreferenzialità: il fatto che i pezzi che io ho in tasca siano banconote è
basato sulla credenza che essi siano denaro, sulla loro definizione e sul loro
uso nella pratica come denaro. Il secondo carattere pone in evidenza la componente linguistica, essenziale non solo per rappresentare i fatti istituzionali,
ma anche per porli in essere – e qui il riferimento teorico di Searle è
senz’altro il secondo Wittgenstein, con il suo concetto di “gioco linguistico”
(Sprachspiel), alla luce del quale il significato di una proposizione si risolve
nell’uso che essa determina (anche se in senso lato “gioco linguistico” è la
stessa costruzione dell’atto linguistico secondo regole). In certi casi i fatti istituzionali sono il risultato di illocuzioni di tipo performativo: «la guerra è dichiarata», «il processo è aperto» e così via. Il terzo carattere mostra che i fatti
istituzionali non sussistono mai in maniera isolata, ma sono sempre fondati
sull’interrelazione con altri fatti istituzionali: il denaro esiste in quanto interrelato con il sistema delle banche, del mercato finanziario, degli scambi commerciali, del mercato e via dicendo (cfr. ivi, 32 e sgg.).
Ma autoreferenzialità, linguaggio, e relazionalità – i tre caratteri che
appunto caratterizzerebbero secondo Searle il mondo sociale – rimandano a
loro volta al più generale problema dell’agire sociale, giacché nell’azione,
nella condotta o praxis, funzioni, intenzionalità collettive e regole (senza le
quali i fatti sociali non avrebbero appunto “consistenza ontologica”) si
esplicitano come forme di vita condivise, senza che esse siano garantite da
una struttura logica universale e invariante in grado di legittimarne il
significato (cfr. Wittgenstein 1995, 217).
La firma di un contratto, in questo senso, è un’azione e non già un evento
naturale, presupponendo weberianamente, e in linea con le indicazioni di Searle, l’attribuzione di intenzioni (condivise) e risultando inquadrabile in rapporto a regole sociali, delle quali appunto non si può dare una spiegazione naturalistica – cibernetica o di altro genere – perché queste si caratterizzano, ri157
spetto a chi le segue, come prescrizioni (Kripke 1984). Le azioni non sono
perciò “eventi” naturali (cfr. von Wright 1977, 37; Sparti 1995, 78). Tuttavia,
è bene precisarlo fin d’ora, il carattere prescrittivo dell’azione come applicazione di un “gioco linguistico” non va letto nell’ottica di un normativismo
monista, che leggerebbe nella società un unico monolitico sistema prescrittivo
–, bensì nell’ottica di quel pluralismo dell’esperienza che legge la storicità
dell’agire come multiversum delle molte condotte e delle molte pratiche di vita sperimentate dagli uomini. Liberato dall’onere della corrispondenza con
una realtà precostituita, il linguaggio, con i suoi giochi, lascia emergere le
forme della vita – strutture che, ha notato acutamente Italo Valent, sono leggi
a se stesse, insofferenti di qualsiasi giustificazione perché fonte di ogni possibile giustificazione (cfr. Valent 1989, 178). Vari e variabili quanto i giochi in
senso tradizionale, i giochi linguistici esprimono una moltitudine innumerevole di proposizioni, peraltro mai data una volta per tutte e non riconducibile
sotto un unico concetto (cfr. Wittgenstein 1995, 83). Del resto, ciò che fin
dall’inizio ha attirato l’attenzione di Wittgenstein, in ordine alla nozione di
“gioco”, è precisamente la libertà di regole e scopi del linguaggio rispetto al
“reale”, come già sottolineavano le teorie formalistiche della matematica di
fine Ottocento (cfr. Valent 1989, 178-79).
In questo quadro, la realtà sociale appare fondata sulla stessa prassi e
quest’ultima appare come la dimensione originaria della prassi medesima (cfr.
Evans 1982; McDowell 1998). Essa è ontologicamente e metodologicamente
“originaria” perché non ricava o deriva il suo essere da condizioni fisiconaturali (nel senso che non è descrivibile in termini di reazioni causali
all’ambiente esterno), ma trova in se stessa, in modo autoreferenziale, prescrittivo e autopoietico, le condizioni del suo stesso porsi.
In altri termini, la societas appare, nella sua costituzione ontologica, come
il risultato, storicamente determinato, di costanti processi di creazione, produzione e riproduzione di fatti istituzionali, che sussistono sulla base delle
credenze e dell’intenzionalità collettiva, nonché sull’effettiva osservanza pratica delle regole e dei giochi linguistici che li costituiscono.
Qui, ancora secondo la lezione di Wittgenstein, l’attenzione metodologica
alla dimensione originaria della prassi e quindi della stessa conoscenza sociologica è volta a soddisfare la consapevolezza che, pure nella sfera della socialità, quanto ci sta davanti agli occhi è solo un tramite per procedere oltre: «E’
come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni: la nostra ricerca non si
rivolge però ai fenomeni, ma, si potrebbe dire, alle “possibilità” dei fenomeni» (Wittgenstein 1995, 90). E’ in questo quadro che si è indotti a porsi la
domanda sull’essenza del linguaggio: una domanda che «non vede
nell’essenza qualche cosa che è già aperta alla vista, e che diventa perpiscua
rimettendola in ordine; bensì qualcosa che sta sotto la superficie» (ivi, 92).
158
In effetti, può essere utile notarlo, una sociologia così metodologicamente
atteggiata – che cerca il dipanarsi stratificato, e perché no, strategico
dell’agire (se è vero che “strategia” viene appunto dal greco stratos) –, non
farebbe altro che dare seguito all’illustre tradizione metodologica inaugurata
da Émile Durkheim: poiché l’assetto della società è legato ad un impianto
normativo che non viene solitamente recepito, perché considerato “ovvio”, il
sociologo dovrà porre la sua attenzione su quei casi nei quali le norme vengono disattese, violate e oltrepassate, per riuscire così a vedere quello che esse
sono e quali forze agiscono per sostenerle (cfr. Collins, Makowsky 1980,
225).
Il paradigma classico e gnoseologico del concetto di rappresentazione si
rivela perciò fuorviante nell’analisi sociologica. Noi non condividiamo rappresentazioni di “cose” che siano elementi di una realtà sociale pre-data, ma
processi inferenziali di “definizioni” di cose e di modi di interazione che costruiamo e ricostruiamo, in modo pragmatico, alla luce di funzioni, scopi o
intenzioni comuni, regole e competenze linguistiche (cfr. von Wright 1989, 99
e sgg.). Così, solo il risultato delle nostre inferenze pratiche – la nota «logica
deontica» di Georg H. von Wright –, peraltro mai date in modo unilaterale e
una volta per tutte, può configurarsi a pieno titolo come “rappresentazione sociale”. L’analisi della società è analisi del mutamento sociale, della fase istituente dei mondi sociali e delle sue immaginarie grammatiche. E, in questo
senso, la conoscenza sociologica non può che proporsi l’oltrepassamento della
logica dichiarativa, che è nella sostanza la logica di un mondo statico – quel
mondo costituito da enunciati che esprimono stati di cose – laddove le azioni
sono intimamente connesse ad un mondo che cambia, ossia ad un mondo storico, nel quale processi ed eventi svolgono un ruolo primario (cfr. ivi, 55 e
sgg.).
2. Conoscenza scientifica e teoria sociologica
Il movimento sul foglio, tornando all’esempio del contratto, possiamo anche considerarlo un evento naturale, «ma ai fini della comprensione del significato di tale evento dovremmo necessariamente ridescrivere l’evento come la
conclusione di un affare, giacché tale è il suo valore in quel contesto» (Sparti
1995, 79). Ne segue che, come ha scritto il già ricordato von Wright, «non esiste una categoria generica di azione all’interno della quale “intenzionale” e
“non intenzionale” indicano due di specie. L’azione è essenzialmente “azione
intenzionale”» (von Wright 1977, 37).
In tal modo, affinché qualcosa valga come azione, gli attori debbono identificarla come tale ed anzi, seguendo la prospettiva analitica di John L. Austin
e la sua impostazione, peraltro di matrice wittgensteiniana, i concetti ed i termini impiegati per definire l’azione sono essi stessi un costituente dell’azione
159
stessa (cfr. Sparti 1995, 79). Ne segue che, con buona pace del modello Popper-Hempel, l’azione resta fisicamente indeterminata: «Affinché vi siano leggi nelle scienze sociali nel senso in cui vi sono leggi in fisica, dovrebbero esservi correlazioni sistematiche tra azioni identificate in termini sociopsicologici ed eventi identificati in termini fisici. Ora, se le azioni sono in larga misura definite (definite dagli attori che vi prendono parte), ciò ha la conseguenza
di renderle fisicamente indeterminate, e questo implica a sua volta che non
possono esserci correlazioni sistematiche (e dunque nemmeno leggi omogenee) tra azioni identificate sociopsicologicamente ed eventi identificati fisicamente» (ibidem).
Si consideri, infatti, che, come uno stesso insieme di movimenti fisici può
veicolare forme di azione radicalmente diversificate tra loro, così una stessa
tipologia di azione può realizzarsi attraverso una gamma di movimenti fisici.
Sicché, solo l’intenzionalità può essere posta alla base della costituzione dei
fenomeni sociali, non trovando l’agire limiti fisici a ciò che può determinarlo
in quanto tale. Con ciò, il modello nomologico viene messo fuori gioco, ossia
viene reso inutilizzabile se applicato alle scienza sociali. Le generalizzazioni
avanzate dal fiscalismo o monismo metodologico, che ipotizzano elementi invarianti nella congiunzione tra causa ed effetto – tra una variabile indipendente e una variabile dipendente, oggettivamente misurabile –, si rivelano essere
non già leggi (nessi nomici), ma semplici interpretazioni di fenomeni. Per
questa ragione, alla massima fisicalista e riduzionista “stessa causa, stesso effetto” può ben contrapporsi la massima pluralista “stessa causa, diversi effetti;
diverse cause stesso effetto” (cfr. Sparti 1995, 80).
E’ ancora Searle, in proposito a fornire un argomento significativo per le
tesi anti-fisicaliste in sociologia: se ciascuna azione può realizzarsi in forme
diversificate, essa può produrre un numero imprecisabile di configurazioni di
stimolo sul nostro sistema nervoso; con che, sarebbe davvero miracoloso se
questi innumerevoli stimoli producessero precisamente lo stesso effetto neurofisiologico sul comportamento (cfr. Searle 1987, 69). Ma un altro controesempio rende l’ipotesi fisicalista non adeguata alla comprensione
dell’orizzonte sociologico della prassi. Si pensi a quell’azione sociale che è la
firma di un contratto: «se ogni atto di “firmar un assegno” è svolto in modo
diverso, dato che la firma non è mai uguale a se stessa (varia per forma, dimensione, colore dell’inchiostro, movimento del braccio ecc.), l’atto dovrebbe
essere descritto come connesso a diverse cause fisiche e dunque anche a diverse leggi fisiche, e questo eliminerebbe la possibilità di descrivere in modo
univoco l’evento “firmare un assegno”. Ma ciò è assurdo» (Sparti 1995, 80).
All’inizio del Novecento, William I. Thomas aveva formulato il noto “teorema” relativo alla definizione della situazione, affermando che «se gli uomini
definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze» (Thomas, 1909, 107). Dal canto suo, anche Charles H. Cooley, nel suo
160
Human Nature and the Social Order, aveva già messo in primo piano le motivazioni individuali degli attori sociali, evidenziando, alla maniera di Weber, la
funzione costitutiva dei processi di attribuzione di senso nell’agire sociale
(cfr. Cooley 1902). Con particolare riferimento all’interazione in seno ai
gruppi primari, egli afferma che tale interazione è orientata in modo determinante dai significati di cui ogni persona investe se stessa e gli altri individui
(cfr. ivi, 84 e sgg.). Come è stato sottolineato, la conclusone cui giunge questa
teoria può apparire estrema: «ciascuno interagisce non con persone reali, ma
con “immagini”, con le rappresentazioni degli altri che egli costruisce» (Losito 1998, 165). In questa direzione, secondo Cooley, tutte le persone reali sono
“immaginarie” e “immaginaria” è anche la società (e su quest’aspetto, come
vedremo più avanti, tornerà anche Cornélius Castoriadis). Così Cooley: «La
società esiste nella mia mente come contatto e influenza reciproca di certe idee che si chiamano “io”, Thomas, Henry, Susan, Bridget ecc. Essa esiste nella vostra mente come un insieme di idee di tal genere, e così in ogni altra
mente» (Cooley 1902, 84).
L’io non sarebbe altro che l’immagine che ciascuno ha di se stesso, la cui
costituzione avviene in modo “riflesso”, «in base alla reazione nei confronti
dell’opinione che gli altri hanno di noi o, meglio, che si ritiene che gli altri
abbiano di noi» (Losito 1998, 165-66). Per questa ragione, a detta di Cooley,
il sé è un sé- specchio – the looking-glass self –, nel quale ci si guarda per vedere come gli altri ci vedono. Ma noi non costruiamo solo caratteri e status
perché gli altri li considerino come realtà permanenti. Noi, hanno scritto Randall Collins e Michael Makowsky, «costuiamo anche le grandi organizzazioni,
che pensiamo siano le strutture permanenti, sovraindividuali della società.
Come ci possiamo render conto non senza una qualche sorpresa, le organizzazioni sono invisibili. Nessuno ha mai visto un’organizzazione. Quel che vediamo sono edifici, che appartengono a un’organizzazione, sono organigrammi, rappresentazioni simboliche in forma geometrica delle regole formali
che collegano i membri dell’organizzazione. Come possiamo scoprire con un
rapido calcolo mentale, una organizzazione potrebbe ancora esistere anche se
i suoi edifici sparissero e potrebbe continuare a esistere senza nessuno dei
suoi membri attuali, in quanto è costituita da posizioni invisibili che possono
essere occupate da nuove persone una volte scomparse quelle vecchie. Il nostro mondo è dunque popolato da entità (General Motors, il Pentagono,
l’Università di California, la città di San Francisco) che esistono solo nella
mente della gente; noi commettiamo l’errore di pensarle come entità fisiche
perché gli individui che rappresentano queste entità simboliche si trovano per
solito in specifici luoghi fisici. Finché gli uomini credono in esse, le organizzazioni sono reali nei loro effetti, e le persone che non accettano le loro regole
sono punite come criminali, pazzi o rivoluzionari. Ma per mantenerle in vita è
necessario rappresentarle continuamente; quando qualcuno riesce a cambiare
161
il copione, la forma dell’organizzazione cambia a sua volta» (Collins, Makoswky, 1980 231-32).
Assumendo la radicalità epistemologica di una visione anti-fisicalista della
società, Erving Goffman ha sostenuto che, almeno per la parte in cui la forma
espressiva delle rappresentazioni viene accettata come realtà, ciò che appunto
viene accettato come reale entro un certo contesto avrà le caratteristiche tipiche di una “cerimonia”. In questo senso, non trovarsi nella stanza in cui si
svolge una festa oppure stare lontano dal luogo in cui un professionista riceve
un cliente, significa stare lontano dal luogo nel quale la realtà è messa in atto.
Da qui l’affermazione secondo la quale «il mondo, in effetti, è una cerimonia
nuziale» (Goffman 1969, 48).
I processi tipici che sono alla base della costruzione sociale della realtà sono stati ulteriormente analizzati da Peter Berger e Thomas Luckmann. Questi
autori recano un contributo all’analisi della conoscenza sociologica soprattutto nella loro analisi dei diversi livelli della funzione di legittimazione svolta
dalle tipizzazioni.
Il concetto di “tipizzazione” era già stato affrontato da Alfred Schütz, il
quale, rifacendosi criticamente alla teoria dell’azione sociale di Max Weber,
nonché alla fenomenologia di Edmund Husserl, aveva messo in evidenza come gli individui, fin dalla loro nascita, trovino un mondo sociale già formato,
ovvero un ambiente comune che rende possibili le relazioni sociali (cfr.
Schütz 1974, 181 e sgg.). Tale ambiente comune è sempre mediato da sistemi
di significato già codificati, ossia da “tipizzazioni” o “province di significato”
dell’agire (modelli di comportamento, valori, regole) che vengono assimilate
tramite la comunicazione sociale (linguaggio, esempi pratici, testi scritti e così
via). Una volta che si è così costituito, l’insieme dei significati culturali, omogenei e ripetibili, assume una propria autonomia che si impone agli individui,
determinando i criteri di rilevanza da essi attribuiti ai diversi aspetti della realtà sociale (cfr. ivi, 261 e sgg.). Le tipizzazioni, dunque, non soltanto consentono di coordinare nella prassi quotidiana le diverse azioni individuali, ma costituiscono anche la base delle interpretazioni delle situazioni presenti e passate, condizionando la stessa conoscenza scientifica dei comportamenti sociali
(cfr. ibidem).
Nell’analisi dei diversi gradi della funzione di legittimazione operata dalle
“tipizzazioni”, Berger e Luckmann evidenziano come tale funzione consista
nel rendere oggettivamente accessibili e soggettivamente plausibili le forme
codificate trasmesse nel processo di socializzazione (cfr. Berger, Luckmann
1969, 132). Ad un primo livello, si tratta semplicemente della trasmissione di
un linguaggio particolare, ad esempio del vocabolario usato per indicare le relazioni di parentela. In questo caso, la legittimazione è incorporata nello stesso vocabolario (l’identificazione di un individuo come “cugino” legittima la
condotta nei suoi riguardi immediatamente appresa insieme alla designazio162
ne). Un secondo livello, anche se in forma rudimentale, presenta determinati
schemi esplicativi riguardo ad un certo insieme di significati: proverbi e massime morali di senso comune rientrano in questa categoria. Il terzo livello, invece, riguarda le teorie esplicite che legittimano un settore istituzionalmente
definito di conoscenze specifiche, come ad esempio le spiegazioni che vengono offerte per giustificare determinate usanza rituali. Il quarto livello, infine, è
rappresentato dagli universi simbolici, ovvero da quelle totalità di significato
che integrano i diversi settori dell’ordine istituzionale in una struttura di riferimento globale. Si collocano a questo livello le teorie generali concernenti il
senso delle vita, del dolore, della morte; le teorie della storia e della politica;
le teorie cosmologiche e via dicendo. Tali teorie servono a rendere intelligibili
e «meno terrificanti» quelle sfere di significato che altrimenti rimarrebbero
isolate e incomprensibili nella realtà della vita quotidiana (cfr. ivi, 133 e sgg.).
La dimensione di legittimazione qui evidenziata mette in risalto il carattere
autoreferenziale dei sistemi culturali: la cultura non soltanto rende oggettivi
significati ed espressioni che provengono dall’esperienza vissuta, bensì, successivamente, consente anche di riflettere sulle proprie oggettivazioni, fornendo a queste ultime giustificazioni che possono contribuire, da un lato, ad
arricchire l’orizzonte della stessa esperienza, dall’altro, a sovrapporsi ad essa,
rinchiudendola in forme dogmatiche (cfr. Crespi 1996, 127).
Anche Harold Garfinkel, nell’ambito della prospettiva aperta dall’etnometodologia, ha sviluppato una critica di tipo epistemologico rispetto a quella
che egli definisce sociologia volgare (folk sociology), rimarcando che gli
scienziati sociali tendono generalmente a confondere il loro oggetto di indagine con le risorse offerte dal senso comune per interpretare, in un dato contesto
sociale, determinati fenomeni. Ad esempio, se un sociologo si propone di studiare i comportamenti devianti, tenderà ad usare il concetto di crimine senza
porsi il problema dei criteri in base ai quali, in quel particolare contesto sociale, un certo comportamento viene definito come tale. Così facendo, egli non fa
che ripetere le stesse procedure poste in atto, nella vita quotidiana, dagli attori
sociali per interpretare la realtà che li circonda. Al contrario, nel solco tracciato dall’etnometodologia, un contributo effettivamente scientifico può essere
dato solo se si mettono in evidenza i processi e i metodi mediante i quali gli
attori sociali costruiscono la stessa realtà sociale (cfr. Zimmermann, Pollner
1983, 91 e sgg.).
Le attività conoscitive di senso comune procedono, infatti, tramite pratiche
correnti di etichettatura (labeling) dei diversi aspetti che si presentano sulla
scena sociale (Cicourel 1968, 11). Le pratiche di spiegazione (accounts) usate
dagli attori sociali costituiscono una «realizzazione contingente e continua»,
volta a descrivere e organizzare una realtà che finisce per essere considerata
come un dato di fatto dagli individui, i quali danno per scontata la loro com-
163
petenza nel produrre “realizzazioni” che, a loro volta, si trasformano in condizionamenti del loro agire (cfr. Garfinkel 1983, 19 e sgg.).
Seguendo la stessa linea interpretativa messa a punto dalla sociologia statunitense, unitamente alle indicazioni del secondo Wittgenstein, Barry Barnes
ritiene che il contenuto di una norma, nel suo dettare le proprie condizioni
all’azione, non possa essere definito indipendentemente dal suo impiego concreto nella pratica sociale. Più precisamente, Barnes considera la società come
distribuzione di conoscenza: «una società è tutto ciò che i suoi membri conoscono, incluso ciò che sanno gli uni degli altri e la loro conoscenza reciproca»
(1995, 95). I processi conoscitivi che, sulla base della comunicazione intersoggettiva, fondano la realtà sociale sono anche in questo caso visti come autoreferenziali e autovalidantisi: «noi validiamo ciò in cui crediamo facendo
riferimento a ciò in cui crediamo» (ivi, 96).
La struttura sociale è pertanto, da Cooley a Barnes, il prodotto delle convinzioni partecipate circa l’esistenza della struttura stessa, che viene, a sua
volta, a convalidarsi per effetto delle pratiche orientate da tali convinzioni:
queste ultime, tuttavia, non precedono l’orizzonte sociale della prassi, ma emergono all’interno di questo medesimo orizzonte, sulla base dei processi di
apprendimento che si sviluppano nei contesti concreti dell’azione. Per Barnes,
inoltre, sia l’ordine naturale, sia l’ordine sociale vengono appresi inizialmente
mediante ostensione, ovvero in base ad esempi pratici su come ci si deve
comportare rispetto ad oggetti naturali o a situazioni sociali particolari. Mentre la conoscenza della natura può trovare conferma o smentita nel riferimento
a stati di fatto – che, come per Searle, esistono indipendentemente dalla nostra
attività rappresentazionale e cognitiva –, la conoscenza della società deve essere confermata o smentita in modo autoreferenziale, «da processi che implicano un riferimento a stati di fatto che esistono solo perché generalmente si
presume che la loro conoscenza sia vera» (ivi, 104). Nel riferimento al “teorema” di Thomas, inteso come profezia che si autoadempie – secondo la lettura di Robert Merton (1949) –, Barnes nota che se «ci concentriamo sulla conoscenza della società quale fondamentale elemento costitutivo della società
stessa in quanto distribuzione di conoscenza, la società ci appare come una
perfetta e gigantesca profezia che si autoadempie» (ibidem).
A differenza degli autori classici del pensiero sociologico, orientati prevalentemente a cogliere i rapporti di interdipendenza tra i grandi sistemi di rappresentazione filosofici o ideologici e i sistemi sociali, in quanto ambiti relativamente autonomi, le diverse interpretazioni teoriche ora ricordate tendono a
considerare l’attività conoscitiva della realtà sociale come una dimensione indissolubilmente legata alla sfera dell’agire e come un elemento essenziale dei
processi di costituzione della società stessa.
In quest’ottica, si chiarisce infine che la conoscenza sociologia non può
prescindere dall’assumere su di sé il problema della riflessività, dal momento
164
che l’ontologia dei fatti sociali non prevede connessioni causali tra fenomeni,
ma causazione circolare cumulativa (cfr. Sparti 2002, 253).
3. La creatività nelle scienze sociali
Nella conoscenza della realtà sociale non si può pertanto mai prescindere
dalla consapevolezza per la quale, come si è detto richiamando Barnes, «noi
validiamo ciò in cui crediamo facendo riferimento a ciò in cui crediamo»
(Barnes 1995, 96). Non la natura, pertanto, condiziona le modalità d’azione
dell’essere sociale, bensì la cultura, nel continuo sforzo che essa promuove di
correggere e integrare quanto la natura stessa ha lasciato indeterminato: quod
natura relinquit imperfectum, ars perficit. Ciò che la natura ha lasciato imperfetto, lo compie l’arte, sostenevano i pensatori rinascimentali.
Lo schema e l’argomentazione qui proposti, peraltro già delineati in vasti
settori del pensiero moderno e contemporaneo, si riferiscono ad una
concezione della natura umana secondo la quale quest’ultima, lungi
dall’essere un fenomeno di struttura, uno strato roccioso, solido, estraneo a
processi di differenziazione e discontinuità, è costituita per lo più di
indeterminazioni e di potenzialità (cfr. Vico 1976, 319; Nietzsche 1964, 73,
449; Heidegger 1978, 66 e sgg., 162 e sgg.; Wittgenstein 1995; Remotti 1995,
305; id. 1996, 11-12). E’ stato Clifford Geertz a chiarire che la stessa
sopravvivenza fisica dell’uomo necessita, e fin da subito, dell’intervento della
cultura (cfr. Geertz 1988). In effetti, se la natura umana fosse una struttura
piena, se l’uomo avesse una strutturazione biologica simile alla roccia,
resterebbe del tutto incomprensibile la formazione, storicamente comprovata,
di modelli identitari aggiuntivi rispetto a quelli già eventualmente ed
originariamente dati dalla natura biologica.
Com’è stato osservato, «nel rapporto tra biologia (o natura) e cultura ciò
che vi è di mezzo è il cervello». A questo livello, la tesi più ovvia «è sempre
stata quella secondo cui dapprima l’uomo conquista evolutivamente la propria
attrezzatura organica (tra cui il cervello) e poi sviluppa la cultura. Le indagini
paleoantropologiche degli ultimi anni hanno invece posto in luce che lo sviluppo cerebrale tipicamente umano è avvenuto in un ambiente già ampiamente caratterizzato dalla cultura. E questo a portato a sostenere che il cervello
non è soltanto fattore, condizione o causa efficiente della cultura (tesi che nessuno si sognerebbe di negare), ma che è anche un suo prodotto» (Remotti
1996, 12-13; cfr. inoltre Geertz 1987, 132). Da questo punto di vista, l’uomo
risulta essere modellato somaticamente dagli attrezzi, dalla caccia,
dall’organizzazione familiare, così come dall’arte, dalla religione, dalla scienza (cfr. Geertz 1987, 132 e sgg.).
La tesi geertziana dell’incompletezza biologica dell’uomo finisce, così, per
attribuire un ruolo determinante alla cultura, mettendo in evidenza il carattere
165
sociale del pensiero e delle emozioni e sconfessando la tesi, ancora sostenuta
con forza da Freud, secondo a quale l’uomo sarebbe un «coacervo di tensioni
fisiche di carattere a-sociale» (Mitchell 1993, 4).
E’ precisamente nel tentativo di leggere questo immane sforzo di correggere la natura con la cultura che deve, a mio avviso, inscriversi il contributo che
la sociologia può offrire per la comprensione del fenomeno della creatività.
Con questa intentio, Domenico De Masi, in un’opera che costituisce la più
ampia trattazione che sia disponibile in Italia sull’argomento, ha cercato di
fornire alcune mappe di «quel misterioso continente dello spirito che è la
creatività umana» (De Masi, 2003, 14-15). Egli segue con l’attenzione tipica
delle storico, ma anche con l’acume di chi fa parlare il dato storico alla luce di
una teoria complessiva dell’azione creativa, il cammino evolutivamente svolto
dall’essere umano, nella convinzione che «i paletti di questo percorso, con le
sue lunghe circumnavigazioni e con i suoi balzi repentini, sono stati piantati
dalla sublime creatività con cui l’uomo cerca di sconfiggere, caparbiamente e
incessantemente, i suoi grandi nemici di sempre: la fatica e la solitudine,
l’ignoranza e la bruttezza, la tradizione e l’autoritarismo, la miseria, il dolore
e la morte» (ivi, 15). L’impresa è di quelle titaniche e seguendo il suo tracciato si attraversa, in sintesi e per episodi di grande rilievo storico, anche legati ai
particolari interessi dell’autore, la storia dell’umanità, dai progenitori
dell’uomo – i suoi antenati di Neanderthal e di Cro-Magnon – alla Grecia arcaica delle cosmogonie di Esiodo e dei poemi di Omero, dall’Atene di Pericle
alla Roma di Adriano, dalla Firenze medicea all’Inghilterra di Francis Bacon,
dalla Francia dei lumi di Voltaire e Diderot all’America di Taylor e di Ford,
dalla Vienna di finis Austriae di Musil e di Mahler all’Europa di Hitler e di
Mussolini, dalla Parigi di De Gaulle e di Sartre all’oriente di Ghandi e della
Sony, dalla Silicon Valley e dalle Twin Towers alle favelas sottoproletarie di
Napoli e di Bahia, dal turbocapitalismo di Wall Street ai problemi del pianeta
ormai globalizzato (cfr. ivi, 27-427). Si comprende, così, come per De Masi la
creatività sia la capacità di invenzione e di scoperta, sia la téchne nel suo senso più ampio, la poiesi attraverso le quali l’uomo ha plasmato il suo rapporto
con l’ambiente, ostile e muto.
Lo sforzo di De Masi è pertanto grandioso e meritevole della massima attenzione, anche per il pregio teorico delle sue innumerevoli valutazioni critiche. Tuttavia, una tale accezione di “creatività” presenta alcuni problemi di
fondo che non possono essere qui sottaciuti, giacché nella ricerca De Masi
l’espressione “creatività” occupa un’area semantica così vasta da rendere superfluo qualsiasi tentativo di scindere “creatività” e “conoscenza”. Eppure deve pur esservi uno spazio nel quale il processo creativo si presenti come qualcosa di diverso dall’attività conoscitiva in generale. Un semplice contresempio all’assunto di De Masi è dato dalla circostanza secondo la quale nuove
conoscenze e nuove tecniche di sperimentazione e di produzione di artefatti
166
tecnologici discendono non da un atto creativo tout court, bensì
dall’applicazione sistematica di un programma di ricerca, variando in modo
logicamente meccanico i termini di un determinato problema. Ad esempio,
Copernico giunge a rivoluzionare il sistema geocentrico con il solo intento di
giungere ad una notevole semplificazione del calcolo matematico dei movimenti celesti. Egli si limitò a cercare nei libri antichi delle soluzioni alternative al geocentrismo, ritenuto troppo “complesso”, e lì per sua stessa ammissione s’imbatté nell’idea eliocentrica. In questo senso, il processo creativo non è
un generico prendere coscienza di qualcosa, una sorta di fenomenologia della
coscienza che da notizie elementari giunge ad elaborare complessi sistemi di
conoscenza, inventando ex-nihilo; piuttosto, la creatività è un processo di trasformazione delle informazioni, a partire da una conoscenza di sfondo che
non può essa stessa essere assunta come fenomeno creativo.
Di contro, qualora s’intendesse la creatività come produzione ex-nihilo,
allora ogni atto di pensiero (del tipo “io sono italiano”), ogni ostensione (del
tipo “quello è un cane”), ogni percezione (del tipo “questo punto è rosso”),
dovrebbe venire intesa come “atto creativo”. “Conoscere”, notava Aristotele,
è “determinare”. In questo senso, ogni atto conoscitivo è un sottrarre al nulla,
è un riconoscere che c’è qualcosa piuttosto che il nulla. Ma tale riconoscimento non è di per sé qualcosa di creativo.
Per De Masi, invece, la creazione è un intervento ex-nihilo, al quale poi,
ma solo poi, deve affiancarsi una solida struttura organizzativa: «Di quasi tutti
i creativi che ho analizzato conosco abbastanza le peripezie esistenziali, le
cause esplicite e le modalità che hanno condotto alla creazione di gruppi originali. Spesso sono riuscito a ricostruire anche le tappe che hanno condotto
alla formulazione di nuove idee. Ma, nel caso di gruppi creativi, il primo dei
loro capolavori è proprio la loro stessa organizzazione, che germoglia da una
prima idea embrionale, ma viene poi perfezionata via via nel corso degli anni
attraverso continui aggiustamenti e ritocchi. Anton Dohrn intuì quasi
all’improvviso le opportunità finanziarie e scientifiche dell’affiancamento di
un acquario e di un laboratorio: ma poi spese tutto il resto della propria vita a
costruire, gestire, ampliare, modificare la Stazione Zoologica» (ivi, 463).
In quest’ottica, tutta la prassi umana va ascritta sotto la categoria della creatività. Il che rende però alquanto problematico l’approccio epistemologico ai
problemi dell’invenzione e della scoperta. In effetti, la “creatività” è un concetto che si determina in relazione a ciò che esso esclude di essere – il non
creativo, ossia l’automatico, il meccanico. Ma se ciò che è l’opposto della
creatività è pur sempre qualcosa – cioè non è nulla –, allora anche l’opposto
della creatività sarebbe paradossalmente qualcosa di creativo.
E’ chiaro dunque che il concetto di creatività, nell’ambito della conoscenza
sociologica, va affrontato mettendo da parte la tentazione di ricondurlo
167
nell’alveo di una ricerca psicologia che intenda il processo creativo come una
creazione ex-nihilo operata dall’immaginazione o dall’intuizione.
La creatività è piuttosto un processo di trasformazione; è sì l’irrompere del
nuovo, dell’imprevisto, ma sempre in un quadro di forme già in ogni caso date (del conoscere – le teorie –, dell’agire – le regole della condotta –, e infine
dell’arte – gli stili divenuti canoni). In questo senso, l’atto creativo appare in
quel conoscere che è in grado di tenere fermo il legame, la relazione, tra ciò
che è mutato è il modo in cui è mutato (nulla apparirebbe nuovo se non si tenesse fermo il vecchio che lo rende intelligibile).
A rigore, di ciò che irrompe da un già dato come sua novità, nulla potrebbe
dirsi, giacché se vi fosse una formula della creatività, se vi fosse una legge in
grado di svelare la struttura della creatività stessa, indicando quali siano le vie
lungo le quali essa si muove, tali formule e leggi risulterebbero contraddittorie, in quanto volte ad anticipare ciò che per definizione – e ontologicamente
– non si può anticipare. In questa prospettiva, è stato scritto che «la creatività
forse non può essere appresa, ma può certamente essere incoraggiata e favorita. Possiamo avviarci verso le idee creative mediante la lettura e la discussione, guidati dal sano principio per il quale non si troverà mai una risposta a una
domanda che non sia stata formulata nella mente» (Medawar 1971, 89).
Tuttavia, una tradizione di grande respiro, in Occidente, ha dato valore
all’idea che la creatività fosse un produrre qualcosa dal nulla.
Il modo più rigoroso – rigoroso perché esplicitamente tematizzato – di
pensare la creatività umana come creazione ex-nihilo lo troviamo nell’opera
di Nicolaj Berdjajev, Il senso della creazione, pubblicata a Mosca nel 1916. Il
contesto è quello di un ripensamento radicale del senso dell’esperienza religiosa, così come essa si è imposta con il cristianesimo. I versi del Pellegrino
cherubino di Angelo Silesio, che costituiscono l’incipit dell’opera, ne svelano
il tema centrale: «Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht ein Nu kann leben.
Werd ich zu nicht, er muss von Noth den Geist aufgeben» («Io so che senza di
me Dio non può vivere un solo attimo. Se io divento nulla, egli è necessariamente costretto a rendere l’anima»).
Per Berdjajev, che s’ispira, contro ogni ontologia sostanzialistica, a Pascal,
a Kierkegaard e a Dostojevskij, e pensa il mondo dell’esistenza come “ulteriorità” rispetto al mondo concettualizzato e socializzato, la creazione dell’uomo
da parte di Dio è un bisogno fondamentale di Dio medesimo (Berdjajev 1977,
39). «Con la creazione dell’uomo e dell’universo – commenta in proposito
Emanuele Severino – Dio fa crescere se stesso. E appunto perché è creato a
immagine e somiglianza di Dio, l’uomo è a sua volta creatore: uomo e insieme Dio. Cristo il modo autentico in cui l’uomo è uomo. Come l’uomo ha atteso la rivelazione di Dio, così Dio attende ora che l’uomo gli risponda e gli si
riveli. Come Dio nasce nell’uomo, così la creatività umana fa nascere l’uomo
in Dio» (Severino 2000, 35). In questo senso, la creatività umana è ciò che
168
prolunga l’azione divina, è il luogo nel quale l’uomo collabora attivamente
con Dio.
Secondo Berdjajev, la «creatività autentica», tuttavia, non ha trovato nel
corso dello sviluppo storico del cristianesimo (nelle sue varianti cattolica, ortodossa e protestante) l’opportunità di manifestarsi, soffocata da quella visione veterotestamentaria che ha ridotto l’esperienza religiosa alla denuncia
dell’esistenza del peccato e alla promessa di redenzione dal peccato stesso.
Per questo motivo, la creatività, abbandonando l’uomo a se stesso, si è mostrata al di fuori del cristianesimo e come sviluppo mondano dell’arte, della
scienza e della tecnica (cfr. ivi, 35-36). Nietzsche ne è l’emblema. Il filosofo
tedesco rappresenterebbe l’esempio più alto nel percorso secolarizzato compiuto dalla creatività umana. In effetti, per Berdjajev, che in ogni caso ha il
coraggio di non sottacere il «silenzio assoluto del Vangelo sulla creatività
umana», lo Zarathustra nietzscheano è il vero profeta dell’atto creativo – e
non già della felicità, come vorrebbero invece quanti vedono in Nietzsche un
discendente dei grandi moralisti nello stile di Michel Montaigne, Blaise Pascal e Søren Kierkegaard. Il fine dell’uomo non è affatto la salvezza, bensì
«l’ascensione creativa», ragione per cui, a detta di Berdjajev, Nietzsche sarebbe inconsapevolmente il profeta della rinascita religiosa dell’Occidente
(cfr. ibidem).
Ma, al di là delle analisi di Berdjajev, ciò che qui mette conto evidenziare è
il fatto che o l’uomo con la sua azione creativa prolunga l’azione creatrice di
Dio – una creazione, appunto ex-nihilo – oppure la creatività dell’essere umano non è affatto ex-nihilo, ma presuppone pur sempre un contesto di intervento già dato. Del resto lo stesso Nietzsche, attraverso la tesi dell’eterno ritorno
dell’uguale, sembra escludere l’idea che l’azione dell’Uebermensch sia un
creare dal nulla – poiché in tal modo l’uomo si sostituirebbe a
quell’immutabile fuori dal tempo di cui pretende di essere la negazione; piuttosto si dovrà dire che l’uomo in tanto crea, in quanto è in grado di procedere
a quella trasmutazione di tutti i valori annunciata dallo stesso Zarathustra.
Sennonché ogni trasmutazione implica una transizione: simbolica, culturale, semiotica. Da qui la necessità di considerare Nietzsche come precursore
dell’ermeneutica novecentesca e, quindi, come demolitore della presunta unità
metodologica della filosofia e della scienza. Ma da qui anche la necessità di
pensare l’evento della creatività come un fatto collettivo e non semplicemente
individuale. Giacché, proprio nell’ambito della prospettiva aperta
dall’ermeneutica, alla base di ogni Io vi è un Noi, ossia un’ineliminabile componente sociale (cfr. Remotti 1995, 307; id. 1996, 69-76; De Masi 2003, 51149). In effetti, come ha posto in rilievo ancora Clifford Geertz, lungo una linea teorica peraltro già evidenziata dallo stesso Goffman, gli attori sociali, nei
loro contesti, creano e ricreano, attraverso processi di negoziazione, le immagini – le rappresentazioni, appunto – dei propri mondi sociali e delle singole
169
identità di ciascuno (cfr. Geertz 1987; id. 1988; Goffman 1969, 29 e sgg.; Dal
Lago 1994, XVIII; Fornari S. 2005b). E, tuttavia, questo Noi permane come
un orizzonte aperto e non già come un sistema vincolante di nozioni sociali.
La scienza della società, come si è visto, non può essere pensata come una
“fisica sociale”. La società, per essere compresa, anche nei suoi processi di
innovazione, richiede che all’unicità del metodo sia contrapposta la polisemia
di approcci metodologici che la stessa ontologia dell’essere sociale esige.
Con l’insorgere del pluralismo metodologico, la crisi dell’unità del metodo
filosofico e scientifico assume un carattere irreversibile.
4. Svolta linguistica e transazione tra codici simbolici: elementi per una
sociologia della narrazione
Questa crisi, anche indipendentemente dall’eredità nietzscheana, ha tuttavia reso possibile ciò che si è posto come l’elemento caratterizzante del secolo
appena trascorso e degli inizi del XXI secolo e che Richard Rorty in un suo
fortunato saggio ha definito come linguistic turn (cfr. Rorty 1994).
Al dibattito sul linguistic turn, che negli ultimi decenni ha appunto assunto
un grande rilievo non solo in chiave epistemologica, ma anche in ordine a
questione etiche, storiche e antropologiche, si deve, in effetti, riconoscere il
merito di aver dato nuovo vigore alla tesi del carattere non naturalistico della
conoscenza sociologica. Se il senso della “svolta linguistica”, alla quale,
com’è noto, appartiene a pieno titolo lo stesso Searle, può essere ricondotto
alla consapevolezza della funzione indispensabile della mediazione linguistica
in ogni operazione intellettuale – anche nei modelli di creatività sociologicamente rilevanti, alla luce dei quali, parafrasando Albert Camus, “creare” è dare una forma condivisa al nostro destino di uomini –, in senso più generale si
può dire che «da questa consapevolezza dell’inevitabilità dello strumento linguistico e dell’impiego della grammatiche del linguaggio ordinario così come
delle grammatiche della visione, dell’immaginazione metaforica in ogni ambito della cultura è sorta quella condizione teorica che va sotto il nome di autoreferenzialità delle teorie scientifiche, nel senso che esse non possono fare a
meno di leggere i dati dell’esperienza esterna se non a partire dalla batteria di
categorie e di costrutti linguistici che mettono via via in opera» (Gargani
1993, 5).
Come si sa, nel suo tentativo di costituirsi come epistéme, come sapere
stabile e sicuro, la tradizione culturale e scientifica dell’Occidente, soprattutto
a partire da Platone ed Aristotele, aveva inteso il sapere come conoscenza delle cause e come rispecchiamento neutrale della realtà oggettiva (adaequatio
rei et intellectus), secondo l’altrettanto nota teoria per la quale la verità consiste nella relazione tra una certa proposizione p e i fatti che rendono vera p
(Vassallo 2003, 12-3). Con l’avvento del linguistic turn, tale modo di conce170
pire la verità si è sbriciolato proprio per effetto di quell’autoreferenzialità delle teorie scientifiche sopra richiamata, lasciando spazio, da un lato, alla consapevolezza del carattere ermeneutico-linguistico della nostra esperienza del
mondo, dall’altro, alla consapevolezza che «tutta la nostra conoscenza e la
scienza nella sua totalità sono strutture a rete, o a ragnatela, toccate lungo i
loro margini periferici dall’esperienza», ragione per cui «un certo disaccordo
con l’esperienza alla periferia deve condurre a assegnare certi valori di verità
ad alcune nostre proposizioni» (ivi, 17). In questo senso, «le proposizioni di
un sistema sono reciprocamente connesse, cosicché rassegnare certi valori di
verità ad alcune proposizioni implica una nuova valutazione anche di altre
proposizioni del sistema, siano queste proposizioni logicamente connesse alle
prime o esse stesse proposizioni di connessioni logiche» (ibidem, corsivo
mio). Del resto, i limiti della teoria della verità come corrispondenza e adaequatio appaiono in tutta la loro evidenza se si considera che «per indicare una
corrispondenza tra le parole, o i segni mentali, e le cose indipendenti dalla
mente, dovremo già avere la possibilità di riferirci alle cose indipendenti dalla
mente» (Putnam 1989, 81). Così, del resto, anche il secondo Wittgenstein: «si
predica della cosa ciò che è insito nel nostro modo di rappresentarla», nel senso che non esiste un’osservazione che sia ingenuamente riproduttiva (Wittgenstein 1995, 103). Dal canto suo, tra l’altro, Theodor W. Adorno, pur in un
contesto epistemologico del tutto diverso, ha scritto che il positivismo, con un
gigantesco circolo vizioso, estrapola dalla scienza medesima le regole che dovrebbero fondarla e giustificarla (cfr. Adorno, Popper 1972, 68).
In questa prospettiva, la natura non costituisce più un testo univoco, come
avevano creduto gli scienziati della tradizione newtoniana: «In realtà
l’esperienza della ricerca teorica dimostra che la natura è piuttosto un testo
equivoco, che può essere letto secondo modalità alternative» e che «il mondo
fisico può convalidare e corroborare due basi teoriche opposte, quali la meccanica classica e la teoria relativistica». Ma «potremmo far valere la medesima condizione per l’esperienza interiore dal momento che la psiche non parla
il linguaggio freudiano o il linguaggio junghiano o quello lacaniano; insomma
il mondo, sia quello interno, sia quello esterno, semplicemente non parla.
Siamo noi, o meglio, sono i nostri vocabolari che lo fanno parlare. E’ in questo senso che il mondo che noi investighiamo è tanto scoperto, quanto inventato» (cfr. Gargani 1993, 5-6). Conoscere non è pertanto contrapporre un sapere ad un altro sapere (la scienza contro l’arte, la tecnica contro le credenze
religiose, i valori forti contro il relativismo etico), bensì è la capacità di dare
un volto alternativo, appunto, ai saperi identitari, collegando tra loro differenti
versioni del mondo e transitando, entro la rete delle nostre conoscenze interconnesse, da una modalità conoscitiva ad un'altra: «esiste la versione del
mondo di Galilei, di Descartes e di Newton così come esiste la versione del
mondo di Van Gogh e di Canaletto, e ciascuna di esse ha colto un aspetto si171
gnificativo e rilevante del mondo che ci circonda, ma che non può mai pretendere di essere il mondo obiettivo, dal momento che il cosiddetto mondo
obiettivo è sempre una versione tra le altre di questa pluralità di mondi tanto
inventati, quanto scoperti» (ibidem). La scienza non ha dunque il metro della
“legalità”. Essa è piuttosto la thick description di un mondo fatto di sensazioni
disordinate e di un imprevedibile divenire, di un mondo che non ha più nulla
di vero, essendo diventato esse stesso «una favola», secondo la nota dichiarazione nietzscheana per la quale «Wie die ‘wahre Welt’ endlich zur Fabel wurde» («alla fine il mondo vero era diventato una favola»). Un mondo di oggetti
indipendenti, immediatamente dati nella percezione, in effetti, non c’è (ivi, 6 e
sgg.; Fornari F. 2005). Perciò, è stato detto, ogni fatto, è carico di teoria e ogni
regola semantica s’inscrive in uno spazio contestuale, entro il quale si dà
l’unicità o relativa incommensurabilità (e intraducibilità) dei contesti di vita,
«ciascuno contraddistinto da un proprio modo di assegnare l’intelligibilità ad
atti ed asserzioni» (Sparti 1995, 170; cfr. inoltre Quine 1953; Popper 1970;
Rudner 1970, 138 e sgg.; Winch 1972, 102; Goodman 1978; Kuhn 1978, 19 e
sgg.; Fleck 1983, 48 e sgg.; Putnam 1989, 62; id. 1991; Bloor 1994, 9 e sgg.;
Wittgenstein, 1995, 101 e sgg.; Crespi, Fornari F. 1998, 149 e sgg.; Fornari F.
2000, 121-23).
In questa prospettiva, ritenere che i sensi svelino mondi originari estranei
alla concettualizzazione e alla stessa soggettività di colui che percepisce, appare un assunto dogmatico e del tutto metafisico. Come ha notato Gabriele
Lolli in Capire la matematica, «capire e spiegare tipicamente consistono nel
vedere e far vedere»; così, la stessa parola “dimostrazione” «ha il verbo “mostrare” in sé»: “teorema” significa “spettacolo” e «“vedere” significa anche
“capire” in quasi tutte le lingue» (Lolli 1996,126). Dal canto suo, lo stesso
Goodman ha rilevato che «parlare di contenuto non strutturato, o di una dato
non concettualizzato, o di un sostrato senza proprietà, vuol dire sconfiggersi
con le proprie mani; infatti, il parlare impone struttura, concettualizza, assegna proprietà. Mentre la concettualizzazione senza percezione e semplicemente vuota, la percezione senza concettualizzazione è cieca» (Goodman 1978,
7). Ne segue che la connessione tra «vedere» e «capire» – già peraltro ampiamente frequentata dal pensiero presocratico e nella quale si risolve il dilemma del rapporto tra anima e corpo –, lungi dall’implicare una chiusura idealistica del mondo nella mente del soggetto, vale come apertura al mondo
stesso, al cui interno non ho tuttavia «le cose come sono» – una totalità fissa
di oggetti indipendenti ai quali l’intelletto dovrebbe adeguarsi –, bensì ho le
cose in prospettiva, fatti «ritagliati» nella corrente delle sensazioni dal pensiero: «i segni non corrispondono intrinsecamente agli oggetti, indipendentemente da come vengono usati e da chi. Ma un segno che è effettivamente impiegato in un certo modo da una ben definita comunità di utenti può corrispondere
a determinati oggetti entro lo schema concettuale di quegli utenti. Gli ‘ogget172
ti’ non esistono indipendentemente dagli schemi concettuali. Noi ritagliamo
(cut up) il mondo in oggetti quando introduciamo questo o quello schema di
descrizione» (Putnam 1989, 60). Se la percezione è già contaminata concettualmente e se i concetti, a loro volta condizionati dall’aisthanesthai, sono
strutturalmente varabili e non delimitabili, nel senso che non posso stabilire
una volta per tutte se una determinata informazione sia o non sia costitutiva di
un determinato concetto, strutturalmente esposto ad una molteplicità di fattori
e di transizioni semiologiche, allora non possiamo ricondurre il conoscere alle
pretese avanzate dalla centralità di un io che concepisce se stesso come se fosse la culla di un’unica possibile descrizione del mondo stesso.
Come ha notato Ugo Volli, «il nostro mondo è intessuto davvero di comunicazione, se non altro perché noi tutti siamo tacitamente d’accordo per interpretarlo in questo modo. Il modo fondamentale di essere di tutte le cose si
presenta in questo momento storico automaticamente sotto forma di segno, o
se si preferisce si ritrova fin dall’inizio immerso nell’ambito di
un’organizzazione linguistica» (Volli 1991, 64). Il linguaggio, con la sua forza creativa, è così responsabile della forma «secondo la quale gli uomini interpretano il flusso disordinato dell’esperienza, al quale partecipano e in cui
sono coinvolti con il loro corpo, imprimendo a quel flusso sensoriale una forma, generando mappe cognitive, e organizzandolo in un mondo» (Gargani
1999, 29). Il rapporto circolare tra mente e corpo, il rinvio alla dimensione
contestuale del pensare e del fare, la conoscenza come elaborazione costruttiva dei dati in ingresso nella mente, rendono perspicua la circostanza per la
quale nessun interprete, né il poeta, né lo scienziato, né il filosofo, possiedono
un punto di vista sulle cose privilegiato.
E’ alla luce di tale circostanza che si mostra come il nesso tra “vedere” e
“capire” non possa essere rimosso. Potremmo anzi dire che la creatività, in
tutti i livelli entro i quali essa può darsi, dipende proprio dalla capacità di recuperare il nesso vedere-capire, oltrepassando quei meccanismi impositivi di
un conoscere che, muovendo dagli automatismi causali nei quali chiude astrattamente il mondo, rende il sapere una mera ripetizione di antefatti ontologici già preordinati rispetto al divenire del mondo stesso. Si potrebbe anche
dire che l’emergere della questione della creatività è direttamente proporzionale al crollo del “mito del dato” (cfr. Evans 1982; Sellars 1963).
E’ questo, del resto, il livello nel quale “creare” e “ripetere” sono agli antipodi. Ore, se la ripetizione è fondamento del discorso naturalistico, dal momento che ogni status disciplinare presuppone un insieme di “princìpi” dai
quali non può prescindere, dal punto di vista della società e della sua istituzione, la ripetizione concerne sono la fase conservativa delle società effettivamente istituite, mentre non riguarda il momento “istituente” della società, il
quale è reso possibile da quell’intervento immaginario dell’attore sociale che
173
tipizza in forma di rappresentazione (essa stessa sociale) ciò che in natura
semplicemente non esiste (cfr. Castoriadis 1995; Taylor 2005).
Per tornare alle tesi di Searle, se la rappresentazione epistemica di tipo naturalistico è “rappresentazione” di oggetti del tutto indipendenti dall’uomo (e
ciò anche qualora si assumesse la posizione “fenomenista”, giacché anche se
l’oggetto “tavolo”, ad esempio, fosse una mera collezione di proprietà percepibili non si potrebbe rinunciare alla conclusione secondo la quale restano oggettivamente date tutte quelle proprietà che mi restituiscono il fenomeno “tavolo”), è nondimeno vero che l’istituzione sociale “denaro” esiste solo in relazione a chi applica, nella propria condotta o abito di comportamento o prassi, le regole che consentono il riconoscimento e l’uso di tale “oggetto” (cfr.
qui sopra, § 1).
In questo senso, Cornélius Castoriadis ha scritto che l’istituzione della società è istituzione delle significazioni immaginarie che conferiscono senso a
ciò che in essa si presenta. Opponendosi alla “società istituita”, nella sua tendenza a porsi come chiusura assolutizzante dei significati immaginari, così
stravolti e asserviti alla violenza impositiva di un modello simbolico divenuto
“sistema”, la «società istituente» va pensata piuttosto come ciò che crea questa volta sì ex-nihilo – stante la sua impossibilità di derivare dalla natura ciò
che socialmente istituisce – la società stessa nel suo sviluppo storico.
L’immaginario, infatti, risulta essere creazione incessante e mai perciò preordinata di rappresentazioni, ossia di figure, forme simboliche, immagini, al cui
interno è anche socialmente istituito il valore di ciò che chiamiamo «realtà» e
«razionalità» (cfr. Castoriadis 1995).
In quest’ottica, recuperare il nesso tra “capire” e “vedere” significa comprendere che i cosiddetti “dati” dell’osservazione empirica non sono fatti neutrali e universalmente noti, in quanto ogni dato è sempre filtrato dalle grammatiche dell’immaginario entro le quali è istituito. In questa direzione, riabilitare il legame tra “capire” e “vedere” nella direzione della creatività significherà altresì rinunciare ad intendere il divenire – la radicale storicità e temporalità dell’essere sociale – come se fosse una «mera ricapitolazione di una
struttura d’essere rigida e prestabilita» (Gargani 1993, 13); al contrario, si tratterà di rimuovere ogni rigidità e assolutezza dalle significazioni immaginarie
con le quali interpretiamo i mondi sociali, facendo creativamente interagire
tra loro, secondo quella che potremmo chiamare con Gargani «transizione tra
codici simbolici», modi diversi di praticare il gioco della scienza, morfologie
intellettuali diverse, moduli concettuali alternativi, possibilità di scrittura infinite, differenti mondi della vita.
Solo così, l’agire umano e la creatività, insita nel continuo conferimento di
senso a ciò che ab origine senso non ha, diventano fattori di mutamento e di
comprensione sociale. Ciò tuttavia non significa che la transizione da un codice culturale ad un altro possa avvenire in una totale assenza di regole, sotto il
174
segno di un’assoluta anarchia epistemologia o semiotica. Nell’ambito di una
società complessa, qual è quella attuale, caratterizzata da ciò che Niklas Luhmann ha chiamato “fenomeno della differenziazione funzionale” (cfr. Luhmann 1983), la contaminazione, la trasposizione e infine la con-fusione di
aree linguistico-semantiche richiede l’attivazione di un conoscere che trasformi, nel quadro della complessità dei saperi, le interpretazioni ingenue in
interpretazioni critiche. Ora, un’interpretazione è critica quando si preoccupa
di fissare alcuni limiti alla possibilità che il significato sia continuamente differito, e il significante appaia come una disseminazione che procede ad infinitum (secondo quella che già Hegel chiamava “cattiva infinità”).
Onde evitare esiti di «insostenibile nichilismo ermeneutico», per usare le
parole di Hans Georg Gadamer (cfr. Gadamer 1983, 125), Eco ha chiarito
come non possa mai darsi un uso soltanto privato nell’interpretazione, giacché
essa presuppone pur sempre la condivisione di spazi semantici e linguistici
senza i quali di “interpretazione” non si potrebbe neppure parlare. Nei termini
di Wittgenstein: riconoscere un significato significa seguire una regola; seguire una regola, a sua volta, è condividere una prassi, nel senso che il “come”
della sua applicazione preesiste al soggetto dell’azione: «credere di seguire la
regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola “privatim”»: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire
la regola» (Wittgenstein 1995, 203).
Ricorrendo alla metafora del bosco (cfr. Eco 1994), lo stesso Eco mette in
evidenza come, alla stessa maniera di una passeggiata in bosco, che è di tutti,
l’interpretazione sia un’attività pubblica e come tale sia un esercizio che richiede, appunto, l’esistenza di alcune regole (cfr. ivi, 34; cfr. inoltre Montesperelli 1998, 41 e sgg.). Come in un bosco i sentieri si biforcano, mettendo il
viaggiatore nella necessità di scegliere il sentiero sul quale continuare il cammino, così «l’interprete deve in ogni momento scegliere il suo itinerario presupponendo che alcune scelte siano più plausibili di altre» (Montesperelli
1998, 42). Tra i criteri da seguire per evitare che l’intentio lectoris travolga
fino a dissolverla l’intentio operis vi è sicuramente quello di tenere fermi gli
obiettivi cognitivi che l’interprete stesso si prefigge, nella consapevolezza che
ogni messaggio va analizzato rispetto al contesto di domande con le quali
l’interprete sollecita la comprensione del messaggio stesso (cfr. Rositi 1981,
94-95). In secondo luogo, Eco individua il criterio dell’economicità. Un messaggio può dire, infatti, molte cose, ma non qualsiasi cosa: c’è almeno qualcosa che il messaggio non può di fatto dire. Occorre allora considerare
l’intentio operis, cercando ciò che più esprime l’organicità del testo e ciò che
non viene contraddetto da alcun punto del testo stesso (cfr. Eco 1990, 34). In
tal modo, se «impossibile dire quale sia la migliore interpretazione di un testo,
è possibile dire quali siano sbagliate» (ivi, 107). Un terzo criterio, annota
Montesperelli, può essere infine individuato «nell’accordo intersoggettivo di
175
una comunità di esperti: esso potrebbe esercitarsi anche per individuare, se
non le interpretazioni migliori, quelle meno convincenti» (Montesperelli
1998, 43). Per raggiungere un simile accordo, «può essere utile riferirsi al
contesto nel quale si è venuto a determinare il testo da interpretare». Tra
l’altro, il richiamo al contesto originario «non è certamente esclusivo
dell’ermeneutica: lo ritroviamo per esempio nella semiotica che, in tal modo,
vuole distanziarsi dal formalismo strutturalista» (ibidem; Pagnini 1988, 5758).
Del resto, già in Opera aperta (1962), Eco aveva messo in guardia rispetto
ai rischi di “contaminazioni” interpretative non supportate da un adeguato bagaglio critico: «trasportare un termine proprio delle scienze nel discorso filosofico o nel discorso critico impone una serie di verifiche e di delimitazioni
del significato, in modo da determinare in quale misura l’impiego del termine
abbia valore suggestivo o metaforico. È verissimo che chi si scandalizza e teme per la purezza del discorso filosofico quando si trova di fronte all’impiego
in estetica o altrove, di termini come “indeterminazione”, “distribuzione statistica”, “informazione”, “entropia”, ecc., dimentica che la filosofia e l’estetica
tradizionale si sono sempre avvalse di termini come “forma”, “potenza”,
“germe” e così via che altro non erano, in origine, che termini fisicocosmologici passati in altro campo. Ma è anche vero che proprio a causa di
queste disinvolte commistioni terminologiche la filosofia tradizionale ha potuto essere messa in causa da più rigorosi atteggiamenti analitici: per cui fatti
cauti da queste lezioni, nel trovare un artista che impiega determinati termini
della metodologia scientifica per designare le sue intenzioni formative, non ci
azzarderemo ad immaginare che le strutture di quest’arte riflettano le presunte
strutture dell’universo reale; ma rileveremo solamente che la circolazione culturale di determinate nozioni ha particolarmente influenzato l’artista in questione, così che la sua arte vuole essere e va vista come la realizzazione immaginativa, la metaforizzazione strutturale di una certa visione delle cose»
(cfr. Eco 1962, 160).
In effetti, la linguisticità dell’esistenza ci espone costantemente a forme di
transizione simbolica, di “contaminazione”. Da qui la necessità, ravvisata nella sua radicalità nei lavori teorici di Paul Ricoeur, di arbitrare il “conflitto delle interpretazioni” che abita le nostre prassi quotidiane e di ricerca, tentando
di non separare il livello del senso della verità, dato nella comprensione, da
quello del metodo esegetico, dato dalla spiegazione (cfr. Ricoeur 1977;
1986a). “Comprensione” e “spiegazione” sono sì approcci conoscitivi diversificati (cfr. Fornari F. 2002); ciò nondimeno essi costituiscono elementi complementari nella conoscenza sociologica, come del resto aveva già colto lo
stesso Max Weber (Weber 1974, 53 e sgg.).
Per queste ragioni, l’istituzione delle significazioni immaginarie che ha
luogo nella società è sempre riscrivibile nei termini di fenomeni da interpreta176
re e questi ultimi sono sempre assimilabili ad un testo narrativo, sul quale esercitare le chiavi di lettura della stessa realtà sociale.
Al di là di ciò che s’intende variamente per “testo” – serie coerente di proposizioni collegate insieme da un tema comune (cfr. Eco 1990, 235; 1979),
trascrizione problematica della parola viva (cfr. Ricouer 1977, 24 e sgg.), una
totalità connessa e completa che soddisfa un’intenzione comunicativa (cfr. Petöfi 1986, 398) – si deve qui notare che, dal punto di vista sociologico, ogni
identità, sia individuale, sia collettiva, può venire intesa come unità che si
forma narrativamente, attraverso successive identificazioni e distanziamenti
con le oggettivazioni socio-culturali, ovvero come capacità di riflettere su se
stessi, di stabilire una continuità narrativa fra le proprie diverse esperienze
(cfr. Crespi 1994, 33, 47, 76).
Nell’ottica della conoscenza sociologica, che ha solo di recente riscoperto,
insieme al valore del tempo e della memoria, la centralità della narrazione,
nonché la sua importanza cronologica e diacronica, narrare significa così «costruire in modo teleologico e sinottico fino a giungere ad una sintesi capace di
dare ordine e intelligibilità alle esperienze e agli eventi, che altrimenti resterebbero troppo eterogenei e privi di senso» (Montesperelli 1998, 35; cfr. Ricoeur 1986-1988; id. 1986b).
La “logica” che guida il soggetto della narrazione nel suo assemblaggio
teleologico e sinottico, nel quale insieme alla sua identità, il soggetto costruisce e ricostruisce il mondo di cui fa esperienza, non è più retta dagli automatismi causali di un’argomentazione che tenti di ricondurre, al fine di rassicurarlo, il proprio vissuto nello scenario di un antefatto fondativo, giacché ciò che
entra in gioco in ogni «storia di vita» non è affrontare l’alternativa vero-falso
(tipica della logica apofantica), ma comprendere che al di là della verità c’è
un’esigenza assai più importante che è quella del senso della verità (cfr. Gargani 1993, 17). Nelle grammatiche dell’immaginario, il senso trascende ogni
partizione astratta e strumentale, per giungere ad intrecci testuali e narrativi
che, disarticolando l’idea secondo la quale tra linguaggio, mente e realtà v’è
una relazione intrinseca, ordinata e coerente, pongono il sé come polisemico e
come risultante, sempre provvisoria e revocabile, di una strutturazione
dell’esperienza basata su fattori e pratiche contingenti e casuali (Cfr. Gargani
1999, 5 e sgg.).
Così, secondo Paul Ricoeur, si esprime nelle trame della narrazione una
vera e propria «intenzionalità storica», a partire dalla quale “raccontare” è già
“argomentare”, entro una diversificazione e una gerarchizzazione delle risorse
esplicative del racconto (Ricoeur, 1986, 267).
Le “storie di vita” – che ormai costituiscono un importante strumento di
ricerca (Cipriani 1987; Olagnero, Saraceno 1993, 12 e sgg.) – sono così un
modo per accedere a quel conferimento di senso che caratterizza la Lebenswelt di ciascuno, attraverso un procedimento che percorre a ritroso quanto
177
per l’attore sociale si è dispiegato nel corso del tempo e nella consapevolezza
che ogni situazione sociale è sempre l’esito di un processo che proprio nel
tempo ha trovato le proprie possibilità di realizzazione (cfr. Giddens 1984).
Scrive in proposito Ricoeur: «un presupposto domina tutti gli altri e cioè che
la posta in gioco ultima e dell’identità strutturale della funzione narrativa e
dell’esigenza di verità di ogni opera narrativa, sta nella natura temporale
dell’esperienza umana. Il mondo dispiegato da qualsiasi mondo narrativo è
sempre un mondo temporale. O, come spesso ripeteremo nel corso di
quest’opera, il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in
modo narrativo; per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza» (Ricoeur, 1986, 15).
Se la psicologia ha già da tempo fatto proprio una sorta di paradigma narrativistico – si pensi all’opera di Jerome Bruner (cfr. Bruner in Ammaniti,
Stern 1991, 17-42) –, è nondimeno vero che la ricostruzione dei percorsi
dell’identità tramite la narrazione dovrebbe diventare un compito irrinunciabile della stessa sociologia, la quale, dando spazio anche ai soggetti marginali,
potrebbe trovare l’occasione di restituire «la voce a chi non ce l’ha», recuperando così la stessa funzione sociale che ogni ricerca dovrebbe svolgere (Crespi, 1985, 351 e sgg.).
5. Metamorfosi del linguaggio e paradigma della coappartenenza
Al contrario di quanto ritiene Lyotard, che fa coincidere l’avvento della
post-modernità con la fine delle grandi narrazioni (cfr. Lyotard 1981, 56-57),
l’evento del narrare diventa oggi una singolare opportunità di comprensione e
di spiegazione della stessa realtà sociale, dal momento che ogni narrazione,
per grande o piccola che sia, non può prescindere dal ricorso ad un linguaggio
ricco di metafore, volto pertanto a favorire quella transizione e trasgressione
dei codici che abbiamo visto costituire la cifra della nostra attuale consapevolezza epistemologica: «Una volta perduti i fondamenti metafisici, assoluti,
permanenti di un sapere sottratto alle intemperie dello spazio e del tempo,
credo che si possa dire che la cultura contemporanea manifesta in misura crescente l’ansia segreta di produrre narrazioni per risarcire il vuoto lasciato dagli impraticabili “super-ordini di super-concetti”» (Gargani 1999, 15). E ancora: «Nell’epoca presente, dalla cosmologia, dalla filosofia fino alla psicoanalisi nella quale il sogno è il racconto di un sogno, fino ai fumetti, ai notiziari
sportivi, all’informazione pubblicitaria e a ogni tipo di presentazione, la comunicazione si declina nella forma di una narrazione e di una figurabilità. Si
realizza nei vari campi disciplinari e nelle pratiche della vita ordinaria quello
che io definisco un pensiero raccontato. Un pensiero cioè che immette la linea dell’argomentazione razionale in un contesto spazio-temporale contingente di modi figurati del discorso, in un contesto, dunque, dove codici diversi
178
del discorso si coinvolgono e si richiamano reciprocamente» (ivi, 15-16, corsivi miei).
Ed è proprio nelle transizioni semiotiche e nell’intreccio testuale e narrativo che deriva da tali transizioni che la metafora gioca un ruolo centrale (cfr.
Fabbri 1998, 65). Anche Gargani, ancora, sottolinea questa centralità, in quanto, in forza della metafora e del suo «traffico occulto», l’uomo diviene teatro
di un flusso di percezioni, immagini, cognizioni e parole che si aggregano in
modo immanente e intransitivo fra loro, connettendo componenti irrelate della
realtà (Gargani 1999, 33). Non si tratta, tuttavia, di pensare la centralità della
metafora intendendo quest’ultima come mera figura retorica, come pura trasposizione (metaphorein) ornamentale e retorica di significato da un senso letterale ad un senso non letterale. Si tratta invece di quella che sempre Ricoeur
ha definito «metafora viva», intendendo considerare il carattere metaforico
del linguaggio come una strategia comunicativa capace di dare conto della
creazione di nuovi orizzonti di significato (cfr. Ricoeur 1976).
Per Ricoeur, come la narrazione e il pensiero raccontato operano, attraverso l’intreccio testuale di codici diversi, una vera e propria sintesi
dell’eterogeneo nell’unità temporale, così la metafora produce in se stessa una
sintesi di “letterale” e “figurato” dalla quale scaturisce un nuovo, inaudito, significato.
Ricoeur, pare qui assimilare la lezione wittgensteiniana secondo la quale la
perspicuità di un costrutto grammaticale non dipende dall’emergere di un ordine gerarchico organizzato attorno a un polo unico e fisso, bensì dal semplice
accostamento di ciò che si dà, in modo che ne sia facilitato il confronto e il
passaggio dall’uno all’altro secondo una qualche linea di parentela (cfr. Wittgenstein 1995, 66-67). Così inteso, «il concetto vale come una famiglia di significati; un gruppo non chiuso, e tuttavia circoscritto, di procedure grammaticali tra loro in qualche modo legate e affini, per quanto ciascuna caratterizzata da una propria inconfondibile identità» (Valent 1989, 165). Nelle Ricerche filosofiche, Wittgenstein scrive: «Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglianze di famiglia”; infatti, le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono
e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento» (Wittgenstein 1995, 67). Ogni particolare va così considerato nel complesso intreccio delle sue relazioni: ogni
azione, evento, parola, racconto, narrazione è, in effetti, una complicata rete di
somiglianze che si sovrappongono e incrociano a vicenda, nella quale
s’intrecciano appunto codici simbolici e avviene un continuo scambio di metafore (le metafore della scienza – per esempio, l’universo rappresentato come
macchina – diventano modi di dire e di pensare che penetrano l’esperienza
letteraria e, di contro, le metafore letterarie – la navigazione come metafora di
179
una ricerca – diventano espressioni che entrano nel linguaggio scientifico (si
pensi alla “navigazione telematica e informatica).
Ma la metafora, per Ricoeur, ha anche un’altra portata. Essa s’inscrive nel
tentativo di oltrepassare quella, pur illustre, tradizione secondo la quale i linguaggi metaforici sono esclusivamente rivolti alla persuasione mediante espedienti meramente retorici, privi di valore informativo e di referenti reali. In
effetti, per Ricoeur, la metafora è, a tutti gli effetti, una strategia linguistica in
grado di dare conto della creazione di un nuovo significato, costituendo essa
stessa il momento rivelativo del linguaggio stesso. La metafora, infatti, è sovrabbondanza di senso, è apertura a nuove dimensioni della realtà, al di là da
ogni riduzione del linguaggio a puro strumento di comunicazione neutrale
(cfr. Ricoeur 1976, 285 e sgg.). In ciò, del resto, è da vedersi anche il carattere
creativo della poesia, il quale consiste essenzialmente nel «fare apparire, negli
intervalli della classificazione logica, il fondo della vita, il mondo della vita,
la Lebenswelt, ove ci è possibile esplicare i nostri possibili più specifici. La
strategia della metafora è la situazione euristica al servizio della ridescrizione
della realtà, con la metafora noi facciamo esperienza della metamorfosi del
linguaggio ordinario e della metamorfosi della realtà» (cfr. Ricoeur 1974,
287).
Per metamorfosi del linguaggio ordinario Ricoeur intende qui il trapasso –
Heidegger avrebbe detto Übertragung –, il suo uscire dalle strutture linguistiche tradizionali, un cambiamento in grado di trasformare l’essenza stessa del
linguaggio, che viene quindi posto come differenza tra mondo e cose. In effetti, il linguaggio è precisamente questa differenza nominata e, dunque, traslazione incessante, tensione, divenire. A questo livello, è richiesto perciò un atteggiamento di riscoperta, attraverso il linguaggio e le sue transizioni simboliche, della stessa capacità di vedere: «le immagini poetiche sono delle immaginazioni (Einbildungen) in un senso eminente: non pure e semplici fantasie e
illusioni, ma immaginazioni come in-corporazioni (Ein-schlüsse) visibili
dell’estraneo (das Fremde) nell’aspetto di ciò che è familiare» (Heidegger
1954, 135). L’immaginazione, in quanto Ein-bildung, è pertanto trasformazione creativa, come del resto aveva già compreso Schelling (cfr. Pareyson
1975, 274). E creativo, in questa prospettiva, è anche lo stesso mondo delle
emozioni e dell’energia passionale (cfr. Fornari S. 2005a).
E, tuttavia, mette qui conto precisare, come ha osservato ancora Gargani,
che la centralità del linguaggio non si traduce in una sorta di panlinguismo
metafisico (come se il linguaggio sostituisse il dato empirico del positivismo).
Anzi, tanto più s’insiste nel linguaggio, quanto più ci si apre al suo rimosso, al
suo non detto (cfr. Gargani 1999, 8). La narrazione non configura, infatti, la
descrizione di forme che siano anteposte all’esperienza e all’azione, riducendo il divenire ad una mera ricapitolazione di una struttura d’essere rigida, preordinata e preesistente; essa, piuttosto, lascia essere l’esperienza – con il suo
180
orizzonte d’azione – come tensione verso l’altro, come ricerca. Per questo
motivo, scrivere, parlare, narrare «sono un modo di vivere in un senso sostanziale, per cui non ci si rinchiude minimamente nelle sfera della parola
dell’homo clausus, ma al contrario e spesso a propria insaputa, anzi sempre a
propria insaputa, un uomo è esposto a un processo nel corso del quale si forma in lui un nuovo paesaggio interiore, e di conseguenza egli è poi esposto
all’irruzione di nuove parole, che non poteva cercare, che non poteva inseguire, ma che piuttosto hanno inseguito lui per la durata di una vita, che sono
emerse all’orizzonte della sua coscienza riqualificando l’ordine delle sue percezioni, dei sui valori, delineando nuovi profili di figure umane e di sagome
naturali, nuovi assetti delle compagini temporali, nuovi vertici dai quali guardare riordinando lo scenario del mondo» (ivi, 34).
La scoperta ci raggiunge, così, per trasformarsi nell’invenzione di noi stessi: «Se non fossimo stati scoperti dall’ombra che agiva dentro di noi, non avremmo mai potuto inventare nulla. Il linguaggio non serve per inventare, ma
per raccogliere la realtà. E sarà per questa ragione che fondamentalmente si
scrive ricordando, scrivere è ricordare quello che non avremmo mai saputo se
non lo avessimo scritto. Questa esperienza ha generato la religione, perché
poesia e religione hanno in comune il loro motivo originario, che è precisamente la reverenza rispetto alle cose e alle realtà, e l’estetica ha generato
l’etica perché ha introdotto il principio di ciò che vale, di ciò che deve valere,
e l’etica è cresciuta sulla cresta di questo sviluppo» (ibidem).
Anche per il filosofo della storia newyorkese Arthur C. Danto, la storia del
pensiero è sostanzialmente un’analisi del modo in cui gli esseri umani «narrano» il mondo, ossia rappresentano il mondo in forma narrativa (cfr. Danto
1971). Per Danto, le narrazioni con le quali ordiniamo e organizziamo il mondo stesso sono del tutto simili alle narrazioni attraverso le quali la scienza costruisce se stessa (cfr. ibidem; D’Agostini 1997, 290). In effetti, come nel caso
delle teorie scientifiche, il modo di narrare decide il tipo di osservazione che
andrà a realizzarsi, dal momento che, come ha sottolineato Donald Davidson,
vi è una stretta interdipendenza tra i modi della descrizione e l’individuazione
delle cause o ragioni esplicitate in una teoria (cfr. Davidson 1963, 9-10;
D’Agostini 1997, 290; De Caro 1998, 79 e sgg.). Danto ritroverebbe, così,
quell’unità perduta del metodo scientifico-filosofico di cui sopra si diceva:
procedure scientifiche e conoscenza storica si unirebbero nella congiunzione
di rappresentazione cognitiva e rappresentazione narrativa, sebbene ciò avvenga, a differenza di quanto teorizzato dalla teoria unificata del metodo di
matrice neopositivista, hempeliana e popperiana, «sul presupposto di una di
una esteticità o creatività naturale delle rappresentazioni-narrazioni (di qualsivoglia tipo)» (D’Agostini 1997, 290). Differenziandosi anche dal lavoro teorico di Goodman – richiamato proprio nell’incipit del presente paragrafo –,
Danto, nel suo essere molto attratto dall’aspetto artistico, estetico181
compositivo, della ricerca intellettuale in senso lato, porta la conoscenza, la
logica e il concetto verso l’arte, compiendo il percorso inverso rispetto a quello compiuto dal pensiero goodmaniano: «le strutture teoriche sono da lui viste
come entità eminentemente estetiche, l’analisi logica dei concetti è per lui uno
svelamento della “bellezza” che sempre abita il concetto e gli dà forma, il
chiaro e il vero della filosofia sono gli elementi portanti dell’armonia che governa “l’architettonica del pensiero”» (ivi, 290-91).
L’influenza di Nietzsche e di Gaston Bachelard è qui evidente e, anzi, è
proprio a quest’ultimo che si deve uno dei contributi più significativi nel campo degli studi sull’immaginario (cfr. Bachelard 1978). Come sosterrà poi anche il suo allievo Gilbert Durand, l’impresa scientifica ha quale sua precondizione quella di innestarsi in un universo di immagini che anticipano la
sua strutturazione categoriale: antecedente del pensiero è l’immagine (cfr. ibidem; Durand 1972). Per Bachelard, fautore di un’epistemologia “storica”, la
scienza nel suo complesso deve essere messa in relazione con le tematiche
storiche, sociali, tecniche, nonché psicologiche che promuovono o reprimono
lo stesso sviluppo della scienza. Quest’ultima, lungi dall’essere una progressione lineare e cumulativa di conoscenze, dotata di tecniche conoscitive infallibili e invarianti, si presenta come pluralità irriducibile dei saperi e delle pratiche cognitive. Anticipando le celebri osservazioni sull’evoluzione del sapere
scientifico di Thomas Kuhn, Bachelard pone in evidenza come la scienza proceda per approssimazioni continue, comportando ogni nuova acquisizione la
negazione delle precedenti (Bachelard 1978; Kuhn 1978, 19 e sgg.). E’ qui
che per il filosofo francese la tematizzazione dell’immaginario mostra la sua
centrale importanza. La genesi della scoperta scientifica, infatti, non si riflette
soltanto nella capacità di guardare la scienza con uno sguardo storico, ma anche nel cogliere che l’immaginazione non è una mera riproduzione della realtà, ma è produzione di un senso – cioè immaginazione creatrice – che vive
non tanto in ciò che si osserva, ma nel fatto che nulla si osserverebbe senza di
essa (cfr. Grassi 2006, 27-29).
Nella narrazione, l’immaginario si costituisce come momento fondante:
non si dà, detto altrimenti, prima la realtà e poi la sua immagine, percepita e
raccontata; piuttosto, realtà e immagine si danno insieme. In effetti, come aveva già notato Jean-Paul Sartre, se non avessi l’oggetto in immagine come
potrei riconoscerlo? In questo senso, l’immaginazione non è un potere empirico e sovraggiunto alla coscienza; è la coscienza tutta intera, in quanto essa realizza, nell’immaginare, la propria libertà. Ogni situazione concreta e reale
della coscienza nel mondo è gravida di immaginario, in quanto il darsi stesso
della coscienza è un continuo oltrepassamento del reale. Ed, in effetti, secondo Sartre, la coscienza non si esaurisce in nessuno dei propri oggetti (cfr. Sartre 1962). Il vero – ha scritto Wallace Stevens - «ci ha resi come pazzi, ne
siamo stati ossessionati, ma infine esso ci condurrà a guardare oltre se stesso
182
verso qualcosa di cui l’immaginazione sarà parte essenziale. Non è solo
l’immaginazione che aderisce alla realtà, ma anche la realtà che aderisce
all’immaginazione, e la loro interdipendenza è di fondamentale importanza»
(Stevens 1988, 109).
Proprio per questa ragione, il poeta e lo scienziato dovrebbero, mentre descrivono e raccontano la realtà, mettere in scena i loro metodi e le loro procedure di rappresentazione, esprimendo la consapevolezza dei loro strumenti di
simbolizzazione, delle loro “grammatiche dell’immaginario”. Ancora Stevens
ha scritto: «Essi dissero: “Tu hai una chitarra azzurra, / Tu non suoni le cose
come sono”». Commenta Gregory Bateson: «La “chitarra azzurra”, il filtro
creativo tra noi e il mondo, è presente sempre e ovunque. Ciò equivale a essere creatura e insieme creatore. E questo il poeta lo sa molto meglio del biologo» (Bateson 1997, 398, in Gargani 1999, 30; Stevens 1988, 109 e sgg.).
Abbandonando il mito del codice unico, la soggettività esperisce una condizione di discontinuità che rende possibile un nuovo e inaudito contatto fenomenologico con la realtà: «Nella transizione e nella trasgressione dei codici
assoluti e totalizzanti, l’uomo esperisce la creatività della catastrofe. In sostanza, nella trasgressione e nella transizione tra codici diversi si compie la
più significativa vicissitudine umana, che va al di là del semplice esperimento
formale, in quanto racchiude l’integrazione del dicibile e dell’indicibile, del
successo e del fallimento, del bene e del male, infine della vita e della morte.
Nella transizione fra codici differenti e nel conseguente rovesciamento del loro formalismo si compie il più alto evento accessibile all’uomo, quello precisamente di scorgere l’individuazione del proprio sé nell’esperienza della ricerca e dell’erranza (e dunque anche dell’errore) nel flusso delle vicende di un
mondo aperto e imprevedibile» (Gargani 1999, 40-41).
In questo senso, si dà un principio della narrazione che ci accompagna in
ogni nostra rappresentazione della realtà sociale, in ogni nostra situazione esistenziale. La parola si presenta così come quel confine nel quale s’iscrivono il
soggetto come corpo – come Leib, corpo senziente, vivente e vissuto – e il
mondo. Una parola che è al tempo stesso pragma, orizzonte dell’azione nel
suo perenne oscillare tra l’adesione a mondi precostituiti e il rovesciamento di
tali mondi. E’ questa prassiologia implicita del linguaggio – al cui interno il
mondo è costantemente riscritto alla luce delle narrazioni con le quali lo descriviamo – a mostrarci come non si debbano subordinare i sistemi di concetti,
di categorie, i linguaggi alla funzione della loro utilità; piuttosto si tratta di
comprendere come il carattere pragmatico, operativo e costruttivo degli apparati concettuali e delle strutture linguistiche sia fenomenologicamente ed originariamente iscritto nel nostro spazio di esperienza e nel nostro orizzonte di
aspettativa. Come l’epigenesi indagata dalla biologia contemporanea, nella
quale ha luogo una sovrapposizione di funzioni, operazioni ed equilibri che
concrescono, gli uni sugli altri, senza un progetto preformistico nel corso
183
dell’evoluzione, così l’azione non s’inserisce entro strutture universali e necessarie che preesistono all’azione stessa, bensì si determina all’interno di un
processo interattivo con un contesto ambientale, ecologico, con la storia e le
forme del linguaggio medesimo (cfr. Orsini 2005; Edelman 1993, 387 e sgg.;
Gargani 106 e sgg.). Come ha notato Gerald M. Edelman – delineando una
teoria neurofisiologica del “mentale” – la mente, con il suo insieme di “atti
intenzionali”, non è un processo computazionale (una macchina di Turing),
nel quale soggetto e mondo sono contrapposti e nel quale fatti (naturali) ed
eventi (storici e sociali) si connettono secondo schemi logici ipoteticideduttivi, nella convinzione che la causalità sia l’unico principio metodologico attendibile. Argomentazioni del tipo: “a → b”, oppure “se x, allora segue
necessariamente y” continuano arbitrariamente a presupporre, cadendo
nell’errore categoriale prefigurato da Gilbert Ryle, che vi siano antefatti logici
e ontologici che l’occhio imparziale di quel soggetto privo di storia che è il
soggetto della scienza sperimentale galileiana ricostruisce deterministicamente senza incertezze. Senonché, ha osservato ancora Edelman, il linguaggio «si
fonda sull’attività cognitiva, cioè su modelli cognitivi che possono essere
compresi in termini di funzionamento del corpo. Questo fondamento cognitivo è vincolato dalla natura della realtà fisica e dipende anche
dall’immaginazione e dalle interazioni sociali. Il significato discende
dall’incorporamento e dalla funzione; la comprensione nasce quando i concetti sono dotati di un significato in questo senso e si ritiene che la verità emerga
quando la comprensione di una frase si adatta alla comprensione di una situazione in misura sufficiente per i propri scopi». Non esiste, perciò, «una verità
assoluta, un “punto di vista di Dio”. Il nostro punto di vista su ciò che esiste
(metafisica) non è indipendente dal modo in cui ne veniamo a conoscenza»
(Edelman 1993, 387).
Alla visione logicizzante, all’implicazione causale, bisogna così contrapporre il paradigma della coappartenenza: alla logica della sequenza temporale
di un termine antecedente (causa) dal quale scaturisce un termine conseguente
(effetto) subentra l’orizzonte delle connessioni di senso fra rappresentazioni
tra loro simultanee, la cui unica ragione è il loro coesistere in una scena comune (cfr. Gargani 1999, 27). Certo, i sostenitori del concetto naturalistico di
causalità potrebbero sempre controbattere sostenendo, con un argomento controfattuale, che l’impiego stesso delle nostre parole e determinato da cause. Il
punto è però che la causa non contiene, né predetermina il significato delle
parole che suscita (cfr. ivi, 69). Nel paradigma della coappartenenza – o paradigma delle connessioni di senso – il significato di un concetto, e lo si è visto,
è risolto nelle forme della sua applicazione. Perciò, in tale paradigma, riecheggia la nozione wittgensteiniana della prassi come forma di vita condivisa:
«Non può essere stata neppure una ragione, quella per cui certe razze umane
hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e la
184
quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano vicine non
per scelta, ma per essere cresciute insieme, come il cane e la pulce» (Wittgenstein 1975, 35). Non domina qui la categoria della concatenazione, bensì quella dell’immanenza della raffigurazione di ciò che si dà insieme, del «risveglio», secondo la nota espressione di Walter Benjamin: «Non è che il passato
getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una
costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché,
mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora (Jetzt) è dialettica: non è un decorso
ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio. Risveglio» (Benjamin 1986, 598; cfr. Petra 1992, XIX).
Per questa ragione, occorre ribadirlo, l’intervento creativo non può essere
concepito come produzione ex-nihilo. Pur non essendo un antefatto ontologico, logico o teorico, alla luce del quale rendere intelligibile il divenire e rassicurare se stessi dall’imprevedibilità del nostro esistere, vi è un mondo che ci
precede e che si manifesta come ciò senza di cui non vi sarebbe elaborazione
costruttiva della stessa realtà fisica: «Si ode, non si cerca: si prende non si
domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità,
senza esitazioni nella forma – io non ho mai avuto scelta» (Nietzsche 1989,
135).
Solo tenendo fermo il carattere originariamente pragmatico del linguaggio,
delle sue regole e del suo immaginario, si possono oltrepassare le dicotomie
classiche tra soggetto ed oggetto, tra mente e corpo, tra natura e cultura, tra
positivismo e storicismo, tra fiscalismo e normativismo. In effetti, nella circolarità che s’instaura tra ascolto, capacità di recezione della realtà ed elaborazione costruttiva (creativa) e auto organizzativa dell’esperienza (oltre, appunto, la distinzione tra mente e corpo), si colloca l’esperienza unitaria del mondo
nel suo declinarsi nelle forme della narrazione (Brooks 1995, 7 e sgg.). Forme, queste, nelle quali si delinea, a sua volta, la stessa istanza etica di ogni
impresa intellettuale e cognitiva: «A me sembra importante, per il nostro concetto di responsabilità e per l’idea che abbiamo dell’essere umano, sostenere
con estrema fermezza l’unità di mente e corpo» (Bateson 1997, 457).
I fatti, i fenomeni di qualsiasi tipo, sono sempre filtrati da costellazioni ermeneutiche. In tal modo, «la razionalità non consiste più nello stato di costrizione secondo regole. Il pensiero diviene un’esperienza reale soltanto in quanto attraversa l’incrocio di stili differenti, di testualità variamente intrecciate tra
loro, al di fuori della normatività imposta dal codice invariante, unico ed esclusivo» (Gargani 1999, 136)
In questa prospettiva, viene a cadere «quella logica del doppio o della reduplicazione che aveva accompagnato le procedure della razionalità classica,
185
ossia l’esigenza di ricondurre, come già si notava, le operazioni intellettuali e
linguistiche ad un antefatto teorico, ad un contesto precostituito di legittimazione, in cui opera un soggetto paragonabile a un homunculus, a un demiurgo
che sarebbe il regista nascosto di qualsiasi atto e procedimento intellettuale e
simbolico» (ivi, 106).
In conclusione, si può così affermare che la transizione fra codici simbolici
differenti – e la possibilità che tale transizione sia trasgressione rispetto a canoni di lettura preordinati e quindi sia apertura critica a nuovi modi (innovativi e creativi) di vedere la realtà (sociale) – ha luogo allorché viene meno la
lettura del fenomeno linguistico-simbolico come rapporto “oggettodesignazione” e si comprende che le condizioni di significanza di un sistema
simbolico-linguistico e di un apparato di categorie grammaticali «non sono
funzioni di un dominio di oggetti indipendenti» (Gargani 1975, 45-46). Tali
condizioni piuttosto sono cristallizzazioni di un ambito relazionale di tecniche
d’uso (di prassi), la cui logica rimanda appunto ad un significato che si dà solo in quanto esso implica la regola della propria applicazione (Wittgenstein
1995; in merito si veda Gargani 1975, 46; Kripke 1984; Brandom 1994).
La rimozione del modello “oggetto-designazione” comporta l’emergere di
un multiversum semantico nel quale quel presunto dominio di oggetti indipendenti diventa una stratificazione di possibilità interpretative (ermeneutiche), una con-fusione di significati. L’idea moderna che vede nella distinzione
tra i saperi – ciascuno chiuso nella sua peculiare purezza – l’unica fonte di
progresso e di civilizzazione si palesa come un feticcio epistemologico, al
quale va contrapposta la consapevolezza che «ogni cultura (compresa la comunità dei dotti) in parte separa e in parte confonde» e che «ogni comunità
rivendica la prerogativa della distinzione, tacendo le proprie confusioni»
(Remotti 1995, 272; Geertz 1987; 1988).
L’uomo è un essere costitutivamente “storico”. Per questo, scriveva Robert
Musil ne L’uomo senza qualità, egli non può resistere a lungo in nessun luogo
in cui si trova (cfr. Musil 1962). Ernst Mach aveva ribadito: «die Geschichte
hat alles gemacht, die Geschichte kann alles ändern» – «la storia ha fatto tutto, la storia può cambiare tutto» (Mach 1982, 101).
In tal modo, separare ciò che tacitamente è confuso e confondere ciò che è
apparentemente distinto diventa il compito di una sociologia che voglia fare
del racconto un modello di comprensione della stessa realtà sociale, interponendo tra le forme simboliche delle nostre rappresentazioni sociali ed il linguaggio di una sociologia priva di immaginazione – e quindi di teoria – quel
filtro creativo alla luce del quale la prassi diventa forma critica del mutamento
sociale.
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Wright, G. H. 1977, Spiegazione e comprensione, il Mulino, Bologna (ed. or. 1971).
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(ed. or. 1970).
192
Nuove forme di lavoro nell’economia post-moderna.
La creatività a servizio della flessibilità
ROSITA GARZI
Dottore di ricerca in Istituzioni Giuridiche e mutamento economico-sociale
Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Perugia
[email protected]
1. Introduzione
A partire dalla fine del secondo millennio, le nuove tecnologie da una
parte e la globalizzazione dei mercati dall’altra cambiano radicalmente
l’economia contemporanea. I modelli industriali e organizzativi della società
moderna, sembrano non essere più adeguati a reggere l’impatto proveniente
dall’apertura di nuovi mercati e dall’utilizzo delle tecnologie di ultima
generazione applicate in tutte le fasi del processo produttivo, entrando in crisi
soprattutto nella
produzione, in cui il modello fordista che aveva
caratterizzato gran parte del Novecento, non risponde più alle nuove esigenze
del mercato. Emergono così nuove forme di organizzazione del lavoro che
modificano non solo le modalità lavorative interne alle imprese, ma anche la
gestione manageriale. Si sgretolano alcune delle certezze che hanno
caratterizzato la modernità al punto tale che i sociologi interessati alla
transizione in atto parlano di post-modernità1, di società dell’incertezza2, del
rischio3, o di dopo-modernità4. Pur nella loro diversità tutti questi appellativi
evidenziano una fase transitoria della società contemporanea, e indicano come
la riflessione degli studiosi abbia messo l’accento sulle problematiche
correlate all’instabilità dei sistemi sociali contemporanei in una fase di
trasformazione epocale.
1
Cfr. Maffesoli M. (2003), Notes sur la postmodernité, Félin, Paris.
Cfr. Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna.
3
Cfr. Beck U. (2001), La società globale del rischio, Asterios, Trieste.
4
Cfr. Donati P. (2001), Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come
relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino.
2
193
Effettivamente se si guarda soltanto dal punto di vista economicoproduttivo, la fine del XX secolo si caratterizza per l’investimento nelle nuove
tecnologie a servizio della catena e del controllo della produzione, per
l’internazionalizzazione economica, nonché per la delocalizzazione di attività
produttive in Paesi con manodopera a basso costo. I mutamenti in atto
permettono l’abbattimento di alcuni costi di produzione per le imprese, e al
contempo comportano l’immissione di prodotti a prezzi ridotti, con ricadute
sulla produzione di massa. Ne consegue che nel mercato dei Paesi Occidentali
nascono le prime questioni legate alla saturazione e accumulazione dei
prodotti nei magazzini, il sistema attraversa una fase di difficile cambiamento
e i meccanismi di risoluzione possibili possono portare rivoluzioni anche
all’interno del mercato del lavoro con ricadute su tutto il sistema sociale. Il
modello taylorista-fordista, riuscito a dominare la scena economica fino agli
anni Settanta, entra in crisi poiché i suoi metodi di produzione non rispondono
ai nuovi bisogni del mercato e l’organizzazione del lavoro, basata sulla
produzione standardizzata di grandi lotti, deve essere rivista per adeguarsi a
fabbisogni sempre nuovi. Contemporaneamente nei Paesi in via di sviluppo,
nascono nuove idee di organizzazione del lavoro5, in particolare in Giappone
dove un nuovo modello produttivo definito “snello”6 comincia ad estendersi
in numerose aziende. Si tratta di un modello basato sulla produzione di
piccole quantità di prodotti differenziati, e su principi opposti alle produzione
dell’epoca moderna fondata su grandi quantità di prodotti standardizzati
distribuiti su larga scala. L’impegno fondamentale diventa infatti la ricerca
della qualità e della competitività7, e la lean production, grazie alla
produzione just in time è in grado di adattarsi rapidamente ai cambiamenti del
mercato. In Occidente di questo modello si apprezza il principio della
flessibilità, che potrebbe rivelarsi utile per risolvere le problematiche
produttive e organizzative che la produzione fordista si trova ad affrontare. È
proprio sulla scia di questo modello che le imprese occidentali iniziano a
rivedere parte della catena produttiva, uscendo dal sistema rigido per
orientarsi verso la flessibilità, la qualità e il miglioramento continuo, ora
necessari per restare competitivi.
I cambiamenti organizzativo – produttivi hanno un’inevitabile ricaduta sul
sistema delle assunzioni e delle relazioni salariali, le quali non possono
mantenere la forma contrattuale del tempo indeterminato, ma al contrario
5
Per approfondimenti cfr. Coriat B. (1991), Ripensare l’organizzazione del
lavoro, Dedalo, Bari.
6
Cfr. Ohno T. (1999), Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino.
7
In questo modello produttivo cambiano strutturalmente anche i sistemi
occupazionali e le relazioni tra lavoratore e azienda. Il lavoratore è molto più tutelato
e l’azienda cura minuziosamente non solo il rapporto salariale con i suoi dipendenti
ma anche le relazioni umane. Cfr. Coriat B. op. cit., pp. 81-144.
194
devono assumere la veste della flessibilità continua. Il processo di produzione
si affida alle tecnologie che possono rispondere repentinamente alle richieste
del mercato ora sempre più differenziate per tipologia e per qualità,
risolvendo contemporaneamente due categorie di problemi: la completa
automatizzazione della catena produttiva e la produzione differenziata. Il loro
impiego comporta non soltanto la nascita di nuove professionalità del terzo
millennio, ma anche una trasformazione delle professionalità già esistenti8.
Cambiano così le modalità di lavoro legate alle attività semplici che rientrano
nella quotidianità di gran parte dei ruoli lavorativi, così come cambiano i
contesti in cui le stesse si svolgono.
Se consideriamo poi che in Occidente intorno agli anni Ottanta, grazie
all’aumento delle attività economiche dedicate ai servizi destinati alle imprese
e alle persone, e al crescente numero di impiegati che all’interno delle imprese
si occupano di attività non più strettamente legate alla produzione, ma anche
ai servizi, acquisisce un’importanza sempre più grande il settore terziario,
appare chiaro come in questo periodo si vada conformando una realtà
produttiva prima e lavorativa poi, assai complessa e diversificata. Si trasforma
sia la composizione del mercato del lavoro interno alle imprese, che puntano
sempre più alla flessibilità e all’inserimento di figure professionali nuove, sia
la strutturazione del mercato del lavoro esterno che vede l’incremento del
numero delle imprese del terziario. Il settore cresce fino a coinvolgere negli
anni Novanta oltre il 40% di quei lavoratori che precedentemente erano
occupati in altri settori dell’economia. Ma questo fenomeno di
terziarizzazione, se da un lato aumenta il numero di posti di lavoro
impiegatizio, dall’altro favorisce la crescita di una serie di attività lavorative a
basso contenuto professionale9.
8
Dal primo rapporto CENSIS del terzo millennio emerge come: «Lo sviluppo
della net-economy ha […] creato profili professionali del tutto nuovi, ha cambiato i
requisiti e le modalità di lavoro di un’ampia gamma di occupazioni ed ha
complessivamente innalzato i requisiti minimi di abilità nell’utilizzo delle tecnologie
dell’informazione, anche al di fuori dei confini specifici del settore, comportando la
nascita di una nuova domanda di competenze professionali che rischia di restare
ampiamente inevasa. Informazione e conoscenza, unita all’abilità nell’utilizzo delle
tecnologie, risultano i principali fattori di competitività per un tipo di occupazione che
diventa - di conseguenza - sempre meno stabile e sicura e per la quale, l’elevato grado
di alfabetizzazione alle ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione),
l’elevata qualificazione, autonomia, mobilità e, soprattutto, l’adesione completa ad un
modello di long life learning, divengono l’unico strumento in grado di garantire la
permanenza nel mercato del lavoro». CENSIS (2000), 34° Rapporto sulla situazione
sociale del Paese 2000, Angeli, Milano, p. 63.
9
Cfr. Bianchi F. – Giovannini P. (2000), Il lavoro nei Paesi d’Europa, Angeli,
Milano, pp. 111-146.
195
2. Nuovi modelli organizzativi e nuove forme di lavoro
L’influenza del toyotismo unita allo sviluppo tecnologico e ai fattori di
sviluppo appena descritti, generano la nascita di nuovi modelli organizzativi
basati sulla gestione del lavoro in team, sulla flessibilità e sulla delega di
responsabilità per processi lavorativi. In questo contesto il mercato del lavoro
si configura diversamente, diventando sempre più flessibile, anche e
soprattutto nelle modalità gestionali e contrattuali del lavoro. Al regime
fordista corrispondeva infatti una condizione professionale specifica basata
sulla stabilità, ovvero su un modello lavorativo concepito tramite un rapporto
salariale e sociale specifico e costruito nel corso del tempo anche dal diritto
del lavoro10. Si trattava sostanzialmente di un modello che garantiva
stabilità11, il cui tipo ideale era rappresentato da un padre di famiglia assunto
con contratto a tempo indeterminato dopo un periodo limitato di formazione.
Egli occupava per tutta la vita lo stesso posto all’interno della stessa impresa,
andando in pensione qualche anno prima della morte e dopo aver fatto una
modesta/grande carriera lavorativa.
Nella società contemporanea sotto la triplice pressione della concorrenza
del mercato, dell’evoluzione delle nuove tecnologie e dell’aumento dei livelli
di competenza e di qualifica professionale, questo modello di relazione
salariale viene spazzato via e sostituito da nuovi e svariati modelli applicativi,
differenziati a seconda dei diversi sistemi economici, giuridici e sociali di
ogni nazione. L’organizzazione gerarchico – piramidale tipica del modello
fordista, si sgretola in favore di un’organizzazione per obiettivi sicuramente
più moderna e adeguata.
Il nuovo modello produttivo prevede la dislocazione di interi settori
aziendali, e dunque la progettazione, gestione e organizzazione della
produzione per obiettivi di mercato. In questo sistema le tecnologie, abili ad
accorciare tempi e distanze, diventano fondamentali per la progettazione e
gestione delle attività, rendendo istantaneamente disponibili per un’azienda i
dati del mercato globale12. La loro potenzialità, quindi, incrementa ancor più
10
Cfr. Supiot A. (1999), Au delà de l’emploi, Flammarion, Paris, pp. 39-43.
«Di esso possiamo osservare la continuità al di là della varietà dei differenti
sistemi giuridici e istituzionali: dal modello universalistico scandinavo (fondato sulla
diffusione di servizi di welfare pubblici forniti in quanto diritti sociali
indipendentemente dallo status occupazionale dei soggetti) al modello assicurativo corporativo dell’Europa centrale, sino alle varianti del modello assicurativo proprie
dei paesi dell’Europa meridionale, fondate sull’importanza strategica della famiglia
quale istituzione di gestione dei rischi sociali e – per quanto concerne il mondo del
lavoro». Ivi, p. 17.
12
Cfr. Sennett R. (1999), L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo
sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, p. 51.
11
196
la possibilità di delocalizzare intere fasi del processo produttivo, e quindi
decentrare e delegare le responsabilità alle diverse sedi, con conseguenti
ricadute sul sistema lavorativo, sul singolo lavoratore e sulle modalità
contrattuali con le quali egli viene ‘integrato’ nel sistema produttivo. Dal
punto di vista meramente pratico-organizzativo ciascun territorio reagisce con
la creazione di un modello proprio. Effettivamente seppur dipendenti dalle
stesse pressioni, questi nuovi modelli hanno caratteristiche giuridiche e sociali
diverse a seconda del contesto giuridico, sociale e culturale di riferimento.
Nonostante non possano essere decritti in un modello unico di interpretazione,
essi condividono i principi che li hanno originati ovvero la richiesta di
flessibilità. Essa rappresenta una delle caratteristiche comuni a tutti i modelli
di organizzazione del lavoro ed è l’immagine del definitivo crollo della
stabilità tipica della società moderna.
La parola flessibilità, ormai conosciuta e discussa a tutti i livelli, porta con
sé una molteplicità di significati, forse non sempre chiari, che hanno dato
adito a fraintendimenti e differenti interpretazioni. Per il suo uso ricorrente e
pervasivo diviene un appello a un dover essere che ormai pare divenire un
obbligo quotidiano per ogni lavoratore. Numerosi sono i sociologi ed
economisti che hanno cercato di mettere chiarezza e di affrontare il tema sotto
molteplici aspetti, tra questi Jean Claude Barbier e Henri Nadel, i quali hanno
distinto con chiarezza la flessibilità del lavoro dalla flessibilità
dell’occupazione13. Se infatti, flessibilità, come concetto contrario a rigidità,
può essere applicato sia al lavoro, sia all’occupazione, questa differente
applicazione porta conseguenze profondamente diverse. Nel primo caso
significa «assicurare che l’attività umana specifica (cioè il fattore produttivo
lavoro) divenga malleabile ed adattabile alle diverse congiunture della
produzione [Essa] rappresenta incontestabilmente un progresso per
l’applicazione delle conoscenze e delle capacità individuali e collettive, al
contrario di un’attività povera e ripetitiva propria di un contesto rigido»14. La
flessibilità dell’occupazione indica invece una variabilità delle caratteristiche
del lavoro in termini di tempi, luoghi e condizioni lavorative, nonché delle sue
caratteristiche statuarie e giuridiche, mettendo in discussione «gli elementi di
garanzia e sicurezza»15 che da sempre hanno contraddistinto l’occupazione.
Nella loro teoria i due sociologi francesi si muovono a partire dalla
distinzione tra flessibilità interna e flessibilità esterna che descrivono
sottoforma di schema evidenziando le differenze tra la due forme. La
flessibilità interna si configura come capacità degli imprenditori di adeguare
13
Cfr. Barbier J. C. – Nadel H. (2002), La flessibilità del lavoro e
dell’occupazione, Donzelli, Roma, pp. 16-17.
14
Ivi, p. 17.
15
Ibidem.
197
la loro produzione al mercato in termini di prezzi, concorrenza e mercati; un
tipo di flessibilità questa influenzata e condizionata dalla volubilità dei mezzi
di produzione e delle strumentazioni a disposizione. I nuovi mezzi, in
particolare quelli ad alto contenuto tecnologico, permettono di flessibilizzare
al massimo la catena produttiva e conseguentemente anche i contratti di
lavoro, a seconda delle variazioni quantitative e/o qualitative del mercato. La
flessibilità interna è caratterizzata dunque da una molteplicità di elementi che
vanno «dal processo lavorativo fino alla possibilità di far variare il volume
dell’occupazione e la struttura organizzativa dell’impresa»16.
La flessibilità esterna è estremamente collegata agli aspetti appena presi in
esame e se la prima dipende dalla responsabilità del gruppo di management,
«le trasformazioni che comporta dipendono altrettanto dal diritto del lavoro e
dalle relazioni industriali che possono essere codificate in maniera molto
diversa a seconda dei paesi e dei settori di attività»17. Gli aspetti che
riguardano la flessibilità esterna sono oggetto di forte dibattito poiché
riguardano elementi estremamente importanti, come i tempi e le condizioni di
lavoro, la formazione e la mobilità interna/esterna, i costi salariali e gli oneri
sociali, tutti aspetti legati quindi al diritto del lavoro e che riguardano non solo
i lavoratori con contratti standard di subordinazione a tempo indeterminato,
ma anche e soprattutto i lavoratori che hanno un contratto di lavoro definito
‘atipico’. Questo avviene anche nel contesto italiano locale che non si sottrae
alle evoluzioni economico-organizzative di tutto l’Occidente.
Ciò che emerge dalle riflessioni di Barbier e Nadel, che per molti aspetti
sono in linea con il pensiero di Luciano Gallino18, è che l’impresa gode della
possibilità di modulare, in base al proprio ciclo produttivo, le caratteristiche
quantitative e qualitative dei propri dipendenti e/o collaboratori attivando o
interrompendo rapporti differenziati di lavoro e/o collaborazione attraverso la
messa in opera di modalità e tempi lavorativi differenziati. Emergono così
forme contrattuali nuove, diverse da quelle standard e definite per comodità
lessicale atipiche. La loro peculiarità è quella della massima flessibilità, del
lavoro ‘momentaneo’, utile e indispensabile in quel momento, per quel tipo di
attività e con quelle specifiche modalità. L’impresa acquisisce maggior libertà
nell’assunzione e gestione del proprio personale concedendo spazi di libertà al
lavoratore che grazie alle nuove forme contrattuali si sottrae ai tempi imposti
dal rapporto di subordinazione. Accade spesso però che nella realtà dei fatti
questo non si verifichi a tutti gli effetti, pare infatti che siano molte le imprese
che si relazionano con i propri atipici con atteggiamenti caratteristici del
contratto di subordinazione, imponendo loro orari e modalità di lavoro. È
16
Ivi, p. 25.
Ibidem.
18
Cfr. Gallino L. (1998), Se tre milioni vi sembran pochi, Einaudi, Torino.
17
198
questo però un problema complesso che richiede un contesto di
approfondimento più ampio e diverso da questo poiché apre un vivace
dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa da considerare sotto un
duplice aspetto: verso il mercato e verso la società.
Ciò che interessa maggiormente in questo contesto è piuttosto la nuova
conformazione del mercato del lavoro, che richiede ai lavoratori competenze
specializzate, capacità specifiche e abilità diverse da quelle del passato.
Capacità organizzative, di adattamento, di relazione e comunicazione,
autonomia, intraprendenza, dunque creatività, diventano indispensabili per il
lavoratore flessibile sempre più coinvolto nel processo di transizione da
un’economia di scala a un’economia flessibile. La sua condizione è la
conseguenza del fatto che alla fine del secondo millennio si compie l’ultimo
passaggio da un modello industriale di economia di massa a un modello postindustriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si sostituisce il
valore della produzione e quindi una concezione della crescita non più
quantitativa, ma qualitativa19.
3. Nuove forme di lavoro: flessibilità e creatività
Il III millennio si apre all’insegna della flessibilità dell’impresa e del
lavoratore, dell’occupazione e del lavoro, insomma si apre l’era di modalità
lavorative malleabili e adattabili a ogni fluttuazione del mercato. Le
condizioni di stabilità del lavoratore subiscono una lenta e profonda
evoluzione verso una maggiore libertà e autonomia del lavoratore che
equivale anche a una maggiore instabilità e precarietà lavorativa. Da una parte
dunque si apre lo spazio per la sua libertà ma dall’altra lo si “intrappola” in un
sistema che trasforma questa stessa in una nuova forma di dipendenza, dalla
precarietà. La società del lavoro, del posto fisso a vita, con possibilità di
carriera non esiste più, rimpiazzata dalla società dei lavori20 o come sostiene
Ulrich Beck, delle attività plurali21.
È questa una società caratterizzata dall’incertezza22, dall’instabilità e dalla
flessibilità continua e da un tipo di lavoro che per contenuti, modalità, spazi,
tempi e luoghi di svolgimento perde ogni continuità col modello fordista,
stabile e sicuro.
Il contenuto del lavoro diviene sempre più immateriale e
nell’organizzazione per obiettivi di lavoro, in team, le relazioni e i processi
19
Cfr. Reyneri E. (2002), Sociologia del mercato del lavoro, il Mulino, Bologna.
Accornero A. - Altieri, G. - Oteri, C. (2001), Lavoro flessibile. Cosa pensano
davvero imprenditori e manager, Ediesse, Roma.
21
Beck U. (2000), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi, Torino.
22
Cfr. Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna.
20
199
comunicativi divengono sempre più importanti sul piano personale e
professionale. Accanto alla realizzazione pratica del lavoro il vero lavoratore
autonomo deve avere grande capacità di astrazione, di soluzione dei problemi,
di progettazione e raggiungimento degli obiettivi. Se al lavoratore è affidata la
responsabilità di un compito specifico, il raggiungimento o il non
raggiungimento delle finalità legate al compito da svolgere, dipende
obbligatoriamente dalla buona o cattiva applicazione del piano progettato ed
attuato dal lavoratore stesso. Ne consegue che nelle sue mani egli tiene la
massima autonomia e libertà ma anche la massima responsabilità della
riuscita di un progetto o di un prodotto. Una delega di responsabilità così
marcata può incidere profondamente sull’attività quotidiana e dipendere
anche dal supporto tecnico che l’impresa è in grado di fornire ai propri
lavoratori. Egli può sentirsi imprenditore di se stesso e avvertirlo come una
grande opportunità che gli viene data, ma può anche vivere questa condizione
come una fonte di ansia e di insicurezza. Tutto dipende non solo dal supporto
fornito dall’impresa ma anche dalla fiducia in se stesso che egli è in grado di
sviluppare in base alla proprie attitudini, alle proprie capacità e alla struttura
della propria personalità. In questo senso il lavoro flessibile può non essere
alla portata di tutti e venire recepito o come un’occasione o come un ‘peso’.
Anche gli spazi e i luoghi del lavoro flessibile cambiano forma, per la
dislocazione fisica dell’impresa sul territorio e per la sua stessa dimensione.
Se la grande impresa aveva confini delimitati nello spazio aziendale ed era
ben separata dallo spazio personale e familiare, ora nella flessibilità questa
divisione non è più così netta a causa soprattutto di una mancata regolazione
dei tempi di lavoro. Quando si è flessibili si può lavorare in ogni luogo, in
azienda con strumenti messi a disposizione o a casa, in macchina, in treno con
i propri mezzi. La disponibilità alla flessibilità lavorativa comporta una
difficile suddivisione tra spazi e luoghi di lavoro, e spazi e luoghi di vita
privata e familiare, anche e soprattutto a causa della destrutturazione dei
tempi e degli orari di lavoro.
Contrariamente al modello standardizzato e omogeneo in cui il tempo era
calcolato minuziosamente e ritenuto fondamentale nel calcolo della
produzione, il tempo della flessibilità è sempre più individualizzato e regolato
dai ritmi di lavoro del singolo che, sulla base di accordi con il datore di lavoro
sceglie quando lavorare e in quanto tempo portare a termine il lavoro. La
destrutturazione dei tempi e degli orari di lavoro da una parte agevola il
lavoratore che si sente libero di organizzarsi rispettando i propri tempi e le
proprie capacità organizzative permettendosi di considerare anche altre
possibilità lavorative da incastrare nei tempi liberi a disposizione, dall’altro
però questa mancanza di separazione tra tempi di lavoro e tempi personali non
favorisce né la creazione di spazi di svago e di riposo, né tanto meno la
200
costruzione di rapporti sociali e di relazioni familiari23. La cosa più importante
per il lavoratore diventa terminare il lavoro nei tempi previsti, anche a costo
di incrementare i ritmi di lavoro nei giorni immediatamente precedenti la
presentazione di un progetto o la consegna di un prodotto, a discapito delle
relazioni della vita sociale.
La libertà e l’autonomia in questo sistema possono avere conseguenze di
carattere sociale controproducenti per il lavoratore stesso. Inoltre la scelta
della flessibilità non è sempre spontanea, spesso è obbligata e la paura di chi
vive questa condizione non è quella di non trovare mai un contratto a tempo
indeterminato, ma piuttosto di rimanere incastrato nel sistema della flessibilità
e di vivere sempre col terrore della precarietà. Questo è ciò che sembra
accadere in Italia, come emerge dalla ricerche CENSIS24 recentemente svolte
tramite interviste ai lavoratori flessibili. La realtà non è specifica del solo
contesto italiano, lo stesso Beck25 presentando la sua teoria sulla modalità
organizzative del lavoro flessibile, descrive come la difficoltà più grande per i
lavoratori sia proprio il comprendere i reali meccanismi di funzionamento del
mercato flessibile considerato che, anche se con percentuali e frequenze
differenti, praticamente tutte le figure professionali e i ruoli lavorativi sono
toccati dai principi della flessibilità. Non si può dunque non evidenziare la
caratteristica fondamentale di questo fenomeno che è l’instabilità e
l’insicurezza. Se un tempo esse erano peculiari di un determinato strato
sociale, oggi riguardano anche i manager d’impresa e i professionisti con un
elevato livello di qualificazione. Si allarga così una classe di lavoratori
costantemente a termine, che ingloba anche coloro i quali, impiegati in settori
investiti di competenza tecnica, prestigio e stipendio elevato, non erano mai
stati toccati dall’insicurezza. Lo stesso accade nei settori in cui nascono posti
di lavoro nuovi come nell’alta tecnologia, in cui le imprese più grandi e
potenti ricorrono molto frequentemente e sempre più spesso a forme
contrattuali flessibili. Ciò comporta che ai lavoratori venga chiesto anche un
progetto di vita consono e adeguato allo stile di lavoro e al tipo di relazione
contrattuale che egli stipula con l’azienda. In questo modo le grandi imprese
ridisegnano anche la composizione e strutturazione gerarchico – sociale del
mercato del lavoro e del sistema sociale stesso26. Con l’applicazione di questi
23
Per uno studio sul tempo del lavoro nella flessibilità si veda: Fraccaroli F. –
Sarchielli G. (2002), È tempo di lavoro? per una psicologia dei tempi lavorativi,
CLUEB, Bologna.
24
Cfr. CENSIS (2003), Ci penserò domani. Comportamenti, opinioni e attese per
il futuro dei co.co.co., Roma, Maggio; e CENSIS (2005), 39° Rapporto sulla
situazione sociale del Paese 2005, Angeli, Milano.
25
Cfr. Beck U. (2000), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle
sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino.
26
Ivi, pp. 170-172.
201
meccanismi di lavoro i percorsi professionali non possono mantenere la
linearità che hanno sempre avuto. Se la flessibilità fa saltare gli schemi della
sicurezza e della continuità del lavoro, i percorsi professionali divengono
frammentari e privi di una previsione per il futuro perché in balia
dell’instabilità.
Anche su questo la flessibilità formula delle richieste al lavoratore che
rinuncia ad una progettualità futura sia professionale sia personale. Il
lavoratore deve essere versatile, pronto al cambiamento, disponibile a
superare le barriere di separazione tra vita e lavoro e ad invadere il tempo e lo
spazio della vita personale con attività lavorative. Infine ma non per ultimo,
egli deve essere pronto a rischiare su se stesso, accettando di intraprendere
una strada, senza avere la certezza che sarà quella che lo porterà verso la
stabilità e la sicurezza.
Perde così di valore il concetto di ‘carriera’ nel senso tradizionale del
termine lasciando spazio al termine ‘opportunità’, nel senso di occasione di
lavoro che permette di crescere, di allargare le proprie esperienze e di
arricchire la propria professionalità. Le opportunità di lavoro vengono
accettate a discapito della possibilità di programmare e progettare il futuro
con un certo margine di prevedibilità e sicurezza. Si incrementano le
transizioni di ruolo e le ‘passerelle’ tra i differenti ambiti lavorativi e attività,
si pone così il problema di fornire una linea di indirizzo unitaria alle
frammentarie occasioni lavorative che spesso permettono l’acquisizione di
competenze non trasferibili da un settore ad un altro. Si tratta di creare un filo
conduttore che tenga unite le diverse esperienze lavorative, così da fornire
almeno una veduta d’insieme del lavoro in grado di ipotizzare una qualche
forma di sicurezza.
A questo proposito Serge Paugam27 definisce i nuovi lavoratori “salariati
della precarietà” distinguendo due forme di insoddisfazione dei lavoratori:
verso il lavoro e verso l’impiego. I precari sono insoddisfatti quando,
indipendentemente dalla forma contrattuale, svolgono un’attività che non
stimola il loro interesse e che è poco valutata all’interno dell’impresa; allo
stesso modo la precarietà e l’insoddisfazione possono essere date da un
impiego che non essendo stabile, non permette una progettualità professionale
e personale.
I lavoratori del terzo millennio si muovono così all’interno del mercato
flessibile passando da un contratto ad un altro, talvolta felici di essere liberi di
sceglierlo ma talvolta obbligati dagli eventi ad accettarlo. Questa sottospecie
27
Paugam S. (2000), Le salariés de la précarité. Les nouvelles formes de
l’intégration professionnelle, PUF, Paris.
202
di carriera “a linee tratteggiate” Beck la chiama “funambolismo”, che diventa
«il paradigma della biografia e della normalità sociale»28.
Effettivamente se ci si trova costantemente flessibili e pronti a cambiare
strada qualora venga richiesto, non si capisce come possa esistere una
narrazione del proprio percorso professionale continua e definita nel tempo.
Anche perché ciascun lavoratore ha una grande responsabilità di condotta
verso se stesso e nelle sue scelte non può prescindere dalla volontà di
immaginarsi e progettare la propria vita in un futuro privo di certezze. La
cultura del rischio nata con lo sviluppo produttivo della società
contemporanea e diventata un obbligo per gli imprenditori che vogliano
mantenersi competitivi nel mercato globale, diventa ora una prescrizione per i
lavoratori. Essi devono essere capaci di mettersi in gioco, accogliere le sfide
dell’era globale e accettare di basare la propria vita sul sistema del rischio che
diventa il criterio principale di selezione nel modello post-fordista. Tra le
capacità e le caratteristiche del lavoratore flessibile domina dunque la
creatività. Nella gestione dei contenuti, dei tempi e degli spazi di lavoro, essa
può rappresentare una possibilità per il lavoratore per restare competitivi nel
mercato, differenziandosi per capacità di soluzione di problemi sempre più
complessi e articolati. Al contempo la creatività appare come una necessità
inevitabile per resistere alle pressioni e adeguarsi ai mutamenti del mercato. Il
lavoro flessibile diventa dunque un mezzo di espressione delle proprie
potenzialità e delle proprie capacità di rischio, considerato che chi non vuole
rischiare o non ha la possibilità di farlo non può neanche permettersi di essere
vincente sul mercato e acquisire un minimo di stabilità dentro la flessibilità.
Il lavoro flessibile agevola le condizioni per l’apertura di numerose
relazioni e contatti professionali. L’abilità nell’intessere questo tipo di
relazione può essere una difesa contro la precarietà, ma non basta. Il
lavoratore deve possedere forti capacità relazionali che, insieme
all’apprendimento di competenze trasferibili da un contesto lavorativo ad un
altro e alla capacità di connettere esperienze diverse tra loro, possono aiutare
il lavoratore a non farsi travolgere dal sistema della precarietà. Competenza,
formazione e abilità comunicativo – relazionali diventano indispensabili nel
processo di formazione del senso di appartenenza sociale in una società
liquida fatta di contesti instabili. Ancora una volta il mercato del lavoro
flessibile appare come un sistema regolato dall’insicurezza, dal rischio e dalla
delega di responsabilità in cui tutto spetta al lavoratore e alle sue capacità
creative.
28
Beck U., op. cit, p. 170.
203
4. Conclusioni
Nel quadro appena descritto appare d’obbligo riprendere le parole di John
Stuart Mill29, il quale influenzato dal pensiero di Adam Smith, descrisse i
mercati come dei teatri di una vita pericolosa e stimolante. Questi due
aggettivi oggi più che mai si associano alla flessibilità e a coloro che vivono
nel suo contesto, rappresentando le due differenti maniere di viverla, come
un’opportunità stimolante per crescere, o come un fenomeno che porta al
pericolo di instabilità sociale. Mill ha parlato a lungo di flessibilità,
concependola come un’occasione di libertà personale e ancora oggi si
vorrebbe pensare che essa sia indispensabile per il libero agire umano. Ove
c’è possibilità di cambiare c’è anche possibilità di essere liberi di farlo, ma
purtroppo non sempre questo si realizza con questa accezione e non tutti
riescono a vedere la flessibilità soltanto in questa veste30.
Una via di “sopravvivenza” possibile e necessaria che resta ai lavoratori è
rappresentata dalla creatività, nonché dall’istinto delle combinazioni di
paretiana definizione31, per trovare soluzioni possibili a problemi sempre
nuovi e per essere all’altezza di un mercato del lavoro sempre più complesso e
articolato.
29
Mill J. S. (1983), Principi di economia politica, Utet, Torino.
Cfr. Sennett R. (1999), L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo
sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, p. 46.
31
Cfr. Pareto V. (1988), Trattato di Sociologia generale, UTET, Torino; e anche
Federici M.C. (1991), Dove fondano le libertà dell’uomo, Borla, Roma.
30
204
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207
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Sviluppo locale e identità
DANIELA GRIGNOLI e ANTONIO MANCINI1
Università degli Studi del Molise
Dipartimento di Scienze Umane, Storiche e Sociali
Via F. De Sanctis 86100 Campobasso, Italy
[email protected] - [email protected]
1. Premessa
Nell’ambito del processo di attivazione delle politiche di sviluppo, la riflessione condotta dall’Unità di ricerca del Molise, che è parte del lavoro del
programma di ricerca biennale “Innovazione nei sistemi locali di sviluppo
della Terza Italia” e persegue obiettivi comuni a quelli indicati nel progetto
generale, intende analizzare all’interno del territorio della regione Molise se, e
fino a che punto, le attività imprenditoriali al femminile si costituiscono come
dimensione per lo sviluppo in applicazione dell’Indice di Sviluppo Umano
(Human Development Index) correlato al genere (Gender Development Index), e del mainstreaming delle pari opportunità come misura di potere correlata al genere (GEM)2. Seguendo questa linea di studi, la ricerca si riferirà a
lavori precedenti sulla tematica specifica e a lavori di più ampio respiro interessati al tema dello sviluppo e dell’imprenditorialità, per proporre poi ulteriori riflessioni3.
1
Il presente lavoro è frutto di una riflessione comune ed ampiamente condivisa dagli Autori. Tuttavia, in termini formali, a D. Grignoli vanno attribuiti i paragrafi 1, 2, 3, 6 e 7 e ad A.
Mancini i paragrafi 4, 5 e 8.
2
In particolare, l’indice che misura il Gender Empowerment Mainstreaming (GEM) utilizza 4 variabili esplicitamente costruite per misurare l’empowerment relativo a donne e uomini
nella sfera delle attività economiche e politiche – vale a dire, quote percentuali di uomini e
donne nelle posizioni amministrative e manageriali, quote proporzionali di lavori professionali
e tecnici, quote di seggi parlamentari attribuiti a donne e uomini, quota proporzionale di reddito
maschile e femminile (cfr. sito web: http://portal.unesco.org).
3
Su questo tema si vedano i recenti lavori di Battisti e Minardi (2006); Giardiello (2006);
Grignoli e Mancini (2006) e, in generale, i recenti studi condotti nell’ambito del Programma
Nazionale di Ricerca – Anno 2004 “Innovazioni nei sistemi locali di sviluppo della Terza Italia:
209
2. Verso un punto di sintesi dello sviluppo
In Italia la riflessione scientifica sull’imprenditorialità inizia negli anni
sessanta e offre una sola dimensione e una sola direzione dello sviluppo, di
tipo economico e “dall’alto”, rispettivamente. Lo sviluppo, seguendo questo
paradigma, dovrebbe essere implementato per la sola azione dei governi centrali. Tuttavia, ciò non accade in quanto lo sviluppo non è solo la sintesi di
punti di vista teorici o di volontà politiche, ma è il prodotto di differenti variabili e circostanze, cosicché, di fatto, il modello top-down produce sviluppo,
ma solo in parte.
In questo periodo, dunque, il cuore dello sviluppo non ha sede nell’organo
centrale (lo Stato), che nell’ottica dello sviluppo top-down avrebbe il compito
di programmare e di proteggere l’industria nascente, nonché di promuoverne
la pianificazione, ma è una questione il cui fondamento va ricercato nella società stessa, o ancora meglio nel mutamento economico-sociale intervenuto
nella società italiana degli anni sessanta e nelle profonde trasformazioni delle
sue condizioni materiali e sociali.
Ciò detto, in questo tipo di società dall’architettura complessa e in trasformazione, lo sviluppo è relativamente omogeneo e vive una crescita, una diffusione culturale e una promozione dell’industria (quasi) priva di programmi e
(quasi) sprovvista di uniformità territoriale.
Negli anni settanta, gli anni dell’avvio della cosiddetta società postindustriale, gli effetti del processo di crescita economico-industriale irregolare
diventano ancora più evidenti, al punto da mettere radicalmente in discussione
la base sulla quale lo sviluppo economico-sociale viene ad essere definito. Il
punto di vista dello sviluppo si adatta alle nuove condizioni e viene ad essere
capovolto, ovvero si afferma una direzione della sviluppo economico “dal
basso” (bottom-up) che viene ad essere coniugato a concetti di evoluzione sociale e culturale. Nella nuova idea dello sviluppo economico è necessario ridefinire le dimensioni che contribuiscono ad alimentarla. Ciò detto, si coglie
l’interesse dello sviluppo economico per il ruolo che assume la dimensione
sociale che è da ricollegare alla complessità del sistema sociale in cui si ritrovano ambiti di studi territoriali4 e di differenziate aree locali di sviluppo che
danno risalto a fattori socio-culturali ed istituzionali.
In seguito, con l’aumento della complessità, si afferma una forma di sviluppo economico che auspica un migliore equilibrio tra i due diversi punti di
vista dello sviluppo – quello top-down e quello bottom-up – in modo da evitare che le tendenze dello Stato ad invadere il territorio scarichino su
indicazioni per nuove strategie di governance”, in parte già pubblicati in Battisti (2006).
4
Sullo sviluppo economico, con particolare riferimento alle problematiche dello sviluppo
di economie “periferiche”, si vedano, tra gli altri, Artioli (1975), Bagnasco (1977), Bagnasco,
Messori e Trigilia (1978), Stevenson (1975).
210
quest’ultimo le tensioni che esso non riesce a risolvere. Questa linea interpretativa genera una nuova azione dei governi, indicata con il termine governance, diversa dal modello tipico gerarchico top-down, e caratterizzata da un grado di cooperazione e di interazione tra Stato e attori non statuali con una logica di governo dello sviluppo dal basso. Dunque, la nuova governance, in linea
con il modello di governo della società e dell’economia europea, appare necessaria per la società, ma non può essere imposta alla società.
Per creare sviluppo ogni azione di governance deve favorire il processo di
mobilitazione “dal basso” di tutte le risorse che esistono a livello locale, valorizzando il ruolo delle Autonomie locali e dei “corpi sociali intermedi” e individuandoli come attori sociali dello sviluppo e della coesione sociale5.
In definitiva, potremmo dire che lo sviluppo è tanto maggiore quanto più
l’azione di governance è in grado di gestire e armonizzare l’azione dello Stato
e degli attori non statuali con una logica di governo dello sviluppo dal basso,
tanto da non creare contrasto tra loro, ma da creare condizioni favorevoli alla
valorizzazione del territorio attraverso il superamento degli orientamenti particolaristici/localistici e il potenziamento della “identità” territoriale.
3. Nuove prospettive di studio dello sviluppo
Il punto di equilibrio tra le due diverse prospettive dello sviluppo apre
nuove linee di studio atte ad individuare indicatori di sviluppo non più solamente economici, ma anche relativi a risorse umane e culturali6. In questo
scenario, lo sviluppo che penetra nel ed emerge dal territorio raggiunge “il
processo produttivo completo”, ovvero l’insieme delle attività consapevoli e
inconsapevoli “che sono necessarie per riprodurre i presupposti materiali e
umani della produzione stessa” (merci, valori, conoscenze, istituzioni, ambiente naturale), solo quando è parte integrante dei caratteri socio-culturali dei
luoghi in cui si realizza7.
Sebbene il ricorso a fattori non economici, per spiegare l’intensità e le modalità dello sviluppo economico, si istituzionalizzi soltanto negli anni settanta,
esso ha una lunga tradizione sociologica che inizia con le ricerche di Durkheim e Weber e che raggiunge il suo momento di apoteosi con l’espressione
“capitale sociale”8. Il concetto di capitale sociale contiene un disegno proget5
Si veda, in proposito, il Rapporto della Commissione delle Comunità Europee “La governance europea. Un libro bianco”, 25 luglio 2001 (http://europa.eu.int/eurlex/it/com/cnc/2001/com2001_0428it02.pdf. Accesso al 20 dicembre 2005), e la “Riforma del
Capo V della Costituzione” apportata con la Legge Costituzionale n. 3/2001.
6
O. Hirschman sostiene che “lo sviluppo dipenda non tanto dal trovare le combinazioni ottimali delle risorse e dei fattori di produzione dati, quanto dal suscitare risorse e capacità nascoste, disperse o malamente utilizzate” (1969, p. 6).
7
Cfr. Cersosimo (2001, p. 12).
8
La formula adottata di “capitale sociale” unisce il capitale, elemento fondamentale in eco-
211
tuale sia da un punto di vista terminologico, in quanto coniuga due termini distintivi di due ambiti di studio e di ricerca delle scienze umane – l’economia,
con il termine “capitale”, e la sociologia, con il termine “sociale” –, sia da un
punto di vista teorico, laddove la sociologia accoglie il paradigma economico
e concede una conoscenza di cui gli economisti stessi dichiarano di aver bisogno, ossia di quell’insieme delle relazioni sociali che può costituire una risorsa utile per gli individui9.
L’idea di capitale sociale è così ampia e complessa che, oltre ad essere
trattata dalla letteratura teorica, viene ad essere affrontata anche in diversi
contributi empirici e di storia economica. Come ha posto in evidenza Putnam10 (1993), il tema del capitale sociale ha trovato valide argomentazioni in
relazione alla sua applicazione allo studio dello sviluppo locale italiano. In
merito, Putnam individua una “relazione positiva” tra senso civico, produttività delle istituzioni e sviluppo economico. In particolare, egli spiega il dualismo esistente in Italia tra le aree del Centro-Nordest e del Sud attraverso la
dotazione di capitale sociale, ossia la maggiore dotazione di capitale sociale al
Nord permette un migliore rendimento delle istituzioni e una crescita economica.
Seguendo questo fil rouge è possibile affermare che le regole di reciprocità
e di cultura civica facilitano la diffusione delle innovazioni nei distretti – ovvero, promuovendo lo sviluppo delle conoscenze come risorsa, il capitale sociale favorisce a sua volta la circolazione dei rapporti fiduciari all’interno delle imprese e tra le imprese (Trigilia, 2001), e chiarisce come la struttura sociale della “Terza Italia” favorisca la creazione di distretti. Caratteristica dei distretti sarebbe, d’altra parte, secondo l’analisi di Becattini (2000), proprio il
“modo con cui si accoppiano le variabili socioculturali (valori, istituzioni e
sapere diffuso) con quelle più strettamente economico-produttive (disponibilità di capitale, sapere scientifico-tecnico, ecc.)”11.
In questa breve e non esaustiva rassegna sul come può essere trattato il
concetto di capitale sociale è utile ricordare che anche l’Istat, con il progetto
di ricerca “Atlante del capitale sociale e delle istituzioni in Italia” (Righi,
2002), ha abbracciato l’idea di capitale sociale al fine di costruire un set di variabili che si riferiscano alle sue molteplici dimensioni e per permetterne una
concettualizzazione univoca e riconosciuta per la sua rilevazione.
nomia, con il sociale, oggetto di analisi della sociologia. Per ulteriori approfondimenti cfr. Mutti (1998) e Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigilia (2001). Inoltre, si veda il sito web:
www.ex.ac.uk/shipss/politic/research/socialcapital/index.htp.
9
In proposito si vedano i lavori di Coleman (1988, 1990).
10
I lavori di Robert Putnam, insieme a quelli di Francis Fukuyama, costituiscono veri e
propri studi di riferimento in materia.
11
Citato in Micucci e Nuzzo (2003). Degli stessi Autori sono alcune delle riflessioni che
precedono.
212
Da queste riflessioni emerge l’interrogativo sulla direzione di causalità tra
benessere economico e accumulazione di capitale sociale, vale a dire se sia la
disponibilità di capitale sociale a favorire lo sviluppo economico, e in particolare a favorire lo sviluppo dei sistemi di piccole e medie imprese, o se, al contrario, sia la prosperità economica che contribuisce all’accumulazione di capitale sociale. La questione pone diverse difficoltà di non facile soluzione, tra le
quali almeno due sembrano essere le più evidenti. La prima è generata dalle
caratteristiche stesse del tessuto economico-sociale: in questo contesto le caratteristiche sono a un tempo causa ed effetto della dimensione economica e
del capitale sociale. La seconda difficoltà nasce, così come lo era stato per
l’esemplificazione del modello di sviluppo top-down, dal non poter applicare
nella pratica i principi teorici, in quanto nella vita quotidiana non troviamo
applicazioni pure dei principi di sviluppo economico o di capitale sociale, ma
pratiche economiche e sociali che traducono in modus operandi i diversi principi interpretativi e le differenti teorie causali.
Come si evince da quanto detto, il capitale sociale non può essere definito
come il fattore esplicativo dello sviluppo economico, e viceversa lo sviluppo
economico non spiega il capitale sociale. Tuttavia, si può affermare che la dotazione di capitale sociale è un vantaggio per la società nel suo insieme in
quanto promuove valori di responsabilità e di solidarietà sociale che orientano
la complessità sociale verso l’integrazione delle cosiddette differenze e, in
particolare, verso la solidarietà delle differenti identità territoriali così da non
assolutizzare un solo sistema di sviluppo.
4. Sviluppo economico, capitale sociale e territorio
A fronte di quanto descritto, il ruolo svolto dal processo di sviluppo economico e dal processo di accumulazione di capitale sociale in un determinato
territorio producono effetti diversi, alcuni dei quali sono oggetto di riflessione
ai fini del nostro lavoro di ricerca. In particolare, la nostra attenzione ricade in
primis sull’evoluzione del concetto di sviluppo e sulla funzione
dell’imprenditorialità.
In questo scenario, lo sviluppo economico-imprenditoriale, se da una parte
mette in atto processi competitivi che potrebbero risultare in un primo momento socialmente negativi, dall’altra permette di comprendere la valorizzazione delle specifiche competenze di una determinata impresa e di promuovere una mentalità collaborativa fra gli imprenditori, al fine di attivare il meccanismo di creazione di capitale sociale, così da considerare l’imprenditore come il fautore del processo di cambiamento e il creatore di nuove opportunità.
Una seconda questione, che in un certo qual modo contempla e completa la
prima, si costituisce anche come il punto di partenza della nostra analisi e si
213
esemplifica nel fatto che in Italia vi sono diversi modelli di sviluppo legati ad
un territorio e alla valorizzazione delle differenze, anche in termini di differenti agenti economici (fra cui le imprenditrici, secondo la nostra ipotesi) che
potrebbero rivelarsi più vitali sia nei periodi di prosperità che in quelli di difficoltà.
La ragione di quanto detto è da rinvenirsi nelle modalità di costruzione del
territorio, ossia il territorio si genera e si ri-costruisce nel tempo in modo originale ed unico, in quanto strettamente connesso all’ambito delle realtà locali
in cui ciò avviene. Seguendo questa riflessione, nel prossimo paragrafo si offrirà una descrizione dell’ambito territoriale di riferimento attraverso la lettura
di alcune caratteristiche in grado di offrire una sintesi della situazione socioeconomica locale12.
5. L’esperienza dello sviluppo locale in Molise
5.1. Alcune evidenze empiriche
Lo scenario demografico. La regione Molise, divisa in due province, con
Campobasso capoluogo di regione con 84 Comuni e Isernia con 52 Comuni, è
una delle regioni meno densamente popolate d’Italia con valori superiori solo
a due altre regioni della penisola, la Basilicata e la Valle d’Aosta. Il Molise,
sulla base dell’ultimo Censimento13, ha una popolazione di 320.601 abitanti
distribuiti 230.749 sulla provincia di Campobasso e la restante parte (89.852)
sulla provincia di Isernia. Inoltre, bisogna considerare che la popolazione molisana a partire dal 1980 fino al 1990 è aumentata, da 334.703 abitanti a
336.456, per poi contrarsi nel 2004 (321.953 abitanti).
Tab. 1 - Numero di residenti: confronto Molise e Italia (v.a. in migliaia),
Anno 2001
Territorio
Molise
Italia
Popolazione
320.601
56.995.744
Fonte: Istat, 2001.
12
Per ulteriori informazioni sullo stato di progresso e di innovazione compiuto dalla regione Molise è possibile riferirsi all’European Innovation Scoreboard (EIS), ossia al sistema costituito da 22 indicatori principali elaborati dalla Commissione Europea a seguito del Consiglio
Europeo di Lisbona.
13
Cfr., in proposito, Istat (2001).
214
Per quanto riguarda il suo assetto demografico, in Molise si registra una
forte presenza di anziani (di questi ben il 5,2%, una persona su venti, appartiene alla categoria dei cosiddetti “grandi anziani”, ossia persone che hanno
oltre 80 anni). La stessa piramide dell’età (Grafico 1) riflette la tipica forma a
fuso che caratterizza l’intera società italiana, con una base piuttosto ristretta e
con una dimensione consistente nelle fasce d’età centrali. Ancora, il Molise è
al secondo posto fra le regioni italiane a più bassa natalità.
Graf. 1 - Il Molise per classi di età, Anno 2001
Piramide dell'età in Molise (Anno 2001)
Da 85 e più
Da 80 a 84
Da 75 a 79
Da 70 a 74
Da 65 a 69
Da 60 a 64
Da 55 a 59
Da 50 a 54
Da 45 a 49
Da 40 a 44
Da 35 a 39
Da 30 a 34
Da 25 a 29
Da 20 a 24
Da 15 a 19
Da 10 a 14
Da 5 a 9
Meno di 5
Maschi Femmine
Fonte: Istat.
La composizione per sesso della popolazione si modifica nelle diverse
classi d’età. Nella popolazione più giovane si rileva una lieve prevalenza di
maschi; tuttavia, con il passare dell’età questa situazione si capovolge a favore delle donne tanto che nel complesso la popolazione femminile (164.760 unità) è più numerosa di quella maschile (155.841 unità): più precisamente, per
ogni 100 donne si contano 94,6 uomini e nelle due province il rapporto di mascolinità è poco dissimile (95,1 ad Isernia e 94,4 a Campobasso).
L’istruzione. Il grado di istruzione della popolazione molisana non è elevato.
Solo il 3% del totale ha la laurea, il 17% è in possesso del diploma e ben
l’80% della popolazione presenta un basso tasso di scolarità, non avendo nep215
pure la licenza elementare (Tabella 2).
Tab. 2 - Grado di istruzione della popolazione in Molise (%), Anno 2004
Popolazione
Alfabeti senza titolo
Licenza elementare
Licenza media
Diplomati
Laureati
%
23
30
27
17
3
Fonte: Istat, 2004.
Nello specifico, per quanto riguarda i percorsi formativi seguiti dalla popolazione degli occupati, si rileva che il lavoratore molisano o non ha alcun titolo di studio o è in possesso, per il 12,2 %, della licenza elementare, per il
34,2% del diploma di scuola media inferiore, per il 4,1% di una qualifica che
non permette l’accesso all’università, mentre il 36,6% è in possesso di un diploma di istruzione superiore, lo 0,8% ha conseguito un diploma universitario
e infine il 12,1% ha conseguito la laurea o il dottorato.
Disaggregando i dati per genere, si rileva che le donne occupate hanno in
media una scolarizzazione più elevata (Tabelle 2a e 2b).
Tab. 2a - Grado di istruzione dei maschi occupati in Molise (v.a. in migliaia),
Anni 1996-2003
Anni
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
Dottorato
Laurea
6
6
6
6
6
6
7
7
Diploma
univ.
Laurea
breve
0
0
0
0
1
1
0
0
Maturità
Qualifica senza
accesso
Licenza
Media
19
19
20
20
22
23
24
25
3
3
3
3
3
4
4
3
26
27
27
27
27
28
26
27
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat.
216
Licenza
elementare
nessun
titolo
15
14
13
12
12
11
9
9
Totale
69
69
69
70
71
71
71
72
Tab. 2b - Grado di istruzione delle femmine occupate in Molise (v.a. in migliaia), Anni 1996-2003
Anni
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
Dottorato
Laurea
4
4
5
5
4
5
6
6
Diploma
univ.
Laurea
breve
0
1
0
1
1
1
0
1
Maturità
Qualifica
senza accesso
Licenza
Media
11
12
12
13
14
15
16
15
2
2
1
2
2
2
2
2
10
10
10
10
11
11
10
10
Licenza
elementare
nessun titolo
9
9
8
6
6
5
5
4
Totale
36
37
37
36
37
39
38
38
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat.
L’economia. Nonostante che nel corso degli ultimi anni il Molise abbia fatto
registrare un discreto sviluppo economico, in particolare se confrontato alle
altre regioni meridionali, la regione non ha ancora una situazione economica
che possa definirsi rosea. Confrontando i dati economici di fine 2002 segnati
dalle due calamità naturali che hanno interessato la Regione (terremoto ed alluvione), con quelli relativi agli anni precedenti, si nota come tutti i settori economici, anche se in misura diversa, abbiano subito conseguenze negative14.
Ancora nel 2004 il prodotto interno lordo (PIL) regionale rappresenta solo
0,5% del PIL nazionale, un dato, questo, che pone il Molise in una situazione
di forte inferiorità rispetto al valore nazionale.
Un altro deficit proprio del Molise riguarda il sistema infrastrutturale. Sebbene la rete stradale registri degli indici di dotazione infrastrutturale superiori
alla media nazionale (l’indicatore generale relativo alle infrastrutture della
provincia di Campobasso è pari a 64,4 fatto 100 quello nazionale)15, la viabilità regionale è insufficiente per rispondere ai bisogni delle dinamiche di svi-
14
Il comparto agro-alimentare risulta essere quello maggiormente danneggiato, anche se ripercussioni notevoli si registrano nel settore industriale e in quello commerciale, nelle attività
di ristorazione e nel terziario in genere.
15
Il deficit infrastrutturale riguarda anche altri settori d’intervento provinciale, come ad esempio l’edilizia scolastica, l’ambiente e la difesa del suolo, la promozione delle attività e dello
sviluppo economico. Inoltre, a seguito delle due calamità naturali si è venuta a determinare
nell’intera regione una situazione di estrema gravità dal punto di vista infrastrutturale e socioeconomico più in generale. Il sisma e l’alluvione, infatti, hanno coinvolto il 70% della popolazione regionale, circa il 67% delle imprese industriali e dei servizi, oltre il 65% degli addetti del
comparto manifatturiero, commerciale e dei servizi e più di 160 strade sono state chiuse al traffico.
217
luppo16. La carenza più forte è rappresentata dall’assenza di un’arteria autostradale in grado di collegare il versante tirrenico con quello adriatico17, in
particolare, confrontando l’indice generale di dotazione infrastrutturale delle
due province, nel periodo 1991-2001 si riscontra un avanzamento di una posizione in graduatoria per la provincia di Campobasso (dal 94° al 93° posto) e
di due posizioni per Isernia (dal 99° al 97° posto).
Il quadro può essere reso più completo, sebbene ancora non esaustivo,
dalla lettura dei dati Istat sulle Forze Lavoro, dai quali emerge che la
popolazione attiva costituita da 124.000 persone è per quasi i due terzi
(78.000 unità) composta da maschi e per poco più di un terzo (46.000 unità)
da donne18. Questa differenza di genere si riflette anche nel relativo
indicatore: il tasso di attività maschile è del 58%, mentre quello femminile è
pari al 32%.
Tab. 3 - Tassi di occupazione, disoccupazione e attività per sesso in Italia e
Molise (%), Anni 2000-2002
Anni
2000
2001
2002
Italia
Tasso di
Disoccupazione Attività
M
F
M
F
8,1
14,5 73,9 46,6
7,3
13,0 74,0 47,5
7,0
12,2 74,0 48,2
Occupazione
M
F
67,9 39,8
68,5 41,4
69,2 42,3
Disoccupazione
M
F
10,3
20,1
9,2
20,8
8,8
18,8
Molise
Tasso di
Attività
M
F
73,4 44,1
73,3 46,6
73,4 45,7
Occupazione
M
F
65,8 35,2
66,6 36,9
66,9 37,1
Fonte: nostre elaborazioni su dati Cnel e Istat.
Il denominatore dei tassi di attività e di occupazione è costituito dalle Forze di lavoro (persone
occupate e in cerca di lavoro) sommate alle Non forze di lavoro (persone tra i 15 e i 64 anni).
Tuttavia, è bene sottolineare che la scarsa partecipazione femminile al
mercato del lavoro è una condizione di vita italiana (il tasso di attività delle
donne italiane nel 2001 si attesta al 47,1 ed è circa di 12 punti percentuali
inferiore alla media europea pari al 59%), con forte riconoscibilità nelle
regioni meridionali in conseguenza di diversi fattori sociali e culturali. Inoltre,
la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è l’effetto combinato
di almeno altri due fattori: il numero degli occupati (nell’anno 2003 il totale di
16
Nei trasporti gli indici relativi alle reti ferroviarie, ai porti e agli aeroporti subiscono tutti
una contrazione. Tuttavia, nel decennio 1991-2001 per le strutture culturali, l’istruzione e la
sanità si sono registrati lievi miglioramenti, soprattutto nella provincia di Isernia. Anche le reti
bancarie, in particolar modo nella provincia di Campobasso, hanno subito un incremento, mentre gli indici degli impianti energetici e le strutture per la telefonia hanno subito un ridimensionamento.
17
Cfr. Cersosimo (2000, p. 45).
18
Cfr. Istat (2003).
218
occupati è pari a 109.000 unità, con 71.000 maschi, 65,7%, e 37.000
femmine, 34,3%) e il tasso di disoccupazione maschile, sempre nell’anno
2003, è pari all’8,5%, mentre quello femminile è al 19,8%. Quest’ultimo dato
assume una connotazione ancora più negativa se confrontato con il dato
relativo all’intera nazione; in questo caso, il tasso di disoccupazione
femminile nel 2002 in Italia è pari al 12,2% contro il 18,8% (più basso di 1
punto percentuale rispetto al 2003) del complesso delle donne molisane
(Tabella 3 alla pagina precedente).
Il quadro economico delineato non lascerebbe presupporre che possano
esistere condizioni di crescita, e in particolare di crescita sociale della
ricchezza. Tuttavia, molte ricerche a livello internazionale dimostrano che la
fonte principale dell’aumento della ricchezza sociale, che significa sviluppo,
può essere collegata all’entrata in campo di nuovi soggetti economici sia a
livello quantitativo, sia a livello qualitativo19. Lo sviluppo, dunque, genera un
nuovo modello di mercato del lavoro, cosicché quello descritto finora viene a
modificarsi e viene a muoversi verso un processo di femminilizzazione a
causa delle trasformazioni che si sono avute sia nel processo produttivo, sia
nella terziarizzazione20.
Tale tendenza è confermata dalla presenza delle donne nel mercato del lavoro nell’ultimo decennio che ha mantenuto un andamento positivo. Conferma tale lettura il quadro delle evoluzioni occupazionali della regione, dove le
forze lavoro occupate crescono per quanto riguarda le donne, dalle 37.000 unità del 2000 alle 39.000 unità del 2002, mentre nello stesso periodo quelle
maschili rimangono stabili sulle 71.000 unità (Tabelle 4 e 5 alla pagina successiva).
Un’ulteriore proposta interpretativa, seppure in chiave ottimistica, della
presenza femminile nel mercato del lavoro è offerta dal dato relativo alla distribuzione degli occupati per macrosettore di attività (agricoltura, industria,
servizi). In questo caso la popolazione attiva risulta essere distribuita
nell’agricoltura per il 9,2%, nell’industria per il 29,5% e per una percentuale
pari al 61,2 nei servizi. In particolare, le donne si sono concentrate nei servizi,
settore questo che ha meno risentito della crisi economica.
19
Per una rassegna del fenomeno in campo nazionale ed internazionale, cfr. Giunta (1993).
Tuttavia, e molto sinteticamente, il Molise presenta anche punti di forza: tasso di natalità
netta delle imprese superiore alla media nazionale, percentuale di popolazione con istruzione
post secondaria in linea con la media nazionale, partecipazione alla formazione permanente pari
al dato Italia. Per ulteriori approfondimenti si rimanda al Documento Strategico Preliminare
della Regione Molise (DSR) pubblicato nel mese di ottobre del 2005 (sito web:
www.regione.molise.it).
20
219
Tab. 4 - Popolazione e forze di lavoro femminili in Italia e Molise (N in
migliaia), Anni 2000-2002
Forze di lavoro - Femmine
Italia
Occupate
In
Totale
Totale
Occupate
Anni
cerca
Forze popolaziodi
ne
lavoro
2000
7.764
1.316
9.080
29.393
37
2001
8.060
1.201
9.261
29.465
39
2002
8.236
1.147
9.383
29.524
39
Fonte: nostre elaborazioni su dati Cnel e Istat.
Molise
In
Totale
Totale
cerca Forze popolaziodi
ne
lavoro
9
47
167
10
49
166
9
48
166
Tab. 5 - Popolazione e forze di lavoro maschili in Italia e Molise (N in
migliaia), Anni 2000-2002
Forze di lavoro - Maschi
Italia
Molise
Occupati
In
Totale
Totale
Occupati
In
Totale
Totale
Anni
cerca
Forze popolazione
cerca Forze popolazione
di
di
lavoro
lavoro
2000 13.316 1.179 14.495
27.796
71
8
79
159
2001 13.455 1.066 14.521
27.884
71
7
78
158
2002 13.593 1.016 14.609
27.950
71
7
78
158
Fonte: nostre elaborazioni su dati Cnel e Istat.
Nel 2002 le donne occupate nel terziario sono pari a 30.000 unità su un totale complessivo di 67.000 individui (Tabella 6 alla pag. successiva).
In una prospettiva di genere e alla luce della teoria del “self
employment”21, per la quale la decisione di intraprendere una nuova iniziativa
dipende dal rapporto tra reddito e prospettive di lavoro dipendente e reddito e
prospettive di lavoro indipendente, va rilevato come in un settore connotato
da una forte presenza maschile quale quello industriale e in un periodo di
mancanza di offerta del lavoro dipendente, sia entrata in gioco (aumentata) la
componente femminile.
Da un ulteriore approfondimento del livello di analisi su base territoriale
emerge come il sistema produttivo molisano conti nel 2004 un numero di
imprese attive pari a 33.256, di cui ben il 32,3% è a conduzione femminile22.
21
Cfr. Vivarelli (1992, 1994).
Si vedano i dati dell’Osservatorio dell’Imprenditoria Femminile di Unioncamere e Infocamere relativi al 2004 che descrivono una situazione imprenditoriale con una forte connota22
220
Il Molise, con la presenza di una impresa femminile ogni tre imprese attive, si
caratterizza come la regione italiana in cui le aziende al femminile sono
percentualmente più numerose.
Tab. 6 - Occupati per settore di attività e sesso in Molise (N in migliaia), Anni
2000-2002
Maschi
Agricoltura Industria Terziario
2000
7
27
37
2001
6
28
37
2002
6
28
37
Fonte: nostre elaborazioni su dati Cnel e Istat.
Anni
Agricoltura
6
5
5
Femmine
Industria
5
5
5
Terziario
27
29
30
Tab. 7 - Occupati per qualifica professionale e sesso in Molise (variazioni in
migliaia e percentuali), Anni 2001-2002
Uomini
Var. %
2001-2002
4.277
1,9
2002
Dirigenti, direttivi,
quadri, impiegati
5.080
1,6
Operai ed assimilati
Totale Dipendente
9.357
1,7
1.289
4,3
Imprenditori, liberi
professionisti
Lavoratori in
2.947
-2,4
proprio, soci di
cooperativa, …
Totale Indipenden4.236
-0,5
te
Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat, 2002.
2002
4.119
Donne
Var. %
2001-2002
3,5
Donne/totale
(%)
49,1
2.374
1,4
31,8
6.493
414
2,7
9,7
41
24,3
1.329
-2,5
31,1
1.743
0,2
29,2
Il caso dell’imprenditorialità femminile molisana corrisponde al trend generale dell’aumentata qualità dell’occupazione femminile; le donne crescono,
infatti, nei profili professionali alti, come imprenditrici e libere professioniste
(+9,7% contro un incremento della componente maschile del 4,3%), e nei lizione “rosa”. Sempre in proposito, si veda il “Primo Rapporto Nazionale sulle Imprese Femminili” del Ministero delle Attività Produttive e Unioncamere, presentato il 7 febbraio 2005 in
occasione del convegno “Impresa (in) genere” (http://www.if-imprenditoriafemminile.it/documenti.asp. Accesso al 15 ottobre 2005). Il Rapporto definisce imprese femminili
tutte le aziende in cui sia ravvisabile una presenza prevalente di donne tra i soci o gli amministratori.
221
velli dirigenziali e impiegatizi (+3,5% contro l’1,9% maschile) (Tabella 7 alla
pag. precedente).
Ciò detto, sembra emergere che il crescere del numero di donne “capitane
di impresa” può essere ricondotto sia ad un fenomeno analizzabile in termini
assoluti e quantitativi, sia a modificazioni qualitative dei profili professionali.
6. Un nuovo fenomeno socioeconomico: le “capitane” d’impresa
La lettura fatta del sistema economico-produttivo molisano costituisce un
importante elemento per comprendere il fenomeno di crescenti politiche delle
pari opportunità per le attività economiche. In questa ottica, il rinnovato modello del sistema economico-produttivo molisano suggerisce e promuove obiettivi prioritari, quali quello dell’inclusione socio-economica di categorie
sociali deboli, le donne, ed il conseguente aumento dell’occupazione che dipende ora maggiormente dalla capacità delle imprese di innovare e di promuovere lo sviluppo.
Ciò detto, è evidente che lo sviluppo di un territorio non può essere letto
solo attraverso il sistema economico, che produce capitale economico e da
questo ne trae alimento, ma deve essere interpretato anche attraverso il sistema socio-culturale, che dà vita al capitale sociale e da questo ne trae la sua
forza.
Seguendo questo orientamento, nel territorio si diffonde fiducia e lo si ricostruisce in modo originale, tanto da creare caratteristiche peculiari del tessuto socioeconomico che sono contestualmente causa e conseguenza dello sviluppo. Di qui, lo sviluppo di un territorio accentua la rivendicazione del diritto
alla diversità delle risorse sia territoriali sia degli attori sociali, e tende al rafforzamento del contesto socioeconomico tradizionale attraverso le potenzialità
di risorse ed energie che sembrano scaturire dalla “trama” dei rapporti sociali.
Come si cercherà di indicare con la ricerca, il consolidamento del contesto
socioeconomico tradizionale e la diversità degli agenti che lo costituiscono e
che lo tengono insieme nel e per il raggiungimento di alcuni obiettivi prioritari, quali la riduzione delle disuguaglianze, la crescita occupazionale e la produzione dello sviluppo, sono variabili interdipendenti. Di qui la possibilità di
pensare il territorio come il luogo in cui si dà origine nella logica della governance, ad una forma di bilanciamento pragmatico delle tensioni dello sviluppo
fondato sul riconoscimento delle differenze come risorsa, e sulla spiegazione
che l’interazione tra elementi sociali, storici, economici ed istituzionali generano economie in termini economici e suscettibili di ulteriore sviluppo.
Come abbiamo accennato, quindi, la ricerca intende individuare e valutare
se il “sano e tradizionale” ambiente molisano possa essere correlato sia alla
diversità delle risorse territoriali sia alla diversità delle risorse umane, e come
222
il contesto possa favorire l’attivazione di risorse per lo sviluppo. In particolare, a seguito della precedente analisi sul contesto socioeconomico del Molise,
l’Unità di ricerca intende focalizzare l’attenzione sul processo di trasformazione del mercato del lavoro, e più precisamente sulle trasformazioni qualitative che si sono verificate nei profili professionali e nel rapporto tra imprenditoria (femminile) e sviluppo locale.
Tab. 8 - La natura giuridica delle imprese femminili in Molise per provincia
(N in migliaia), Anno 2005
Natura Giuridica
Imprese individuali
Società di persone
Società di capitale
Cooperative
Altre forme
Consorzi
Totale
Fonte: Unioncamere, 2005.
Campobasso
7.343
742
342
126
6
1
8.564
Isernia
2.240
301
213
60
1
2
2.817
Totale
9.587
1.043
555
186
7
3
11.381
La riflessione trova una sua prima verificabilità nella lettura dei dati disaggregati relativi al profilo dell’imprenditrice molisana. Come abbiamo già anticipato, analizzando il sistema produttivo regionale nell’anno 2004 si registra
che questo è costituito da 33.256 imprese attive, di cui ben il 32,3% è a conduzione femminile. Inoltre, l’aumento delle imprese femminili in Molise sembra interessare anche il primo semestre del 2005. La provincia di Campobasso
registra un incremento di 38 nuove imprese, pari allo 0,45%, distribuite nei
centri principali, mentre la provincia di Isernia presenta 26 imprese in più rispetto all’anno precedente, portando così il totale delle aziende attive da 2.774
a 2.817, con un incremento dell’1,53%. La classe di natura giuridica prevalentemente scelta dalle imprenditrici molisane è quella dell’impresa individuale,
che registra nella sola provincia di Campobasso 7.347 imprese e in quella di
Isernia 2.240; seguono le società di persone e le società di capitali e, infine, la
classe consortile (con la presenza di 3 Consorzi, di cui 1 nella provincia di
Campobasso e 2 nella provincia di Isernia).
7. Le coordinate della ricerca
Lo scenario appena descritto delinea una trasformazione nell’economia locale con una forte connotazione di imprenditorialità al femminile che, appunto, la ricerca intende studiare, in quanto conseguenza di alcuni fattori locali
223
caratterizzanti lo sviluppo. L’insieme di questi fattori evidenzia aspetti relativi
non solo alla natura economica del processo, ma soprattutto a quella dimensione socio culturale del sistema nel suo insieme. Dalle azioni degli attori
coinvolti dipenderà se porre dei vincoli allo sviluppo o se cogliere le opportunità di sviluppo.
Di qui, uno studio sullo sviluppo locale deve anche originarsi da un punto
di vista sociologico, ed in particolare metodologico, che si basi su un’analisi
empirica del processo di nascita della nuova impresa e su un’attenzione al
contributo che i soggetti studiati possono dare alla conoscenza. Con questo
approccio metodologico, detto qualitativo, è posto al centro il comportamento
dell’individuo; tuttavia, l’obiettivo resta quello di conoscere l’individuo come
soggetto sociale23.
Per questo, l’analisi tende a dare ascolto ai segnali che hanno origine nella
realtà attraverso il contatto diretto dei soggetti durante l’espletamento delle
loro attività abituali, lasciando che essi esprimano le loro opinioni, ponendoli
in tal modo al centro dei rapporti di ricerca. In particolare, si intende ricostruire la storia lavorativa delle donne imprenditrici, sia attraverso un’indagine sul
campo che coinvolga un congruo numero di imprenditrici, sia con la raccolta
di “testimonianze privilegiate” a persone che occupano una posizione di osservazione e di esperienza nel processo di sviluppo e di inserimento delle
donne nel mercato del lavoro.
Per meglio proseguire lo scopo della ricerca, lo strumento di rilevazione
individuato è quello dell’intervista direttiva (guidata) che, allo stato attuale, si
configura come un canovaccio con alcune aree conoscitive suscettibili nel
prosieguo di modifiche ed integrazioni. Nello specifico, qui di seguito riportiamo alcune delle tematiche che guideranno il ricercatore-intervistatore.
1) L’impresa: da chi e quando è stata fondata, attività svolta, il numero e
la tipologia del personale (personale familiare e personale estraneo, ragioni di scelta delle diverse tipologie di collaboratori);
2) Le imprenditrici: informazioni socio-anagrafiche (sesso, anno e luogo
di nascita, residenza, ruolo svolto, tempo dedicato all’azienda, legami
familiari), la loro formazione/istruzione.
3) La relazione tra il contesto storico, sociale e culturale e il mercato del
lavoro femminile. Un punto di partenza è ancora una volta l’istruzione
– di fatto, per il mutamento culturale di un contesto sociale e per la produzione di capitale umano, l’esistenza di una istituzione universitaria
per la diffusione di saperi è un elemento fondamentale.
4) Le diverse spinte motivazionali alla natalità delle imprese “al femminile”: ragioni personali, che possono esemplificarsi in motivazioni volte
23
Sulla metodologia delle storie di vita, con particolare riferimento all’approccio biografico, si veda Cipolla, De Lillo (1996).
224
verso il profitto o alla necessità di crearsi un reddito; fattori sociali. E
ancora, altri fattori riconducibili ad esempio al desiderio di esprimere la
propria creatività, o diretti ad esternare, manifestare autopromozione e
indipendenza.
5) La relazione tra l’appartenenza di genere e il settore di attività prescelto24.
Il tipo di strumento scelto, allora, permette all’intervistatore sia di condurre
la conversazione seguendo una traccia che raccoglie un insieme di temi, sia di
sviluppare un tema in ragione del profilo dell’intervitato. In tale forma,
l’intervista, con i suoi risultati, oltre a delineare la biografia dell’intervistato,
offre anche la possibilità di ricostruire “la personalità e il quadro cognitivo e
valoriale”25 dell’imprenditrice, attraverso una struttura argomentativa che ne
mostri le relazioni e ne definisca le situazioni vissute utili a cogliere un particolare frammento di realtà storico-sociale26.
Tav. 1 - Per un profilo dell’imprenditrice molisana
Imprenditrice “evolutiva”
Imprenditrice
“new entry”
nel mondo
del lavoro
Imprenditrice
“di ritorno”
nel mercato
del lavoro
Imprenditrice “per tradizione”
Terziario
Commercio,
artigianato
…
Settore di attività
Evoluzione di
una precedente
esperienza lavorativa di forma
dipendente
Motivazioni
di impresa del
soggetto agente (imprenditrice)
Riconoscimento
professionale,
maggiore autonomia, incremento dei redditi,
passione per il tipo di lavoro, …
Indipendenza,
gratificazioni, …
Necessità di
reddito, …
Storia familiare di imprenditoria
A questo punto, una volta chiara la domanda cognitiva, l’individuazione
dei soggetti da coinvolgere e lo strumento di rilevazione da adoperare, è necessario definire il piano di campionamento. A tal fine, si ricorrerà ad una
procedura non probabilistica conosciuta come “campionamento a scelta ra24
Cfr., su quanto appena detto, il lavoro di M. C. Federici (2002).
M. C. Pitrone (1996, p. 31).
26
Cfr. D. Bertaux (1999, p. 32).
25
225
gionata”, dove le unità da campionare vengono scelte in base ad alcune loro
caratteristiche. Nella conduzione della ricerca, questo tipo di campionamento
permetterà di individuare i soggetti da intervistare sia con l’aiuto di alcuni testimoni qualificati (judgement sample), nello specifico le componenti i Comitati per l’Imprenditoria Femminile delle due Camere di Commercio del Molise che seguono la situazione dall’interno e che sono in grado di offrire informazioni di rilevante interesse, sia estraendoli da una lista di nominativi aventi
caratteristiche rilevanti per la ricerca, quali le imprenditrici che hanno implementato la loro attività attraverso il finanziamento ottenuto con la legge 215
del 1992.
Di regola, questo tipo di campione non probabilistico comporta l’evidente
svantaggio della portata non generalizzabile dei suoi risultati. Tuttavia, nello
specifico della ricerca, pur accettando a priori una sorta di invalidazione metodologica, si cercherà di offrire un ampio panorama di esperienze tale da
consentire considerazioni e riflessioni anche di carattere generale, tanto che i
risultati permetteranno di costruire i diversi profili dell’imprenditrice molisana, come ad esempio quelli di seguito codificati, e altri e nuovi profili da individuare.
8. Osservazioni conclusive
A questo punto è opportuno ricordare, anche se in forma sintetica, i principali significati idealtipici del concetto di sviluppo appena delineati, dalla concezione ideale dello sviluppo top-down allo sviluppo cosiddetto bottom-up,
così da giungere, infine, alla definizione di un idealtipico punto di equilibrio
dello sviluppo. Quest’ultimo supera l’approccio unidimensionale dello sviluppo come mera crescita e genera un approccio pluridimensionale dello stesso. Di qui, lo sviluppo va oltre il punto di vista materiale e quantitativo e diventa uno sviluppo con caratteristiche anche qualitative, tanto da tradursi in
benessere sociale. Se poniamo attenzione su quest’ultima tipologia di sviluppo, diventa immediatamente manifesta la rilevanza delle variabili socioculturali e l’influenza che queste hanno sulle variabili economiche e produttive.
In questo scenario, il territorio è il luogo di incontro delle esperienze degli
attori dello sviluppo e con la sua specificità determina sviluppo economico e
umano. Una volta riconosciuto il territorio come risorsa per lo sviluppo, si riconoscerà anche l’importanza delle dinamiche relazionali di un territorio, e
dunque il legame tra capitale sociale e territorio. Di conseguenza, nel processo
di sviluppo la risorsa umana è fondamentale e lo è ancor di più l’attivazione di
differenti risorse, in quanto lo sviluppo è un diritto pensato per tutti gli attori
sociali, potenzialmente fruibile da tutti gli attori sociali ed infine è (ri)-pensato
ad hoc per ogni singolo soggetto, in funzione di un modello societario conte226
stualizzato alla qualità della vita.
Bibliografia
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228
L’individuo nell’era della globalizzazione
Genesi e descrizione del tipo ideale dell’uomo ‘ipermoderno’∗
ALBERTINA OLIVERIO
Dipartimento di Scienze Sociali
Università degli Studi ‘G. d’Annunzio’
Via dei Vestini 31, 66013 Chieti, Italy
[email protected]
Il fenomeno della globalizzazione e i mutamenti economici, tecnologici,
sociali e culturali hanno connotato il divenire della contemporaneità
soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso e nell’inizio di quello
attuale. Su questa scia, a cambiare volto è stata prima di tutto la figura
dell’attore sociale con i suoi comportamenti, le sue credenze, i suoi valori, i
suoi network relazionali. Per elaborare una lettura razionale della società
contemporanea alla luce di queste importanti trasformazioni, una parte
centrale della letteratura sociologica e filosofica ha cercato di rielaborare e
modificare quell’immagine dell’individuo moderno che affondava le sue
radici sin nell’Illuminismo. Il prodotto più celebre di questi lavori è stata la
teorizzazione dell’individuo postmoderno che ha segnato la ‘rottura’ con ciò
che fino a quel momento erano stati considerati i punti di riferimento della
società moderna. Oggi però, come si vedrà qui di seguito, l’euristica
postmodernista sembra dover lasciare spazio ad una concettualizzazione
analiticamente più feconda che sta attirando l’attenzione di parte del dibattito
nelle scienze sociali, quella dell’individuo ipermoderno. Le categorie di
‘mutamento’, ‘modernità’, ‘postmodernità’ e ‘ipermodernità’ si rivelano
quindi fondamentali per descrivere e spiegare l’evoluzione delle dinamiche
della realtà sociale contemporanea.
Nel corso del tempo e sino ad oggi, innumerevoli sono stati gli approcci
teorici volti ad interrogarsi sulla natura della società occidentale avanzata,
∗
Questo testo costituisce una parziale rielaborazione del mio articolo ‘Come nasce l’individuo
ipermoderno: una tipologia ideale per la comprensione dei mutamenti sociali attuali’,
Sociologia, XXXIX, 2, 2005.
229
1
nonché sui suoi caratteri e sulle sue discontinuità . In particolare, numerosi
contributi elaborati sin dagli anni ’70 del secolo scorso devono essere
ricondotti alla corrente postmoderna. Sebbene essa abbia dato vita ad una
produzione estremamente vasta ed eterogenea, gli approcci ed i lavori che
sono stati sviluppati al suo interno trovano un punto di convergenza sull’idea
di fondo di una ‘rottura’ contemporanea con i principi portanti della
modernità (la fiducia nella ragione, l’individuo, il progresso), oltre che su
quella di un declino delle ideologie e delle strutture tradizionali e
dell’affermarsi, a seguito dell’influenza del consumismo di massa, di un
nuovo individuo, libero da vincoli sociali, e teso alla realizzazione della
felicità personale. Non è qui il caso di soffermarsi sui celebri contributi di
Jean-François Lyotard, al quale si deve il termine ‘postmoderno’ (Lyotard,
1979), di Jean Baudrillard (1968; 1970; 1995) che guarda soprattutto al ruolo
del consumismo di massa e dei media nella vita contemporanea, di Daniel
Bell (1973; 1976) che identifica il tratto distintivo della società occidentale
contemporanea nella trasformazione da società industriale a ‘società
postindustriale’, di Alain Touraine (1969) che parla di società post-industriale,
di Fredric Jameson (1984) che indaga sul rapporto tra logica culturale
postmoderna e tardo capitalismo, o di Cristopher Lasch (1979) che individua
nel narcisismo patologico la caratteristica culturale dell’individualismo
estremo delle società contemporanee.
Oltre a questi, molti altri studiosi dagli anni ‘70 in poi hanno attirato
l’attenzione sulla nascita di una nuova figura individuale specchio di un certo
numero di cambiamenti economici, tecnologici, sociali e culturali come nel
caso di alcune scoperte scientifiche, della globalizzazione dell’economia e
della conseguente flessibilità lavorativa e sociale, dei progressi nel mondo
delle telecomunicazioni, e così via. Si è venuto così delineando, come
sostenuto a più riprese tra gli altri da Alain Ehrenberg (1995; 1998), un
individuo incerto, psichicamente fragile, e teso costantemente alla
realizzazione personale nell’ambito di una società ‘esigente’ ma che, allo
stesso tempo, lascia l’individuo totalmente autosufficiente e autonomo nella
gestione dei propri obiettivi e nella faticosa ricerca di un posto e di un ruolo
che non gli sono stati automaticamente assegnati. Un individuo il cui modello
di esistenza tipico nella società avanzata è identificato da Richard Sennett
(1998) con il predominio del narcisismo e il declino della vita sociale, nonché
con l’attribuzione alle nuove forme lavorative mobili e flessibili della
responsabilità di una corrosione dell’identità personale che porta
all’alienazione da legami familiari, affettivi, e, più in generale, sociali. O,
ancora, un individuo come quello immaginato da Gilles Lipovetsky (1983) la
cui analisi è da ricondurre all’idea centrale di una nuova logica identificabile
1
Per una rassegna aggiornata su questo punto si veda tra gli altri: Bonny (2004).
230
in un processo di personalizzazione che, rispetto all’ideale moderno ormai
superato della subordinazione individuale alle regole razionali collettive, ha
promosso un valore fondamentale: quello dell’autorealizzazione, del rispetto
della singolarità soggettiva, ovvero del diritto di godere al massimo della
propria vita.
Di ‘surmodernità’ ha poi parlato l’antropologo Marc Augé (1992) per
rendere conto della ‘sovrabbondanza di avvenimenti’ del mondo
contemporaneo, dell’ ‘eccesso’: eccesso di tempo, di spazio, di
individualizzazione dei riferimenti. In particolare, alla sovrabbondanza
spaziale è legata l’ormai celebre definizione tipologica di ‘nonluoghi’
(aeroporti, autostrade, centri commerciali, parchi di divertimento, ecc.) la cui
caratteristica principale sta nell’assenza di una localizzazione di tempo e di
spazio in una cultura specifica e nella sensazione di familiarità che essi
inducono indipendentemente da tale localizzazione. Attorno al concetto di
‘modernità liquida’ lavora ormai da diversi anni Zygmunt Bauman (2000).
Modernità liquida che implicherebbe una società in cui tutti i fondamenti, le
certezze e le forme superiori di autorità siano mutati. Un lento indebolimento
dunque del ruolo della tradizione e della religione nella vita sociale, un
affievolirsi delle rappresentazioni, dei modelli, delle norme di riferimento
della modernità. Ulrich Beck (1986), dal canto suo, individua il tratto
distintivo della società contemporanea nel passaggio da una società basata
sulla suddivisione delle ricchezze ad una società fondata sulla suddivisione
del rischio. Il rischio diviene in tal senso la chiave di lettura delle
trasformazioni delle società industriali avanzate e coinvolge tutti i settori della
vita sociale. Con la crescente individualizzazione, vengono infatti meno le
forme tradizionali di appartenenza, cosa che apre il campo alla ‘decisione’
individuale in un contesto sempre più difficilmente prevedibile (carriere
professionali, rapporti di coppia, divisione dei ruoli sessuali, ecc.). Mentre
Anthony Giddens (1990) ha sottolineato come sistemi di informazione sempre
più complessi e una conoscenza scientifica sempre più diffusa contribuiscano
a modificare le pratiche e i comportamenti individuali, ma ciò con le difficoltà
legate al trattamento di un’informazione sovrabbondante nell’era della
globalizzazione che rende i comportamenti ben lontani da una completa
razionalità.
Gran parte di questi tentativi volti a cogliere i caratteri distintivi della
società occidentale avanzata e degli individui che la costituiscono sono stati in
qualche modo ‘rielaborati’ o, meglio, ‘superati’ da un nuovo apparato
concettuale, quello della società e dell’individuo ‘ipermoderni’ (Aubert,
2004). Tale concettualizzazione è il frutto sia di un’operazione di sintesi di
alcuni dei tratti più significativi e ricorrenti messi in luce proprio dalla
letteratura precedente, che di nuove e più attuali riflessioni. Se il
231
postmodernismo si è posto come momento di rottura rispetto alla modernità,
l’ipermodernismo ne esprime al contrario la radicalizzazione e
l’esacerbazione: il suffisso ‘iper’ sta infatti per ‘eccesso’, ovvero ciò che va al
di là, oltre un quadro di riferimento preesistente (quello moderno, appunto).
L’individuo ipermoderno lo troviamo oggi in Europa Occidentale e in
America del Nord dove vive in una sorta di eccesso permanente (di consumi,
di stimoli, di pressioni, di stress) nell’ambito di una società che gli ‘chiede’
performances sempre più elevate rendendolo in tal senso iperattivo. Si tratta
di una società iperconsumista e ipermaterialista in cui coesistono
massificazione ed individualismo: è infatti attraverso decisioni individuali
mosse dal desiderio narcisistico di costruirsi come persona autonoma e di
qualità che in una società del consumo massificata l’attore, scegliendo, si
costruisce una propria identità singolare. Insomma, nella società ipermoderna
si consuma soprattutto per esistere (identità) e non solo per vivere (bisogno)
(Lipovetsky, 2003).
Le riflessioni sull’ipermodernismo si legano principalmente a studi
empirici sui comportamenti individuali in contesti complessi ed incerti tipici
della società attuale. E’ per questo motivo che in questa sede ci si focalizzerà
prevalentemente sull’analisi di quegli elementi caratteristici della società
attuale che contribuiscono in modo preponderante all’emergere del nuovo
attore sociale ipermoderno.
Data la complessità della realtà esterna alla quale si deve fare riferimento
nel tentativo di rendere sociologicamente intelligibile la figura di questo
nuovo attore sociale, è necessario categorizzarla, ordinarla e semplificarla a
fini cognitivi. Sulla scia dell’eredità metodologica di Max Weber, è obiettivo
di questo lavoro sfruttare l’utilità dello strumento ‘tipo ideale’ per leggere i
cambiamenti che interessano l’attuale società. Si procederà pertanto a
delineare il tipo ideale oggetto di questo studio mettendo in luce delle
dimensioni di fondo alle quali possono essere ricondotte le modalità della
condizione dell’individuo ipermoderno caratterizzata dal rapporto con la
società, con gli altri, e con se stessi.
Nella prima di queste dimensioni, il corpo, l’individuo ipermoderno si
definisce in base ad un tratto principale: la crescente tendenza all’
‘autogestione del proprio corpo’ (Fournier, 2004; Tissier-Desbordes, 2004;
Varga, 2005). Rispetto all’idea di un corpo soggetto alla natura tipica della
modernità, si assiste ora ad un nuovo rapporto tra l’individuo e il proprio
corpo sempre più orientato ad un desiderio di controllo su di esso. Questo
mutamento nella relazione tra l’individuo e il proprio corpo avviene
principalmente su due livelli. Innanzi tutto quello del funzionamento interno
del corpo il cui controllo da parte dell’individuo è via via maggiore grazie ai
progressi medici, farmacologici e tecnologici. Oggi è infatti spesso possibile
alleviare il dolore e la sofferenza fisica, e gran parte delle malattie possono
232
essere curate (o potranno probabilmente esserlo in futuro grazie ai progressi
continui nella ricerca come quella nel campo delle cellule staminali). Ciò
alimenta costantemente la spinta al controllo al fine di ‘coprire’ tutto ciò che
ancora resta incurabile, pur alimentando allo stesso tempo un enorme solco tra
la realtà della società ipermoderna e quella delle società del Terzo Mondo.
A ciò si aggiungano riflessioni più generali sul rapporto tra l’individuo e il
crescente controllo interno che esercita sul proprio corpo: quello che
coinvolge la specie umana nella sua interezza quando si entra nell’ambito
dell’evoluzione di tecniche di fecondazione assistita sempre più sofisticate, di
tecniche genetiche che rendono possibile scegliere sesso e tratti dei nascituri,
nonché, in un prossimo futuro, selezionare caratteristiche del DNA che ne
potenzino tratti fisici e mentali, e, all’estremo, di tecniche di clonazione che
lasciano intravedere scenari ancora non molto chiari.
La gestione autonoma del proprio corpo riguarda poi il livello
dell’apparenza esteriore. L’individuo ipermoderno modella sempre più il
proprio corpo con il ricorso alla chirurgia estetica che promette l’eterna
giovinezza, oltre che con numerose altre pratiche sviluppatesi attorno al corpo
(jogging, cosmetici, body building) che alimentano un’industria specifica,
quella delle palestre, dei prodotti cosmetici, della stampa specialistica. E’
stato sottolineato a tale proposito come l’importanza attribuita al corpo rifletta
lo sviluppo esacerbato dell’individualismo contemporaneo (Lipovetsky,
2
1983) . Centrato come è su se stesso, l’individuo ipermoderno guarda al
proprio corpo facendone un oggetto di scelta al fine di fabbricare un’identità
3
che lo differenzi dagli altri . Ciò malgrado, il modello di quello che, volendo
usare uno stereotipo, si potrebbe definire l’ ‘uomo californiano’, salutista,
attento all’aspetto e alla dieta, al non eccedere nel bere, a non fumare, e a fare
dell’esercizio fisico, diviene sempre più un tratto che accomuna le
individualità ipermoderne.
Nella seconda dimensione, il tempo, l’individuo ipermoderno si costituisce
nel ‘culto dell’urgenza’, una sorta di regola di vita collettiva che ‘spinge’ a
2
Ciò conduce ad un narcisismo estremo che, come aveva messo già in luce Lasch (1979),
costituisce una sorta di fuga dalle minacce del mondo esterno in quanto la vita diviene una
ricerca senza fine della salute e del benessere attraverso lo sport, le diete alimentari, le
medicine, la psichiatria, ecc. La cura di sé e del proprio stato di salute diviene centrale per
coloro che non si interessano più al mondo esterno se non per concepirlo come una fonte di
gratificazione o di frustrazione.
3
Pratiche quali quelle dei tatuaggi o dei piercings sono state ad esempio identificate come
l’espressione di tale autonomia decisionale individuale (Le Breton 2002). Sebbene infatti tali
cambiamenti corporali possano essere considerati frutto del consumismo e del desiderio di
conformarsi agli altri, essi possono essere altresì interpretati, alla pari degli interventi di
chirurgia estetica, come l’espressione di un vero e proprio desiderio di ‘cambiare’ la propria
vita attribuendole un senso nell’ambito di una società dove, essendo venuti meno i principali
ruoli e valori di riferimento, il controllo della propria vita è lasciato a se stessi.
233
fare il numero più elevato possibile di cose nel minor tempo possibile (Aubert
2003). Se nel passato il tempo veniva ‘subito’ sotto forma di obblighi
lavorativi e sociali che riempivano la vita individuale, con la società
ipermoderna si è passati ad un ‘trionfo’ sul tempo: l’individuo desidera
dominarlo, è convinto di poterlo gestire in funzione delle proprie aspirazioni,
e vive nel continuo sforzo di trarne il massimo beneficio possibile. Questo
mutamento rispetto al passato nel rapporto con il tempo influenza
profondamente lo stile di vita nelle società contemporanee e contribuisce
all’emergere di questo nuovo individuo flessibile, sempre di corsa e centrato
sull’immediato.
Come è stato sottolineato (Aubert, 2003), un tale cambiamento nel
rapporto individuale con il tempo può essere attribuito in parte alla diffusione
di una logica del profitto immediato tipica dei mercati finanziari per la quale
‘il tempo è denaro’ e che ha prodotto un’accelerazione sempre più pressante
nei ritmi di vita, e in parte all’istantaneizzazione della vita quotidiana causata
dai nuovi mezzi di comunicazione (l’email, il telefono cellulare, Internet). Un
mondo del lavoro sempre più virtuale, flessibile, orientato al profitto
immediato, caratterizzato da fusioni e riconversioni delle aziende e delle
figure professionali coinvolge quindi sempre più modalità e ritmi della vita
individuale nel senso di una crescente accelerazione nella gestione temporale.
Ma sono state soprattutto le nuove tecnologie della comunicazione che hanno
contribuito a creare nell’individuo ipermoderno un sentimento di autonomia
rispetto al tempo. Abolendo le distanze spaziali e temporali e offrendo la
possibilità di risolvere molti problemi nell’immediato, esse hanno infatti
alimentato la percezione di poter dominare il tempo, appropriandosene,
controllandolo e manipolandolo. E se da un certo punto di vista ciò accade
realmente, da un altro l’individuo ipermoderno è invece ‘dominato’ dal
tempo. Egli si caratterizza infatti per l’incapacità di differenziare l’urgente
dall’importante, l’accessorio dall’essenziale. E’ in un certo senso ‘malato di
urgenza’, teso a vivere l’intensità senza la durata e ad ottenere dei risultati
immediatamente efficaci senza curarsi della solidità futura delle loro
conseguenze. La logica dell’urgenza e le nuove tecnologie fondano quindi una
sorta di illusione di poter abolire il tempo creando spazio disponibile per fare
più cose di prima. Ma ciò è illusorio in quanto da un lato si risolve in una
spirale senza fine nella quale si finisce in realtà per ‘sovraccaricare’ il tempo a
disposizione facendo un numero sempre maggiore di cose, e da un altro lato si
spoglia l’azione umana di un senso più profondo lasciandola spesso ancorata
all’istantaneità del presente senza prospettive future consistenti.
L’urgenza diviene allora una forma di ‘perversione del tempo’ (Aubert,
2003) all’origine di una serie di patologie che contribuiscono a tipicizzare
l’individualità ipermoderna. Come si vedrà meglio più avanti, spesso queste
patologie riguardano il rapporto con gli altri individui che diviene spesso
234
molto superficiale ed effimero: nella società a breve termine in cui tutto si
riferisce all’immediato, anche le relazioni sociali sono proiettate in un
orizzonte temporale molto breve e instabile. Ma tali patologie comportano
anche ciò che, rispetto al problema del lavoro ed alla sua flessibilità, è stata
definita una ‘corrosione’ del carattere (Sennet, 1998) nel senso di alterazioni
di quest’ultimo come il nervosismo, l’aggressività e la collera frequente. Ma
anche disordini psicosomatici come frequenti emicranie, insonnia, mal di
schiena. E, ancora, erpes cutanei, eczemi del viso, psoriasi immediate,
patologie gastro-intestinali, coliche. Sino a forme più o meno gravi di
depressione che investono quello che è stato anche definito l’ ‘uomo
insufficiente’ (Ehrenberg, 1998) che soffre in qunto non si sente all’altezza
delle situazioni e non sa rispondere in modo adeguato alle pressioni esterne.
L’uso dei telefoni cellulari è una delle manifestazioni più evidenti di come
si concretizza questo ‘culto dell’urgenza’ che tipicizza l’individuo
ipermoderno. I cellulari rendono autonomi e allo stesso tempo avvicinano agli
altri. Sono senza dubbio strumenti di liberazione dal tempo perché
conferiscono all’individuo una sorta di ubiquità permanente che gli permette
di essere in più posti allo stesso tempo, di accelerare i tempi, di scegliere il
momento in cui comunicare, di gestire più situazioni contemporaneamente
senza essere localizzabile in un posto specifico. Secondo un recente studio
empirico in merito (Jauréguiberry, 2003), un’elevata percentuale di soggetti
intervistati ha individuato nella gestione dell’urgenza una fonte di piacere in
quanto in grado di trasmettere la sensazione di aver dominato il tempo e, in tal
senso, il telefono cellulare è stato identificato come uno strumento per la sua
realizzazione. L’immediatezza che è in grado di procurare l’uso del cellulare
ha tuttavia degli ‘effetti perversi’ in termini di modalità comunicative. Il
desiderio di essere efficaci, diretti, essenziali, implica infatti l’instaurarsi di
4
comunicazioni brevi, rapide, immediate . Tutto ciò, evidentemente, si
ripercuote sulla profondità e sullo spessore delle conversazioni: il cellulare ha
permesso di comunicare molto più di prima e con molti più interlocutori
rispetto al passato, ma le conversazioni in media sono molto più rapide e
superficiali. Non è un caso che questa tendenza sia spinta alle estreme
conseguenze dall’espansione dell’ormai pervasivo mondo degli SMS (short
message system), ovvero di quella forma comunicativa della telefonia
4
In un mondo dove le relazioni sociali sono sempre più fragili e superficiali il cellulare è in
grado di rassicurare il suo possessore avvicinandolo a famigliari, amici e interlocutori
professionali in qualsiasi momento. In tal senso si è parlato di una sorta di ‘cocooning
telefonico’ (Jauréguiberry 2003): facendo molte telefonate ma brevi si ha l’impressione di una
continuità nei rapporti e si sfugge alla solitudine con comunicazioni che, in realtà, si risolvono
il più delle volte dicendosi che ci si richiamerà successivamente per una conversazione più
lunga o per un eventuale incontro.
235
cellulare che non consiste nemmeno più in conversazioni orali, bensì riduce
queste ultime a messaggi scritti brevissimi quasi in codice.
Nella terza dimensione, l’individualità ipermoderna si caratterizza in base
al mutamento avvenuto nelle relazioni interpersonali che divengono sempre
più ‘fluide’, ovvero distaccate e disimpegnate. Come è stato sottolineato
(Sennett, 1998), nel passato la stabilità era socialmente e culturalmente
valorizzata, oggi essa è invece considerata rigida mentre ciò che è ormai
divenuto decisivo è la flessibilità e la capacità di adattamento. Anche nel caso
delle relazioni con gli altri, l’origine del cambiamento nelle società avanzate
può essere in gran parte ricondotta alla massiccia diffusione delle nuove
tecnologie della comunicazione e all’istantaneizzazione delle modalità
comunicative che esse comportano, nonché all’affermarsi di quello stile di
vita ‘economico’ che, come si è detto, impone sempre più elevati standard di
flessibilità, efficienza ed immediatezza. E anche in questo caso, il tratto
distintivo dell’individualità ipermoderna può essere rintracciato in un
paradosso. Da un lato si afferma una sorta di convinzione di ‘esistere in
quanto connessi’. Ciò rende l’esistenza soggettiva dipendente dall’esterno e
dal rapporto con gli altri, e può ad esempio concretizzarsi proprio in quella
dipendenza a volte maniacale da alcune modalità comunicative come i
telefoni cellulari e le chat line virtuali che infondono la sensazione di una
continuità, sia pure in realtà solo apparente, nelle relazioni interpersonali.
Dall’altro lato, però, questo stile fondato sull’istantaneità mette a rischio la
capacità di instaurare relazioni durature e di provare sentimenti profondi e si
assiste così ad una sorta di ‘efimerizzazione dei rapporti’. L’individuo
ipermoderno si caratterizza infatti per una difficoltà, se non per una vera e
propria impossibilità, a vivere situazioni e valori a lungo termine (fedeltà,
legami, lealtà, e così via). L’individuo ipermoderno ha dunque l’impressione
di essere costantemente connesso con gli altri, ma in realtà è molto distante
dalla maggior parte di essi. E l’espansione del mondo virtuale dovuto alle
nuove tecnologie, nonostante tutti i suoi aspetti positivi che non è scopo di
questo lavoro analizzare, diminuisce tuttavia la frequenza quotidiana di
interazioni intime. Diviene ora sempre più facile e meno impegnativo
soffermarsi sull’immagine piuttosto che usare i propri sensi (tattili, uditivi,
ecc.) e comunicare senza la presenza fisica presentandosi nel modo che fa
sentire più sicuri e in possesso del controllo della situazione senza dover
5
rendere conto all’interlocutore della realtà .
I rapporti stabili e duraturi vengono sempre più sostituiti da incontri brevi,
ordinari, effimeri e interscambiabili, in cui le relazioni finiscono molto più in
5
Sino al polo più estremo rappresentato dal vasto successo del ‘sesso virtuale’ che non
necessita di un partner reale bensì di un’immagine verso la quale non ci si deve sentire legati da
alcun tipo di rapporto se non puramente strumentale (Varga 2005).
236
fretta di quanto non comincino: il piacere legato all’immediato ha sostituito
quello del coinvolgimento in situazioni durature. Come è stato sottolineato
(Gauchet, 1998), la personalità ipermoderna è connessa ma distante, prova il
bisogno della presenza altrui, ma nel distacco. Senza avere aspirazioni di
durata e di impegno, l’individuo ipermoderno si afferma non coinvolgendosi,
ma distaccandosi, mettendo in atto modalità di prudenza e di autocontrollo.
Ed è proprio la capacità di distaccarsi e disimpegnarsi che diviene la nuova
6
forma di potere e di dominio .
Ed è proprio a partire da alcuni contributi ai quali si è accennato nella
prima parte di questo saggio che hanno via via preso corpo un certo numero di
caratteristiche che oggi possono essere considerate tipiche di una individualità
ipermoderna: in particolare, l’indifferenza, la strumentalità verso se stessi e
verso gli altri, l’essere sfuggenti nei comportamenti, la non spontaneità, la
paura del legame e degli altri, insomma, il disimpegno e il distacco. Questi
elementi costituiscono una griglia che permette ad esempio di comprendere le
nuove modalità assunte con cui si sviluppano le relazioni sentimentali.
Sebbene nella società ipermoderna le possibilità di incontrare un potenziale
partner nel corso della propria vita siano molto più elevate rispetto al passato
(basti appunto solo pensare a quanti incontri permettano di arrivare le chat
7
line), si tratta però nella gran parte dei casi di incontri senza alcuna durata .
Il bombardamento di sensazioni esterne rende infatti difficile provare dei
sentimenti duraturi nei confronti degli altri. Bauman (2004) ha a tale
proposito parlato di ‘amore liquido’: una ‘liquidità’ che, nell’era dell’
‘individualismo rampante’, investe anche il settore delle relazioni affettive e
di coppia. Gli individui anelano alla sicurezza dell’aggregazione e ad un
appoggio nel momento del bisogno, e sono quindi ansiosi di ‘instaurare
relazioni’, ma allo stesso tempo hanno paura di restare ‘impigliati’ in relazioni
stabili e durature, se non addirittura definitive, in quanto, in piena sintonia con
un egoismo ed un individualismo di fondo, temono che ciò possa implicare
costi, impegni, oneri e tensioni che preferiscono non affrontare all’origine. In
breve, paradossalmente gli individui ipermoderni non vogliono legarsi in
relazioni per rimanere liberi proprio di instaurare relazioni.
6
A questo proposito è stato ad esempio messo in luce come la diffusione in molti Paesi del
termine inglese cool nel linguaggio comune definisca la capacità di fuggire dai sentimenti, di
vivere in un modo ‘easy’, freddo e distaccato rifiutando i legami possessivi e duraturi (Pountain
e Robins 2000).
7
Anche la famiglia, come aveva già fatto notare Lasch (1977), non forma più individui dalla
personalità stabile destinati ad un mondo in cui i ruoli erano chiaramente definiti. Scomparendo
sempre più ciò che è durevole, stabile, solido, l’accento viene infatti posto sulla capacità di
adattamento e di cambiamento e sulla formazione di personalità ‘svincolate’ nella durata,
flessibili, e dalle molteplici identità.
237
Nella quarta dimensione, nel rapporto con se stesso, l’individuo
ipermoderno è più che mai caratterizzato dall’eccesso. Questa dimensione
riassume in qualche misura alcuni dei tratti tipici delle dimensioni precedenti.
L’immagine dell’uomo ipermoderno è l’esatto contrario di quella dell’uomo
dei secoli passati, misurato, equilibrato, mosso da radicati e duraturi ideali
morali e sociali. Egli è centrato su se stesso (sul suo corpo e sul suo spirito
come testimonia oggi ad esempio l’esplosione di riviste dedicate alla cura
fisica e psicologica di sé) e in continua fuga per evitare di porsi ed affrontare
questioni importanti sul senso della vita, della morte, del rapporto con gli altri
e con se stesso. Non è più tanto interessato a perseguire il raggiungimento di
una sorta di pace interiore proiettata nel futuro, bensì risultati molto più
tangibili in termini di intensità, soddisfazione e immediatezza. Tutto viene
fatto per se stessi in quanto la fonte di senso è proprio in se stessi. Il senso può
ad esempio essere dato dalla sensazione unica provata nelle situazioni
estreme, sensazione che, proprio perché si è perso lo spessore di qualcosa di
più duraturo, si cerca di rivivere per sentirsi esistere ed appagati
nell’immediato. L’individuo ipermoderno cerca e vive quindi l’eccesso e il
rischio. Eccesso di consumo, di piacere, di pressioni esterne, di stress. Egli è
alla ricerca di performances sempre più elevate, è iperattivo anche sul lavoro,
stringe un rapporto con il tempo sempre più vincolante, e, a volte, proprio
nella ricerca esasperata di questo eccesso, sprofonda in alcuni dissesti e
patologie da iperfunzionamento tipiche dell’individualità ipermoderna: la
depressione fisica e psichica, la dipendenza dalla droga, dagli sport estremi,
8
dai videogiochi, dai giochi d’azzardo e dal sesso compulsivo . Gli individui
diventano insomma dei ‘tossicomani dell’azione’ (Cournut, 2004): se fanno
uso di droghe è per portarsi al limite di se stessi o per darsi ancora più energie
(le droghe privilegiate sono infatti sempre più le anfetamine e non gli
oppiacei); se fanno degli sport devono essere imprese estreme o che
costituiscano al limite delle sfide continue con la morte; se hanno dei rapporti
sessuali devono essere ripetuti con partner intercambiabili, privati di
significato o piacere, rapidi, finalizzati al proprio piacere e patologici al punto
che a volte può essere preferito il sesso virtuale in tutta solitudine che non
comporta alcun confronto/dovere rispetto ad un partner. Nel caso dei rapporti
intimi, ad esempio, la ricerca incontrollata di gratificazioni sessuali è
incoraggiata da una società in cui si spinge a consumare e godere al massimo
di tutte le possibilità a disposizione e può essere l’espressione di
un’insoddisfazione permanente causata da traumi infantili, continuo bisogno
di conferme e di rassicurazioni, necessità compulsiva di affermarsi e di
controllare le situazioni attraverso un dongiovannismo quasi maniacale
8
Sulle nuove patologie e forme di dipendenza nella società contemporanea si veda: Valleur e
Matysiak (2003).
238
finalizzato ad una soddisfazione egocentrica (Levin, 1998). In modo simile, la
ricerca di un’intensità immediata si esprime poi negli sport estremi dove ci si
misura con se stessi per ricercare quel senso che diviene sempre più difficile
rintracciare nella società fluida. La prova estrema infonde all’individuo un
sentimento potente di esistenza e il rischio è l’unico fattore che dà gusto
all’impresa (Le Breton, 1995).
Questi dunque, in conclusione, i tratti distintivi delle dimensioni che
costituiscono l’idealtipo di quello che sta divenendo l’attore sociale di
riferimento nella società ipermoderna globalizzata. In piena sintonia con la
massificazione dell’individualismo nella società contemporanea, l’individuo
ipermoderno si caratterizza per essere sempre più egocentrico ed autocentrato
e l’attenzione smisurata verso il proprio corpo ne è una delle più evidenti
manifestazioni. Di pari passo, in una società caratterizzata sempre più da
un’accelerazione del tempo, l’individuo cerca costantemente di dominarlo,
anche se poi in realtà è più il tempo a dominare lui. La tensione narcisistica a
riuscire a tutti i costi la propria vita, cosa che costituisce il più importante
orizzonte individuale, sfocia nel desiderio di controllare il tempo e di
approfittarne al massimo in ogni momento e il ricorso alle nuove tecnologie di
comunicazione come il cellulare e Internet ne costituisce una delle più chiare
manifestazioni pratiche. Colui che è connesso costantemente con il cellulare o
con Internet diviene allora il rappresentante perfetto dell’individuo
contemporaneo. Ciò comporta dei rischi che si tramutano in ulteriori tratti
caratteristici dell’individualità ipermoderna. L’accelerazione o abbreviazione
del tempo finalizzata alla sua ‘ottimizzazione’, toglie proprio quel tempo
necessario alla riflessione in profondità, cosa che rischia di rendere la vita
individuale sempre più superficiale. Ancora, l’urgenza indotta dalle modalità
di gestione del tempo e l’eventuale difficoltà a soddisfare il costante desiderio
di connessione (sia per mancanza di possibilità, e.g. mancanza di campo del
cellulare, che per mancanza di connessione dell’altro, e.g. l’altro non risponde
al cellulare) può comportare difficoltà di gestione non sempre controllabili e
ciò si trasforma spesso in stress e ansia e in tutta una serie di disturbi che
caratterizzano la personalità ipermoderna ai quali si è accennato. Ma tutta
questa tensione all’accelerazione, ha i suoi effetti anche sui rapporti
interpersonali. I rapporti con gli altri si fanno più effimeri in quanto più
superficiali e l’individuo ipermoderno risulta ‘connesso’ sia pure distante, con
tanti legami ma nessuno o pochi ben radicati. Infine muta anche il rapporto
con se stessi che si caratterizza sempre più per la ricerca estrema dell’eccesso
e che sfocia in patologie che costituiscono altrettanti idealtipi dei disturbi
della personalità ipermoderna. La ricerca dell’eccesso immediato sfocia infatti
spesso in comportamenti compulsivi le cui modalità sono in aumento nella
società contemporanea spesso messi in atto come tentativi di controllare
239
depressione e stress legati all’iperattività (la ciberdipendenza e lo shopping, il
lavoro, lo sport, i giochi, i videogiochi e il sesso compulsivi di individui
sovraccaricati e svuotati)9.
9
In questo senso si parla di personalità borderline per designare quelle persone ben adattate
socialmente e in grado di mantenere le apparenze, con una riuscita professionale soddisfacente,
bisognose di essere apprezzate e ammirate, ma anche di sfruttare gli altri. Apparentemente in
possesso di una maturità e di una emotività equilibrata, in realtà, quando sono impegnate in
relazioni affettive più strette, il carattere instabile e superficiale delle loro relazioni
interpersonali contrasta con il loro iperadattamento di superficie. Si trovano allora o in una
posizione di dipendenza passiva dall’altro, oppure in una posizione di manipolazione
aggressiva dell’altro (su questo punto si veda: Aubert 2003).
240
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MARTINE ELZINGRE
Centre National de la Recherche Scientifique
UMR 7043 Université Marc Bloch
67084 Strasbourg, France
[email protected]
Avant de pouvoir discerner des enjeux de la conjugaison du développement local avec la créativité, je dois situer mon propos. Il est basé sur des
données qui se rapportent à des métiers et des créations de la haute couture et
du prêt-à-porter de luxe féminins. Je m’intéresse à l’émergence de styles dans
la mode vestimentaire en tant que l’on peut y voir des paradigmes de la modernité qui finit et de la postmodernité. L’objet de ma recherche c’est le corps
vivant habillé produit en société, la séduction par l’apparence dans le courant
de la mode, en tant que phénomène qui tend à des fixations, à une uniformisation et aussi aux changements. Tout cela pour assurer la distinction et
l’identification, l’identité, par une fiction, par une théâtralisation. Donc il
convient de considérer le phénomène de la Cosmétique dans son sens étymologique, défini par ce qui concerne les moyens d’embellissement, les artifices
appliqués au corps, au visage, la tête : les habits, les coiffures, le maquillage,
les bijoux.
J’insiste pour ne pas oublier la tête car je commencerai par décrire un évènement récent dans la mode qui justement nous intéresse ici, car il a attiré
mon attention : dans une collection récente de prêt-à-porter : printemps été
2006, Jean-Paul Gaultier a produit des coiffes bretonnes, alsaciennes et autres
pour garnir la tête de ses mannequins, ainsi que quelques pièces de costumes
des mêmes régions : des boléros, des tabliers, des blouses brodées. Avant
cette collection, il avait montré des chapeaux mexicains, des bérets de parisiennes, et des feutres classiques, c’est la première fois à ma connaissance, sur
une durée de dix ans que je note ces citations de costumes régionaux ; auparavant il s’agissait chez Jean-Paul Gaultier et les autres couturiers de pièces
inspirées de régions étrangères à la France : des chéchias, tarbouk chez Romeo Gigli, des mantilles andalouses chez Dior, et chez d’autres des bérets de
marins, des casquettes de commandant, et divers autres couvre chefs. Et lorsque Christian Lacroix a montré des coiffures Arlésiennes il a teinté aussi tout
243
son défilé avec la caractéristique régionale, avec des châles, des dentelles et
des tissus locaux. Dans le cas des coiffes bretonnes, bigoudens, dans cette
collection de Jean-Paul Gaultier, elles apparaissent comme un des signes de
l’apparat au même titre que d’autres non régionaux. Ces coiffes donc
s’alignent sur les autres objets de luxe, comme marchandises. Qu’elles soient
portées ou non comme modèle effectivement hors du défilé n’importe pas
d’ailleurs pour notre propos. On touche ici à un cas d’hybridation de la mode
locale et de la mode internationale, celle qui au contraire est toujours vouée au
changement. C’est un bon exemple original de la rencontre entre la créativité
propre à un lieu et une communauté, et d’un artisanat novateur voué à une
diffusion dans le monde entier : il faut remarquer que les mannequins de JeanPaul Gaultier n’étaient pas habillées en costumes de bretonnes. Les coiffes, et
chapeaux, en paille, en dentelle, exaltaient la richesse et le raffinement,
l’originalité d’une forme et d’une technique rare : une dentelle et ses points
exclusifs. C’est ici l’occasion de remarquer que le couturier a du faire appel à
une forme de distinction particulière, d’un caractère qui l’a inspiré. Le génie
local se conjugue alors avec une forme de luxe qui va être répandu et décliné
à travers le prêt-à-porter, en série. Quelque chose de nouveau sortira des pièces des costumes régionaux pour se répandre dans la mode, la cosmétique.
C’est ce point même qui m’apparaît bien illustrer le thème de notre colloque.
L’identité d’un groupe profitera d’une reconnaissance et à une autre aussi qui
la dépasse.
Faut-il rappeler que le luxe dans la mode vestimentaire concentre des saveurs, des sensations; avec la couleur rouge, ou bleu, ou rose, des pierres, des
colliers, des broches, des diadèmes, le strass, les éclats de diamants, le mouvement et les reflets de lumière des étoffes, des plumes, les broderies, le galbe
rayonnant des habits moulants. Et tous ces éléments aux effets physiques pour
nos sens ont des origines spécifiques et uniques ; à les voir, on y consomme
l’étrange comme il nourrit hautement l’imaginaire. Précurseur en son temps,
Elsa Schiaparelli a importé : Le Rose des Incas et cela est un processus tout
différent de s’inspirer, comme la couturière l’a fait aussi, du Sari indien. Elle
a fait exécuter de flambloyantes broderies sur le tissus rose .(Palmer
White,1986) Ce Shocking Pink est devenu depuis un moyen suprême, vedette,
de signifier le panache et la séduction, le glamour, l’irrésistible conquête. Et
aujourd’hui dans le prêt-à-porter cette couleur peut mimer le luxe et le sexy
pour tous, de façon proche de l’or.
La mode de luxe se réalise par le spectacle, depuis longtemps, et sous des
formes variées, et aujourd’hui comme marchandise dans des défilés de collections, et par la reproduction de l’image, la photographie, la vidéo.
L’exclusivité est consommée par la vue dans la reproduction. Il n’est ni indifférent ni banal qu’un photographe de mode fameux : Henry Clarke, nord américain, dans les années 1960, 1970, ait inauguré des prises de vue en extérieur
244
dans des lieux exceptionnels imprégnés de culture, et du développement des
civilisations majeures : grâce à l’art d’un certain type de prise de vue (en
contre plongée parfois) et à celui des couturiers, les mannequins pouvaient se
mesurer aux bâtiments: le Parthénon, un temple égyptien, Persépolis, Petra,
Sainte Sophie, la mosquée bleue à Ispahan, le Tajmahal, et d’autres palais
impériaux, ainsi que des paysages naturels les plus fabuleux.(musée Galliera,
2003) Roland Barthes dans un de ses écrits sur le vêtement affirme qu’un
habit doit se mesurer avec des substances naturelles : la pierre, la nuit, le
feuillage, pour voir s’il a des défauts, des faiblesses, s’il « souille le paysage »
(Barthes, 1955 ). Il ne faudrait pas oublier que les savoirs faire originaux en
matière de parures sont issus de situations rituelles et votives très souvent :
des broderies, des tissages, destinés aux cérémonies, des maquillages et des
peintures du corps. Des inspirations dans l’origine, l’originel, hantent
l’esthétique des costumes et de la mode, c’est une source sure, on peut
l’identifier à un besoin de se tenir au-delà, hors temps, et au-delà de la mort,
écrit Gilles Lipovetsky , lorsqu’il assimile le luxe des parures de mode aux
mobiliers funéraires (bijoux) des sépultures préhistoriques.(Lipovetsky, 2003)
On peut considérer la mode d’aujourd’hui comprise dans une période de
150 ans passés, et la situer aussi au niveau d’ un pallier, une étape aux alentours des années 1750, quand le goût et le beau sont de nouvelles notions (
Roux, 2003). L’auteur déclare : le luxe comme marchandise, c’est « gérer
l’ingérable » c'est-à-dire : créer et produire. C’est ici encore où se rencontrent
développement local et créativité. Et cela dans la reconnaissance de la double
dimension éthique et esthétique; Esthétique, écrit Michel Maffesoli : pour
qualifier le style de l’époque aujourd’hui, relie éthique : une manière d’être, à
esthétique : un ressentir commun ;(Maffesoli, 1990) et donc « le luxe peut
répondre à un besoin de sens » (Roux,2003).
« Même s’il est galvaudé à cause des marques » selon José Alvarez éditeur de livres d’art. Le luxe est un élément du processus créateur du déploiement fastueux. Cela n’est vraiment pas un détour frivole que de s’attarder sur
le luxe, pour identifier les enjeux du développement local avec la créativité.
Spécifions le mot local : c’est grand comment le « local » ? Leyla Belkaïd
a écrit : Algéroises, histoire d’un costume méditerranéen. (Belkaïd,1998). Le
costume et les parures des femmes y sont décrits à travers leurs manifestations
sur toutes les rives de la mer méditerranée, en passant par toutes les villes, de
Tanger à Beyrouth, et Jérusalem, et par toutes les villes bordant l’Adriatique,
ainsi que les îles. Le local… : un continent ? En 1985, Eiko Ishioka, directrice
artistique japonaise de Shiseido, puis de Parco,- les plus grands centres commerciaux japonais- écrivit un manifeste : East Meets West, une expression
qui fut reprise par d’autres à l’envi ; Eiko déclarait que la seule façon de réunir le Japon à l’occident et pour abolir les barrières entre moyens
245
d’expression, c’était de faire une œuvre artistique commune. Elle fut aussi
directeur artistique pour l’écrivain et réalisateur de cinéma Mishima.
A ce point exact il faut rappeler un aphorisme de Picasso, qui déclarait que
l’art est sexuel et érotique sinon çà n’est pas de l’art. Il s’y connaissait bien,
non ?!
Aujourd’hui un des plus puissants groupes chinois en confection, Shanghaï Tang, qui a revendiqué la tradition et la richesse de 5000 ans d’histoire et
de civilisation impériale chinoises, fait renaître la séduction des femmes et des
habits des années 1920 à Shanghaï, la mode dans un port et ses commerces, et
il adapte ses vêtements pour les femmes européennes d’ aujourd’hui dans
l’esprit du film In the mood for love (Wong Kar War 2000)
Pour connaître, décrire les caractères des parures des bédouines d’une région du Proche Orient, il est nécessaire de connaître six ou sept autres régions
au moins. C’est avec ces sources que la nouvelle haute couture en Jordanie,
s’est composée, en s’adaptant aussi à des formes occidentales. Sa Majesté, la
reine Rania de Jordanie s’habille avec ces modèles recomposés, pour assister
aux réceptions officielles.
Alors que Roland Barthes établissait très justement une distinction entre
des faits d’habillement, et des faits de mode, il se posait aussi la question du
signifié et du signifiant. La mode emprunte à l’habillement et aux rites (les
coiffes, les boléros etc…) et le signifié dentelle, de tel village, dans telle île ;
car c’est l’identité, une histoire, un savoir exceptionnels. Et des moments de
la vie exceptionnels eux aussi .Vivienne Westwood a mondialisè des faits
d’habillement des punks ; des habits qu’elle a aussi contribué à créer, en faisant partie de la communauté punk dans des quartiers de Londres. Et cette
couturière déclare qu’elle ne serait rien sans les italiens, Armani surtout ;(Mulvagh, 1999 ) car les Italiens ont financé son entreprise, l’ont aidée
avec des tissus. Aujourd’hui, des couturiers européens, italiens, français, font
fabriquer des pièces brodées, soit à la pièce, soit au métrage. A Bombay en
particulier, des milliers de brodeurs qui ont des milliers de techniques locales,
et qui en plus savent refaire tous les points de France et autres pays, produisent pour la haute couture et le prêt-à-porter qui utilisent leur artisanat. « Si
un brodeur en Inde cesse de travailler, c’est une technique qui disparaît » me
confie un agent de brodeur. Des entrepreneurs français réaniment des artisanats en train de mourir un peu partout dans le monde depuis des années : par
exemple la société Heartwear en Afrique et en Indes, la société Trikitrixa au
Pays Basque, et en Indes, en Chine, au Pérou.
La couleur bleu qui a mis des siècles à prendre la place de couleur dominante,(Pastoureau 2002) dans l’imaginaire, et à remplacer le vert des cartes
mondiales pour représenter l’eau, des rivières, des océans, se retrouve avec le
bleu indigo en Afrique qui trouve des débouchés commerciaux par le fait de
nouveaux réseaux dans le vêtement et l’art de la maison en Europe. On doit
246
remarquer que dans ces collaborations les artisans ne sont pas domestiqués,intégrés, ils sont juste guidés dans leur créativité par des commandes
appliquées à leurs savoirs faire. Et le commerce est équitable. L’inspiration et
le métier de designers se confient à des artisans confirmés ou qui se forment
encore. Christian Lacroix donne en sous-traitance ses corsets à exécuter aux
Ateliers du Costume à Paris, qui travaillent pour l’ Opéra de Paris et la Comédie Française, et d’autres couturiers s’adressent aussi à cet atelier comme lui.
John Galliano a fait faire des colliers Masaï chez eux, il en a besoin pour
l’image de Dior. Le couturier doit présenter des parures extraordinaires au
public des media, et d’énormes bijoux de pierreries fixées sur les vêtements.
La maison Hermès, elle, a fondé des ateliers a l’étranger pour le travail du
cuir et des garnitures en argent avec des artisans les plus habiles détenteurs
des savoirs faire.
Des couturiers travaillent donc souvent en partenariat avec des fournisseurs du textile, et ne pourraient pas créer et produire sans cette collaboration.
En France La Maison du Lin, et Solstice, les dentelles de Calais ; en Italie,
Maurizio Galante travaillait avec Nylstar. On voit par ces exemples comment
des talents originaux croissent avec des partenaires et dans des lieux et des
fonctions séparés. Cela ne dure pas, ou bien cela dure, c’est pas pour la vie,
mais si çà ne marche pas, les couturiers rebondissent ils trouvent une autre
solution, changent leur production, leur style. Certains enseignent dans des
grandes écoles de mode en France et ailleurs : Londres, Berlin, Dubaï, Genève, Paris, Milan… Ils trouvent des alternatives économiques et continuent
de créer. Maurizio Galante a utilisé des Hobbis japonais trouvés aux marchés
aux Puces au Japon ; il les retourne à l’envers, les coud à sa manière ; il fait
aussi travailler des artistes en Italie, des tisserands, entre Rome et Naples. Ces
artisans font des œuvres très originales avec leur propre tradition et grâce à
des outils qui se perdraient. Vous voyez la diversité des talents, des solutions,
des influences. Il y a un partage des avantages et des responsabilités. Un autre
exemple, en France à Bordeaux : un industriel a converti en partie sa méthode
de production pour fabriquer selon des patrons du couturier Japonais Zucca,
de Tokyo. Avec l’entreprise Beraha, une nouvelle ligne de Zucca est sortie :
Zucca Travail ; dans l’usine de Bordeaux, on ne fabriquait que des vêtements
de travail pour les ouvriers, les vignerons et les agriculteurs ; la ligne Zucca
Travail elle, est destinée à des citadins et citadines du monde entier ; le produit est coûteux, les coupes sont belles et ressortent de l’idée d’uniforme : des
pièces élégantes pour s’habiller la journée qui peuvent s’assortir avec ce que
l’on veut, car les couleurs sont marron, bleu, beige, rose pâle, marron, noir.
Nous ne sommes plus comme avant la seconde guerre où la « localité », la
rue de la Paix, comptait des « maisons » avec des ateliers de 400, et 6oo ouvrières à Paris, chez Givenchy, et Robert Piguet notamment.
247
C’est parce que des couturiers du Proche-Orient (au Liban) et des Pays de
l’est,(Moscou, Géorgie) créent et produisent pour la scène mondiale, à Paris,
Londres, Milan, New York et qu’ils utilisent leurs ateliers locaux de couture,
de broderie, qu’ils peuvent se développer, avoir un succès commercial. Des
couturiers Russes, Seredin et Vassiliev, peuvent et savent grâce à leur culture
originale, présenter une mannequin sur le podium, qui tient un gros coq vivant
dans les bras ; çà semble drôle peut-être, mais cela produit en réalité un tableau splendide sans aucun ridicule car très photogénique ;cela est possible
parce que cela a lieu sur la scène de la haute couture, à Paris, et que ces couturiers connaissent parfaitement bien la mise en scène ; ils sont tout d’abord
décorateurs, costumiers de l’Opéra de Moscou : ils ont créé l’ alliance de la
femme, de l’habit, et du maquillage, avec les teintes de cette volaille, en noir
et blanc! La mesure, et l’harmonie, dans la démesure. Une juste composition.
C’est l’art populaire et poétique comme un tableau de Chagall.
Les exemples seraient encore très nombreux pour illustrer les relations entre le local et une créativité, qui créent une marchandise globalisée.
Les enjeux c’est l’édification des styles qui médiatisent le social et
l’histoire, par le langage corporel, la sensualité à travers le partage des sensations. Sachant comme l’écrit Jean Duvignaud qu’il est très difficile de situer
les « périodicités » du style.
Et Hussein Chalayan, couturier designer le plus fameux, et le plus conceptuel aujourd’hui, qui vit à Londres et à Chypre déclare :
« Il ne faut pas que la virtualité prenne le pas sur la mode, la création, la
culture ». « Nous, qui nous sentons si seuls et qui cherchons une identité »,
déclare-t-il par ailleurs (Chalayan, 2003).
Oui, en effet, car des couturiers présentent des modèles virtuels ; pour
l’instant faire un tel modèle coûte très cher ; un seul modèle virtuel, c'est-àdire une femme virtuelle habillée aux mesures exactes, demande des milliers
d’opérations, de dessins, comme chez Walt Disney…. et c’est une main qui
opère pour cette technologie.
Pourtant une grande maître des tendances : Lee Edelkoort, consultée à
Trend Union, sa société, par le monde entier de la mode et du design décoratif
et industriel déclare à son tour :
« la tendance va vers réduire l’abstraction, invoquer l’esprit » réinventer
des traditions populaires, remémorer les pigments ».
Et je voudrais terminer par ce mot de Jean Duvignaud :
« Le style est une manière d’être qui tente de réaliser par le jeu des formes une utopie, une image de l’homme en projection infinie ».
248
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249
250
Elogio della creatività nell’epoca del lavoro
flessibile
SILVIA FORNARI
Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione
Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Perugia
P.zza Ermini, 1 – 06123 Perugia (Italy)
[email protected]
Non è dal lavoro che nasce la civiltà:
essa nasce dal tempo libero e dal gioco
A. Koyré
Lo spirito creativo si afferma
dove regna la serenità
Le Corbusier
1. Considerazioni introduttive
Parlare di innovazione e di creatività in un’epoca di turbamenti e complessità sociali come la presente, in cui i tratti caratterizzanti della cultura postmoderna o della seconda modernità sono a testimonianza di un forte senso
d’instabilità sociale, politica ed economica, se non addirittura culturale, è impresa ardua. Questo stato di malessere generale che contraddistingue tutte le
epoche, come la nostra, definite di passaggio mostra i portati di un “disagio
della postmodernità”, come è stato osservato dallo stesso Bauman
nell’introduzione a La società dell’incertezza (cfr. Bauman 1999b).
In parte le risposte date a questo stato di instabilità riguardano un rinnovato interesse nei confronti dell’aspetto irrazionale, delle emozioni e dei sentimenti (cfr. Bauman 2004; Giddens 1995; Fornari 2005). Le emozioni, le passioni mostrano il lato a lungo celato della realtà sociale, un lato frutto di una
criticità difficile da interpretare ed individuare, nel momento in cui le risposte
date dalla società moderna a questo aspetto non sembrano più adatte o forse
meglio adeguate alle rapide trasformazioni epocali con le quali ci dobbiamo
confrontare quotidianamente. In questo complicato contesto, l’emotività e la
variabilità delle sensazioni, e conseguentemente la creatività, sembrano offrire
punti di vista privilegiati per leggere con rinnovato interesse la realtà odierna.
Non dimenticando poi che la stessa complessità sociale ha portato allo svilup251
po di una seconda modernità o postmodernità, indicandoci la strada che ci
conduce alla “fine dell’epoca del reciproco coinvolgimento: tra controllori e
controllati, leader e seguaci. La principale tecnica di potere diventa la fuga,
l’evasione, il distacco, il netto rifiuto di qualsiasi confinamento territoriale
con i suoi gravosi corollari di costruzione e preservazione dell’ordine, della
responsabilità per tutte le conseguenze nonché dell’obbligo di sopportarne i
costi” (Bauman 2002, p. XVIII).
Così proprio oggi, nell’epoca delle esitazioni e delle incertezze, la possibile risposta ai continui e repentini cambiamenti dimora nel comprendere il significato della difficoltà di vivere in una “società liquida”, utilizzando la metafora di Bauman. La forma liquida richiama il senso dell’instabilità, poiché
nella mente si foggia l’idea di un movimento continuo, di una sostanza che ha
bisogno di essere contenuta, che deve essere circoscritta poiché “i fluidi non
conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a
cambiarla; cosicché ciò che conta per essi è il flusso temporale più lo spazio
che si trovano a occupare e che in pratica occupano solo «per un momento»”
(Bauman 2002, p. VI). La liquidità e la fluidità sociale evidenziano un tempo
provvisorio del qui ed ora, in cui non è possibile pensare oltre l’istante, ma
soprattutto il tempo è un elemento indispensabile per considerare i fluidi, e
tutte le possibili e diverse descrizioni dello stato dei liquidi che individuano
una precarietà: le esperienze che si realizzano nella realtà sociale, così, “sono
tutte delle istantanee sul cui retro occorre sempre apporre la data” (ibidem).
Da queste descrizioni si comprende l’estrema transitorietà del nostro tempo, ma soprattutto appare la caducità dei legami sociali, l’incapacità
dell’individuo di sentirsi parte di un tutto; il soggetto è in continuo movimento, come una totalità mai uguale a se stessa. È proprio in questo contesto che
diviene sempre più difficile pensare di accettare il corrispettivo sociale di uno
schematismo, di un condizionamento culturale, di trovare soluzioni definitive
a problematiche emergenti e spesso gravose (cfr. Lasch 2004). Si rischia di
dare risposte o estremamente positive o di evincere solo le difficoltà di lettura
dell’organizzazione postmoderna del lavoro, rischiando di farci diventare
soggetti passivi di un eterno presente, incapaci di costruire e progettare la
propria vita. In questo senso “ciò che chiamiamo «società» è un colossale
marchingegno che fa proprio questo; società è sinonimo di convenire e condividere, ma anche della facoltà di conferire dignità a ciò che è stato convenuto
ed è condiviso. La società consiste di tale potere perché, proprio come la natura, essa era qui prima che tutti noi nascessimo e sarà qui quando non ci saremo più” (Giddens 2002, p. 8).
In una realtà sociale così complessa e piena d’insidie costanti si richiede ai
soggetti, attori di questo tempo, di saper agire nel quotidiano senza trovare risposte certe al senso di instabilità. È nei momenti di condivisione dello spazio
sociale e culturale, nell’attualità delle scelte di vita che l’individuo sacrifica la
252
propria identità, la propria specificità per trovare una stabilità ed un riconoscimento sociale. La perdita delle sfumature e distinzioni più profonde del
proprio “io”, è determinata dal nostro bisogno di sentirci parte della realtà sociale e culturale nella quale viviamo, poiché “quando gli individui sono alla
presenza l’uno dell’altro sono ammirevolmente situati per condividere un comune centro di attenzione, percepire che lo stanno facendo e percepire questa
percezione. Ciò […] costituisce la precondizione di un fenomeno basilare: la
continua, intima coordinazione dell’agire, sia a sostegno di compiti da eseguire in stretta collaborazione, sia come mezzo per permettere a quelli adiacenti
di svolgersi l’uno a stretto contatto con l’altro” (Goffman 1998, p. 47).
Con questa prospettiva, l’intervento che qui presento si propone di
analizzare la tematica dell’innovazione rispetto ai nuovi modelli per lo
sviluppo, in una relazione capace di evincere il ruolo della creatività nel
tempo della flessibilità e dei contratti a progetto, quale componente
indispensabile per una visione innovativa della realtà imprenditoriale odierna.
2. La creatività
L’instabilità, l’incertezza e la flessibilità sono i tratti distintivi di questa
epoca che si sono sostituiti al mondo della stabilità e della sicurezza, categorie
di riferimento del capitalismo di stampo fordista e dello Stato sociale; ed è in
riferimento allo smantellamento delle istituzioni capitalistiche sociali, che diviene opportuno precisare cosa si intende per creatività, dargli la giusta collocazione, per riuscire a delineare le possibilità e le prospettive offerte
dall’introduzione delle nuove tipologie lavorative ed economiche (cfr. Sennett
1999; Sennett 2006).
Una tra le diverse definizione del termine “creatività” evidenzia il carattere
processuale che permette di guardare la realtà attraverso nuove prospettive,
ossia l’arte di adattarsi velocemente al cambiamento; la capacità di adeguarsi
a situazioni oscure, oppure di trovare nuove soluzioni a vecchi problemi, poiché “creare” vuol dire “trarre dal nulla”, produrre cose nuove ed originali. Ma
dobbiamo anche ricordare che questo termine può essere utilizzato in modi
diversi, in relazione all’ambito di riferimento: biologico, psicologico, scientifico, industriale, sociale o artistico, generando evocazioni ben distinte (cfr.
Cocco 1987, pp. 17-18). È necessario allontanarsi dal mito del “genio e sregolatezza”, tormentato e turbolento; la creatività è sinonimo di capacità di espressione, di innovazione, si traduce in nuove forme, nuove espressioni,
nuove discipline come ad esempio la “psico-economia”. La creatività è la capacità di combinare suggestioni e stimoli (istinto delle combinazioni, di memoria paretiana, in cui un buon percorso formativo completa la tipologia vincente dell’imprenditore). Si tratta di una capacità innovativa esaltata nel tem253
po della società capitalistica, quando il capitalista, l’imprenditore era colui
che metteva in gioco il proprio capitale economico e la propria inventiva e
creatività. Oggi però come ci ricorda Sennett sono cambiati anche i termini di
riferimento poiché se con la parola “carriera si “rimanda a una «strada per carri»; e questa parola applicata al lavoro, indicava in quale direzione un individuo doveva incanalare i propri sforzi in campo economico. Una direzione che
era necessario seguire per tutta la vita. Ma oggi il capitalismo flessibile, con la
sua pratica di spostare all’improvviso i lavoratori dipendenti da un tipo di incarico a un altro, ha cancellato i percorsi lineari tipici delle carriere” (Sennett
1999, p. 9). La creatività, quindi, non come astrazione, ma come maggiore attenzione alla realtà, “trovando il nuovo” anche nel solco della tradizione.
Il soggetto attivo, creativo è colui che in tutte le fasi dello sviluppo personale riesce a maturare ed arricchire le proprie potenzialità di soggetto nei diversi ambiti di vita. Così che le doti di spinta all’innovazione, determinata da
una buona dose di coraggio nelle scelte e un carattere creativo, non sono solo
le caratteristiche necessarie per la carriera di un imprenditore di successo, ma
sono le qualità necessarie per tutti coloro che operano nei nuovi mercati, siano
essi i proprietari o gli esecutori/lavoratori di queste stesse imprese. La creatività in ambito economico si evidenzia come la capacità di innovazione di coloro che operano nell’imprenditoria, i quali grazie alle doti combinatorie personali realizzano un lavoro creativo, capace di utilizzare o strutturare altro lavoro ripetitivo (cfr. La Rosa 1977). La crescita del valore personale, della creatività, come dimensione di sviluppo del soggetto, è fondamentale per il passaggio da una “società dell’apprendimento diffuso” ad una “società della conoscenza” o “società cognitiva”, dove l’apprendimento, il sapere, la consapevolezza e la sua costruzione giocano un ruolo decisivo. L’apprendimento diviene “cuore pulsante della società”, “apprendere ad apprendere”, riconoscendo ad ogni soggetto il diritto alla formazione continua ed allo sviluppo delle
proprie doti o capacità personali.
La formazione diventa un abito mentale, una dimensione critica per accettare le evoluzioni e i mutamenti. Cambiare la direzione nelle scelte di vita
mette in discussione gran parte dei nostri saperi, il percorso sino a quel momento seguito. Modificare il punto di vista significa aver appreso gli strumenti per compiere scelte in piena libertà, mezzi capaci di farci uscire anche dalle
difficoltà più ardue. Si tratta di indirizzarsi verso percorsi di crescita personale, più consapevoli e maturi capaci di sviluppare una nuova forma mentis,
poiché oggi il giovane laureato, ma anche il quarant’enne o cinquant’enne alla
ricerca di un lavoro devono essere dotati di adattabilità, di strumenti e di capacità per comprendere appieno le situazioni contingenti di trasformazione e
di crisi delle stesse aziende e società che operano nei settori più diversi
dell’economia odierna. L’abito mentale innovativo e creativo è il prodotto di
un tipo particolare di pensiero: il pensiero “laterale”; una tipologia di pensiero
254
capace di far esaltare l’abilità nel saper sondare i problemi in tutti i loro aspetti, sapendo poi variare rapidamente la prospettiva quando la soluzione non è
quella più adeguata (cfr. De Bono 1981, pp. 9-18; De Bono 2001). Il pensiero
laterale è quindi sinonimo di creatività, che necessità però di un altro elemento altrettanto essenziale la “divergenza”, ossia l’abilità a trovare soluzioni innovative, individuando le vie preferenziali di accesso al ragionamento “analogico” e non solo per processi rigorosamente “logici”. La forma mentis si caratterizza quindi di una flessibilità concettuale che permette ai soggetti di accettare l’idea che nessun tipo di percorso formativo è svantaggioso, poiché le
nostre conoscenze e i nostri saperi appresi nel corso del tempo hanno la necessità di rapportarsi sempre e comunque alle situazioni specifiche che il lavoro crea. Lo strumento privilegiato di lettura in questo tempo non è più raffigurato dal bagaglio nozionistico appreso, ma è dato dalla flessibilità delle organizzazioni concettuali di ognuno di noi, che ci permettono di superare una serie di difficoltà di inserimento lavorativo. Il binomio ancora valido nel nostro
Paese sino alla fine degli anni Ottanta del Novecento, che vedeva un rapporto
ancora saldo tra diploma o laurea ed inserimento nel mondo del lavoro per il
quale si era studiato è ormai venuto meno. Ciò si è verificato soprattutto da
quando le aziende vengono intese come sistemi sociali che richiedono non solo esperti di materie economiche e scientifiche, ma chiedono uomini e donne
che pur avendo una impostazione culturale e professionale afferente al campo
delle lettere e delle scienze dell’uomo siano maggiormente dotati delle caratteristiche tipiche del pensiero “laterale” e “divergente”. Il complesso e multiforme contesto socio-economico richiede capacità di innovazione e creatività
per riuscire a rispondere alle trasformazioni del mercato del lavoro ed alla
conseguente diffusione di nuovi modi e di nuove tipologie lavorative. Le aziende hanno bisogno di persone capaci di rispondere ai mercati, così come le
stesse aziende devono comprendere l’importanza e la necessità degli investimenti nella ricerca e nell’innovazione per rispondere alla complessità e alla
pressioni dei nuovi mercati globali.
3. Le nuove forme economiche
Coscienti delle motivazioni che hanno determinato il passaggio dalla società moderna (fondata sul modello burocratico dello Stato e delle imprese,
descritto da Max Weber, capace di dare sicurezza grazie alla programmazione
degli interventi statali e conseguentemente protezione dai possibili rischi del
mercato) alla società postmoderna (in cui si realizza lo smantellamento delle
istituzioni basate sul capitalismo sociale determinando una incapacità degli
individui di investire nel proprio futuro) è necessario ricordare l’influenza e
l’importanza della rivoluzione tecnologica operata da internet, capace di incidere nei modi della comunicazione e dell’interagire, creando opportunità per
255
una nuova mentalità gestionale dell’economia e del lavoro. In una realtà in cui
lo sviluppo tecnologico si mostra come la più importante risposta alle diverse
problematiche si evince la necessità di comprendere quali sono i limiti e le incongruenze di questo ambito. Senza dimenticare che il terzo settore sarà il
luogo del lavoro, determinato dalla dematerializzazione dei servizi, alla crescita del lavoro creato dalle idee, valorizzando il lavoro intellettuale e progettuale nei diversi settori (cfr. De Masi 2003, pp. 153-70). In questo contesto la
produzione culturale è il principale terreno di sviluppo dell’economia globale
nei prossimi anni. Assisteremo così alla crescita della produzione culturale di
contro ad una diminuzione del lavoro prodotto dall’informazione e dai servizi,
sino a collocare ormai agli ultimi posti la produzione industriale ed agricola.
Questo passaggio nel mondo del lavoro industriale a favore di uno sviluppo dei servizi e della produzione culturale è una risposta emersa dopo un ampio dibattito intorno alle sorti del lavoro (cfr. Friedmann 1955; Sennett 1999;
Stiglitz 2001). La trasformazione del mercato del lavoro ha introdotto concetti
nuovi che possono essere così riassunti: flessibilità, lavoro atipico e
deregulation. Gli effetti di questi tre elementi strutturali stanno cambiando in
Italia, e negli altri Paesi industrializzati il profilo lavorativo richiesto dalle aziende per l’inserimento dei nuovi lavoratori; così come si è determinata la
nascita di nuove professioni. Negli ultimi dieci anni del secolo scorso si è assistito al venir meno delle certezze di ciò che si potrebbe definire il “recinto
lavorativo” costruito soprattutto in Europa e in Italia, capace di garantire posizioni lavorative piuttosto fisse, con diritti e doveri delineati. Il recinto si è dimostrato troppo rigido rispetto alle esigenze di innovazione e ricerca che hanno portato le aziende a ridurre drasticamente il numero del personale impiegato, preferendo investire in nuove tecnologie. Solo lo Stato ha mantenuto intatta questa struttura rigida, decidendo di assorbire i costi e non investendo in
ricerca ed innovazione a prezzo così di una scarsa efficienza (a riguardo si ricordano i drastici tagli ai finanziamenti per la ricerca universitaria operati in
Italia). Quando gli scenari economici mondiali hanno mostrato il nuovo volto
caratterizzato dalla competitività e dall’esasperazione della prestazione, hanno
reso anacronistica e potenzialmente dannosa la tipologia del “recinto lavorativo”. L’aumento di forze economiche emergenti, facilitate da interventi governativi, hanno genericamente “elasticizzato” il mercato del lavoro, creando una
struttura in cui è semplice l’ingresso, ma nello stesso tempo è facile l’uscita
dallo stesso mercato caratterizzato da imprese “piatte” nel senso che hanno
diminuito le distinzioni gerarchiche, ma hanno aumentato il peso del lavoro
subordinato e precario. Il termine di riferimento oggi è quindi flessibilità, in
cui per avere maggiori opportunità è necessario non contare su troppe certezze
e non essere mentalmente troppo rigidi.
Questo tipo di realtà lavorativa genera sicuramente situazioni di maggiore
complessità poiché va da sé che un lavoro flessibile produce incertezze ed in256
stabilità a causa della svalutazione delle competenze individuali e soprattutto
in ragione della difficoltà nel riuscire a programmare un percorso lavorativo e
di vita consono. Non dobbiamo però sottacere il rovescio della medaglia della
flessibilità capace nello stesso tempo di determinare maggiori opportunità e
stimoli nel fare e nel creare nuove opportunità lavorative. Si tratta di un nuovo
modo di intendere il lavoro il quale ha perso le connotazioni di stabilità e sicurezza per tutto l’arco della vita dell’uomo; al suo posto, in completo contrasto, l’instabilità più ampia e varia, che non deve però essere intesa solo come
negazione di qualsiasi nuova garanzia, poiché è necessario ricordare come alle
vecchie istituzioni come lo Stato e le imprese si sono andate sostituendo nuove reti sociali esterne, capaci di creare nuove tipologie di appartenenza, nuove
network (cfr. Donati 1991; cfr. Piselli 1995; Seed 1997; Di Nicola 1998).
È necessario non cedere ad un cupo pessimismo, sebbene sia chiaro che il
sistema sociale non è capace di trasformarsi radicalmente, di riprogettarsi e
con grande difficoltà sarà in grado di valorizzare la produzione creativa, la riproduzione vitale ed il gioco inventivo, che sono invece i prodotti della trasformazione del lavoro tradizionale. Spesso si creano invece false illusioni,
politiche volte al mantenimento della popolazione attiva (sempre più longeva
e numerosa) in condizioni di apparente occupazione e di reale subordinazione.
In questo modo molti sforzi ideativi, che dovrebbero essere impiegati per riprogettare i tempi e la vita di una società postindustriale per l’incapacità di
riuscire ad accettare e pianificare quella che è stata definita la liberazione del
lavoro, artefice di nuove forme di vita ben più libere e felici (cfr. De Masi
2003). Il nostro bisogno di sentirci parte di un contesto, di una realtà, descrive
un processo innato, istintivo per la nostra vita psichica e sociale. Un processo
dispendioso, non solo per la nostra identità psicologica, ma soprattutto per
quella sociale. Poiché è il contesto sociale che richiede ai soggetti di essere
attivi nella ricerca di spazi adeguati non solo di condivisione, ma di creazione
di modi di pensare, di lavorare, di agire in senso generale. Le richieste sono
sempre più alte, mentre le possibilità/opportunità sono al contrario sempre più
scarse; poco lavoro, poca sicurezza, poca stabilità emotiva aumentano il nostro stato di disagio quotidiano, in cui “il tentativo che ciascuno compie di
comprendere il mondo e venire a patti con esso si configura come un processo
creativo di cui ciascuno è, nella sua singolarità, il principale artefice: siamo
noi a contribuire in larga misura all’autenticità della nostra esistenza” (Carotenuto 2005, p. 50).
La perdita della soggettività nella società moderna ha favorito
un’oggettivazione razionalistica facendo ribaltare il referente autentico
dell’azione sociale, poiché “la tecnica, nella sua espressione moderna, diventa
quell’orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi
d’esperienza. Non più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura
tecnica, ma la tecnica come condizione che decide il modo di fare esperienza.
257
Qui assistiamo a un capovolgimento della soggettività: non più l’uomo soggetto e la tecnica strumento a sua disposizione, ma la tecnica che dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario” (Galimberti
2004, p. 345).
La fiducia nella tecnica e nella tecnologia, come panacea per tutti i mali
del nostro tempo, come risposta alle diverse problematiche non è più in grado
di dare soluzioni agli eterni conflitti. Si assiste così alla crisi del razionalismo
a favore di un ritorno della soggettività, ma anche questo passaggio non è privo di insidie poiché l’esaltazione della soggettività è un processo di per se avulso dal vero significato del soggetto. L’esaltazione individualistica, la libertà degli individui è stata sinora capace di produrre solo soggetti passivi di un
eterno presente, incapaci di costruire la propria vita e conseguentemente la
propria soggettività vera, ovvero la capacità di compiere scelte all’interno del
mercato postmoderno, in cui tutto sembra possibile perché contrassegnato da
un prezzo. In realtà, tale mercato ha creato più flessibilità e lavoro “creativo”,
introducendo però stati di aumentata libertà di gestione del proprio tempo,
dalla quale è scaturito l’incremento degli emarginati e si è assistito alla repentina crescita del conflitto sociale (cfr. Bauman 2005). In questo contesto “la
complessità del tutto naturale del vivere è forse diventata patologica? Esiste
oggi una reale incapacità di farsi carico di una situazione di angoscia, magari
ampia e generalizzata, senza considerarla di competenza innanzitutto della
tecnica?” (Benasayag, Schmit, 2003, p. 9).
4. Le nuove forme sociali
La società che si evince da questa breve descrizione è una società delle
non-opportunità, dei prodotti proposti dal mercato, in cui il soggetto non è
pienamente artefice dei propri desideri, ma semplicemente il consumatore per
eccellenza (cfr. Fornari 2005, pp. 140-149). I temi della complessità sociale ci
costringono quindi ad individuare, come esposto nel titolo di questo lavoro,
nell’elogio di uno spirito creativo ed innovativo la risposta per la difficile situazione che caratterizza l’uomo postmoderno, costretto a vivere in una realtà
consumistica, alienante ed individualistica.
Le nuove forme capitalistiche e le diverse sfaccettature che le descrivono,
hanno determinato una trasformazione che ha prodotto un aumento
dell’autonomia, della professionalità e della qualità lavorativa rispetto al vecchio sistema industriale, ma che evidenzia anche lati negativi e i tratti grigi
che distinguono la realtà del terzo settore e dei servizi, che però come evidenziato in precedenza, è il settore più in crescita. Si introduce in questo senso,
senza perdere di vista uno dei problemi fondamentali e cioè il rapporto che
esiste tra la durata del lavoro ed il livello di vita degli individui,
258
l’umanizzazione del lavoro per riuscire a superare l’idea del lavoro odierno in
frantumi (cfr. Friedmann 1960).
Non dobbiamo infatti dimenticare che il processo di idealizzazione del nostro recente passato industriale non ci aiuta a volgere lo sguardo verso il futuro e riuscire quindi a tracciare una nuova strada per gli uomini e le donne che
vivono i tumulti di questo contesto grigio ed indefinito. Superare il senso di
nostalgia per il senso di stabilità e sicurezza che sembrava offrire il sistema
fordista è opportuno, poiché oggi il senso di sicurezza, la competenza e la motivazione possiamo ricrearle non solo legandole all’idea di un posto di lavoro
fisso, ma aiutando i soggetti della postmodernità ad individuare percorsi personali, tali da aiutarli a realizzare il viaggio della propria vita. Si tratta di investire nella ricostruzione di un nuovo sistema sociale di protezione, una rete
sociale capace di sviluppare le potenzialità di ogni persona intesa nella sua più
ampia complessità soggettività, come risorsa da incentivare: una formazione
che in questa società globale è quindi scoperta del soggetto (cfr. Sennett
2006).
Le istituzioni e le organizzazioni sociali ed educative, a livello mondiale e
locale, che negli ultimi anni, hanno avvertito l’esigenza di sviluppare
un’azione formativa completa della persona, lungo l’intero ciclo di vita, evidenziando l’importanza della persona stessa e di tutto il suo portato soggettivo. L’individuo si presenta come risorsa da incentivare; il mondo della formazione, nelle società complesse, scopre il valore e la centralità del soggetto in
tutte le fasi formativo-educative; esigenze che sollevano la discussione sul valore e l’importanza che assume in questa realtà l’idea di persona. Non possiamo dimenticare che l’idea della formazione continua ha la duplice valenza di
educarci al tempo libero ed aiutarci ad ambientarsi ogni volta ci troviamo a
fare i conti con un nuovo e mutato contesto di vita. Per molti degli studiosi la
risposta risiede nel rapporto formazione/educazione dei nuovi cittadini non
solo verso l’alfabetizzazione elettronica, per il conseguimento delle competenze necessarie per riconvertirsi nel nuovo panorama elettronico delle società. Si evidenzia la necessità di saper creare processi di individualizzazione,
determinati dall’utilizzo delle diverse soluzioni applicabili. Una più ampia libertà di agire porta il soggetto ad avere maggiori possibilità di riflettere e scegliere la soluzione più adeguata, comportandosi in modo diversificato, ma
nello stesso tempo lo costringe a fare i conti con la difficoltà di compiere scelte sulla base della propria esperienza e formazione. Senza dimenticare che la
virtù insita nella flessibilità richiede, qualità non comuni, ma fondamentali per
creare un equilibrio all’interno di una società disequilibrata ed instabile; flessibilità intesa come dote necessaria ed indispensabile per costruire una personalità ed un’identità capace di gestire la complessità dei processi economici e
sociali attuali. Il concetto plurale di persona, in quest’ottica di differenziazione/particolarismo, spinge verso la direzione di una formazione completa e
259
soggettiva degli individui. Si può parlare così di formazione/socializzazione,
in questa realtà rivolta al bene della persona, al riconoscimento di ciò che positivamente aiuta ed integra il soggetto nel complesso tessuto sociale; si può
parlare di processo formativo locale, interpretando il termine “locale” come
particolare, come caratteristica che specifica il soggetto (cfr. Orefice 1995, p.
63).
La difficoltà di riflettere direttamente sul senso d’appartenenza e sulla identità individuale è il prodotto dalla complessità sociale e delle richieste per
l’acquisizione di competenze capaci di gestire ruoli sociali sempre più vari
all’interno di un ambito sociale che è ormai “normalità”. Non possiamo dimenticare che questo cambiamento incide necessariamente anche nel processo
più ampio della “socializzazione”, che non può più essere inteso come “processo meccanico di accumulazione di abilità e capacità di comportamento sociale, ma è piuttosto capacità del soggetto di muoversi dentro i problemi; in
una società complessa, infatti, il sistema di ruoli di tipo ripetitivo risulta più
insufficiente” (Scanagatta 1996, p. 23). Nella vasta gamma di molteplici ruoli,
la “normalità fa sì che la gestione del ruolo soggettivo non sia più di tipo ripetitivo, cogente (automatico in un certo senso), ma derivi sempre più da un
processo decisionale, in cui il soggetto deve, volta per volta, verificare i risultati della sua azione, che non sono più scontati come un tempo” (ivi, pp. 2324). La molteplicità delle appartenenze sociali, si pensi alla famiglia, al mondo professionale, alle associazioni ricreative, culturali, religiose in cui ogni
individuo decide di aderire per libera scelta si legano alle appartenenze di etnia, di genere, con differenti forme di mediazione e diversi investimenti in
ruoli specifici, molto spesso in contraddizione l’uno con l’altro. Le apparenti
contraddizioni che fanno da sfondo al vivere sociale, ampliano il desiderio di
ogni individuo di sviluppare una propria tendenza particolare, una specificità
che ci aiuti a definire un nuovo orizzonte per la costruzione della solidarietà
sociale (cfr. Crespi 1994, pp.11-16).
Ma non possiamo dimenticare che alla maggiore libertà del soggetto si richiede una maggiore capacità di gestione della proprie scelte; può quindi anche accadere che compiere una scelta possa determinare una crisi nelle proprie capacità decisionali. Ove la libertà o l’apparente libertà di compiere scelte è evidente, sono evidenti anche i rischi, rendendo difficile il percorso che
porta alla costruzione dell’identità, vedendo aumentare gli stati di malessere
determinati dalla paura di compiere una scelta non adeguata. Se noi pensiamo
a come sino a cinquant’anni fa i processi di socializzazione, formazione, costruzione dei ruoli e della propria identità fossero legati a pochi referenti valoriali e a modelli di riferimento unitari, è chiara la difficile operazione che si
richiedere ai soggetti della postmodernità. In questo contesto sociale, culturale
e politico odierno, parlare di “soggetto” comporta il rischio di entrare
all’interno di un accesso dibattito tra i sostenitori di un soggetto ancora in
260
grado di agire ed intervenire direttamente nel tessuto sociale e coloro che espongono senza possibilità di ritorno la “morte del soggetto” (cfr. Foucault,
1970). La costituzione dell’identità come forma sociale e culturale specifica
non presuppone il completamento della dimensione soggettiva. Il dibattito intorno al soggetto ha trovato in questi ultimi vent’anni una grande ripresa non
solo sul piano filosofico e sociologico, ma soprattutto sul piano biologico, fisiologico, psichico, mentale, aprendo un ampio dibattito sulle dinamiche che
regolano la vita privata e sociale degli individui. Si parla di soggetto, soprattutto evidenziando le problematiche legate alla capacità relazionale: nei rapporti sentimentali, di amicizia, con i colleghi di lavoro, come agenti sociali
singoli e come componenti di gruppi (cfr. Crespi 1994, p. 34).
All’interno di questo variegato e complesso tessuto sociale, rappresentato
dalla postmodernità, si può parlare “di un sistema di competizioni sociali in
cui il soggetto si trova immerso, quasi che l’ambiente riproducesse continuamente una specie di mercato delle identità possibili ed il soggetto si trovasse
non in una situazione di scegliere l’appartenenza a una di queste identità possibili, come era nello schema delle ideologie dominanti nel passato, ma nella
scomoda posizione di agire scelte che progressivamente e probabilisticamente
lo portano verso alcune di queste identità possibili” (Scanagatta 1996, p. 47).
La vita si lega sempre più a scelte quotidiane, necessarie e fondamentali per le
decisioni future. La vita dei soggetti postmoderni è una continua creazione,
non potendo più contare sulla stabilità di aspetti fondanti per l’andamento della quotidianità. Il soggetto sempre più mosso dal senso dell’incertezza e
dell’instabilità deve compiere continue scelte volte alla costruzione della propria individualità. Venendo a mancare delle coordinate di riferimento stabili,
modelli precostituiti di riferimento, il termine “creatività” non è solo una capacità a disposizione di pochi individui. È la stessa società, nell’insieme
dell’andamento processuale che richiede di costruire, creare, innovare, non
solo i sistemi economici, politici o sociali; piuttosto essa richiede ai soggetti
di queste realtà di essere i primi artefici di questo processo creativo. La vita
oggi assume i connotati di un andamento individuale e potenzialmente elevato, poiché gli standard di riferimento sono di alto livello. Le richieste per una
formazione specialistica e di alto profilo inducono i soggetti a dover investire
su se stessi gran parte delle proprie energie, ma non più per un breve periodo
della propria vita (quello della formazione, appunto), ma nell’ambito di un
processo complesso e differenziato, in cui i soggetti devono sottostare alle
nuove regole del “gioco sociale” se vogliono riuscire a mantenere una propria
posizione all’interno della struttura sociale di riferimento anche nei successivi
passaggi di vita.
261
5. Il mercato delle opportunità
Continuamente si richiede di non dare per scontato i risultati ottenuti, nel
lavoro o nella vita personale. I soggetti, in questo mercato delle libere opportunità, devono fare i conti con la capacità di adattarsi all’andamento quotidiano altalenante ed instabile, riuscendo a mantenere il giusto controllo delle
proprie emozioni per compiere scelte sempre più adeguate alla situazione
complessa della società odierna. La creatività diviene una chiave di lettura
non solo nel mondo personale e privato, ma come risposta del mondo scientifico ed economico. In questo senso è possibile spiegare le scelte del nostro
Paese in ambito economico; un esempio, non per avanzare critiche allo stato
delle cose, ma proprio per evidenziare, se ancora fosse necessario, quando nel
momento in cui non è possibile proporre soluzioni risolutive (data la complessità delle problematiche economiche e finanziarie che investono l’intero pianeta), si inneschino meccanismi tali da imporre soluzioni che devono necessariamente fare i conti con realtà troppo complesse per riuscire a gestire totalmente la realtà contingente. La situazione economica globale è quindi troppo
complessa per poter proporre soluzioni definitive e risolutive per un singolo
mercato. Un processo in questo senso già improntato è quello della riduzione
della complessità, un processo di scomposizione che porta il soggetto a controllare dimensioni della realtà più alla sua portata (cfr. Bauman 1999a; Cesareo, Magatti 2000; Stiglitz 2001). Si tratta di un compromesso, perché in questo modo il soggetto si nega ed allontana aspetti, privilegiandone altri; in questo modo tutto è rivolto al raggiungimento di un puro obiettivo personale. La
creatività è un elemento potenziale necessario per riuscire a scindere realtà
diverse, compiere delle scelte ed ottenere il proprio fine.
Le maschere della società postmoderna possono essere sintetizzate nei tratti tipici della società massificata, quella creatrice di consumi identici su scala
globale, quella che rende l’individuo disincantato rispetto allo scorrere del
tempo reale e alle difficoltà, ma comunque sempre prima di tutto un buon
consumatore, con tanti desideri anche se senza progettualità reale e profondità
(cfr. Bauman 2005 pp. 18-19). Ma contro questa richiesta sociale di essere
soggetti passivi di un eterno presente, sempre pronti al vago e al superfluo, si
richiede agli stessi soggetti di avere fiducia in altrettante forme superficiali di
lavoro e di realtà politiche, mediali e culturali, determinate anche dal passaggio da una produzione economica automatizzata ad una sempre più volta allo
sviluppo di processi virtuali.
Un mondo economico costretto a privilegiare il credito (per ovvi motivi:
incentivare il consumo in società sempre a più alto rischio di povertà), equivale ad un mondo che investe nel debito e non nella costruzione di un futuro economico saldo. Così quando vengono pensati nuovi contratti di lavoro si introduce un nuovo assets, per risolvere il problema della disoccupazione gio262
vanile e non solo. Ma tale disoccupazione è determinata principalmente dal
fatto che il mercato “cerca di aumentare i profitti tagliando i costi della manodopera e smantellando gli assets, anziché attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro e la costruzione di nuovi assets” (Bauman 2005, p. 14). I “contratti a progetto” sono così il frutto di questo modo di pensare, non potendo
costruire un futuro lavorativo continuo e stabile si crea lavoro a breve termine,
consigliando ai giovani di imparare ad “essere flessibili e non particolarmente
schizzinosi, di non aspettarsi troppo dal loro lavoro, di prendere i lavori come
vengono senza fare troppe domande e di viverli come un’occasione di cui approfittare nell’immediato finché dura, piuttosto che come capitolo introduttivo
a un «progetto di vita», qualcosa che ha a che vedere con l’autostima e la definizione di sé, o una garanzia di sicurezza nel lungo periodo” (Bauman 2005,
p. 15). Il termine “progetto” ci rimanda però all’idea di una costruzione, di un
processo creativo che è realizzazione, progettualità appunto, ma come si può
costruire, progettare, creare un futuro sulla base di un contratto valido per sei,
otto, a volte dodici mesi? Certamente si tratta di contratti che possono essere
rinnovati. E tuttavia deve notarsi come queste nuove forme contrattuali costituiscano la risposta più adatta, concreta e funzionale alle esigenze
dell’instabilità dei mercati odierni, più che alle richieste degli uomini e delle
donne alla ricerca di un primo o di un ultimo impiego.
Si può parlare di modi diversi per dare solo risposte temporanee ed altrettanto instabili a coloro che sono alla ricerca di un lavoro, perché pur sapendo
con certezza che non esistono oggi forme di sicurezza e stabilità, resta difficile pensare che dare un nuovo nome a forme contrattuali temporali sia una risposta innovativa e capace di creare una stabilità economica o almeno emotiva ai soggetti attivi delle società odierne. Ai “nuovi giovani”, o agli adulti che
non sono ancora cresciuti (cfr. Cesareo 2005), perché hanno poche risorse
emotive, economiche e sociali per poterlo fare, viene chiesto di essere creativi, innovativi, incentivando la loro voglia di fare, dimenticando però di offrire
loro la strumentazione adeguata per navigare nella liquidità sociale odierna e
riuscire nella ricomposizione della propria fragilità tipica della “nuova condizione umana” (cfr. Bauman 2003).
Con questo panorama di riferimento è difficile pensare alla creatività come
risposta capace di incentivare e spingere ad avere fiducia nella costruzione del
proprio futuro. La creatività assume il valore ed il significato più attuale solo
se pensiamo ad essa come uno strumento fondamentale per imparare ad adeguarci ad una società incerta, instabile e fragile, tale che la creatività,
l’innovazione divengono delle attrezzature capaci di rafforzare le capacità per
districarsi nel complicato mondo economico e sociale globale.
In conclusione a questo breve intervento intorno alle dinamiche creative è
possibile affermare che se l’instabilità, l’incertezza e la complessità sociale
sono le categorie che caratterizzano i nostri tempi è sempre più importante po263
ter valorizzare gli atteggiamenti e le abilità connaturate ai tratti della creatività. Il rapportarsi alle nuove categorie di riferimento consente agli uomini e alle donne di oggi di accettare l’idea che per gestire i nuovi mercati economici
l’innovazione e la creatività siano gli strumenti più agili e utili per non divenire soggetti obsoleti, al pari dell’obsolescenza insita nel rapido e vorticoso
mondo tecnologico. Se poi consideriamo la ricerca della felicità psicologica
degli individui come prodotto del nutrimento e dello sviluppo delle capacità
creative è ancora più importante porsi il problema della creatività coniugandola alle istanze culturali della dopo modernità, incentrata, come ribadito più
volte, intorno ai modelli di adattabilità e flessibilità continue.
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265
Il Jazz festival a Corso Vannucci
266
UmbriaJazz, immaginario sociale e localismo
postmoderno
SABINA CURTI
Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Perugia
[email protected]
1. Introduzione
Ricercando la bibliografia esistente in materia di sviluppo locale si può notare quanto difficilmente questa parola sia coniugata con quella di musica e di
eventi musicali in generale. Nella maggior parte dei testi più aggiornati
sull’argomento non si fa quasi mai riferimento a fenomeni quali festivals musicali e manifestazioni culturali affini1.
Allo stesso modo, ricercando la bibliografia concernente l’UmbriaJazz si
possono constatare soprattutto due aspetti. Il primo riguarda l’esistenza di innumerevoli volumi contenenti immagini di musicisti sul tradizionale palcoscenico allestito dall’organizzazione dell’UmbriaJazz, per le strade del centro
storico di Perugia o di altri borghi nei quali è nato il festival (ed altrettante
immagini del pubblico dall’estate del 1973 a quella del 2005). Altre immagini
ancora sono rappresentate dai manifesti pubblicitari che, di anno in anno, la
Fondazione UmbriaJazz affida in genere a pittori umbri – immagini che diventano, automaticamente, il simbolo stesso della manifestazione. Il secondo
aspetto, piuttosto sintomatico, consiste invece nella mancata attenzione prestata all’evento UmbriaJazz dagli studiosi universitari ed esperti del settore.
Ciò è evidente sia in una prospettiva musicologica, sia in una prospettiva socio-antropologica. Tuttavia, proprio quest’ultima potrebbe essere rivelatrice
della ricezione del festival da parte dei vari attori sociali e sarebbe forse
l’unica in grado di interpretare il cambiamento culturale dell’immaginario
1
Fa eccezione il collettaneo francese coordinato da Georges Bertin che propone una prospettiva di studio socio-antropologica piuttosto peculiare in materia di sviluppo locale. Cfr. in
particolare O. M. Valastro, La musique comme valeur esthétique du développement local, in G.
Bertin et Collaborateurs, Développement local et intervention sociale, L’Harmattan, Paris 2003,
pp. 95-110.
267
simbolico della comunità locale in seguito alla fruizione di musica Jazz: in tal
senso, essa contribuirebbe alla comprensione dello sviluppo locale in termini
non esclusivamente economici ma anche culturali e sociali.
Per questi motivi, il presente lavoro non intende affrontare l’argomento attraverso una ricerca socio-economica di tipo empirico-quantitativo, quanto
piuttosto descrivere le dinamiche sociali e relazionali che si attivano a partire
da una “alternativa allo sviluppo locale”, ovvero dal “localismo” - e non da
uno “sviluppo alternativo”.
L’UmbriaJazz è un festival musicale che - secondo la lettura qui proposta nasce come motore dello sviluppo locale e che, contro ogni logica della globalizzazione economica e razionalistica, rappresenta e testimonia soprattutto
l’esperienza estetica ed estatica del localismo postmoderno. Tuttavia, il festival nelle ultime edizioni, più che fungere da motore dello sviluppo locale, ha
visto il locale de-localizzarsi verso il globale. E’ questa la riflessione che
s’intende qui effettuare sul festival di UmbriaJazz, proponendo una nuova accezione del termine “sviluppo locale” senza mai perdere di vista la sua stretta
intersezione con l’immaginario sociale, quale sua componente dinamica e semantica.
Si analizzerà quindi tanto sul piano epistemologico quanto su quello metodologico il rapporto tra “sviluppo locale e immaginario”, focalizzando
l’attenzione in un primo momento sull’accezione che assume lo sviluppo locale rispettivamente nel paradigma del “razionalismo moderno” e in quello
del “nomadismo postmoderno”. In un secondo momento, si analizzeranno gli
strumenti metodologici dei due paradigmi, ponendo particolare enfasi sulla
metodologia della ricerca-azione relativamente al secondo paradigma e al particolare rapporto che questo intravede tra teoria e prassi.
Una volta dimostrata la pregnanza dell’immaginario sociale per una ricerca che ha per oggetto lo sviluppo locale, si approfondirà il passaggio impostosi nell’immaginario sociale di UmbriaJazz: “immaginario-jazz” vs “immaginario-pop”. Come si dà tale trasfigurazione?
Infine, sulla scia del pensiero sociologico di G. Simmel e di M. Maffesoli,
si indagherà sull’esperienza dei festivals jazz, quali fenomeni musicali nati a
immagine dei grandi festivals globali/mondiali. L’estetico e l’estatico sono le
dimensioni che costituiscono un festival musicale, in un clima di effervescenza
errante e nomade. Lo spazio e il tempo “locale” sono il ritmo che permette
l’atto stesso dell’esperienza musicale. Di qui, il caso particolare di UmbriaJazz che rappresenta per la comunità locale della Regione, una sperimentazione del nascente localismo postmoderno in cui l’immaginario e i fattori nonlogici ed estetici (V. Pareto) quali musica e immagine costituiscono il fondamento più autentico.
268
2. Razionalismo moderno <--> Nomadismo postmoderno: questioni epistemologiche e metodologiche su “sviluppo locale e immaginario”
Preliminarmente, si esamineranno qui, dal punto di vista etimologico, i significati delle parole “sviluppo locale” e “immagine/immaginario”, al fine di
comprendere il filo rosso che, sia nell’ottica epistemologica che in quella metodologica, inestricabilmente e indissolubilmente le rende flussi vitali di un
corpo sociale nel quale sembrano, solo apparentemente, scontrarsi. In effetti
tale scontro non sussiste, costituendo i termini sopra detti due poli complementari di un unico processo.
Il termine “sviluppo” deriva da “sviluppare”, che significa “sciogliere un
viluppo, svolgere”, ma anche “far crescere, potenziare” ed ancora “suscitare,
far nascere”. Secondo Georges Bertin, etimologicamente sviluppare significa
envelopper (avvolgere) ma anche enchevêtrer (aggrovigliare, ingarbugliare)
(Bertin, 2003). L’osservazione semantica di Bertin intende dimostrare che,
quando si studia lo sviluppo locale, è indispensabile utilizzare sempre il paradigma della complessità così come lo ha pensato Edgar Morin. Studiare lo
sviluppo locale equivale quindi allo studio di un organismo vivente e non di
una macchina artificiale (Morin, 2001).
E’ evidente allora, che il significato etimologico di una parola può far riscoprire il senso più attendibile e valido della stessa. Spesso si tende ad interpretare le parole, e le cose che esse significano, alla luce sfocata di correnti e
scuole di pensiero che si sono imposte e che s’impongono storicamente. Ciò è
indice di una certa volontà ideologica ed esclusivista che trasforma il significato complessivo di quel termine. Nel caso dello sviluppo ciò è palese.
Da un punto di vista squisitamente epistemologico si può leggere lo sviluppo locale distinguendo due paradigmi che si sono imposti nel corso della
storia del pensiero, quello del “razionalismo” e quello postmoderno del “nomadismo”.
Il paradigma dominante della modernità è quello del razionalismo. In questo periodo storico, il termine sviluppo diventa, secondo alcuni, il sinonimo di
progresso finalizzato alla crescita economica. L’azione umana è quindi la risultante di un rapporto unidirezionale e a senso unico tra mezzi e fini. E, se il
fine è ben identificato nello sviluppo, i mezzi devono solo essere all’altezza
della legittimazione di quel fine, qualsiasi essi siano.
La società moderna misura l’azione umana in base alla utilità sociale che
essa produce (Bentham) e in base alla coscienza e all’efficacia che sa produrre con il suo comportamento (Von Mises, 1959). I teoremi fondamentali della
prasseologia di Von Mises prevedono un’azione umana cosciente e responsabile, consapevole e volontaria; un’azione mezzi-fini che presuppone la categoria causa-effetto, teleologia-causalità e in stretto rapporto con la legge
269
dell’utilità marginale (ibidem).
Nella prospettiva del modello di produzione capitalistico, proprio della
modernità, lo sviluppo è visto come un dover essere delle società umane: si
tratta di un’impostazione che prescrive un’azione umana, delineando un orizzonte teleologico, calcolante, strumentale ed economico dell’attore sociale.
Ma, il paradigma del razionalismo moderno deve confrontarsi con quello
che Gilbert Durand definisce il contrappeso assiologico dell’azione:
l’immaginario. In tal modo, non in contrapposizione al paradigma moderno,
ma a sua integrazione, si configura il paradigma del nomadismo della postmodernità. Come si può intuire, tale paradigma si basa, in prima istanza, sulla concezione dello sviluppo come ricerca, erranza; e il nomadismo è qui inteso alla maniera di Maffesoli: un girovagare intorno, un ri-cercare che, contemporaneamente, fonda, crea e ri-crea (Maffesoli, 2000c).
L’azione umana stessa assume la sua connotazione più propria di intervento nella realtà sociale, di cambiamento sociale. Il cambiamento a cui è sottoposto il nomade, l’errante, non è un cambiamento insensato ma vuoto. Qui c’è
una sostanziale differenza, perché questo vuoto, che l’errante cerca e ri-cerca,
viene riempito di senso dall’interazione che lo stesso instaura, di volta in volta, con i soggetti con cui entra in interazione-relazione. Lo sviluppo non è un
dover essere della società, perde la sua connotazione idealtipica, esprimendo
intensamente il voler vivere della società stessa. Alla luce di questo nuovo paradigma, lo sviluppo è l’insieme della azioni che permettono ad una società
non tanto di passare da un tipo ad un altro quanto piuttosto di diventare capace di autodeterminarsi e di agire nel e sul proprio destino. In tal modo, lo sviluppo locale è rivelatore dell’inconscio collettivo socio-culturale della comunità locale e delle sue pratiche sociali. L’azione non è più teologicamente
proiettata verso il suo fine economico ma è un mix eterogeneo di ragione e
immaginario, di ordine e disordine, di passato e futuro, di tradizione e innovazione. La complessità dell’azione sociale aumenta considerevolmente di pari
passo alla sua capacità rivoluzionaria. La staticità e l’irreversibilità del paradigma del razionalismo moderno lasciano il posto alla dinamicità e alla reversibilità del paradigma nomade ed errante.
Se la modernità ha imposto all’uomo di rinunciare a significare le cose attraverso l’ immaginario sociale, forse, sulla scia dell’archeologia epistemologica di Foucault, si può affermare che tale epoca ha lasciato il posto ad una
nuova epistēme che rompe con quello moderno e che torna a considerare, per
usare un’espressione di Morin, la coppia impossibile (ragione-follia, ordinedisordine) come possibile, anzi come necessaria e sufficiente per interpretare
l’azione umana anche economica (Morin, 1983). La follia, l’immaginario, il
disordine fungono da generatori e rigeneratori del sistema vivente di riferimento, che nel caso specifico è la comunità locale; questi elementi diventano
gli ingredienti stessi del suo essere creativa, della sua originalità; si integrano
270
alla razionalità economica, dimostrano la loro capacità di funzionare convivendo con il loro stato entropico; non sono più esiliati e banditi ma sono contemplati come parti integranti della loro stessa complessità.
Tutt’a un tratto, il disordine fa irruzione nell’Universo, rivelando ciò che
tutta la Modernità si ostinava a tenere ben nascosto (Freud: inconscio personale) e a non vedere (Jung: inconscio collettivo). Si scopre che l’azione umana è
spesso orientata da motivazioni che, al di fuori della ragione calcolante, seguono la libido, le credenze collettive, l’immaginario, la non-logicità.
Così si esprime Morin per esprimere la tracotanza del paradigma
dell’ipercomplessità; di un’ipercomplessità che lo stesso esplica attraverso la
già ricordata coppia impossibile di ordine-disordine: “Ora, improvvisamente,
nel corso del diciannovesimo secolo, si crea una piccola sacca di disordine nel
cuore stesso dell’ordine fisico” (Morin, 1983).
Insomma, quello che si è definito il paradigma del nomadismo postmoderno ri-porta in auge un’altra ragione: la ragione dell’immaginario, come motore dello sviluppo locale e come schema di riferimento caotico, complesso e
non dogmatico dell’azione umana e dell’interazione sociale.
Questa epistemologia relativa al rapporto immaginario e sviluppo locale, a
partire da UmbriaJazz, si esprime anche sul piano metodologico. A tal livello,
gioca un ruolo determinante non tanto il rapporto immaginario/sviluppo locale, quanto quello tra teoria/prassi.
Il paradigma del razionalismo moderno stabilisce una netta e rigida
separazione tra teoria e prassi: la teoria dà senso alla prassi; giustifica,
legittima quest’ultima. Il paradigma nomade postmoderno e della ricerca
errante propone, dopo il puro ribaltamento della prospettiva razionalista
operato da Nietzsche, Foucault e Marcuse – per i quali il primato della ratio
lascia il posto al primato della praxis – la complementarietà tra teoria e
prassi, per far fronte alla complessità sociale, all’incertezza, al rischio che
caratterizza il corpo sociale locale. Se nel primo vige l’im-posizione (di
norme e regole sociali), nel secondo si predilige la pro-posizione. Se nel
primo è metodologicamente utile la ricerca empirica, nel secondo teoria e
pratica si coniugano nella ricerca-azione che si afferma, in un primo
momento come metodologia, in un secondo momento, addirittura come
paradigma vero e proprio (S. Cifiello e E. Minardi, 2005), vista l’importanza
della prassi, dell’intervento sociale, del cambiamento che l’immaginario
determina, in quanto direzione di senso e significato di una realtà
ipercomplessa.
Se l’immaginario è sostanzialmente produzione di senso e di significato,
se, l’immagine è gravida di semanticità, di quello che Gilbert Durand definisce come realismo semantico, allora, l’immaginario si dovrà studiare innanzitutto come “produzione di sapere”, come linguaggio. In tal modo, si capisce
271
bene l’importanza di una circolarità tra teoria e prassi dal punto di vista metodologico e l’etnometodologia (H. Garfinkel) e la fenomenologia (E. Husserl,
A. Schütz) sembra essere l’approccio più appropriato per intraprendere una
ricerca volta al contesto locale.
In breve, abbracciando la logica di fondo della prospettiva multireferenziale di Bertin, studiare lo sviluppo locale da un punto di vista sociologico, secondo il paradigma nomade e errante, vuol dire prima di tutto effettuare una
ricerca conoscitiva sulla vita quotidiana della comunità, analizzare e descrivere come le situazioni vengono percepite e avvertite dagli attori stessi. La ricerca empirica deve farsi ricerca-azione, deve integrarsi con l’analisi fenomenologica ed etnometodologica. La ricerca-azione oltrepassa la ricerca empirica e la ricerca-politica, essa è produzione di sapere che guida l’attuazione, la
quale si verifica come parte del processo di ricerca stesso e non a prescindere
dalla ricerca (cfr. P. Osquist in Cifiello e Minardi, 2005).
Il paradigma del nomadismo errante, non vuole porsi in un rapporto dialettico e oppositivo con quello del razionalismo moderno, né dal punto di vista
epistemologico né tanto meno da quello metodologico; ma, poiché considera
“i fenomeni dello sviluppo locale non delle cose, ma un insieme di relazioni
sociali e umane enchevêtrées (aggrovigliate/ avviluppate) in una rete” (G.
Bertin 2003, p. 11), intende unirsi, fondersi, entrare in sinergia e costituire
parte integrante e rivoluzionaria di una nuova idea e di una nuova ricerca sullo
sviluppo locale che consideri anche l’immaginario sociale.
3. Appunti per una teoria dell’immaginario sociale di UmbriaJazz. Immaginario-Jazz Vs Immaginario-Pop
L’immaginario è produzione di senso e di significato. L’immagine è gravida di significato e di semanticità, di quello che Durand definisce come realismo semantico, il quale confluisce nel bacino semantico inteso, a sua volta,
come l’insieme dei significati dell’immaginario sociale (Durand, 1992).
L’immagine riveste un ruolo strategico per l’intendimento delle dinamiche
relazionali, per il loro darsi e il loro significare. La relazione necessita
dell’immagine come luogo della sua significanza. E’ proprio grazie
all’immagine infatti che una certa relazione può essere intesa propriamente
come un certo tipo di relazione. Le relazioni sociali sono attraversate da flussi, connessioni, catene di immagini – immagini di immagini (n immagini).
Immagine del mondo, immagine di sé e dell’altro, immagine del tempo e dello spazio – l’immagine apre, di volta in volta, il senso di ciò che appare come
relazione. Socialmente tale senso va inteso in termini di immaginario: attraverso l’immagine l’immaginario è iscritto nella relazione come concreto darsi
del senso secondo cui questa può essere compresa. L’immaginario – giusta la
272
lezione di Cornélius Castoriadis [1995] – è creazione incessante di figure/immagini che sanzionano il senso dell’esperienza con/dell’altro che
l’individuo fa nel proprio essere-nel-mondo. Non c’è relazione estranea alla
significazione immaginaria sociale, in quanto è proprio questa che ne apre lo
spazio semantico e il campo di azione.
Tutto ciò rende possibile leggere la storia del rapporto tra “UmbiaJazz e
sviluppo locale” come storia di immagini e, specularmente (dato il rapporto
non estrinseco tra immagine, immaginario e relazione), la storia delle immagini dell’UmbriaJazz come parabola delle relazioni in cui si iscrive lo sviluppo locale connesso al festival umbro.
È stato detto che l’UmbriaJazz “sviluppa l’immagine locale della Regione
Umbria”. D’altra parte si può osservare che il termine sviluppo è strettamente
connesso all’immagine e lo è, anche perché, in un altro dei suoi sottesi significati, vuol dire proprio “sviluppare un’immagine” cioè rendere visibile e,
contemporaneamente anche far crescere, ampliare e potenziare un’immagine
fotografata che, nel caso specifico, è l’immagine dell’UmbriaJazz. Se è così,
si tratta di vagliare il rapporto tra UmbriaJazz e immagine locale della Regione Umbria, ovvero il posto che il locale riveste nello sviluppo delle immagini
dell’UmbriaJazz.
Tra il 1973 e il 2005, si è assistito ad una duplice evoluzione di quella che
può essere definita “storia visuale e immaginaria” dell’UmbriaJazz. Tale duplice evoluzione si muove secondo due assi tracciati dai termini che definiscono il festival umbro (ovvero: Umbria e Jazz) - entrambi gli assi convergono in un depotenziamento radicale degli stessi. L’immagine dell’Umbria, soprattutto a partire dal 1974, è sempre più presente, fino alla sua totale esportazione/sparizione con l’edizione del festival a Melbourne2 (2005). Se, da una
parte, ciò fa pensare ad un’aspirazione sempre più globale della manifestazione, dall’altra – ecco il secondo asse – bisogna rilevare la non corrispondenza
tra tale tensione e l’oggetto della stessa. L’apertura ad un orizzonte globale
non ha significato infatti un mantenimento della centralità della musica Jazz
2
“Si chiama Umbria Jazz Melbourne 05, si svolge dal 5 al 15 Maggio e rappresenta l’esordio di Umbria Jazz in Australia. Da notare il piccolo canguro che saltella nel tradizionale
logo giallo UJ. Il programma del festival è stato presentato questa mattina a Melbourne: in cartellone musicisti italiani, australiani ed americani, con le “stelle’’ Wayne Shorter e John Scofield già annunciate. Carlo Pagnotta, direttore artistico di Umbria Jazz e di Melbourne, assicura
- come dimostra il programma - che il festival è del tutto degno dei livelli di qualità della rassegna che si svolge in estate a Perugia e in inverno a Orvieto. I promotori del resto hanno voluto
affidarsi, per il rilancio internazionale del festival, ad una sigla prestigiosa come UJ e ad un
direttore artistico di provata esperienza. La formula prevede concerti all’aperto e gratuiti, in
spazi molto belli e confortevoli, ed altri a pagamento in sale ed auditorium di cui Melbourne è
particolarmente ricca. Ci saranno anche iniziative promozionali della Regione dell’Umbria per
presentare prodotti gastronomici tipici, artigianato di qualità, pacchetti turistici. Ma il festival
rappresenta anche un ideale gemellaggio, agli antipodi del mondo, nel comune linguaggio del
jazz.” (Cfr. www.umbriajazz.com)
273
all’interno del festival. Mentre questo ultimo sposta il suo baricentro fuori dalla Regione, e addirittura dall’Italia, il Jazz tende a passare in secondo piano
rispetto al progetto originario. Sempre più frequente è stata, in effetti, la presenza sul palco dell’Umbriajazz di musicisti che nulla hanno a che fare con
l’immaginario proprio della musica jazz. Si pensi a Moloko (2002) o Elton
John (2005). In questi casi non si può parlare neanche di un’apertura a musicisti di confine, o crossover, all’incrocio tra musica jazz e generi altri3, al contrario è l’uscita pressoché totale da quei confini, certamente fluttuanti flessibili e articolati, del plurivoco mondo del jazz.
L’ambizione globale di UmbriaJazz non sembra essere andata di pari passo con il jazz in quanto linguaggio musicale globale, capace di innervamento
continuo e quindi di innovazione. Tutto ciò ha comportato, la tendenziale dissociazione dell’UmbriaJazz da una parte dallo sviluppo dell’immagine locale
della Regione Umbria, dall’altra dall’immaginario jazz in quanto tale.
Si tratta ora di indagare ciò che questo ha significato sul piano della relazione e delle immagini che la significano.
Dato il rapporto intrinseco tra immagine-immaginario-relazione, la duplice
evoluzione dell’UmbriaJazz, leggibile attraverso l’evoluzione delle sue immagini e l’immaginario che queste articolano, indica di fatto le relazioni che
ne stanno alla base. Due sono i punti in cui si sviluppa questa congiuntura. 1)
Il passaggio dall’Immagine-Umbria all’immagine-Melbourne è il passaggio
dall’immaginario-locale
all’immaginario-globale.
2)
Il
passaggio
dall’immagine-Dizzy Gillispie (1978) all’immagine-Elton John (2005) è il
passaggio stesso dall’immaginario-Jazz all’immaginario-Pop dell’UmbriaJazz. Mentre le prime due coppie veicolano relazioni dall’alto e verticali, le
seconde due veicolano relazioni dal basso e orizzontali. Le prime due riguardano l’immaginario relazionale che si dà attraverso la prossemica, le seconde
due quello che si dà in base al genere musicale. In questo senso si può parlare
di una separazione e di un allontanamento tra i due termini o assi che connotano attualmente il festival umbro: le prime coppie di immagine-immaginario:
Umbria-Melbourne e Locale-Globale (il cui asse o termine è Umbria) segnano la separazione con le seconde due coppie: Dizzy Gillispie-Elton John e
Jazz-Pop (il cui asse o termine è Jazz).
Se nelle sue intenzioni iniziali il festival umbro nasce come rapporto inscindibile tra due assi o termini (Umbria e Jazz) in un unico immaginario comune che è quello della musica jazz, il passaggio da un’immagineimmaginario all’altro sia sul piano della prossemica (locale-globale) sia su
quello della musica (jazz-pop) ha portato ad una separazione tra questi due
assi principali. Più precisamente, nel 1973 l’Umbria ha importato il Jazz (Jazz
+ Umbria), oggi l’Umbria esporta se stessa e il Jazz (UmbriaJazz → Mel3
Si pensi al proliferare attuale di linguaggi babelici, tuttavia ancora inscrivibili nel jazz – a
certe forme di avanguardia radicale di confine tra noise, jazz, elettronica e post-rock.
274
bourne); prima era l’Umbria che si riconosceva nel Jazz e attirava “Melbourne” (globale → locale), oggi è quest’ultima che attira l’Umbria (locale → globale).
Le rotte “immaginarie” dell’UmbriaJazz sembrano venire sovvertite da
nuove logiche, prospettive e significati. Sul sito internet di UmbriaJazz si legge che tale cambiamento di direzione è da intendersi come una “sorta di gemellaggio, agli antipodi del mondo, nel comune linguaggio del jazz” ma che,
soprattutto, è importante per un “rilancio internazionale del festival”. Di “linguaggio del jazz” per UmbriaJazz così come per UmbriaJazz-Melbourne, se
ne può parlare solo per gli spettacoli a pagamento poiché nelle piazze di Perugia e dell’Umbria l’immagine-immaginario non è fondato sul “comune linguaggio del jazz”, ma si sta progressivamente declinando in immaginario-pop
(Moloko, Elton John…). Per questi motivi si approfondirà, qui di seguito, la
questione del localismo a cui dà luogo il festival UmbriaJazz, un localismo
che nasce a immagine del globale, ed al quale oggi ancora tende.
4. UmbriaJazz: un’esperienza estetica ed estatica del localismo postmoderno?
così come la bellezza si condensa nell’espressione artistica,
la comunità in questione si manifesta
e si estrinseca nell’atto dell’esperienza
Bauman, 2004
I festivals musicali, nel caso specifico di musica Jazz si stanno moltiplicando in Italia, a ritmo serrato. Da qualche anno, la parola FestivalJazz accompagna il nome delle località più piccole e sconfinate della penisola italiana. Se ne possono citare alcune, solo a titolo di esempio: Musicando
Jazz&Blues di Camerino, Jazz Friends di Potenza Picena (Macerata), Sound
Ville Festival di Macerata, SienaJazz, AnconaJazz, Ronciglione Jazz Festival
(Viterbo), Summertime Jazz Festival di Napoli, Pistoia Blues, Udin&Jazz (Udine), Torrita Blues,Terni JazzFestival, Gray Cat Festival ecc.4 Per non parla-
4
Nella Regione Umbria, oltre ad UmbriaJazz sono presenti molti altri festival musicali:
Sintesijazz (Perugia), Umbria Jazz Winter (Orvieto), Mètronome Festival (Teatri dell’Umbria),
Gubbio No Borders italian Jazz Festival (Gubbio), Narni Black Festival (Narni), Trasimeno
Blues Festival (Lago Trasimeno), Terni in Jazz Festival (Terni), Villalago makes Music Festival (Villalago-Terni), Gubbio Country Festival (Gubbio), Rockin' Umbria (Perugia), Venere
Elettrica (Perugia), Alive Music Festival (Città di Castello), Sagra Musicale Umbra (Umbria),
Festival delle Nazioni (Città di Castello), Preggio Music Festival (Umbertide), Umbria Music
Festival (Todi), Gubbio Festival (Gubbio), Assisi Music Festival (Assisi), Musica dal Mondo
(Perugia), Festival dei Giovani Concertisti (Castel Rigone), Festival dei Cori Universitari (Perugia), Hermans Festival (Terni), Trasimeno Music Festival (Magione), Concorso Pianistico
275
re dell’UmbriaJazz Winter che si tiene annualmente ad Orvieto e del Festival
Internazionale di Melbourne, organizzato direttamente da UmbriaJazz.
La grande diffusione dei festivals musicali quindi, lascia emergere, inaspettatamente, il ritorno del localismo e tali manifestazioni sonore ne rappresentano proprio, a mio modo di vedere, una delle testimonianze più importanti, forse la più pregnante e vitale seppure la meno evidente; contro ogni previsione dall’alto e contro ogni logica “globalizzante”. Ogni “luogo”, “paese”,
“territorio” si riconosce nella musica e fa della musica l’immagine attraverso
la quale ritrova la propria identità collettiva e attraverso la quale sperimenta
una nuova forma dello être-ensemble (Maffesoli, 2000b), dove la dimensione
estetica, emozionale, sentimentale prevale decisamente su quella economicistica, contrattuale, razionale e individualistica. Per utilizzare l’espressione di
Bauman, vi è la prevalenza della “comunità estetica” sulla “comunità etica”
(Bauman, 2004).
Tuttavia, è sulla scia dei grandi Festivals Jazz e dei grandi Concerti musicali delle “grandes villes” che sono nate manifestazioni di musica per così dire “localizzate” come dimostra il mito della nascita di UmbriaJazz. Ma questo
non significa che siano nate a “immagine e somiglianza” di quelle. Anzi, è vero il contrario. O meglio, qui vale la pena tenere presente la riflessione sociologia di L. Dumont, teorizzatore dell’olismo. Con la nozione di “rappresentazioni ponte”, l’Autore postula, in effetti, l’esistenza di più “culture tradizionali” che percepiscono in maniera diversa la stessa “cultura dominante” (L.
Dumont). Pertanto, non è un caso che l’UmbriaJazz nasca per il bisogno di
fare concerti e festivals jazz da parte di un frequentatore di concerti e festivals
jazz europei e si capisce quindi, come il festival umbro non poteva essere altro
che un’interpretazione, una propria percezione di quello europeo. Il che equivale a dire che l’UmbriaJazz nasce attraverso un processo di acculturazione
(Herskovitz, Linton, Redlfield 1936) tra la cultura musicale jazz europea degli
anni Sessanta-Settanta e la cultura locale umbra degli stessi anni; si tratta di
un’acculturazione che si configura come un mutamento per contatto, non è la
semplice somma delle due culture ma l’incontro dà vita a una reinterpretazione continua tra le due (Herskovitz 1936)
Ancora più esplicativa è, a tal proposito, la metafora di G. Simmel del ponte che collega e della porta che divide, la quale delinea bene come la persona
e la collettività siano contemporaneamente dentro e al-di-fuori del globale e
del locale. Il globale infatti sembra, seppur solo apparentemente unire/collegare (poiché in realtà non collega le persone, almeno non nel senso
simmeliano del termine, ma le omologa, le conforma ad un qualcosa che viene loro imposto, insomma il terminus ad quem della globalizzazione non è affatto la relazione) e corrisponde quindi al ponte; il locale sembra invece, conInternazionale (Terni), Festival Pianistico di Spoleto (Spoleto), Incontri Musicali Narnesi (Narni).
276
cretamente, dividere e corrisponde inevitabilmente alla porta. Ancora una volta il pensiero simmeliano ha il grande merito di risolvere questo inquietante
dilemma sociale e sociologico. Quando Simmel afferma che il soggetto non è
mai completamente “essere individuale” così come non è mai completamente
“essere collettivo” permette di constatare anche che la persona non è mai interamente “essere locale” così come non è mai totalmente “essere globale”; la
persona è contemporaneamente ed alternativamente entrambe le dimensioni.
Lo stesso vale per il parallelo, descritto prima, tra il festival umbro e i festivals
europei.
Un palco del Jazz festival nel centro storico di Perugia
Tuttavia, uno dei grandi paradossi dell’epoca postmoderna, e della cosiddetta globalizzazione, è l’emergere di un rinnovato sentimento di appartenenza, di circum-stantia (Ortega Y Gasset) e di reliance (M. Maffesoli) che nei
festivals musicali “localizzati” si ri-afferma.
La postmodernità ha fatto nascere, o meglio ri-nascere, un localismo che è
sempre esistito, forse, ne ha accentuato le caratteristiche e l’attenzione per la
prossemica che caratterizza l’esperienza della “comunità di idee” (Durkheim)
e della “comunità estetica” (Bauman). Ciò si evidenzia in particolar modo, vale la pena ribadirlo, nelle manifestazioni come UmbriaJazz, che contaminano
in ogni sua parte la società postmoderna, nella quale nessuno è escluso ma tutti si è implicati in un processo di trasformazioni sociali senza precedenti.
Sulla scia della teoria sociologica simmeliana si può asserire che il locale
esiste in quanto dietro di esso c’è il globale. L’UmbriaJazz esiste perché, prima e contemporaneamente ad essa, ci sono e ci sono stati i grandi concerti
277
jazz di New Orleans, di Newport, di New York, di Monterey e di Montreux.
Resta indiscutibile la constatazione che la persona e la collettività postmoderna vivono nella continua oscillazione tra il restare legati al proprio spazio,
come una sorta di attaccamento alla terra-madre e il guardare lontano lontanissimo dal loro piccolo spazio – un altro spazio più grande che non possono
toccare concretamente e che quindi non possono vivere nella quotidianità, ma
al quale si sentono inconsciamente e virtualmente attratti. La persona così
come la collettività difende gelosamente ora l’uno (lo spazio locale) perché
avverte forte dentro di sé il sentimento/senso d’appartenenza, la reliance; ora
l’altro (lo spazio globale) perché è ineluttabilmente affascinata dall’ignoto,
dal non-tangibile, che è lontano ma vicino contemporaneamente, che è fuori
di sé e a tratti, improvvisamente dentro di sé. Altrimenti perché, nell’epoca
della globalizzazione e della cultura digitale si riaffermerebbe, con tracotanza,
questo revival di un neotribalismo localizzato, di enracinement dynamique?
Che cosa ci lega così fondamentalmente e profondamente ad un luogo, ad uno
spazio? Il senso di appartenenza? Ma, che cos’è allora il senso di appartenenza che ci lega ad un territorio, ad una comunità locale? E, su cosa si fonda
questo sentimento su cui si fonda, a sua volta, il localismo?
Quale è dunque il mito di UmbriaJazz che è giunto fino a noi e che funge
da fondamento del sentimento di appartenenza e dunque anche del localismo?
Carlo Pagnotta, appassionato di Jazz e frequentatore di lungo corso dei maggiori festivals europei, sognava un festival a casa sua, nella sua “terra” che secondo Durand, è simbolo e immagine della madre, della nutrice, del rifugio e
che, aggiungerebbe Maffesoli, “in tutta la sua femminilità dà consistenza alle
molteplici situazioni individuali e sociali” (Maffesoli 1979, 55). Non è un caso che, come detto in precedenza, la manifestazione locale sia contemporaneamente attratta e affascinata dalle manifestazioni musicali per così dire “globali”, dell’Europa e degli Stati Uniti in questo caso. Pagnotta instaurò legami
con l’Assessore al Turismo della Regione dell’Umbria, chiese l’intervento di
Alberto Alberti, rinomato manager di musicisti jazz e la proposta di suonare
musica jazz per le strade delle città della Regione fu un’idea innovativa e originale che ri-affondava le sue radici nel jazz primitivo e genuino, quello raccontato da Studs Terkel (2005). Lo spazio locale, le strade della città assumono un’importanza incommensurabile poiché si assiste ad una contaminazione
estatica di tutto il “locale” da parte della musica.
L’idea lungimirante di Pagnotta fu quindi approvata dalla Giunta Regionale, tanto che nell’estate del 1973, precisamente il 23 agosto, big band musicali
e orchestre jazz diffondono e improvvisano suoni inauditi dappertutto diventando una cosa sola con la socialità presente.
L’origine di UmbriaJazz può essere considerata un’esperienza estatica ed
estetica molto più importante di quanto non lo sia oggi e ciò è dovuto in parte
alla formula con cui è nata UmbriaJazz. Si trattava di una formula itinerante
278
che, per di più, non creava uno spartiacque tra lo spettatore del pubblico e
l’attore-musicista sul palco ma avveniva pressappoco quello che avviene oggi
in fenomeni giovanili postmoderni sovversivi come per esempio i rave parties, nei quali si ha una totale decostruzione dello spazio, in cui lo spettacolo
si annulla per lasciare il posto all’interazione di musica-musicistaascoltatore/danzatore (si pensi al raver), un’interazione che si colloca su un
piano comunicativo-emozionale di tipo orizzontale e non verticale. Qualsiasi
gerarchia prossemica viene annichilita; oggi invece questa rappresenta la caratteristica principale del Festival UmbriaJazz.
Negli anni Settanta, marciando a ritmo di jazz questi gruppi musicali attiravano maggiormente l’attenzione di qualsiasi passante anche di quello meno
interessato che non amava quella musica, semplicemente perché non la sapeva
comprendere (cfr. Baroni, 2004). In tal modo appunto, anche l’ascoltatore più
scettico si lasciava invasare totalmente dalla musica tanto da modificare la sua
sensibilità, tanto da lasciarsi trasportare e rapire dalle emozioni che provocava
in lui5.
La sensazione è la modificazione che l’uomo riceve da parte della musica
e la sensibilità è la facoltà dell’uomo di ricevere sensazioni e di esserne modificato. La sensazione e la sensibilità costituiscono il valore estetico
dell’esperienza che si fa nel concerto e nella musica e che diventa anche partecipazione, legame con l’altro. Perciò ci si trova nello stesso momento, nello
stesso luogo, ovvero ci si immerge nello stesso ritmo. In questo senso,
l’ambiance e l’atmosfera che si viene a delineare assomiglia all’ordine orgiastico-confusionale-fusionale descritto da Michel Maffesoli.
E il ritmo, secondo Maffesoli, è ritmo orgiastico – è ritmo di Dioniso.
“L’orgiasmo […] è anche determinato dal ritmo del tempo” (Maffesoli, 1990,
p. 175) Dunque, si è detto, tempo + spazio = ritmo. Nel caso di UmbriaJazz, il
tempo è ciclico, concentrato, istantaneo, è il qui e ora. In breve, il tempo è ciclico perché è il tempo della ripetizione di eventi, o meglio di concerti, secondo gli orari previsti dal programma, con la formula della ri-proposizione degli
stessi artisti che si alternano in posti diversi della città di Perugia (Piazza IV
Novembre, Giardini Carducci, Giardini del Frontone).
Lo spazio è delimitato dal tempo che scandisce e regola le effervescenze
collettive; uno spazio ovviamente locale, legato all’immagine della Regione
Umbria, ai suoi monumenti, al suo paesaggio oppure alla ri-creazione delocalizzata di tale immagine dall’altra parte del mondo, a Melbourne. Ma, nella sua unione con il tempo jazz, lo spazio diventa immaginario ed errante.
Ognuno decide a quale concerto partecipare? La risposta è sì, ma solo per
quanto riguarda i concerti a pagamento (Parco Santa Giuliana). Ai concerti
jazz gratuiti delle piazze difficilmente si decide di partecipare, ci si trova piut5
Lo stesso Simmel sottolinea come il ritmo abbia a che fare con lo stato d’animo e le emozioni, con la sensazione e la sensibilità (Cfr. Simmel in M. C. Federici e F. D’Andrea, 2005).
279
tosto trasportati dal ritmo stesso. Il soggetto, anche quello meno interessato
alla musica e all’evento UmbriaJazz, prende parte all’effervescenza musicale
senza una propria consapevolezza.
Per tale motivo, l’esperienza di UmbriaJazz potrebbe rientrare, tra quelle
situazioni di effervescenza sociale postmoderna studiate da Maffesoli. Situazioni che lo stesso definisce come plus-essere o come essere-agito (Maffesoli,
2003). Situazioni ed esperienze di massa non solo estetiche ma anche estatiche. Ek-stasis dionisiaca: un lasciare abbandonare tutto per ritrovare tutto nella relazione istantanea con la musica e con l’altro. Un abbandonarsi a vivere
l’istante senza porsi interrogativi sull’essere-in-situazione, come se il situarsi
all’interno della manifestazione precedesse qualsiasi intenzionalità soggettiva.
Bauman, ha rintracciato l’esistenza di una comunità estetica come già presente nella Critica del giudizio di Kant. L’identità della comunità estetica si
fonda sulla bellezza e, “così come la bellezza si condensa nell’espressione artistica, la comunità in questione si manifesta e si estrinseca nell’atto
dell’esperienza” (Bauman, p.64). Per tal motivo, in questa sede, l’evento UmbriaJazz è definito come esperienza estetica, durante la cui breve esistenza i
partecipanti ricercano il senso di appartenenza che può, in taluni casi, trasformarsi nel supplizio di Tantalo (Ibidem, p.8 e ss.).
Un’altra caratteristica della comunità estetica individuata da Bauman è il
suo essere “liquida”; nel senso che i legami sociali che si instaurano durante
un concerto, un evento come quello di UmbriaJazz, sono soprattutto “legami
senza conseguenze”, fugaci, transitori, superficiali: legami deboli.
Tali “eterei” legami sociali hanno però la particolarità di essere intensi.
L’intensità è, a sua volta, connessa alla musica che rappresenta il punto di partenza nel e dal quale questo tipo di “stare-insieme” si dà. Anche se è vero che
il palco di UmbriaJazz ha visto le esibizioni dei più importanti jazzisti mondiali è altrettanto vero che, nonostante la forma verticale dello spettacolo, è la
musica che ha in sé quello che Baroni ha causticamente definito come “carattere affettivo”, nell’orizzonte di un “ascolto creativo ed empatico”(cfr. M. Baroni, 2004).
Di qui, l’immagine e l’immaginario come principio e fine della stessa esperienza musicale di UmbriaJazz e dei festivals musicali. La musica non ha
un lessico come quello del linguaggio e non ha né linee né pennellate come
quelle della pittura, né sostanze di vario genere da modellare come quelle della scultura; la musica, però, evoca un vissuto e un sentire umano che rinvia,
per analogia, ad un’immagine, la quale non appartiene per forza di cose alla
stessa categoria semantica. Esemplificando si può dire che un flusso sonoro o
il timbro del pianoforte evoca per analogia immagini di dolore o tristezza
mentre quello del flauto immagini di abbandono, di nostalgia o di lontananza.
Nella musica non si tratta mai, dunque, di concetti da unire insieme logicamente ma piuttosto di immagini da unire affettivamente in modo da poter dare
280
un senso all’ascolto e alla musica stessa che, se da una parte mi fa riconoscere
con chi ascolta lo stesso tipo di musica, dall’altra, contemporaneamente, mi
divide da lui e dalla musica in sé.
La musica penetra nel corpo dell’ascoltatore ad un volume e ad un tempo
diverso, modifica le sensazioni corporee in base ai sensi propri di ciascun
soggetto6. Il corpo conquistato dalla musica è “corpo vivente”.
La musica fa sì che l’esperienza del festival sia oltre che estetica anche estatica, e l’estasi è qui intesa alla maniera neoplatonica, è un lasciare, un abbandonare tutto per ritrovare tutto. Ciò che rende la manifestazione di Umbria
Jazz un’esperienza estetica ed estatica del localismo postmoderno non può
che essere la Musica che è cambiata e che cambia in una società in perenne
mutamento.
5. A guisa di conclusione.
Si concluderà molto sinteticamente riassumendo gli aspetti che si è tentato
di affrontare. In primo luogo, l’esigenza di aprirsi a nuove prospettive epistemologiche e metodologiche per quanto concerne lo studio dello sviluppo locale. Si è delineato un nuovo paradigma di ricerca postmoderno che coniuga sul
piano epistemologico razionalità e immaginazione, ordine e disordine, e sul
piano metodologico teoria e prassi − rivalutando anche l’importanza
dell’approccio fenomenologico ed etnometodologico.
In secondo luogo, l’immaginario sociale non è solo qualcosa che dovrebbe
essere ri-valutato e ri-considerato, ma che soprattutto è in costante cambiamento e produce esso stesso cambiamento. Il passaggio, nel caso specifico di
UmbriaJazz, da un immaginario-jazz ad un immaginario-pop è indice del fatto
che da un fenomeno quale espressione di identità locale − di identità in un tipo di musica, UmbriaJazz rischia di diventare “una moda d’identità locale”.
UmbriaJazz può essere considerato un fenomeno di moda, o meglio, una vera
e propria moda per due motivi principali. Innanzitutto perché ha lanciato, per
primo, la moda dei festivals jazz a livello locale che sta diventando il modello
6
All’interno della comunità locale di tipo estetico nata dalla partecipazione al concerto musicale si possono individuare infatti diverse tipologie di partecipanti che non si possono però
definire solo e soltanto ascoltatori perché la musica coinvolge e sconvolge anche il corpo, non
costretto a stare seduto sulla sedia della platea. Si tratta piuttosto di un corpo libero di muoversi
e di farsi trasportare, fisicamente nello spazio e nel tempo del ritmo musicale. Baudelaire, Wilde e Benjamin hanno ben delineato diverse figure metropolitane in base al rapporto che
s’instaura tra soggetto ed oggetto, tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e la comunità locale.
L’esteta, il dandy, il flaneur sono, come fa notare Sergio Givone, delle “creature musicali”, sono creature in grado di cogliere soprattutto “il ritmo, l’intera melodia degli eventi” e di ciò che
li circonda, sanno entrare in sintonia con ciò che ascoltano. (Cfr. S. Givone, 2003, p. 104-112)
A queste tipologie di soggetti si aggiunge sicuramente anche il blasé simmeliano. Ma ciò è soprattutto il segno di una diversa percezione della musica da parte dei diversi soggetti.
281
e la struttura di un nuovo modo di fare turismo. (cfr. Fayenz 1990); in secondo luogo, come già detto sopra, UmbriaJazz è un festival la cui identità musicale è sempre più indistinta (ovviamente, ciò non vale per i concerti a pagamento). E ciò, d’altra parte, è dimostrato dalle ultime edizioni del festivals in
cui s’è assistito alla mancanza di performances radicalmente innovative, non a
pagamento. Si potrebbero fare molti esempi a riguardo, si pensi all’Orchestra
di Ray Gelato. Ma, che non è più una questione d’identità bensì di moda, lo
dimostra anche la scelta di invitare Elton John.
Visto il reale e concreto cambiamento che la manifestazione ha subito negli anni, è stato possibile constatare che l’esperienza del festival, in questa sede, definita come estetica ed estatica, è rimasta la stessa. In altri termini, la
musica è cambiata e con essa l’immaginario e l’immagine del locale ma la
forza e l’intensità della Musica (a questo punto – qualunque essa sia) è tale da
produrre sempre e ovunque un’esperienza di localismo – di tipo relazionale che tenta, però, di estendersi al globale (UmbriaJazz Melbourne). La musica,
tuttavia, non ha valore in sé ma ha valore rispetto ad un contesto preciso e circoscritto, di tipo socio-culturale. La stessa musica di UmbriaJazz a Perugia
non ha uguale valenza estetica ed estatica a Melbourne. Dunque, per quanto
concerne UmbriaJazz, si tratta di un localismo particolare, di un localismo
fortemente attratto dalla dimensione globale.
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283
284
La “via del cioccolato” allo sviluppo locale
Aspetti economici,
Eurochocolate
socio-culturali
e
creativi
della
manifestazione
MARTA PICCHIO
Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione
Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Perugia
P.za Ermini 1, 06123 Perugia, Italia
[email protected]
Premessa
Se gli studi dedicati allo sviluppo locale costituiscono ormai da diversi anni un filone di ricerca di consolidata importanza, come dimostra la consistente
produzione scientifica sul tema1, è più recente l’attenzione alle sinergie tra
sviluppo locale e creatività. A fronte della crisi della razionalità aziendale che
caratterizza il mondo produttivo odierno, l’immaginazione creatrice, che attinge dalla storia e dalle tradizioni di un territorio, ma anche dalle esperienze e
dai sogni degli individui, può rappresentare una risorsa importante per la
promozione e la valorizzazione della dimensione locale, in reazione alle tendenze omogeneizzanti e globalizzanti attualmente diffuse sia in campo economico-finanziario che culturale.
Nell’ambito della rete di sei università (Unità di ricerca PRIN 2004) impegnate ad esplorare lo sviluppo locale nell’Italia centrale, il gruppo di ricerca
1
Tra le pubblicazioni in materia di sviluppo locale si segnalano alcuni testi di una collana coordinata dal Prof. Everardo Minardi, che riflettono l’impegno dei sociologi dell’Ateneo di Teramo ad approfondire il tema in questione: Di Francesco-Minardi (2003), Bortoletto-CimagalliD’Ottavio-Piscitelli (2004), Bagaglini-Damianis-D’Ovidio-Fardelli-Maretti-Salvatore (2005).
Negli ultimi anni altri volumi hanno messo a fuoco molteplici aspetti nell’ambito dello sviluppo locale, dai rapporti tra impresa e territorio alle connessioni con la politica e le istituzioni locali, dall’individuazione delle componenti territoriali dello sviluppo alle strategie di marketing
territoriale, dai processi di localizzazione, crescita e sviluppo regionale alla relazionalità come
risorsa per lo sviluppo territoriale: cfr. Cicciotti-Spaziante (2000), Favaretto (2001), Caroli
(2002), Garofali (2003), Capello (2004), Delai (2004).
285
dell’Università degli Studi di Perugia sta riservando particolare attenzione alla
dimensione simbolico-creativo-immaginale all’interno del tessuto produttivo
dell’Umbria. Dopo aver esaminato a lungo il “caso” eclatante del ternano2, in
cui in poco tempo si è passati da una realtà produttiva incentrata su settori economici “materiali”, come l’industria pesante dell’acciaio e della chimica, a
nuovi modelli di sviluppo basati invece su una produzione di tipo “immateriale”, ad alto contenuto creativo, nell’ambito del cinema, delle produzioni televisive e multimediali e dell’intrattenimento, l’interesse del gruppo di studio
perugino si è rivolto anche ad altre realtà, nel tentativo di monitorare tutto il
territorio umbro alla ricerca di altri “casi” significativi di sviluppo locale legato alla dimensione creativa.
Lo studio di questi “casi”, in cui rientra anche la manifestazione Eurochocolate di Perugia oggetto del presente saggio, consente non solo di mettere a
fuoco con maggiore precisione le linee di trasformazione interne al tessuto
produttivo umbro, ma anche di enucleare quelle caratteristiche “vincenti”, in
termini di sviluppo locale, delle diverse esperienze esaminate che possano
servire da stimolo e da modello per altre realtà locali da valorizzare,
all’interno e fuori dell’Umbria.
1. Eurochocolate: caratteristiche e dati
Eurochocolate è davvero un “fenomeno” che di anno in anno continua a
stupire e a suscitare interrogativi: per l’ultima edizione di ottobre 2005 è stato
stimato che quasi un milione di persone abbiano raggiunto Perugia per visitare
la kermesse, acquistare prodotti negli stands delle oltre 130 aziende presenti,
vivere la “festa” nei suoi eventi spettacolari e di intrattenimento, senza scoraggiarsi per le file da affrontare, la difficoltà di trovare alberghi nelle vicinanze, la necessità di lasciare l’automobile lontano dal centro storico dove si
svolge la manifestazione e tutti i disagi che un sovraffollamento simile può
comportare in una cittadina che normalmente, comprese le periferie, conta
circa 160.000 abitanti. Viene spontaneo chiedersi perché in tanti sentano il bisogno di unirsi, di aggregarsi in nome della passione comune per il “cibo degli dei”. Una passione con forti ricadute economiche, che ha portato i visitatori a spendere in nove giorni tre milioni e centomila euro in cioccolato (i dati
2
Sulle trasformazioni del tessuto economico-produttivo dell’area ternana e sui relativi cambiamenti dell’immaginario sociale locale si rinvia alla ricerca di M.C. Federici e R. Federici dal
titolo “Giano nella valle del Nera. Come cambia il modello dello sviluppo locale dalla crisi del
modello industriale ai nuovi input della creatività. Il caso di Terni”, presentata al convegno internazionale “Come cambiano le istituzioni sociali. Individui, norme, valori”, organizzato
dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel maggio 2005. La ricerca è stata successivamente pubblicata negli atti del convegno e nella rivista Forum (Federici-Federici 2005).
286
sono sempre relativi all’edizione 2005) e che ha indotto sponsor importanti (la
FIAT, Sky, Alitalia, Autogrill, Coop Italia, solo per citarne alcuni) a investire
circa due milioni di euro nella manifestazione.
Con un fatturato di cinque milioni di euro3 in nove giorni Eurochocolate si
3
I dati sul fatturato sono stati forniti dall’Arch. Eugenio Guarducci, creatore e presidente di
Eurochocolate, nel corso di un’intervista da me realizzata il 28 ottobre 2005 a Perugia, presso
la sede amministrativa della manifestazione.
287
pone come una vera e propria realtà aziendale del territorio umbro, che può
equivalere ad un’impresa che impieghi in maniera stabile un centinaio di lavoratori. Si tratta senza dubbio di una nuova configurazione dell’impresa, legata
alla creazione di eventi, con un personale fisso di solo venticinque elementi,
che non può non suscitare interrogativi in merito al rapporto tra creatività e
trasformazione post-fordista della produzione, sempre più leggera e flessibile,
luogo di nuove combinazioni tra fattori materiali e componenti immateriali,
simboliche, creative.
Va inoltre considerato il peso economico enorme dell’indotto: si calcola
che ogni presenza ad Eurochocolate sviluppi una spesa di circa sessanta euro,
in ristoranti, alberghi, benzina, spese varie, e, anche volendosi tenere bassi
perché un buon numero di visitatori può provenire da zone limitrofe a Perugia, il che comporta un abbassamento del livello di spesa, è ipotizzabile che
circa trenta milioni di euro ricadano sul territorio perugino. Per di più la manifestazione viene comunicata su tutti i principali media e la città di Perugia che
la ospita ne riceve un’evidente promozione a livello d’immagine, aspetto senza dubbio positivo per l’incremento dei flussi turistici e lo sviluppo locale.
Occorre infine ricordare che l’invenzione di Eurochocolate,
l’organizzazione del format, gli slogan, le immagini, le campagne comunicative e pubblicitarie sono il frutto personale della “creatività” (e del fiuto per
gli affari) di un architetto-imprenditore perugino: Eugenio Guarducci. Il presidente ed artefice della manifestazione non può essere inquadrato in un profilo professionale nitido e netto: è sicuramente un imprenditore che ha investito
risorse economiche ed ha affrontato rischi per perseguire un suo progetto produttivo, ma è anche un creatore di eventi, un esperto di marketing e comunicazione. La creatività è dunque in rapporto anche con i profili professionali,
che si modificano e si fanno “ibridi”, sfumati. Ce n’è quanto basta per suscitare interesse ad una lettura più approfondita del “fenomeno” Eurochocolate,
nei suoi aspetti economici, imprenditoriali, simbolico-comunicativi e sociologici.
Prima di ogni ulteriore riflessione è opportuno chiarire meglio che cos’è
Eurochocolate: si tratta di una grande “fiera” dedicata all’esposizione e alla
vendita di un unico prodotto, il cioccolato, in tutte le sue possibili declinazioni, che ha la peculiarità di svolgersi tra le vie del centro storico medioevale di
una cittadina di indubbio fascino storico-artistico, Perugia, e all’interno di alcuni suoi significativi monumenti, come la Rocca Paolina e l’atrio del Palazzo
dei Priori. La manifestazione dura nove giorni, distribuiti in modo da coprire
due week-end per favorire un maggiore afflusso di pubblico e scelti verso la
metà di ottobre, quando il clima è ancora abbastanza mite per incentivare gite
e spostamenti e soprattutto quando, dopo la pausa estiva sia dei consumi che
della produzione di cioccolato, le aziende sono all’inizio della nuova stagione,
desiderose di far conoscere i propri prodotti e i consumatori desiderosi di tor288
nare a gustarli, freschi e fragranti.
Si sono già ricordate le cifre imponenti delle vendite, che hanno superato i
tre milioni di euro, ma occorre sottolineare che se Eurochocolate ha
un’evidente anima commerciale, che ne costituisce il motore propulsivo, la
manifestazione non può essere ridotta ad un fatto solo “consumistico”, come i
detrattori e i critici tentano di asserire. Sin dall’inizio (ottobre 1994) essa è nata con una “formula” particolare, che è stata la chiave del suo straordinario e
crescente successo: unire gli aspetti commerciali, legati alla vendita del prodotto, con quelli turistici, culturali, ricreativi e spettacolari. Basta dare
un’occhiata all’ultimo programma per rendersi conto di quanto le proposte
siano ricche ed articolate, e coinvolgano non solo Perugia, ma anche centri
limitrofi. Si va dai percorsi a tappe di degustazione di cioccolata, organizzati
per le vie del centro storico di Perugia, per scoprire le bellezze storicoartistiche e paesaggistiche della città, alla rievocazione di eventi storici giocati
in chiave ironica su prodotti al cioccolato, sempre collocati nello splendido
contenitore del centro medioevale, dalle visite alla storica fabbrica della Perugina alle “serate di gola” e tipicità umbre nelle vicine cittadine di Bettona,
Corciano, Deruta, Paciano ed altre, che contribuiscono a stimolare la conoscenza del territorio umbro e a valorizzare i piccoli comuni. Già da nove edizioni, perseguendo una logica di decentramento, alcuni eventi vengono proposti a Corciano, che quest’anno ha raggiunto oltre seimila presenze in due
giorni.
Vengono poi organizzati corsi professionali e amatoriali tenuti da famosi
maître-chocolatiers, su vari aspetti dell’utilizzazione gastronomica del cioccolato: l’offerta formativa spazia da masters di alto livello a numero chiuso ad
incontri teorico-pratici rivolti ai bambini delle scuole elementari e materne di
Perugia, realizzati in collaborazione con la Direzione scolastica perugina. Diverse mostre mirano a promuovere ed approfondire la “cultura” del prodotto e
le problematiche socio-economiche ad esso connesse: al Museo del Vino di
Torgiano, suggestiva ambientazione che permette di far incontrare idealmente
il “cibo degli dei” con il “nettare degli dei”, viene ricostruito e documentato
l’arrivo del cacao nelle corti europee del XVII secolo; in alcune sale della
Rocca Paolina, altra ambientazione ricca di fascino, ha luogo Eurochocolate
World, l’esposizione dedicata ai principali paesi produttori di cacao, con materiale fotografico, schede informative, oggetti tipici, colori ed odori che i
rappresentanti delle diverse delegazioni, vestiti con abiti tradizionali, rendono
maggiormente “viva” e coinvolgente per i visitatori. Eurochocolate World
non è però solo una mostra (visitata da 50.000 persone), ma una sezione speciale della manifestazione principale, patrocinata e sponsorizzata da Coop Italia, che comprende anche spettacoli, danze e musica, per conoscere meglio la
cultura e il folklore dei paesi produttori di cacao, conferenze e tavole rotonde
per riflettere sui problemi legati alla produzione e commercializzazione del
289
cacao nei paesi del Sud del mondo, sul cacao come risorsa per la modernizzazione economica in Africa, sulle nuove prospettive di sviluppo del commercio
equo e solidale, connesso all’affermarsi di un nuovo stile di vita, più etico e
attento a non causare sfruttamento e povertà, e che nel cacao e nei suoi derivati può trovare il prodotto simbolo, di punta. La sezione ha avuto tra gli eventi
più significativi il “C8”, ovvero il Summit Internazionale dei primi otto Paesi
produttori di cacao (che intendeva ironicamente “fare il verso” al G8), dove le
rappresentanze politiche ed istituzionali dei vari paesi, le associazioni dei produttori e le organizzazioni territoriali hanno avuto occasione di discutere e
confrontarsi.
Accanto a questi aspetti, più seri ed impegnati, che hanno ricevuto attenzione crescente negli ultimi anni, Eurochocolate sin dalla prima edizione ha
mirato, con numerose e sempre nuove “trovate”, a creare un’atmosfera di allegria, gioco, spensieratezza e divertimento, che ben si abbina ai richiami “edonistici” e golosi del cioccolato. Ne sono esempi eclatanti le sculture di cioccolato realizzate in pieno Corso Vannucci (la via principale del centro), appuntamento ormai tradizionale, che scatena una specie di lotta giocosa e accanita tra il pubblico per accaparrarsi le scaglie; la nuova trovata della Chocofarm, uno speciale istituto di bellezza ospitato nelle sale del più esclusivo Hotel del centro storico perugino, che propone trattamenti e massaggi a base di
cioccolata aromatizzata ed ha avuto subito un grandissimo successo; il gioco
proposto per i single in cerca della loro “dolce metà”, in collaborazione con lo
sponsor Hor-Ottici Riuniti per un amore a prima “vista”; il “chocoreality” ospitato all’interno del settecentesco Teatro del Pavone, in cui dieci giovani pasticceri-cioccolatieri si sfidano a colpi di cacao, nel tentativo di unire l’Italia
rievocando l’impresa di Garibaldi.
Occorre poi sottolineare che, al di là degli eventi specifici e spettacolari, la
stessa organizzazione degli stands e degli spazi destinati alla vendita dei prodotti, che riguarda gli aspetti più “fieristici” e commerciali della kermesse, è
proposta in modo giocoso e ironico, attraverso le parole e le immagini. Tutto
viene trasformato in nome del cioccolato, con irriverenza ma anche ingenuità:
la Rocca Paolina, storica fortezza cinquecentesca, viene ribattezzata Rocca
“Pralina”, all’entrata vi è un grande cartello in cui un paffuto porcellino invita
all’ “ingrasso libero”; la sezione riservata alle creme spalmabili è denominata
“Spalm beach”, quella dedicata alle produzioni biologiche porta il titolo di “il
cioccolato come bio comanda”, “a tutta tavoletta” è la frase che, facendo il
verso all’espressione “a tutta manetta”, introduce agli stands che espongono
più di trecento tipi di tavolette provenienti da tutto il mondo. I bambini, che
costituiscono una parte importante dei visitatori di Eurochocolate, si divertono, i grandi sorridono, vivono momenti spensierati e comprano. Eurochocolate è dunque una manifestazione complessa, con un suo format specifico, che
sapientemente miscela il lato commerciale con la cultura del prodotto, la cul290
tura della città che lo ospita, gli eventi spettacolari e tutta una serie di attrazioni giocose.
Le cifre riportate all’inizio di questa relazione, relative all’afflusso di visitatori e al fatturato dell’ultima edizione, alle stime sull’indotto, alla copertura
dell’evento sui media, rendono già bene l’idea di cosa possa significare una
manifestazione del genere per lo sviluppo locale. Si tratta di decine di milioni
di euro che affluiscono nel territorio perugino, di un’azienda che guadagna, dà
lavoro e reinveste, di una vetrina che promuove il turismo a Perugia e in Umbria e che può offrire spunti ad altre realtà locali per valorizzare le proprie risorse. Vedremo più avanti che il “modello” può essere esportato con successo,
che la formula funziona non solo a Perugia. In fondo Eurochocolate incentiva
quello che è stato chiamato il “turismo motivazionale”, una strada che può essere percorsa anche da altri e che si rivela particolarmente efficace per far conoscere e far entrare nei grandi flussi turistici piccole realtà locali4. Occorre a
tal fine legare le risorse storico-artistiche-paesaggistiche di una località ad eventi particolari che possano risultare decisivi nella scelta del turista. “Se uno
decide di venire in ottobre a Perugia e non a Siena, non è perché una sia più
bella dell’altra, ma perché magari in quel giorno a Perugia accade qualcosa in
più, che fa la differenza” sostiene Guarducci5 che auspica la nascita di nuovi
eventi per valorizzare turisticamente le notevoli risorse e attrattive della regione Umbria.
Nell’analizzare le varie sfaccettature economiche della manifestazione, che
hanno poi una ricaduta significativa sullo sviluppo locale, vanno menzionati i
300.000 euro di stipendi pagati in nove giorni ad uno staff di circa mille persone, che lavorano, a turni, per quasi 24 ore al giorno (nei giorni di maggiore
afflusso gli stands rimangono aperti fino alle 23, poi occorre chiudere le casse
e sistemare tutto), e sono assunte con regolari contratti a tempo determinato.
Sono prevalentemente studenti provenienti dal mondo universitario, che, anche se non hanno sempre esperienze di vendita e una conoscenza dettagliata
dei prodotti, offrono una notevole elasticità e disponibilità oraria a costi non
elevati, ottenendo in cambio qualche entrata in più, utile soprattutto per i numerosi studenti fuori sede. Inoltre c’è uno staff fisso di venticinque persone,
che lavora tutto l’anno per mettere a punto tutti i complessi aspetti organizzativi e comunicativi della manifestazione principale, quella perugina, e degli
eventi minori collegati che da qualche anno sono stati proposti in diverse città
italiane.
Un altro aspetto importante da evidenziare, collegato ai temi dello svilup4
Sulle politiche del turismo e sul turismo come fattore di sviluppo territoriale cfr. Bencardino Marotta (2004); De Salvo (2003); Di Meo (2002); Garibaldi-Macchiavelli (2001); Volpe
(2004).
5
Affermazione espressa nel corso dell’intervista, già menzionata, del 28 ottobre 2005.
291
po locale, è che delle 130 aziende presenti solo pochissime sono multinazionali, come la Lindt e la Nestlé, mentre il 70% sono aziende artigianali, a diffusione locale, ed il resto aziende industriali di piccole e medie dimensioni,
come Icam, Caffarel, Venchi, Streglio. Soprattutto per le aziende artigianali e
per quelle di piccole dimensioni Eurochocolate rappresenta un’importantissima vetrina, che le mette in contatto con un pubblico vastissimo di consumatori, ma anche con i buyers della grande distribuzione organizzata, italiani e stranieri, che vengono anch’essi a Perugia per valutare i prodotti e
prendere i contatti con le aziende. Le aziende artigianali tendono a valorizzare, oltre alla qualità e alla specificità del proprio prodotto, le tradizioni e le caratteristiche del territorio di provenienza: ad esempio negli stands dedicati al
cioccolato modicano, con diversi produttori artigianali, vengono diffusi dépliant e cartoline sulla bella città siciliana, sulla sua particolare arte di lavorazione del cioccolato, sulla ricettività alberghiera ed altro, in modo da suscitare
l’interesse sia del consumatore che del potenziale turista. Sostenere e dare linfa economica alle aziende locali, promuovere, direttamente e indirettamente,
la conoscenza e il turismo nelle piccole realtà locali è un modo per favorirne
lo sviluppo, ed Eurochocolate ha effetti anche in questa direzione.
Infine Eurochocolate porta entrate al Comune di Perugia, attraverso il regolare pagamento delle tasse per l’occupazione di suolo pubblico e delle tasse
pubblicitarie. Occorre però far notare che sono sorte in proposito diverse polemiche: c’è chi ritiene (uno fra tutti, il patron di Umbria Jazz Carlo Pagnotta)
che non si possa consegnare così una città nelle mani di un privato, in particolare un’area dalla grande valenza artistico-monumentale come il centro storico, e per un evento tutto sommato, a detta dei detrattori, prevalentemente
commerciale (La Nazione Umbria, 13 dicembre 2005: II-III). Il Comune dovrebbe farlo solo se, ad esempio con la creazione di una joint-venture, potesse partecipare attivamente agli utili, senza accontentarsi del semplice pagamento delle tasse. Altre polemiche sono poi state sollevate dai residenti del
centro storico perugino, seccati per i disguidi e il sovraffollamento che devono subire. I commercianti del centro e non solo sono invece ovviamente soddisfatti per l’incremento delle vendite che una tale affluenza alla città porta
con sé. Per quanto riguarda i problemi di organizzazione degli accessi al centro, della vivibilità e della sicurezza della città, è la direzione di Eurochocolate a pagare i costi per la protezione civile, per i vigili del fuoco, per le ambulanze e le emergenze sanitarie, mentre il Comune sostiene le spese per i vigili
urbani, che in quei giorni lavorano molto di più, e per la nettezza urbana, che
subisce un notevole incremento. Anche su questo accresciuto impegno del
Comune vi sono state critiche, ma se si considera che la città diventa più ricca
grazie a Eurochocolate, che vi è un’enorme ricaduta economica sul territorio
dell’intera area del perugino, che viene incrementato lo sviluppo locale, la conoscenza e il turismo nella regione, appare ovvio che i benefici superano di
292
gran lunga i costi, anche per le istituzioni locali.
2. Gli sviluppi
Dal 2000 è cominciata una strategia di esportazione del marchio Eurochocolate e sono state organizzate edizioni “speciali” in diverse città italiane, in
aggiunta al tradizionale e principale appuntamento perugino di ottobre. Le
prime città coinvolte sono state Torino (2000 e 2001), Roma (2002 e 2003) e
Napoli (2004). Se per Torino poteva esserci l’aggancio con una tradizione illustre di lavorazione del cioccolato, che ha nel “gianduiotto” il suo prodotto
più noto e più tipico, le altre scelte sono dipese da fattori un po’ casuali, legati
ai rapporti di tipo economico-istituzionale che via via si stavano creando. Ad
esempio Roma è stata presa in considerazione in seguito ad una proposta molto allettante del sindaco Veltroni.
Dopo queste prime esperienze, un po’ sperimentali, coronate da successo
ma molto impegnative sul piano organizzativo e gestionale, il patron di Eurochocolate Eugenio Guarducci ha meglio messo a fuoco la politica di espansione e crescita della manifestazione, che ha preso una direzione di indubbio
interesse per lo sviluppo locale. Invece che continuare sulla strada di un secondo evento su grande scala, quasi una replica dell’appuntamento perugino,
da realizzarsi in città di ampie dimensioni, come appunto Torino, Roma e Napoli, si è preferito lasciare l’evento principale a Perugia, e andare poi a scoprire situazioni locali, piccole realtà di nicchia da valorizzare e promuovere. Così
nel 2005 si è optato per Modica, una piccola città del ragusano che vanta notevoli risorse da far conoscere al vasto pubblico: una speciale tradizione cioccolatiera, con numerose aziende artigianali che si pregiano di lavorare il cioccolato “alla maniera degli aztechi”, un centro storico ricco del fascino del barocco siciliano, un territorio dalle notevoli bellezze paesaggistiche e naturali.
Ed è stato subito successo: in due giorni sono arrivate, in una cittadina di
60.000 abitanti, ben 100.000 persone. Nel 2006 ovviamente si replica con la
seconda edizione di Eurochocolate a “Modica la dolce (il Polo Sud del Cioccolato)”: l’ambizione, una volta scoperte e attivate le potenzialità di una realtà
locale, è quella di rimanervi, rinnovare l’evento e procedere in direzione dello
sviluppo.
Poiché è difficile trovare molte piccole località che abbiano per tradizione
a che fare con il cioccolato, la fantasia e la voglia di crescere di Guarducci si
sono dirette verso la scoperta e la creazione degli “abbinamenti”, un campo
potenzialmente vastissimo. Se l’attenzione si sposta ai cibi e alle bevande che
si “sposano” bene con il cioccolato, l’Italia, con le sue ricchissime tradizioni e
specialità eno-gastronomiche, offre davvero una notevole quantità di prodotti
e di località collegate da valorizzare. Questa nuova “politica” di espansione è
già stata inaugurata e avrà sicuramente ulteriori sviluppi: a novembre a Cre293
mona si è svolto con successo il Festival del Torrone, prodotto tipico della città e apprezzatissimo nella versione al cioccolato; a Bassano del Grappa è previsto per marzo 2006 un evento basato sull’abbinamento grappa-cioccolato.
La “formula” rimane la stessa e finora ha sempre funzionato: trovare un prodotto che sia radicato in una realtà locale, che abbia una tradizione, enfatizzare gli aspetti “culturali” sia del prodotto che del territorio, costruire eventi
spettacolari e giocosi che siano in grado di attrarre pubblico, in un clima di
festa.
I progetti di sviluppo procedono anche in altre direzioni: Guarducci da
tempo coltiva l’idea di realizzare una versione di Eurochocolate in Svizzera,
obiettivo che ha il sapore di una sfida perché sarebbe “come vendere frigoriferi agli eschimesi”. Inoltre egli ha nuove idee per Perugia, in particolare il progetto “Città del Cioccolato”, al quale sta lavorando da tempo con gli enti locali e le amministrazioni, per legare stabilmente Perugia al cioccolato, “spalmando” la manifestazione e le sue attrazioni per 365 giorni all’anno, accentuandone gli aspetti culturali, turistici e ricreativi, oltre che commerciali. Si
tratterebbe di creare un evento permanente su scala ridotta, mantenendo
l’evento su larga scala per i nove giorni di ottobre, così che invece di avere
quasi un milione di persone in pochi giorni, se ne abbiano molte di più ma distribuite nell’intero arco dell’anno. La sede “naturale” ed auspicata per un Eurochocolate stabile sarebbe il “Mercato Coperto”, grande edificio del centro
dove attualmente si svolgono i mercati generali, ma che ha un passato importante legato alla lavorazione del cacao: proprio lì nasceva nel 1907 la Perugina, la storica fabbrica di cioccolato che ha inventato i “Baci” ed altri prodotti
di successo. La grande aspirazione del parton di Eurochocolate è che nel
2007, anno del centenario della Perugina, la Città del Cioccolato possa diventare realtà proprio in quella storica sede, che rappresenta come il chiudersi del
cerchio e il riallacciarsi alle origini.
3. Aspetti creativi
Eurochocolate nasce dall’intuizione, dalla capacità inventiva e costruttiva,
dall’abilità comunicativa e imprenditoriale di Eugenio Guarducci, che non a
caso ha una formazione da architetto, una professione ad alto contenuto creativo. Nasce anche da un’esperienza di vita, che la fantasia e l’intraprendenza
hanno rielaborato e applicato al contesto locale6. La “genesi” dell’idea iniziale è legata ad una visita, compiuta da Guarducci a diciotto anni, all’Oktober
6
Per i contenuti di questo paragrafo si farà ampio riferimento alla testimonianza offerta da Eugenio Guarducci, il protagonista di tutta la vicenda Eurochocolate, nel corso dell’intervista da
me realizzata, nell’ambito del progetto di ricerca, il 28 ottobre 2005.
294
Fest di Monaco di Baviera, il grande festival autunnale tedesco dedicato alla
birra. Il futuro presidente di Eurochocolate era abituato a frequentare con il
padre, proprietario di un supermercato e con interessi nella distribuzione alimentare, contenitori fieristici, con grandi spazi chiusi, circoscritti, in cui le aziende esponevano determinate categorie di prodotti. Nel caso dell’Oktober
Fest un unico prodotto, la birra, veniva presentato in modo diverso, in una situazione molto festosa e gioiosa, all’interno di una città, per le sue strade e le
sue piazze, e non confinato all’interno di padiglioni fieristici. In occasione di
quella visita Guarducci non trovò da dormire neanche a 70/80 chilometri di
distanza da Monaco, circostanza che lo spinse a riflettere sullo straordinario
livello di successo della manifestazione e sulle sue enormi potenzialità di favorire lo sviluppo turistico e commerciale di una zona.
In tempi successivi, ricordandosi di questa esperienza, cominciò a chiedersi cosa poteva esser fatto di simile a Perugia: prendendo spunto dalla tradizione perugina di produzione di cioccolato, legata ad un marchio di fabbrica
“storico” conosciuto a livello internazionale, dopo aver appurato che non esisteva nessuna “festa” del cioccolato né in Italia né in Europa, decise di scommettere proprio su questo prodotto, che ha la peculiarità di non avere un
target specifico, né per età né per ceto sociale, e che quindi è naturalmente
predisposto ad avere un successo trasversale e globale. Il cioccolato piace a
tutti, adulti e bambini, manager e operai, è sempre piaciuto, ma agli inizi degli
anni Novanta non veniva ancora celebrato e il consumo era frenato da preoccupazioni “dietistiche”. Guarducci intuì che, investendo nel cioccolato, dedicandogli una festa, lavorando sull’immagine e sui contenuti comunicativi ad
esso connessi, potevano esservi buone possibilità di riuscita economica e di
riscontro di pubblico e si convinse che a Perugia, Città del Cioccolato per eccellenza, il prodotto potesse trovare la sua naturale collocazione e celebrazione. I fatti gli hanno dato ragione, anche se mai si sarebbe immaginato un successo simile a quello poi ottenuto, sia della manifestazione Eurochocolate che
del prodotto “cioccolato”.
I dati sull’incremento del consumo di cioccolato sono al riguardo sorprendenti: nel 1994, quando è partita Eurochocolate, il consumo pro capite medio
in Italia era di 2 kg all’anno ed ora si è giunti a 4 kg, con un raddoppio netto
in poco più di dieci anni. In particolare negli ultimi cinque anni, periodo di
difficile congiuntura economica e di stagnazione dei consumi, si è avuto comunque un aumento dei consumi del 20%, caso unico nell’insieme dei prodotti agroalimentari (Corriere della Sera, 22 ottobre, 2005: 31).
La manifestazione Eurochocolate è cresciuta di pari passo, anzi, in proporzione molto di più, passando dai 15.000 visitatori del primo anno (1994) allo
sfiorare il milione di presenze nel 2005, con tutto ciò che un incremento simile comporta in termini di fatturato, visibilità, copertura mediatica. Guarducci
ritiene che i due trend di crescita siano collegati e rivendica alla manifestazio295
ne da lui creata diversi importanti ruoli: aver fatto da “volano” all’incremento
dei consumi, aver contribuito all’affermarsi di un nuovo approccio al prodotto
e aver moltiplicato le occasioni per parlare di cioccolato attraverso i media.
Offre dati interessanti in proposito una ricerca realizzata da Gigi Padovani7,
giornalista del quotidiano “La Stampa” di Torino e scrittore, che ha analizzato
i comunicati stampa delle principali agenzie italiane (Adn Cronos, Ansa, Age
ecc.) degli ultimi venticinue anni per vedere in quanti sia presente la parola
“cioccolato” o “cioccolata”. Fino al 1993 c’erano mediamente cinque o sei
uscite all’anno con questa parola, nel 1994, anno di nascita di Eurochocolate,
si passa di colpo a venticinque uscite, nel 2004 si arriva a più di centosessanta
comunicati. Va inoltre considerato, sottolinea Guarducci, che nell’ultimo anno
l’Ansa regionale di Perugia ha effettuato ben 214 comunicati, tra locali e nazionali, in cui compare la parola Eurochocolate. La manifestazione si lega al
prodotto e lo promuove ed entrambi stanno acquistando visibilità crescente
nei media. Il cioccolato non è più semplicemente pubblicizzato dalle aziende,
ma viene sempre più “raccontato” dai media, associato a film, romanzi ed eventi come Eurochocolate.
L’iniziale connotazione negativa del cioccolato, alimento ipercalorico e
potenzialmente lesivo della “linea”, da concedersi solo saltuariamente, con cui
le aziende dovevano fare i conti rassicurando il consumatore attraverso slogan
del tipo “più latte meno cacao”, ha lasciato in posto ad una visione positiva,
ricca di fascino ed attrazione, legata ad una rinnovata ricerca di piacere, di gusto e di godimento8. Il cioccolato ha effetti sui neurotrasmettitori, sulla produzione di serotonina, procura benessere e piacere non solo al palato, può essere
abbinato ed esaltato dalle spezie più diverse (cannella, zenzero, peperoncino
ecc.) in una inesauribile avventura del gusto, si presta ad applicazioni cosmetiche e ad elaborazioni gastronomiche. Queste caratteristiche e questa versatilità lo hanno portato gradualmente ad essere visto come alimento di uso quotidiano, sempre più presente nella nostra vita e nella nostra dieta, come il sorprendente aumento dei consumi dimostra.
7
I dati della ricerca in questione sono stati presentati al Convegno dal tema “Tendenza cioccolato. Gli italiani sono dolci o amari?”, organizzato dalla Caffarel e svoltosi a Milano, presso la
sede del Four Season Hotel, il 12 ottobre 2004.
8
Ad aprire la strada ad una simile visione ha contribuito il successo straordinario e crescente
della Nutella, che ha riguardato non solo i consumi, ma ha investito la sfera emotiva e
dell’immaginario. Con un percorso mediatico e pubblicitario articolato nel tempo, la famosa
crema spalmabile a base di cacao e nocciole è arrivata ad assumere il valore di metafora del
desiderio e del piacere (Padovani, 1999 e 2004).
296
Sculture di cioccolato in Corso Vannucci (Perugia)
Si tratta di trasformazioni che la manifestazione Eurochocolate ha potentemente stimolato ed attivato con il proprio stile di comunicazione e le proprie
campagne immagine. Occorre in proposito sottolineare che tutte le immagini,
la grafica, gli slogan, le “trovate” pubblicitarie dal 1994 ad oggi sono “opera”
di Eugenio Garducci, che ha dimostrato notevoli doti inventive e “creative”,
di importanza strategica nel favorire un nuovo approccio del consumatore al
prodotto. Ad esempio, intuendo che il cioccolato suscitava desideri forti compressi però dalle preoccupazioni “dietistiche”, ha fatto uscire allo scoperto i
“golosi”, dandogli una “patente”, un riconoscimento e una certificazione,
all’interno delle trovate giocose di Eurochocolate. Tutta la manifestazione è
volta ad enfatizzare gli aspetti simbolico-evocativi del cioccolato, a “celebrarlo” in tutte le possibili declinazioni e associazioni, come viene riconosciuto
dalle stesse aziende produttrici. L’attenzione alla qualità, la ricerca e la sperimentazione delle varietà (fino ad una decina di anni fa i tipi del tutto prevalenti erano solo due: fondente e al latte), l’associazione con eventi spettacolari, “cultura”, sport, giochi e divertimenti sono stati la “cifra” che ha caratterizzato l’approccio della manifestazione al prodotto, con conseguenze evidenti
sull’atteggiamento e la propensione all’acquisto dei consumatori.
Alcuni di questi eventi spettacolari, ideati personalmente da Guarducci,
meritano di essere ricordati per il loro impatto visivo e la loro potenza comunicativa, come occasione per promuovere il marchio Eurochocolate all’infuori
di Perugia e sono altresì testimonianza della peculiare creatività del loro artefice. Nel 1999, in occasione del decennale della caduta del Muro di Berlino,
Guarducci ha fatto costruire un muro di cioccolato dal peso di quasi dodici
tonnellate, alto due metri e lungo dodici, in Marlene Dietrich Platz, nel centro
della città, poi abbattuto e mangiato da trentamila persone: è il “muro della
dolcezza”, che invece di dividere unisce i golosi e diventa un’occasione per
297
ricordare un passato drammatico con un sorriso. Nel febbraio 2002, durante la
“trasferta” di Eurochocolate a Roma, il Presidente ha organizzato un grandioso allestimento a Trinità dei Monti, riempiendo la celebre scalinata con tremila uova di cioccolato, metà fondenti e metà al latte; a Torino nel 2001 ha fatto
realizzare il gianduiotto più grande del mondo in Piazza San Carlo, poi distribuito al pubblico; ha inventato il Chococircus, un circo itinerante che gira
l’Italia con personaggi curiosi e “golosi” come la “donna-cannolo”. Gli esempi potrebbero continuare poiché le trovate si rinnovano di volta in volta ed
ogni nuova edizione di Eurochocolate a Perugia, come degli eventi minori in
varie località italiane (per ora), costituisce per Guarducci una sfida e una messa alla prova della sua “vena” di fantasia e creatività, che egli considera
l’aspetto più divertente e piacevole del suo lavoro di imprenditore.
4. Considerazioni sociologiche
Eurochocolate ha una rilevanza sociologica, oltre che economica, e una
lettura che faccia ricorso a categorie sociologiche permette di mettere meglio
a fuoco la complessità e i legami della manifestazione con alcune dinamiche
emergenti nella società postmoderna. In primo luogo è opportuno riflettere
sulla tematica del rapporto con il cibo (Di Nallo, 1986; Montanari, 2004), che
nella storia dell’uomo e delle società ha sempre rivestito profondi significati
simbolici e culturali, spesso ambivalenti, legati anche all’impatto sul corpo e
alle diverse “immagini” desiderabili del corpo che si sono succedute.
L’accesso al cibo, dal medioevo alla rivoluzione industriale, demarcava le
condizioni sociali: solo una piccola parte della popolazione poteva permettersi
un’alimentazione ricca e variata, con abbondanza di carne, mentre i più erano
sottonutriti o affamati (Montanari, 1993). D’altro canto, nell’Europa medioevale di tradizione giudaico-cristiana, nelle fasi di maggiore presa del messaggio religioso, le restrizioni alimentari erano considerate strumento per ottenere quella mortificazione del corpo e dei sensi necessaria per la sublimazione
nello spirito e la vicinanza a Dio. I monaci, in particolare, si alimentavano in
modo parco e frugale, astenendosi dal consumo di carne, e praticavano il digiuno come mezzo di purificazione ed elevazione spirituale (Montanari,
1988). Per tutti, cibo simbolico per eccellenza era l’ostia, il corpo di Cristo
che redime i peccati, ma il cibo, accanto al potere salvifico, ha sempre comportato il rischio di perdizione e peccato. È stata una mela a farci cacciare dal
paradiso e a farci entrare nel peso di un corpo che Platone definiva prigione
dell’anima. E non è un caso che un uomo simbolo del medioevo cristiano,
Dante, metta i golosi all’inferno.
Con l’avvento della modernità, che comporta una progressiva laicizzazione della società e un miglioramento generale delle condizioni di vita, dovuto
298
allo sviluppo industriale e scientifico, il cibo diviene gradualmente accessibile
a tutti, simbolo di benessere, abbondanza e piacere (Montanari, 1991). Si afferma una diversa valutazione dell’impatto del cibo sul corpo: un corpo carnoso e pieno è bello e desiderabile, come le raffigurazioni artistiche confermano, in particolare nelle figure femminili dal XVII al XIX secolo.
Il cibo insomma per gli uomini è sempre stato qualcosa di più che semplice nutrizione. Non è puro mezzo di sopravvivenza: è relazione, è potere, è
sfida ed ancora memoria, comunicazione, compensazione. È il frutto della nostra identità e uno strumento per esprimerla e comunicarla. È necessità vitale e
piacere da un lato, ma anche occasione di peccato e trasgressione (Stagi,
2002: 91). In sintesi, il cibo è cultura in tutti i suoi aspetti, quando si produce,
quando si prepara, quando si consuma, quando ci si astiene dal consumarlo,
quando viene valutato e scelto in rapporto all’immagine corporea (Guerci,
1999; Montanari, 2004) .
Nella postmodernità si può affermare che ritorni una sorta di “mortificazione” del corpo, e dunque di restrizione dell’assunzione di cibo, non più legata a ragioni spirituali ma estetiche. Ad essere apprezzato e desiderato è un
corpo magro, slanciato, atletico. Al tempo stesso vi è però una crescente ricerca del piacere sensoriale, che è anche piacere di abbandonarsi al cibo
(Montanari, 1992). Siamo costantemente esposti ad un’offerta eccessiva di
cibo, presentato nel modo più accattivante e desiderabile possibile, ma contemporaneamente siamo circondati da immagini di corpi perfetti e magri, nella pubblicità, in televisione, sulla stampa. Le due dimensioni, il piacere e
l’esigenza estetica, che a livello collettivo convivono senza apparenti difficoltà, entrano in contraddizione a livello individuale: abbandonarsi al piacere del
cibo mette a rischio la configurazione estetica del corpo. Ed il corpo, nella società postmoderna, “rappresenta uno degli elementi principali per la costruzione della propria identità”(Stagi, 2002: 10; Bauman, 1999). Dunque, nella
attuale società globalizzata e opulenta, ma sempre più società dell’incertezza e
dell’ambivalenza, il rapporto con il cibo, nei suoi riflessi sulla configurazione
del corpo, è diventato altamente contraddittorio, in forme peculiari rispetto al
passato. Da una parte si assiste ad una crescente ossessione per la forma fisica
e all’esigenza di un forte controllo e autocontrollo nell’assunzione di cibo, che
portano a restrizioni alimentari; a “diete” più o meno rigorose, fino al diffondersi delle patologie alimentari9, dall’altra si fa strada un edonismo dilagante,
che induce a trarre dal cibo il massimo godimento, a ricercare prelibatezze ga9
Nell’amplissima letteratura dedicata ai disturbi del comportamento alimentare si segnalano
Gordon (1990) e Stagi (2002), per l’attenzione alla dimensione sociale di tali patologie, e Fantini (2003), per l’accentuazione posta sulle oscillazioni tra controllo-purezza e tentazionetrasgressione, molto frequenti nei disturbi alimentari, che il titolo del volume (La mela e il
cioccolato) ben esemplifica.
299
stronomiche, a concedersi sfizi da gourmet10. Il cibo è visto sia come potenziale pericolo, perché può contaminare e ingrassare, sia come fonte di piacere,
come godimento e come consumo. Se le “diete” e i cibi “light” sono ormai da
tempo caratteristici delle tendenze alimentari occidentali, negli ultimi anni
sempre più persone stanno rivendicando il diritto a vivere il cibo come piacere: manifestazioni come Eurochocolate, ma anche associazioni come Slow
Food11 (Petrini, 2001; Padovani-Petrini, 2005), testimoniano l’importanza
crescente di questo tipo di atteggiamento nei confronti del cibo, che, rispetto
alle istanze antinomiche di controllo e godimento, si schiera apertamente a favore del godimento. Eurochocolate è infatti la festa dei golosi, dei palati raffinati alla ricerca del prodotto artigianale di alta qualità, non disponibile nei
supermercati, dei degustatori, di chi vuole semplicemente giocare e divertirsi
mangiando in libertà un cibo capace di offrire grandi soddisfazioni sensoriali
come il cioccolato.
Tale ricerca di godimento appare connessa alla rivalutazione, tipica della
postmodernità, di tutto ciò che è legato ai sensi e alla percezione sensibile. Si
va affermando un atteggiamento estetico, che si esprime non solo
nell’enfatizzazione del “gusto” o nella cura del corpo, ma anche nel peso crescente che stanno assumendo gli aspetti immaginali e l’immaginario (Maffesoli, 2005: 58). Ne scaturisce una seconda considerazione sociologica, da ap10
Bauman sottolinea con un esempio molto efficace la portata di una simile ambivalenza nei
confronti del cibo: “La lista dei venti libri più venduti, come tutte le mode di breve durata, muta
velocemente da una settimana all’altra. Ma ci sono due tipi di libri che si trovano in testa in ogni classifica: i manuali di cucina e i libri delle diete. Non si tratta di manuali di cucina ordinari, ma di collezioni di ricette sempre più sofisticate, esotiche, eccezionali, esclusive, meticolose
e ricercate. Promettono delizie per le papille gustative mai sperimentate prima ed esperienze
inebrianti per la vista, l’olfatto e il gusto. Al loro fianco, come ombre inseparabili, vi sono i libri delle diete, che contengono consigli per l’autoesercizio e l’autosacrificio, le istruzioni su
come rimediare ciò che gli altri libri hanno danneggiato, e chiarire ciò che gli altri libri hanno
tralasciato: la stessa abilità a procurarsi sensazioni straordinarie rende obbligatorio e doveroso
il ricorso all’autoflagellazione” (Bauman, 1999: 119).
11
Slow Food è un movimento nato a Bra nel 1986, ad opera di Carlo Petrini, che, da inizi amatoriali e goliardici, ha finito con il raggiungere una dimensione internazionale: oggi conta
80.000 iscritti in 45 paesi. È stato costituito con l’intento di reagire all’appiattimento e
all’omologazione del fast food, riscoprendo la ricchezza e gli aromi delle cucine locali, la tradizione e la cultura del cibo, la “lentezza” e il piacere della degustazione. Organizza eventi di
immenso richiamo come il Salone del Gusto di Torino e il Convegno Terra Madre. Con la creazione dei “presidi”, Slow Food interviene a salvaguardia di prodotti, legati a specifiche realtà
territoriali, che rischiano l’estinzione, travolti dalle dinamiche globalizzanti dell’economia. Il
sostegno si realizza organizzando i produttori, cercando nuovi sbocchi di mercato, promuovendo e valorizzando sapori e territori attraverso la propria rete di eventi, pubblicazioni, contatti. Il
cacao nacional dell’Ecuador, ad esempio, è uno dei presidi internazionali Slow Food, sostenuto
anche da Eurochocolate. La rivendicazione del diritto al piacere del cibo, che anima dalle origini il movimento, si coniuga quindi con l’eticità e la promozione di un’agricoltura sostenibile,
rispettosa dell’ambiente, della biodiversità, delle tradizioni e dell’identità culturale dei popoli.
300
plicare al “fenomeno” che si sta qui esaminando: non si potrebbero comprendere il successo davvero sorprendente e i grandi numeri di Eurochocolate
senza fare riferimento al forte potere simbolico-evocativo del cioccolato, alla
sua evidente risonanza a livello immaginale, che la manifestazione, con le sue
campagne comunicative-pubblicitarie, strategicamente alimenta. Le aziende
stesse riconoscono ad Eurochocolate la capacità di aver stimolato il “racconto” del prodotto, i suoi aspetti simbolici, con effetti sull’atteggiamento dei
consumatori.
Nel sito ufficiale di Eurochocolate è in corso da mesi un sondaggio (uno
dei tanti proposti) che mette a fuoco con grande efficacia i due poli principali
di risonanza simbolico-immaginale del cioccolato. Alla domanda, semplicissima, che chiede di completare la frase “Cioccolato fa rima con…”, i visitatori
del sito rispondono “coccolato”, scelta che ottiene la maggioranza di preferenze, e “peccato”, opzione che si colloca al secondo posto
(http://www.eurochocolate.com). La rima con “coccolato” rimanda al cioccolato come simbolo di tenerezza e dolcezza, al prendersi cura, di sé e di chi ci è
caro, al mondo degli affetti; quella con “peccato” evoca invece la trasgressione, l’infrangere le regole, non solo della dieta ma della vita in generale, ed evoca la “gola”, uno dei peccati capitali, e, per estensione, tutto ciò che è godurioso e voluttuoso oltre misura.
Le scelte comunicative e d’immagine della manifestazione attingono ampiamente a queste aree simboliche, giocando, nelle diverse edizioni, sulla loro
contrapposizione e accontentando in tal modo tutte le esigenze. L’edizione
2005 è stata contrassegnata dal claim provocatorio “Chokolate revolution”,
esemplificato dall’immagine di un ragazzo che si fa la barba spalmandosi il
viso di cioccolata. Questa immagine era stata preceduta, nella campagna pubblicitaria a due tappe che, alcune settimane prima dell’inizio della kermesse,
aveva tappezzato le vie di Perugia, dallo slogan “in barba alla dieta”, proposto
in modo anonimo, senza alcun riferimento ad Eurochocolate, in modo che
l’effetto sorpresa successivo fosse più efficace. La “Chokolate revolution”,
con espressa e dichiarata intenzionalità da parte dell’organizzazione, intende
proporre l’idea “di utilizzare il cioccolato come mezzo per cambiare le abitudini, il modo di pensare e di agire, stimolando un modo positivo di rapportarsi
al mondo ed alla vita che ci circonda” (http://www.eurochocolate.com).
Quindi si invita a trasgredire, cambiare idee e stili di vita, ma per stare meglio,
per sé e con gli altri.
La prossima edizione del 2006, di cui è già stato individuato il filo conduttore a livello tematico, sarà, seguendo una logica di alternanza, all’insegna dei
“costruttori di dolcezze”; una versione dall’aspetto cantieristico “per edificare,
costruire e comunicare nel nome del cioccolato e recuperare così il rapporto
con famiglie e bambini”, come ha spiegato il patron Eugenio Guarducci (La
Nazione Umbria, 26 ottobre, 2005: VII). Dunque il richiamo simbolico sarà
301
alla dolcezza di sapori e di rapporti, alla dimensione affettiva e familiare, ai
bambini e all’impegno gioioso che ognuno deve mettere per costruire dolcezza attorno a sé: aspetti che rientrano nel polo simbolico-immaginale delle coccole e della tenerezza.
Infine, come terza considerazione sociologica, connessa alla precedente,
occorre sottolineare che attualmente sono proprio gli elementi immaginali e
simbolici a risvegliare sentimenti di comunità, a produrre aggregazione, a generare fenomeni di neotribalismo (Maffesoli, 2004 e 2005), ed Eurochocolate
ne è un’eloquente testimonianza. Come sottolinea Maffesoli, “a seconda delle
epoche, predomina un tipo di sensibilità, uno stile che specifica i rapporti che
stabiliamo con gli altri” (Maffesoli, 2004: 121): la società postmoderna è caratterizzata da micro-entità sociali basate sulla scelta, l’affinità, la passione, la
condivisione di un sentimento. Le “tribù”, nella loro effervescenza, rifiutano
“di riconoscersi in qualunque progetto politico”, non si iscrivono “in alcuna
finalità”, hanno come unica ragione d’essere “il desiderio di un presente vissuto collettivamente” (Maffesoli, 2004: 125). Declinano dunque i legami basati su elementi astratti, teorici, razionali, ideologici, che prevalevano nella
modernità; riemergono con forza gli elementi essenziali del “territorio” e dello “spazio”, che costituiscono la nuova base dell’appartenenza e della condivisione d’emozioni: “in misura sempre maggiore il luogo è legame” (Maffesoli, 2005: 60). La tribù di Eurochocolate si riunisce in un luogo specifico, da
vivere insieme, ed esprime una passione comune, una passione sociale: la passione per il cioccolato. La manifestazione può essere definita come un grande
raduno di consumo, un luogo di celebrazione del consumo12 in cui, in condizioni di prossimità, si realizza quel “noi fusionale”, quella “perdita di sé
nell’altro”, caratteristica delle forme di socialità postmoderna, in cui
“l’identità si destruttura e diviene fragile, mentre le identificazioni multiple
proliferano esponenzialmente”(Maffesoli, 2005: 54-55). In un simile scenario
diventano quindi importanti anche le identificazioni basate sui gusti e sui consumi che, vissute con gli altri, nel presente, in un determinato luogo, nelle loro
risonanze simbolico-immaginali che investono la sfera emotiva, creano condivisione, comunanza, affinità. E così centinaia di migliaia di persone si accalcano nel grande bazar del cioccolato, comprano, degustano, visitano, assistono agli eventi spettacolari, giocano, trovano sollievo alla disgregazione e al
vuoto di senso che spesso contraddistingue la vita metropolitana nel ritrovarsi
uniti nel “villaggio”, trasformato per l’occasione in una specie di “paese dei
balocchi”, nella partecipazione agli stessi “riti” (il ritorno a piedi in massa dal
centro storico ai grandi parcheggi periferici, con le stesse buste di plastica
12
Per un’analisi approfondita degli aspetti sociali dei fenomeni di consumo si rinvia a Di Nallo
(1997).
302
marchiate Eurochocolate cariche di prodotti, ha il sapore di una processione
laica), nella condivisione degli stessi desideri e passioni, tutto in nome
dell’attrazione, ad alto valore simbolico, che il “cibo degli dei” esercita. Dunque “la (ri)nascita di un ‘mondo immaginale’, ovvero di un modo di essere e
di pensare interamente attraversato dall’immagine, dall’immaginario, dal simbolico e dall’immateriale”, ha conseguenze anche sul piano delle relazioni sociali e della socialità: è un tratto ormai talmente “presente e pregnante della
nostra epoca” che non può più “essere relegato nella vita privata e individuale”, ma diventa “l’elemento fondamentale del nuovo essere-insieme” (Maffesoli, 2005: 58-59), più passionale che razionale.
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304
-
Trasformazione dei distretti industriali e regolazione
locale1
RUGGERO VILLANI
Dipartimento di Sociologia
Università di Bologna, Polo scientifico-didattico di Forlì,
47100 Forlì, Italia
[email protected]
PAOLO ZURLA
Dipartimento di Sociologia
Università di Bologna, Polo scientifico-didattico di Forlì,
47100 Forlì, Italia
[email protected]
1. Premessa
Intorno allo studio dei distretti industriali si è da tempo formata una
riflessione articolata sia in Italia sia in campo internazionale, alimentata da
molteplici prospettive teoriche e da una ricca raccolta di casi di studio e
analisi empiriche.
Negli ultimi anni si osserva un interessante spostamento dell’attenzione
dal distretto al sistema locale, di cui il distretto industriale di piccole imprese
può essere considerato un tipo (Bagnasco, 2003). L’allargamento dell’oggetto
di studio appare legato alla nuova centralità assunta dai sistemi produttivi
locali, considerato da alcune analisi come necessario in epoca di
globalizzazione.
In effetti il nuovo contesto economico internazionale, alle prese con il
fenomeno della globalizzazione, ha favorito una inedita riorganizzazione su
scala regionale della competizione (Le Galès, Bagnasco, 2001; Velzt, 1996).
Di fronte all’intensità che ha assunto il cambiamento tecnologico ed
organizzativo, alla maggiore complessità dell’apprendere e del produrre,
1
Il presente lavoro è frutto di una riflessione comune ampiamente condivisa. In termini
formali, l’attribuzione dei diversi paragrafi è la seguente: par. 2 e 4 Ruggero Villani; par. 1
e 3 Paolo Zurla.
305
-
all’incertezza che pervade l’orizzonte degli attori economici, assume rilevanza
la capacità del sistema socio-economico nel suo complesso di governare tali
processi, assicurando una coerenza sistemica funzionale al cambiamento
piuttosto che limitandosi alle reazioni dei singoli attori economici (Crouch et
al., 2003).
È in questo scenario che si affermano nuove modalità di regolazione dei
rapporti inter-istituzionali e di quelli pubblico-privato in ambito economico e
sociale.
Ne deriva, infatti, un legame più stretto tra impresa e territorio e acquista
rilevanza proprio la capacità delle istituzioni locali di regolare e sollecitare
l’azione dei soggetti privati nelle politiche per lo sviluppo locale.
La storia dei distretti industriali sembra poter fornire utili esempi ed
elementi di confronto a chi è chiamato a realizzare nuove strategie di sviluppo
locale, in quanto il distretto può essere considerato come “un caso particolare
di recentrage locale dell’organizzazione sociale contemporanea, che può
orientare – con le dovute distinzioni – l’osservazione e l’analisi di altre forme
di società locale emergente” (Bagnasco, 2003: 100).
L’intento di questo lavoro è dunque quello di fornire alcuni elementi di
riflessione per un’analisi delle modalità emergenti di regolazione locale (par.
4), muovendo proprio dalle prime concettualizzazioni sui distretti industriali
(par. 2) e dai suoi processi fondamentali di trasformazione (par. 3).
2. I distretti industriali
Non s’intende qui realizzare una rassegna critica dell’ampia letteratura
socio-economica sui distretti industriali di piccola e media impresa, che
trascenderebbe il senso di questo lavoro. In questo paragrafo ci si limiterà
quindi ad alcune riflessioni funzionali agli obiettivi argomentativi.
Alfred Marshall fu il primo ad usare il termine “distretto industriale” per
indicare una forma d’organizzazione della produzione alternativa a quella
della impresa verticalmente integrata, in cui agglomerati di piccole e medie
imprese spazialmente concentrate si specializzano in un’industria. Egli
osservò in particolare il raggruppamento, in un’area geografica circoscritta, di
un numero di piccoli produttori del tessile del Lancashire del Sud e della
metallurgia nell’area di Sheffield e Solingen (Marshall, 1972).
Come è noto, gli elementi caratterizzanti il modello di distretto
marshalliano sono: la divisione del lavoro fra imprese e la conseguente
specializzazione per fasi produttive, la compresenza di cooperazione e
competizione fra le imprese del distretto, l’imprenditorialità diffusa, la
conoscenza tacita, le relazioni comunitarie.
Il concetto di distretto marshalliano è divenuto negli ultimi decenni il
punto di partenza per gli studi sui sistemi produttivi locali in Italia. In
306
-
particolare il lavoro di Giacomo Becattini e il filone di studi a cui ha dato
origine, hanno permesso di cogliere l’importanza della dimensione sociale
alla base dei concetti marshalliani di distretto e di economie esterne,
rendendone attuali senso e contenuti.
Si afferma così una concezione di distretto industriale come entità locale
caratterizzata dalla presenza di una comunità socialmente coesa e di
un’industria principale, costituita da piccole e medie imprese specializzate in
differenti fasi dello stesso processo produttivo (Pedrini e Sacco, 2003).
In altre parole:
il concetto di distretto prevede che la struttura produttiva e la struttura sociale si
compenetrino vicendevolmente. Prima ancora che una manifestazione della realtà
effettuale – un caso concreto di sviluppo o una formula organizzativa di produzione –
il distretto, infatti, rappresenta un paradigma teorico che consente di riconnettere
attraverso il luogo relazioni tecnico-produttive e relazioni socio-culturali come
componenti inseparabili del cambiamento economico: in altri termini come fonte di
produttività e di innovatività (Becattini, 2000: 36).
Appare evidente come un approccio socio-economico strettamente
individualistico al modello distrettuale sia difficilmente in grado di cogliere le
modalità di coordinamento che lo caratterizzano: sebbene ciascuna delle
imprese persegua il proprio interesse, il modello distrettuale classico è
caratterizzato da una diffusa consapevolezza del fatto che la sfida competitiva
non può essere vinta singolarmente (Pedrini e Sacco, 2003).
In ultima analisi il concetto di distretto industriale si incentra su due
elementi strettamente interrelati: una comunità di persone e una popolazione
di imprese. La comunità di persone condivide valori, comportamenti,
aspettative e linguaggi comuni. La popolazione di imprese si configura come
una concentrazione di imprese di piccole e medie dimensioni specializzate in
uno o pochi settori di attività complementari e in fasi diverse del processo
produttivo.
A partire da queste caratteristiche del modello classico di distretto, la
teoria socio-economica contemporanea ipotizza l’insorgenza di un processo di
crescita endogena i cui meccanismi regolativi fondamentali sono il mercato e
la comunità (in particolare Bagnasco, 2003; Trigilia, 2005).
Tali meccanismi permettono di utilizzare al meglio le dotazioni di capitale
fisico, umano e sociale preesistenti sul territorio in cui sorge il distretto, in
modo tale da ottenere vantaggi competitivi rispetto ad altre modalità di
organizzazione della produzione.
In particolare la dimensione comunitaria in cui sono immersi i sistemi
produttivi locali, facilita la produzione delle economie esterne che sono alla
base della competitività dei distretti e che ne determinano la struttura
organizzativa.
307
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In primo luogo emerge che alcuni elementi caratteristici dei distretti
industriali, quali la limitata dimensione delle imprese, la specializzazione per
fasi produttive e l’integrazione orizzontale, sono resi possibili dalla presenza
di convenzioni sociali proprie della comunità locale (Becattini e Rullani,
1993) e di elementi di soggettività politica volti alla valorizzazione delle
risorse locali. Tali elementi permettono di aumentare il grado di cooperazione
fra le imprese distrettuali, facilitando una efficace governance sociale della
separazione tra le sfere di interesse collettivo e privato (Bellandi e Sforzi,
2001).
In secondo luogo, la presenza di relazioni consolidate sul territorio
determina un’efficace circolazione delle informazioni e delle conoscenze
tecniche, spesso attraverso un sapere di contesto tacito: l’atmosfera industriale
marshalliana. Essa determina l’apprendimento di conoscenze mirate, che
facilitano la riproduzione del lavoro con professionalità adeguate alle esigenze
distrettuali, facilitano la mobilità sociale e determinano l’innovazione
incrementale e l’affinamento dei processi e dei prodotti (Bellandi e Sforzi,
2001).
Infine le risorse fiduciarie localizzate determinano modalità di transazione
fra le imprese distrettuali che permettono di superare i noti problemi legati ai
comportamenti opportunistici e al conseguente aumento dei costi di
transazione (Dei Ottati, 1995). In effetti, in presenza di capitale sociale
comunitario, la contrattazione e gli scambi assumono una dimensione
relazionale che non risponde esclusivamente ad una logica economica, ma
tende a consolidare le reti fiduciarie fra le imprese distrettuali.
Tali dinamiche relazionali, diminuendo il livello di incertezza (ad esempio
sulle oscillazioni di prezzo future) e abbassando i costi di coordinamento,
permettono di usufruire maggiormente del vantaggio competitivo derivante
dalla specializzazione delle imprese per fasi produttive.
Emerge quindi che il modello di scambio relazionale distrettuale agisce
sostanzialmente da collante sociale. In effetti tale modello appare “fondato su
un sottile dialogo tra la promozione di obiettivi di benessere individuali e
collettivi” (Pedrini e Sacco, 2003: 13) e quindi capace di tenere insieme la
dimensione economica e sociale del mercato comunitario in cui si sviluppa il
distretto.
In sostanza, la forte interdipendenza fra la sfera economica e quella sociale
realizza nel distretto un processo completo di produzione che è in grado di
riprodurre non solo gli input economici in senso stretto, ma anche i
presupposti sociali ed istituzionali della produzione (Becattini e Rullani,
1993).
Un’ampia letteratura ha sottolineato che le modalità attraverso le quali il
distretto industriale classico si riproduce all’interno di un contesto territoriale
limitato sono prevalentemente di tipo spontaneo.
308
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In altre parole le capacità di auto-organizzazione della società e il mercato
si combinano “per effetto di una serie di decisioni autonome, efficaci per
l’azione su specifici mercati, e le cui condizioni sociali si riproducono
‘spontaneamente’, come effetto di una evoluzione adattiva, senza strappi,
della società e della cultura locale” (Bagnasco, 2003: 114).
3. Profili di trasformazione dei distretti industriali
L’osservazione empirica dei molti distretti industriali presenti in Italia ha
tuttavia fatto emergere una realtà eterogenea, che spesso si discosta rispetto ad
alcuni requisiti fondamentali del modello di distretto marshalliano (Sammarra,
2003).
Da ciò emerge che i distretti industriali costituiscono una realtà dinamica e
che le divergenze dal modello classico sono il frutto di percorsi evolutivi dei
sistemi locali e della risposta a nuove dinamiche socio-economiche.
Innanzitutto emerge con evidenza che le economie avanzate si trovano
oggi nel pieno di una transizione da sistemi economici di tipo industriale a
sistemi economici compiutamente post-industriali. In sostanza il processo in
atto determina un passaggio da economie caratterizzate dalla capacità di
produrre grandi volumi di beni e servizi in risposta a bisogni biologicamente e
socialmente codificati, all’attuale fase di sviluppo nella quale le scelte dei
consumatori sono sempre meno legate al soddisfacimento di bisogni
tradizionali e sempre più direttamente connesse alla dimensione identitaria del
benessere individuale e sociale (Sacco e Zarri, 2004). Tale processo richiede
ai produttori di cambiare la logica di generazione del valore aggiunto, legato
in misura crescente a risorse immateriali di natura conoscitivo-esperienziale,
sociale, simbolica (Sacco, Vanin e Zamagni, 2004).
In secondo luogo, l’aumento dei flussi economici e dell’apertura dei
mercati, a seguito delle note dinamiche di globalizzazione, ha ridisegnato il
rapporto fra la dimensione globale e quella locale, rendendo la domanda meno
vincolata al locale mentre l’offerta si è specificata in forme e sinergie sempre
più legate al territorio (Rullani, 1998).
Questa transizione assume caratteri di complessità in particolare nelle
regioni della Terza Italia (Bagnasco, 1977) che presentano una
struttura industriale fortemente caratterizzata dalla piccola-media impresa organizzata
distrettualmente, che deve affrontare sfide nuove: non più riempire nicchie di mercato
altamente specializzate attraverso una evoluzione ‘morbida’ del classico modello
familistico-artigianale, ma conquistare una capacità di investimento, di ricerca e
sviluppo, di innovazione (Sacco, 2003: 4).
Tali dinamiche hanno messo a nudo limiti competitivi del distretto
309
-
industriale che nel passato avevano una minore rilevanza.
Innanzitutto una fragilità degli assetti organizzativi a fronte dei problemi
generazionali nella trasmissione imprenditoriale e nel reperimento della mano
d’opera. Nel primo caso emerge una difficoltà di passaggio della gestione
dell’impresa dal fondatore/titolare imprenditore ai figli eredi, a volte per
mancanza di capacità imprenditoriale di questi ultimi, altre per un’attrazione
scarsa da parte dei settori industriali del distretto.
A fronte di tale difficoltà le conseguenze consistono sostanzialmente nella
chiusura o cessione dell’attività che determina generalmente la crescita
dimensionale di altre imprese distrettuali o il subentro di imprese esterne, con
la possibilità di alterare o snaturare il tessuto imprenditoriale (Accorsi, 2004).
Rispetto al reperimento della mano d’opera si osserva come le imprese
distrettuali affrontino una crescente difficoltà nel reclutare mano d’opera
giovane, meno disposta ad una identificazione nell’impresa e al sacrificio al
lavoro propri delle generazioni precedenti, anche a causa di un maggiore
livello medio di istruzione.
In sostanza, emerge come le modificazioni degli assetti organizzativi del
distretto, a seguito delle risposte adattive alle nuove condizioni di mercato, in
alcuni casi possano rappresentare un problema rispetto alla capacità di
riproduzione dei fattori economici e sociali alla base del vantaggio
competitivo distrettuale.
In particolare, la difficoltà di ricambio generazionale dei lavoratori e degli
imprenditori rappresenta un esempio di come la dimensione economica
distrettuale, retroagendo sull’organizzazione sociale, tenda a modificare le
precondizioni socio-culturali del suo sviluppo (Bagnasco, 1999).
Inoltre, la pressione competitiva globale ha imposto ai distretti
modificazioni rilevanti in merito alle scelte di localizzazione delle attività
produttive: appare decisivo far convivere il radicamento locale, caratteristica
propria della prima evoluzione distrettuale, con nuove modalità di apertura ai
mercati internazionali, che implicano una più complessa articolazione
organizzativa nei rapporti fra le imprese. In effetti, appare rilevante
innanzitutto la trasformazione delle reti locali di imprese distrettuali in reti
trans-locali, ossia diffuse in più luoghi internazionali. Queste devono poi
essere integrate nei circuiti internazionali di fornitura e commercializzazione,
in cui si la pressione competitiva è decisamente maggiore a causa della
presenza di gruppi industriali di caratura internazionale, capaci di esercitare
un forte potere di mercato. Infine appare rilevante aumentare la presenza delle
reti distrettuali sui grandi mercati internazionali (Mariotti, Mulinelli e
Piscitello, 2006).
Sono in effetti sempre più numerosi gli studi empirici che evidenziano
significativi elementi di eterogeneità tra i distretti industriali italiani rispetto ai
requisiti socioculturali e strutturali tradizionalmente considerati come
310
-
elementi fondanti e distintivi del concetto stesso di distretto industriale
(Sammarra, 2003).
Dal punto di vista degli aspetti strutturali del distretto, il requisito
dell’elevata suddivisione verticale e orizzontale del lavoro fra le imprese non
trova un riscontro completo nella realtà italiana. Modelli differenti di
divisione del lavoro si possono riscontrare in distretti con diversa
specializzazione territoriale ma anche fra quelli operanti nello stesso settore di
attività. In particolare si osserva una differenziazione nella suddivisione delle
fasi produttive fra le imprese distrettuali e nei rapporti gerarchici2 (Panniccia,
1998).
Circa il requisito dimensionale, si evidenzia uno scollamento fra il modello
classico di distretto e l’analisi empirica. In particolare si osserva che nelle
regioni della Terza Italia, in cui prevalgono sistemi di produzione di piccola e
media dimensione, durante gli ultimi anni è emersa una nuova formula
organizzativa caratterizzata dalla presenza di imprese anche di media e grande
dimensione che organizzano e controllano un consistente numero di imprese
subfornitrici. Emerge cioè una struttura organizzativa con una impresa leader
che realizza una serie di misure volte a rafforzare la competitività economica
dell’intero network attraverso la produzione di quelli che la letteratura
economica chiama ‘beni di club’ (Buchanan, 1965). Questa tipologia di beni
sono forniti dall’impresa principale solo alle imprese della subfornitura che
fanno parte della sua rete (Belussi, 1987).
Anche la tendenza a tenere i processi di decentramento produttivo
all’interno del sistema locale del distretto sembra trovare non completi
riscontri empirici (Sammarra, 2003).
In alcuni casi distrettuali è emblematica la delocalizzazione di fasi del
processo produttivo all’estero. Si realizza cioè specializzazione distrettuale
nelle fasi produttive che garantiscono un maggiore valore aggiunto,
tipicamente quelle “a valle” della filiera produttiva, a fronte di una
delocalizzazione di quelle più “a monte”.
Inoltre alcune imprese distrettuali italiane realizzano buone performance
su mercati esteri ottenute attraverso il ricorso a mediatori e agenzie di export o
basate su una strategia di controllo diretto di reti distributive internazionali.
Alla luce dei molti elementi di eterogenietà emersi dalle indagini
empiriche e dai casi di studio, qui brevemente accennati, diviene sempre più
difficoltoso pensare ad un unico modello di distretto industriale. Si constata di
conseguenza la necessità di definire un approccio che permetta una più ampia
gamma di possibilità teoriche. Tale approccio si fonda su una nuova visione
del distretto industriale “che sottende una prospettiva evoluzionistica, in grado
2
Si veda in particolare Paniccia (1998) in cui si riporta l’esempio di tre distretti
specializzati nella lavorazione delle pelli: Santa Croce, Arzignano e Solfora.
311
-
di dar conto della varietà e della marcata differenziazione dei percorsi di
sviluppo locale” (Sammarra, 2003: 49).
Prendendo spunto dalla vasta letteratura di tipo teorico ed empirico sui
distretti industriali ed in particolare dalla tipologia utilizzata nell’ambito di
una ricerca sui sistemi di produzione locale in Europa (Crouch et al. 2003),
sono stati individuati tre modelli utili al fine di identificare la varietà
organizzativa della localizzazione di piccole e medie imprese:
- rete di piccole e medie imprese. Questo primo modello è caratterizzato
dalla prevalenza di imprese di piccole e medie dimensioni ed è riconducibile
al modello marshalliano di distretto industriale. Le imprese, specializzate in
determinati settori produttivi, presentano una divisione del lavoro basata sulla
specializzazione in differenti fasi del processo produttivo e una forte
integrazione orizzontale. Nella rete di piccole e medie imprese la
competizione si realizza fra le imprese subfornitrici che hanno la medesima
specializzazione produttiva, mentre le relazioni cooperative tendono a
instaurarsi fra imprese finali e imprese di fase;
- l’impresa rete. Il secondo modello si distingue per la presenza di poche
imprese finali di medie e grandi dimensioni che hanno rapporti stabili e
tendenzialmente esclusivi con un vasto numero di piccole imprese
subfornitrici. Il controllo economico e strategico è esercitato dalle imprese
leader che generalmente presentano anche un’elevata capacità di controllo dei
mercati. Le imprese rete fondano la loro capacità competitiva sul tipo di
rapporto di subfornitura che coniuga flessibilità e riduzione dei costi di
innovazione;
- clusters di piccole e medie imprese. Infine, nel terzo modello, si hanno
concentrazioni locali di piccole e medie imprese specializzate in uno o più
settori produttivi caratterizzati da mercati segmentati e instabili. Nell’ambito
dei clusters è possibile distinguere alcune imprese guida che usufruiscono di
piccole reti di subfornitura, accanto alle quali esiste un numero di imprese
minori che hanno accesso ai mercati finali e mantengono la loro capacità
competitiva specializzandosi in nicchie di mercato. Le imprese presentano un
più basso livello di integrazione orizzontale rispetto al modello di rete di
piccole e medie imprese.
Ulteriore elemento di complessità che è necessario indicare consiste nelle
differenti traiettorie evolutive dei distretti industriali. Diversi percorsi teorici
hanno affrontato il tema dell’evoluzione industriale3.
3
L’ipotesi del ciclo di vita dei distretti costituisce un tentativo di ordinare ed interpretare le
differenti realtà distrettuali. Si veda in particolare Carminucci C., Casucci S. (1997).
312
-
Quello che qui preme evidenziare è che, rispetto alle dinamiche evolutive,
alcuni distretti si sono dimostrati tendenzialmente stazionari nella struttura
organizzativa, anche a seguito di modificazioni rilevanti dell’ambiente
economico. Cioè a dire che i fattori endogeni alla base dell’insorgenza del
distretto si sono riprodotti nel tempo grazie ad una reazione adattiva che ha
permesso di “tenere in squadra” (Bagnasco, 2003) la dimensione economica e
quella sociale.
In altri casi si è osservata una modificazione della strutturazione che ha
prodotto il passaggio da un modello distrettuale ad un altro.
Ampie e diversificate le tematiche che si possono indagare, come molta
letteratura economica e sociale ha fatto, per tentare di comprendere le diverse
parabole evolutive che la storia dei distretti italiani ha evidenziato.
Ai fini del presente lavoro prenderemo in considerazione il tema della
regolazione che oggi appare al centro di una crescente attenzione.
4. La regolazione locale dei distretti industriali
In effetti, a fronte dell’eterogeneità dei distretti industriali osservati, il
tema delle modalità di regolazione, dopo essere rimasto implicito nelle prime
indagini sui distretti, diviene oggetto di studio sempre più rilevante.
Come si è in precedenza delineato “mercato e comunità sono i due
meccanismi regolativi fondamentali sia nella lunga fase di sviluppo dei
distretti tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni settanta, sia nella prima
stagione di studi” (Bordogna, 2002: XIII). È infatti il contesto di mercato
comunitario che permette la produzione di beni pubblici o quasi pubblici che
aumentano la competitività distrettuale e hanno la particolarità di essere
generati spontaneamente come esternalità positive delle attività produttive e
delle relazioni comunitarie proprie del territorio interessato.
In altre parole i distretti industriali, con particolare riferimento al primo
periodo dello sviluppo in Italia, hanno prosperato attraverso pratiche di
governance di tipo prevalentemente endogene e scarsamente formalizzate.
Come è noto, le economie esterne prodotte da questi processi endogeni
hanno determinato i vantaggi competitivi relativi alla presenza di rendimenti
crescenti nel processo produttivo localizzato.
Tuttavia la capacità di produrre tali economie si confronta in questi anni
con l’apertura internazionale dei mercati, con l’accelerazione del processo di
innovazione tecnologica e con un’evoluzione culturale verso consumi meno
standardizzabili. Questi processi hanno reso fondamentale la produzione di
competenze e progettualità locali e la ricerca di nuovi orientamenti innovativi
(Porter, 2003).
Inoltre si osserva sempre più “una condizione in cui non si realizza
un’integrazione ottimale fra società locale e sistema produttivo o, in altri
313
-
termini, fra azione sociale ed azione economica” (Zurla, 2004: 151), rendendo
difficoltoso il processo di adattamento dell’economia distrettuale alle
condizioni di mercato.
Emerge dunque il problema di indagare quali tipologie di regolazione
possano permettere, al distretto industriale e più in generale al sistema
produttivo locale, di vincere le nuove sfide competitive.
A questo proposito un’ampia letteratura ritiene rilevante la capacità di
produrre beni collettivi4 per la competitività attraverso “la capacità di
coordinamento consapevole e intenzionale tra i diversi soggetti e in
particolare l’interazione tra attori collettivi (governi locali, organizzazioni di
rappresentanza degli interessi, associazioni)” (Trigilia, 2005: 21).
In effetti, se nel passato la produzione dei beni collettivi per la
competitività era garantita dal rigenerarsi spontaneo di risorse quali il capitale
sociale distrettuale e la conoscenza tacita, l’odierna pressione competitiva
impone la capacità di realizzare una progettazione di sistema volta a definire
una strategia di sviluppo distrettuale condivisa.
In particolare Trigilia (2005) approfondisce le dinamiche attraverso le
quali i territori contribuiscono ad arricchire l’offerta dei beni collettivi a
partire dalla distinzione fra processi di generazione spontanei e processi di
costruzione intenzionale.
La disponibilità di risorse e dotazioni materiali (quali le infrastrutture) e la
capacità di accedere ad una vasta gamma di risorse immateriali (cognitive,
relazionali, sociali) sono prodotte all’inizio del percorso di sviluppo
soprattutto attraverso due meccanismi non intenzionali: il primo riguarda la
preesistenza di risorse originarie quali il saper fare locale, il risparmio delle
famiglie, le risorse fiduciarie generate da appartenenze forti.
Il secondo meccanismo consiste negli effetti emergenti di scelte non
coordinate di singoli attori in cui la produzione di economie esterne è spesso
legata a decisioni iniziali di pochi soggetti: una grande impresa che fallisce o
si ristruttura, liberando manodopera qualificata; imprese esterne, spesso
multinazionali, che alimentano alcune iniziative di subfornitura locale;
immigrati di ritorno che hanno acquisito competenze all’esterno e investono
nella loro area di origine.
Tuttavia, anche a fronte di una nuova centralità assunta dalle società locali,
diventano sempre più rilevanti modalità di regolazione dei sistemi locali che
siano capaci di motivare alla cooperazione gli attori locali singoli e collettivi,
pubblici e privati, portatori di interessi e visioni spesso divergenti, ma anche
di risorse, non solo economiche, utili allo sviluppo.
La produzione di questo tipo di beni collettivi locali può riguardare sia
specifiche politiche pubbliche intraprese dai governi locali e regionali, anche
4
Per un approfondimento del concetto di bene collettivo per la competitività si veda in
particolare Crouch et al. (2001).
314
-
sulla base di programmi nazionali ed europei, sia specifici servizi frutto della
cooperazione tra soggetti economici, in particolare associazioni di categoria.
Come precedentemente sottolineato, è necessario evidenziare che la
produzione di questi beni pubblici per il contesto locale richiede in genere una
elevata capacità di cooperazione informale e formale tra i diversi soggetti
collettivi pubblici o privati. In particolare, oltre alla condivisione di risorse
materiali è soprattutto l’aspetto cognitivo ad essere centrale.
Appare in sostanza sempre più rilevante per i distretti industriali la
capacità di mettere in gioco “esplicite visioni strategiche” (Bagnasco, 2003:
114) e modalità di governance condivise al fine di riprodurre i fattori
economici e sociali alla base del proprio successo competitivo.
Di conseguenza emerge l’importanza, per un’area territoriale, di riflettere
su se stessa a partire dalle risorse che ritiene di possedere sia sul piano
materiale che su quello simbolico:
si tratta di tutte quelle attività di tipo conoscitivo, discorsivo ed operativo che, nella
misura in cui connettono cognizione e azione, contribuiscono a rivelare la natura e
l’estensione dei processi di governance locale volti al raggiungimento di obiettivi
specifici di sviluppo discussi collettivamente, in ambienti sovente frammentati e
incerti (De Luigi e Martelli, 2006: 46).
Tuttavia questo pone alcune questioni rilevanti circa la reale efficacia di
queste modalità regolative dei distretti industriali.
Innanzitutto, affinché la cooperazione congiunta di attori pubblici e privati
si traduca in azioni capaci di riprodurre le condizioni di sostenibilità del
distretto, è necessaria sia la conoscenza approfondita della natura, dei
problemi e delle potenzialità distrettuali, sia l’individuazione realistica e
condivisa degli scenari esterni che, ai diversi livelli territoriali, interessano le
attività del distretto. In altre parole il rischio è che “se tutti gli attori di una
recita areale si trovano d’accordo sullo spartito sbagliato, il concerto atteso
non va in scena” (Becattini, 1998: 431).
Come precedentemente delineato la produzione di idee e progetti efficaci
necessita di una lettura rigorosa e condivisa del presente e del passato del
distretto industriale su più livelli: da un lato si deve prendere in
considerazione l'apparato produttivo, quindi le imprese e le squadre di
imprese che traggono la loro specificità dal radicamento nel distretto,
dall'altro le relazioni tra questo apparato produttivo e la comunità del distretto
con la sua pluralità di mercati locali. Infine, un terzo livello di analisi
necessario deve prendere in considerazione i valori che sottendono la
comunità (Pedrini e Sacco, 2003).
Tale lettura deve partire da ciò che gia si conosce, ma deve essere aperta a
nuovi apporti, nel confronto dialettico che si realizza attorno alla
interpretazione da dare agli avvenimenti passati e nuovi. Il processo appena
315
-
descritto è delicato e può essere esposto all’incombere di visioni retoriche
consolidate, incapaci di cogliere le nuove esigenze di sviluppo distrettuale o
utilizzate come modalità di difesa di interessi particolaristici.
In secondo luogo, le pratiche di governance condivisa, per essere efficaci,
devono rispondere ad una logica più complessa della contrattazione fra
interessi pubblici e privati già definiti ex ante, con il rischio di una eccessiva
“contrattualizzazione” delle dinamiche regolative che operi una mediazione
inefficace fra gli interessi del singolo attore e quelli complessivi del distretto
(Bobbio, 2000).
I soggetti coinvolti dovrebbero essere disposti ad adottare azioni con
ricadute in termini di ridefinizione dell’identità e degli interessi, al fine di
intraprendere azioni più innovative. In altre parole le pratiche di governance,
attraverso un’interazione ripetuta, sono chiamate a sviluppare “fiducia e reti di
relazioni che aiutano l’innovazione economica e ‘allungano la vista’ degli
attori” (Trigilia, 2001: 361).
Tuttavia questo risultato cooperativo è legato all’introduzione di una
logica discorsiva nei rapporti economici che appare difficoltosa, in quanto
presuppone la possibilità di mutare la posizione di ciascun attore alla luce
delle ragioni addotte dagli altri. In particolare appare necessaria la
disponibilità a sopportare i costi legati a processi di apprendimento collettivo
attraverso la partecipazione e il monitoraggio reciproco, in cui le decisioni
sono più difficili da raggiungere perché non possono essere prese a
maggioranza e presuppongono il consenso degli attori coinvolti (Trigilia,
2001).
Infine appare opportuno evidenziare un aspetto problematico che attiene al
rischio di localismo della governance distrettuale. Il localismo è qui inteso
come percezione distorta dell’equilibrio, necessario allo sviluppo del sistema
produttivo locale, fra le risorse derivanti dai flussi economici globalizzati e
quelle del territorio, a favore di queste ultime.
In altre parole:
i rapporti tra legami interni ed esterni, il grado e le forme di integrazione sistemica da
assicurare nel contesto locale, le compatibilità con l’integrazione sociale, i modi
dunque della riproducibilità di un distretto, o più in generale di un sistema locale di
produzione costituiscono un campo strategico complesso, che non può indulgere al
localismo, immaginando cioè che i problemi siano risolvibili solo o necessariamente
con risorse e interazioni interne (Bagnasco, 2003: 120-121).
316
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1 Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi di Cassino