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Quaderni del Centro Scolastico Diocesano
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I Mercoledì letterari 2009-2010
INCONTRI CON LA LETTERATURA ITALIANA
DEL NOVECENTO
a cura di Giannino Balbis
(con la collaborazione degli alunni delle classi IVa e Va)
Redemptoris Mater
Albenga
2010
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I Mercoledì letterari
al Redemptoris Mater
“Gli studenti mangiano ciò che gli insegnanti hanno digerito” (la
metafora è di Karl Kraus, autore de Gli ultimi giorni dell’umanità, il
noto dramma sulla prima guerra mondiale). Così funziona la scuola –
quando funziona – né può essere altrimenti. Soprattutto nel processo
di trasmissione delle conoscenze, ma anche in quello di formazione
delle competenze e delle abilità, i docenti fungono principalmente da
mediatori.
Per quanto riguarda in particolare i docenti di lettere, le
mediazioni sono a vari livelli. Bisogna spiegare agli allievi (spiegare
nel significato etimologico di explicare, cioè “togliere le pieghe”,
“rendere piano e chiaro” ciò che è complicato), da un lato, gli autori,
con le loro vicende, le loro poetiche, i loro testi innanzi tutto e,
dall’altro, le interpretazioni che degli stessi autori, delle loro idee e
delle loro opere sono state date nel corso del tempo. Tra i contenuti
da trasmettere e i destinatari da raggiungere c’è sempre di mezzo il
lavoro di altri: degli specialisti della disciplina, dei professionisti
della critica letteraria; e, in prima istanza, ci sono di mezzo anche i
testi scolastici, a loro volta prodotti di mediazione (ben ponderati e
calibrati in genere, ma sui numeri dei tabulati delle adozioni più che
sulle esigenze della didattica reale). Il docente di liceo, d’altronde, se
vuole fare bene il proprio mestiere (assai più impegnativo di quanto
comunemente si creda), non ha tempo e opportunità per dedicarsi
alla ricerca di prima linea: deve prendere per buoni (naturalmente
con tutta la libertà di verifica e di critica) i risultati di studi altrui.
Insomma, tra la poesia di Pascoli in programma e l’allievo Tal
dei tali ci sono di mezzo, quanto meno, l’interpretazione – poniamo –
di Bárberi Squarotti (come ignorare le sue fondamentali letture
pascoliane?), la volgarizzazione che ne fa il libro di testo (con tutti i
suoi apparati) e infine l’adattamento che ne deve comunque fare il
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docente nel quadro del proprio progetto didattico e alla luce della
classe reale che ha di fronte quotidianamente. Ogni passaggio di
questa filiera è tutt’altro che facile e scontato: va ponderato, costruito
e gestito con estrema attenzione. Il tutto, poi, in un contesto generale
a dir poco problematico, dove il rischio maggiore, oggi come oggi, è
l’asfissia da appiatti-mento. In una scuola trasformata in “agenzia”,
con alunni e genitori travestiti da “clienti”, la centralità della
funzione docente posta in seria discussione, le conoscenze di base e
il livello di preparazione gravemente compromessi, sembra
inevitabile e incontrastabile l’adozione della visuale dal basso, il
progressivo appiattimento appunto sulle sempre meno attente e
qualificate aspettative dell’utenza.
Se questo è il panorama scolastico generale, non tutte le scuole
sono così, per fortuna. Il nostro Istituto, in particolare, si distingue
per un progetto educativo ben riconoscibile, forte e rigorosamente
perseguito. Anche per questo può concedersi eccellenti spazi extracurriculari, come gli Incontri musicali curati da Alessandro Collina
(negli ultimi anni sono stati ospiti del nostro Istituto, fra gli altri, i
Berliner filarmonici, Paul Jeffrey, Philippe Petrucciani, Glauco
Bertagnin, Herb Geller) e come gli Incontri con la letteratura
italiana del ’900.
Questi ultimi, varati in via sperimentale nello scorso anno
scolastico (con le lezioni di Giangiacomo Amoretti, Francesco De
Nicola e Roberto Trovato, rispettivamente sulla poesia, sulla
narrativa e sul teatro del ’900), hanno assunto quest’anno forma più
completa e stabile, articolandosi in sei lezioni distribuite in due cicli
(il primo tra ottobre e dicembre, il secondo tra febbraio e aprile);
nell’ordine: Giorgio Bárberi Squarotti (docente emerito dell’Università di Torino), Il Novecento letterario italiano; Giangiacomo
Amoretti (Università di Genova), La grande poesia ligure del ’900:
Sbarbaro, Montale, Caproni; Alberto Beniscelli (Università di
Genova), Letture montaliane; Francesco De Nicola (Università di
Genova), Il neorealismo nella letteratura italiana del ’900; Valter
Boggione (Università di Torino), Il mito in Pavese e Fenoglio; Luigi
Surdich (Università di Genova), Dante nella poesia del ’900.
Dicevano già gli antichi che è più buona l’acqua bevuta direttamente
alla sorgente. Per l’autorevolezza dei relatori e per l’ampio riscontro
di pubblico, questi Incontri ne sono stati un’ennesima conferma.
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Di essi offre un resoconto di massima il presente opuscolo, al
quale hanno collaborato gli alunni delle classi IVa e Va (le classi
finali dell’indirizzo classico e dell’indirizzo socio-psico-pedagogico)
e che si presenta come “numero 0” di una nuova collana di ricerca e
documentazione – «Lezione seconda. Quaderni del Centro Scolastico
Diocesano» – che vede la luce presso il nostro Istituto. Il suo titolo,
attribuendo al termine tipicamente scolastico di lezione il doppio
valore dell’agg. secondo (in senso numerale e nel significato di
“favorevole”), vuole rappresentare la stretta coesione tra attività
curricolari ed attività culturali extra-curricolari, con l’auspicio di un
sempre più solido livello di eccellenza per entrambe.
Giannino Balbis
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La lezione di Giorgio Bárberi Squarotti
(21 ottobre 2009)
GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI
Il Novecento letterario italiano
Dopo aver ricordato i limiti della periodizzazione (nella storia letteraria
come nella storia in generale), Bárberi Squarotti individua le radici del
Novecento negli anni ’80-’90 dell’Ottocento, con particolare riguardo alla
crisi del Positivismo e del Naturalismo, alla grave crisi politica ed
economica dell’Italia di fine secolo e alla svolta in direzione simbolistica
dell’arte e della letteratura. Protagonisti di questa svolta, in Italia, sono stati
soprattutto Pascoli e d’Annunzio, seguiti da Pirandello e Svevo.
Il momento attuale rappresenta invece il definitivo tramonto del
Novecento. Oggi non si concepisce e non si produce più letteratura con
funzioni di messaggio, conoscenza, lezione, come è accaduto con molti
autori del secolo scorso (Bárberi si è soffermato in particolare su I vecchi e i
giovani di Pirandello, La cognizione del dolore di Gadda, Uomini e no di
Vittorini e Il partigiano Johnny di Fenoglio), ma una letteratura facilmente
comunicativa, ripetitiva, di rapido consumo. C’è da chiedersi se ci sia
ancora spazio nel nostro tempo per la letteratura tradizionalmente intesa.
La lezione si conclude con alcuni consigli di lettura per i giovani. Oltre
ai classici antichi (a cominciare da Omero e dai tragici greci) e ai classici
italiani (Dante, Ariosto ecc.), Bárberi raccomanda la lettura, fra gli stranieri,
di Tolstoj, Dostoevskij e Proust.
***
Non è possibile datare con precisione l’inizio e la conclusione di
un periodo storico: le periodizzazioni non hanno alcun valore
assoluto; sono semplici costruzioni convenzionali con cui gli studiosi
cercano di ordinare gli avvenimenti del passato. Il Novecento non
inizia, perciò, il 1° gennaio del 1901 e non finisce il 31 dicembre
1999. In ambito artistico-letterario, le radici del Novecento sono
nella crisi di fine Ottocento, che coinvolge la letteratura italiana
come le altre letterature europee: bisogna guardare agli anni ’80-’90,
alla crisi del Positivismo e del Naturalismo e alla conseguente svolta
in direzione simbolistica, di cui sono primi protagonisti, in Italia,
Pascoli e d’Annunzio (poi seguiti da Pirandello e Svevo).
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Alla spiegazione scientifica dell’uomo proposta dal Positivismo
sfuggono i sentimenti, i sogni, le passioni. A fine ’800 si diffonde la
consapevolezza che la scienza positiva, pur con la sua forza e la sua
capacità di analisi, non è sufficiente per spiegare l’esperienza
dell’uomo e del mondo nella loro interezza. Nasce così l’idea di una
poesia, di un’arte, di una scrittura che siano alternative alla realtà
scientifica. Si afferma un tipo di letteratura che privilegia il tentativo
di spiegare il mondo e il nostro esistere attraverso sequenze di
simboli, contro la letteratura realistico-naturalistica, di cui in Italia è
principale esponente Verga (ma bisogna tenere presente che neppure
naturalismo e verismo producono copie perfette della realtà: insieme
alla realtà rappresentano sempre ciò che l’autore con essa vuole
comunicare; d’altronde, la scienza è continuamente in divenire: la
sua spiegazione del mondo muta alla luce di nuove ipotesi e teorie).
In ogni caso, la letteratura simbolista privilegia il simbolo in
opposizione alla rappresentazione oggettiva delle cose. Il suo
obiettivo è quello di dare una spiegazione più ampia e più profonda
delle cose. Pascoli ne è un esempio. Si prenda il suo famoso verso il
sogno è l’infinita ombra del vero (dal poema conviviale Alèxandros):
il vero è la scienza e l’infinita ombra è la dimensione indefinita e
misteriosa che cela la profonda spiegazione del nostro essere.
E accanto a Pascoli, d’Annunzio. Fra i due ci sono vari punti in
comune: in particolare, la rappresentazione del mondo e dell’uomo al
di là della loro immagine scientifica e la critica radicale alla
degradazione dell’economia, della società, della civiltà moderna. A
questo riguardo si possono ricordare due odi – la prima di
d’Annunzio (pubblicata all’inizio di agosto 1900), la seconda di
Pascoli (del 20 agosto) – dedicate entrambe al re: quella dannunziana
è dedicata al “Re giovane” (cioè al successore di Umberto I), quella
pascoliana al defunto re Umberto I, ma entrambe rappresentano la
morte, commemorano, riflettono sulle vicende italiane. [L’ode di
Pascoli ha certamente subito l’influsso di quella di d’Annunzio. Le
storie letterarie hanno il difetto di procedere per blocchi: prima
Carducci, poi Pascoli e poi d’Annunzio. In realtà, le prime poesie di
d’Annunzio risalgono al 1879 e sono di sei anni precedenti a quelle
della prima raccolta di Pascoli, pubblicata nel 1891].
In d’Annunzio sono da sottolineare, in particolare, la rappresentazione della decadenza sempre più radicale della società e dell’eco10
nomia e il tema della bellezza antica e della natura penalizzate
nell’età moderna o addirittura scomparse agli occhi di un popolo
schiavo che non riesce più a cogliere la bellezza del mondo. È
necessaria una trasformazione del modello decaduto della società
borghese e, di conseguenza, del romanzo borghese romanticoottocentesco. Perciò nei romanzi di d’Annunzio ci sono personaggi
nobili o borghesi che si ribellano alle norme del vivere comune o
personaggi che amano la bellezza e l’età antica. Perciò in Pascoli c’è
speciale attenzione al mondo contadino, come alternativa radicale e
ideale al mondo moderno.
Oggi assistiamo al definitivo tramonto del Novecento. La
letteratura odierna non ha più funzione di messaggio, conoscenza,
lezione, come è accaduto nei secoli passati (ad esempio, nel secolo
XX, con I vecchi e i giovani di Pirandello, La cognizione del dolore
di Gadda, Uomini e no di Vittorini, Il partigiano Johnny di Fenoglio
ecc.), ma deve essere facilmente comunicativa, ripetitiva, di rapido
consumo. I romanzi che possiamo definire “dei giorni nostri” sono di
facile lettura e devono durare pochi mesi: è trionfata l’idea della
quantità e della produttività, mentre il contenuto, il significato, il
messaggio sono considerati meno importanti. Inoltre, si racconta in
genere ciò che già si sa, ciò che il lettore si aspetta; il che, naturalmente, è più facile: più difficile è leggere un romanzo che racconti
ciò che non sappiamo e cerchi di spiegare e aiutare a capire e
suggerire valori e comportamenti.
La letteratura ha sempre avuto questa funzione. Anche perché
alla base della nostra letteratura c’è il modello greco, soprattutto il
teatro greco, che aveva il preciso scopo di dare lezione al pubblico. Il
genere del romanzo ne è erede in quanto ammaestra attraverso la
rappresentazione dell’eccesso, facendo capire come bisogna comportarsi in tali situazioni.
Possiamo ricordare, fra i romanzi più significativi del ’900, I
vecchi e i giovani di Pirandello, che vuole spiegare l’utopia
risorgimentale, ma anche il fallimento radicale della storia, e Il
partigiano Johnny di Fenoglio, e ancora La cognizione del dolore di
Gadda e Uomini e no di Vittorini, tutte opere in cui si rappresenta
una visione della realtà e del mondo e si discute su come rapportarsi
ad essa o prenderne le distanze.
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La lezione di Giangiacomo Amoretti
(11 novembre 2009)
GIAN GIACOMO AMORETTI
La grande poesia ligure del ’900: Sbarbaro, Montale, Caproni
Si può parlare di una “linea ligustica” nella poesia italiana del
Novecento? La maggior parte della critica, oggi, la ritiene una formula
discutibile e superata. Tuttavia è innegabile la presenza di caratteri comuni
nei tre maggiori poeti liguri del ’900 (due – Sbarbaro e Montale –
propriamente liguri, uno – Caproni – ligure di adozione): soprattutto li accomuna il tema della poesia “in negativo”, la poetica del “non”. Ne è esempio
primo la lirica di Sbarbaro Taci, anima stanca di godere (composta nel
1913, precede di tre anni Il porto sepolto di Ungaretti, tradizionalmente
indicato come punto d’inizio della poesia italiana del ’900) e ne è esempio
compiuto Non chiederci la parola di Montale (del 1923).
Fra i molti percorsi della produzione di Montale (con riflessi anche in
Sbarbaro e in Caproni), Amoretti si sofferma poi sulla poesia d’amore, con
particolare attenzione alla figura di Clizia, ai suoi complessi significati
allegorici e al suo ruolo salvifico con sfumature stilnovistiche e religiose.
Ambigua e problematica è la religiosità di Montale, che in un celebre verso
si definì un povero nestoriano smarrito (confidò a Gianfranco Contini di
credere in Cristo-uomo ma di avere difficoltà a credere in Dio). Caratterizzata da una teologia negativa è anche la poesia di Caproni, in particolare
nell’ultima raccolta, postuma, Res amissa.
Puntuali ed acute osservazioni il relatore riserva a Nuove stanze, Ti
libero la fronte dai ghiaccioli, La frangia dei capelli che ti vela di Montale
(testi composti fra il ’39 e il ’41) ed a Res amissa ed Enfasi a parte dell’ultimo Caproni.
***
Esiste una “linea ligustica” nella poesia italiana del Novecento?
Ovvero, un modo di far poesia che caratterizza i poeti liguri (da
Roccatagliata Ceccardi a Boine, dai fratelli Novaro a Barile, da
Sbarbaro a Montale ecc.) e si distingue per essenzialità, rigore,
asprezza di immagini, in sintonia con il paesaggio ligure aspro e
riarso? Se ne è parlato a lungo, ma oggi la maggior parte della critica
la ritiene una formula superata e discutibile. I maggiori poeti liguri
del ’900 – Sbarbaro, Montale e Caproni (propriamente liguri i primi
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due, ligure di adozione il terzo) – sono comunque interpreti (ciascuno con caratteri propri) della crisi di valori e certezze che segna il
passaggio dalla poesia tradizionale alla poesia novecentesca e,
soprattutto, sono accomunati dal tema della poesia “in negativo”,
dalla poetica del “non” (sentono di non avere nulla da dire, di non
avere risposte, né per se stessi né per l'umanità), e dal rifiuto della
retorica, dalla ricerca di un’espressione essenziale e rigorosa che
sembra effettivamente rispecchiare i caratteri tipici del paesaggio
ligure.
Ne è esempio primo la lirica di Sbarbaro Taci, anima stanca di
godere, che, composta nel 1913 (pubblicata nella raccolta Pianissimo
nel 1914), precede di tre anni Il porto sepolto di Ungaretti,
tradizionalmente indicato come punto d’inizio della poesia italiana
del ’900. Prima di Ungaretti, dunque, è Sbarbaro a rompere con la
tradizione e a dare inizio alla nuova poesia novecentesca.
Taci, anima stanca di godere
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all'altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo,
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
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La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
In questo testo ci sono alcuni elementi tradizionali: i versi sono in
prevalenza endecasillabi e settenari; il topos del dialogo fra io e
cuore, io e anima è fra i più tipici del genere lirico (basti pensare a
Petrarca e al Leopardi di A se stesso). Ma ci sono anche fondamentali
novità. L’io lirico chiede all’anima di tacere, la invita al silenzio; è
un invito paradossale (il poeta dice a se stesso di non dire) e
profondamente diverso da quello dannunziano della Pioggia nel
pineto: d’Annunzio si rivolge ad Ermione ed invoca il silenzio delle
parole comuni e profane per dare spazio alla parola poetica, mentre
Sbarbaro si rivolge a se stesso e invita la propria anima a tacere
perché non c’è più nulla da dire. La parola stessa è negata. E
nell’angoscia del silenzio non c’è posto per nessun sentimento: né
rimpianto né ira né speranza né tedio; la vita è talmente vuota che il
poeta non si stupirebbe di perderla: neppure la morte produrrebbe
stupore, tanto l’esistenza è ammutolita e rassegnata al nulla. Il poeta
è come un sonnambulo: non proietta sentimenti sulle cose né il
paesaggio riflette il suo animo; non c’è più alcun legame tra io e
mondo. Le cose perciò sono totalmente al di fuori, senza rapporti con
l’anima: sono soltanto quel che sono (gli alberi son alberi, le case /
sono case, le donne / … son donne; anche le donne, dunque, sono
reificate). Il mondo è un deserto in cui perdersi. Resta solo lo
sguardo che il poeta rivolge verso se stesso, senza una lacrima, senza
alcun sentimento (io guardo con asciutti occhi me stesso). Neppure
Leopardi – il pessimista e nichilista Leopardi – aveva concepito un
tale distacco dalla realtà. Con Sbarbaro, dunque, siamo di fronte ad
un nuovo modello di lirica, che rovescia completamente il modello
tradizionale.
Montale è il primo ad adottare il nuovo modello lirico
sbarbariano – e a svilupparne compiutamente la poetica del “non” –
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elaborando poi su questa base un discorso poetico fra i più complessi
e ardui del ’900. Il testo più significativo (e noto) è, al riguardo, Non
chiederci la parola, composto nel 1923 e compreso negli Ossi di
seppia (prima raccolta montaliana, del 1925).
Non chiederci la parola
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
La visione in negativo di Sbarbaro è portata alle estreme
conseguenze, in sintonia col clima relativistico del decadentismo
europeo (si pensi anche a Pirandello): se non ci sono più certezze né
a riguardo dell’io né a riguardo del mondo, non si potrà che dire ciò
che non si è, ciò che non si vuole. Da notare la polemica contro gli
uomini “sicuri” (ovvero contro i poeti “sicuri”: il bersaglio principale
è d’Annunzio): coloro che vedono solo il positivo e il luminoso (la
canicola), credono in valori da affermare e trasmettere, senza
neppure accorgersi della propria ombra stampata su un muro
scalcinato. Dal “troppo pieno” di d’Annunzio al “troppo poco” di
Montale, dall’anima che vive come diecimila al vuoto dell’anima e
alla sua difficoltà di comunicare. Non si possono chiedere al poeta
messaggi e rassicurazioni: neppure egli sa chi è, che cosa vuole. Con
sofferta consapevolezza la poesia deve ammettere i propri limiti, in
mancanza di contenuti da trasmettere, di valori e certezze da
affermare.
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Partendo da questa coscienza del negativo, la poesia di Montale
si dirama in vari percorsi tematici, fra i quali anche l’amore, tema
apparentemente più tradizionale, ma con risvolti complessi (in
particolare in relazione alla figura di Clizia) e con sviluppi anche in
direzione lato sensu religiosa. Clizia (la donna-girasole del mito,
senhal di Irma Brandeis) è personaggio di natura allegorica, con un
ruolo salvifico in qualche modo assimilabile a quello della donna
stilnovistica e addirittura a quello di Cristo. Ambigua e problematica
è la religiosità di Montale, che in un celebre verso si definì un povero
nestoriano smarrito (confidò a Gianfranco Contini di credere in
Cristo-uomo ma di avere difficoltà a credere in Dio). Tra le poesie
dedicate a Clizia, particolarmente significative sono tre liriche
composte fra il ’39 e il ’41, subito dopo la partenza della donna per
l’America (di origine ebrea, Irma Brandeis lascia l’Italia nel ’38 per
sfuggire alle leggi razziali) e lo scoppio della seconda guerra
mondiale: Nuove stanze, Ti libero la fronte dai ghiaccioli e La
frangia dei capelli che ti vela.
Nuove stanze è del ’39 e fa parte della prima edizione delle
Occasioni (il titolo fa riferimento al tipo di strofa utilizzata).
Nuove stanze
Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s'apre la finestra
non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d'uomini che non sa questo tuo incenso,
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nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Il mio dubbio d'un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follia di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.
Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d'avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d'acciaio.
Clizia è rappresentata in chiave domestica e quotidiana (fuma, gioca
a scacchi, ha i soliti anelli alle dita), ma con allusioni allegoriche al
dramma storico della guerra. La spirale di fumo della donna si
contrappone alla geometria della scacchiera, mentre fuori un altro
stormo di alfieri e cavalli (i soldati reali) produce ben altri fuochi (la
guerra). Il dramma della storia entra attraverso la finestra che s’apre
e agita le volute di fumo. Solo il poeta, grazie a Clizia, capisce il
senso della tregenda; solo Clizia conosce il senso oscuro della
scacchiera della storia: gli altri uomini non sanno e non capiscono.
Ma neppure Clizia può bastare a placare la tragedia (la follia di morte
non si placa a poco / prezzo). La campana di Palazzo Vecchio a
Firenze (la Martinella) annuncia la guerra: ci vorrebbero gli occhi
d’acciaio di Clizia per sconfiggere l’incendio procurato dallo
specchio ustorio del conflitto, e nuovi aspiranti cavalieri in solitaria
veglia di preghiera; il poeta proietta sulla donna la propria ansia di
salvezza, ma lei è lontana e forse non in grado di interpretare fino in
fondo il ruolo salvifico che il poeta le attribuisce.
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Ti libero la fronte dai ghiaccioli è del ’40 e fa parte della
seconda edizione delle Occasioni.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e l'altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
Qui Clizia ha caratteri che la avvicinano alla donna-angelo
stilnovistica: discende dal cielo, attraversa le alte nebulose, vola con
le ali (penne) come un angelo, per far visita al poeta. Ma ha anche
diversi caratteri ironico-grotteschi: il gelo siderale le riempie la
fronte di ghiaccioli che le devono essere tolti dal poeta; è dunque un
povero angelo che ha bisogno di aiuto (ha le ali lacerate, ed incubi
che la fanno destare a soprassalti): l’oltre ha bisogno dell’uomo per
manifestarsi. È mezzogiorno (mezzodì), ma non c’è nessuna luce
meridiana: il sole è freddoloso e l’ombra del nespolo è nera (Dante
Isella ha parlato di “buio a mezzogiorno”). Gli esseri umani
scantonano e nulla sanno di Clizia; solo il poeta può vedere l’angelo
(situazione elitaria ed esoterica, come quella dei poeti stilnovisti).
Clizia è personaggio allegorico, ma la sua allegoria è ambigua,
dimidiata (come nella Metamorfosi di Kafka): l’autore non ne
dichiara l’esatta chiave di lettura. La salvezza recata da Clizia è
problematica e non per tutti: riguarda solo il poeta, è una salvezza
personale, minima; la donna, d’altronde, pur rappresentando la
divinità, non ha caratteri e non produce effetti realmente “divini”: è
l'uomo ad aiutare lei, non il contrario.
La frangia dei capelli che ti vela, del 1941, è un sonetto
elisabettiano (tre quartine e un distico, con rime – o assonanze o
consonanze – ABBA, CDDC, EFFE, GG).
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La frangia dei capelli che ti vela
La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con la mano non devi. Anch’essa parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch’ài
accerchiate sul polso, nel tumulto
del sonno la cortina che gl'indulti
tuoi distendono, l'ala onde tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s'ora
d'aeree lanugini s’infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d'un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l’alba, la nasconde.
Di nuovo il significato di Clizia è ambiguo. La donna è una dea
(Artemide), trasmigra (dall’America dove si trova), porta la salvezza
al poeta. Ma, come Artemide, è una dea crudele, terribile,
cacciatrice; e inoltre: mostra la via del cielo o nasconde la visione del
cielo? S’identifica con l’alba (cioè con la salvezza) o la nasconde
(come dice il verso finale)? Si tratta di un’ambiguità tipicamente
montaliana. Il “varco” sembra aperto verso una dimensione sacra e
ultraterrena, ma Montale non concepisce salvezza se non nel qui e
ora; così anche in Iride, dove è più evidente la funzione cristologica
di Clizia. Ma, come già ricordato, la particolare religiosità di
Montale è propensa a credere in Cristo in quanto uomo molto più che
nel Cristo figlio di Dio (per questo si definisce nestoriano: l’eretico
Nestorio credeva che in Cristo ci fossero due nature in due persone,
non due nature in una sola persona).
Una religiosità problematica – una sorta di teologia negativa –
caratterizza anche la poesia di Caproni, in particolare nella raccolta
postuma Res amissa, di cui sono testi particolarmente significativi
quello che dà il titolo alla raccolta (Res amissa appunto) ed Enfasi a
parte
20
Res amissa
Non ne trovo traccia.
......
Venne da me apposta
(di questo sono certo)
per farmene dono.
.......
Non ne trovo più traccia.
.......
Rivedo nell'abbandono
del giorno l'esile faccia
biancoflautata...
La manica
in trina...
La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere...
.......
.......
Un vento
d'urto – un'aria
quasi silicea agghiaccia
ora la stanza...
(È lama
di coltello?
Tormento
oltre il vetro ed il legno
– serrato – dell'imposta?)
.......
.......
Non ne scorgo più segno.
Più traccia.
.......
.......
21
Chiedo
alla morgana...
Rivedo
esile l'esile faccia
flautoscomparsa...
Schiude
– remota – l'albeggiante bocca,
ma non parla.
(Non può
– niente può – dar risposta.)
.......
.......
Non spero più di trovarla.
.......
L'ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.
Il discorso “religioso” di Montale è ripreso in termini più essenziali e
tragici, come dice già il titolo (che fa riferimento a qualcosa che è
perduto e irrecuperabile) e come suggeriscono i molti puntini di
sospensione (indici di mancanza e silenzio). Come in Sbarbaro,
anche qui la parola è in stretta connessione col silenzio. La poesia è
costruita intorno ad un vuoto, ad un’assenza. Non c’è più traccia di
qualcosa (res) e di qualcuno: si tratta forse di una donna
(indeterminata come un miraggio: morgana) o di un angelomessaggero, che ha portato qualcosa ora per sempre perduto (che
cosa? la voce di Dio? un’alba di salvezza?).
Enfasi a parte
“Enfasi a parte: deo amisso,
che altro può restare in terra
a far da coperchio all'abisso?”
Così, levato alto il boccale,
m'apostrofò il cantiniere
nel vuoto del locale.
22
Gli avevo chiesto da bere
per scaldarmi. Nient'altro.
Non gli risposi.
Nemmeno
sorrisi del suo latino.
Stavo male.
Era il giorno
– gelido – di Natale.
Il testo prende spunto da una situazione verosimile (un bar, un
cantinere) ma paradossale: il cantiniere è una sorta di teologo e
conosce il latino, mentre l’io lirico è banalmente realistico.
Raggiunge il suo acme nel finale, con la rivelazione del giorno… di
Natale, che non è tuttavia festoso ma gelido. La scena è in effetti
tutta nel segno del freddo (…da bere / per scaldarmi), dell’assenza di
dialogo, della solitudine. Qui però è chiara l’identità della res
amissa: quel che è perduto è Dio (deo amisso). Il mondo moderno è
come un Natale senza Dio. Caproni è ateo, ma insoddisfatto: non
rinuncia alla ricerca, alla tensione; il suo ateismo problematico e
aperto è sintetizzato da un altro suo famoso verso: mio Dio, mio Dio,
perché non esisti?
23
La lezione di Alberto Beniscelli
(9 dicembre 2009)
ALBERTO BENISCELLI
Letture montaliane
La lezione è incentrata sulla lettura di una delle poesie più impegnate e
impegnative di Montale, La bufera, introduttiva ed eponima della sua terza
raccolta (La bufera e altro), dove al tema conduttore della guerra (la
seconda guerra mondiale ma anche la guerra cosmica del male ontologico)
si intreccia e si oppone il tema d’amore: Clizia (Irma Brandeis) è partita per
l’America nel ’38 per sfuggire alle leggi razziali (il distacco è rievocato nel
finale de La bufera), ma torna a far visita al poeta in qualità di donnaangelo, con un ruolo salvifico che infine – si veda La primavera hitleriana,
uno dei testi più alti della poesia del ’900 – acquista valenza religiosa e
coinvolge l’intera umanità (come Cristo, Clizia si sacrifica per tutti).
De La bufera il relatore dapprima ricostruisce la vicenda editoriale
(dalla prima uscita su “Il Tempo” nel febbraio del ’41 all’edizione svizzera
di Finisterre e a quella de La bufera e altro nel ’56), poi spiega il significato
dell’epigrafe introduttiva (le parole contro la terribilità della guerra dello
scrittore cinque-seicentesco Agrippa d’Aubigné) e quindi analizza capillarmente e puntigliosamente il testo, illustrando di ogni lassa i principali
caratteri formali, contenutistici e semantici, in un esemplare percorso
critico-interpretativo.
Muovendo da La bufera, infine, opera una serie di richiami
intertestuali, che riguardano in particolare Lo sai: debbo riperderti e non
posso, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, Nuove stanze, La frangia dei
capelli e culminano nella lettura e nel commento de La primavera
hitleriana.
***
La lezione propone un percorso di lettura, analisi,
approfondimento testuale e intertestuale di alcune liriche – da La
bufera a La primavera hitleriana – che sono fra le più ardue di
Montale ma anche fra le più alte di tutta la poesia del Novecento:
meritevoli perciò di speciale attenzione a livello scolastico, anche se
il loro studio esige qualche fatica in più (sono testi non banalizzabili:
le esigenze didattiche, d’altronde, non danno mai il diritto di
banalizzare la poesia).
25
In questi testi – e in generale nella raccolta di cui essi fanno
parte, La bufera e altro, terza raccolta montaliana – il tema
conduttore è l’amore nel mondo della guerra: al motivo della guerra
(la bufera della seconda guerra mondiale ma anche la guerra
cosmica del male ontologico) si intreccia e si oppone, infatti, il tema
d’amore: Clizia (Irma Brandeis) è partita per l’America nel ’38 per
sfuggire alle leggi razziali (il distacco è rievocato nel finale de La
bufera), ma torna a far visita al poeta in qualità di donna-angelo, con
un ruolo salvifico che infine – in particolare ne La primavera
hitleriana – acquista valenza religiosa e coinvolge l’intera umanità
(come Cristo, Clizia si sacrifica per tutti).
La bufera è la lirica introduttiva ed eponima della raccolta La
bufera e altro, del ’56, ma la sua composizione risale a quindici anni
prima. Pubblicata la prima volta sul settimanale “Il Tempo” nel
febbraio del ’41, è compresa poi nella plaquette Finisterre (15 poesie
composte fra il ’40 e il ’42), che, tramite Gianfranco Contini (che la
propone al Bernasconi), esce in Svizzera, a Lugano, nel ’43 (Montale
stesso dirà che quell’opuscolo non si sarebbe potuto pubblicare allora
in Italia); Finisterre diventa, infine, la prima sezione de La bufera e
altro.
La bufera
Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles,
Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…
Agrippa d’Aubigné, À Dieu
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
26
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella,–
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrar nel buio.
L’epigrafe introduttiva riporta le parole con cui lo scrittore
francese cinque-seicentesco Agrippa d’Aubigné, all’epoca del
conflitto tra cattolici e ugonotti, denuncia la terribilità della guerra: i
“principi persecutori” di Montale sono, ovviamente, Hitler e
Mussolini. La bufera si presenta subito, dunque, con una forte
angolatura morale e civile, nonostante sia anche, come si vedrà, una
poesia d’amore. Ed è anche un testo stilisticamente raffinato,
prezioso, come altri della sezione e della raccolta (si pensi solo a Gli
orecchini, celeberrimi e infinitamente discussi, o a La frangia dei
capelli che ti vela, dove Montale sperimenta il sonetto elisabettiano):
si possono notare, in particolare, lo schema metrico (basato su
endecasillabi piani, ma con i vv. 3, 10 settenari, il 9 quinario e i vv.
3, 9, 16 sdruccioli), le figure di suono (una sola rima finale, ma molte
rime interne, quasi rime, rime al mezzo, assonanze, consonanze ecc.)
e la lunga costruzione ellittico-nominale (vv. 1-19, con la sequenza
La bufera… i suoni… il lampo… lo schianto… che solo alla fine
trova un appoggio sintattico: Come quando…).
Dal punto di vista tematico, si può dividere in tre momenti: il
primo, più lungo, comprende i vv. 1-15; il secondo, i vv. 16-19; il
terzo, che è una sorta di congedo, i vv. 19-22. L’attacco è nel segno
del tipico realismo montaliano destinato a girarsi in allegoria.
L’ambientazione è reale, sia nella prima strofa, che richiama il
giardino di casa Montale a Monterosso, con il suo albero di
27
magnolia, sia nella seconda, che evoca la residenza americana di
Clizia; ma la bufera – tema ricorrente in Montale (si pensi solo ad
Arsenio, Tempi di Bellosguardo, Il ritorno, L’arca) – allude
ovviamente alla tempesta della guerra, come spiega Montale stesso
in una lettera del ’65 a Silvio Guarnieri: la guerra storica (la seconda
guerra mondiale: proprio “quella” guerra dopo “quella”
dittatura…) e la guerra cosmica (il male ontologico, che coinvolge
tutti, cifra inestirpabile della natura umana); la magnolia, poi, è
portatrice in Montale di segni di un’umanità sconvolta o funge da
albero protettivo dei morti (si vedano ancora, ad esempio, Tempi di
Bellosguardo e L’arca).
Da notare il salto dall’ambientazione esterna nella prima lassa
(vv. 1-3) all’ambientazione interna nella seconda (vv. 4-9). È un
gioco frequente in Montale: si vedano, in particolare, Notizie
dall’Amiata e Nuove stanze, dove però è l’interno a dominare
sull’esterno, mentre qui è dominante l’esterno e l’interno è posto tra
parentesi. Perché? Perché diversa è la funzione di Clizia. La donna
non è più “presente”, come in Nuove stanze, e non è più “attesa”,
come in Notizie dall’Amiata: è partita, è lontana; per qualche tempo
il poeta pensa addirittura che lei possa essere morta in un campo di
concentramento (nel finale de Gli orecchini, le squallide mani
travolte che fermano gli orecchini ai lobi di Clizia sono forse quelle
dei prigionieri di un lager).
L’interno della seconda strofa è precisamente la stanza del
college americano in cui dorme Clizia, il suo nido notturno appunto.
Un luogo ben lontano, dunque, dalla bufera che si abbatte sul
giardino di Monterosso: eppure la bufera arriva fin là, coglie di
sorpresa Clizia e la sveglia. Dunque nessun luogo può essere protetto
dalla bufera della guerra. La possibilità di creare fulminei
collegamenti tra eventi e luoghi diversi è, d’altronde, un carattere
tipico di Clizia: quando è evocata, la donna ha il potere di muoversi
in uno spazio-tempo di simultaneità, di essere contemporaneamente
in luoghi e tempi diversi; Clizia è l’eternità d’istante del v. 12.
Con la terza lassa si passa più chiaramente dal piano realistico al
piano allegorico. Il flash del lampo che candisce alberi e muri (cioè li
rende candidi, li sbianca, ma anche li confetta, li trasforma in canditi)
è ancora un tratto realistico, ma serve a introdurre l’immagine di
Clizia, che diventa ora il perno tematico della poesia. Il lampo è un
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attributo tipico di Clizia (cfr Nuove stanze), che porta scolpita in sé
l’eternità d’istante della sua luce folgorante (vv. 12-14). Clizia è
anche marmo manna e distruzione (vv. 12-13), inciso quanto mai
arduo da decifrare (lo stesso Montale dice a Contini: marmo manna e
distruzione sono le componenti di un carattere [=del carattere di
Clizia], se tu le spieghi ammazzi la poesia): il marmo simboleggia
fermezza e resistenza; la manna è nutrimento dolce e divino (nella
Bibbia è inviata da Dio al popolo eletto nel deserto); tutta la poesia,
letta in verticale, è nel segno del bianco, del duro, del dolce;
distruzione è invece immagine bivalente: richiama ancora il lampo
della guerra e la sua potenza devastatrice, ma anche il bagliore degli
occhi di Clizia, la loro potenza salvifica (condanna, forse, richiama il
sacrificio di Cristo). Clizia è in effetti colei che distrugge (l’angelo
che si oppone al male della guerra: cfr ancora Nuove stanze) e colei
che si distrugge (la donna-girasole che, come Cristo, si sacrifica per
tutti: cfr La primavera hitleriana). Ma con La bufera con siamo
ancora nel pieno di questi valori: in questo testo vale soprattutto, in
Clizia, il carattere della mutabilità, della trasformazione (anch’esso
sancito poi nei celebri versi de La primavera hitleriana: …tu / che il
non mutato amor mutata serbi).
Nel secondo momento (vv. 16-19) di nuovo l’immagine iniziale
è realistica (lo schianto del tuono), ma subito rimpiazzata da
immagini allegoriche: il tutto rinforzato da elementi fonico-visivi che
danno idea di accelerazione, esagitazione (è stato notato, fra l’altro,
che sistri e tamburelli sono presenti nella Carmen di Bizet, il
fandango nella Bohème di Puccini: Montale, come è noto, ha una
grande competenza musicale, ha studiato canto – da baritono – ed è
stato critico musicale del “Corriere della sera”); la fossa fuia e i gesti
disperati di chi annaspa richiamano l’Inferno di Dante (la stessa
bufera è immagine dantesca). Il timbro è funereo e infernale. La
bufera è ormai definitivamente l’inferno della guerra.
Il congedo (vv. 19-22) si configura, dunque, come un ingresso
nell’Ade. Clizia saluta il poeta e si immerge nel buio della
lontananza e, forse, anche per lei, della guerra, della deportazione,
della morte (si è già ricordato che il poeta, per qualche tempo, teme
che la donna sia morta in un lager). La domanda finale – implicita –
è allora questa: Clizia tornerà prima o poi o non tornerà mai più? La
risposta è: sì, tornerà, ma non in persona fisica; tornerà in termini
29
petrarcheschi e, ancor più, stilnovistici: tornerà cioè come donnaangelo, a portare un messaggio di salvezza, dapprima soltanto al
poeta (in Ti libero la fronte dai ghiaccioli “appare” al poeta dopo
aver attraversato alte nebulose; ne La frangia dei capelli ritorna dopo
aver attraversato la guerra dei nati-morti, la zona infernale della
bufera) e infine a tutta l’umanità, con una valenza salvifico-religiosa
che richiama espressamente la figura di Cristo (ne La primavera
hitleriana).
In tal senso, La bufera è un testo di passaggio, dove il rinforzo di
Clizia in direzione religioso-salvifica, non presente nei Mottetti,
anticipa e prepara il traguardo de La primavera hitleriana.
La primavera hitleriana
Né quella ch’a veder lo sol si gira…
Dante (?) a Giovanni Quirini
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
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forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…
La prima parte (vv. 1-19) è composta nel ’39, la seconda (vv. 20-43)
nel ’46. Il poeta rievoca la visita di Hitler a Firenze nel maggio del
’38, con la primavera piagata e la natura stravolta dalla sua presenza:
un’invasione di falene impazzite (fatto realmente accaduto), come
una nevicata fuori tempo, trasforma l’estate imminente in stagione
morta. Hitler è acclamato dagli scherani fascisti ed ossequiato anche
dai bottegai, che chiudono in suo onore i negozi, in un’inconsapevole
festa di morte che presto si muterà in palese tragedia. Di fronte ad
essa più nessuno potrà dirsi incolpevole. Nell’orrido dramma della
storia, l’unica speranza giunge da Clizia, caricata di un ruolo
salvifico ad immagine di quello di Cristo. Non può giungere salvezza
dalla storia, ma solo da Clizia e solo in termini di speranza: dalla
Clizia che il non mutato amor mutata serba, capace cioè, nella sua
lontananza, di trasfigurare l’amore terreno in amore divino, di farsi
“abbagliare” da Dio e annullarsi in Lui, nella sua misteriosa volontà,
in sacrificio per tutti, proprio come Cristo.
31
La lezione di Francesco De Nicola
(10 febbraio 2010)
FRANCESCO DE NICOLA
Il neorealismo nella narrativa italiana del Novecento
Il Neorealismo è un comune sentire in cui si riconoscono diversi artisti
dei primi anni del secondo dopoguerra. È preannunciato, nel ventennio
fascista, da alcune opere che si distinguono dal gusto dominante per
l’attenzione alla realtà socio-economica: Gente in Aspromonte di Alvaro, Il
garofano rosso di Vittorini, Tre operai di Bernari, il film Acciaio di Walter
Ruttmann (sceneggiato da Pirandello e Soldati). Il Neorealismo nasce con
Ossessione di Luchino Visconti (’43) e con un importante intervento critico
di Mario Alicata e Giuseppe De Santis (’41). Ha il suo culmine negli anni
’45-’50 con i films di Rossellini (Roma città aperta, Paisà, Germania anno
zero), De Sica (Sciuscià, Ladri di biciclette), Visconti (La terra trema). La
prima produzione letteraria neorealista è rappresentata invece dai racconti di
vita vissuta, vicende di guerra e Resistenza, ospitati sulle terze pagine dei
quotidiani domenicali.
Si afferma un nuovo concetto di “impegno”: nel primo numero del
Politecnico (settembre ’45) Vittorini assegna all’arte una finalità non
consolatoria ma di denuncia delle “sofferenze” sociali e di lotta per il loro
superamento. Il primo romanzo neorealista è Uomini e no (’45) dello stesso
Vittorini, seguito da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, Se questo è
un uomo di Primo Levi, L’Agnese va a morire di Renata Viganò (solo in
parte neorealista, invece, è il romanzo d’esordio di Calvino, Il sentiero dei
nidi di ragno). Con gli anni ’50 inizia la fase discendente, simboleggiata
dalla scena finale, fiabesca e surreale, di Miracolo a Milano di De Sica
(’51). In letteratura la fine è sancita dal romanzo Metello di Pratolini (del
’55). Il salutare bagno di realtà prodotto dal Neorealismo ha però effetti
duraturi anche sugli scrittori successivi, che parzialmente lo recuperano
(come Cassola con La ragazza di Bube o Bassani con Il guardino dei Finzi
Contini) o lo superano in varie direzioni (come lo stesso Calvino e
Fenoglio).
***
Tra i molti -ismi che caratterizzano l’Otto-Novecento (“scatole”
critiche di comodo, spesso responsabili di appiattimento e
semplificazione) c’è anche il Neorealismo: non un movimento
33
definito e costituito, ma piuttosto un comune sentire nel quale si
riconosce un certo numero di artisti (in ambito cinematografico e
letterario soprattutto) nel clima dell’immediato dopoguerra, tra gli
orrori ancora vivi del secondo conflitto mondiale e la volontà di
superarli in una nuova prospettiva politica, sociale e culturale.
Il Neorealismo è dunque strettamente legato al momento storico
del dopoguerra. Ma è preannunciato in qualche modo, nel ventennio
fascista, da alcune opere che si distinguono dal gusto dominante – il
dannunzianesimo, i romanzi d’evasione (Pitigrilli, Guido da Verona,
Luciano Zuccoli), i film d’evasione (i telefoni bianchi) o di genere e
di regime (La cieca di Sorrento, Mille lire al mese, Scipione
l’Africano) – per l’attenzione diretta e non convenzionale alla realtà
socio-economica (a quella del meridione in particolare). Fra queste,
tre romanzi ed un film: Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, che
recupera la lezione di Verga; Il garofano rosso di Elio Vittorini,
romanzo di formazione ambientato in una cittadina del sud; Tre
operai di Carlo Bernari, sulla vita di fabbrica e i suoi problemi;
Acciaio, drammatica storia operaia ambientata nelle acciaierie di
Terni (regia di Walter Ruttmann, sceneggiatura di Luigi Pirandello e
Mario Soldati; il film è prodotto da Emilio Cecchi, uno dei fondatori
della “Ronda”, la rivista del “bello scrivere”).
Segna la nascita del Neorealismo, nel 1943, il film Ossessione
di Luchino Visconti (tratto da Il postino suona sempre due volte di
James Cain), ambientato nella bassa padana. Da non trascurare
l’influsso del cinema americano e francese degli anni ’30: La grande
illusione di Jean Renoir è del ’37; Il porto delle nebbie di Marcel
Carné è del ’38. Da ricordare anche un importante articolo di Mario
Alicata e Giuseppe De Santis – Verità e poesia: Verga e il cinema
italiano (pubblicato nel ’41 sulla rivista “Cinema”) – in cui si
affermano tre fondamentali principi in chiave neorealistica:
l’importanza del modello verghiano, l’unità delle arti (senza
distinzioni e gerarchie), il ruolo dell’arte come documento di realtà.
Gli anni dal ’45 al ’50 sono segnati in Italia da una grande
produzione cinematografica. La riapertura delle sale è di per sé
indice di libertà ritrovata e rinnovata voglia di vivere. I film più
importanti raccontano l’accaduto e il presente, con volontà di
documentazione e denuncia. Nell’ottobre del ’45 esce Roma città
aperta di Roberto Rossellini (girato però nel ’44, subito dopo la
34
partenza dei nazisti da Roma): il film, girato all’aperto (non negli
studi di Cinecittà), tra le macerie di Roma (bombardata nel ’43),
racconta la drammatica resistenza all’occupazione nazista da parte di
alcuni cittadini (un sacerdote, un ingegnere comunista, un tipografo);
da sottolineare l’uso realistico dei linguaggi (il tedesco e il
romanesco). Seguono, dello stesso Rossellini, Paisà nel ’46 e
Germania anno zero nel ’48. Vittorio De Sica gira Sciuscià nel ’46 e
Ladri di biciclette nel ’48 (dove gli attori sono uomini della strada).
Sempre del ’48 è La terra trema di Visconti, ispirato ai Malavoglia
di Verga.
Come si riaprono le sale cinematografiche, così si riaprono le
edicole. Tornano i giornali (ben 8 quotidiani a Genova e 22 a Roma):
semplici fogli (due facciate), che nei numeri domenicali raddoppiano
e accolgono, in terza pagina, anche qualche racconto di vita vissuta,
vicende della guerra appena conclusa, vicende partigiane (e perfino
qualche poesia). È questa la prima vera produzione letteraria
neorealistica.
Sui giornali e sulle riviste si apre un nuovo dibattito delle idee,
incentrato sul concetto di “impegno”: l’artista è chiamato ad essere
protagonista della realtà, non soltanto osservatore. In questo consiste
la fondamentale differenza tra Verismo e Neorealismo: il primo si
era proposto di rappresentare la realtà senza dichiarate finalità sociali
(in ciò distinguendosi dal Naturalismo francese), mentre il secondo
vuole documentare la realtà per denunciarne i problemi, evitare che
si ripetano, contribuire ad avviarli a soluzione. Un importante ruolo
svolge in tal senso Il Politecnico di Elio Vittorini, che, nell’editoriale
del primo numero (uscito il 29 settembre del ’45), assegna all’arte
neorealista una finalità non consolatoria bensì di denuncia delle
“sofferenze” sociali e di lotta per il loro superamento; da notare nello
stesso primo numero – di cui De Nicola mostra una copia in suo
possesso – l’uso del colore nei titoli, la presenza di foto, un disegno
di Guttuso e, in appendice, una puntata del romanzo di Hemingway
Per chi suona la campana (con il titolo Per chi suonano le
campane). Sul Politecnico pubblicheranno racconti, fra gli altri,
Calvino, Venturi, Caproni.
Il romanzo, in un primo tempo, è meno praticato dai neorealisti
perché ritenuto un genere costruito e artificiale. Si punta soprattutto
sul racconto di vita vissuta, sulla cronaca, sul documento diretto (per
35
questo Vasco Pratolini tiene a sottolineare in alcuni suoi titoli
l’elemento cronachistico: Cronaca di poveri amanti, Una cronaca
familiare). Il recupero del romanzo è opera dello stesso Vittorini, che
in Uomini e no (del ’45) rappresenta l’ambiente della lotta partigiana
a Milano, premurandosi di distinguere graficamente le parti
propriamente narrative (in tondo) da quelle di riflessione e
interpretazione (in corsivo). Anche Calvino torna al romanzo,
quando si accorge – e dichiara espressamente – che i propri racconti
tendono a ripetersi e in sostanza sono tutti uguali; nasce così Il
sentiero dei nidi di ragno, dove il mondo della Resistenza, però, è
visto e interpretato con gli occhi di un personaggio di invenzione, un
ragazzo (Pin), con tratti di fiaba e avventura.
Fra i più importanti romanzi neorealisti vanno annoverati Cristo
si è fermato a Eboli di Carlo Levi (pubblicato nel ’45, non a caso in
una collana di “saggi”), Se questo è un uomo di Primo Levi (del ’47)
e L’Agnese va a morire di Renata Viganò (storia di una contadina
delle valli di Comacchio che si oppone alle violenze gratuite dei
tedeschi). Nel cinema, da ricordare Riso amaro di Giuseppe De
Santis (del ’49), ambientato nelle risaie vercellesi. Non tutta la
narrativa di quegli anni è da ascrivere al Neorealismo: basti ricordare
La favolosa invasione degli orsi in Sicilia di Dino Buzzati o Tempo
di uccidere di Ennio Flaiano o gli stessi romanzi di Guareschi.
Con gli anni ’50 inizia la fase discendente del Neorealismo: la
guerra è definitivamente alle spalle e ai problemi dell’immediato
dopoguerra subentrano altri tipi di problemi. Si può prendere a
simbolo del tramonto del Neorealismo la scena finale, fiabesca e
surreale, di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica (del ’51): i
barboni di Milano partono in volo verso un mondo migliore sulle
scope degli spazzini di piazza del Duomo. Al cinema neorealista
subentra la commedia all’italiana. In letteratura, la fine del
Neorealismo – esplicitamente riconosciuta dallo stesso Vittorini nel
’54 – si può individuare nel romanzo Metello di Vasco Pratolini (del
’55), che punta l’obiettivo sul passato (le lotte sociali nella Firenze di
fine ’800) e mette in primo piano la vicenda sentimentale rispetto
alla vicenda sociale.
In conclusione, si può dire che tutti gli -ismi del ’900 – compreso
il Neorealismo (e lo stesso Futurismo) – hanno durata relativamente
breve e non producono capolavori assoluti. Sono tuttavia tappe
36
importanti di crescita. Il Neorealismo, in particolare, rende
obbligatorio e scontato il confronto con la realtà e cambia
definitivamente il linguaggio letterario. È un salutare bagno di realtà,
sia per gli scrittori che in seguito parzialmente lo recuperano (come
Carlo Cassola con La ragazza di Bube o Giorgio Bassani con Il
guardino dei Finzi Contini) sia per quelli che lo superano in varie
direzioni (come lo stesso Calvino o come Beppe Fenoglio).
37
La lezione di Luigi Surdich
(14 aprile 2010)
LUIGI SURDICH
Dante nella poesia del Novecento
Dante è per lunghi tratti una presenza carsica nella storia della poesia
italiana, dominata dal modello petrarchesco; riemerge però fra ’700 e ’800
(con Alfieri, Foscolo e Leopardi), si consolida nell’Ottocento ed è fondamentale nel Novecento.
Lasciando da parte Pascoli e d’Annunzio (per entrambi i richiami
danteschi richiederebbero specifiche e complesse analisi), il relatore ha
preso le mosse da Gozzano (dove Dante si incrocia spesso con Petrarca, alla
luce di un duplice atteggiamento, di recupero e di parodia) per soffermarsi
quindi su Ungaretti (in particolare sull’Allegria), Saba (per il quale Dante è
il culmine della poesia italiana, mentre Petrarca ne è il guasto), Rebora
(Frammenti lirici), Quasimodo (Alle fronde dei salici, Ed è subito sera),
Luzi (prima più vicino alle Rime di Dante, poi alla Commedia) ed approdare
infine a Montale e Caproni, nei quali la presenza di Dante è particolarmente
significativa: Montale è poeta dantesco per eccellenza, Caproni prende da
Dante i titoli delle raccolte Il seme del piangere e Il muro della terra.
***
Per lunghi tratti Dante è una presenza carsica nella storia della
poesia italiana, dominata del modello petrarchesco. Riemerge
tuttavia fra ’700 e ’800 – con Alfieri, Foscolo e soprattutto Leopardi
(basti pensare alla canzone Sopra il monumento di Dante), si
consolida nell’Ottocento ed è fondamentale nel Novecento.
Lasciando da parte Pascoli e d’Annunzio (per entrambi i
richiami danteschi richiederebbero specifiche e complesse analisi), la
rassegna della presenza dantesca nella poesia del Novecento può
cominciare con Gozzano. In lui Dante si intreccia spesso con
Petrarca, tanto che Sanguineti parla di ermafroditismo espressivo
ovvero di una sorta di linguaggio “dantese-petrarchese”, dove quella
di Dante sarebbe la lingua del padre e quella di Petrarca la lingua
della madre. Fra i molti esempi possibili, si vedano in Totò
Merùmeni il termine parolette e l’espressione il suo Petrarca (rinvii
petrarcheschi) accanto ad esilio e bello tacere (che rinviano al testo
39
dantesco Tre donne intorno al cor mi son venute, canzone per
eccellenza dell’esilio, e al canto XXV del Purgatorio):
Totò Merùmeni
I
Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura....
Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.
Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando,
villosi forestieri picchiano la gorgòne.
S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente
la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.
II
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.
Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca! ...) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.
Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
40
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.
Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche:
«… in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…»
Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita...
III
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse,
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino...
IV
Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.
Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori...
V
Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.
“Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
41
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.
All’atteggiamento di recupero si affianca talora quello della
parodia. Si veda, ad esempio, la poesia Ketty (composta da Gozzano
all’epoca del soggiorno in India), con la voce tracotanza (di matrice
dantesca) e il latin sangue gentile (citazione dalla canzone petrarchesca Italia mia, benché ’l parlar sia indarno).
Ketty
I
Supini al rezzo ritmico del panka.
Sull'altana di cedro, il giorno muore,
giunge dal Tempio un canto or mesto or gaio,
giungono aromi dalla jungla in fiore.
Bel fiore del carbone e dell'acciaio
Miss Ketty fuma e zufola giuliva
altoriversa nella sedia a sdraio.
Sputa. Nell'arco della sua saliva
m'irroro di freschezza: ha puri i denti,
pura la bocca, pura la genciva.
Cerulo-bionda, le mammelle assenti,
ma forte come un giovinetto forte,
vergine folle da gli error prudenti,
ma signora di sé della sua sorte
sola giunse a Ceylon da Baltimora
dove un cugino le sarà consorte.
Ma prima delle nozze, in tempo ancora
esplora il mondo ignoto che le avanza
e qualche amico esplora che l'esplora.
Error prudenti e senza rimembranza:
Ketty zufola e fuma. La virile
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franchezza, l'inurbana tracotanza
attira il mio latin sangue gentile.
II
Non tocca il sole le pagode snelle
che la notte precipita. Le chiome
delle palme s'ingemmano di stelle.
Ora di sogno! E Ketty sogna: “...or come
vivete, se non ricco, al tempo nostro?
È quotato in Italia il vostro nome?
Da noi procaccia dollari l'inchiostro...”
“Oro ed alloro!...” - “Dite e traducete
il più bel verso d'un poeta vostro...”
Dico e la bocca stridula ripete
in italo-britanno il grido immenso:
“Due cose belle ha il mon... Perché ridete?”.
“Non rido. Oimè! Non rido. A tutto penso
che ci dissero ieri i mendicanti
sul grande amore e sul nessun compenso.
(Voi non udiste, Voi tra i marmi santi
irridevate i budda millenari,
molestavate i chela e gli elefanti.)
Vive in Italia, ignota ai vostri pari,
una casta felice d'infelici
come quei monni astratti e solitari.
Sui venti giri non degli edifici
vostri s'accampa quella fede viva,
non su gazzette, come i dentifrici;
sete di lucro, gara fuggitiva,
elogio insulso, ghigno degli stolti
più non attinge la beata riva;
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l'arte è paga di sé, preclusa ai molti,
a quegli data che di lei si muore...”
Ma intender non mi può, benché m'ascolti,
la figlia della cifra e del clamore.
III
Intender non mi può. Tacitamente
il braccio ignudo premo come zona
ristoratrice, sulla fronte ardente.
Gelido è il braccio ch'ella m'abbandona
come cosa non sua. Come una cosa
non sua concede l'agile persona...
- “O yes! Ricerco, aduno senza posa
capelli illustri in ordinate carte:
l'Illustrious lòchs collection più famosa.
Ciocche illustri in scienza in guerra in arte
corredate di firma o documento,
dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte...
(mordicchio il braccio, con martirio lento
dal polso percorrendolo all'ascella
a tratti brevi, come uno stromento)
e voi potrete assai giovarmi nella
Italia vostra, per commendatizie...”
- “Dischiomerò per Voi l'Italia bella!”
“Manca D'Annunzio tra le mie primizie;
vane l'offerte furono e gl'inviti
per tre capelli della sua calvizie...”
- “Vi prometto sin d'ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando:
a maggior gloria degli Stati Uniti...”
L'attiro a me (l'audacia superando
per cui va celebrato un cantarino
44
napolitano, dagli Stati in bando...)
Imperterrita indulge al resupino,
al temerario - o Numi! - che l'esplora
tesse gli elogi di quel suo cugino,
ma sui confini ben contesi ancora
ben si difende con le mani tozze,
al pugilato esperte... In Baltimora
il cugino l'attende a giuste nozze.
Si veda anche L’ipotesi (sorta di cartone preparatorio della Signorina
Felicita), il cui finale ricalca la figura dell’Ulisse dantesco, in chiave
parodicamente autobiografica.
L’ipotesi
[…]
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes...
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
45
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l'alto mare:
si videro innanzi levare
un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...
Quanto a Ungaretti, il suo interesse per Dante si manifesta anche
nell’ambito dell’esperienza di docente in Brasile (eccellente, per
esempio, la sua lettura del canto I dell’Inferno). Per restare solo
all’Allegria e solo ad un paio di esempi, si vedano i versi Foglia
appena nata (in Fratelli), che riprende la similitudine di Purg. VIII,
28, e Come questa pietra / è il mio pianto (in Sono una creatura),
che richiama il canto di Ugolino (Io non piangea, sì dentro impetrai).
Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
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Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
Sono una creatura
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo
Per Saba, poi, Dante rappresenta il culmine della poesia italiana,
mentre Petrarca ne è il guasto. In Via della Pietà, la gente morta
riprende Inf. VIII e Purg. XXX:
Via della Pietà
Accennava all’aspetto una sventura,
sì lunga e stretta come una barella.
Hanno abbattuto le sue vecchie mura,
e di qualche ippocàstano si abbella.
47
Ma ancor di sé l’attrista l’ospedale,
che qui le sue finestre apre e la porta,
dove per visitar la gente morta
preme il volgo perverso; e come fuori
dei teatri carrozze in riga nera,
sempre fermo ci vedo un funerale.
Cerei sinistri odori
escon dalla cappella; e se non posso
rattristarmi, pensare il giorno estremo,
l’eterno addio alle cose di cui temo
perdere solo un’ora, è perché il rosso
d’una cresta si muove fra un po’ d’erba,
cresciuta lungo gli arboscelli in breve
zolla: quel rosso in me speranza e fede
ravviva, come in campo una bandiera.
La gallinella che ancor qui si duole,
e raspa presso alla porta funesta,
mi fa vedere dietro alla sua cresta
tutta una fattoria piena di sole.
Nel sonetto Vivevo allora a Firenze (decimo dell’Autobiografia),
Saba sarcasticamente paragona il proprio incontro con d’Annunzio a
quello di Dante con papa Celestino V (Inf. III): ne è spia l’uso dei
verbi vidi e conobbi.
Vivevo allora a Firenze
Vivevo allora a Firenze, e una volta
venivo ogni anno alla città natale.
Più d’uno in suoi ricordi ancor m’ascolta
dire, col nome di Montereale,
i miei versi agli amici, o ad un’accolta
d’ignari dentro assai nobili sale.
Plausi n’avevo, or n’ho vergogna molta;
celarlo altrui, quand’io lo so, non vale.
Gabriele d’Annunzio alla Versiglia
vidi e conobbi; all’ospite fu assai
egli cortese, altro per me non fece.
48
A Giovanni Papini, alla famiglia
che fu poi della “Voce”, io appena o mai
non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece.
Di Clemente Rebora si può ricordare la poesia Per Ezra Pound,
dove Dante è messo in scena in chiave scherzosamente attualizzata; è
da riportare a Dante anche, nei Frammenti lirici, l’uso di verbi
parasintetici.
Quasimodo predilige, almeno in un primo tempo, il Dante più
“umano” dell’Inferno e del Purgatorio a quello più “spirituale” della
Vita nuova e del Paradiso. Nella lirica Alle fronde dei salici, la bella
sinestesia dell’urlo nero / della madre è da riportare (come
suggerisce lo stesso Quasimodo nell’appunto di una lezione) al verso
Io venni in loco d'ogne luce muto (Inf. V), con rovesciamento
incrociato muto>urlo, luce>nero.
Alle fronde dei salici
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
Il verso trafitto da un raggio di sole di Ed è subito sera richiama
invece Purg. XXX, 40-42 (Dante trafitto dall’alta virtù di Beatrice).
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
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Luzi è in un primo tempo più vicino alla linea petrarchesca che a
quella di Dante, di cui comunque tiene presente le Rime più della
Commedia; si veda la sua prima poesia, Alla Vita, che richiama,
almeno a livello tematico, il sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed
io (il motivo della lontananza e dell’assenza è, d’altronde, tipico
dell’ermetismo).
Alla Vita
Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare,
volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.
Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che procede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.
Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.
Il recupero del Dante della Commedia (dell’Inferno e del Purgatorio
in particolare) comincia con la raccolta Nel magma, una fra le più
50
importanti di tutto il ’900 (è del ’63 e si può considerare
un’anticipazione di Satura, che Montale pubblica nel ’71). Notevole
è in questa raccolta la presenza del modello narrativo di Dante e di
una tendenza alla teatralità di matrice dantesca; si veda, ad esempio,
la lunga poesia Presso il Bisenzio, dove il tema politico è svolto
attraverso un colloquio che riprende chiaramente quello di Dante con
Farinata in Inf. X.
Presso il Bisenzio
La nebbia ghiacciata affumica la gara della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti prima,
pigri nell'andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: «Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
quando divampava e ardevano nel rogo bene e male».
Lo fisso senza dar risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,
e colgo mentre guizza lungo il labbro di sotto un'inquietudine.
«Ci fu solo un tempo per redimersi» qui il tremito
si torce in tic convulso «o perdersi, e fu quello».
Gli altri costretti a una sosta impreveduta
dànno segni di fastidio, ma non fiatano,
muovono i piedi in cadenza contro il freddo
e masticano gomma guardando me o nessuno.
«Dunque sei muto?» imprecano le labbra tormentate
mentre lui si fa sotto e retrocede
frenetico, più volte, finché è là
fermo, addossato a un palo, che mi guarda
tra ironico e furente. E aspetta. Il luogo,
quel poco ch'è visibile, è deserto;
la nebbia stringe dappresso le persone
e non lascia apparire che la terra fradicia dell' argine
e il cigaro, la pianta grassa dei fossati che stilla muco.
E io: «E difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che per voi
e passava da altre parti». «Quali parti?»
Come io non vado avanti,
mi fissa a lungo ed aspetta. «Quali parti?»
I compagni, uno si dondola, uno molleggia il corpo sui garetti
51
e tutti masticano gomma e mi guardano, me oppure il vuoto.
«E difficile, difficile spiegarti».
C'è silenzio a lungo,
mentre tutto è fermo,
mentre l'acqua della gora fruscia.
Poi mi lasciano lì e io li seguo a distanza.
Ma uno d'essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto
si fa da un lato, s'attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi
mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo
ormai, ma senza ch'io mi fermi, ci guardiamo,
poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.
«O Mario» dice e mi si mette al fianco
per quella strada che non è una strada
ma una traccia tortuosa che si perde nel fango
«guardati, guardati d'attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere d'orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è il nostro, che non è qui né ora,
volgiti e guarda il mondo come è divenuto,
poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l'ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.
Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,
e non senti che è troppo. Troppo, intendo,
per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,
giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza
[umiliante».
Ascolto insieme i passi nella nebbia dei compagni che si eclissano
e questa voce venire a strappi rotta da un ansito.
Rispondo: «Lavoro anche per voi, per amor vostro».
Lui tace per un po' quasi a ricever questa pietra in cambio
del sacco doloroso vuotato ai miei piedi e spanto.
E come io non dico altro, lui di nuovo: «O Mario,
com'è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,
né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende».
Lascio placarsi a poco a poco il suo respiro mozzato dall'affanno
mentre i passi dei compagni si spengono
52
e solo l'acqua della gara fruscia di quando in quando.
«È triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo
e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,
ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte».
E lui, ora smarrito ed indignato: «Tu? tu solamente?».
Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse
e agita il capo: «O Mario, ma è terribile, è terribile tu non sia dei
nostri»
E piange, e anche io piangerei.
se non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.
Poi corre via succhiato dalla nebbia del viottolo.
Rimango a misurare il poco detto,
il molto udito, mentre l'acqua della gora fruscia,
mentre ronzano fili alti nella nebbia sopra pali e antenne.
«Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,
mi dico, potranno altri in un tempo diverso.
Prega che la loro anima sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetta».
La presenza di Dante è particolarmente forte e significativa in
Caproni e in Montale. Due raccolte del primo, addirittura, hanno per
titolo altrettanti sintagmi danteschi: Il seme del piangere (da Purg.
XXXI) e Il muro della terra (da Inf. X). Si può vedere, fra tutte,
l’ultima poesia di Caproni (uscita sul numero di dicembre 1989 di
Famiglia cristiana; Caproni muore il 22 gennaio 1990), dal titolo
lunghissimo: Dinanzi al Bambin Gesù pensando ai troppi innocenti
che nascono derelitti nel mondo: vi è l’espressione terra guasta, che
riprende il paese guasto di Inf. XIV (e insieme la Waste Land, la
terra desolata – in realtà guasta-guastata – di Eliot).
Dinanzi al Bambin Gesù…
Nel gelo del disamore
senza asinello né bue
quanti, con le stesse Sue
fragili membra, quanti
Suoi simili, in tremore,
nascono ogni giorno in questa
Terra guasta!...
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Soli
e indifesi, non basta
a salvarli il candore
del sorriso.
La Bestia
è spietata. Spietato
l’Erode ch’è in tutti noi.
Vedi tu, che puoi
avere ascolto. Vedi
almeno tu, in nome
del piccolo Salvatore
cui, così ardentemente, credi
d’invocare per loro
un grano di carità.
A che mai serve il pianto
- posticcio - del poeta?
Meno che a nulla. È soltanto
vano orpello. È viltà
Montale è poeta dantesco per eccellenza. Non a caso tiene, nel
1965 a Firenze, il discorso conclusivo delle celebrazioni per il
settimo centenario della nascita di Dante. La memoria dantesca è già
presente nella prima poesia, Meriggiare pallido e assorto, che
Montale scrive a 20 anni: nel verso spiar le file di rosse formiche
(che in prima redazione era seguir le file di rosse formiche) c’è un
richiamo a Purg. XXVI, 34-36 (s'ammusa l'una con l'altra formica, /
forse a spïar lor via e lor fortuna).
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
54
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Un solo altro esempio: in Spesso il male di vivere ho incontrato il
verso il rivo strozzato che gorgoglia (in prima redazione il rivo
ingorgato che gorgoglia) richiama Inf. VII, 125 (gorgoglian ne la
strozza).
Spesso il male di vivere ho incontrato
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua della sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Dante è per Montale un fondamentale punto di riferimento nella
costruzione del mito femminile di Clizia, la donna-angelo – o,
meglio, l’angelo che si fa donna – portatrice di salvezza e miracoli
come la Beatrice dantesca; si veda per tutti Ti libero la fronte dai
ghiaccioli:
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l'alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
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Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e l'altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
Si vedano anche, nel primo mottetto (Lo sai: debbo riperderti e
non posso), le parole oscura, selva, smarrito che rinviano
apertamente ai primi versi della Commedia (nel verso finale, poi, si
parla esplicitamente di inferno):
Lo sai: debbo riperderti e non posso
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo.
56
VALTER BOGGIONE
Il mito in Pavese e Fenoglio1
Il binomio Pavese-Fenoglio è ricorrente ma poco plausibile, per la
profonda diversità fra i due autori. Il mito è un importante tema che li
accomuna e ne attesta le differenze.
Pavese elabora le proprie idee sul mito alla luce delle teorie di secondo
’800 e primo ’900: quella intellettualistica della scuola antropologica
britannica, quella evoluzionistica di James Frazer e quella della scuola
etnologica tedesca; in particolare è influenzato da Il ramo d’oro di Frazer
(che lui stesso fa pubblicare nella “Collana viola” di Einaudi), ma anche da
d’Annunzio, Pirandello, Bontempelli, Nietzsche e soprattutto Vico. La
visione pavesiana del mito è regressiva: il mito recupera la spontaneità
originaria, la visione primigenia del mondo; inoltre è ripetitivo: produce
archetipi che si ritrovano in diverse culture. In tutti i romanzi di Pavese c’è
un ritorno al passato, ai luoghi d’origine, che implica sempre la scoperta del
negativo: il mondo del mito è anche un mondo di violenza, morte,
distruzione. Così il viaggio alla fine fallisce: si ritorna per ripartire di nuovo
e definitivamente. Pur con la sua parte di orrore, comunque, il mito è una
fuga dalla storia: la violenza del mito è finalizzata, ha una ragione
ontologica (nella natura non c’è vita senza morte), mentre la violenza della
storia non è giustificabile.
I miti di Fenoglio sono più semplici: sono quelli imparati a scuola
(attraverso i poemi omerici innanzitutto). A Fenoglio non interessa capire
che cos’è il mito e come funziona, ma riattualizzare i miti antichi – o
crearne di nuovi – per innalzare l’esperienza quotidiana a livello assoluto ed
esemplare: Johnny, ad esempio, è fatto diventare una sorta di supereroe
della storia occidentale, un novello Ettore; il partigiano insepolto richiama il
mito di Antigone; la battaglia di Valdivilla è assurta al rango delle
Termopili, e così via.
Il confronto Pavese-Fenoglio si appunta infine sul mito specifico di
Ulisse. Ne La luna e i falò Anguilla è un Ulisse apparente, che fallisce sia
nella fuga in America sia nel ritorno a Santo Stefano Belbo: alla fine gli
resta solo la consapevolezza di non poter avere un’identità e di non potersi
integrare. Nella Malora, invece, Agostino è un Ulisse autentico, seppur in
1
Programmata per il 10 marzo 2010, la lezione, a causa di diversi impedimenti, è
stata poi rinviata al 12 maggio 2010.
57
minore: dopo l’esperienza negativa al Pavaglione, torna a casa consapevole
delle proprie radici e della propria identità. La luna e i falò si conclude con
una ripartenza definitiva e senza meta; La malora, con l’immagine
dell’albero che dopo l’inverno riprende vita e ributta le gemme.
***
Il binomio Pavese-Fenoglio è poco plausibile, nonostante sia
continuamente riproposto, vista la profonda diversità fra i due autori,
al di là di alcune superficiali consonanze. Fra i temi che li
accomunano e, proprio per questo, possono attestarne la diversità, il
più significativo forse è quello del mito. Qual è l’atteggiamento di
Pavese e di Fenoglio nei confronti del mito? Per rispondere a questa
domanda, il relatore richiama le tre principali teorie sul mito fiorite
in Europa tra secondo ’800 e primo ’900: quella della scuola
antropologica britannica (la teoria intellettualistica di Edward Taylor,
per la quale il mito è la spiegazione inadeguata della realtà prodotta
dall’uomo primitivo), quella evoluzionistica di James Frazer (nella
storia dell’umanità, il mito rappresenta il primo modo per capire il
mondo, seguito dal tentativo di modificare la realtà attraverso la
magia, quindi dalla religione degli dèi e infine dall’età della ragione
e della scienza) e quella della scuola etnologica tedesca (Karol
Kerenyi e Leo Frobenius, per i quali il mito esprime l’energia
primaria dell’uomo a contatto con la natura, prima che la ragione lo
cambi e lo snaturi). In particolare Pavese è influenzato dal testo di
Frazer (Il ramo d’oro, letto, postillato e pubblicato a sua cura nella
“Collana viola” di Einaudi); fondamentale per Pavese l’idea della
necessità di uno studio comparativo dei miti al fine di capirne il
significato ultimo ovvero di ritrovare gli archetipi che accomunano i
miti di ogni luogo e tempo; ma Pavese è influenzato anche da
d’Annunzio, dall’ultimo Pirandello, da Bontempelli, da Nietzsche e
soprattutto da Vico: si può dire che sovrapponga il pensiero di Vico
all’evoluzionismo di Frazer.
Pavese ha una visione regressiva del mito. Il mito è la forma di
cultura del passato, è l’infanzia dell’individuo e dell’umanità. Le
cose che davvero contano sono quelle viste per la prima volta.
Dunque bisogna tornare indietro. All’opposto delle religioni positive
(che sono “progressive”), il mito va all’indietro: punta al recupero
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della spontaneità originaria, della visione primigenia del mondo
(dell’umanità primitiva, dell’infanzia). Inoltre è ripetitivo: produce
archetipi che si ritrovano in diverse culture. In tutti i romanzi di
Pavese (si potrebbe dire che egli scriva sempre lo stesso libro) c’è un
tentativo di ritorno al passato, configurato come viaggio di fuga dalla
città alla campagna e/o di riscoperta dei luoghi d’origine. Così è per
Berto, protagonista del primo romanzo di Pavese, Paesi tuoi, come
per Anguilla de La luna e i falò, l’ultimo romanzo. Berto si
trasferisce a Monticello perché è convinto che le Langhe siano un
mondo incorrotto, dove si può ritornare alla condizione primitiva
dell’uomo, comunicare col mondo e con la natura, ritrovare la
purezza originaria. L’unione sessuale con la donna è il simbolo e il
tramite dell’incontro con il mondo, con il tutto: non a caso il primo
rapporto tra Berto e Gisella è rappresentato con significativi tratti
dannunziani (del d’Annunzio pànico di Alcyone). Ma un imprevisto –
la scoperta di una ferita sul corpo di Gisella, procurata da un attrezzo
agricolo – rompe l’incantesimo, rivelando la presenza del male, della
violenza: Gisella, come si saprà, ha subito violenza dal fratello, è
vittima di un incesto, ha perso la purezza. Dunque quel mondo non è
il paradiso sognato: è fatto anche di violenza, morte e distruzione.
Nel mondo del mito non ci sono soltanto dèi apollinei ma anche
divinità ctonie. Pavese allude al mito greco del rapimento di
Persefone, al rapporto incestuoso tra Ade e Persefone e soprattutto
tra Posidone e Demetra (fratelli, come Talino e Gisella). Gisella
finisce uccisa da Talino, che le pianta un tridente in gola, il giorno
della trebbiatura, in un anno di scarso raccolto: come una vittima
propiziatrice (Pavese prende da Frazer anche l’idea che tutti i miti,
alla fine, siano miti di fertilità; si veda anche, ne La luna e i falò, la
morte di Santa, uccisa dai partigiani perché sospettata di doppio
gioco e bruciata, in abito bianco, sui sarmenti di vite, in una terra
magra che però è rigogliosa nel luogo del rogo). Dunque il viaggio di
Berto sfocia nella scoperta inaspettata della violenza e della
distruzione. Tutti i viaggi pavesiani alla fine sono fallimentari. Il
ritorno è sempre problematico e terribile: si ritorna per ripartire di
nuovo e definitivamente. Lo schema è: ritorno > scoperta inaspettata
> fuga.
In Pavese c’è anche l’idea che il mito, pur con la sua parte di
orrore, sia una fuga dalla storia (questo lo prende in particolare da
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Kerenyi). La storia è una sequenza di orrori. Pavese ne ha paura. Non
ha strumenti per un’analisi storico-politica: perciò non capisce a
fondo la storia contemporanea. Fugge dalla storia attraverso il mito.
La violenza del mito, almeno, è finalizzata, ha una sua ragione
ontologica (nella natura non c’è vita senza morte), mentre la violenza
della storia non è giustificabile. Il mito giustifica ciò che sul piano
storico non è giustificabile: offre dunque una spiegazione ed un
conforto.
In Fenoglio la teoria del mito è più semplice, ingenua, di tipo
scolastico. I suoi miti sono quelli imparati a scuola, sui libri di testo
(i poemi omerici innanzitutto). A Fenoglio non interessa capire che
cos’è il mito e come funziona, ma ricreare, riattualizzare i miti
antichi – o crearne di nuovi – per innalzare l’esperienza quotidiana a
livello assoluto ed esemplare. Johnny è una sorta di supereroe della
storia occidentale, un novello Ettore; nel Partigiano Johnny e nelle
altre opere resistenziali si ritrovano i modelli di vari eroi omerici,
come il mito di Antigone (l’eroe insepolto) o quello della battaglia
delle Termopili (applicato alla battaglia di Valdivilla, del ’45: uno
scontro modesto, che Fenoglio trasforma in un evento bellico
capitale, con i partigiani protagonisti di un’eroica e sfortunata
resistenza).
Il confronto Pavese-Fenoglio si appunta infine su un mito
specifico: quello di Ulisse. Ne La luna e i falò Anguilla è in
apparenza un Ulisse che parte dalla sua Itaca (Santo Stefano Belbo)
alla scoperta del mondo. Ma in realtà è un senza patria (è un
bastardo, non sa l’origine dei propri genitori) e il suo viaggio non è
un’anabasi ma una catabasi (non è in cerca di esperienze, ma della
propria identità). Va in America alla ricerca della terra-madre, della
terra primitiva e incontaminata (l’America sognata da Anguilla è
quella dell’Inno ai Patriarchi di Leopardi: …fra le vaste californie
selve / nasce beata prole), di un altrove che gli consenta di fuggire
dal chiuso del paese. Ma l’America che scopre è una delusione: non
selvaggia e primitiva ma popolata di contadini (magari di origine
piemontese), più civilizzata delle Langhe e piena di violenza; fin che
può, spinge sempre un po’ più in là la frontiera, finche giunge a San
Francisco e di fronte all’oceano, come l’Alexandros di Pascoli,
capisce infine che il viaggio è stato inutile (“quelle stelle non sono le
sue”). Non gli resta che tornare indietro, con la consapevolezza di
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non poter avere un’identità, di non potersi integrare; il mondo di
Santo Stefano, per altro, al suo ritorno è completamente cambiato.
Nella Malora Agostino è costretto ad andar via di casa, ma per
necessità, non per scelta come Anguilla: il padre lo manda a lavorare
come servo alla cascina del Pavaglione (interna alle Langhe, non
esterna e lontana come l’America di Anguilla). Lì vive molte
esperienze negative: incontra il dolore (si ammazza di lavoro, mangia
poco e male), l’amore (il rapporto con Fede, che però deve sposare
un altro), la morte (l’impiccato putrefatto). Il suo è un viaggio di
esperienza: parte inconsapevole e alla fine, quando torna a lavorare
la terra di casa sua, “ha capito”. Il suo ritorno è davvero come quello
di Ulisse ad Itaca. La sua storia è un Billdungsroman. All’opposto, il
fratello Stefano, che è stato militare a Oneglia, torna senza più voglia
di restare e di lavorare, e farà la fine di Anguilla. Agostino non
riparte più, per non tradire – come dice – la memoria di suo padre.
Ha trovato le radici, l’identità, la sua Itaca. Perciò nella Malora non
c’è disperazione; si veda l’immagine finale dell’albero che alla fine
dell’inverno riprende vita e ributta le gemme.
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La lezione di Valter Boggione
(12 maggio 2010)
Indice
I Mercoledì letterari al Redemptoris Mater…………... p. 5
Giorgio Bárberi Squarotti, Il Novecento letterario
italiano…………………………………... p. 9
Gian Giacomo Amoretti, La grande poesia ligure
del ’900: Sbarbaro, Montale, Caproni….. p. 13
Alberto Beniscelli, Letture montaliane…………….… p. 25
Francesco De Nicola, Il neorealismo nella letteratura
italiana del Novecento………………….. p. 33
Luigi Surdich, Dante nella poesia del Novecento…… p. 39
Valter Boggione, Il mito in Pavese e Fenoglio………. p. 57
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Finito di stampare
nel mese di ottobre 2010
presso la Tipolitografia F.lli Stalla di Albenga
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Mercoledì letterari 2009-2010 - Centro Scolastico Diocesano