SENTIRE A SCOLTARE o n l i n e m u s i c magazine FEBBRAIO N.16 Liars Ca s t a n e t s Super N u m e r i Zu Belle and Se b a s t i a n Be t h O r t o n David Thomas Br o u g h t o n Julie’s H a i r c u t Songs F o r U l a n To y Gu r u G u r u Er i k S a t i e Sa m R a i m i Marina Ab r a m o v i c Mark Stewart sentireascoltare in copertina Mark Stewart SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore Edoardo Bridda Direttore responsabile Ivano Rebustini Provider NGI S.p.A. Copyright © 2006 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare sommario 20 4 News 8 Speciali Castanets, S u p e r N u m e r i , Z u , L i a r s , Mark Stew a r t 34 Recensioni Belle and S e b a s t i a n , B e t h O r t o n , Ta l i bam!, Cesa r e B a s i l e , To y … 5 9 Dal vivo Club to Clu b , A m a r i , R i o t M a k e r, J o h n Cale 62 Rubriche 34 We Are De m o N e t h e r w o r l d , 2 g e n i a l idiots, Tutt u n o c o n l a m a c c h i n a … Classic Ma n i N e u m e i e r – G u r u G u r u , Steely Dan , C p t . B e e f h e a r t … Note a Mar g i n e A W O P L O P. . . I cosiddett i c o n t e m p o r a n e i E r i k S a t i e Cinema Sa m R a i m i , M u n i c h , M e a n d You Arte Marin a A b r a m o v i c Cose dell’a l t r o m o n d o J a g a C h a n g Collective, I l C i o c c o l a t o F a t a l e . . . Direttore Edoardo Bridda Direttore responsabile 61 Ivano Rebustini Coordinamento Antonio Puglia Stefano Solventi Staff Valentina Cassano Daniele Follero Teresa Greco Hanno collaborato Gianni Avella, Silvia Bifaro, Nicola Bonardi, Marco Braggion, Roberto Canella, Antonello Comunale, Andrea Erra, Lorenzo Filipaz, Paolo Grava (aka Neon Eater), Manfredi Lamartina, Emmanuele Margiotta, Marina Pierri, Stefano Renzi, Michele Saran, Mimma Schirosi, Gianluca Talia, Fabrizio Zampighi Guida spirituale 77 Adriano Trauber (1966-2004) Grafica Paola Squizzato, Squp, Edoardo Bridda sentireascoltare news a cura della redazione In un’intervista concessa a Pitchfork, Jason Lytle dei Grandaddy ha rivelato che Just Like the Fambly Cat, il prossimo album della band di Modesto in uscita il 9 maggio su V2, sarà anche l’ultimo... Due membri dei Weezer sono stati scelti per interpretare Lou Grandaddy Reed (il chitarrista Brian Bell) e John Cale (il batterista Patrick Wilson ) nel film in lavorazione Factory Girl, del regista G e o r g e H i c k e n l o o p e r, d a l l ’ o m o n i m a b i o g r a f i a d i E d i e S e d w i c k . I due hanno registrato una versione di Heroin per l’occasione. S a r c a s t i c o i l c o m m e n t o d i L o u R e e d , i n t e r v i s t a t o d a l N e w Yo r k Daily: “Ho letto la sceneggiatura: una delle cose più disgustose che abbia mai visto, non c’è limite alla voglia di fare soldi in qualsiasi modo”... To m Ve r l a i n e p u b b l i c h e r à d u e a l b u m i n a p r i l e p e r l a T h r i l l J o c key: Songs and Other Things e Around (strumentale)... In uscita in marzo per la ReR un Box in edizione limitata dei This Heat, contenente i loro cinque dischi in edizione rimasterizzata più un cd di materiale inedito, e un libretto con interviste e foto. I dischi usciranno in seguito singolarmente nel corso del 2006, la data ufficiale non è stata ancora annunciata... N u o v o a l b u m i n a r r i v o p e r R i c h a r d D J a m e s , a k a A p h e x Tw i n , a distanza di cinque anni dal precedente lavoro in studio Drukqs. Chosen Lords uscirà ad aprile con il moniker AFX e per la sua propria etichetta, la Rephlex… M e n t r e l a b a n d è a n c o r a i n s t u d i o , t r a B r i s t o l e N e w Yo r k , p e r registrare il quinto album Weather Underground, è stata annunciata per il 27 marzo l’uscita di una raccolta, Collected, che documenta la storia dei Massive Attack da Blue Lines a 100th Window. Il greatest hits sarà preceduto dalla pubblicazione del n u o v o s i n g o l o L i v e W i t h M e ( c o n Te r r y C o l l i e r a l l a v o c e ) , p r e vista per il 13 dello stesso mese. Inoltre, un nuovo membro è i n p r o c i n t o d i u n i r s i a l l a b a n d d i B r i s t o l . S i t r a t t a d i To w n C r i e r dei Gloucester… Novità in casa Fiery Furnaces da parte di Matthew Friedberg e r, c h e s t a r e g i s t r a n d o p e r l a n u o v a e t i c h e t t a 8 5 9 R e c o r d i n g s due dischi da solista per l’estate. Resa inoltre nota la data di uscita del prossimo album del duo, Bitter Tea: 18 aprile. Non sentireascoltare Rough Johnny Marr impegnatissimo: Possum, al lavoro al secondo disco del- con cui l’etichetta ha stretto la sua band The Healers, sta un accordo… scrivendo alcune canzoni con sarà pubblicato Trade ma dalla dalla Fat Walker completato il ha finalmente se; starebbe inoltre lavorando nuovo di- al nuovo album di Lisa Ger- sco, il primo per la 4AD, dal suo mano, In The Maybe World su titolo uscirà Yo u n g G o d , i n u s c i t a p r o b a b i l - documentario mente a maggio. Il chitarrista sull’artista, 30 Century Man, è anche reduce di una - sep- che include il making del di- pure parziale - reunion degli sco, diretto da Stephen Kijak, Smiths : il 29 gennaio scorso, uscirà nel 2006… in occasione del festival Man- in Drift, The maggio. Un che chester vs Cancer organizzato Whatever People Say I Am, da Andy Rourke, quest’ultimo That’s Why I’m Not degli Arc- ha tic Monkeys potrebbe diven- e tare il debutto più velocemen- suonato There Is A Light That te venduto in assoluto, nella Never Goes Out e How Soon storia delle classifiche, dopo Is Now. E Morrissey? Intanto aver o r g a n i z z a i l s u o t o u r. M a g a r i venduto 120.000 copie in un solo giorno. When The raggiunto la sua sul band. palco I due Marr hanno con qualche sorpresina… uno della classifica dei singo- Dopo cinque anni ritornano i li più venduti del Regno Unito, B u i l t To S p i l l c o n u n n u o v o m e n t r e i l p r e c e d e n t e I B e t Yo u disco, Look Good On The Dancefloor u s c i r à l ’ 11 a p r i l e s u Wa r n e r, è ancora al ventitreesimo po- autoprodotto dalla band, sen- sto… za l’apporto dello storico pro- In Reverse, che ducer Phil Ek… Gla- Esce il 4 aprile su cd e dop- stonbury sarà nelle sale cine- pio vinile la compilation The matografiche a partire dal 14 D FA R e m i x e s - C h a p t e r O n e , aprile. Il video è frutto di un su lungo lavoro del regista che tion di rari remix del duo Mur- ha collezionato e montato le p h y / G o l d s w o r t h y, immagini delle ultime quattro laz ai Soulwax, dai Chemikal edizioni del festival, inseren- Brothers ai Radio 4. La secon- doci anche immagini d’archi- da parte è prevista per la fine vio degli anni 70. Il film sarà dell’estate… sul presentato Festival di D FA / A s t r a l w e r k s , dai collecGoril- Festival e parteciperà alle se- In lezioni del festival del cinema promozione del suo disco On di Berlino. Tra le “comparse” An Island, in uscita il prossi- f i g u r a n o : Ve l v e t U n d e r g r o u n d , mo 7 marzo, David Gilmour ha Nick Cave And The Bad See- ufficialmente smentito le voci ds, Alabama di un tour dei Pink Floyd. Ha 3, Billy Bragg, Cypress Hill, anzi sottolineato che il Live 8 Scissor Sisters, Radiohead e è stata solo un’eccezione, il David Bowie... canto del cigno del pregiato Primal Scream, recente Non voglio più lavorare tanto. È un’importante parte della mia memoria, ho avuto enormi soddisfazioni, ma adesso basta. È molto più confortevole lavorare per conto mio”... Resa nota la ricca line-up del Coachella Festival, che si California; tra i partecipanti: Depeche Mode, Franz Ferdi- n a n d , S i g u r R o s , C a t P o w e r, Animal Collective, Devendra Banhart, Scissor Sisters, Mogwai, Coldcut, Dungen, Wolf Jamie Hands Say Parade, Lidell, Clap Ye a h , Bloc P a r t y, T h e Z u t o n s … Cat Power ha cancellato l’intero tour americano (che sarebbe dovuto partire l ’ 11 febbraio da Memphis) come rip o r t a t o d a l l a M a t a d o r, p e r m o tivi di salute. Previste invece le date europee, Londra e Parigi in marzo, il Coachella in aprile e il Bonnaroo Festival al Sundance Film una avuto abbastanza. Ho 60 anni. Yo u r Il film documentario di Julien Te m p l e marchio PF: “Penso di averne svolgerà il 29 e il 30 aprile in Sun Goes Down è al numero You Scott Walker Isaac Brock dei Modest MouScott intervista in in giugno… I Radiohead saranno tra gli headlines al Bonnaroo Festiv a l i n Te n n e s s e e , t r e g i o r n i d i musica a partire dal 16 giugno; alcuni tra i partecipanti: Beck, Elvis Costello & The Imposters, Death Cab for Cutie, Bright Eyes, My Morning Jac- sentireascoltare k e t , C a t P o w e r, G o m e z , S t e p h e n M a l k m u s & t h e J i c k s , D r e s d e n D o l l s , C l a p Yo u r H a n d s S a y Ye a h , D e v e n d r a B a n h a r t B a n d , S e u Jorge, Dungen, Andrew Bird... Il festival danese di Roskilde, considerato il primo grande raduno dell’estate, ha già tre nomi di punta: Franz Ferdinand, To o l e K a n y e W e s t … Cat Power I Dinosaur Jr stanno scrivendo nuovo materiale per un nuovo disco; intanto hanno annunciato nuove date, tra Giappone, Australia, Nuova Zelanda e America a partire da fine febbraio… E’ morto a Londra il 9 febbraio, a 61 anni, Elton Dean, sassofonista leggenda della scena jazz inglese e membro dei Soft Machine… I l 1 4 m a r z o u s c i r à l a r i s t a m p a d i S o n i c Yo u t h , l ’ E P c o n c u i l a band debuttò. Saranno presenti delle bonus tracks: 7 pezzi live risalenti al settembre 1981 e un demo di I Dreamed A Dream (Where The Red Fern Grows). Il nuovo disco previsto per giugno ha come titolo provvisorio Do You Believe In Rapture?… News dalla Unhip Records: Andrea Pomini ha lasciato i Disco Drive; intanto il video di All About This diretto dal videomaker N i c o Va s c e l l a r i ( W i t h L o v e ) è p r o n t o e s i p u ò v e d e r e d a l s i t o , un nuovo EP dei DD è in fase di missaggio e uscirà in primavera (le date italiane di febbraio e marzo sono state annullate). Egle Sommacal prosegue le registrazioni del suo esordio solista, che dovrebbe uscire per l’estate, sul sito un assaggio di quello che potrebbe essere… A distanza di soli dodici mesi dal debutto discografico The Swindler, i Super Elastic Bubble Plastic sono in studio per la produzione del loro secondo album, sempre con la supervisione artistica di Giulio Favero, e la cui pubblicazione è prevista per la prossima primavera. Al termine delle sessioni di registrazione, il gruppo partirà per breve tour in Olanda e Belgio insieme alle band locali Sport Doen e Drivin Dead Girl… Anton Corbijn ha reso noto il cast del film che sta girando su I a n C u r t i s , c h e s a r à i n t e r p r e t a t o d a S a m R i l e y, m e n t r e S a m a n tha Morton sarà la moglie Deborah. Il film è tratto dal libro To u c h i n g F r o m A D i s t a n c e d e l l a C u r t i s … I l r i t o r n o d e i B l a c k H e a r t P r o c e s s i o n : u s c i r à l ’ 11 m a g g i o i l n u o v o d i s c o , T h e S p e l l , s u To u c h A n d G o … In occasione del venticinquesimo anniversario dall’uscita, la Nonesuch pubblicherà, il 28 marzo, il classico My Life In The Bush Of Ghosts della coppia Byrne-Eno, in un’edizione rimasterizzata, con 7 bonus tracks e una nuova copertina… sentireascoltare Michael Stipe ha registrato sei versioni di In The Sun di Jos e p h A r t h u r, d i s p o n i b i l i d a l 6 f e b b r a i o s o l o s u i Tu n e s , p e r r a c cogliere fondi per le vittime dell’uragano Katrina. Partecipano Chris Martin e Joseph Arthur stesso… Nuovo disco per Bob Dylan, che ha cominciato a registrare i pezzi in uno studio di Manhattan nella prima settimana di feb- Altre news dai festival. I Franz Ferdinand sono i primi headli- Ian Curtis braio… n e r s a n n u n c i a t i d e l Tr a f f i c To r i n o F r e e f e s t i v a l 2 0 0 6 , d a l 1 2 al 15 luglio. Gli scozzesi saliranno sul palco il 14 luglio. Dopo dEUS, Coldcut, Depeche Mode e Babyshambles, arriva l’adesione di Morrissey al Festival di Benicassim a luglio… Anticipazione live: gli Arctic Monkeys in Italia a maggio, il 12 a l Vo x d i N o n a n t o l a ( M O ) e i l 1 3 a M i l a n o , a l R o l l i n g S t o n e ; i Belle And Sebastian il 24 maggio a Milano al Rolling Stone, al Vo x i l 2 5 … Dopo aver fatto spaventare i fan dei Coldplay con frasi poco entusiasmanti sul futuro della band, Chris Martin comincia una serie di collaborazioni. La prima sarà un’apparizione nel terzo album, di prossima uscita di Nelly Furtado, Loose. Si rumoreggia anche una collaborazione con Kayne West. Staremo a vedere… In attesa dell’uscita di The Beast (6 Marzo) i Mogwai stanno lavorando alla colonna sonora di un film dedicato alla vita del calciatore francese Zinedine Zidane. Che ambiziosi… Doveva uscire a dicembre. Poi è stato posticipato a febbraio. Ma bisognerà aspettare ancora un paio di mesi (almeno) l’ultimo album degli Outkast Idlewild, colonna sonora del film del duo… sentireascoltare speciale Castanets Oscillazioni da narcosi psichedelica di Mimma Schirosi L’Asthmatic Kitty Records illumina la penombra di un nuovo cantore del disagio e dello straniamento da provincia americana: dalla comune di San Diego, Raymond Raposa e i suoi flash di lisergica memoria, dal dilatato esordio con Cathedral alla prossima pubblicazione degli appunti di viaggio registrati tra una fermata e l’altra del Greyhound Bus, in lungo e in largo per gli States, passando attraverso l’incursione elettronica di First Light’s Freeze. D e railed P s ych-Countr y Un embrione che si rigira al rallentatore nel liquido amniotico, uno sguardo impressionato dal sole sino a strizzarne gli occhi, una distesa e lisergica canzone di passione, un interno frugale e fumoso, una calma saggia di cent’anni, una freakedelia inconsapevole, una riflessione a voce bas- sentireascoltare sa sul guardato e percepito, mai troppo rumore per nulla: i piccoli universi paralleli/gemelli che Castanets, nell’apparentemente mite persona di Raymnond Raposa, apre come illusioni ottiche di colori talvolta carichi, talaltra appena accennati e sfumati con le dita. Il trip comincia a San Diego, agli albori del nuovo millennio, dinanzi al quale ci si pone straniati, fuori tempo, seduti ad osservare, piuttosto che a viverne i ritmi accelerati e senza precisi perché. Raposa, spirito peculiare ed essenziale, dopo una breve carriera scolastica, interrotta a quindici anni, trascorre i successivi quattro a girovagare per gli States attraverso il Greyhound Bus, descrivendo scene di quotidiano grigiore americano, sintomatiche di una civiltà contenente micro- storie di invisibili infelicità, taciute all’altro e custodite in sé, per trarne malinconiche visioni di uccelli migratori. Il progetto Castanets è una girandola di sedici musicisti, sorta di collage di cui ogni ritaglio è una figura già nota alle cronache per i trascorsi in altri, prestigiosi percorsi: la triade Black Heart Procession, Pinback, 3 Mile Pilot, come anche Rocket from the C r y p t , Tr i s t e z a … L’ i n t r e c c i a r si delle esperienze, l’estemporaneità dell’ispirazione, la possibilità di andarsi a sedere liberamente su rive oceaniche, generano sonorità originali e attraversate da diversi accenti, ognuno dei quali indicatore di stati d’animo mutanti come le stagioni, in un divenire dinamico, ma felpato, mai urlato. Raposa definisce “derailed psych-country” il genere coniato; andando a scomporre in singoli fattori e cercando di attualizzare il concetto, ci si trova di fronte ad una base c o u n t r y, d i l a t a t a s i n o a l l a n a r cosi psichedelica ed appro- dante ad una sensazione di smarrimento nelle maglie del tessuto sonoro, una sorta di viaggio morbido nell’Io cullato e attraversato da impercettibili correnti d’aria. Nell’autunno 2004, l’Asthmatic Kitty Records - già forte della scoperta Sufjan Stevens -, resasi conto d’essere di fronte a un nuovo miracolo, pubblica Cathedral, visionario esordio di Raposa assieme ai suoi compagni di San Diego. La voce è impastata, matura, tendente al basso, quasi a non voler aggredire l’ascoltatore, piuttosto animata dall’intento di porre con gentilezza e riservatezza le proprie storie e malinconie. I toni di apertura si dilatano in oniriche immagini percepite in lontananza, focalizzate in uno stato psichico, in alcuni passaggi, vicino all’estasi (Cathedral 2); la padronanza totale del sé assume, invece, sfumature dylaniane, nel rappresentare accostamenti apparentemente improbabili, ma indicativi di meccanismi sociali stranianti ( I n d u s t r y a n d S n o w ) . Yo u a r e My Blood regala un gioiellino emozionante ed arcaico che si apre con toni marziali alla Venus in Furs, cadenzandosi lentamente per poi chiudersi tra rumori di fondo prodotti in penombra. Mentre autunnali frammenti di desolati sentire producono la sottile assenza raccontata, alla maniera di Leonard Cohen in No Light to Be Found. La ballata country A s Yo u D o t r a s u d a u n a d o l cezza intervallata da aperture psichedeliche così tanto intrecciate alla base, da occuparne ogni spazio, rendendo il tutto evanescente psychicblues, giocato sull’alternanza tra voce maschile/femminile. Chiusura luminosa di un sole nel suo punto più alto è Cathedral 4. (7.5/10). La frugalità e l’essenzialità di Cathedral, pur restando delle costanti di fondo nella scrittura di Raposa, vengono rimpinguate di nuove sonorità, prodotte con l’utilizzo di tastiere, sassofoni e drum-machines, nel tentativo di inscrivere sentireascoltare il trait d’union tra vecchio e nuovo. Questo trait d’union si chiama First Light’s Freeze, e profonde il suo primo bagliore nel 2005. L’ a t t e g g i a m e n t o di Raposa resta identico, tipico del vivere in un determinato contesto avvertendone un costante senso di ovattamento, a volte più sottile, pertanto non compromettente la volontà di affrontare il quotidiano con realismo, a volte prepotente al punto di indurre al rifugio nelle proprie capsule protettive: immagini, sogni, rive oceaniche che siano. La copertina del disco descrive quest’ambivalenza con una spirale psichedelica che, nella sua concentricità, pare racchiudere tre elementi: luce, acqua, terra…contaminata, quest’ultima, da ingerenze aeree, in sostituzione del fuoco, dimensione della non-appartenenza. Dopo l’opalescente intro strumentale (The Waves are Roll i n g B e n e a t h Yo u r S k i n ) , a p r e la lentezza cosmica di Into the Night, i cui silenzi vengono riempiti da una chitarra incentrata su di sé, seguita dalla terrestre A Song is Not Song of the World, a tradire i primi inserti di elettronica.Il folk vulnerabile e rammaricato di Cathedral si fa risentire nella delicata Bells Aloud, cantata seduto dinanzi a un pubblico ristretto e definitivamente rapito dall’evanescenza della title-track, sempre bramata ma di utopica realizzazione. L’ e l e t t r o n i c a u t i l i z z a t a i n q u e - 10 sentireascoltare sto disco pare, a tratti, pulsare di un impalpabile battito Eno, nell’impianto sonoro che fa da sfondo al cantato riverberato di No Voice Was Raised, sorprendente pot-pourri che arriva a chiudere addirittura in crescendo chitarristico distorto. Sul finire, lo sguardo, protetto dal sole con una mano, sale a guardare ed ascoltare il richiamo all’ordinato volo degli angeli/gabbiani (Reflecting in the Angels). (7.0/10) La breve parabola sembrerebbe chiudersi così, ma l’etichetta, fiutato il potenziale qualitativo, va a ripescare nel pre-Cathedral e scova un CdR, sorta di diario di viaggio scritto e registrato nei quattro anni di vagabondaggio bohemien sul Greyhound Bus: come in un percorso a ritroso, si impegna a ripubblicarlo nel corso del 2006, malgrado la rete abbia già premuto il tasto “share”. What Kind of Cure è un essenziale scrigno lo-fi, dotato del minimo indispensabile per proiettare immagini sui soffitti delle proprie camerette, nei momenti di stand by dall’ordinario/giornaliero. Raposa vi appare più che mai raccolto in sé e in una fase di osservazione non-partecipata, come spettatore silenzioso ed inerte. Sul tutto aleggia nemmeno troppo nascosto lo spirito dei Black Heart Procession, quasi a dichiarare volutamente il grembo natale; sensazione che trova confer- ma sin dall’inizio (Metal on Tr a c k s ) , a p e r t u r a s c a r n a d i voce e chitarra che, nel mezzo lasciano entrare un cadenzato dialogo basso/batteria. Non si nega una strizzatina d’occhio al soul-country dell’animella triste Chris Isaak, qui rimembrato non tanto per similitudine vocale, quanto per tenebrosi passaggi noir (Heaps of Wheat); lo smarrimento che, ferito, si pone domande scandite lentamente per ricevere da se stesso le giuste risposte, caratterizza If the Raft Holds dalla chitarra sfiorata ed appoggiata ad un’armonica in penombra. Il vento soffia in sottofondo nel rapimento mistico e incantato di Crops of Crosses, sciolto nella muta p r e g h i e r a d i M a k e r, M a k e U s New. E pare lecito, dopo aver abbondantemente sciorinato ogni dubbio ed incredulità circa il mondo ed i suoi paradossi, chiudere con l’interrogarsi della title track: tra le infinite possibilità, qual è la cura più efficace per lenire le ferite del vivere? (6.5/10) speciale Super Numeri The First League Of (prog) Angels di Gianni Avella Si può parlare di progressive rock nel 2006? La musica degli inglesi Super Numeri è un ritorno - più o meno - inaspettato a quelle sonorità, che non manca di strizzare l’occhio a Miles Davis, Coltrane e i Can. s e n t i r e a s c o l t a r e 11 rillion, ma occhio alla meteora Cardiacs..), continua a rigenerarsi in nuove ed affiatate prospettive: Urdog, Mars Vo l t a , T v O n T h e R a d i o , P a t tern Is Movement, Field Music sono più che semplici dettagli; la loro forma canzone, il loro modus operandi vive nella (della) necessità di sovvertire le regole della pop music, proprio come insegnato dai maestri “dinosauri”. Parlare di progressive-rock nel 2006: follia o raziocinio? La seconda. Sì, perché il prog-art-rock, alla faccia di chi lo smentisce, gravita a mo’ di feticcio intorno a molte delle teste musico-pensant i o d i e r n e . L’ u s c i t a d e l n u o vo act dei Super Numeri, The W e l c o m e Ta b l e , f a s ì c h e l a mente viaggi a ritroso sino alla pagina anni’70; quella dei ricordi mai sopiti, delle suite, dei nostalgici inguaribili. Quella di… James “Lcd Sound s y s t e m / D f a ” M u r p h y, c h e i n dossa fiero e gladiatorio una t - s h i r t c o l l o g o Ve r t i g o ( c e lebre marchio lanciato dalla Phonogram negli anni ’70 dedicato esclusivamente al prog e art-rock) nel video di Daft P u n k I s P l a y i n g . . . e A n d y Vo t e l , c h e n e l s u o Ve r t i g o R e m i x taglia, cuce e combina groove pescati dal catalogo della stessa label. Tutti segnali - gli ennesimi – di un fascino mai estinto per le pratiche progressive-rock, di una fede nascosta in molta musica “che conta” (vedi alla voce postrock, vedi certe wave odierne e non per non dire delle ultime sperimentazioni in campo hard-core) eppure mai celebrata coi dovuti crismi, o comunque spesso evitata come termine di paragone. Ciò nonostante, il progressive rock, dopo il vistoso calo in epoca punk e qualche pessima rinascita nella prima metà degli ’80 (ci perdonino i Ma- 12 sentireascoltare Su questa scia si collocano gli inglesi Super Numeri, gruppo di tredici elementi messo su da Pop Levi (tastiere, piano e l e t t r i c o , v i b r a f o n o , s i t a r, c l a rinetto percussioni e farfisa), Snap Ant (basso, kalimba) e Mark Webb (chitarra, sassofono soprano, viola e tastiere): sono loro l’ossatura di un gruppo nato sì nella città dei Beatles, ma per una volta tanto – finalmente- non si tirano in ballo i baronetti poiché il sound del gruppo, qualora necessiti di un eventuale parallelismo con la città di Liverpool, sembra condurre dritti al capitolo sei (cioè quello dedicato ai Can) di Krautrocksampler, il libro culto sui corrieri cosmici redatto dal liverpooliano DOC Julian Cope nel 1995; iperbole necessaria e non peregrina, quella del Cope “cosmico” scrittore e la musica dei Super Numeri, visto che il sound espresso dai nostri è una crosta tardo-kraut-prog nel moderno terzo millennio, una prospettiva hi-tech dei Can acculturati di Future Days e del jazz Davis-iano (versante elettrico) e Coltrane-iano (versante Alice); dei King C r i m s o n d i L a r k ’ s To n g u e s i n Aspic sino alla ritmica tesa e dilatata dell’afro-funk, senza dimenticare certe geometrie post-rock “elettrificate” (dic i a m o m e t à To r t o i s e m e t à S a vath & Savalas). Gruppo nato per infiammarsi nella resa live (si leggano le testimonianze dei loro concer- ti), i Super Numeri su disco non potevano avere altro logo se non quello della Ninja Tune, label-feticcio di new- elettronica che non si nega excursus prog “camuffati” come l’avant h i p - h o p d e i S i x t o o , A m o n To bin (uno digitale in superficie ma prog nell’animo) e Jaga Jazzist (ora Jaga), compagine che condivide coi Super Numeri molto più che la semplice appartenenza a quella famiglia Ninja che pubblica, nel 2003, The Great Aviaries. Presentato come “un viaggio psichedelico tra il Miles Davis elettrico e Can”, il disco dopo la partenza new-age da salotto zen di The Electric Horse Garden, rispetta appieno le premesse di cui sopra, passeggiando alacremente in quel limbo soggiornante tra psichedelica prog (l’andazzo krauto di When The Sundials con tanto di fraseggi retro-funk da spymovie settantiano) e spezie tardo jazz-funk (la chitarra à la John McLaughlin – ma anche un po’ Robert Fripp - nel trip davisiano di Beaks). La musica dei Super Numeri si gode l’intesa basso/batteria proprio come le migliori compagini d’una volta, solo che a tratti (diversi tratti e per nulla disprezzabili) pare di ascoltare una versione “purgata” del Photek di Modus Operandi suonato a 78 giri; la battuta secca e oppiacea di Leisure Lakes, la delicatezza visionaria di The Ember Love (con tocchi d’arpa molto Alice Coltrane), il tema di Classic British Ponds (che piacerebbe tanto a Scott “Savath & Savalas” Herr e n q u a n t o a i To r t o i s e ) v i v o no nel basso profondamente funk e di come questo faccia da collante ritmico all’intera faccenda slabbrandosi, nella successiva Flaurent Carmin, in riverberi ed echi dub caldi come il sole jamaicano ed efficaci a tal punto da promuovere la compagine inglese a nuova promessa del modernprog. (6.5/10) La tournée che segue il disco si rivela un vero circo vintage, rétro ma mai nostalgico: Le canzoni si dilatano ulteriormente e la tendenza alla jam - come avviene nelle date in compagnia dell’ex Can Damo Suzuki (un concerto, un sogno, un programma) - prende il sopravvento. Il piacere per le lunghe improvvisazioni sembra attrarre notevolmente i Super Numeri, tant’è che i l n u o v o T h e W e l c o m e Ta b l e (Ninja Tune, 30 gennaio 2006) spiazza per lunghezza (si supera abbondantemente l’ora di durata) ed intenzioni, ora più che mai proiettate ai vecchi e gloriosi vinili (doppi) d’ una volta: infatti una canzone come The First League Of Angels, forte dei suoi ventiquattro e passa minuti, potrebbe occupare benissimo il Side A del vecchio surrogato plastico; un mostro bifronte nel segno dei King Crimson, prima riveduti n e l l ’ o t t i c a d i L a r k ’ s To n g u e s in Aspic (quella batteria precisa e contundente, quelle frasi di chitarra monotone, secche e circolari) poi rimembrati nei primi ’80 di Discipline (i “versi” della chitarra da puro Elep h a n t Ta l k f r i p p i a n o ) ; a n c o r a meglio The Buzzard And The Lamb, un voodoo-funk spiritato come il Santana di Soul Sacrifice perso nelle ritmiche afro di Fela Kuti che conferma l’accentuato groove dei nostri, ora molto più urgente (il funk algido di The Chart), visionario (la psichedelia al Patchouli della title-track, il lento avvolgimento di The Sea Wolves) e jazz-rock (le trame da Directions in Music di The Spies Of St Ives, con plettrata ancora McLaughlin-iana) del debutto. Un notevole passo in avanti. (7.0/10) no vantare una figura stravagante in Mark Webb, titolare in compagnia di Mark Kyriacou del progetto (sempre per Ninja Tune) Loka. In attesa del debutto adulto (annunciato per il principio del 2006), i Loka ad oggi sono titolari di un unico Ep, Beginningless, che proprio come il Pooka di Horntveth evidenzia quelle atmosfere appena accennate dal gruppo madre: in questo caso si parla di tre episodi griffati retro-funk, come se i Cinematic Orchestra suonassero il Morricone “poliziesco” dei ’70. Un interessante variante “cinematica” al sound dei Super Numeri che, tenendo fede al concetto di in progress, confermano il fascino di un genere che inconsciamente o no continua (continuerà?) a fare proseliti. Poche righe fa accennavamo delle similitudini tra Super Numeri e Jaga. Ebbene, se i norvegesi hanno il loro genietto nella figura di Lars Horntveth, anche i SP posso- s e n t i r e a s c o l t a r e 13 speciale Zu Roma Caput Mundi di Daniele Follero e Gianni Avella Tutto comincia sulle spiagge di Ostia Lido, periferia marittima della Capitale, ascoltando i Kiss e gli Slayer e sognando una musica più libera, che facesse dialogare John Coltrane e il punk. A quasi un decennio dagli esordi, gli ZU si presentano come una delle più interessanti e radicali realtà musicali del nostro paese. O s tia Lido, capitale d e l lo “zuismo ” Ostia Lido è un quartiere periferico di Roma. Località marittima e allo stesso tempo realtà urbana, Ostia ha un colore che va dal grigio delle industrie al marrone delle spiagge. Un posto come ce ne sono tanti in Italia, ma con il privilegio/difetto di essere 14 sentireascoltare alle porte della Capitale. E’ qui che muovono i primi passi tre “regazzini” dalle idee fin troppo chiare, che ascoltano i Kiss e gli Slayer e come tutti i giovani della generazione post ’77 hanno subito il fascino dissacratore del punk. La loro musica è urbana e rumorosa come la città da cui provengono e pregna di quel- l’ironia e disinvoltura tipica dei capitolini, ma sarebbe riduttivo collocarla nelle strette maglie del suo luogo di provenienza. Localismo e internazionalismo possono essere due concetti assolutamente contrastanti, ma non per gli Zu, così proiettati verso il mondo, da ricordarsi, a un certo punto della loro car- riera, che esiste anche la cultura popolare del proprio paese. Del resto la musica è un gioco divertente se le regole in campo sono poche e loro lo sanno benissimo. Dal metal alla musica popolare romana La storia degli Zu dimostra che non sempre il successo (per fortuna!) è frutto di coincidenze e che il consenso di critica e pubblico, se la qualità c’è, prima o poi viene fuori. Massimo Pupillo, Jacopo Battaglia e Luca Mai non sono musicisti dell’ultim’ora, né ragazzetti sprovveduti. Hanno grandi idee e sono consapevoli di poterle mettere in pratica. Ad aiutarli, una visione molto ampia della musica che permette loro di mescolare con coerenza, senza pregiudizi e in maniera più o meno consapevole, i generi musicali più diversi, dal thrash metal al noise, dal math rock alla musica popolare romana. Tre- dici anni di carriera non sono pochi, ma la band dimostra i suoi anni senza dare il minimo segno d’invecchiamento. Sperimentare, si sa, non porta sempre ai risultati desiderati e questo piace molto ai tre romani, li fa sentire liberi di provare e riprovare senza una meta precisa. Le ormai innumerevoli collaborazioni con musicisti provenienti dagli ambiti più diversi (l’ex-Karate Geoff Farina, il sassofonista Mats Gustafsson e il rapper Dalek, tra i tanti) hanno caratterizzato un tratto sempre più distintivo della musica degli Zu, così “aperta all’esterno” da favorire a piacimento l’inserimento di un guest. Una musica trasformista che passa con disinvoltura dalle raffinatezze del jazz rock al metal p i ù e s t r e m o . Vo l e n d o a z z a r d a re qualche suggerimento, consigliamo di mettersi in contatto con il signor Mike Patton, che insieme a John Zorn ci sembra l’artista più vicino alle idee musicali del trio. Zu Discography La discografia degli Zu, intricata quanto la musica stessa, si divide essenzialmente in due tronconi: Zu e Zu And. Al primo nucleo appartiene la doppietta iniziale Bromio( Wide, 1999) e Igneo (Wide, 2002). Il debutto – che vede della partita anche Roy Paci - rimane ancora oggi esempio, alla pari delle coeve opere di A Short Apnea, Starfuckers e Three Second Kiss, di un modo totalmente nuovo di suonare “rock” nell’Italia indipendente dei ’90. Le coordinate si potrebbero inquadrare nel free-jazz da un lato e nel nichilismo metal e hard-core dall’altro; quello che conta, comunque, è l’impatto del disco su pubblico e stampa specializzata: si citano, tra gli altri, Ruins e Naked City come possibili referenti sentireascoltare 15 di un suono che si scaglia sulla giugulare del jazz con attitudine hard-core (un nome su tutti: Iceburn Collettive), muovendosi spastico tra citazioni “colte” e frenesia esecutiva. Le doti tecniche (ineccepibili) e lo stato di grazia del gruppo fanno sì che Bromio suoni, per intensità, molto prossimo agli Area di Maledetti e spiani la strada al più quadrato Igneo, disco che vanta “ospiti” dell a p o r t a t a d i K e n Va n d e r m a r k , Joe Bishop, Fred Lomberg Holm e la presenza al mixer di mister Steve Albini. Il disco, complice la produzione impeccabile di Albini, che mixa gli strumenti con suo fare abituale, cattura tutta l’essenza live del gruppo, che proprio nei concerti fin lì effettuati ingranerà la marcia, decisiva, verso quelle collaborazioni “esterofile” (e secondo nucleo della discografia Zu) inaugurate nel gap temporale tra il debutto e il secondo disco. The Zu Side Of Chadbourne ( F e l m a y, 2 0 0 0 ) e M o t o r h e l l i n g t o n ( F e l m a y, 2 0 0 1 ) a c c r e d i t a ti a Zu & Eugene Chadbourne, vedono la compagine romana delirare in combutta col folle chitarrista statunitense, dapprima storpiando classici della storia del rock (Stairway To H e a v e n d e i L e d Z e p p e l i n c h e d i v e n t a S t a i r w a y To C h a dbourne e via discorrendo…), aggiungendoci due intense riletture di Cosmos di John Coltrane e Spirits di Albert Ayl e r, p e r p o i “ a d d o m e s t i c a r e ” a 16 sentireascoltare modo loro classici off del rock stesso (Iron Man dei Black Sabbath a braccetto con Corcovado di Jobim, Sacrifice dei Motorhead in condominio con Boogie Stop Shuffle di Mingus fino a vere “pepite” come Pus h i n ’ To o H a r d d i S l y “ t h e S e e ds” Saxon…). Operazione di ripescaggio che si ripete per quattro degli otto episodi di Radiale (Atavistic, 2003), disco con ragione sociale Zu And Spaceways Inc (il supergruppo chicagoano d i K e n Va n d e r m a r k e H a m i d Drake). Accanto ad episodi originali spiccano le tiratissim e r i l e t t u r e d i Tr a s h A G o - G o e Yo u A n d Yo u r F o l k s , M e A n d My Folks dei Funkadelic, Them e D e Yo y o d e l l ’ A r t E n s e m b l e Of Chicago e un medley divino t r a W e Tr a v e l T h e S p a c e w a y s e Space Is The Place del sempiterno Sun Ra. Z u L i v e I n H e l s i n k i ( Ta n g P l a stik 2003) immortala – a ragione, vista la costante attività concertistica dei nostri – la tappa live finlandese del 2002 proprio mentre From Filt h y To n g u e o f G o d s a n d G r i o t s dei Dälek compare nei negozi di dischi: il lavoro di Dalek piace agli Zu e viceversa, cosicché il prolifico 2005 dei romani si inaugura proprio con Igneo Deadverse (Fallace, 2005), “concorso di colpe” tra Zu e Dalek che si tagliano e remixano a vicenda per un sette pollici la cui unica colpa (o pregio…) è quella di essere una limited edition di 600 copie (in vinile). Si arriva pertanto a The Way Of TheAnimal Powers (Xeng, 2005) disco sì a nome Zu ma d’impostazione a quattro, visto che si (ri) vede Fred Lomberg Holm al violoncello e nei nove episodi trova spazio, per la prima volta, una traccia cantata da un componente del gruppo (Every Seagull Knows, con voce di Jacopo Battaglia); H o w To R a i s e A n O x ( A t a v i stic, 2005) va sotto la voce Zu And Mats Gustafsson e vede i nostri dividersi la posta col sassofonista svedese, per un disco che aggiunge l’ennesimo tassello ad una discografia - una carriera - instancabile e prossima a rinforzarsi del disco completo con Dalek e di una collaborazione nientemeno che con Alvin Curran. Staremo a vedere (e sentire…). Una postilla: Zu e strade parallele Al di fuori dell’universo Zu, il più attivo in quanto a collaborazioni è sicuramente Massimo Pupillo. Lo si vede, infatti, in Before And After Dogon (Amanita, 2000) e Who’s Playing In The Shadow Of Who (Wallace, 2001) dei Dogon, compagine che, oltre a Pupillo, vede la presenza dei Metaxu, il duo formato da Maurizio Martusciello e Dj Okapi. Nato come divertissement live (sotto forma di Metazu, ovvero fusione di Metaxu e Zu), il gruppo suona una musica ferocemente fisica nel primo lavoro (complice anche il drumming di Martusciello) e ferocemente elettronica nel passo successivo (complice stavolta l’elettronica di Martusciello); ancora Pupillo in Williamsbourg Sonatas (Wallace, 2004), trio con Gianni Gebbia e Lucas Ligeti fautore di un jazz tanto free quanto cool. Chiude il supergruppo Ardecore, progetto che vede gli Zu al completo, spalleggiati da Geoff Farina, Giampaolo Felic i , L u c a Ve n i t u c c i e Va l e r i o Borgianelli in un disco omonimo (Manifesto, 2005) che da gioco è diventato uno degli act più sorprendenti dell’anno appena trascorso. Zu live Te a t r o G a l l e r i a To l e d o ( N a poli, 4 Gennaio 2006) Chi aveva visto gli Zu dal vivo qualche anno fa in tour con i Karate, difficilmente si sarebbe aspettati di rivederli in teatro. Eppure, con il senno di poi, verrebbe da dire che forse il teatro è uno dei luoghi migliori per la loro musica, “rumorosa” quanto si vuole, coinvolgente a livello contemplativo ed emotivo, ma non certo ballabile! Dopo l’”abbuffata” natalizia, il trio romano è sbarcato a Napoli nell’ambito di ObSessions, stagione di concerti che ha visto alternarsi sul p a l c o d e l Te a t r o G a l l e r i a To ledo Langhorn Slim, Bachi da Pietra e altre interessanti realtà musicali attuali, italiane e straniere. Davvero pochi convenevoli, quasi fossero un gruppo punk o dei musicisti di be-bop. I tre salgono sul palco, Massimo Pupillo dà una rifinitura all’accordatura del basso e guarda Jacopo, già pronto dietro la batteria. In un attimo la piccola sala del teatro partenopeo si riempie di un suono pieno e assordante che non trova strade, nessuna direzione, quasi da sembrare l ’ a p o t e o s i d i u n f i n a l e . L’ e ff e t to è spiazzante e la sensazione di disorientamento colpisce gli astanti come una scarica di adrenalina e li inchioda alle sedie. Si capisce da subito che si sta assistendo a qualcosa di molto interessante. I brani dell’ultimo The Way Of The Animal Powers si legano uno dietro l’altro come in una grande suite. In questo oceano metallico, Massimo sperimenta nuove sonorità infilando “cageianamente” un cacciavite tra le corde del basso, seviziato a più riprese, mentre Luca rantola con il suo sax, che spesso e volentieri usa in maniera percussiva, grazie all’inserimento di alcuni microfoni tra le chiavi dello strumento. Jacopo è il più socievole di tutti: si permette qualche battuta con il pubblico, presenta in modo ironico qualche pezzo (“Questo si chiamava pezzo nuovo, perché lo abbiamo appena fatto”) e trascina il trio con un drumming preciso e fantasioso. Più di un’ora di musica appena sotto la “soglia del dolore” e poi via. Niente bis, così come non c’erano state presentazioni. “Questa è la nostra musica, pensate un po’ sentireascoltare 17 come vi pare” sembrano dire i tre allontanandosi senza troppa fretta verso le quinte. ZU + Dalek + Dj Okapi – Estragon, Bologna (19 Gennaio 2006) Il concerto di Bologna si presenta come una buona occasione per riascoltare gli Zu, ma questa volta con l’aggiunta (non da poco) dei Dalek. Forti della recente collaborazione, le due band ritornano insieme in terra felsinea non solo per presentare i loro rispettivi nuovi album, ma anche per consolidare quella combinazione di stili, sperimentata con successo e che presto darà vita a un album intero. E’ Dj Okapi ad aprire le danze con i suoi dischi per poi lasciare campo libero al trio romano, che immobilizza tutti i presenti con il suo sound da pugno nello stomaco. Massimo, Jacopo e Luca sembrano, da rockettari quali sono, sentirsi più a loro agio in un contesto come quello dell’Estragon, con la gente in piedi e molto vicina al palco, rispetto al contesto più rigido del teatro. E si vede. Interagiscono con il pubblico, scherzano sulle influenze musicali del bassista, che indossa una maglietta dei Kiss. Per il resto, la musica è quella degli Zu, né più né meno. Nessuna sorpresa dai Dalek, che salgono sul palco quando i romani sono già nei camerini. Il duo statunitense scaraventa sul pubblico le sue mitragliate rabbiose e metalliche, una dopo l’altra, senz a t i r a r e i l f i a t o . L’ e ff e t t o è quello di tutti i concerti di hip hop ed elettronica: la voce dialoga con un campionatore togliendo inevitabilmente fascino alle composizioni. Ma la musica dei Dalek riesce, nonostante i limiti inevitabili di questi tipi di performance, a esprimersi in tutta la sua forza. Sembrerebbe tutto finito. 18 sentireascoltare La gente comincia a sfollare dopo due ore e mezzo belle intense. Quando qualcuno ha già raggiunto la porta risalgono a sorpresa tutti i musicisti sul palco e l’atmosfera torna a riempirsi di suoni. Suoni di confine a metà tra la psichedelia e il dark su cui la voce del rapper recita parole come in un reading di poesia. Il risultato è una lunga suite ipnotica in cui ognuno mette qualcosa di proprio con una certa libertà. “Ma cazzo! E’ l’una passata di un giovedì, domani si lavora e questi ancora a suonare all’una e mezza! E nessuno si muove” mi è venuto da pensare allontanandomi. “O non lavora nessuno (al giorno d’oggi..) o questi cinque sul palco sono riusciti davvero a coinvolgere tutti. Oppure tutt’e due le cose..”. Quattro c h i a c c h i e r e d ietro le q u i n t e Intervist a a Z U Dopo il concerto di Napoli abbiamo incontrato per qualche minuto Massimo Pupillo, Jacopo Battaglia e Luca Mai nei c a m e r i n i d e l Te a t r o G a l l e r i a To l e d o . N e è v e n u t a f u o r i u n a chiacchierata interessante, a volta spiazzante e con qualche sorpresa… Siete un trio molto affiatato, ma al contempo mostrate delle forti personalità individuali, che spesso tendono ad imporsi. Qual è la musica che ha influenzato maggiormente le vostre singole identità? J. B. : Basta guardare la maglietta di Luca per capirlo! (indica la t-shirt con il disegno di copertina di Season In The Abyss degli Slayer indossata dal sassofonista. Risata generale). Ascoltiamo un po’ di tutto, ma il nostro passato è stato sicuramente segnato dal metal. Cos’è ZU? L. M. : ZU è una semplice sillaba: in tedesco vuol dire chiuso, ma esiste anche in altre lingue e indica significati diversi. Che rapporto avete con il progressive rock? M . P. : N o n c i i n t e r e s s a ! N o n ascoltiamo cose del genere e non penso ci abbiano influenzato più di tanto Ma ragazzi, mi stupite! Ed io che avrei detto il contrario! M . P. : T i c a p i s c o , n o n s e i i l primo a dircelo e probabilmente ci sono degli elementi nella nostra musica che si avvicinano a quelle sonorità, ma ti assicuro che le nostre influenze sono altre (sorridendo, indica di nuovo la t-shirt di Luca). In una recente intervista avete citato tra le vostre maggiori fonti di ispirazione John Coltrane e Sun Ra: che ruolo ha avuto il jazz nella vostra musica? J. B. : Il jazz non è stato un elemento fondamentale della nostra formazione musicale, ma di sicuro Coltrane e Sun Ra sono da sempre i musicisti a cui ci ispiriamo di più quando suoniamo. Che rapporto avete con le etichette con cui lavorate? M . P. : O t t i m o . L a A t a v i s t i c c i ha praticamente adottati. Si fidano di noi e ci lasciano totale libertà. Ultimamente, anche con la Xeng di Boris Battistini, che ci ha prodotto The Way Of The Animal Powers, abbiamo instaurato un buon rapporto di collaborazione. C a g e , Va r e s e , E i s l e r, R e i c h . Cosa vi dicono questi nomi? E che rapporto avete con i compositori “cosiddetti contemporanei”? J. B. : Ti rispondiamo: Alvin Curran über alles!! Abbiamo fatto un lavoro con lui a giugno ed è un grande, riesce a unire insieme diverse tradizio- ni con una personalità unica! Abbiamo anche in previsione di registrare un disco con lui, che dovrebbe essere pronto per il prossimo autunno… Beh, questo mi sembra un piccolo “scoop” per SentireAscoltare! E se vi facessi il nome di Zappa? In coro: No Zappa no! Ma, ragazzi, sono sempre più sorpreso… M . P. : A Z a p p a u n n o s e c c o ! Non è un pregiudizio, ci abbiamo provato ad ascoltarlo, ma ci ha detto sempre poco. Va b b e h … C o m e è n a t o i l p r o getto Ardecore? J. B. : In realtà la cosa è nata i n t o u r, d o v e e r a n o p r e s e n ti quasi tutti i musicisti che hanno partecipato al disco. Giampaolo Felici, che apriva i nostri concerti da solo con la chitarra aveva portato con sé in tour un disco di Alvaro Neri (?), che all’inizio ascoltavamo fondamentalmente per ridere, fino a quando abbiamo pensato di metterlo in apertura dei concerti come intro. Poi abbiamo prestato più attenzione ai testi e alcuni ci sono sembrati particolarmente interessanti. Dal gioco la cosa è diventata più seria e siamo arrivati alla conclusione che sarebbe stato bello farne alcune versioni rivisitate. Non c’era neanche l’intenzione di fare uscire un disco, che, infatti, è stato registrato davvero con pochi mezzi. Sono solo suoni, ma la politica è importante nella vostra musica, nel lavoro che fate? M . P. : C e r t o c h e è i m p o r t a n te. Anche se dopo l’uscita di Ardecore siamo andati al Maurizio Costanzo Show. Abbiamo avuto contatti con la massoneria! (risatona generale.) Italia ci siano band che possano aspirare al vostro “internazionalismo”? J. B. : Ce ne sarebbero tante, anche se purtroppo non c’è il coraggio. Il coraggio di prendere un furgone e attraversare il confine o di provare a proporsi dovunque capiti. A distanza di anni si comincia a vedere qualcosa in questo senso, tipo i Larsen o gli OvO: ci sono sempre più gruppi che non sono cloni di altri, ma c’è ancora parecchia strada da f a r e . Ta n t o n u n f a m o n a l i r a uguale! Vo i a v e t e s p e s s o c o l l a b o r a t o con un quarto elemento. C’è un artista, oggi, che rappresenta il vostro collaboratore ideale? In coro: Costanzo ah ah ah! (si comincia a delirare, fantasticando tutti su una possibile formazione). Dove va la musica di questo secolo? M . P. : U n p o ’ d i f f i c i l e c o m e domanda. Beh, sta succedendo qualcosa di strano in questi anni. Ci sono gruppi come i Wolf Eyes che, per quanto marginali, riescono a ritagliarsi la loro fetta di pubblico. Oggi fanno dischi con la Sub Rosa. Cinque o sei anni fa sarebbe stato impensabile che ci fosse qualcuno dispos t o a d o r g a n i z z a r g l i u n t o u r. . Se doveste consigliare a qualcuno che non conosce gli ZU, un disco non vostro, cosa gli indichereste per avere un’idea della musica che fate? L. M. : Di ascoltare Pierre dei Pooh suonata insieme ai Wolf Eyes.. A questo punto mettiamoci anche Costanzo… (il delirio continua, l’intervista no..) Ciao ragazzi e... grazie “assai”, come si dice da queste parti.. Vo i a v e t e u n g r a n d e s u c c e s so all’estero. Pensate che in sentireascoltare 19 monografia Liars B r u c i a N e w Yo r k , B r u c i a di Marina Pierri. Contributi di Gianni Avella Carne viva sotto la pelle del punkfunk ed il suo tendine più teso, i Liars nell’arco di sei anni hanno sfigurato il volto del movimento newyorkese con coscienza, cura ed un pizzico di sadismo. Oggi, toltosi definitivamente il guinzaglio di un’etichetta scomoda e superato il recinto di sempre, il trio mostra fiero la sua tripla testa, abbaiando come il Cerbero sulle note di un full-lenght nuovo di zecca. B r ucia New York, brucia I buoni artisti sono sempre capaci di interpretare l’inconscio collettivo ed il loro lavoro, un certo punto di vista, consiste prettamente nel tenere le vibrisse ben rizzate, come canali extrasensoriali pronti a recepire le onde dei tempi, 20 sentireascoltare cavalcare la confusione, sentire il polso del presente. Se si volesse stabilire un anno domini per quel movimento tanto sfumato quanto geograficamente centrato che va sotto il nome di punkfunk, quell’anno sarebbe probabilm e n t e q u e l 2 0 0 1 p r e 9 / 11 , u n ambiente denso di presagi e fermenti. James Murphy lavora nella penombra ad una pietra miliare, o ad una sorta di manifesto, come Echoes dei The Rapture mentre una schiera sempre più nutrita di piccole band da scantinato di Brooklyn si aggrega alla marea di sonorità reminiscenti dei Pop G r o u p , G a n g o f F o u r, d e i L i quid Liquid, degli A Certain Ratio, proponendo formule legate all’urto di un basso sbattuto in primo piano e scollato impietosamente da una sezione vocale epilettica, che piuttosto segue gli stacchi dello strumento feticcio del caso: il cowbell. Così, quando nel 2000 i losangelini Aaron Hemphill (effettista e chitarrista di grande inventiva) e Angus Andrew (spilungone ambizioso, arty ed eclettico) si incontrano in una N e w Yo r k c h e a n c o r a d o r m e e che sta per risvegliarsi bruscamente da un sonno troppo profondo, basta quel tanto di ispirazione a comprendere che la città sta per andare, più o meno letteralmente, a fuoco. Ed una volta reclutati in un negozio di dischi Pat Noecker e Ron Albertson alla sezione ritmica, i Liars nascono dando alla luce appena un anno dopo un lavoro dall’attualità letteralmente bruciante nella forma e nel contenuto. They Threw Us All in a Trench and Stuck a Monument on Top (Mute / EMI, 2001) T h e y T h r e w U s A l l i n a Tr e n c h a n d S t u c k A M o n u m e n t o n To p esce per un etichetta locale nell’ottobre del 2001 ed osservato retrospettivamente, assume la sembianza poco confortante di un lavoro profetico: profondamente politico – alla stregua dei lavori dei tardi anni settanta di cui è fervidamente memore – il lavoro ruota attorno al concetto stesso dell’ustione o dell’incendio individuale e collettivo come espressione di assenza di prese di posizione relative a ciò che essere americani comporta. Gli slogan come “wake up! you’re a person on fire!” (dall’opener Grown Man Don’t Fall in a River Like That) o “past fumes will burn us in our bedrooms” (dalla tiratissima We Live NE on Compton) rimandano, come gli specchi deformanti di una “funhouse” qualsiasi, al centro, ovvero ad uno dei pezzi da antologia più potenti della renaissance punkfunk n e w y o r k e s e : M r Yo u ’ r e O n F i r e M r. L a c a n z o n e , l e g a t a a l l ’ a c cusa di irrazionalità e noncuranza della società statunitense a l l a s o g l i a d e l 9 / 11 , p r e v e d e c o n u n a s c h i e t t e z z a , u n a c h i a rezza ed una lungimiranza che hanno dello spaventoso, lo stato di una cultura che si è perduta di vista, che è divenuta cieca alla sua condizione ed alle conseguenze possibili. Il lavoro termina infine con un pezzo lungo trenta minuti: This Dust Makes Their Mud sembra essere la chiosa ideale per una band che nel momento stesso in cui si dichiara appartenente ad una certa nuova stalla di campioni di ballo tumultuoso e sincopato, se ne tira fuori. E’ come se, in qualche modo, il quartetto terminasse la sua opera prima con uno statement dichiarante che, sì, la forma canzone è possibile, ma non interessante - non sufficientemente interessante, almeno, per chi è capace di perforare il muro, vedere oltre il momento immediato e percepire nitidamente l’increspatura di violenza che serpeggia indisturbata sulla superficie della quotidianità di un paese marcio. Che più che inni da pista, si merita cavalcate di morte (7.0/10) Il disco è seguito dal singolo (nel doppio formato cd e 10” v i n i l e ) F i n s To M a k e U s M o r e F i s h - l i k e , t r e e p i s o d i c h e , i n pratica, sono altrettanti inediti, visto che la conosciuta Grown Men Don’t Fall In The River, Just Like That viene ri-suonata e resa ancor più contundente della versione originale; Pillars W e r e H o l l o w A n d F i l l e d W i t h C a n d y S o W e To r e T h e m D o w n e E v e r y d a y I s A C h i l d W i t h Te e t h , c o r o l l a r i i d e a l i d e l d e b u t to, chiudono e sanciscono il momento della crew newyorkese. (6.5/10) (g.a.) È dello stesso anno inoltre la collaborazione tra Liars e Oneida. Entrambi i gruppi sfruttano lo stato di grazia dei dischi sentireascoltare 21 appena licenziati (il debutto per i Liars, il fenomenale Each O n e Te a c h O n e p e r g l i O n e i d a ) p e r u n o s p l i t s i n g l e d i r e t t o ed affascinante. Atheists Reconsider (Arena Rock Recording, 2002) conta su 26 minuti dove i Liars coverizzano gli Oneida e viceversa: apre la compagine di Angus Andrew con Rose & Licorice, song rieditata secondo dettami Eno-iani (alla Needles In The Camel’s Eye, per intenderci) per poi essere seguiti dagli Oneida nella punkoide Privilegee, Fantasy Morgue sino a l m a r t i r i o d i E v e r y D a y I s A C h i l d W i t h Te e t h d e d i c a t o a i cugini newyorkesi. La palma dei più bizzarri va comunque ai L i a r s d i A l l I n A l l A C a r e f u l P a r t y e D o r o t h y Ta p s T h e To e O f The Famil, scanzonato esempio di improvvisazione libera che ne rispecchia fiuto, tenacia e coraggio. (7.0/10) (g.a.) B r ucia Strega, brucia Viaggiando ancora per le fogne della buona vecchia Brooklyn, Hempill e Andrew sono ancora alla ricerca di una scossa, di un interiorità politica e personale. Dunque, perduta la sezione ritmica composta da Noecker ed Albertson, i Liars prendono tra le loro fila Julian Gross alla batteria, diventando definitivamente un trio. Non è dato capire se la causa s i a l a t r a g e d i a d e l l e D u e To r ri o meno, ma i Liars da quel 2001 non torneranno mai più gli stessi, nella misura in cui perderanno, forse programmaticamente, ogni legame trasparente con la presenza e l’attualità. La band, forse bruciata a sua volta, piuttosto sceglierà di proseguire a ritroso, alla sua maniera, vale a dire legando il suono alla sostanza teorica che lo cementa. Il lavoro di interpretazione del malessere radicato nell’hic et nunc trova un equivalente metaforico nelle leggende tedesche delle streghe, confondendo il piano mitologico a quello concreto e fornendo alla band la possibilità di un’esposizione paradossalmente più cruda, più veritiera ed, inevitabilmente, più terrificante dell’America della “caccia alle streghe”. Lo slittamento viene ovviamente portato avanti sul duplice livello tematico e musicale: l’atrocità dei roghi (ancora, il fuoco) deve essere dipinta nei colori di una tavolozza oscura di suoni, e soprattutto di ritmi. They Were Wrong So We Drowned (Mute / EMI, 2004) Sebbene ai Liars serviranno tre anni per mettere a punto il loro secondo lavoro, il tentativo concettuale di accusa – che il trio si affermerà sempre più chiaramente come concept-band – sembra inalterato rispetto a They Threw Us All, soltanto, travestito. E forse proprio questo, ben più efficace. Facendo chiaramente allusione al rito puritano per cui una donna considerata una strega veniva annegata, e se galleggiava era una strega e se affondava era innocente, la band rema ancora verso l’obiettivo di una cognizione politica, scegliendo daccapo un titolo che include i due pronomi “loro” e “noi”, lì dove quel “noi” ricalca il ruolo della vittima del “loro”, dello sconfitto dal sistema e dalle sue superstizioni. Come i caduti delle guerre o degli attacchi terroristici (tanto per dire le cose così come stanno) vengono praticamente buttati in fosse comuni e poi ricordati attraverso il ricorso ad un monumento collettivo catartico, così le streghe della società arcaica bruciano e si purificano sul rogo, fornendo alla collettività assassina un perfetto rimedio per ovviare al senso di colpa, un tampone in grado di assorbire l’emergere della coscienza. Alle fiamme si affianca il sangue. Il rituale sabbatico che il sound dilaniato di Broken Witch sembra suggerire ed evocare mediante un uso ossessivo e destrutturato degli arrangiamenti, culmina con una sorta di rifiuto dell’umanità: la soluzione possibile più appetibile, tra le tante, sembra essere abbracciare la natura propria ferina (“I no longer wanna be a man, I wanna be 22 sentireascoltare a horse”), celebrare l’allontanamento dalla condizione riflessiva per immergersi nella trance che Steamless Rose From the Lifeless Cloak allunga in un brodo primordiale di percussioni, che rimandano al kraut nebuloso e irriverente dei labelmates Mute Einsturzende Neubauten. Anche quando le parti si riassestano e la sezione ritmica e vocale ritrovano una loro apparente unità, quasi nuovamente punkfunk con There’s Always Room for the Broom, anche allora ad essere veramente al centro del discorso è una scopa, ovvero un mezzo perfetto per fuggire, volare via, controllare da lontano. E planare verso il basso alla ricerca di vendetta, come b e n e e s p r i m e l ’ “ I w i l l d r i n k y o u r b l o o d ” d i I f Yo u ’ r e A W i z a r d t h e n W h y D o Yo u We a r G l a s s e s , b r e v e i n t e r m e z z o c h e s t e n d e la propria ombra sanguinaria su We Fenced Our Houses With Bones of Our Own. Qui, come altrove, è evocato il volo come e m o z i o n e d e m o n i a c a : “ f l y, f l y, t h e d e v i l ’ s i n y o u r e y e s , s h o o t , shoot”, ripete la voce cantilenante di Andrew su di un tappeto sottile di charleston – e non sembra eccessivamente forzato pensare ai piloti musulmani indemoniati di cui abbondano le reti multimediali statunitensi (7.8/10) Due singoli (precedente al disco uno, successivo l’altro) per il nuovo They Were Wrong So We Drowned: se There’s Always Room On The Broom (sempre cd e 10”) vede la presenza di due inediti, Skull & Crossbrooms e Broom, dovuti ma dispensabili, è il seguente We Fenced Other Gardens With The Bones Of Our Own (cd e 7”) a rientrare di diritto tra le uscite più importanti dei nostri, non solo per la cover (indovinata, bellissima) di Sex Boy dei Germs, ma anche e soprattutto per i tre video-appendici di We Fenced Other Gardens With The Bones Of Our Own, Sex Boy e The Fountain And Its Monologue diretti dalla band e d a t a l e M a r s h m e l l o w. ( 7 . 5 / 1 0 ) ( g . a . ) Dal Monte Calvo al Monte Infarto I Liars hanno una macchina del tempo - una scopa o più probabilmente una Delorean dalle ali di pipistrello. E volano indietro nella storia, sempre più indietro, fino al sesto secolo, forse, continuando nel loro viaggio nel passato, nel mito, in quella forma leggendario-narrativa che in tutti i secoli dei secoli ha sempre illuminato il presente. S e p a r a t o s i d a l l a N e w Yo r k City che ha dato loro i natali e che adesso pare più intenta alla ricerca del fenomeno momentaneo che del movimento in senso stretto, il trio dà corpo ad un nuovo lavoro che procede di pari passo con la fuga dalla Grande Mela in Europa. A Berlino nasce e cresce Drum’s Not Dead, terzo capi- tolo di una carriera che assume sempre più nitidamente le sembianze di una saga artistica idiosincratica e surreale, che evoca fantasmi antichi per prendere in mano più lucidamente una situazione sfuggente e dolente. Il ricorso ad archetipi occidentali e non si fa dunque marchio di fabbrica ed i L i a r s d i A n g u s A n d r e w, A a r o n Hemphill e Julian Gross sembrano ancora una volta proporsi di richiamare, attraverso certe geometrie acustiche, il senso perduto della cultura americana, filtrata attraverso immagini e rituali del passato: se prima si trattava della stregoneria, adesso pare che si tratti della cultura giapponese. Le coordinate strettamente politiche dei due precedenti dischi sembrano essere andate parzialmente perdute alla ricerca di un totale esilio, ma la stoffa sovversiva del trio resta perfettamente evidente ed, anzi, i tessuti della creatività sembrano più stretti, più coesi. Come se una qualche liberazione fosse finalmente arrivata, come se una possibilità di pace, infine, fosse data – ma soltanto a molti, molti chilometri dagli Stati Uniti. Concretamente imm e r s i n e l Ve c c h i o M o n d o . sentireascoltare 23 gioca con riferimenti tritati e rimasticati, con l’obiettivo, in effetti raggiunto, di discostarsi dalla scena di Brooklyn, NYC che li ha maturati in seno ed espulsi poco dopo. Drum’s Not Dead (Mute / EMI, 20 febbraio 2006) In They Were Wrong, ad essere chiamate a raccolta dal Monte Calvo sonoro costruito dalle percussioni in primo piano del trio, erano proprio i fantasmi vendicativi e sanguinari delle streghe; adesso sono le percussioni stesse, in un certo senso, ad essere evocate – com’è evidente dallo stesso titolo del lavoro. “Drum” ovvero Cassa (batteria, timpano) non è morto e nell’assiologia onirica del disco, in cui ombre e oggetti perdono definitivamente le forme e i contorni che gli sono proprie nel mondo reale per trasformarsi nei simboli profondi che rappresentano, si tratta di un personaggio che incarna lo slancio, la creazione stessa e che si contrappone a “Mount Heart Attack”, suo opposto negativo di dubbio e aridità. L’ e v i d e n z a a r i g u a r d o è c o s t i tuita dal fatto che sicuramente la maggiore influenza del disco non sono unicamente i S o n i c Yo u t h o n e s s u n a b a n d strettamente contemporanea, ma la musica taiko giapponese. Questa è una musica di percussioni, suonata a partire dal sesto secolo in occasione di festività locali e nazionali; arte, ritualità, collettività, consacrazione, tutti significati condensati, dunque, nella figura di Drum, una Cassa che, concretamente, è elemento fondamentale e strutturante del nuovo lavoro di una band che finora, e sempre meglio, 24 sentireascoltare Certo, il sound di Drum’s Not Dead è assolutamente attuale. Appartiene in maniera puntuale e calzante al presente, tanto che l’accostamento agli Animal Collective è fin troppo semplice e palese. Le due formazioni giocano con la sperimentazione e la fluidità delle onde sonore, ma gli uni si arrampicano sugli alberi colorati della natura e ne celebrano la dimensione ludica, gli altri si immergono fino al mento nel fango della danse macabre, fino all’abisso dell’incoscienza orgiastica. Come Feels, anche Drum’s è un concept - una parola che per quanto abusata viene tirata fuori dalla testa di chi ascolta quasi con la forza – e basta dare un’occhiata distratta alla tracklist per accorgersene. Si parte delicatamente o quasi, introducendo Mt. Heart Attack con Be Quiet Mt. Heart Attack, legata ad un didgeridoo dalla forza c o e s i v a . I l c a n t a t o d i A n d r e w, come sempre, mette a disagio: è biascicato e cavalca un tappeto di suono vibrante, che alterna alcuni colpi secchi ad un crescendo vorticoso di batteria che quasi preannuncia e sembra consigliare di non sfidare la montagna. Durante Let’s not Wrestle Mt. Heart Attack, infatti, quel medesimo digeridoo si fa sempre più sordo e aggressivo, appena cesellato da una chitarra; ed il cantato, da biascicato, si fa urlo selvaggio e primit i v o . L’ e n t r a t a i n s c e n a d e l “bene”, di Drum, corrisponde effettivamente all’ingresso in una zona più solida e levigata del disco, accorpata nel doppio episodio A Visit From Drum e Drum Gets a Glipse: l’ispirazione, sostenuta da un coro in falsetto, plasma sen- sibilmente la matassa oscura di cui, è chiaro fin dal principio, Drum’s Not Dead è costituito per tre quarti. Improvvisamente, It Fit When I Was a Kid emerge tremando sotto il peso delle percussioni in netto stile taiko, che continuano a minacciare – e inquadrare - ogni singolo movimento degli altri strumenti, culminando nella maestosa Drum and the Uncomfortable Can: entrambi i pezzi, per potenziale demoniaco e schemi dilatati/ossessivi di arrangiamento, non sarebbero stati fuori posto in They Were Wrong. Infine, c’è la catarsi: The Other Side of Mt Heart Attack sembra suggerire fino a che punto quel “lato oscuro” della creazione, ricercato e fuggito, possa a sua volta farsi fonte di rivelazione. Quello che i Liars - sciamanici, terrorizzanti, attraenti e repellenti – succhiano e sputano ballando sulle ceneri dei loro e dei nostri demoni. (7.8/10) Ancora memorabilie per i singoli - precedenti al disco - It Fit When I Was A Kid (cd e 7”) e The Other Side of Mt. Heart Attack (cd e 7”): infatti il primo, oltre all’esaltante remix di It Fit When I Was A Kid, regala gli inediti Frozen Glacier Of Mastadon Blood, Bingo! Count Draculuck e ben tre video addizionali. Formula che si ripete anche per il secondo, con la nuova Do As The Birds, Eat The Remains che correda una tracklist di remix (The Other Side of Mt. Heart Attack, Drum And The Uncomfortable Can) e soliti (quattro) video. (7.5/10) (g.a.) monografia Mark Stewart Return of the giant earthquake di Edoardo Bridda Il funk-punk, la disco punk dei circoli intellettuali, il trip pop e l’hip hop illuminato di allora come di oggi. La storia della musica contemporanea deve molto a uno come lui e del resto ...niente sarebbe come è senza Mark Stewart. Parli con Mark Stewart e non ci puoi credere. Attorno a te, l’incontenibilità di un bambino che s’agita nella massa corpulenta di un adulto. Le mani grandi di un gigante e le dita tozze d i u n c o n t a d i n o . L’ o c c h i o v i s p o e c u r i o s o c h e si fa largo oltre il tuo. Lo sguardo schietto che parla per emozioni semplici e dirette, tra te e il destino. 29 Ottobre 2005. Seduto su una sedia tra l’asfalto e la campagna bolognese, con indosso soltanto una camicia aperta modello tamarro e un paio di normalissimi pantaloni neri, Mark Stewart è davanti a me in una fredda serata autunnale. Il termometro misura al massi- mo otto gradi, l’umidità penetra le ossa, eppure, ancora accaldato dal concerto, gomiti sulle ginocchia e birra in mano, l’omone imponente di quasi due metri è pienamente a suo agio: il fisico inizia a chiedere una pausa, l’umore scopre un misto di svagatezza e stordimento ma l’adrenalina impazza tarpando i bad mood del caso. Mark ha appena terminato un concerto dalle fortune altalenanti al Link di Bologna, con il motore un po’ freddo all’inizio ma con lo scoppio dei cilindri verso la fine, con tanto d’ovazione. Lette le critiche extrapositive della stampa specializzata riguardo alla data romana e quella milanese, deve essere stato un sentireascoltare 25 caso isolato, per cui nessun dubbio sull’ottimo andamento della tournée del grande ritorno. E come poteva essere altrimenti? I Maffia sono grandi professionisti e figuriamoci, in questa occasione, al desk c’è pure sua eminenza Adrian Sherwood, produttore dub illuminato con più di cento album alle spalle, amico d’infanzia e compagno di avventure dell’uomo dal 1979 fin dalla fondazione del sound system (ed etichetta) On-U Sound, insomma una vera assicurazione sulla vita. Mark è in una botte di ferro e il momento è quello giusto non solo per intervistarlo, ma anche per conoscerlo, per rivivere con lui una delle più belle avventure musicali degli ultimi anni, e infatti, l’ex Pop Group è lì, vestito soltanto di sé, sincero come se stesse chiacchierando con un amico (del figlio). La chiacchierata che tuttavia segue a queste premesse è piuttosto spiazzante: l’antenna politica, il battito d’ali dell’ultra sinistra, l’oracolo della dissoluzione occidentale, la mente del gruppo che inventò il funk-punk e molto di più, sarà proprio l’uomo che sta di fronte a me? Iniziamo col parlare di politica e del mondo che è cambiato dai tempi del Pop Group e Stewart ti racconta fiero (e con sguardo quasi commosso) di sua madre che si scaglia contro Bush, “lei che ha quasi ottant’anni”. Gli parli di globalizzazione musical culturale e lui ti risponde che è convinto che la “gente in Europa come negli Stati Uniti sia maggiormente consapevole oggi” di quando iniziò a suonare. Mark Stewart è un personaggio totalmente differente dall’icona tramandata dalle copertine degli album, dall’intellettuale sprezzante spacciato dalla stampa. Provo a istigarlo, chiedendogli cosa abbiamo perso e cosa gua- 26 sentireascoltare dagnato da questa presunta nuova consapevolezza e lui, intuito il carattere intellettuale di quel che avrei argomentato, risponde senza vergogna parlandomi di origini working class, dell’ambiente operaio con il quale la sua famiglia ha convissuto da generazioni in quel di Bristol, città che mi si dipinge nella mente come un sobborgo industriale ai confini con la campagna. Per togliere ogni dubbio sulla sua genuina integrità mi parla pure di cari amici sparsi per il mondo (Spagna, Sud America…), loro sono gli intellettuali con i quali dovrei parlare di sistemi politici e economici, lui preferisce darmi notizie su suo figlio che ascolta Eminem e lo prende in giro. Una frase, a questo proposito, gli è rimasta impressa. Me la recita e n t u s i a s t a “ - H e y, c h i è q u e l goffo omone che ciondola sul palco?”“- Quel deficiente del babbo!” esclama compiaciuto. Mark il paesano schietto, casa e famiglia… chi se lo sarebbe immaginato da uno che ha passato praticamente tutta la vita a sradicare ogni fede nel progresso e nella politica sotto i colpi di invettive e di un sound lacerante e in perenne rimescolamento, distruzione di generi e stilemi? Proprio lui che cantava paranoico We Are All Prostitutes, recitava Blake sopra a un campione dell’inno nazionale inglese sommerso da cannonate breakbeat e overdub, l’autore di un album pauroso come As The Veneer O f D e m o c r a c y S t a r t To F a d e ! Eppure un collegamento trova presto un paradossale viatico nelle mie sinapsi contorte. Mentre le frasi si avvicendano, scopri, che l’omone di Bristol è anche uno di quelli che ha cresciuto pascolianamente il bambino che c’era in lui, e pensi anche che quello sguardo vispo, ingenuo e eccitato sia quanto di più naturalmente punk ci sia sulla terra (con buona pace di Giovanni e Giacomo, siepi e nebbie). E si sa, i bambini vedono gli adulti grandi, grandissimi, enormi più di lui che già a 16 anni, quando iniziò con il Pop Group, era alto 1,80 cm. A detta di molta critica specializzata, l’avventura dentro e fuori al Pop Group è stata tra le più radicali, ma anche tra le più incisive degli ultimi trent’anni musicali, e come si potrebbe altrimenti spiegare perché uno come lui continui a marcare così distintamente il proprio territorio da quello dello stardom punk? “Sono sempre tutti lì, siamo ancora amici”, dichiara disarmato, riferendosi al circuito allargato dei compagni di gioco, menzionando di sguiscio di session recenti con il chitarrista che f u d e i P. I . L . “ E J o h n L y d o n ? ” , gli chiedo senza esitazione, “I Sex Pistols sono stati il gruppo che ci ha fatto esclam a r e ‘ H e y, q u e s t o g r u p p o c i assomiglia, possiamo farcela anche noi!’”.Certo ma John Ly d o n ? L’ h a i c o n o s c i u t o ? C h e differenza vedi tra te e lui?. La risposta non varia: “i Sex Pistols sono stati il faro della rivoluzione punk”. È come se l’ex Pop Group vedesse Rotten non come singolo ma come gruppo, un mito extra corporeo, e di converso percepisse se stesso come una persona qualsiasi che, anzi, ha sempre pensato di aver sbagliato tutto. Gli domando se è questo il motivo di anni di silenzio e lui, candido, confessa “ho pensato cento volte che tutta questa cosa fosse’ all rubbish’, negli ultimi anni l’ho rimuginato più a lungo, ecco quanto è successo”. Come tanti artisti né intellettuali né esperti tecnicamente, Stewart non si considera un performer padrone di quel giocattolo intoccabile che è il music business, un professionista che tiene a guinzaglio il proprio talento perché possa sopravvivere e farsi apprezzare con il susseguirsi degli album e delle tournée (…sto pensando a Bono Vox per dirne uno…). E’ un cantante autodidatta che ha messo in scena un unico copione fin dall’inizio: l’imitazione radicale - per noi sublime – e maldestra per lui - dei vocalizzi giamaicani più arrabbiati e politicizzati. Qualcuno ha parlato di Brecht, tuttavia Mark non ha mai frequentato i seminari sulle tecniche di straniamento, semplicemente ha inseguito le proprie elucubrazioni con una vocazione, un po’ visionaria e anche un po’ hippie. In questa chiave di lettura che lo vede un irrequieto e spiazzante bambino cresciuto nel corpo di un orso dalla pellaccia resistente, un utopista ben celato dietro alla maschera della sua generazione, è inevitabile che la mia mente voli su una delle sue frasi più celebri a proposito della ragione sociale Pop Group. Mark mi ripete quel pensiero con una certa fierezza “C’eravamo chiamati Pop Group perché quel che facevamo era la nostra pop music”. E perché no, per Stewart, cresciuto con il sound giamaicano a due passi da casa, scimmiottare i rastafari dev’essere venuto tanto naturale quanto mescolare quei vocalizzi con una sana e distruttiva voglia di affogarli con tutto ciò che poteva reperire in giro, in particolare il funk, groove di moda nell’Inghilterra urbana anti-prog che verso la metà dei Settanta catalizzava attorno a sé un insieme di locali con una propria sottocultura fatta di abiti anni ’50 e mosse di ballo particolari. Mark il lungagnone gabbava le cassiere già a quattordici anni ed era uno di loro, un Kit Chap (come li chiamavano a Bristol i ragazzi di quel giro). E a noi quest’intervista piace finirla in questo modo, concludendola dove tutto è iniziato. Mark l’infante anarchi- man e Solid Gold Easy Action di Marc Bolan; poi è la volta di qualche inedito come Genius Or Lunatic e Color Blind (questi brani vedranno la luce nel p o s t u m o W e A r e T i m e , To u g h Trade, 1980), infine apre numerosi act dell’epoca quali Pere Ubu, Patti Smith, Elvis Costello e The Stranglers. co, il ballerino funk e infine l’antennona, il catalizzatore degli umori delle strade, il ruminatore dell’ipocrisia dei media. Uno e trino, l’uomo è figlio della torrida estate inglese del ‘77, un emblema del melting pot afro-britannico dei sobborghi del Regno, ma ora basta con le retoriche: Mark Stewart era ed è un tipo normalmente …straordinario. La piccola notorietà conseguita porta all’incisione del primo singolo, She Is Beyond Good And Evil. Il brano è già un manifesto estetico, nondimeno tra i più significativi della storia del rock; uno shock di accordi sincopati in contrappunto con una sezione ritmica lontana parente dei Pere Ubu scuote quello che di fatto è un anthem punk passato al filtro del dub e riarrangiato in chiave free-jazz. Nelle parole dello stesso Stewart (di ieri come di oggi): “Non era punk. Il punk era già successo.Eravamo uno o due anni più giovani delle punk band e io avevo sempre amato la black music. Frequentavo i funk clubs e perciò volevo suonare funk. Pensavamo veramente di ess e r e f u n k y, m a n o n s a p e v a m o suonare bene e allora suonavamo fuori tempo, così pensammo di essere avant-garde. Tu t t i q u e s t i v e c c h i g i o r n a l i s t i venivano da te e iniziavano a parlare di Captain Beefheart. Non potevo sopportare Captain Beefheart. Pensavamo di essere qualcosa come Bootsy C o l l i n s … ” ( f o n t i : h t t p : / / w w w. uncarved.org/music/maffia/ maffia.html; intervista di SA, Link 29 ottobre 2005) We T h o u g h We We r e A Fu n k B a n d - I l P o p Gro u p “Che cosa cercate di rappresentare con il Pop Group?” ”Siamo i beatnik di domani” (da un’intervista di Steve Walsh,1979) Composto da giovanissimi residenti a Bristol, il Pop Group nasce nel 1977 dall’iniziativa di un giovanissimo Mark Stewart e del chitarrista John Waddington. Simon Underwood (basso), Bruce Smith (batteria, percussioni) e Gareth Sager (sassofono, chitarra) si aggregano subito dopo e la carburazione è delle più rapide. Il neonato gruppo inizia a farsi le ossa al Tiffany Club, dove aggiusta il tiro con una serie di cover tra le quali Pablo Picasso di Jonathan Rich- sentireascoltare 27 Certamente l’argomento è ozioso e in qualche misura una posa tipica del rock, proprio come quella assunta - e forse iniziata - da Lou Reed ai tempi di Sister Ray (che tutto è tranne un brano suonato a caso). E comunque - si legga l’introduzione - non è Stewart l’ideologo del gruppo, bensì la sua antenna. Più specifiche le argomentazioni della stampa più acuta del periodo, in particolare del giornalista (anche musicista) Steve Walsh al mensile Zig Zag nell’aprile/ m a g g i o d e l 1 9 7 9 ( c f r. J u k e b o x all’idrogeno, n.1, pag. 39): a suo avviso, da un punto di vista estetico, la sola band con la quale il gruppo sente empatia sono i This Heat. Non ha tutti i torti: è da una componente primitiva fatta di percussioni africane e nipponiche (la musica taiko che ritorna oggi con i Liars nel recente Drum’s Not Dead) che molte delle sperimentazioni del Pop Group prendono ispirazione. Tuttavia la musica del combo si pone un obbiettivo che va oltre l’aspetto musical-sperimentale, essa infatti esprime il rifiuto dell’Occidente attraverso una militanza che ne denuncia i tratti claustrofobici (espressi tanto nelle sonorità quanto nel vocalizzo), che combatte il complete control dei potenti attraverso una pioggia di suoni disordinati e dissonanti, e ancora, si qualifica come colonna sonora di una delle rivolte più disperate di sempre, un rituale sciamanico per impossibili party paranoici. Sebbene Stewart vada fiero della componente “popolare” del Pop Group (nella nostra intervista, come in molte del passato, una delle sue frasi sempreverdi è “we though we were pop”) il nome stesso della band è irrisorio e programmatico al tempo stesso. Il gruppo non era certamente figlio del giro delle art school, 28 sentireascoltare come anche era formato da e per la working class britannica, tuttavia, il risultato è l’esatto opposto di quello che una “pop” band rappresenta nell’immaginario collettivo. La musica è infatti un jazz-funkpunk d’avanguardia, un ibrido da brividi tra il rock dei Pere Ubu e il (troutmask)freakout di Captain Beefheart, il free jazz (Coleman e Coltrane), il ritmo funk della black music e la musica colta del Novecento ( Va r e s e s u t u t t i ) . A l l o s t e s s o tempo - e in sintonia con altri apocalittici quali Residents, Chrome, Renaldo And The Loaf - il progetto mira a dipingere la tela di una apocalisse a tinte Bosch-iane tanto presente quanto prossima ventura. La sua visione è quella di una umanità devastata dal capitalismo, dallo sfruttamento e dalla legge del più forte. L’ u r l o m u n c h i a n o e a s s i e m e l’incentivo per tutti i dissidenti della terra. Pubblicato (paradossalmente, ma neppure troppo, visti i precedenti e coevi casi punk del Regno) per una sussidiaria della Warner Elektra Asylum, l a R a d a r, i l p r i m o l a v o r o s u l l a lunga distanza del Pop Group è l’indimenticato monumento di quanto argomentato fin’ora, un album d’importanza capitale, il principio di una serie di fertili contaminazioni nella scacchiera del contemporaneo post-punk. Sulla copertina campeggia una “Y” scritta con il sangue su una foto dominata da toni grigi. La foto ritrae una grottesca armata di quelli che sembrano aborigeni mascherati. Gli aborigeni hanno lance e perizomi, ma il colore grigio toglie loro ogni aspetto di umanità. Sembrano piuttosto qualcosa come dei pupazzi, o delle statue di cenere, o un ammasso di umanoidi sbucati dalle viscere della terra. La Y si pronuncia come “why?”: “perchè?”. Y è l’espansione in musica della domanda primordiale posta dal titolo, un grido collettivo attraverso quarantacinque minuti di musica sconvolta, suonati come per puro istinto di sopravvivenza. È il funk-punk di Thief Of Fire, dall’evidente riferimento al mito di Prometeo (che sfidò gli dei a favore degli uomini), a issare il sipario: la voce allucinata di Stewart affonda tra un assolo dissonante di sax, le propulsioni del basso e soprattutto tra silenzi di una terra desolata. È un brano fondamentale sia perché darà il la chitarristico a tutta l ’ e s t e t i c a d e l G a n g O f F o u r, ma anche perché rappresenta il degno contraltare britannico delle “danze moderne” predicate dei coevi Pere Ubu. Il trucco è già chiaro, consiste nel lacerare le canzoni con basso e chitarre per poi rappezzarle con arrangiamenti eccentrici: quest’ultimo ruolo viene rivestito dal sax nella appena citata Thief Of Fire e dal pianoforte in Snow Girl, l’elegia di un Beefheart senza speranza. Il resto dell’album è di fatto una raccolta di piece d’avanguardia: Blood Money è musica industriale, l’estremo lamento di un reietto stritolato dal regime; l’inno We Are Time (il brano più filo-ubu) si rivolge all’esercito di dannati cui si rifà il disco (“your world is built on lies”). In particolare, nella seconda metà si sprofonda verso la follia e la disperazione più ancestrali. Il suono si carica di paura e allucinazioni: dal quadretto per piano e voce di Savage Sea (improvvisazione libera di piano, effetti elettronici, suoni occasionali, voci distorte e narrazione sussurrata), si arriva al deliquio abissale di Words Disobey Me e Don’t Call Me Pain, canti di lamento di una umanità repressa e braccata. Nella prima, la chitarra e il basso continuano a suonare lo stesso tema mentre gli altri strumenti cadono nello scompiglio (metafora del ti- tolo?). Nella seconda, la voce incita “Let U.S. Bleed Happily / Let U.S. Bleed In Peace”. Il disco si avvia alla chiusura con The Boys From Brazil, un lavoro tutto di produzione con la voce e gli strumenti che giocano da una pista del mixer all’altra giocando sulla parola “vengeance”, e termina c o n D o n ’ t S e l l Yo u r D r e a m , u n brano in minore, dove lo sciamano Stewart giace abbandonato al centro del palco mentre il sipario sonoro si chiude in dissolvenza, creando un perfetto contraltare al canto trascinante dell’iniziale Thief Of Fire. Lungo tutto l’album, nessuno dei componenti della band prevarica o impone il proprio pensiero: il tappeto di dissonanze frantumate è come un gioco di specchi nel quale voce e batteria vengono proiettate ora sullo sfondo ora in primo piano nella gerarchia del paesaggio sonoro. A dispetto della presunta ingenuità, la produzione è dunque un aspetto fondamentale del sound che si configura perciò come materia viva di studio e non una presa diretta. Nel suo complesso, Y è un immane monumento sonoro al disordine, ad una forma di vita alternativa allo sfruttamento del capitalismo avanzato, ad una guerra tanto utopica quanto inutile. Scatenato fino allo sfinimento e teso fino alle lacrime, questo è uno dei capolavori della musica rock, di cui coglie l’essenza in ogni aspetto, ed è una delle massime espressioni musicali del Novecento. (10/10) S c i o l t o i l v i n c o l o c o n l a R a d a r, il Pop Group passa per ovvi motivi ideologici alla Rough Trade nel 1980 e a inaugurare il nuovo contratto è un singolo al fulmicotone che se non replica la potenza di She Is Beyond Good And Evil ci va molto vicino. Il brano, grazie anche all’impronta di un nome di peso come Tristan Honsinger (violinista noto soprattutto per le free jam con Cecil Ta y l o r e i l c h i t a r r i s t a D e r e k Bailey), rappresenta una perfetta fusione tra istanze disco e improvvisazione totale, mentre il testo suggella un anthem a tutto tondo. “Siamo tutti prostitute”, come dire “nessuno sfugge al sistema”. Forse è la risposta al titolo dell’esordio, probabilmente l’ennesima contraddizione insolubile che Stewart e soci mettono sulla piazza, l’anticipazione di quella finale che darà il titolo alla seconda e ultima produzione della formazione, For How Much L o n g e r D o W e To l e r a t e M a s s Murder. Sarà che forse la sezione ritmica ha imparato o ha deciso di tenere il tempo, ma il free-punk-funk è ora diventato un incrocio tra darkpunk e musica industriale. Le iniziali Forces Of Oppressions e Feed The Hungry tradiscono un suono più normalizzato (fatte le debite proporzioni, ovviamente), qualcosa come la Now Wave cara a Eno e quel che potranno essere i fiori del male dei PIL (The Flowers Of Romance, Warner 1981). Dopo l’intermezzo hiph o p d i O n e O u t O f M a n y, B l i n d Faith riprende le danze con un basso trascinante: sono danze sempre meno tribali e sempre più intellettualmente urbane, un po’ la declinazione in chiave devastata e scomposta del d i s c o r s o c h e i Ta l k i n g H e a d s stanno portando avanti negli stessi anni. Anche in questo caso la seconda metà del disco concentra tutte le derive più avanguardiste: How Much Longer e There Are No Spectators sono sermoni di Stewart su un sentireascoltare 29 sottofondo di ritmi spezzati e dissonanze, che però, rispetto al primo lavoro, hanno paradossalmente perso mordente sul fronte della produzione. Insieme al dance-funk di Justice, Communicator cerca di riscattare il disco con cinque minuti di improv brotzmanniana, ma poi è Rob A Bank sul filo del ballabile dissonante à la James Chance And The Contorsions a concluderlo, a dimostrazione che l’intento è militante e non artistico. (7.3/10) In seguito all’uscita di For How Much Longer…, il Pop Group innesca consapevolmente un conto alla rovescia, in sintesi, gli ultimi atti vedranno: la realizzazione di un 7’’ assieme alle Slits con Where There Is A Will, una sorta di joint venture per la serie il diavolo e l’acqua santa, la naiveté pop-punk-reggae e la follia avant; un ultimo concerto a Helsinki - documentato anche in un bootleg con il titolo di Mona Mona, che contiene anche brani tratti da un live di Mark Stewart & Maffia del 1985 - e la realizzazione della summenzionata raccolta intitolata We Are Time (Rough Trade, 1980). Una frase lapidaria come poche, concessa alla rivista Slash in quel periodo “Serve davvero fare un altro disco? A cosa pensi possa servire?” ( c f r. J u k e b o x a l l ’ I d r o g e n o N . 1 , pag. 42), mette irrimediabilmente fine alla missione. (contributi di Lorenzo Casaccia per “Y”) 30 sentireascoltare Adrian Sherwood e la Conspiracy Of Outsiders In verità è una rinascita sottoforma di una mutazione: per un breve periodo Bruce Smith, John Waddington e Mark Stewart si uniscono alla “Conspiracy Of Outsiders” un collettivo organizzato da Adrian Sherwood. Quest’uomo è la figura chiave della diaspora del Pop Group e molto di più: da fallimentare manager di label reggae verso la metà dei Settanta, era riuscito non solo a trovare un assetto soddisfacente come discografico formando la OnU nel 1979 (nel roster tra gli altri Price Far I e Bim Sherman), ma era anche diventato produttore e remissatore acclamato. Oltre a pubblicare lavori di settore, si era avvicinato al punk remissando Man Next Door delle Slits (la band di Ari Upp derisa in principio, ma consacrata in seguito come antesignana del rrriot girl movement), e successivamente lo Slates EP degli integerrimi Fall, diventando così il trait d’union tra la comunità reggae e il punk. I suoi interessi del resto dilagavano anche verso la comunità dei funkers e quella più colta dei free-jazzers. I New Age Steppers - collettivo del quale fanno parte i tre citati membri del Pop Group, Style Scott e George Oban degli Aswad, il jazzista purosangue Steve Beresford, Viv Alberatine e Ari Up delle Slits, Vicky Aspinall delle Raincoats, Charles “Eskimo” Fox, e altri ancora sono il risultato delle urgenze aggregative del carismatico produttore, un piccolo sogno di comune musicale e sound system di nuova concezione La prima uscita omonima per la On-U nel 1981 presenta un sound forgiato su un solido reggae dub, seppur costantemente sporcato da inserti elettronici e found music, dove alle sperimentazioni radicali e “negative” sono, al massimo, preferiti sipari strumentali nello stile del Metal Box dei PIL (Radial Drill). (6.8/10) Tra le varie divagazioni è sicuramente la splendida voce di Ari Upp (al canto in quasi tutti i brani) a dare l’unità stilistica al progetto (ne è testimonianza più compiuta l’exotica prova - Action Battlefield - dell’anno seguente), mentre il contributo di Mark Stewart come di Bruce Smith e John Waddington è confinato in retroguardia. In particolare, il vocalist è presente in un unico episodio, per altro trascurabile (il downtempo robo-dub di Crazy Dreams And High Ideas). Con ogni probabilità non c’è nessuna scelta programmatica in questo, e del resto è un periodo di riassetti musicali: Gareth Sager e Bruce Smith formano in quel periodo i Rip Rig & Panic, John Waddington e Dan Catsis dann o v i t a a i M a x i m u m J o y, C h e l tenham e Simon Underwood i Pigbag, e Stewart - assieme a Style Scott, Errol “Fabbla” Holt e Eric Lamont - i Mark Stewart & Maffia. Warning! Your Under Control - Mark Stewart Solista Fissato da più di un anno con la Sugarhill Gang e Grandmaster Flash, l’ugola che fu del Pop Group cerca nuove direzioni, tentando di rifondare la lezione del gruppo madre alla luce delle sperimentazioni della nascente cultura hip hop dei ghetti più violenti di N e w Yo r k : s a r à d i f a t t o q u e s t a la via maestra a riprendere lo spirito Pop Group più ortodosso, portandolo altresì verso nuovi lidi espressivi. Con l’eppì Jerusalem (On-U Sounds, 1983), e poco più tardi con il long playing Learning To C o p e W i t h C o v a r d i c e ( O n U Sounds, 1983), le idee del cantante confluiscono in una radicale e inedita visione agit prop, fatta di sample cuciti con la spilla (anzi con lo sputo), ritmiche composte premendo bottoni di una beat-box, tipiche tastierine con l’eco del reggae affogate nell’acido e riverberi electro-noise a ronzar come pestilenze. Facendo roteare cinici declami a mo’ di pale di un elicottero sull’epicentro del delitto, praticamente solo di fronte alle libertà concesse dal mixer e dal multitraccia (e uno spazio irrisorio lasciato alle parti suonate), Stewart presidia un amalgama traballante dove ogni avvenimento acustico entra e esce di scena senza una ragione, nel quale ogni sugge- stione galleggia a vista in un singhiozzo asmatico di hip e d i h o p . L’ a s c o l t o s i c o n f i g u r a in un continuo scarto arrangiativo di segmenti ballabili, ma incapaci di far ballare: a volte i bassi e campioni sono tirati talmente allo spasmo da stridere contro le casse facendo collassare il mezzo analogico. finale dell’avanguardia di Y. Nel 1984 Adrian Sherwood affianca a Stewart tre musicisti provenienti dall’idolatrata Sugarhill Gang (il collettivo antesignano del rap guidato da Grandmaster Flash, autore tra l’altro di The Message e Rappers Delight, hit milionari agli inizi degli anni Ottanta). Per È proto glitch in salsa free hip h o p . L’ A u t e c h r e s o u n d g r o u n d zero molto prima della sua nascita. I momenti di distensione (anche le uniche occasioni per sentire qualche parte suonata con continuità) sono chiaramente esigui: Liberty City sfodera un languido registro soul su basi synth (quasi pop) contrappuntate dalle movenze malate di una tromba jazz e coro gospel, Don’t Yo u E v e r L a y D o w n m u o v e s u territori più tipicamente dub e smalti messicaneggianti, infine l’esotica The Paranoia Of Power trasforma alcune ritmiche della Sugarhill Gang in un orgia di tamburi magrebini. L’ a p i c e d e l d i s c o è c o m u n q u e Jerusalem, uno spaventoso declama stewartiano su un testo eponimo di William Blake. Una Revolution 9 che vede l’inno britannico e una tastierina da giochi olimpici, fade in e fade out da una base dub e percussioni legnose. (7.5/10) il crooner è uno dei regali più belli e insperati, per il pubblico un po’ meno: per chi si aspetta un allineamento dell’artista ai canoni estetici dell’epoca, è un violento pugno nello stomaco. È capolavoro d’incoerenza, un irresistibile inno capovolto. Sembra un capolinea dal quale non si può che sottrarsi, tuttavia è l’anticamera della prova successiva: la trasfigurazione Con il singolo Hypnotized sulla falsariga di Liberty City presente anche nella versione 12’’ su compact disc -, a far da classico specchietto per le allodole, As The Veneer O f D e m o c r a c y S t a r s To F a d e (Mute, 1985) è forse l’opera più caotica e radicale della musica contemporanea: rarissimi gli strumenti a regolare e ordinare il flusso sonoro, nessuna pietà nel triturare qualsiasi tipo di fonte. L’ a l b u m p r i n c i p i a c o n i l m o n i t o di Stewart pronunciato al megafono “This Is A Restricted Area”: non può che essere l’annuncio di qualcosa di terribile e quel che seguirà, chiaramente, è un incubo ancor peggiore. Con i Maffia probabilmente relegati in un angolo, a prevaricare è la smania terroristica del cantante (e del co-produttore Sherwood), che moltiplica gli echi e le fonti sonore rubate come elet- s e n t i r e a s c o l t a r e 31 troniche, sabotate in proprio come prese dalla strada. Sono miriadi i brandelli maciullati: come i canti muezzin catturati in presa diretta (Unlisted), i testi di Burroughs strappati al tempo (Paid It All Back), gli hard rock caciaroni (The Resistance Of The Cell), le psicosi vertiginose Throbbing Gristle di, l’ex Pop Group torna sul mercato con un album omonimo che segna l’inizio di nuovo corso. La copertina con il microchip illustra una ragione sociale spoglia del + Maffia (Mute, 1987), eppure il lavoro si contraddistingue per un inedito lavoro di squadra. Attraverso il filtro di una sam- le angosce per la nascente pestilenza dell’AIDS nei club neri della Grande Mela), che si presenta come una favolosa samba techno pop tra Kraftwerk e Moroder (e questa sì, pur in veste funk, è decisamente proto-acid house di primo p e l o ) . L’ a l b u m , o l t r e c h e p e r l a maggiore fruibilità, spicca an- (As The Veneer Of Democ r a c y S t a r t s To F a d e ) , l e v i s i o n i r o b o t i c h e p r e - C l o c k D VA (Newton ci arriverà a fine anni Ottanta con Buried Dreams) e i lancinanti deliqui orwelliani (in special modo, quando si capiscono, contro il controllo militare e la sorveglianza del sistema sugli uomini). Il missaggio è a dir poco funambolico, un collasso continuo di situazioni urbane, swapping di canali televisivi, torture assortite e spari infami alla beat box. La conclusione dell’album non può che esserne all’altezza: Waiting Room sfodera persino un coro da chiesa. Potente e innovativo, vorticoso, sconnesso, As The Veneer… sviluppa dall’humus dub-funk primordiale del Pop Group e dalla cultura dal quale sta prendendo piede il rap, uno streaming para industrial, un devasto hardcore ottenuto seviziando allo spasmo il multitraccia. È l’espressione più radicale dello spirito punk i want to destroy nell’era Thatcher; impossibile per Mark spingersi oltre con le tecnologie a disposizione. (8.0/10) pledelia più ragionata, LeBlanc (percussioni e tastiere), Wimbish (basso) e McDonald (chitarra) - accreditati per la prima volta in composizione - partecipano a pieno titolo alla stesura dei brani e il risultato è un album governato da una validissima produzione nel quale, sotto la costante guida di un dub in una forma maggiormente rassicurante, s’alternano vischiosi e corroboranti downtempo e laceranti groove per strutture quadrate (e quindi para-danzerecce), sotto la mano invisibile di Sherwood che manovra maggiormente, rubando un po’ di terreno alla pazzia iconoclasta di Stewart. I risultati più avvincenti - oltre al trittico più “standard” dub-funk-industrial-videodrome di Survival (una e trina nell’album con Survivalist e la chiosa Survival “Again”) - sono racchiusi nel febbricitante delirio afro di Anger Is Holy (base di percussioni acquatiche tra brasile e voodoo, inserti radio-disturbati, riff chitarristico macho, cantiere batteristico cacofonico), e nell’altrettanto serrata Fatal Attraction (il titolo sottende che per l’intelligenza di alcuni furti musicali, virus dissidenti per avvelenare il sistema piuttosto che farlo esplodere dalle radici. Molti dei potenti groove dell’album contengono infatti segmenti di brani famosi dell’epoca, come Flash For Fantasy di Billy Idol in Angel Is Holy, l’accoppiata Sylvian/Sakamoto in Forbidden Colours, la famosa risata di Thriller e I Feel Love di Donna Summer in Fatal Attraction. In particolare, Stranger e Forbidden Colours acquisiscono la forma di cover apocrife alla maniera dei Residents, nelle quali Stewart (melenso e viscido proprio come l’Alan Ve g a d i W h y B e B l u e ) , l e t r a sforma in pratiche punk continuando così idealmente la My Way pistolsiana (attenzione al drone ambient-tronico della seconda: è l’ennesima anticipazione…). Menzione a parte invece per i sample di Gymnopedie N.1 e Somewhere, rispettivamente di Satie e West Side Story in Stranger: a detta del Wild Brunch (poi Massive Attack), il brano sarà lo starting point della fucina bristoliana a venire, il trip hop. Di fatti, un paio d’anni più tar- 32 sentireascoltare (7.5/10) Il disco omonimo troverà un seguito soltanto tre anni più tardi, nel 1990, con Metadron ( M u t e , 1 9 9 0 ) . L’ a l b u m s e g n a il passo definitivo del gigante nella direzione di un sound professionalmente e solidamente intarsiato. Per Mark è il primo lavoro di mestiere di una carriera, il primo a presentare un platter coeso dove groove elettro-funk e profondi dub, oramai diffusissimi sia nell’underground che nel mainstream (si pensi anche ai Living Color dei quali lo stesso bassista Doug Wimbish farà parte), vengono spurgati delle asprezze e adottati come ingredienti base. È un album dal sound pieno, maschio e rockettaro (Hysteria e Collision), che seppur concedendo qualcosa al denso passato amato dall’ex-Pop Group (Shame, Faith Healer), gioca con le regole accettate del fare musica (di ieri e di oggi) entro modelli e ritmiche prevedibili. I famosi furti dell’album precedente sono un lontano ricordo: in Mammon sbuca Let’s Dance di Bowie, ma la citazione, invece di farsi provocatoria, diventa espediente per sfoderare le abilità arrangiative dei Maffia (e i risultati, beninteso, sono buoni). Persino i testi, in qualche occasione, prendono pieghe personali del tutto inedite (Shame). Metadron è anche l’ennesima transizione nella direzione delle sonorità della Second Summer Of Love. My Possession sfodera un’inconfondibile roland detroitiana, un’intelligente assunzione di un sound che sta dilagando nei primi club house del Regno e che darà anche il là alla prova successiva. (7.0/10) Nel 1995 Mark Stewart partecipa alle session del primo a l b u m d i Tr i c k y. L’ e x M a s s i v e Attack commenta così il suo operato: “Mark è fuori di testa, ha portato un sacco di disordine in studio. Gira per i club e poi porta gente incrociata per caso. Aftermath è così tesa perché c’era lui attorno. Si è avvicinato al desk e ha aggiunto echi e riverberi massacrando ogni cosa. Abbiamo tolto tutto ma c’è ancora molto del suo spirito nell’album” Control Data (Mute, 1996) esce un anno dopo ed è l’album più debole della carriera del cantante. Al posto di LeBlanc troviamo Simon Mundey (suo il tocco danzereccio da body music delle composizioni), mentre sul lato della produzione si cerca di puntare sulla potenza del suono. Certamente le tecniche di missaggio sono ulteriormente avanzate e la spazialità del sound avvincente, ma se da una parte le tracce abbracciano senza stringere al petto il sound maturato nel frattempo a Detroit e Chicago, la nuova pelle maculata suona posticcia quando non vecchia di almeno un lustro (Scorpio). Emblematica in tal senso la svolta poppy di Dream Kitchen, c o n i l r i t o r n e l l o t r i s t e “ Yo u Love… Objects”, un declama contro il feticismo ma anche un brano facilmente commerciale. Migliore senz’altro Consumed, che vede rubato un giro di basso di White Lines di Grandmaster Flesh per una traccia da techno party per reduci punk. (6.0/10) Nonostante il trionfo dei live show (in particolare la stampa inglese cita la performance all’Astoria ) e un ripensamento esistenziale, il gigante di Bristol si ritira dalle scene. Nel 1998 dà in pasto un brano di Control Data (Consumed) ad Alec Empire, che lo sbrana alla maniera della Digital Hardcore. Ma non è sufficiente l’entusiasmo militante del berlinese per fargli tornare la voglia di suonare. Nei 2000, Stewart partecipa sporadicamente all’attività musicale: si dedica al missaggio dei Silent Poets’ Prisons (Factory Records, maggio 2000), firma un brano chiam a t o T h e L u n a t i c s A r e Ta k i n g Over The Asylum per la compilation Chanstone Massacre ( On-U Sound, 2002), e presta la sua voce in Psychoville di Filter (Enough Of This?! , Angora Steel, 2005), Il grande ritorno è storia recente. Nel 2005 l’ex Pop Group torna in grande stile con una tournée per promuovere un album che la prestigiosa Soul Jazz ha licenziato per lui, Kiss The Future (Soul Jazz, Maggio 2005). Si tratta di una raccolta contenente tre anthem del Pop Group (She Is Beyond Good And Evil, We Are All Prostitutes – nelle versioni presenti sul singolo – e We Are Time), alcune delle più accessibili tracce del repertorio con i Maffia (Hypnotized, Jerusalem, Hysteria, High Ideals & Crazy Dreams, Liberty City e Dream Kitchen – nella versione 12’’), più alcune rarità come Lunatics Are Ta k i n g O v e r T h e A s y l u m , T h e Puppet Master (con Sanjay T) e Radio Freedom (brano che avrebbe dovuto far parte del Indigenous Resistance project). Un ottimo acquisto per entrare nelle fibre di uno degli uomini più influenti dell’undeground degli ultimi trent’anni, e se, tra gli altri ( l e g g i D FA , T h e L i a r s , ! ! ! , R a dio 4), c’è pure David Bowie ad acclamarlo come influenza stilistica dev’essere proprio vero… (7.5/10) Come annunciato nell’intervista attendiamo Stewart per la nuova prova discografica, che a quanto pare vedrà la partecipazione, oltre che dei Maffia, anche di un non ben precisato chitarrista dei PIL. Lo vedremo presto da queste parti… s e n t i r e a s c o l t a r e 33 recensioni Belle and Sebastian The Life Pursuit (Rough Trade / Matador, 7 febbraio 2006) Stuart Murdoch e soci effettuano il giro di boa dei dieci anni di carriera canonizzando la metamorfosi da culto indie “da cameretta” a classica formazione pop rock, già avviata con Dear C a t a s t r o p h e W a i t r e s s . S t a v o l t a d i e t r o i l d e s k c ’ è To n y H o f f e r (già con Beck, Supergrass e The Thrills tra gli altri), che contribuisce a forgiare un sound ancora più diretto e impulsivo del predecessore; i toni si fanno a volte più rock e smaccatamente ruffiani, anche se la componente pop resta predominante e, in generale, c’è una certa continuità col passato, sia nelle liriche - che tornano ad essere quadretti di gente qualunque che “lotta per la vita”, da qui il titolo del disco - sia in certe trame sonor e , u n m a r c h i o d i f a b b r i c a i n c o n f o n d i b i l e s i n d a i t e m p i d i I f Yo u ’ r e F e e l i n g S i n i s t e r . Cosa distingue i Belle and Sebastian dalla pletora di indomiti emuli che affolla la scena pop rock di oggi? Perché questi ragazzi sembrano perfettamente “in parte” sia che affrontino il glam o i l f o l k , i l f u n k o i l b l u e e y e d s o u l , i l t w e e - p o p , i l l o u n g e o l ’ e l e c t r o ? Ve d i a m o : f o r s e p e r c h é Murdoch e compagni sottopongono ogni “influenza” a un lungo, appassionato processo di metabolizzazione (vedi intervista). Forse perché in primo luogo amano perdutamente l’oggetto del loro fare. Ciò spiegherebbe l’intrigante miscela di riferimenti, di gentili omaggi, di vene nascoste che zampillano all’improvviso. Sentite ad esempio come le strofe di Song for Sunshine raggrumano funk à la Sly & The Family Stone prima che il ritornello spalanchi senza tema il soffice folk pop stile America. E quei preziosismi e le effervescenze più o meno ovunque: ghigni elettrici, meste giocosità di tromba, cori madreperlacei Beach Boys, guizzanti fantasmini Kinks, un piano che si trascina a sussulti, un organo evanescente, il violino che affetta i petali carnosi del mood, chitarre agili come mai era avvenuto in passato… Malgrado tanta estroversa eterogeneità, mai e poi mai la loro musica appare raffazzonata o forzata. Anzi, la cognizione di causa permette ai B&S di fare le cose difficili con grazia, con allegria, con affettuoso umorismo. Sentite con quale brio The Blues Are Still Blue, White Collar B o y e S u k i e I n T h e G r a v e y a r d t i p r o p o n g o n o d ’ a m m a z z a r e i l t e m p o c o n u n g l a m T. R e x v e n a t o funk al modo di certo Lou Reed. E ancora il blue eyed soul contagioso di Act Of The Apostle part 1 (e relativa reprise). E la verve jingle jangle di Another Sunny Day. E il consueto Motown m e l o d i c o - a f i r m a S t e v i e J a c k s o n - d i T o B e M y s e l f C o m p l e t e l y . E l e m a e s t r i e p o p à l a To d d Rundgren del singolo Funny Little Frog… Vi chiederete: ma i vecchi B&S, quelli che impastavano spleen periferico e struggimenti bucolic i , t e d i o e s i s t e n z i a l e e i n c a n t i a d o l e s c e n z i a l i ? O k , p o n e t e o r e c c h i o a D r e s s U p I n Yo u , a c o m e S t u a r t s p r i m a c c i m e s t i z i a i n t a n t o c h e l ’ e r r e b ì s ’ i n z u p p a n e l l e n e b b i e d i G l a s g o w, o p p u r e p r e n d e t e M o r n i n g t o n C r e s c e n t c o l s u o t e p o r e c o u n t r y c i r c a G r a m P a r s o n s / N e i l Yo u n g ( d a l l e p a r t i d i After The Goldrush), il piano bizzarro, l’irresistibile baluginio delle chitarre. Soddisfatti? Insomma, The Life Pursuit è un buon disco, che ha il non trascurabile merito di schiudere nuovi spiragli (gli ennesimi) da cui sbirciare il cuore della band. Basteranno a soddisfare i fans della prima ora, abituati a ben altre palpitazioni? Se l’album dovesse scalare le classifiche – scopo per cui implicitamente è stato concepito, non ci sarebbe tanto da storcere il naso… (6.8/10) Stefano Solventi e Antonio Puglia (nel prossimo numero: un’intervista a Mick Cooke e una monografia dedicata al gruppo) sentireascoltare 34 Absentee - Rolling Heads, An introduction to Absentee (Memphis Industries-Cooperative Music/V2, 2006) Gli Absentee sono un quintetto inglese in cerca di fortuna, con alle spalle un’opera prima, Donkey Stock, ben accolta dal NME a metà dello scorso anno, che però non ha ancora varcato i confini patrii. Le cinque tracce qui proposte vogliono essere un’introduzione alla band presso il pubblico europeo, in attesa dell’imminente pubblicazione del secondo album (titolo previsto: Schmotime), realizzato con l’aiuto di James Ford (già con Arctic Monkeys). La musica del gruppo si presenta come una sorta di ibrido tra il cantautorato oscuro di Mark Lanegan - il cui vocione viene letteralmente rievocato dal leader Dan Michaelson - e lo scazzo indie dei Pavement, elementi che vengono subito fuori dal singolo Weasel, abilmente posto in apertura. Le restanti quattro tracce non lasciano intravedere grandi variazioni sul tema (a tratti certe asperità vocali ricordano le cose più recenti dei Silver Jews, ma siamo sempre lì), eccezion fatta per la conclusiva Rosie, ballad maledetta per piano e chitarre che ricorda Waits (sempre via Lanegan, a scanso di equivoci). Un po’ poco, e comunque niente che ci lasci particolarmente impressionati (almeno per ora). (5.0/10) Antonio Puglia Ant - Footprints Through The Snow (Homesleep / Audioglobe, 2006) Antony “Ant” Harding (ricordate gli Hefner?) passeggia sulla neve in una piacevole giornata assolata e con voce acuta e vena malinconica accompagna miti riflessioni acustische tutto cuore e zucchero filato. Traspare da Footprints Through The Snow quel comune stato di sofferenza nostalgica mista a un masochistico ma dolce autocompiacimento. L a f o r m u l a è n o t a . Vo c e l e g gera, miele di chitarra , organo, piano, qualche arco qua e là, episodi equilibrati e curati. Cinquanta minuti di buona musica senza virtuosismi. Insomma, il piacere della semplicità. Rimangono appese alle orecchie le armonie fragili (When Yo u r H e a r t B r e a k s , S l i p p e d Away), gli archi e i fiati solenn i , m a i b a n a l i ( S p e n t To o L o n g W a l k i n g W i t h N o H e a r t To F o l low, Change With The Season), l’essenzialità melodica e compositiva (This Goodbye Kiss, Look How This Time Flies), la luce di una quotidianità riflessa sulla neve, macchiata solo dalle tracce dei “nostri” passi. Perché “nostre”, sono le storie Harding racconta. (6.8/10) Emmanuele Margiotta Beck - Guerolito (Interscope, 13 dicembre 2005) Beck è uno di quelli che il remix lo tiene d’occhio. Sa che aria tira nei sottoscala e non gli sfugge nulla, figuriamoci i trabiccoli a 8 bit… (Gettochip M a l f u n c t i o n H e l l Ye s ) ; d e l r e sto Guero, Portorico e hip hop con piroetta, era un album da remix in nuce e il biondo, dopo due esitazioni a metà duemilacinque, ha cerchiato pollice e indice. Ok. Via col remissaggio globale: nel frullatore oltre ai Boards Of Canada, Homelife, Islands, Octet, ElP, J o h n K i n g . C a n z o n i b a s t a r de, caotiche, alcune skippabili, una bella da morire (certo, Broken Drum), una curiosa ma - che dico - inutile (la primavera di oboe di Qué Onda Guero rivisto dall’ex Unicorn Islands, la più complessa del lotto), una semplice (la versione tra marziale e delicato di Girl di Octet), un’altra - che noia - con i soliti archi pomposi (Heaven Hammer di Missing). Per dire con le solite frasi fatte: con i consueti limiti del caso, Guerolito è un album di remix, e questi pro- getti, si sa, vanno presi con le dovute pinze. Andando oltre, la raccolta lascia un amaro in bocca particolare: non è un lavoro confezionato male, non troviamo grosse ingenuità da parte dei protagonisti, piuttosto porta con sé una sensazione vieppiù diffusa, di vacuità del segno e del simbolo. A caratterizzare Guerolito è l’inutilità dell’effetto speciale tra montagne russe synthpop e hip hop transegnico; a tinger la carrozzeria, gli anni ’80 che ancora impazzano (ma che è ora metter nel cassetto). Insomma un laser show posticcio, un Goldfinger senza oro.Old brotha Beck, what happened to you ? (5.0/10) Edoardo Bridda Bloc Party - Silent Alarm Remixed (Wichita / V2, 29 agosto - ottobre 2005) Two More Years (single, Wichita / V2, 3 ottobre 2005) Ta n t o e t a l e è s t a t o i l s u c c e s so di Silent Alarm, debutto dei B l o c P a r t y, d a m e r i t a r e a d d i rittura per alcuni – manco a dirlo, NME in testa - la palma di disco del 2005. Come se non bastasse, con una mossa per certi versi fin troppo prevedibile (almeno per chi tracciava parallelismi tra la band di Kele e i Rapture rimodellati a d h o c d a D FA ) , s i è p e n s a t o di affidare l’album per intero a manipolatori più o meno illustri, a beneficio del popolo del dancefloor e degli ascoltatori più curiosi. Non sempre i remix di dischi “rock” (o concepiti come tali) riescono a centrare il bersaglio - il recente Guerolito beckiano ne è solo l’ultimo esempio -, e Silent Alarm Remixed finisce per dimostrarlo ancora una volta. A parte una Like Eating Glass (Ladytron Zapatista) ancora più dark dell’originale, un mix “lupesco” di Whitey non particolarmente impressionante, la Pioneers rivista dagli M83 vicinissima ai Depeche Mode di Music For The Masses e la sentireascoltare 35 presenza “onoraria” di Four Te t e M o g w a i , l ’ a s c o l t o d i questi remix risulta anzichenò noiosetto, almeno al di fuori della pista da ballo. Sarà un po’ troppo scontato dirlo ma, per dirla come loro, that’s the way it is: la musica dei Bloc Party in sé non ha certo bisogno di un restyle per far muovere il sedere. Un’ingenuità di troppo, che però siamo sicuri non nocerà più di tanto alla band, anzi riuscirà nell’intento di accaparrare ulteriormente proseliti. (5.0/10) In attesa della seconda prova, di cui il rec e n t e Tw o M o r e Ye a r s , s i n g o lo pop ad alto contenuto romantico come piacerebbe al Robert Smith più ispirato e nostalgico, potrebbe essere un antipasto; notare come la versione di Banquet firmata Mike Skinner / The Streets sia stata pubblicata come doppio lato A del dischetto, e la bside Hero ammorbidisce ulteriormente i toni… vorrà dire qualcosa?(6.7/10) Antonio Puglia Brian Wilson – What I Really Want For Christmas (Arista, 2005) Pochi dubbi sul fatto che Smile – per chi ha vissuto su Marte negli ultimi due anni: il leggendario lost album dei Beach Boys pubblicato dopo trentasette anni nel 2004 - sia stato un piccolo grande miracolo, soprattutto per averci restituito un Brian Wilson finalmente pacificato con il passato e in sublime stato di grazia. Per tutti gli appassionati del Beach Boy ritrovato, questa uscita non può che prolungare tale sensazione. Un disco di natale è un prodotto stagionale tipicamente americano, che si sposa però perfettamente con l’estetica wilsoniana che, Smile compreso, ha sempre attinto a piene mani dalla cultura del suo Paese (diventandone parte integrante, e non è certo cosa da poco). 36 sentireascoltare Non staremo a dirvi che What I Really Want For Christmas non sia un’operazione puramente commerciale, e che non abbia inesorabilmente impressa la data di scadenza (da consumarsi preferibilmente entro il natale 2005, quindi anche noi arriveremo fuori tempo massimo...). Prendetelo piuttosto come il desiderio di un eterno bambino americano mai cresciuto, che si diverte ancora a intonare vecchie carole come quando, ventenne, sciorinava dischi natalizi insieme a fratelli e cugini per la generazione dei suoi coetanei (di quel periodo, vengono rivisitate le beachboysiane The Man With A l l t h e To y s e L i t t l e S a i n t Nick). Anche se si consiglia soltanto ai fan più accaniti, l’ascolto di classici come We W i s h Yo u A M e r r y C h r i s t m a s , S i l e n t N i g h t , J o y To T h e W o r ld e First Noel, arrangiati con la consueta maestria, vale il prezzo del biglietto. (6.5/10) Antonio Puglia Bright Eyes - Motion Sickness (Saddle Creek, 15 novembre 2005) Già dalla doppietta Wide Awake/Digital Ash si era capito che il 2005 sarebbe stato l’anno della consacrazione – più o meno – definitiva per Bright Eyes. Cosa può esserci di meglio di un live celebrativo a suggellare il tutto? Il materiale qui presentato proviene però soltanto dal tour “acustico”, quello avviato nei primi mesi dell’anno passato in promozione di I’m Wide Awake It’s Morning. Quindi, lasciati per il momento nel cassetto i giochi con Faint e Postal Service (gustati dalle nostre parti a Ferrara Sotto le Stelle), godiamoci in azione una band di sette elementi - col produttore-tuttofare Mike Mogis sugli scudi – che si prodiga in un sound “americano” come non mai (particolarmente efficace in tal senso la tromba di Nate Walcott). Il repertorio è, manco a dirlo, folk-oriented, da At The Bottom Of Everything a Scale, da Landlocked Blues a Method Acting, senza dimenticare un paio di chicche per intenditor i c o m e l a b s i d e Tr u e B l u e o la dylaniana When The Pres i d e n t Ta l k s To G o d ; c h i u d o no il cerchio due cover (non particolarmente esaltanti in verità), Mushaboom di Feist e The Biggest Lie di Elliott Smith. Motion Sickness è una buona panoramica sulla dimensione “cantautorale” di Oberst, anche se, ad essere onesti, queste esecuzioni dal vivo non aggiungono granché all’elefantiaca produzione del ragazzo di Omaha. (6.5/10) Antonio Puglia Burnt Friedman & Jaki Liebezeit - Secret Rhythms 2 (Nonplace Records / Audioglobe, 10 febbraio 2006) Burnt Friedman e Jaki Liebezeit sorpresero un po’ tutti, nel 2002, col primo volume di Secret Rhythms, disco/studio sulla battuta principe del “rock”, ovvero il 4/4. Sorpresero in primo luogo per l’aver (ci) dimostrato come una coppia dal background tanto distante, anche per anagrafe, possa combinarsi in modo così naturale, e poi per il semplice fatto che quel disco rimane ancora oggi una delle pagine musicali più belle dei diretti interessati (e ricordiamoci che si parla anche di un ex Can). Un miracolo quello del primo disco che qui si ripete – duole dirlo – singhiozzante nei dettagli, dato che di segreto questo secondo capitolo ha solo cinque episodi sugli otto totali, ma evidentemente il tutto è da considerarsi un vero e proprio progetto, poiché le tre tracce che aprono il disco sono riprese pari pari dal vinile Out In The Sticks, delineando così un sentiero che porta dritti al recente ritorno di David Sylvian sotto la sig l a N i n e H o r s e s . L’ e x - J a p a n ricompare ancora nella leggiadria di una The Librarian sottilmente rieditata, per poi farsi da parte in Sikkerhed che ritorna al suo stato embrionale, cioè strumentale, mentre il ripescaggio di The Sticks, stupenda alchimia ritmica tra l’ipnotismo di Liebezeit, l’elettronica di Friedman e la chitarra acustica/elettrica d e l l ’ o s p i t e Ti m M o t z e r, s i l e g a a ciò che fu il cerebrale debutto. La raffinatezza che era del primo disco si ritrova nelle restanti cinque, inedite tracce: Niedrige Decken e Broken Wing Repair Kit scorrono fluide grazie anche al clarinetto (molto terzomondista) di Hayden Chisholm; Mikrokasper altro non è che la coda alla citata The Librarian; Fearer è un dub soppresso e Caracoles, tribale e mantrica, chiude la contesa. Tutto bello, ottimamente suonato e privo di una qualsivoglia sbavatura sonora; però mi chiedo: perché non licenziare un ottimo five tracks Ep invece di un sufficiente long playing? (6.3/10) Gianni Avella Catfish Haven – Please Come Back (Secretly Canadian, gennaio 2006) I Catfish Haven sono un trio del Missouri. Fanno soul/Rnb sporco, veemente, generoso, alcolico. Costruito a front p o r c h e b l u e c o l l a r, a c h i t a r roni acustici e corde vocali raspose. Bianco come certi Small Faces lasciati macerare a trielina e bourbon. Denso e squinternato come un’improbabile jam tra Sam Cooke e Black Crowes. Gorge Hunter e compagni osano persino il lusso di ostentarsi artificiosi, con quella strisciante complicità che è spesso di Gomez o Strokes, e non basta la grana lo-fi a confondere le acque, anzi. L’ e s s e n z i a l i t à d e g l i a r r a n g i a menti lascia poco spazio ai preziosismi, vivaddio, anche perché quando ci provano il risultato lascia come minimo perplessi (vedi nel finale di Still Hungover quella macchietta di sax senza arte né parte, per mere esigenze scenografiche). Quanto ai pezzi, segnalerei senz’altro la title track - un travolgente up tempo errebì come avrebbero potuto farne dei Sonics a spine staccate - e la conclusiva The Love I’m Saving, che tradisce strani sdilinquimenti bluesy non troppo lontani da certe ugge Jason Molina. Insomma, la formula è eccitante, con quel piglio retrò aggressivo, scorbutico e viscerale. Tuttavia, non so se questo basterà a sostenere un album intero, visto che la scrittura è appena sopra la media. (6.3/10) Stefano Solventi Coldcut – Sound Mirrors (Ninja Tune / Family Affair, gennaio 2006) Complice lo status di “leggende viventi” della scena elettronica internazionale, unito alla proverbiale lentezza della coppia inglese nel dare concretezza ai propri progetti discografici, la pubblicazione di un nuovo album firmato Coldcut costituisce, di per sé, una sorta di piccolo evento. Genitori indiscussi di (quasi) tutta la musica elettronica di consumo oggi in circolazione, Jonathan More e Matt Black hanno rappresentato il punto di riferimento stilistico/imprenditoriale ideale per un’intera generazione di produttori dance, dando vita a quel fantastico compromesso tra business ed arte che risponde al nome di Ninja Tune. Oltremodo eclettici nella loro proiezione discografica, i Coldcut hanno sempre stupito per la facilità e la spontaneità con la quale riuscivano a far dialogare i generi ed i personaggi più disparati, passando con invidiabile noncuranza da un brano in compagnia di Jello Biafra ad una marchetta con Lisa Stansfield. Una scelta, quella di fare musica rimanendo immuni da qualsiasi tipo di condizionamento stilistico, che sta alla base anche del nuovo Sound Mirrors, album che segna il ritorno in campo a circa nove anni di distanza dall’uscita del precedente Let Us Play. Purtroppo, ciò che una volta appariva come il tratto distintivo del Coldcut/sound, si è oggi trasformato nel limite più grande della coppia, incapace di evolvere il proprio gioco ad incastri verso soluzioni realmente originali. La stanca proposizione di abusati canovacci house electro, ambient poetry e break hip hop ed un’inutile, quanto irritante, ricerca di guest star di richiamo, da Jon Spencer ad Annette Peacock, sono le testimonianze reali del profondo vuoto creativo nel quale i Coldcut sono precipitati. Neanche brani di indubbio livello come la pulsante Boogieman oppure le conclusive Colours The Soul e Sound Mirrors, sono sufficienti per risollevare le sorti di un album che, lungamente atteso e meditato, ha finito con il dimostrarsi una delle delusioni più grandi degli ultimi anni, triste commiato per una delle coppie più sinceramente spavalde del firmamento musicale.(5.0/10) Stefano Renzi Comfort – Eclipse (Psychotica / Goodfellas, febbraio 2006) Chi sostiene che il termine post-rock ormai si riferisca ad un capitolo chiuso della storia del rock non ha tutti i torti. Se però con questo termine non si intende un genere ben preciso, bensì un nuovo modo di leggere il linguaggio del rock da un punto di vista più avanguardistico, ci sono ancora risorse da spendere nel panorama musicale odierno. Eclipse, esordio degli italiani sentireascoltare 37 recensioni Beth Orton Comfort Of Strangers (Astralwerks / Emi, 7 febbraio 2006) C’era una volta, al sorgere degli anni Novanta, una ragazza spilungona e magrolina, dai colori chiari, tipici della sua terra d’origine, la Gran Bretagna. Una ragazza che univa la naturale propensione al folk all’elettronica di matrice inglese, grazie ad un nume tutelare quale William Orbit, alla presenza rassicurante di Ben Watt degli Everything But The Girl (autore del remix scala classifica Central Reservation) e al contributo dei due “fratelli chimici”, sempre pronti a mettere mani ai piatti. E con tre album all’attivo, tutti usciti per la Haevenly / E m i - Tr a i l e r P a r k ( 1 9 9 6 ) , C e n t r a l R e s e r v a t i o n ( 1 9 9 9 ) e Daybreaker (2002) - Beth è riuscita pian piano a conquistarsi il titolo di “reginetta della folk-tronica”, salvo poi stufarsi dei suoni sintetici e tornare alle care vecchie abitudini. Dimenticate, quindi, le influenze della club culture e salutate una nuova cantautrice tutta voce, emotività e chitarra: con Comfort Of Strangers si esalta l’originaria nudità di luminescenti melodie, che si attorcigliano come edera ad un cantato soffuso, tra crooning e limpidezza vocale dalle delicate policromie, in una trasvolata che va dal folk al soul, non perdendo di vista - nemmeno per un secondo - la terra del pop. Armonie perfette nella loro semplicità (i frizzanti due minuti di Worms, con un piano in stile Fiona Apple e il basso a far da controcanto), che rimangono lì, in testa, a giocare come selvaggi zampilli d’acqua (il drumming compulsivo di Tim Barnes in Rectify), che fanno spuntare un sorriso dal nulla (la forza vitale e gioiosa dei piatti di S h o p p i n g Tr o l l e y ) , c h e a c c o m p a g n a n o i p e n s i e r i a p r e n d e r f i a t o n e i l o r o l u o g h i o s c u r i ( l o s p l e e n d i u n a f i s a r m o n i c a p a r i g i n a i n S a f e I n Yo u r A r m s ) , q u e l l i i n c u i n e s s u n o può entrare, perché troppo personali, fragili (Feral Children). Anche momenti pericolosi, dall’alto tasso di miele (il chorus di Conceived è fin troppo svenevole, con tutti quegli archi a rincarare la dose, e Shadow Of A Doubt un po’ scontata nell’arrangiamento) non sfigurano la bellezza di un suono pulito eppure naturale, che richiama l’intimità della dimensione live e l’istintività della produzione home-made (grande merito di un Jim O’Rourke particolarmente a suo agio ed essenziale). È la vulnerabilità ad essere svelata, con tutti i pericoli che questo può comportare, come se Beth Orton avesse deciso di recuperare - proprio a dieci anni dal suo esordio - una parte non solo del suo passato, ma di se stessa, quasi sotterrata da una spessa coltre di elettronica che poco, pochissimo spazio le lasciava. Ora nel club delle donne “cazzute” (dove il termine non sta per rabbia, ma per volontà di fare scelte difficili e p o c o p o p o l a r i ) , i n s i e m e a E m i l i a n a To r r i n i e l ’ u l t i m a C a t P o w e r p o s s i a m o s c r i v e r e anche il suo nome. (7.3/10) Va l e n t i n a C a s s a n o sentireascoltare 38 Comfort, è pieno di stereotipi del “genere”post-rock: tempi dilatati, uso di metri dispari, arpeggi di chitarra dissonanti. Ma è anche un bel disco. L’ a l b u m è i l r i s u l t a t o d i u n a gavetta, fatta di singoli e partecipazioni a compilation, tra cui il prestigioso tributo ai King Crimson The Letters: An Unconventional Italian Guide to King Crimson (Mellow Records, 2004). La line-up comprende, oltre ai classici chitarra, basso e batteria, anche le tastiere, spesso utilizzate come pianoforte. E la differenza si fa sentire, non tanto per la presenza in sé dello strumento, quanto per quel tocco alla Bill Evans, che dona un’atmosfera inequivocabilmente jazzy a una musica altrimenti appiattita sotto i colpi dei solite scontate fonti d’ispirazione, Calexico e Mogwai su tutti. Le luci sono fioche, discrete. Magnete e la lunga Suite n.101 rappresentano il lato più interessante dell’album, la quintessenza del sound dei Comfort: La batteria quasi sfiorata, chitarre con un suono più vicino al jazz che al rock e il piano evansiano di Leonardo Chirulli. Tutti questi elementi, uniti ad una discreta fantasia compositiva, sintetizzano una formula assolutamente riuscita, per quanto non proprio “futurista”. (7.0/10) Daniele Follero Danny and the Nightmares - Freak Brain (Sympathy for the Record Industry, febbraio 2006) Come dovrei considerarla, questa cosa di Daniel Johnston in incognito, se non come un’altro dei suoi mirabolanti tentativi d’impadronirsi del verbo rock’n’roll? Prendendolo stavolta dal lato del garage “orrorifico” e (non sai bene quanto consapevolmente) caricaturale. Benedicendo il tutto con quello sguardo che senza curarsi di mettere a fuoco ti sbatte in faccia un punto di vista inesorabile: d’innocenza e delirio, di fragile lucidità, di tenerezza in qualche strano modo corazzata. Chitarre storte, farfisa acido, bassissima fedeltà. Deliri mistico/fumettari. Limacciose allucinazioni Motorhead e Sonics in Hell Chick of Rock n roll. Conati Stooges e Gun Club nella title track. Il punk catatonico di See Satan Die e quello docilmente acidulo di Happy Valentines Day. Poi la farraginosa ebbrezza boogie di Soldier, l’oppiaceo caracollare di Lucif e r To n i t e ( q u a s i u n t r i p f a n c i u l l e s c o Ve l v e t U n d e r g r o u n d ) e il fosco languore di Pretend Yo u ’ r e D e a d ( u n R o k y E r i c k son con le ginocchia molli). Non finisce mai di sorprendere l’apparente facilità con cui Daniel sforna piccoli gioielli grezzi. Quasi se li sognasse la notte. Quasi non facesse altro che sognare. Sempre. (7.1/10) Stefano Solventi Devics - Push The Heart (Bella Union / V2, 17 febbraio 2006) Dustin O’Halloran e Sara Lov s o n o a r r i v a t i a l q u i n t o L P, i l terzo su Bella Union. Una precisazione formale ma non troppo, quest’ultima, perché allo stabilizzarsi discografico corrisponde anche (e, forse, di più) quello dello stile. Il duo che seppe unire le melanconie gotiche dei primissimi C o c t e a u Tw i n s a l c a n t a u t o r a to femminile della dannazione (Lisa Germano docet), rendendo altresì una sofferta visione della forma canzone intimista, con Push The Heart diventa definitivamente una coppia d’eruditi produttori di canzoni eleganti ma posate e tenuemente sottotono. I brani non si distinguono da quelli del precedente lavoro (The Stars Of Saint Andrea; Bella Union, 2003): si vedano le ninnenanne in tono minore à la Edith Frost più superfi- c i a l e ( L i e To M e , C o m e U p ) , o le durezze di strappi di chitarre (Just One Breath), o ancora le folkerie valzeristiche strascicate da accenti di viole o distorsori in vena di shoegaze s p i c c i o l o ( I f Yo u C a n n o t S e e , Salty Seas). Ad ascoltare Secret Messag e To Y o u e l a c o d a s l o w c o re di Distant Radio, due delle (poche) punte alte del disco, però, ci s’imbroglia; c’è da pensare che il duo sia in una transizione, che stia per fare leva sulla creatività. A prevalere sono in ogni caso canzoni che rimarcano con cura quasi pedante, tralasciando di ammaliare con capacità di scrittura e gradevolezza ritmica, scansioni articolate che vadano al di là del freddo canone di compromesso. Almeno quattro-cinque brani sono soprassedibili. Poco importa il lavoro pur diligente di O’Halloran al piano; ad ascoltarlo negli strumentali solistici di Piano Solos (Bella Union, 2005), album interamente dedicato a Chopin, c’è più franchezza. (5.4/10) Michele Saran John Duncan, Mika Vainio & Ilpo Väisänen – Nine Suggestions (All questions, 2005) John Duncan e Pan Sonic. Già sulla carta il connubio sembra funzionare. Da una parte la fisicità dell’artista che ha martoriato il pubblico delle gallerie d’arte e quello dei festival delle avanguardie con performance scabrose e urticanti, dall’altra i due finnici, anch’essi estremisti e amanti della corporalità come dell’essenza della vibrazione acustica. Il risultato è potente e retorico come ce lo si potrebbe aspettare: con una prima parte (circa venti minuti) caratterizzata dalla short-tronica di Duncan, ovvero da un white noise avvolgente e lancinante formato da segnali radio opportunamente manipolati (… sentireascoltare 39 per far sanguinare le orecchie ovviamente), e una seconda dominata dai finnici alle prese con il lato più isolazionista e abbandoned del pansonic sound tra Aaltopiiri e l’ultimo episodio del cofanetto Kesto, ovvero tra distese di ghiacci e ping di sottomarini, oscure modulazioni elettroniche e flebili melodie catartiche. Il place to be dell’opera è di certo un’installazione di Duncan (dove non si può settare il volume in partenza ma lo si subisce e basta), e decisamente sono i suoi minuti iniziali i più i n t e r e s s a n t i d e l p l a t t e r. U n l a voro prescindibile ma neanche troppo: potrebbe nascondere alcuni scampoli del genio dei suoi autori, a voi l’ardua sentenza. Per quanto mi riguarda il voto è (6.5/10) impazzite (l’ironica My Sweet Country Girl, la saga in tre parti di Stella Is a Pigmy, lo scherzo per organo di Slip Slip Away) a ballate pianistiche wilsoniane (Surf Rage, Costa Rita – la migliore del lotto), talvolta sfiorando certe derive High Llamas (Circus Time, la l u n g a F i r s t T i m e I S a w Yo u ) , senza rinunciare alle solite escursioni in lingua gallese, che fanno tanto freak (vedi Dawnsio Dros Y Mor, tra Kevin Ayers e Barrett, per intenderci, o il rock Hi Mewn Socasau). Chops è come un improvviso bagliore: il tempo di rendersene conto ed è già andato via. Non male. (6.6/10) Edoardo Bridda Il suono wave anni 80 è un’isola vulcanica che non ha mai finito di eruttare detriti e lava incandescente. Di solito è rischioso avvicinarsi ad essa, perché le sue sirene potrebbero attirarci con suoni di chitarre aspre e taglienti, di echi soffici, di piatti di batterie appena sfiorate, di pomeriggi solitari e sbiaditi, di i s o l a z i o n i s m o s h o e g a z e r, d i una nostalgia tardoautunnale in cui facilmente finiremmo imprigionati. Pochi giorni fa alcuni temerari esploratori sono partiti dalla California: dopo un primo album (Brilliant Career) e un EP (Alwaysnever) che promettevano molto bene, i Film School colgono i migliori frutti e tornano dal loro viaggio con un lavoro che colpisce come aveva fatto anni fa Echoes dei Rapture. Quasi una sfida lanciata alle band che dalla fine anni 70 a tutti gli anni 80 hanno saputo rinnovare le mappe del rock. I Film School si addentrano in sentieri ripidi e scoscesi, riprendono tutta la tradizione e la mescolano con le ultime tendenze giungendo a vette inaspettate: il singolo apri- Euros Childs – Chops (Wichita-Cooperative Music/V2, 3 Febbraio 2006) Euros Childs non è altri che il leader di quello strambo ensemble gallese chiamato Gorky’s Zygotic Mynci, insieme a Super Furry Animals tra gli esponenti del pop più freak e sperimentale che la scena indie britannica ha partorito negli ultimi dieci anni. Con la band momentaneamente in natfalina, questo suo debutto in solitaria è una raccolta di canzoncine in bassa fedeltà (un po’ alla maniera di King Creosote), condite dal consueto nonsense bizzarro tipico del personaggio ma rivolte verso lidi sixties, trapassati attraverso un’estetica simil synth-pop. Per capire meglio, basti ascoltare il singolo Donkey Island: il riff di Absolutely Sweet Marie di Dylan trasfigurato attraverso una pianola anni’80 per una melodia indolente e appiccicosa, impreziosita da inequivocabili spezie Beach Boys. Il resto del programma, relativamente breve (soli 33 minuti), alterna piccole schegge 40 sentireascoltare Antonio Puglia Film School – s/t (Beggars Banquet, 16 gennaio 2006) pista (On & On) che li pone come degni continuatori del suono chitarristico di scuola Interpol, canzoni costruite su chitarre e su giri di basso che non possono che richiamare i J o y D i v i s i o n ( H a r m e d , 11 : 11 ) e la delicatezza degli Stone Roses (Pitfalls), parti vocali che sembrano figlie di Robert Smith (bellissima tra le altre la citazione della ritmica asciutta di Jumping On Som e o n e E l s e ’ s Tr a i n i n B r e e t ) . In qualche punto c’è qualche richiamo psichedelico con cori di sottofondo in falsetto e qualche suono di sintesi che ricorda i riff stravolti dei Ride o degli Slowdive (Garrison, He’s A Deepdeep Lake); per congedarsi c’è pure una pop ballad che potrebbe essere stata scritta dai Death Cab F o r C u t i e ( L i k e Yo u K n o w ) . Un disco che ha al suo interno moltissimi spunti e che per questa sua capacità di variare merita ascolti attenti e prolungati. (7.1/10) Marco Braggion Galaxie 500 – Peel Sessions (20/20/20 / Goodfellas, 2005) Frutto di due differenti sedute di registrazione, rispettivamente del 1990 e del 1989, queste Peel Sessions sono un salto nel passato glorioso della formazione americana, una band che tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta contribuì non poco a personalizzare il clangore adolescenziale del movimento s h o e g a z e r, a l t e r a n d o l o a s u o n di valium e intuizioni vaporose. Un déja vu sonico, capace di perdersi nell’elettricità cortese e nelle vacue sonorità psichedeliche, nelle smerigliature dissonanti e nelle atmosfere indolenti, nelle attese articolate e nelle declamazioni “stonate” alla base del suono della formazione di Boston. In una tracklist equamente divisa tra brani autografi e c o v e r, l e s o r p r e s e m i g l i o r i le riservano probabilmente le seconde, rielaborazioni in stile Galaxie 500” di rivoltellate punk di marca Sex Pistols – Submission –, contributi di Yo u n g M a r b l e G i a n t s – F i n a l Day –, brani minori di Jonathan Richman – Don’t Let Our Y o u t h G o To W a s t e – e t e stimonianze sonore di Buffy Saint Marie (Moonshot). Un gusto per l’omaggio garbato, che trova una ragion d’essere nelle chitarre in distorsione e nei vocalizzi narcotici che rallentano il primo episodio citato, nei toni evocativi e nel folk acustico alla base del secondo, nelle galoppate fuzzeggianti e nel pulsare ipnotico di basso che decorano il terzo – il migliore del pacchetto –, nelle melodie ruffiane e nelle delicate incursioni elettriche che strisciano languidamente nell’ultimo. Poi c’è il gruppo di vent’anni fa, intento ad omaggiare la N i c o d e l p e r i o d o Ve l v e t U n d e r g r o u n d i n W h e n W i l l Yo u Come Home, appassionato sostenitore di uno shoegazer esemplare quanto etereo in Flowers – dall’esordio del g r u p p o To d a y – , d e c i s o a d esprimere la propria anima tra silenzi e ritorni in Blue Thund e r e D e c o m p o s i n g Tr e e . Brani che oltre a favorire un inevitabile “effetto nostalgia”, offrono scampoli di musica lucida e narcotica al tempo stesso. Un flashback piacevole ed elegante fortemente voluto, in primis, da Damon Krukowski e N a o m i Yo u n g , a l l a b a t t e r i a e al basso nei Galaxie 500 e proprietari dell’etichetta 20/ 20/ 20. (6.6/10) Fabrizio Zampighi Gogol Bordello – Gypsy Punks Underdog World Strike (Side One Dummy, 13 novembre 2005) Tre parti di vodka, una di sab r a e u n a d i w h i s k y. E ’ l a f o r mula chimica dei Gogol Bordello. Un istrionico front man ucraino, due musicisti russi e una sezione ritmica israelocaliforniana, shakerati dietro al bancone da un barman del calibro di Steve Albini. Altro che Lucano, siamo a New Yo r k e q u e s t o è g y p s y - p u n k . Che vuol dire tutto e niente, ma tradotto in soldoni sta ad indicare un folkettone dell’est europeo - sia esso gitano, sovietico o balcanico - suonato con piglio rockettaro. E’ un violino indiavolato che, trascinandosi appresso pure le fisarmoniche, si trova a fare i conti ora con dei backing vocals jamaicani, ora con ritmiche latineggianti, senza mai dare l’idea di essere fuori luogo. E’ un’opera che a definirla meticcia si arrotonda per difetto, che in alcuni momenti sembra rifarsi alla coppia scoppiata Bregovic-Kustur i c a ( S a l l y, I W o u l d N e v e r B e Yo u n g A g a i n ) , e i n a l t r i ( U n destructable) ai Clash, con il solo intento di richiamare quanta più folla possibile intorno al loro falò. Che si tratti di avventori scalmanati (Start Wearing Purple) o casuali (Avenue B) poco importa. E’ una musica che del punk ha l’attitudine ma non la ferocia, poiché il leader Eugene Hutz sa bene, da bravo globetrotter paraculo, che tutto il mondo è paese. Non è un caso insomma che il loro motto reciti Think Locally Fuck Globally, sorta di Make love not war del terzo millennio. E viene da pensare alle nostre tute bianche, se solo avessero la lungimiranza di adottarlo a discapito delle ormai stereotipate tiritere di Manu Chao: nemmeno i potenti riuscirebbero a contenersi e spalancherebbero, zompando qua e la, i cancelli delle zone rosse. Anche la scelta dell’idioma da adottare riserva delle sorprese, e tra il predominante inglese da immigrato di Hutz e la lingua madre, fa capolino perfino per l’italiano di Santa Marinella . Una chicca che omaggia il Belpaese ma non il Va t i c a n o , u n a c a n z o n e p e r l a quale il Parental Advisory non è davvero abbastanza, da evitare assolutamente se si divide l’abitazione con nonne o zie dalle cattoliche (e ristrettissime) vedute. Di dischi come questo in fondo c’è sempre bisogno, non sarà originalissimo ma ha freschezza da vendere e per una serata caciarona è l’ideale. (7.0/10) G i a n l u c a Ta l i a Howie Beck – s/t (Ever / KIZMAIAZ, 23 Gennaio 2006) A cinque anni di distanza dal lavoro precedente – Hollow – questo songwriter canadese, che può vantare collaborazioni in qualità di batterista con diversi artisti della sua scena (Hayden che qui suona il banjo, Feist – cori in I Need Light), si ripresenta per la esordiente Ever Records. Quest’opera omonima è un disco lieve (anche troppo), malinconico (nei testi e nelle melodie), dominato da una chitarra folkeggiante; Beck canta quasi sullo sfondo, voce flebile e sussurrata (Art Garfunkel ai minimi termini). Pur apprezzando lo sforzo che l’autore compie scrivendo, arrangiando, suonando tutti gli strumenti non si può evitare di rimanere sostanzialmente indifferenti (e un po’ annoiati) dai brani che si susseguono uguali (giusto un paio di episodi – Everybody Sold Out e I Need Light - sorprendono e ravvivano l’atmosfera con una chitarra country e un banjo). Che si cominci un po’ a sopravvalutare gli artisti provenienti dalla scena canadese? (6.0/10) Andrea Erra Jana Hunter - Blank Unstaring Heirs Of Doom ( Gnomonsong, ottobre 2005) L’ a v e v a m o i n c r o c i a t a g i à u n paio di volte nel corso del 2 0 0 5 , J a n a H u n t e r, u n a f o l k - sentireascoltare 41 recensioni Cesare Basile Hellequin Song (Mescal / Sony, gennaio 2006) Da una parte il noir statunitense, ferita infetta tra rurale e urbano (le agre folate elettriche, quei blues di fiele, di fieno e d’ombra). Dall’altra, la poesia derelitta e solenne di De Andre’, sorta di nume tutelare nel taschino, premuto con forza sul cuore. Il filo che corre tra queste istanze espressive è solo apparentemente fragile. Cesare Basile ci si aggrappa come al migliore appiglio possibile. Con sua e nostra soddisfazione, scopre che si tratta di una corda robusta, intrecciata in anni d’esperienza e buone/cattive frequentazioni. John Parish, per dirne uno. E’ il produttore di questo Hellequin Song, ad occhio e croce il capolavoro di Basile, uno di quei dischi che riassume e sancisce senza possibilità di replica. Quattordici pezzi per un programma intenso e scorbutico. Quel tipo d’intensità letteraria che può offrirti un cantastorie reietto, intensità che tiene banco senza mai cedere il passo, strozzando nella culla lo spettro della monotonia (cui pure il lavoro sembra poeticamente votato). Il blues più disperato incrocia folk febbrile e squarci di caracollante poesia. In un italiano laconico, pregno, sferzante. E in inglese, con la stessa cifra, malgrado la pronuncia un po’ stopposa. C’è l’alt-country spigoloso e acido di Dite al corvo che va tutto bene. Ci sono le l e n t e b r u m e b l u e s , c i o n d o l a n t i e p a r a n o i c h e d i To S p e a k O f L o v e . C i s o n o l e b a l l a t e in bilico sul niente come Finito questo e Le feste di ieri, tra rifrazioni, farragini e pezzi d’anima. C’è il fiele diafano e vagamente didascalico di Odd Man Blues, sorta d i o u t t a k e d e l f o r t u n a t o c o n n u b i o P a r i s h / P J H a r v e y. C ’ è l a p r o c e s s i o n e a c u o r e n e r o con ampia attitudine di tragedia della title track, dove l’asciutto cinismo di un Fiumani s’immischia al De Andre’ più attonito. Altri sapori: Howe Gelb in Dal cranio, i d E U S i n C o n t i n u o s u s L o v e r, S i l e n t S i s t e r , L a n e g a n i n F r a t e l l o g e n t i l e , i G r a n t L e e Buffalo nella struggente Ceaseless And Fiere, lo Springsteen più dimesso e cupo nella conclusiva Stella & the Burning Heart. Il tutto condito con archi, seghe a nastro, pianoforti, scricchiolii, sussurri malsani, loop metallici, organi, distorsioni, ferite da accarezzare, slide ubriache, pezzi di sogni a pezzi. Tra gli ospiti eccellenti: Hugo Race, Manuel Agnelli, l’ex-dEUS Stef Kamil Carlens. Insomma, Cesare Basile ha organizzato e realizzato un bel lavoro. Gli si può rimproverare l’interpretazione un po’ monocorde, quella voce che non sa (non può) adeguarsi a tutte le situazioni come dovrebbe. Ma il gioco coi propri limiti ci può stare, quando diventa elemento stesso della calligrafia. (7.1/10) Stefano Solventi sentireascoltare 42 s i n g e r d e l p r o f o n d o Te x a s c h e , da circa una decina d’anni, si barcamena tra misconosciute band (certi Matty & Mossy) e registrazioni casalinghe (due e quattro piste, dove e quando può). Autrice di un folk scarno e rurale, non poteva non attrarre l’attenzione di Devendra “pre-war” Banhart, che subito si è proposto come suo mecenate, prima con la selezione della compilation Golden Apples Of The Sun (Bastet, 2004) per il magazine Arthur e poi con lo split per l’etichetta Tr o u b l e m a n U n l i m i t e d ( 2 0 0 5 ) . Subito dopo è stata la volta delle “cocche” sorelle Casady e la loro The Enlightened Fam i l y ( Vo o d o o E r o s / W i d e , s e t tembre 2005), in cui la palma come miglior brano va proprio alla Hunter (assieme a Diane Cluck). Con un simile background potrebbe mai sorprendere che il suo debutto, Blank Unstaring Heirs Of Doom, sia firmato Gnomonsong, ovvero la neonata label di Devendra e d e l s o c i o A n d y “ Ve t i v e r ” C a bic? Certo che no. Se poi si aggiunge che in realtà il disco è una sorta di best of della sua carriera decennale, allora facile sarebbe archiviare il caso con un “folk+Banhart+vecchie incisioni=ne ho abbastanza”. E ciò è vero per metà: il lamento che vorrebbe essere spettrale e invece è pura noia di All The Best Wishes, l’intermezzo irrilevante di Heatseeker ’s Safety Den, l’a cappella che gioca a fare le Cocorosie in The Earth Has No Skin e che aspira ad essere il cuore denudato dell’album, causano un ascolto a singhiozzo, diminuendo il valore di brani tutt’altro che scontati, come il jazz oscuro e fosco di Christmas, la dimessa solitudine chitarra/voce di The New Sane Scramble, la sorprendente K, quasi il lato femminile e sensuale della We Have Mice di Casiotone For The Painfully Alone. Insomma, di certo non le man- cano le qualità, a partire da un voce avvolgente e screziata di blu, per finire con un eclettismo che la separa dalla sua ingombrante guida spirit u a l e / p r o m o t e r. S e p e r ò J a n a Hunter si dedicasse di più alla produzione e a svecchiare il repertorio, non farebbe un soldo di danno. (6.0/10) Va l e n t i n a C a s s a n o Jason Collett – Idols Of Exile (V2 / Edel, 2006) Se parliamo di musica canadese non si può prescindere dal citare Jason Collett, una delle figure cardine della scena nordamericana. Non a caso il suo è uno dei tanti nomi illustri che ruotano intorno all’orchestra indie rock dei Broken Social Scene. Idols Of Exile è la sua nuova prova solista, che riconferma ancora una volta la vena canzoniera del suo repertorio più intimo e personale. E sin dalle prime note di Fire – praticamente un ipotetico l a t o b d i Yo u F o r g o t I t I n P e o ple – Collett mette subito in chiaro le cose: siamo dalle parti di un pop raffinato negli arrangiamenti come un pezzo indie ed orecchiabile come la migliore musica radiofonica. Spazio quindi ad accordi pieni di chitarra acustica, ad inserti di strumenti a fiato, a ritornelli da cantare a mezza voce in automobile o sotto la doccia. Dalla malinconia studiata a tavolino di We Are Lose One Another – il cui incipit ricorda da vicino Disarm degli Smashing Pumpkins – all’euforia in stile Cure di I’ll Bring The Sun, dall’atmosferica Tinsel And Sawdust agli accenni spensierati di chitarra e basso di Pavement Puddle Stars, è tutto un susseguirsi di canzoni da ascoltare a cuor leggero e con lo sguardo disteso. Non è certo il disco più significativo tra quelli che portano la firma di Collett, ma è pur sempre un lavoro che mostra vitalità e buon gusto. Dispia- ce solo che difficilmente potrà trovare il giusto riconoscimento popolare al di là dell’angusto giardinetto dell’indie rock. (6.5/10) Manfredi Lamartina Jens Lekman - Oh You Are So Silent, Jens (Service / Secretly Canadian, 22 novembre 2005) E’ una raccolta di una buona oretta, che contiene materiale proveniente da vari mini album ed EP usciti precedentemente all’esordio discografico: Maple Leaves, Rocky Dennis In Heaven e Julie (leggi la m o n o g r a f i a s u w w w. s e n t i r e a scoltare.com). Alle quattordici tracce conosciute sono stai aggiunti tre inediti, canzoni di fattura discreta ripescate dal proprio “Department of Forgotten Songs”, dove colleziona outtakes, unreleased e demo sconosciti ai più. Si tratta della quasi omonima At the Dept. of Forgotten Songs, che funge da intro all’album; F-word, delicata ballata post-rock con sottofondo di grilli e The Wrong Hands, dove il buon Jens si cimenta con un beat quasi caraibico, riuscendo sorprendentemente a far centro anc h e c o n q u e s t o m o o d . O h , Yo u Are So Silent Jens è ad oggi il suo album più reperibile e più completo. Sicuramente il migliore per conoscerlo e farselo amico. (6.8/10) M i c h e l e Va c c a r i Kelley Stoltz – Below The Branches (Sub Pop / KIZMAIAZ, 07 Febbraio 2006) Kelley Stoltz, californiano di Frisco, suona tutti gli strumenti e registra in casa sua: dopo il successo - ottenuto grazie al passaparola - di Antique Glow (2004) e un rifacimento di Crocodiles di Echo & The Bunnymen (intitolato Crocodials, 2005) si ripresenta con Below The Branches, tredici tracce di rock acustico, caratterizzate da melodie sentireascoltare 43 recensioni David Thomas Broughton The Complete Guide To Insufficiency (Birdwar / Plug Research / Wide, 13 dicembre 2005) Quest’ album, uscito nel 2005 e ripubblicato sul finire dell’anno scorso dalla Plug Research, si rivela una piacevole sorpresa, che nel marasma di uscite incessanti ha corso comunque il rischio di non essere notato. Ma forse è nell’ordine delle cose, che le scoperte più belle avvengano fortuitamente. Disco d’esordio, cinque pezzi registrati live per una quarantina di minuti: tanto basta a questo giovane chitarrista di Leeds per mettersi in luce. Fuori dal giro delle next big thing inglesi, Broughton possiede una non trascurabile esperienza dal vivo accumulata negli ultimi a n n i , d a c u i d e r i v a l a s c e l t a d e l l a r e g i s t r a z i o n e d i T h e C o m p l e t e G u i d e To I n s u f f i ciency: in solitaria, alle prese con chitarra acustica, effetti in loop, una drum machine, percussioni. E una voce che incanta nei suoi mantra, ora sussurrati ora gridati, nel suo folk primordiale e spasmodico, salmodiato a mezza voce. Siamo in presenza di un flusso sonoro continuo e dilatato, acido e iterativo, che concorre a creare una trance ipnotica in cui si fondono la malinconia, il dolore, l’amore, l’abbandono al dialogo con chitarra e ritmi percussivi, i loop vocali, con la sensibilità d i u n A n t o n y, l a m u s i c a l i t à d i D r a k e e t u t t a l a t r i s t e z z a e s i s t e n z i a l e d e l b l u e s . La registrazione del disco è avvenuta in un’unica take (in una chiesa di Leeds, dai suggestivi effetti acustici), poi trattata con effetti in studio. Il suono delle campane (quanto involontario non è dato sapere) si percepisce nel finale di Unmarket Grave, fondendosi con la voce di Broughton in un unicum. La sensazione, man mano che ci si inoltra nell’ascolto, è quella di trovarsi di fronte ad un unico pezzo, in cui circolarmente intro acustico, svolgimento cantato in iterazione (il finale psichedelico di EverRotating Sky) e coda finale (come il lungo noise in Execution) si ripetono senza soluzione di continuità. Un lungo interminabile canto di dolore. Il blues è anche questo. (7.4/10) Te r e s a G r e c o sentireascoltare 44 orecchiabili e accattivanti e arrangiamenti semplici, che creano una sensazione di familiarità. Sonorità folk/country di chitarra, un piano con dei semplici arpeggi o ribattuti, melodie dal sapore beatlesiano, qualche passaggio vagamente psichedelico e il piatto è pronto: niente di nuovo o di straordinario, ma ben fatto e senza esagerare o pretendere l’impossibile. O, detto più crudamente, un manifesto di ciò che si può fare avendo una buona base di conoscenze musicali (competenze pratiche, tanti ascolti) e del buon hardware per la registrazione in casa, senza però quello spirito innovativo, trasgressivo, contestatario del punk (per quanto riguarda l’utilizzo degli strumenti) e dell’hip-hop (per le possibilità di “fai da te” che l’home recording e la computer music permettono), tratti che hanno reso originali gli esordi di Beck. Va c o m u n q u e r i c o n o s c i u t o a Stoltz il merito di saper scrivere melodie che attirano l’attenzione. (6.5/10) Andrea Erra Kepler - Attic Salt (Resonant / Goodfellas, 27 febbraio 2006) Dalla capitale canadese Ottawa, i Kepler si riaffacciano alla scena (inter)nazionale tramite un album discretamente centrato. A parte quella mezza compilation di scarti e materiale mediocre che era Missionless Days (Troubleman Unlimited, 2002), e il disinteressante debutto di Fuck Fight Fail (Troubleman Unlimited, 2000), Samir Khan e compagni dimostrano di avere dalla loro la virtù delle forme corali semplici, quelle delle pure pulsazioni interiori. Siano esse quelle afferenti al f o l k d ’ a n n a t a N e i l Yo u n g c i r ca After The Goldrush (The Bedside Manner), o quelle del passo sicuro ma pronto a cristallinità di armonici dei Broken Social Scene (The National Epithet), oppure - tanto per uscire dalla benedetta terra natia - i Karate dei giorni migliori fronteggiati da un Eitzel lounge, tra barlumi di synth e divagazioni oniriche, fender rhodes accentati e batt e r i a p r e s e n t e ( M y O t h e r ) . Yo u Must Admit, altra sfiziosità roots, è quasi cantilena dal philly sound intristito. Le corde liriche più sensibili sono forse toccate da Broken Bottles, Blackened Hearts, chitarre crepuscolari e accordi gravi di piano, in una sospensione che prosegue fino alla comparsa finale di una melodia amplissima (e appena accennata dalla linea vocale). Days of Begging, più monocorde del resto, è una versione rabbuiata e rabbiosa (e leggermente contorta) dell’Out On The Weekend younghiana. Probabile commiato e sicuro canto del cigno del quartetto, è un album che sa parlare al cuore scansando con eleganza sovrappiù di melodramma o leziosità armoniche, al massimo peccando di falsa modestia strumentale. Il tour con la Bell Orchestre ha prodotto i suoi effetti: la svettante batteria di Jeremy Gara è attualmente accodata al carrozzone emulrock Arcade Fire.(6.4/10) Michele Saran MAN – Helping Hand (Man Music / Sub Rosa, 2005) Cosa ci si potrebbe aspettare dall’incontro tra un quarantenne proveniente dai circuiti punk e un pianista di formazione classica? Ascoltando i MAN di sicuro qualcosa di molto interessante, che però ha poco o nulla a che vedere con i diversi background dei due musicisti. E’ il 1998: Rasim Biyikli e C h a r l e s - E r i c C h a r r i e r, f r a n c e si di Nantes, dopo aver suonato insieme in una band a metà tra il cabaret berlinese ed il free rock, decidono di dare vita al progetto MAN. Dopo aver pubblicato due dischi e altrettanti ep, i due tornano con il loro “work in progress” fatto non solo di dischi, ma anche di performance, colonne sonore e installazioni audio e video. Ricca com’è delle più svariate suggestioni, la musica di Helping Hand, terza prova della band sulla lunga distanza, è difficile da afferrare nella sua mutevolezza. M o m e n t i t e c h n o ( Yo u ’ r e I n F o r It) si alternano ad atmosfere a metà tra l’ambient e il jazz salottiero (Drifting); tracce di sound laswelliano (Farewell; Revenir) si accostano a groove quasi chill out (Strange Feeling). Una musica che scende poco a compromessi, poco coerente e anche per questo affascinante. L’ i n f l u e n z a d i S a t i e s i f a s e n tire nel panismo di Biyikli, quasi sempre presente a tessere le trame principali del tessuto sonoro in una maniera discreta che si avvicina alle idee del musicista francese. In qualche modo la musica dei due potrebbe essere considerata Musique d’ameublement o come l’ha ribattezzata Eno “discreet music”. Si adatta all’ambiente, non attira mai l’attenzione ed esprime l’esatto contrario del concetto di din a m i c i t à . D i r t y S o m e P a p e r To Clear Out My Brain è la prova più tangibile di questo interesse per il concetto di musica ambientale: il sottofondo di rumori vari che accompagna il piano per tutto il brano cessa di essere un elemento di disturbo per diventare parte del sound ed essere percepito al pari di uno strumento. In questo mare calmo c’è qualcosa che emerge increspando le acque: lo stupendo crescendo di Separation, in cui l’introduzione tetra del piano attraversa varie fasi di trasformazione, fino a terminare nelle grida di dolore di una chitarra distorta, che ricade sentireascoltare 45 all’indietro verso l’inizio. Un brano che da solo vale l’ascolto dell’album. Attenzione, però, ai grandi entusiasmi: l’ambient è interessante, ma dopo un po’ stanca. E da questo punto di vista non è molto diversa dal grind core. (6.5/10) Daniele Follero Marcho’s – Ed ovviamente il tempo passa (Macaco Records, 2005) Ha il marchio di Macaco Records Ed ovviamente il tempo passa, esordio discografico per Marcho’s aka Marco Mossutto. Un musicista che al pari dei suoi più o meno prestigiosi predecessori - ci viene in mente, tra i tanti, il primo Neffa - costruisce attraverso brani essenziali e dall’approccio decisamente lo-fi, un lessico a metà strada tra contestazione sociale e riflessione personale, disillusione e malinconia urbana. Hip hop, breakbeat ed elettronica le coordinate generali del suono, condite da chitarre, basso, synth, echoes e una voce arrochita dalle troppe sigarette che fa dello “scazzo ironico” un arte a tutti gli effetti. Manifesto dell’artista brani come Distrattamente o Mal di testa, il primo cronaca rassegnata in stile Beck di un rapporto di coppia e il secondo omaggio a ritmiche in levare e riflessioni post-alcoliche. Ma anche le progressioni melodiche anni ’80 di Bene!, l’incedere sincopato di Ossessione, le romanticherie robotiche e psych di ###giorni, le tastierine e il beat lounge di Supermen (Let’s Go), il cinismo “costruttivo” di Sbattiti. Piccole canzoncine giocattolo, portatrici sane di un’ottima qualità di scrittura e un feeling immediato speso tra aspirazioni radiofoniche e fascino stradaiolo. Episodi che oltre ad eleggere il loro autore a piacevole scoperta, ne sottolineano le notevoli potenziali- 46 sentireascoltare tà creative. (6.9/10 ) Fabrizio Zampighi Mark Eitzel - Candy Ass (Cooking Vinyl, 2005) Nuovo capitolo discografico per Mark Eitzel, che dopo gli ottimi riscontri di critica ottenuti nell’ultimo periodo con Songs For Patriots – a nome American Music Club – e soprattutto The Invisible Man, dà alle stampe l’ennesima prova solista. Un prova, a dirla tutta, piuttosto in linea con i più recenti sviluppi sonori dell’artista, se è vero che si spende tra paramenti acustici ed elettronica avvolgente, paesaggi onirici e abbondanti ornamenti sintetici. Uniche eccezioni al mood generalizzato dell’episodio in questione, le malinconiche St. Michael, My Pet Rat e Sleeping Beauty, costruite su voce chitarra e poco altro. Il resto è battere laconico di drum machine, saturazioni di tastiera, atmosfere eteree, campionamenti, parti vocali sognanti. Tra le sfumature nemmeno troppo marcate del quadretto dipinto da Candy Ass, spiccano le leggerezze sussurrate di Homeland Pastoral, le mire claustrofobiche di A Loving Tr i b u t e To M y C i t y , l ’ i p n o s i i n dotta di Make Sure They Hear . Suoni talvolta troppo uniformi per essere ricordati, ma risoluti nel procedere a piccoli passi verso il completamento di quel puzzle sorprendente che è la multisfaccettata personalità artistica di Mark Eitzel. Un surplus di note e colori forse non strettamente necessario insomma, tuttavia degno di considerazione.(6.2/10) Fabrizio Zampighi Maxiata - s/t (CNI / Venus, gennaio 2006) Non è male, sulla carta, l’idea dei Maxiata, band abruzzese al debutto con questo omonim o l a v o r o . L’ i d e a , d i c e v a m o : prendi la mutazione tecnologica di certo prog, la vigoria rock dei settanta, il funk cinico di fine ottanta e quella tipica, irrefrenabile voglia di melodia che ogni mediterraneo si porta nel cuore, stempera il tutto e vediamo cosa succede. Succede - ahinoi - che l’idea rimane bella solo sulla carta, che a queste dieci tracce manca il sangue, il passo sferzante, quel volersi non dico esperienza sonora inaudita però almeno individuata, animata dalla voglia d’essere principalmente se stessa. Certo, c’è quel tentativo di applicare formule crossover (echi delle prime cose Red Hot C h i l i P e p p e r s i n Ve r s o o r i e n t e e Bugie, con tanto di patina plasticosa tipica del periodo) al fascino artificioso del neo prog, però le strutture traballano, gli elementi non riescono a fondersi in una soluzione c r e d i b i l e . Ve d i c o m e l a t r a c c i a più ambiziosa, Inviolabile segreto, naufraghi a metà strada tra un prog potabile e una specie di soul cosmico, tentando inutilmente la carta delle nebbioline sintetiche e dell’accompagnamento d’archi, finendo col somigliare a degli Europe redivivi a Sanremo. Q u a n d o c o n To c t o c i l f u n k y tenta un piglio più brusco, aprendosi in petto una finestra hip hop (scratch e talkin’ a cura del dj Angelo D’Eramo), diventa lampante la carenza di negritudine da un lato e di acidità losangelina dall’altro (il cui calor bianco cocainico era di per sé una ragion d’essere). Capita anche tuttavia che le emozioni migliori arrivino quando e da dove meno te l e a s p e t t e r e s t i , i n q u e l l a Tr a luci ed ombre (titolo sintomatico) dove non tutto funziona, ma quel che funziona è abbastanza strano - strofe inclinate folk, sincopi funk e corde radenti - da intrigarti, quasi fosse una jam avariata tra Jeff Buckley e Jane’s Addiction. Ok, è andata così. Fossi in loro ripartirei dalle buone intenzioni di partenza e sfol- tirei il linguaggio alla ricerca dell’essenziale (a partire dalla voce, un po’ troppo sopra le righe). Altrimenti, peccato. (5.2/10) Stefano Solventi Mike Ladd – Father Divine (ROIR / Goodfellas, 25 Ottobre 2005) Prima di dedicarsi all’hip-hop Mike Ladd ha suonato basso e batteria in diverse garage band e si è dedicato alla poesia e alle performance dal vivo, vincendo il Nuyorican Poets Café Slam. Ha pubblicato diversi lavori cambiando sempre casa discografica: la decisione di collaborare con la Roir deriva dall’apprezzamento per le sonorità di gruppi come Bad Brains e Suicide e – più in generale – dalla passione per il suono delle cassette (che utilizza per le sue composizioni e sono presenti nel catalogo Roir). La versatilità e i numerosi interessi hanno guidato Ladd anche nella scelta dei compagni di viaggio per la realizzazione di Father Divine; provenienti da esperienze diverse e anche lontane dall’hip-hop: il pianista jazz Vijay Iyer e il chitarrista rock Jaleel Bunton (Tv On The Radio), High Priest (Antipop Consortium) alle tastiere e Raz Mesinai alle percussioni formano una band che permette all’autore di usare l’hip-hop come una cornice entro cui far confluire sonorità analogiche, atmosfere dub, riff rockeggianti e colori jazz. A far quadrare il cerchio, dando coerenza ai pezzi, provvede il produttore francese Gymkhana che Mike Ladd definisce un maestro dell’elettronica sperimentale. L’ a r t i s t a d i m o s t r a t u t t a l a s u a abilità e maturità anche nelle parti vocali dove rappa (e a volta canta) in maniera sempre incisiva: i recenti cambiamenti nella sua vita (si è spo- sato ed è diventato padre) si riflettono nelle due tracce che parlano – per la prima volta – di donne. Un disco hip-hop che esce dai confini spesso angusti delle hit da classifica, valido per chi apprezza questo genere e vuole ascoltare qualcosa di nuovo o per chi vuole scoprirlo partendo da una direzione alternativa a quella mainstream. (7.0/10) Andrea Erra The Most Serene Republic Underwater Cinematographer (Arts&Crafts - Cooperative 12 luglio 2005/ V2, 6 marzo 2006) Prima band della Arts&Crafts a non avere membri dei Broken Social Scene. Non male come biglietto da visita per questi Most Serene Republic: figli di una etichetta vivace e intraprendente, sciolti da qualsiasi vincolo di sangue e/ o familiare con il combo canadese, per cui niente Stars, niente Apostle Of Hustle e niente padroni di casa tra le fila. Tutto sembrerebbe giocare a loro favore, se non fosse che i legami con la loro terra (già, anche loro canadesi, ma dell’Ontario) sono più forti di quanto previsto. Underwater Cinematographer è infatti un pout pourri di idee e trovate stilistiche da rasentare il collasso: chitarre noise scazzate, sprazzi agitati di elettronica, ordigni pop nascosti da classiche colate orchestrali, tra piano, flauti e cori che si rincorrono senza sosta, in un tripudio di gioia&felicità. Una specie di parco giochi in cui trovare i fratelli maggiori prima citati (Content Was Always My Favorite Colour), i Modest Mouse (The Protagonist Suddenly Realizes What He Must Do In The Middle Of Downtown T r a f f i c ) , i B u i l t To S p i l l e B e n Gibbard ((Oh) God). Sulla carta un gran bel vedere e sentire, solo lo spazio è un po’ troppo ristretto, anche se al- l’aria aperta. Chiediamo di allargare il giardino o i sei ragazzi si impegnano, per il futuro, a ridimensionare le ambizioni? Speriamo scelgano la seconda opzione. (6.3/10) Va l e n t i n a C a s s a n o Orb – Orbsessions Vol.1 ( Malicious Damage / Goodfellas, dicembre 2005) Pubblicato dall’etichetta associata ai Killing Joke, Orbsessions Vol.1 apre i cassetti della gloriosa ditta. Ma a che punto avevamo lasciato Alex Paterson? C’è chi i suoi Orb li aveva seguiti fino a U.F Orb lasciandoli all’auge della carriera, chi s’era addentrato/affezionato fino a Orblivion, l’album che sanciva la fine della prima parte del progetto, e chi infine acquistando il doppio antologico aveva strofinato per l’ultima volta la lampada, rimembrando l’avventura di color che avevano fuso grandeur Pink Floyd e club culture, e lasciandosi così idealmente alle spalle quei ’90 delle chill out e dei nomadismi dentro e fuori dei club. Nel nuovo secolo, i rinati Orb, seppur in lotta con le label, ritornano nel 2003 con il bec e r o B i c y c l e s & Tr i c y c l e s p e r la Sanctuary e infine con Okie Dokie It’s the Orb on Kompakt per l’omonima etichetta (2005). Non sono stati in molti a ascoltarli e, neanche a voler essere cinici, le session in questione sembrano qui apposta per calar l’asso e batter cassa. Nulla di male s’intende, se non fosse che gli scrigni di Paterson non contengono le perle sperate: non sarà di certo Sail, la ballata california style con voce mielosa al femminile, a consigliarne l’acquisto, tanto meno gli ultramondi sampledelici e acquatici - con probabilmente Jimmy Cauty dei KLF in console - di Mummie Don’t (con tanto di bambini, galli e tastierismo ambient sentireascoltare 47 recensioni Julie’s Haircut After Dark, My Sweet (Homesleep / Audioglobe, 6 febbraio 2006) Il quarto lavoro degli emiliani Julie’s Haircut ci riporta ancora una volta faccia a faccia con la Homesleep, realtà nostrana che di recente si è rivelata capace di dialogare col mercato indie europeo sia con prodotti d a e s p o r t a z i o n e ( Yu p p i e F l u s u t u t t i ) s i a d a i m p o r t a zione (Ant e Austin Lace). Nel caso di After Dark, My Sweet la label bolognese sembra addirittura alzare la posta, pubblicando un disco che si allontana dai canoni indie (pop) della band per abbracciare il verbo della psichedelia, intesa nel senso più puro e “classico” del termine. Brani lunghi e dilatati, prevalentemente strumentali e largamente improvvisati, in cui Nicola Caleffi e compagni (con sporadiche incursioni di amici come Sonic Boom e Francesco Donadello) si lasciano andare ad esplorazioni in chiave seventies (leggi: free), senza tralasciare un certo approccio indie-garage e umori wave. Si è detto che questo album è in buona parte strumentale, ma attenzione, guai a dire la “parolaccia” (quella che comincia con post e finisce con rock): a parte un paio di momenti in cui aleggia lo spettro di GDM / Mogwai (forse più per inevitabile suggestione, ma anche no, vedi Pistils), l’attitudine prevalentemente impro riesce andare oltre alle solite dinamiche “forte-piano”, per sfiorare piuttosto certi spazi infiniti floydiani (Ingrid Thulin), minimalismi kraut (Purple Jewel, senz’altro la più riuscita del lotto) e giochi electro-dark (Death Machine e Gemini, pt. 1 & pt. 2, dalle parti di Tw o L o n e S w o r d s m e n ) , n o n d i m e n t i c a n d o c o m u n q u e d e l s a n o g u i t a r r o c k ( l e “ c a n z o n i ” O p e n W o u n d e A f t e r d a r k , r e m i n i s c e n t i r i s p e t t i v a m e n t e d e i S o n i c Yo u t h p i ù m e l o d i c i e dei Radiohead ombrosi del My Iron Lung EP). Sarà una questione di approccio, sarà l’alchimia ben calibrata tra le parti in gioco, sarà anche il saper rievocare in modo efficace determinate atmosfere senza essere calligrafici (soprattutto quando si lambiscono i Joy Division ), di fatto la band riesce a fare suonare il tutto genuino e non pretenzioso. Sulla carta, operazioni di questo tipo sono un azzardo; per fortuna dei Julie’s, della Homesleep (e, vivaddio, di chi ascolta) stavolta è andata. (7.0/10) Antonio Puglia sentireascoltare 48 house), o lo humor tirolese da autoscontro di Sun Of possono essere considerati episodi indispensabili. Convincenti invece le tracce più tirate del platter come la stordente jungle di Yungle (10 minuti di manovre drum’n’bass di gran classe e energia), o l’electro tirata à la Mouse On Mars di Eurofen, o il bass voodoo di Steel Horse (lo humour che ci piace ricordare di Paterson). In definitiva, se siete tra gli ultrasfegatati che sentono nostalgia degli Orb, la raccolta potrebbe fare per voi; a tutti gli altri consigliamo la riscop e r t a d i U . F. O r b , d i O r b u s Te r r a r u m e p u r e d i O r b l i v i o n . Quelli erano gli Orb di serie A, queste session, a mio avviso, al massimo potrebbero giocare in C2. (5.5/10) Edoardo Bridda Pillow - Flowing Seasons (2nd Rec / Wide, 20 febbraio 2006) Pillow in inglese significa cuscino, Flowing Seasons “lo scorrere delle stagioni”, l’etichetta è l’amburghese 2nd Rec, che lo scorso anno avev a m o i n c o n t r a t o c o n i Te l l a r o , e se aggiungiamo che l’album in questione è quello di Luca Di Mira, membro dei Giardini di Mirò qui all’esordio solista, già ci pare di aver intuito le sonorità qui proposte. Il bersaglio è in traiettoria: un sound autunnale, sospeso tra ricordo e melanconia, vicino a certe derive post-rock ma decisamente virato sull’assemblaggio al laptop, rappresenta l’ideale filo d’Arianna per le sonorità recentemente esplorate da Sébastien Schuller e Finn. Il tastierista riprende l’idioma folk-tronico come alcune delle suggestioni che h a n n o r e s o f a m o s i i L’ A l t r a i n quello che ha tutta l’aria diuno slalom stilistico in perenne pericolo d’inflazione, eppure tra i ghiacci a firma Sigur Ròs (Mixologists And Waifs), la musica da camera à la Murcof (In Deep Sea), i vocalizzi ammalianti filo Portishead via Popolous della guest Jacqueline Tume (Indecision), raramente si ha la sensazione di un ascolto derivativo. Cut-Out-And-Keep Quarrels unisce amabilmente: glitch, c a n t o a m e t à t r a Yo r k e / S c h u l ler e languide tinte di chitarra (e fisarmonica) come i migliori Black Heart Procession sanno f a r e , Tr e e S h a d o w s m e s c o l a con gusto soffuso breakbeate L o w. C o s ì u n a T h i c k S k i n , i n possesso di tutte le stimmate della leziosità (e perciò pane per i detrattori), trova nella magica melanconia per piano, oboe e glitch-hop di With The Passing Of The Seasons una degna conclusione a conferma di un lavoro discreto quanto ispirato. Non sarà forse Schull e r, m a D i M i r a è b r a v o a l m e n o quanto Finn. (6.5/10) Edoardo Bridda Ray Davies - Other People’s Lives (V2, 2006) Che cosa possiamo ragionevolmente pretendere, da quelli che senza pietà siamo soliti chiamare Brontosauri del Rock? Cosa, da chi ha fatto la Storia, alimentato leggende, invaso la cronaca? Alla fine, poco o tantissimo: belle canzoni e non prenderci per il culo. Va p e r i s e s s a n t a d u e , M r. D a vies; nel periodo non collegato gli si è spianata la fronte da farlo assomigliare a James Ta y l o r e h a a v u t o q u a l c h e p r o blema di salute, legato alla pallottola vigliacca che lo raggiunse a una gamba due anni fa, mentre stava difendendo un’amica da uno scippo. Periodo non collegato… l’ultimo album prima di questo per certi versi sorprendente debutto con V2 - The Storyteller, una sorta di brevi cenni sull’universo Davies & Kinks - risale al ’98, e per trovare qualcosa d’altro bisogna risalire il corso del fiume su su fino al’85, quando uscì Return to Waterloo, colonna sonora di un film da Ray scritto e diretto. Prima ancora, vita morte e miracoli della band che non pochi ritengono più spartiacque di Beatles e Stones; dopo, soltanto un documentario del ’91 su Charlie Mingus. Negli ultimi tempi, però, dev’essergli proprio tornata la voglia, se Other People’s Lives - a conti fatti il suo primo, vero solo - è stato preceduto d a b e n d u e E P, T h e T o u r i s t e Thanksgiving Day, salomonicamente registrati uno in Inghilterra, l’altro negli Stati Uniti, dove Raymond Douglas ama spesso perdersi a New Orleans (e proprio per raccogliere fondi a sostegno delle scuole di NO colpite da Katrina è stato inciso il minialbum). Una voglia che ha in qualche modo contagiato l’altro Davies, Dave (di lui basti e avanzi citare Death Of A Clown, che qualche pensionato ricorderà cantata in italiano dai Nomadi col titolo di Un figlio dei fiori non pensa al domani): 59 anni il 3 febbraio, il minore dei fratelli Kinks - che fu il fondatore della band, e Manitu gliene renda merito si è parzialmente ripreso dal (brutto) colpo del 2004. Anni difficili, gli ultimi, per i Davies Brothers... comunque sia, Kinked, una compilation con un brano nuovo (God In My Brain), è in uscita per Koch, preceduta dalla ristampa furb e t t a d i S t o r y t e l l e r. Ma torniamo a Ray: Other People’s Lives non ci prende per il culo, e soprattutto contiene belle canzoni, che a doverne scegliere una ma una solamente, direi Next Door Neighbour, un pezzo che non sfigurerebbe nella “Village Preservation Society” e che sta a Davies, questo album e la sua carriera come English Te a s t a a M c C a r t n e y, i l s u o “Chaos” e il suo Mito. Ma altre non mancano, dalla ballato- sentireascoltare 49 na rock After The Fall all’ancheggiante title track; Davies si impegna, gigioneggia (non è forse lui ad aver detto una volta di aver “scritto solo duecento buone canzoni, il resto sono B-sides”?) fino a elargire qui - Run Away From Time - pillole di Lou Reed, là - The G e t a w a y ( L o n e s o m e Tr a i n ) p e t a l i d i N e i l Yo u n g , q u a n d o addirittura non dà l’impressione di aver ascoltato qualche disco nuovo (Devendra? Bright Eyes?). Anche se forse sono solo allucinazioni, ed è più credibile immaginarselo in poltrona, con qualche vinile dei Kinks sul piatto. Del resto, in quei vecchi padelloni c’è quasi tutto. (7.3/10) Ivano Rebustini Rosolina Mar - Before And After Dinner (Wallace / Audioglobe, 2005) Non dovete badare al cantant e . L’ u n i c a v o c e u m a n a u d i b i le in questo disco è al minuto 4’12’’ della traccia intitolata Mingozo diMongozo, ed è un urlo. Bisogna farci attenzione perché è in secondo piano, ma quando le orecchie lo captano è belluino e liberatorio, una frazione di secondo in cui tutto ciò che serve si esplicita come nessun versaccio poetico potrebbe. Niente rime baciate o stereotipi assortiti, solo l’urlo di un musicista galvanizzato che sente arrivare la deflagrazione, la “Cosa”, avrebbe detto Kerouac. Lui parlava del jazz, della “New thing”, noi parliamo di rock in senso primordiale. E i conti tornano. È l’approccio il comun denominatore, ed è inevitabile immaginare questi dodici pezzi come i figli di jam indiavolate e ispiratissime (pur se i Rosolina Mar non hanno voltato completamente le spalle al math rock degli esordi). Anche nei vecchi dischi jazz capita di imbattersi in esclamazioni abbozzate e versi indistingui- 50 sentireascoltare bili, è la dimensione totalmente fisica della musica, il corpo che suona. I corpi che suonano e lo fanno insieme, in una comunione antica e semplice che non prevede primedonne dalla troppa o poca personalità. Non si è costretti a badare al cantante e alle sue paranoie, nessuno ha disseminato nei testi le sue risposte alla vita, le parole qui sono dodici titoli tanto bizzarri quanto evocativi, e non c’è r a g i o n e d i d u b i t a r e c h e L’ o r a di religione possa essere un intrico perfetto di chitarre e batteria. Nulla da eccepire se un Amore tossico si presenta con una sfuriata elettrica per poi rallentare, citare Police, impensierirsi e ripartire più disperato di prima. Le sensazioni non si discutono, le visioni tanto meno. Seconda prova dopo l’ottimo esordio self titled del 2003 sempre per Wallace (che, come si diceva, qualche tributo pagava alla scena occupata da Don Caballero, Trans Am & Co.), questo Before And After Dinner è cinematico, legato a un filo interno che è troppo presto definire logico, è viscerale e complesso come Hendrix e tribale come Santana sul palco di Woodstock, gioca con la new wave sottraendo ai Franz Ferdinand ciò c h e è d e i Ta l k i n g H e a d s e s e la gode con melodie ficcanti. Prima (durante?) e dopo cena, R o s o l i n a M a r d a Ve r o n a : i l d i o dell’indie ci scampi dalle primedonne. (7.5/10) Nicola Bonardi Seu Jorge – The Life Aquatic Studio Sessions (Hollywood, 22 novembre 2005) Tra le scene che avranno maggiormente colpito gli spettatori di quello stralunato - e bellissimo - film che è The Life Aquatic With Steve Zissou (di Wes Anderson, 2004), ci devono essere quelle in cui uno dei membri dell’equipaggio del c a p i t a n o B i l l M u r r a y, i l b r a s i - liano Pelè (sic!), si cimentava armato di chitarra in improbabili versioni in portoghese dei classici di David Bowie piuttosto che fare da guardia ai pirati… Beh, quell’attore non è altri che Seu Jorge, astro nascente della nuova scena di cantautori brasiliani, con all’attivo già due album solisti (l’ultimo, Cru, è del 2005). Se all’interno del film di Anderson le canzoni di Ziggy Stardust in versione Gilberto Gil erano perfettamente funzionali a sottolineare i momenti più cruciali - non senza un certo effetto comico/surreale, per certi versi questo disco (che raccoglie le intere sessioni, a differenza della colonna sonora ufficiale) non è niente più che una stranezza, pardon, una oddity. Per altri versi, la trasposizione in veste bossa del Bowie glam ha un qualcosa di buffamente poetico, come se, per quanto bizzarro, l’incontro tra saudade e il pathos delle prime composizioni di David Jones (specialmente quelle tratte da Hunky Dory) sia più plausibile di quanto sembri. Pasticciando tra inglese e portoghese, ondeggiando tra parodia e tributo, Seu Jorge pare riprodurre e restituire la liricità innata di L i f e O n M a r s , F i v e Ye a r s , Q u i cksand, sfoderando di quando in quando quell’autoironia che poi del glam era caratteristica. E se lo stesso Bowie, che in un primo momento non voleva dare l’autorizzazione per l’uso dei brani, adesso dice di voler incontrare l’artista brasiliano, qualcosa di buono in queste The Life Aquatic Studio Sessions dev’esserci per forza…(6.7/10) Antonio Puglia Skeletons And The Girl-Faced Boys - Git (Shinkoyo - Ghostly International / Wide, ottobre 2005) Pop music di terza generazione trasmessa con mezzi di fortuna, raccolti su un’isola recensioni Songs For Ulan You Must Stay Out (Stoutmusic / Audioglobe, febbraio 2006) Dopo le avvisaglie dell’omonimo ep, ormai un paio d’anni orsono, ecco finalmente l’album d’esordio del prog e t t o S o n g s f o r U l a n , a l i a s P i e t r o d e C r i s t o f a r o . L’ a l a protettiva di Cesare Basile c’è ancora, così come il sostare cocciuto tra le ombre del sogno americano, tra le pieghe di quei folk-rock che raccontano più amarezze che prospettive, più rimpianti che rivalse. Se la scrittura sembra aver conseguito una disarmante agilità (dieci pezzi su undici sono originali), la voce appare un po’ arrochita ma anche decisamente più matura. Altro segnale di “crescita” è senza dubbio la presenza tra i graditi ospiti del grande Hugo Race, che sparge desertica elettricità laddove la vena si fa rabbiosa. Detto questo, andiamo ad individuare il riferimento principe nel Mark Lanegan dei tremori inafferrabili: vedi la lenta e rarefatta No More, No Less, con quei ruggiti in lontananza e il canto invischiato nel disincanto. Del resto, quando Pietro si rivolge ai Gun Club per l’unica cover in programma (una Secret Fires fremente tra banjo e rifrazioni elettriche) non fa che salire di un gradino l’albero genealogico. Al grande Jeffrey Lee Pierce viene da pensare anche in occasione del blues minaccioso On My Hand, la voce affilata, i ghigni del basso, il piano che pesta e quelle chitarre che tagliuzzano l’aria. C’è da dire che per quanto la temperatura si alzi non ci si avvicina mai al sovraccarico, gli arrangiamenti perseguono un’asciutta efficacia, il clamore - quando c’è - è quello che circonda il silenzio. Silenzio da cui sembrano sbocciare certe ballate a cuore perso (la title track), certe delicate malinconie (Somebody Else Do It), quei romanticismi tenuti al guinzaglio (Julie), quei respiri folk sul punto d’allargarsi e sprofondare (3 Submarines). Lo diresti un Cat Stevens ridotto ai minimi termini, oppure un Mark Linkous tolta la spettrale alienazione, o un Mike Scott che ha barattato l’asprezza con un tiepido cinismo. Coordinate che vacillano di fronte al valzer waits i a n o d i A P r e s e n t e s o p r a t t u t t o a q u e l l a H e l l W a s N e x t To C o m e c h e c u c e u n a r u m b a Calexico e i dEUS più minimali col fosco filo del contrabbasso. E’ insomma una prova autorevole, una partita giocata con piglio ombroso ma sicuro. Forse manca all’appello il pezzo decisivo, quello capace di aprire brecce e trascinarsi dietro le calligrafie più smorzate. Ma credo che a Pietro de Cristofaro e compagnia questi discorsi non interessino più di tanto. (7.1/10) Stefano Solventi sentireascoltare 51 deserta in un non meglio specificato punto del globo terrestre. Git è un segnale radio disturbato, una frequenza aliena che capta corpuscoli electro S u p e r C o l l i d e r, p a r t i c e l l e f u n k tra Prince, Michael Jackson e J a y K a y, e p r o p e n s i o n e A n i m a l Collective alla destrutturazione dei generi. Una trance di 38 minuti appena, nata dalla fervida immaginazione di Matt Mahlan, uno dei fondatori del Shinkoyo Record, etichetta in cui gravitavano un numero variabile di musicisti che, con il tempo e le esperienze live, si sono trasformati nella sua band di supporto - nei precedenti Everybody Dance With Yo u r S t e e r i n g W h e e l ( A u t o prodotto, 2002), Life And The Afterbirth (Shinkoyo, 2003) e I ’ m A t T h e To p O f T h e W o r ld (Shinkoyo, 2004) il Nostro si era limitato a fare tutto da solo, in casa propria. Un disco straniante, che può essere preso sottogamba se non gli si dedica un ascolto più approfondito: solo così, infatti, si percepiscono i richiami ad un terra lontana come l’Africa, con le ritmiche insistenti e primordiali (See The Way, Y’all Thinks It’s Soo Easy con in coda dei Funkadelic psicopatici), gli ammiccamenti a certa improvvisazione jazz (le sincopi spezzate da chitarre nervose e stridenti di We Won’t Be Proud, No No No), la tensione verso un pop che è soul ma anche funk (i Sea And The Cake in un viaggio interstellare di There Are Seagulls Who Live In Parking Lots, con il falsetto di Mahlan cugino stretto di Prekop), i cortocircuiti sintetico-umani (la raffica di laser e percuss i o n i d i Yo u ’ d a B e e n B e t t e r Off If e la sirena marziana di T h e r e ’s A F l y I n Yo u r S o u p And I Put It There). Un eclettismo che lascia spiazzati, una schizofrenia coesa che sorprende piacevolmente, una concezione del pop che contiene tutto e il contrario di 52 sentireascoltare tutto. Non un capolavoro assoluto, ma un buon modo per guardare il nuovo millennio con occhi diversi. (6.8/10) Va l e n t i n a C a s s a n o Solvent – Elevators & Oscillators (Ghostly International / Wide, 2005) Nuova prova discografica per Solvent, uno dei nomi di punta di un certo modo di sentire/ ascoltare la musica elettronica. Elevators & Oscillators è una raccolta che alterna canzoni inedite e remix curati da gente del calibro di Lowfish e Isan. Ed è, neanche a dirlo, un altro piccolo gioiello di classe e intelligenza. Che sia il delizioso pop sintetico di Wish, l’atmosferica conclusione del brano che presta il proprio nome all’album o le diverse – e sempre riuscite – declinazioni di un pezzo fondamentale come My Radio (la prima, di Mitgang Audio, si adagia su una cassa in quattro quarti ornata da soffici tappeti trance; la seconda, di Legowelt, è puro casio-pop anni 80, ossessivo e disumano nel suo incedere robotico; l’ultima, di Schneider TM, seduce con il suo raffinato vestito indietronico), il risultato è sempre vivo e trascinante.Un riempitivo? Certo, ma di buonissima fattura. (7.0/10) Manfredi Lamartina Sparks - Hello Young Lovers (Gut Records / Goodfellas, 6 febbraio 2006) Dici Sparks e pensi alla teatralità dell’art rock, coniugata in modo personalissimo, attraverso glam, vaudeville alla Kinks, pop, testi ironici e surreali: una formula che li ha caratterizzati negli anni, il loro marchio di fabbrica. Americani di Los Angeles, espatriarono in Inghilterra, dove esplosero nel 1974 con l’ottimo Propaganda, trasferendo in terra british la loro vena causti- ca; hanno proseguito poi, tra alti e bassi, coniugando negli anni ’80 synth pop e disco c o n G i o r g i o M o r o d e r, m u s i c a s i n f o n i c a e d e r i v e h e a v y, f i n o al presente. Qual è il senso oggi di un nuovo parto degli Sparks? Il ritorno dei fratelli Ron e Russell Mael, a quattro anni di distanza da Lil’Beethov e n , a v v i e n e c o n H e l l o Yo u n g Lovers,ventesimo disco: ed è come non averli mai lasciati; è evidente infatti la continuità con gli ultimi lavori del gruppo, in particolare con il penultimo. Ritornelli e strutture melodiche che vengono ripresi nel corso dei pezzi (Dick Around, che lambisce l’hard rock più pacchiano, The Very Next Flight, Rock Rock Rock), filastrocche ( M e t a p h o r, Waterproof) tra acuti e falsetti operistici, cori in un call and response sguaiato, esagerato, in un evidente autosuperamento della “forma canzone pop” à la Sparks, alla ricerca di nuove formule, come loro stessi ammettono di fare da qualche anno. Non tutto funziona però in questo gioco perverso: Hell o Yo u n g L o v e r s n u l l a a g g i u n ge infatti alla loro formula, ormai ampiamente sfruttata, se non qualche pezzo (nel precedente era I Married Myself, qui la eniana (Baby Baby) Can I I n v a d e Yo u r C o u n t r y , Wa t e rproof e poco altro ancora. La sensazione di “già sentito” è molto forte, anche se gli Sparks sono capaci di creare ancora hook che restano fortemente in testa, ritornelli micidiali che non lasciano scampo. Ma ci piacciono anche per questo, tutto sommato. (6.2/10) Te r e s a G r e c o Talibam! – Talibam! (Evolving Ear, 13 febbraio 2006) E s o r d i o a s s o l u t o p e r i Ta l i b a m ! che si divertono a impacchettare i loro cd-r dentro copertine di LP più o meno recenti con tanto di frammento di vini- recensioni Tiga Sexor (Pias / Self, 6 febbraio 2006) Tiga è un nome scritto con strass vistosi nel mondo del djing. Lo stesso applicato sul retro del giacchino Adidas del protagonista/marionetta di Hot In Herre, tutto movenze sexy e beat serrati, tra hip hop (l’originale è infatti della super star Nelly) e electro-house. Lo stesso nome che si illumina in un led rosso alle sue spalle, infuocando la minuziosa ricostruzione di un dancefloor in miniatura. Tiga è uno stiloso giovane canadese che ha fatto crescere l’attesa per il suo primo album ufficiale fino allo spasimo, conquistandosi un piedistallo nel tempio dei remixer con nomi del calibro di Depeche Mode, Cabaret Vo l t a i r e , F e l i x D a H o u s e c a t , F i s c h e r s p o o n e r e v i a d i q u e s t o p a s s o p e r l u n g h i c i n q u e anni, con un singolo ogni due mesi, giusto per non perdere la mano. O r a è i l s u o m o m e n t o e a l l o r a “ L a d i e s A n d G e n t l e m e n , W e l c o m e To P l a n e t S e x o r ” , t r a applausi e urla da stadio, luci spente, fumo che si disperde e il perfetto 4/4 di Far From Home che si arrampica dalle caviglie, facile e leggero fino alle spalle, motivetto pop canticchiato con spensieratezza mentre strizzi l’occhio al primo che passa. E poi di seguito le tre hit che hanno fatto ribollire il sangue ai più votati frequentatori dei c l u b d i m e z z o m o n d o : Yo u G o n n a Wa n t M e - s e n s u a l e e r o b o t i c a , c o n l ’ e f e b i c a v o c e di Jake Shears (Scissor Sisters) a fare da contraltare alla compostezza del Nostro e con lo zampino dei Soulwax alla produzione (anche in Good As Gold - Flexible Skulls ) -, Louder Than A Bomb - esplicito omaggio agli adorati Public Enemy -, e Pleasure From The Bass - vorticoso hands clapping, linea di basso sintetica e cantato-recitato minimale e sospirato. È un proliferare di spalline alle giacche, abiti fascianti strizzati in vita, scollature v e r t i g i n o s e e e y e l i n e r g e o m e t r i c i , c o l o r i f l u o e p o s e d a s t a r. M o s t r a r e , g u a r d a r e , g o dere. Gli anni Ottanta che rivivono in tutto il loro sfrontato edonismo (Burning Down T h e H o u s e d e i Ta l k i n g H e a d s n e è s o l o l a d i m o s t r a z i o n e ) , i n u n f o r m a t o c a n z o n e c h e passa per Chicago, flirta con l’hip hop, si esalta con i rave e continua a camminare al passo spedito di un electro-funk futurista e fascinoso. Che in realtà Tiga sia soltanto un androgino modaiolo capace di cavalcare l’onda montante del revival di questi anni? Forse, ma le luci stroboscopiche del suo set sono ancora forti e luminose. (7.0/10) Va l e n t i n a C a s s a n o sentireascoltare 53 le accluso (modalità non nuova di packaging nel sottobosco indie, ma sempre intrigante). Già conosciuto nel microcos m o a v a n t d i N e w Yo r k , i l t r i o capitanato da Kevin Shea è una delle più gradite sorprese degli ultimi mesi, soprattutto considerando quanto da quelle parti sia pericoloso maneggiare synth batteria e sax senza risultare banali o già sentiti. Grazie però al background di Shea (per chi l’avesse dimenticato: batterista degli Storm ‘ n S t r e s s , d u e a l b u m s u To u c h ‘n Go) e all’intrinseco valore di questi tre pezzi, il rischio viene eluso o quantomeno ridimensionato. Libertà espressiva e adesione ai dettami dell’improvvisazione riescono infatti a farci pegnati modi di pensare. Resta il fatto che, tra fasti elettronici, reincarnati folk, ritorni di fiamma wave, il rock’n roll di elvisiana memoria sopravvive e conserva la propria setta di adepti, più o meno fedeli e contaminati. Gli uomini strafottenti dell’onda presente esistono ancora e, coraggiosamente, incidono dischi alla faccia della tormentata ricerca del nuovo e stupefacente ultrachic. Definirli eccentrico/kitch è un eufemismo, di fronte alla cresta di platino e ai pantaloni da boxeur del cantante e chitarrista Andrew Mc Farlane nel Cassius Live del 2005, oppure alle futuristiche tute alla Devo dei restanti Hormonauts, nel v i d e o d i I S e e Tw o . M a l o r o precedono l’ironico swingare finale, che simula il vocione doppio degli omoni jazz (Any Normal SuperHero). Lo sguardo asettico ed oggettivo riconosce qualche ingenuità e giustapposizione, ma l’inevitabile coinvolgimento diverte e arruffiana, nell’attesa della conferma live.(6.3/10) dimenticare quanta di questa musica sia già stata scritta e suonata, prima e dopo l’arrivo di John Zorn. Quel che ne viene fuori è un’aggrovigliata e calibratissima cascata ritmica, a cavallo tra i Flying Luttenbachers e i Lightning Bolt, ennesima dimostrazione che nel rock, nonostante la scorpacciata post, si può ancora fare a meno delle parole. Basti pensare a quanto di buono fatto negli ultimi anni non solo dai Lightning Bolt ma anche da Hella e Orthrelm, in grado di smussare certa concettualità propria del rock matematico. I n q u e s t o s e n s o i Ta l i b a m ! r i sultano forse meno digeribili, più espressamente votati alla tradizione free e no-wave e senza l’autoironia e le derive hard-rock dei gruppi appena citati, ma assolutamente non inferiori. Per molti insomma, ma non per tutti. (7.3/10) suonano e delirano e se ne fregano, sbeffeggiando innanzitutto se stessi, come terapia ammazza-sistema. La sceno/coreografia è tanta, questo bisogna ammetterlo, ma la volontà e l’energia non mancano. Dopo una quinquennale, densa produzione alla corte di diverse etichette ed un cambio nell’organico, i cultori dell’ormone tornano a sovvertire palchi con Hormonized. Con un’apertura spudoratamente surf, il punk ‘n’roll si riversa torrenziale ed esag i t a n t e ( L u c k y To y ) , a p r e n d o s i a refrain al gusto La Bamba (A Bandle Of Fun); gli Knack di My Sharona, vengono rivisitati in un sogghignante c o u n t r y, c h e d i v e n t a i n c a l z a n te peripezia simile al rincorrere un animale sfuggito al controllo del padrone (Greasy Black Hands). La title-track è un’impudicizia cantata beffardamente, in perfetto stile Lux I n t e r i o r, c o n i n a u d i t e i n s e r z i o ni di tastiera Casio, furtivamente introdottasi al richiamo della lascivia, mentre Quentin Ta r a n t i n o p o t r e b b e l a n c i a r e gridolini entusiasti sulle note del tragicomico western-dram a d i H a t u e y. D i v e r t i s s e m e n t alla SamCooke (Hormonettes) estatici figli dei figli dei fiori, chitarroni e flauti, organini e misticismo, mischia paciosa di voci, bacia il santino di Tim D e l a u g h t e r, s i a b e n e d e t t a n e i secoli la Elephant 6… Insomma, sono lì che mi sto rassegnando al dovere dell’ascolto (ad un ascolto di dovere), quando questi cinque ragazzi (due maschietti e tre femminucce) decidono di sorprendermi: ecco che le trame s’intossicano, s’ispessiscono d’elettricità, sterzano in diagonale tra i folk insidiosi di Robyn Hitchcock e quelli battaglieri dei Neutral Milk Hotel, carezzano palpiti sintetici e tradizione con nonchalance Belle And Sebastian, alternano morbidezze malsane ad asprezze accorate, lasciano indovinare passioni Phil S p e c t o r, A b b a e H u m a n L e a g u e sotto l’indolente coltre Americana. Uscito nel 2004 - fu il primo titolo per l’etichetta di Conor Oberst, che tra l’altro lo co-produsse – questo Wild like children trova oggi adeguata distribuzione in Italia. E’ un buon disco, ispirato e con poche cadute. Può contare sull’entusiasmo degli autori, sul loro talento appena sbocciato, su una voglia d’imme- Roberto Canella The Hormonauts – Hormonized (V2, 17 febbraio 2006) Che la spensieratezza di certa maschiosità sudorifera sia il diversivo senza pretese di serate birrofile e leggere, potrebbe divenire l’ennesimo luogo comune di inquieti e im- 54 sentireascoltare Mimma Schirosi Tilly and the Wall - Wild Like Children (Team Love, giugno 2004, cooperative / v2, febbraio 2006) Dopo pochi secondi dall’iniziale Fell Down the Stairs ti viene da pensare: ecco un’altra band devota alla cartapesta bucolica, folgorata sulla via zuccherosa della comune col camice bianco, ecco altri recensioni Toy Toy (Smalltown Supersound / Wide, 13 febbraio 2006) I l n o m e è t u t t o u n p r o g r a m m a . To y . E p r o p r i o c o m e q u e i giocattoli di ultima generazione, progettati – diabolicamente? – per piacere ad ogni bambino sulla faccia della terra, così questo bel dischetto è un implacabile susseguirsi di gioiosa melodia/contagiosa allegria che riesce a sincronizzare il cuore dell’ascoltatore verso frequenze vitali più rilassanti e rilassate. Questo non sembri la classica esagerazione di circostanza per convincere chi legge della bontà dell’album. Sappiamo che una raccolta di pezzi casio-tronici, nel qui e ora del 2006, è sorprendente quanto una pizza margherita a Napoli, dopo che gruppi del calibro di Books, L e m o n J e l l y e To R o c o c o R o t h a n n o t r a c c i a t o n u o v e e d e c c i t a n t i v i e n e l l a f r a s t a g l i a t a galassia dell’electro. Ma un disco strumentale come questo merita comunque un po’ di fiducia preventiva. Perché è vero, segue le coordinate glitch-bucoliche delle band citate precedentemente, ma lo fa in un modo così gustoso e gradevole che il risultato finale è meravigliosamente e paradossalmente pop. S e d a n T h r o u g h Tu n n e l h a u n a c a s s a i n q u a t t r o q u a r t i c h e t i p r e n d e a l l e g r a m e n t e i piedi e li fa muovere senza che tu possa fare niente per fermarli. Valley Cars parte con sonorità vagamente orientaleggianti per poi aprirsi in uno squarcio lisergico e psichedelico che gli ultimi Chemical Brothers farebbero carte false pur di riprodurlo nei propri cd. La chiusura di Decorama è un reggae sintetico che colora il mondo con pennellate calde e tinte vive, come se stesse per sbocciare il calore e il profumo di una primavera che permetta finalmente di irridere questo freddo incessante e di farci beffe dei tagli energetici dei russi. Non a caso, se durante l’ascolto ti guarderai allo specchio, troverai più di un sorriso solcare la tua bocca. (7.5/10) Manfredi Lamartina sentireascoltare 55 diatezza che non fa sconti alla tensione. E sul bel carattere delle voci, il che non guasta anzi può fare la differenza. Quasi dimenticavo: quello che sentite ad esempio in Bessa e Reckless è proprio un tip-tap (a cura della tap dancer Jamie), e sostituisce più che degnamente la batteria. (6.9/10) Stefano Solventi Tom Violence – Self Titled (Black Candy / Audioglobe, febbraio 2006) Il post-rock ha compiuto tutto intero il percorso di definizione stilistica: ha ferito a morte le forme della rock-song, ha gambizzato le prospettive, ha mischiato le carte, ha frammentato gli elementi. Poi è tornato sulla scena del delitto, ci ha pianto su, infine si è accettato e ha preso a camminare sulle proprie gambe senza tutta quella intransigenza, senza quell’aria da salto nel buio, il cuore conteso tra rimpianto e nostalgia. Insomma, il post-rock melodico dei To m V i o l e n c e c a m m i n a s u q u e l sentiero di redenzione postpost-rock come prima di loro ad esempio i Giardini di Mirò o i L’ A l t r a , t a n t o p e r c i t a r n e un paio. Siamo quindi dalle parti di un già sentito pericolosamente in bilico sul logoro, melodia e tormento, ballad a profusione per chitarre uggiolanti ed eventuali tumulti in crescendo. Con la differenza che il loro background può usufruire del non trascurabil e a d d i t i v o S o n i c Yo u t h ( n o n a caso il nome della band viene da un pezzo di Evol) e di una evidente filiazione Dirty Three incarnata dal sapore dominante del violino. L’ a v a n g u a r d i s m o r o c c i o s o e disinvolto dei primi e le brume romantiche dei secondi permettono di applicare alle belle melodie arrangiamenti non certo inauditi ma non privi di soluzioni a sorpresa: se le tastiere spandono la loro presenza con luccicante di- 56 sentireascoltare screzione, se le elettroniche popolano talora l’atmosfera di fantasmini glitch (Walthamstow central) e se il sax provoca coloriti scossoni (Another fashion victim), può capitare altresì d’imbattersi in found voices, in un vivido glockenspiel, in un clarinetto basso che stende tappeto brumoso, in quei talkin’ dall’inflessione cinico/sardonica quasi watersiana, in un pianoforte che cuce Lennon coi Sigur Ros (nella conclusiva Spop). Più di ogni altra cosa convince però la capacità di giocare coi registri bassi, dove i timbri s’impastano invischiando il cuore, come nel pigro splend o r e d e l l ’ i n i z i a l e To s e t s o mething convivial o in quella Good morning che ha il solo difetto di durare un po’ troppo. Sanno fare bene ciò che v o g l i o n o f a r e , i To m V i o l e n c e , lasciando intravedere numeri per fare di più. Cioè - forse - altro. (6.4/10) Stefano Solventi Ursula Rucker – Ma’at Mama (!K7 / Kizmaiaz, 20 Gennaio 2006) Ursula Rucker è una poetessa afroamericana di Philadelphia, al terzo lavoro musicale (Supa Sista, 2001 e Silver And Lead, 2003 i precedenti); laureata in giornalismo, ha iniziato a recitare in pubblico le proprie poesie nel 1994 e subito dopo a collaborare con artisti e produttori quali King B r i t t , 4 H e r o , J a m a a l a d e e n Ta cuma, Josh Wink e The Roots (per i quali compone i tre testi che chiudono i loro primi tre album). Il suo approccio alla musica si colloca nella scia di quando fatto da Gil Scott Heron (in quanto padre della jazz poetry afroamericana) e nel solco della tradizione orale afroamericana già portata avanti dall’hip-hop; proprio per questo movimento culturale la Rucker rappresenta un elemento di rottura per il punto di vista femminile (e femminista) espresso dai suoi testi (contro una pesante caratterizzazione maschilista di buona parte della musica hip-hop) e per la collaborazione con artisti europei che l’hanno portata ad incontrare sonorità altre rispetto a quelle black e più vicine alla scena elettronica. Le influenze e i punti di riferimento dell’artista sono tanti e rintracciabili anche al di fuori del mondo della musica: tra i più importanti c’è Frida Kahlo (per l’evidente gioco di mimesi che la Rucker porta avanti tra la sua immagine e quella dell’artista messicana, in quanto donna radicalmente diversa dagli stereotipi occid e n t a l i : “ … C a l l m e … / c r a z y, divine, Ma’at, true honeybun, Supreme Pontifica, electric l a d y, h o l y p r o s t i t u t e / I d o n ’ t care what you call me/ I know who I is …” è la conclusione di For Woman),. Ma’ at Mama, scritto e prodotto quasi interamente da Anthony Tidd, che ha anche scelto i musicisti per registrare, ci propone un cammino tra diverse atmosfere musicali sempre legate al testo: così Rant (Hot In Here) con la sua critica graffiante e corrosiva e la richiesta di una rivoluzione è sostenuto da un riff ipnotico e minimale, che spinge avanti l’esecuzione, mentre Black Erotica viene rivestito da una ballad jazz sensuale; non mancano naturalmente pezzi più vicini all’hip-hop (Poon Ta n g C l a n ) o p i ù s p e r i m e n t a l i (Spiri-Chant). Fondamentale è la capacità della Rucker di adottare diverse tecniche di esecuzione del testo (da una semplice lettura, al rap fino a brevi passaggi cantati passando attraverso le diverse possibili sfumature immaginabili) adattandole anche alla base musicale scelta. Anche nei confronti del mondo della musica la sua posizione non è certo tenera: un continuo svuotamento di “arti- sticità” e una sempre maggiore presenza di prodotti mainstream sono i punti deboli che la poetessa individua. Un disco molto bello e importante, impegnativo se affrontato nella sua completezza, da ascoltare per chi volesse accostarsi a questo genere; ritratto di un’artista completa e rappresentativa del nostro presente, ma che non dimentica – anzi vivifica – le proprie radici (quantomeno dovuto l’accostamento a Tracy Chapman). All’ascoltatore tocca decidere se accontentarsi del suono della voce di Ursula Rucker e della varietà stilistica delle basi musicali o se (vivamente consigliato) provare un ascolto accompagnato dalla lettura dei testi (scaricabili dal sito ufficiale dove si possono anche ascoltare i brani). (7.8/10) Andrea Erra sentireascoltare 57 dal vivo C l u b To C l u b Festival Internazionale di Musica Elettronica Contemporanea V e d i z i o n e ( To r i n o , 1 0 - 1 2 n o v e m b r e 2 0 0 5 ) di Paolo Grava. Foto di Bruko La tre giorni dedicata alla musica elettronica giunge alla quinta edizione, riproponendo una formula tanto coraggiosa quanto apprezzata dal pubblico. Ne abbiamo parlato con l’organizzatore, Giorgio Valetta. To r ino è il mio dancef l o or. Club To Club: musiche che vanno dal suono da club all’elettronica di ricerca con una particolare attenzione alla multimedialità. Nella serata centrale ben tre location presentano eventi in contemporanea, lasciando libera scelta agli utenti, i quali si troveranno a vivere una versione personalizza- 58 sentireascoltare ta del sede. Festival multi- L’ a p e r t u r a è a ff i d a t a a J a m i e Lidell, la cui esibizione sarà giudicata da molti come la più geniale della rassegna. Un prestigiatore del suono, per la capacità di giocare e stupire con le frequenze e i timbri, pescando dalla black music di casa Motown quanto al suono o r c h e s t r a l e p r e - w a r. All’Hiroshima Mon Amour aprono la serata del venerdì i due nomi di punta della teutonica Gomma Records. La miscela di house balearica e funk molto ben calibrata di Munk viene presentata forse troppo presto ad un pubblico che ha ancora bisogno di scaldarsi e ingrossarsi, mentre quando salgono sul palco i danesi WhoMadeWho il parterre è quello delle grandi occasioni. Cappellino da baseball, canottiera e mustacchi da redneck, i tre non sembrano provenire dalla terra della sirenetta, quanto da un film dei fratelli C o e n o d i R u s s M e y e r. D u r a n te lo show presentano quasi per intero l’album d’esordio (a dire il vero ogni tanto affiora la sensazione karaoke come con Out The Door) e infiammano il pubblico con un suono potente che si rifà tanto all’ormai inflazionato punk-funk quanto al gay pop à la Bronsky Beat e al madchester sound, mentre l’attitudine cazzona e da railroad rockers di terz’ordine ne fa subito dei beniamini e strappano più di un sorriso ai clubbers, che apprezzano uno spettacolo muscolare prima di tuffarsi nel vortice celebrale delle esibizioni dei djs. Te m p o p e r d u e c o m m e n t i e u n drink e passiamo alla seconda sede del festival dove si esibisce uno dei padrini del Detroit Sound, Carl Craig. Dance floor strapieno e relativa temperatura infernale non scoraggiano gli appassionati che ballano senza posa al ritmo di un suono diventato uno standard del genere, tra afro-beat e aperture surrealistiche da brividi. Unico neo della serata l’esibizione di Nathan Fake, l’attesisssimo enfant prodige d’Albione, funestata da problemi tecnici a non finire. E’ all’interno del teatro Juvarra, adibito a zona chill-out, che ci confrontiamo con amici che hanno scelto altri percorsi e altri artisti (Scuola Furano e Tiga) e che ritroveremo all’alba, totalmente (soddis)sfatti. Il nostro percorso si conclude dove era iniziato con Luciano, beniamino del pubblico sabaudo, che ricambia l’accoglienza calorosa con un set minimale che traghetta i (numerosi) sopravvissuti all’alba del terzo giorno. Il festival si chiude sabato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con i catalani Ferenc che sonorizzano Dolls di Ta k e s h i K i t a n o , f i l m s u l l e s t a gioni e i colori perfetto per essere immerso in paesaggi sonori elettronici. Sempre legata alla multimedialità l’edizione speciale di Duel, l’appuntamento settimanale curato da Mao durante il quale dj e bands si sfidano in sonorizzazioni di films. Parlando di arti visive da segnalare la bravura dei vjs (da Alexej Paryla alle nostrane Sweety), spesso sottovalutati e relegati ad “accessorio” dell’esibizione del dj, che hanno stupefatto gli astanti con visioni surreali e scenografie caleidoscopiche. Inte r v i s t a a G i o r g i o Va llett a ( d j , g i o r n a l i s t a e org a n i z z a t o r e d e l f e s t ival) . C l u b To C l u b è d i v e n t a t o u n appuntamento imprescindibile in Italia per capire “a che punto è il nightclubb i n g ” . L’ i m p o s s i b i l i t à d i v e dere tutto unita alla sicurezza di assistere comunque. Ovviamente ci sono state anche delle coincidenze per cui qualcuno è stato costretto fare delle scelte, perdendo delle esibizioni. Ci sono state delle sorprese piacevoli? Non posso dire che sia una sorpresa perché la seconda volta che ospitiamo una sua esibizione (si era già esibito l’anno scorso all’interno di ElectroLiveClub), ma Jamie Lidell se possibile si è superato, per quello che ho visto è stata la performance più strabiliante, è stato tecnicamente perfetto e poi possiede un’inventiva... una capacità di sintesi tra generi apparentemente inconciliabili, come il soul vintage e l’elettronica sperimentale. E poi tra le sorprese metterei gli Scuola Furano, che sono veramente coinvolgenti, bravi, prometttenti. Per essere al primo album... Il pubblico ha apprezzato molto, gente che urlava... I due dj della Riot Maker sono due pazzi scatenati e al Supermarket hanno conquistano tutti! Qualcosa vi ha deluso? Delusioni? Parlerei più di inconvenienti tecnici riguardo al set di Nathan Fake, funestato prima dalla perdita del volo e poi dal triplo crash del Mac. Forse una pecca che vedremo di risolvere nelle prossime edizioni è quello della capienza, ma non ce lo aspettavamo e forse è meglio che ritrovarsi in locali sovradimensionati e vuoti. Avete intenzione di ripetere l’esperienza d’estate? Noi d’estate collaboriamo già con il Traffic Festival, del quale abbiamo curato la programmazione notturna e da club. Non so se riproporre una f o r m u l a e s t i v a d i C l u b To C l u b avrebbe un senso, bisognerebbe ripensarlo e adeguarlo alle esigenze estive per quel che riguarda spazi e orari. To r i n o è u n a c i t t à c o n u n a grande tradizione rock, pensiamo a bands come i Negazione e i Subsonica e ai grandi concerti estivi. Negli ultimi anni l’impressione è che le maggiori soddisfazioni arrivino dall’elettronica. Con le serate Xplosiva pensiamo di avere avuto un ruolo in questo, in primo luogo con l’attività di dj, proponendo suoni e tendenze altrimenti difficili da raggiungere. Quando abbiamo iniziato nel ‘97 abbiamo cercato di unire i suoni più innovativi con lo spirito del club house. Quindi due universi giovanili che hanno pochi punti di contatto, i clubbers più incalliti e i lettori di riviste rock. Anche ospitando artisti emergenti cari ai due schieramenti. Abbiamo d’anticipo ospitato certi artisti prima che diventassero famosi, come è successo con Layo & Bushwacka, Magda, Tiga, Dani Siciliano, sentireascoltare 59 Mu, Villalobos. È un nostro obbiettivo anche rappresentare le varie facce della musica elettronica, dall’avanguardia alle ibridazioni con altri generi musicali e altre forme, come è successo per l’esibizione di Murcof all’interno della Chiesa di Gesù Redentore. To r n a n d o al successo di pubblico del festival e al successo della musica elettronica da club, non credi che sia strettamente legato all’evoluzione tecnologica? Penso la maggior parte dei ragazzi presenti abbia utilizzato il pc per comprare/scaricare i pezzi degli artisti, quindi in maniera più rapida e soprattutto più economica che andando a comprare/ordinare i dischi in un negozio specializzato. Sicuramente il download sicuramente ha incrementa- 60 sentireascoltare to il livello medio di cultura musicale, c’è più attenzione, curiosità, sicuramente più informazione anche su fenomeni un tempo considerati underground. E si risparmia anche, ma nonostante questo credo, vista la crisi generale, che sia sempre più difficile chiedere grandi cifre al pubblico. Abbiamo scelto di attuare una politica di biglietti a prezzi ridotti (venerdì il biglietto costava 18 € per 3 club, navetta di c o l l e g a m e n t o c o m p r e s a n d r. ) . Lo abbiamo potuto fare graz i e a n c h e a l f a t t o c h e C l u b To Club è supportato da sponsor e anche da qualche contributo istituzionale. Recensi o n i Amari - Hiroshima Mon Amour, Torino (19 gennaio 2006) Salgono sul palco luminescen- t e i c i n q u e Te l e t u b b i e s d e l l a Riotmaker e ci ipnotizzano con il loro indie-hop accattivante portandoci a conoscere serial-killer tremendamente belli sul divano minato, sempre meglio che stringer la mano alla rovescia al posacenere che sta dentro te. Che faremo il 15 gennaio quando finiranno i soldatini immersi nella scarpa farraginosa? Giallo, rosso, blu, viola, verde. Supereroi della Generazione iPod. Generazione Blog. Degenerazion e N e r d . I ’ m a l o s e r b a b y, s o why don’t you kill me? Ogni tanto sale il retrogusto Sam u e l e “ B e l l e Te t t i n e ” B e r s a n i e il déjà vu del secchione che hai menato il primo giorno di scuola, ma torni in fretta nel vortice di chitarre lo-fi e suoni giocattolo su cui scivolano le rime sbilenche alla cLOUDDEAD e i coretti Battisti-style dei rivoluzionari furlani. La gente canticchia, salta, scodinzola e si diverte, i ragazzi sul palco pure. Una festa ben riuscita ma resta l’impressione che sia tutto troppo studiato, dai siparietti all’abbigliamento (addirittura le stringhe delle scarpe abbinate con la felpa!). Ma poi quel secchione è diventato il tuo migliore amico. Paolo Grava Black Wire + Bikini The Cat – Spazio 211, Torino (13 gennaio 2006) Arrivo al termine dell’esibizione dei Bikini The Cat, ed è un peccato perché gli ultimi pezzi sono coinvolgenti e dai sorrisi del pubblico e dai commenti rimpiango di averli persi. Quando i Black Wire salgono sul palco laminato dello S p a z i o 2 11 q u a l c u n o s t o r c e i l naso per la mancanza di una batteria “umana”, ma la scelta si rivela azzeccata, di questi tempi meglio eliminare che aggiungere. La band perde la terza dimensione e guadagna in impatto. In più i tre di Leeds hanno quella dimestichez- za sul palco tipica dei ventenni inglesi, figlia del punk e del pub, nipote degli Who. Alla faccia di tanti poseurs/ losers, Dan Wilson, performer esagitato, posseduto da Ian Curtis, lattina in mano e occhi sgranati, ci sbatte in faccia la freschezza i suoi vent’anni, salta, balla, si lancia dalle casse e finisce il concerto s e m i n u d o . To m G r e a t o r e x e S i McCabe imbastiscono un tappeto sonoro a metà tra new wave e psychobilly fatto di riff schizzati e basso a impulsi dinamitardi, citano le Slits e i Jam, London Calling e Pink Flag. Un’ora di delirio ultrà e spariscono. Arrivederci. Paolo Grava John Cale - Scandicci (Firenze), 10 febbraio 2006 Chi aveva visto John Cale qualche anno fa in un tour italiano senza band parlava di un musicista freddo e scostante, che al posto del pathos intimista comunicava una professionalità seccata. Il tour col gruppo aveva invece convinto anche qualche scettico, e ciò mi faceva ben sperare per il mio primo concerto del gallese (reunion VU esclusa). Ottimismo confermato quando, dopo sei minuti di oscillazioni elettroniche, Cale finalmente sale sul palco con i suoi tre musicisti, imbraccia la viola e dà il via una caldissima, bruciante, intensa Venus In Furs (più aggressiva della versione proposta da Lou Reed nel suo recente Animal Serenade). Le accordature all’inizio non sono perfette, il bilanciamento degli strumenti viene messo a punto nel corso dei primi tre brani e, a voler essere puntigliosi, nel ritornello la chitarra di Dustin Boyer non riempie quanto dovrebbe; ma davanti alla magia di questa versione, all’impeccabile voce di Cale, alla fantasia delle spezzettature ritmiche e all’impatto generale sono piccolezze trascurabili. Che sia un Cale più rock del solito lo confermano le successive Walking The Dog (il classico blues di Rufus Thomas già presente in Sabotage Live) e Tu r n T h e L i g h t s O n d a l l ’ u l t i m o Black Acetate, dal quale proviene anche la successiva Woman. Ma “rock” è decisamente riduttivo: mentre il Nostro si alterna a viola (poco, ahimè), piano e chitarra e il fido Joseph Carnes oscilla tra basso, contrabbasso, loops e tastiere (qua e là anche contemporaneamente), la musica segue le argute ed aeree traiettorie delle melodie, sfiora appena il prog, evoca i Radiohead e c e r t i p a s s a g g i d e i B u c k l e y. I n una perfetta convivenza tra schitarrate vagamente glam e rumorismi, morbide ballate e coretti che a volte sconfinano nel disarticolato, tutto viene portato avanti attraverso originali strutture e complesse stratificazioni, ai limiti dell’orchestrale, incredibilmente messe su dai quattro (nota di particolare merito per il batterista Michael Jerome). Né manca l’ironia, quella che dà vita a una versione di Femme Fatale mescolata alla rara Rosegarden Funeral of Sores (resa immortale dalla cover dei Bauhaus) su un tempo tra il cha-cha-cha e la tastierina Casio; dopo le recenti Hush e Outta the Bag (decisamente migliorata con l’abbandono del falsetto del disco), si passa al classico Guts e a due brani dal penultimo Hobosapiens, Look Horizon e Magritte. Finché giunge il momento più alto del concerto: un loop elettronico tintinnante che ricorda una ruota di bicicletta, su cui gradualmente gli strumenti stendono tappeti sonori, un crescendo emozionante e implacabile, poi “Me and my partner...”. E’ Gun, un classico (ripreso anche da Siouxsie) da Fear (1974), in una versione impreziosita da versi dalla lennoniana Working Class Hero: la summa del discorso musicale proposto in questo concerto. Dopo la tempesta la quiete di Set Me Free, Cable Hogue e Things, l’inedita Jumbo, la recente Sold-Motel con le sue reminescenze di Making Plans For Nigel (XTC) e l a v e c c h i a L e a v i n g U p To Yo u p e r c o n c l u d e r e f i n o a i b i s con la classica Buffalo Ballet e la recente, rockissima Perfect. “Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è...” John Cale? Forse IL futuro no, ma lo sfaccettato corpus musicale che questo grande artista ha costruito in quarant’anni e messo in scena stasera contiene ancora molti elementi che potrebbero essere utili all’auspicato, latitante rinnovamento del rock. Giulio Pasquali sentireascoltare 61 we are demo a cura di Stefano Solventi e Fabrizio Zampighi Side A E’ un piacere sottile perdersi nelle atmosfere pacate e nelle chitarre liquide dei SingleSignOn. Una sensazione che assomiglia un po’ a quello che si prova quando ci si immerge sott’acqua, d’estate, e si ascoltano per un momento i suoni attutiti e morbidi che arrivano alle orecchie. Merito dell’atmosfera senza gravità, delle lentezze ritmiche, dei vocalizzi espansi che si respirano nei tre brani di dell’EP omonimo, episodi che pur essendo per lo più strutturati su scambi da tre accordi hanno il pregio di non annoiare. A Long Way Home si nutre di un beat elettronico quasi impercettib i l e e d i l i t r i d i f l a n g e r, F u l l Joy fonde armoniosamente carezze melodiche e continuum fluidi a distorsioni vagamente psichedeliche, Fade Out minimizza i Jesus & Mary Chain addomesticandone le pulsioni selvagge, in favore di una musicalità tutta arpeggi e sfondi sfocati. Un sentire quello della band, piccolo ma prezioso, capace di riappacificare con il moto armonico dei corpi celesti anche il più tenace dei metallari. (6.7/10) Metallari che presumibilmente non esiterebbero un momento ad abbracciare senza riserve l’hard rock nerboruto che propongono i MSK da Ortona. Degli otto brani raccolti nel demo, rispettivamente due del 2004 e sei del 2005, paiono più “quadrati” i secondi in virtù di geometrie razionali costruite su riffoni di chitarra a struttura circolare. Il battere del gruppo lascia, talvolta, quasi senza fiato, una botta d’adrenalina vecchio stile 62 sentireascoltare che oltre a rimandare all’ hard anni ’70-‘80, taglia trasversalmente i territori del punk e del grunge. Basti citare il clima torrido e decadente à la Soundgarden di Buonsenso, i riff sparati di Progresso o i due minuti di apnea di HC, presi a prestito dalle cose migliori dei Punkreas. Lobotomania allarga il raggio d’azione dell’ ensemble anche al funk e completa una proposta musicale che pur concedendo qualcosa all’irruenza fine a sé stessa – soprattutto nei testi –, merita sicuro apprezzamento. (6.5/10) Te r z o d i s c o d e l m e s e è I n c o m i n c i a d e i 3 n o i r, b a n d d a l l a storia lunga e travagliata partita nel lontano 1998 e protrattasi con alterne fortune fino ad ora. Composto da musicisti dal palmares di tutto rispetto – collaborazioni con Pasquale De Fina e Carlo Carcanola, strumentisti e arrangiatori, tra gli altri, per Cristina Donà, M a s s i m o Vo l u m e , M o r g a n – i l gruppo padovano propone un noise scuro e malinconico, caratterizzato da tempi lenti, un’evidente ricerca melodica e la voglia di mediare tra distorsioni e musica d’autore. Se l’accostamento strumentale pare piuttosto classico – rispondono all’appello chitarra, basso, batteria e voce -, lo stesso non si può dire del prodotto finale, che presenta invece caratteristiche peculiari: Demoni abbina un tempo marziale ad una sei corde ruvida e compressa, Incomincia è un crescendo appena sussurrato, J’accuse è un crepuscolo allungato tra arpeggi e toni dimessi, La grande ustione uno svilupparsi melodico in bilico tra tinte monocromatiche e lirismo evocativo. (6.4/10) Con un titolo che metterebbe in fuga anche il più navigato tra i recensori, Studi in fase di sperimentazione sulle interferenze di onde improvvisative rappresenta il lavoro dei Tuttunoconlamacchina. Un disco quello della band bolognese che non esita ad abbracciare il significato profondo della parola “studio”, nel senso di sperimentazione a tutto tondo, mantenendo un approccio in bilico tra improvvisazione jazz a base acustica – i dieci movimenti dello Studio n.1 – e impasti scuri di elettronica. Tra rumori di fondo, distorsioni e interferenze non ben identificate – campionamenti, basso, chitarra, programmazione, la strumentazione utilizzata nel disco – trovano posto brani come Studio n.3: Il caso e la necessità, Studio n.5: Deux O u Tr o i s C h o s e s Q u e J e S a i s De La Vie o Studio n.8: La vita è uno spreco, la vita è uno spreco, la vita è uno spreco. Episodi che sembrano voler riunire sotto lo stesso tetto gli impeti oltraggiosi del Metal Machine Music di Lou Reed e ritagli audio tratti da qualche film di fantascienza, con tanto di condotti di areazione in funzione, varietà di “bip” e s o n a r, r u m o r i d i l a s e r e p r o pulsori di astronavi. Sintomatici in questo senso i sette minuti dell’episodio conclusivo – Studio n.4: Music for Spaceports - vero e proprio sabba rumoristico dal vorticoso crescendo. (6.8/10) (f.z.) Side B Dal punto di vista della mia cassetta postale, l’underground sonico italiano ha l’aspetto di un insalatone variegato e fremente. Incroci, azzardi, eterogeneità. E tanta energia. A proposito di energia, vi presento gli Underground Railroad e il loro album autoprodotto Blessed With A Curse. Insieme dal novembre 2002, sono un trio che gioca al power-blues come un Jon Spencer in trip glamadrenalinico. Quindi, corde turgide e torride, parata di ovvietà al fulmicotone, quel senso del didascalico così umorale da sfiorare l’umoristico, quello scolpire le forme quasi a volerne incendiare lo stereotipo. Insomma, il motore gira che è un piacere, i ragazzi si divertono e ci divertono. Scomodano con nonchalance estro Led Zeppelin e funkerie post-garage (sentite come pesta Don’t Know), perseguono al bisogno acidità hendrixiane c o m e i n B r i n g Yo u D o w n , g i o cano con disinvoltura la carta del più prevedibile hard-blues (Stripper Blues) e sciolgono le giunture con toste e stradaiole sgroppate R’n’R (Wonderland, Dead a Thousand Times). La voce ha grana e impudenza eminentemente rock, la chitarra è disinvolta e impertinente, il basso e la drum machine seguono con rodata diligenza. Tutto qui? No. Infatti c’è l’altro lato della faccenda, quello del folk blues acustico dagli echi John Mellencamp (Faithful), quello del malanimo gospel-soul vagamente Black Crowes della conclusiva Sing a Song (con abili contributi di piano e organo). Prove tecniche di next big thing de noantri? E perché no? (6.7/10) Salto mortale triplo carpiato per tuffarsi nella poptronica evoluta dei Fabryka. Vincitori allo scorso Arezzo Wave nella sezione progetti multimediali audio-video, già opening act per Matmos e Popolus, sono un quartetto dalle idee chiare e a c c u r a t e . L e t r a c c e d i Te s t i n g To y s , e p d i d e b u t t o s c a ricabile gratuitamente dal loro sito, imbastiscono ballad folk cibernetiche condite di umori mitteleuropei (vedi la splendida fisarmonica in Handful O f D u s t , t r a O i Va Vo i e L a l i Puna), oppure danze Subsonica a base di bassi veementi e microtrame Warp/Morr (A Cure), e ancora certi trepidi slittamenti Mùm (i found voices, l’elettronica inafferrabile e le rifrazioni di chitarra di Rainfall), quando non la solennità oleografica di Bjork (nella mischia di evanescenze e grumi soul di Hang On). Alla divina islandese guarda palesemente il canto di Tiziana Felle, soprattutto per il modo in cui si estenua e si frange nel chorus di Legoland. Ebbene, si sa che in queste situazioni la voce deve dare il colore fondamentale, per non rischiare di (s)perdersi nel mare delle proposte consimili. Quella di Tiziana è bella, ha potenzialità, ma per ora si ferma un passo prima di. É un invito a lavorarci, perché non farlo sarebbe un peccato. Comunque, la proposta è fresca e intensa. (6.9/10) Ancora elettronica con i 2 Genial Idiots, ma il versante è ben più brusco, acido, sperimentale. Se con gli Zmigavac tentarono fin dal remoto 1999 la carta dell’elettropop, col dissolversi del gruppo ai due producer varesini Andrea e Simone rimase la voglia di far collidere/coincidere i loro diversi background: l’elettricità e l’elettronica, la ruvidità e il minimalismo. Nel 2003 remixano Salirò di Silvestri guadagnandosi airplay su Radio Popolare, poi vincono il premio Creatività alla rassegna Microsolchi II, facendosi conoscere e apprezzare nell’ambiente electro indipendente. Il cd che mi hanno inviato contiene gli ep già editi - Coded Rock e Mio figlio egoista: perché? - più le ultimissime composizioni. Nei primi, la doppia anima del progetto sembra allestire un conflitto perenne e fruttuoso: mostruosa ibridazione tra un funk/rock preso per la cresta (quelle chitarre aspre e graffianti, quei bassi turgidi e screanzati), electro sottile e techno pulsante, col risultato di mimetizzare irrequietezza dietro la giocosità, un vibrare mnemonico che non trova pace mentre cerca quel centro di gravità (permanente) che gli è fisiologicamente negato. Puoi scorgere così spettri M.A.R.R.S. e Art Of Noise, l’Hancock robotico che sbrana technofunk, Santana divorato da spasmi e astrazioni digitali. Spiace un po’ che le tracce più nuove vedano progressivamente sparire l’aspetto più sporco, più rock della questione, ma rimane quel gioco a mitragliare la forma canonica con perturbazioni ritmiche, con improvvisi crash del sistema, come se la normalità fosse una condizione inaccessibile. Così l’abbozzo di techno dance dritta viene gambizzata in Rage Condenser da mostriciattoli sintetici ed insidie Autechre, mentre Fingers prima l’ammansisce di coloriture eighties quindi la trafigge e infine la trasfigurata in una c o s m i c a a s c e n s i o n e Te r r y R i l e y. P i u t t o s t o g e n i a l i , p e r n u l la idioti. (7.2/10) E veniamo - e qui vi voglio a mister Netherworld, del cui Otherworldly Abyss va innanzitutto ammirata la bella confezione, la cui grafica a dire il vero m’intimorisce piuttosto e anzichenò. Alla prova dei fatti, trattasi di oltre un’ora di lento, misterioso, avvolgente precipitare in un abisso (compiuto via acronimo brano dopo brano) che per quanto ne sappiamo potrebbe risiedere nel più remoto angolo dell’universo oppure nel tuo (mio, suo) cervello dopo ore di catodica sentireascoltare 63 l o b o t o m i a . Va p o r i c o s m i c i , r i m bombi cupi, il respiro di Alien, gas di scarico di astronavi organiche, fruscii pressurizzati, chincaglierie imperscrutabili (come retaggi di antichi suoni vaganti nel vuoto), musica d’ambiente collassato, attonita transustanziazione Brian Eno - John Cage, suites per anime con un piede già nel post-sensibile, dove e quando non ci sarà più nulla a cui aggrapparsi. Ed ecco che, nel pieno dello spaesamento spazio-temporale, viene voglia di alzare il volume e farsi ingoiare dalla nebbia, alla ricerca di corpi solidi, voci, presenze, appigli concreti. Forse è concettualmente “troppo” per una rubrichetta come questa. Ragion per cui, il voto è più ipotetico che mai. (7.0/10) (s.s.) c o ntatti SingleSignOn [email protected] MSK [email protected] 3noir [email protected] Tu t t u n o c o n l a m a c c h i n a [email protected] Underground Railroad [email protected] Fabryka h t t p : / / w w w. f a b r y k a . i t / 2 Genial Idiots [email protected] [email protected] Netherworld [email protected] 64 sentireascoltare classic Guru Guru Elettro-anfibi verso la libertà di Filippo Bordignon Wall of sound eretto via LSD e grande talento. Poi rapidi cambiamenti, dispersioni, intricate discografie e una svolta spirituale. Mani Neumeier e le bizze del suo ingegno che, dai devastanti Guru Guru ad oggi, non ha mai smesso di navigare tra le asperità di ogni mare in tempesta. N e l m u s e o d e l l e c e r e d i To kyo, assieme alle celebrità e ai personaggi internazionali più rappresentativi di sempre, è contenuta la statua di Mani Neumeier; in Giappone è tra le figure cult più celebrate di sempre. Da noi i suoi variegati progetti artistici sono spesso passati inosservati ma, a ben guardare, Luca Mayer e Al Aprile nel loro godibilissimo La musica rock-progressiva europea (pubblicato nel 1980 per la Gammalibri) ci avevano messo in guardia in merito al trio Guru Guru formato da “(…) superbi casinisti, topi-ricercatori di sala da registrazione”. Altre lodevoli citazioni sono più recentemente rintracciabili nel saggio musicale di Julian Cope Krautrocksampler (pubblicato nel ’95 e finalmente tradotto in italiano dalla Lain), opera indispensabile per chi voglia addentrarsi nella stregata foresta del ‘rock ai crauti’ (goffa definizione che ha comunque finito per caratterizzare una serie di gruppi tedeschi che, tra la fine degli anni ’60 e la metà dei ’70, hanno pubblicato musiche estremamente innovative). M a n i N e u m e i e r, d e u s e x m a china e unico membro stabile della leggendaria formazione Guru Guru (ad oggi si conta- no più di 26 mutazioni di lineup), ha dato vita ad un sound pedissequamente incentrato verso la ricerca della più pura libertà sonora, circondandosi da musicisti d’innegabile talento tecnico, che con lui condividono la visione di una musica totale, al di là delle semplificazioni o delle etichette pronto-cassa. Se dalla sua sterminata discografia si è soliti prediligere i primi album (quelli degli anni ‘70) è pure vero che le sue fitte collaborazioni con gli epigoni del krautrock e i suoi progetti artistici paralleli hanno mantenuto intatta una vena creativa sempre incline alla ricerca. Mani nasce a Monaco nel Nel m u s e o d e l l e c e r e d i To k y o , assieme alle celebrità e ai personaggi internazionali più sentireascoltare 65 rappresentativi di sempre, è contenuta la statua di Mani Neumeier; in Giappone è tra le figure cult più celebrate di sempre. Da noi i suoi variegati progetti artistici sono spesso passati inosservati ma, a ben guardare, Luca Mayer e Al Aprile nel loro godibilissimo La musica rock-progressiva europea (pubblicato nel 1980 per la Gammalibri) ci avevano messo in guardia in merito al trio Guru Guru formato da “(…) superbi casinisti, topi-ricercatori di sala da registrazione”. Altre lodevoli citazioni sono più recentemente rintracciabili nel saggio musicale di Julian Cope Krautrocksampler (pubblicato nel ’95 e finalmente tradotto in italiano dalla Lain), opera indispensabile per chi voglia addentrarsi nella stregata foresta del ‘rock ai crauti’ (goffa definizione che ha comunque finito per caratterizzare una serie di gruppi tedeschi che, tra la fine degli anni ’60 e la metà dei ’70, hanno pubblicato musiche estremamente innovative). M a n i N e u m e i e r, d e u s e x m a china e unico membro stabile della leggendaria formazione Guru Guru (ad oggi si contano più di 26 mutazioni di lineup), ha dato vita ad un sound pedissequamente incentrato verso la ricerca della più pura libertà sonora, circondandosi da musicisti d’innegabile talento tecnico, che con lui condividono la visione di una musica totale, al di là delle semplificazioni o delle eti- 66 sentireascoltare chette pronto-cassa. Se dalla sua sterminata discografia si è soliti prediligere i primi album (quelli degli anni ‘70) è pure vero che le sue fitte collaborazioni con gli epigoni del krautrock e i suoi progetti artistici paralleli hanno mantenuto intatta una vena creativa sempre incline alla ricerca. Mani nasce a Monaco nel 1940. Diciottenne si trasferisce a Zurigo per suonare la batteria in band amatoriali, con le quali approfondisce i suoi studi in merito a swing e dixieland. In quel periodo gli capita di assistere a concerti di Mingus e Coltrane e la sua adorazione per il jazz si schiude verso i lidi del free. Le prime uscite da professionista sono con Globe Unity Orchestra (assieme a Jaki Liebezeit, poi batterista dei Can) e con l’Irene Schweizer Trio (con il quale pubblicher à d u e L P n e l ’ 6 7 : E a r l y Ta pes e Jazz Meets India rispettivamente per la Free Music Productions e per la Saba). Bassista di quest’ultima formazione, Uli Trepte sarà pure il compagno storico di Mani nei primi 3 album da studio d e i G u r u . L’ i n c a r n a z i o n e a p r i pista di quest’insolito viaggio musicale prende vita nel ’68 a nome Guru Guru Groove Band. Il trio (tale con l’aggiunta del chitarrista Ax Genrich) ricalca per molti aspetti lo stile di vita della comunità hippy tanto in voga al tempo: i loro concerti sono suonati sotto l’effetto di dosi massicce di LSD e i no- stri fanno esperienza di vita nomade, abitando il bus utilizzato per le trasferte e pernottando saltuariamente da amici, fans o semplici conoscenti. Dal ’71 al ’76 Mani ricorda una dimora comune a Langenthal. I Guru soggiornarono nella locanda Gasthof Krone utilizzando la spaziosa sala bar per i loro assalti sonori e finendo per suscitare l’ira dei pacifici cittadini del villaggio, spesso violentati acusticamente dalle impro di quella particolarissima formazione. Nel ’76 un trasferimento a Finkenbach fu inevitabile: guarda caso proprio in questo periodo uscì in Germania Notwehr, film tratto da un libro di Bernd Schröder e diretto da Helmut Gries m a y e r, n a r r a n t e l a s t o r i a d i una rock band che, trasferitasi in uno piccolo villaggio, subisce l’astio dei suoi abitanti fino ad una tragica conseguenza finale. Ad ogni modo la prima uscita discografica dei Guru è lo stor i c o L P U f o ( O h r, ’ 7 0 ) , 5 t r a c c e per basso, chitarra e batteria nelle quali nessuno di questi elementi prevale sull’altro. Si tratta di jam session heavy ai limiti della distorsione, con lontane reminescenze di Hendrix e una voglia smodata di s t o r d i r e l ’ a s c o l t a t o r e . To r n a n do a citare Cope “c’è il suono che ogni power trio psichedelico dovrebbe avere”. I cambi di tempo nella trascinante Stone In si compiono all’insegna di una fluidità viscerale che mantiene le distanze dalle spesso sterili acrobazie del progressive lì a venire. Il cantato di Mani è in realtà il pretesto per scaricare qualche indecifrabile invettiva o qualche sprazzo di melodia su un tappeto sonoro altrimenti completamente strumentale. In Girl Call e in N e x t T i m e S e e Yo u A t T h e D a lai Lhama gli assoli di Genrich sembrano in contatto psichico con la pastosa fisicità dello Zappa guitar-hero in Chunga’s Revenge (anch’esso del ’70) o dell’acid-Peter Green toccato da ispirazione e follia in The End Of The Game (toh, siamo ancora nel ’70!). Il lato B si apre con i 10 minuti freeform a nome Ufo per concludersi con il masterpiece Der LSD-Marsch, cavalcata intinta nelle selvagge prodezze strum e n t a l i d i N e u m e i e r, n e l b a s s o crepuscolare di Trepte e nel rumorismo hard di Genrich. La formula in Germania si dimostra vincente (UK e USA non sembrano interessati alla vicenda) così l’anno successiv o s i r e p l i c a c o n H i n t e n ( O h r, ’71) dove i brani sono ancor più dilatati che in precedenza: quattro pezzi per una durata media di dieci minuti cadaun o . L’ E l e c t r i c J u n k d ’ a p e r t u r a e la successiva The Meaning Of Meaning non aggiungono nulla a quanto detto nell’esordio: sono comunque poderosi esempi di groove sballato alla massima potenza. Bo Diddley omaggia il rock delle radici, quello che Neumeier ha sempre amato profondamente e con il quale infarcirà molti degli album successivi. A conclusione l’orgia sonora Space Ship: vortice di dissonanze, riverberi ancestrali per chitarra drogata e sapienti dinamismi percussivi questo brano si può certamente definire uno dei capolavori del rock informale di sempre. Il terzo album in tre anni gioca con le parole ma già lascia intravedere un ammorbidimento nella struttura del gruppo. KänGuru (non più per la stori- ca Ohr ma per la pur meritevole Brain, ’72) apre le porte ad un sound che pur non rinunciando alla sperimentazione in pezzi come Oxymoron e Immer Lustig perde quel suo slancio assoluto e totalizzante guadagnando in pulizia del suono e in definizione strutturale. La chitarra passa in secondo piano e Mani è più coinvolto come cantante/ interprete di liriche surreali e provocatorie. A chiudere l’LP l’omaggio demenziale a Chuck Berry e al rock anni ’50 di Oooga Booga. Per chi volesse una testimonianza dei Guru live (nella prima formazione a trio) è d’obbligo l’acquisto di Guru Guru + Uli Trepte Live & Unreleased (Spalax, ’95), cd contenente un concerto registrato in location ignota nel ’72 e composto da soli 2 brani (Der LSD March e Bo Diddley) dilatati e improvvisati all’inverosimile + alcune trascurabili registrazioni da studio del Trepte solista. Nel ’73 quest’ultimo lascia il trio per tentare una carriera in proprio. Mani assolda il bassista/ chitarrista Bruno Schaab e pubblica il nuovo album del gruppo intitolato semplicemente Guru Guru (Brain, ’ 7 3 ) . L’ e n n e s i m a e v o l u z i o n e stilistica: Samantha’s Rabbit è progressive di ottima fattura concentrato elegantemente in tre minuti. Il successivo Medley invece prende tanto dall’hard rock quanto dal solito rock delle origini (stavolta l’omaggio spetta a Eddie Cochran con una Something Else in bilico tra la versione originale e la futura interpretazione di Sid Vicious). Woman Drum vorrebbe dar ragione a chi tenta di definire i nostri i Cream della Germania ma il pezzo forte dell’album è la krautissima Der Elektrolurch ( ‘ L’ e l e t t r o a n f i b i o ’ ) : s u u n t a p peto percussivo minimale la voce distorta di Mani decanta uno dei suoi testi più riusciti mentre la chitarra interviene creando ghirigori sonici e in linea con l’estetica dei corrieri cosmici più avventurosi. La trovata è pure visiva: Mani costruì un’orrenda maschera-copricapo che prese ad indossare durante l’esecuzione live del brano in questione. Il successo di quella trovata fu notevole e tutt’oggi questa canzone è la più richiesta dell’intero catalogo. The Story Of Life affida ad atmosfere spirituali e rarefatte un 33 giri di grande valore artistico. Gli album successivi sembrano perdersi nel tentativo di assemblare un suono originale partendo da cento generi diversi. Dopo le trascurabili esperienze per l’Atlantic Don’t C a l l U s We C a l l Yo u ( ’ 7 3 ) e il live Dance Of The Flames (’74, anno nel quale Mani dovrà rinunciare pure al chitarrismo di Genrich e sostituirlo con Houschang Nejadepour) pare che qualcosa si ripristini c o n Ta n g o F a n g o ( B r a i n , ’ 7 6 ) in formazione a quartetto: la titletrack è un tango dell’ass u r d o , L . To r r o d i p i n g e e s i g e n - sentireascoltare 67 ze fusion ispirate e comunque intrise di rock viscerale; con il medley Das Lebendige Radio si ironizza con la musica tradizional-popolare tedesca in un patchwork di yodel e incursioni rumoriste. I titoli successivi però sembrano favorire sempre più le inflessioni verso un funky godereccio e disimpegnato. I Guru suonano ormai come un gruppo di professionisti dediti alla bizzarria ben confezionat a . Ta o m a ( d a H e y d u , B r a i n , ’79) maleodora di fusion tecnicista e senza sentimento, alla maniera degli Area after-Strat o s i n T i c & Ta c e a p o c o s e r vono gli scatti gioiosi di An- drea e Komm Lutsch Mal (Mani in Germani, Fuenfundvierzig, ’80) stupid-songs zappiane in bilico tra Cruising With Ruben & The Jets e le cadute di tono di Tinseltown Rebellion. Il 1980 è pure l’anno della conversione di Neumeier al buddismo. Per tutto il decennio la produzione del nostro non accennerà segni di ridimensionamento: album solisti, nuovi capitoli della saga Guru con decine di ospiti, cambi di organico e tentativi di arrembaggio nei confronti di ogni genere musicale conosciuto. E poi tante collaborazioni: la più memorabile risale però ai ’70; si tratta del secondo (e ultimo) album degli Harmonia (De 68 sentireascoltare Luxe, Brain, ’75), trio composto dai Cluster Moebius e R o e d e l i u s p i ù M i c h a e l R o t h e r, ex- chitarrista dei Neu! . La rinascita artistica vera e propria avviene negli anni ’90: N e u m e i e r, i n u n e c c e s s o d i creatività da vita a ben 3 nuove realtà musicali: Tiere Der Nacht , Lover 303 e Onemans h o w. L a p r i m a s i t u a z i o n e è composta da Mani alle percussioni e soluzioni elettroniche e dal notevole chitarrista di origini bresciane Luigi Archetti: si tratta di un jazz destrutturato e sintetico che vanta al suo attivo già 5 album di rara bellezza (in Sleepless del ’98, fa capolino pure la geniale elettronica del già citato Moebius). Lover 303 è invece il duo di Mani con Conni Maly (una sorta di rock acido misto a trance music e techno è disponibile nell’album Modern Fairytales del 2002). Onem a n s h o w pare essere invece il solo nomade artistico Neumeier che, armato di batteria e ingegno da vita a spettacoli estremi e allucinati. Molto altro ci sarebbe da aggiunge sull’atipica figura di questo instancabile outsider: ogni giorno si scopre un suo nuovo progetto o una collaborazione che incuriosisce gli addetti ai lavori; magari sarete così fortunati da imbattervi nel combo Psycadelic Monster Jam (con i quali il nostro torna a suonare assieme al vecchio amico Ax Genrich) altrimenti vi basterà acquistare l’ultima pubblicazione di D a m o S u z u k i , J P N U LT D Vo l . 1 & 2 ( D N W, 2 0 0 2 ) : S u z u k i a l canto, Neumeier alla batteria e il rimpianto Michael Karoli (Can) alla chitarra. Viene da chiedersi quale sarà il prossimo traguardo di Mani: rivisitazioni di canzoni celtiche con una band di teenagers? Polka suonata con una sola mano? In un periodo storico in cui le nuove leve sono già abbastanza inibite a forgiare uno stile proprio l’esempio del leader dei Guru svetta per il suo inarrestabile coraggio nel costruire e demolire o g n i d i s c o r s o s o n o r o . Ve r o p i ù che mai quanto disse il poeta Dino Campana: “A me sembra che il disfare/ Sia tutto un fare”. Intervista a Mani Neumeier Mani, sono passati più di 35 anni dalle tue prime sconcertanti incisioni a nome Guru Guru. Cos’è stata la tua vita fino ad oggi? Beh, la mia vita è da sempre concentrata attorno alla musica e alla batteria. Quando non ero on stage o in studio per registrare un album mi è sempre piaciuto immergermi nella natura, esplorare foreste, scalare montagne, praticare il birdwatching. Ho trascorso molto tempo in India, a Bali, in Nepal, in Giappone… specialmente quando in Germania è inverno perché mi piace starmene sotto il sole. Ma dieci mesi all’anno sono tutto preso a suonare e a curare il management dei miei progetti musicali a nome Guru Guru, Tiere Der Nacht, Lover 303 e O n e m a n s h o w. A v o l t e r i e s c o anche a starmene semplicemente seduto rilassandomi attraverso la meditazione zen. Qualcuno dice che i Guru Guru debbano molto all’influenza di gruppi come Jimi Hendrix Experience e Cream. Ascoltavamo costantemente i loro album e sono ancora oggi un grande patito di Hendrix. Il suo feeling ineguagliabile continua ad influenzarmi. Come ricordi le session di registrazione di Ufo? 1970, Berlino; montammo i nostri strumenti nello studio di registrazione, in presa diretta, proprio come se ci fossimo esibiti per un concerto. Poi invitammo una decina di amici addetti a rollare canne. Ci facemmo di LSD e, semplicemente, iniziammo a suonare. I nostri amplificatori Marshall erano regolati sul volume massimo, era tutto assordante: il tecnico del suono era talmente preoccupato che gli scoppiassero i timpani e che i microfoni si distruggessero, che l’indomani la nostra casa discografica fu costretta a sostituirlo per terminare le registrazioni. C’è da dire che in quel periodo la scienza andava conducendo degli esperimenti riguardanti l’interazione degli stupefacenti sulla capacità di creare musica. Comunque Ufo rimane uno dei capolavori della musica elettrificata! Puoi vantare un invenzione bell’e buona: il ManiTo m … Elaborai questa trovata ai tempi in cui suonavo free-jazz: c’era un tubo collegato al tom della batteria; quando suonavo era sufficiente soffiare dentro al tubo per regolare la tonalità del suono. Credi che l’improvvisazione incarni un determinato pensiero ideologico, una modus di concepire le cose, magari anche sul piano politico? È indiscutibile che il concetto di improvvisazione premia i musicisti con una massiccia dose di libertà. Le intenzioni politiche invece perseguono tutt’altri scopi. Una bizzarria che t’è accaduta on stage? A Monaco durante l’estate del ‘78 organizzarono un concerto a cui presero parte 4000 spettatori; il palco era montato davanti ad un lago e sai… aria aperta, un caldo infernale… verso la fine mi rivolsi al pubblico invitandolo a festeggiare con noi il giubileo dei Guru Guru (i nostri primi dieci anni di attività) venendo a farsi un tuffo. La band al completo, seguita da duecento spettatori, si spogliò completamente tuffandosi nel lago. Fu una spassosissima orgia-balneare dopo due bis travolgenti. E la polizia non ci beccò! Nasci jazzista: in quale situazione sta versando la scena jazz al giorno d’oggi? Possibile rinnovare questo genere ormai attraversato in lungo e in largo da ogni tipo di avanguardia? Il jazz se la cava ancora bene ma la scena jazz ufficialmente riconosciuta è un tantino a secco, nel mezzo della strada. Però ci sono un sacco di belle cose che non passano mai in T V, c h e s u o n a n o n u o v e e s t i molanti. Il mio fantastico duo intitolato Tiere Der Nacht ad esempio; é formato dal chitarrista Luigi Archetti e dal sottoscritto alla batteria, percussioni ed elettronica. Da dove provengono le jamsession che finiscono negli album dei Guru Guru? Sono frutto di un lavoro di studio o sono canovacci nati durante i live? Sono l’espressione diretta di un momento, una sorta di ‘qui e adesso’! sentireascoltare 69 Quale credi sia l’elemento vincente nelle tue composizioni? Non saprei delinearlo ma per quanto concerne le esecuzioni dal vivo credo che il fulcro di tutto stia nel groove. Sai, in Giappone mi chiamano ‘mostro del groove’. E ora l’eterna questione: la musica può cambiare la gente o è solo un abbellimento attorno al quale s’è scritto e teorizzato sin troppo? Credo che la musica possa cambiarti: Louis Armstrong, John Coltrane, Hendrix, i ritmi africani, la musica indiana, quella che ascoltai a Bali… alla fine hanno influenzato la mia visione della vita. E tanta gente è a sua volta venuta da me sostenendo che la mia musica aveva cambiato la loro vita, perciò... buon drumming sia una memoria ferrata… … e coordinazione. Dunque, nel tuo caso, la padronanza di una tecnica solida… Ci vuole molta tecnica, questo sì. Ma più di tutto tanta esperienza per capire cosa funziona e cosa non funziona, cos’è possibile fare, dov’è possibile spingersi e per quanto a lungo. Si deve acquisire un grande feeling con lo strumento per rendere possibile tutto questo. Chuck Berry intendeva il rock’n’roll come una musica per il corpo. Robert Wyatt parla dell’esperienza Soft Machine come di un progetto r i v o l t o a l l a m e n t e . Tu ? Direi che la mia è musica per l’anima. Dovessi fare il nome di un pittore/movimento artistico che secondo te sintetizza a dovere il sound Guru Guru? Ti direi Pollock, o Picasso, o Mirò. Ma non so fino a che punto questi esempi siano validi. Certuni, per pigrizia o per mancanza di un talento effettivo, non riescono ad estrarsi dalla pastoia del sound che li caratterizzava ai propri esordi. Credi che la tua musica sia cambiata in maniera sostanziale nel corso del tempo? Provengo dal free-jazz; la mia esigenza per i Guru Guru è sempre stata quella di affiancare al mio personalissimo ‘drumming’ delle figure sempre diverse alle quali poter proporre un certo tipo di materiale. La line-up batteria/ basso/ chitarra resta invariata e mi piace proporla a volumi impossibili. Certo dei cambiamenti nella mia musica ci sono stati eccome; dopo aver assimilato le influenze del rock, dell’elettronica, del punk, della space-music, della musica etnica di Bali, della techno ecc ecc puoi ben capire che vivo in un cambiamento perpetuo e tutto si intreccia nel mio groove. Immagino che uno degli elementi fondamentali per un Sei uno che si annoia facilmente? Meglio un pubblico adulto e presumibilmente ‘rodato’ verso certe asperità o un pubblico giovane e inesperto? Beh, certamente va fatta una distinzione tra queste due ‘categorie’ che equivalgono a due modi diversi di ascoltare la musica: un pubblico adulto avrà compiuto un maggior numero di esperienze e avrà ascoltato molta più musica rispetto a quello giovane, ma anche quest’ultimo può intendere a suo modo un esperienza musicale. Dicono che perfino gli infanti siano attratti da certe sonorità piuttosto che da altre… 70 sentireascoltare Quel che è certo è che per elaborare un valido prodotto artistico ho bisogno di gioia e di una certa energia che mi spinga verso determinate reazioni. Nella maggior parte dei casi gli ideali feriscono. Li trovi comunque necessari? Credo di sì. E quali sono i tuoi, in cosa credi? Credo in Louis Armstrong, in A r t B l a k e y, i n M a x R o a c h , i n Gene Krupa, Philly Jo Jones e molti altri colossi della batteria. E poi ci sono i vari Monk, Miles Davis, Duke Ellington, Coltrane, Mingus, Elvin Jones, Hendrix, Zappa… e tanti altri. Ti sarà capitato di non aver uno straccio di idea per la testa. Che fai? In quei casi cerco di suonare al meglio il materiale che ho già composto (ne ho un infinità a disposizione); poi, se sono fortunato, dopo qualche settimana (o anche solo dopo qualche ora) le nuove idee arrivano. Di sicuro non stavi affrontando una crisi di ispirazione quando nel ‘92 hai realizzato Private, un interessante album dedicato al tuo amore per la batteria e la sperimentazione. Pensavo che dopo venti album a nome Guru Guru e un infinità di collaborazioni fosse giunto il momento di mostrare il lato più… privato della mia musica. Lo trovo anch’io molto interessante; l’ho colmato con le intuizioni più meritevoli dei miei ultimi dieci anni di carriera, l’ho composto in non più di due settimane per poi registrarlo in un giorno soltanto! Ci ho aggiunto una cosetta realizzata con il mio Maestro indiano Paramashivam, ho mixato il tutto in tre giorni e… finito. Cosa credi si aspetti la gente che viene ad un tuo concerto? Una musica che rappresenti il giusto equilibrio tra ispirazione, dinamicità e magari anche un pizzico di magia. Credo di riuscire a soddisfare queste aspettative. Dei colleghi/ amici dei tempi andati sei ancora in contatto con qualcuno? La settimana scorsa mi sono fatto una bella chiacchierata telefonica con Dieter Moebius (ex-Cluster) e con Helmut Hattler (ex-Kraan) e ad aprile mi sono esibito dopo tanto tempo con Ax Genrich in un trio che chiamammo Psycadelic Monster Jam… e poi ho suonato recentemente con Dave Schmidt, Damo Suzuki e con tanti altri. Te n d i a m o a s t u p i r c i s o l o p e r le risposte; nella tua vita sei mai incappato in una domanda che t’ha sorpreso per il suo acume? Prima o poi mi succederà. Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista? Quando la gente, dopo un concerto, viene a ringraziarmi per la musica che ha ascoltato. Sembrano così felici! E poi è bello creare e condividere sul palco e col pubblico un certo tipo di libertà… e oltre a questo starsene a letto fino alle dieci del mattino. E, infine, è bello vivere la propria esistenza facendo ciò che amiamo di più. sentireascoltare 71 note a margine a cura di Giulio Pasquali Awop lop a lop bop... ...A lop wop boom! Suoni, onomatopee, sillabe apparentemente insensate. Da Little Richard a Nada, un piccolo excursus su quelle canzoni che non hanno bisogno di parole. D o p o l ’ u r l o i n i z i a l e , Tu t t i F r u t ti di mister Richard Penniman alias Little Richard prosegue col grido dei gelatai ambulanti - ovviamente italiani- che dà il titolo alla canzone (anche se “au rutti”... boh ...), e poi col racconto degli amori del protagonista (Sue, Daisie, di cui evidentemente il misto “tutti frutti” offerto dal gelataio è metafora). Un brano che contiene tutta la natura stradaiola del rock, la sua epica del quotidiano, il suo prediligere l’energia e l’urgenza all’eleganza e tutti i suoi temi canonici; ma è specialmente quella specie di imitazione di una rullata di batteria che è l’apertura a riassumere con rara efficacia l’esplosione di vitalità che fu questa musica ai suoi esordi (più tardi le cose si complicarono). Niente parole, solo una cascata di suoni che non significano nulla ma dicono tantissimo, rendendo perfettamente chiaro il “messaggio” e la natura della nuova musica. Ma il classico di Little Richard non è la prima canzone nella storia della musica popolare a sostituire suoni inarticolati alle parole (per esempio il cuore battente di Boom Boom Boom Boom di John Lee Hook e r, e q u e l l o c h e f a c e v a “ r i n g ding-a-ling-a-ling” in That’s 72 sentireascoltare Ammore di Dean Martin), né sarà l’ultima. La fortissima componente ritmica del rock infatti da una parte ha spinto gli artisti a comporre testi nei quali tale aspetto ritmico era più importante della profondità del significato (e ciò da sempre, ben prima dell’avvento del rap) quali Rock Around The Clock, Whole Lott a S h a k i n ’ G o i n ’ O n , Tu r n ! Tu r n ! Tu r n ! , W h o l e L o t t a L o v e , più tardi Stayin’ Alive ma anc h e 11 O ’ C l o c k T i c k To c k d e g l i U2 e tantissimi altri, nei quali però le parole continuano a mantenere un senso; dall’altra li ha spinti spesso ad esprimere i concetti tramite il puro suono di sillabe apparentemente casuali. Già i cantanti jazz in vena di virtuosismi facevano qualcosa di simile: si chiamava scat e portava alle estreme conseguenze la natura di strumento musicale della voce umana. Nel rock invece questo procedimento non viene usato tanto per i virtuosismi bensì per esprimere una gioia primitiva e un abbandono al ritmo non verbalizzati, espressi così come vengono, con l’innocenza del bambino che ricorda una canzone e per cantare quella musica che l’ha rapito usa “la-la” o “zumzum”. Qualche esempio storico: onomatopee e suoni puri Cosa voleva dire altrimenti “Be-Bop-A-Lula, she’s my b a b y. . . ” e c c ? I l c a n t a n t e i n casi come questo un po’ imita il suono di uno strumento (arricchendo gli scarni organici delle rock’n’roll bands delle origini), un po’ segue liberamente e spontaneamente il mood della canzone senza le catene della costrizione verbale. Diverso il caso di Bang Bang, nella quale l’onomatopea serve a svolgere la similitudine tra i finti colpi di pistola di un gioco infantile e le ferite d’amore che si infliggono gli stessi bambini una volta cresciuti (e “bang” in inglese è uno dei tanti verbi onomatopeici, la cui abbondanza in questa lingua ha contribuito al diffondersi di questo tipo di canzoni). E se Ob-la-di Obl a - d a r e s t a s u l l a l i n e a d i Tu t t i Frutti esprimendo un semplice grido di gioia che celebra la felicità di un amore middle-class (pare che il ritornello fosse un modo di dire di un cantante giamaicano che bazzicava Londra nei ‘60), non più profondo di “ehi, quant’è bello il rock’n’roll con il suo ritmo e la sua energia giovane” è il messaggio di canzoni come Wig Wam Bam o Co-Co (e di tutte le altre...) degli Sweet , n o n c h é d e i m i l i o n i d i “ Ye a h ! ” , “Wow!” “Urgh!” “Wham! Bam! T h a n k Yo u M a ’ a m ” e a l t r i “ v e r si” di cui è piena la storia del rock e che esprimono la fisicità del ballo (o dell’atto sessuale, cose che nel rock non sono molto distanti). I raffinati Soft Boys di Robyn Hitchcock con Wey Wey Hep Uh Hole fanno ironia su questo stesso registro, ma esistono possibili usi diversi del non-verbale nelle canzoni: con My Ding-a-Ling del 1971, per esempio, Chuck Berry riuscì a mandare al n. 1 in Inghilterra una canzone che parlava del suo organo sessuale senza farsela censurare. E mentre il “fa-fa-fa-fa-fa” di Psycho Kill e r d e i Ta l k i n g H e a d s m i m a l a parlata sconnessa del disturbato soggetto della canzone, l’attacco di White Riot dei Clash, nel quale in teoria verrebbero pronunciate le parole del titolo, si trasforma in un belluino urlo “Wha-wa, a-woawa” che bene rende la rabbia urgente del loro punk rosso. E un altro caso di onomatopea pura è 10:15 Saturday Night dei Cure, nella quale la ripetizione di “drip” (goccia, gocciolare) alla fine del ritornello riproduce appunto l’ossessivo gocciolare del rubinetto che scandisce l’angoscia della serata descritta nel brano. Esempi più raffinati Ma si può andare oltre: spostandoci per un attimo di genere musicale, troviamo la celebre sigla di Canzonissima, Zum Zum Zum, quella che faceva “La canzone che mi gira nella testa/non so bene cosa sia, dove e quando l’ho sentita, di sicuro so soltanto che fa ‘zum zum zum zum zum’...”. Qui “zum zum...” non è a caso, bensì serve a riprodurre esattamente il modo in cui canticchiamo una melodia che ci ritroviamo ficcata in testa senza ricordarci cos’è: è una canzone che racconta in musi- ca un fenomeno musicale con perfetta coincidenza tra cosa narrata e modo di narrarla. To r n a n d o a l r o c k , m a r i m a n e n do sugli usi raffinati di questo procedimento, troviamo Jonathan Richman e la sua My Little Kookenhaken, nella quale un uomo racconta che quando a cinque anni si innamorò di una bambina coetanea, sentì risuonare in mente la parola “Kookenhaken”. Che non voleva dire nulla, ma che gli sorse spontanea insieme all’amore. Poi, prosegue, con gli anni aveva dimenticato l’episodio finché, incontrando la ragazza cui sta parlando, non ha sentito di nuovo risuonare nel suo cuore quella parola e ha compreso così di essersi innamorato di nuovo, con la purezza e l’innocenza di un bimbo. Sembra una variazione in salsa innocente-richmaniana sul tema della classica canzone d’amore; in realtà va a scomodare sia pure di sfuggita temi pesanti quali l’origine del linguaggio e la questione “da dove nascono le parole?”, e richiama anche alla memoria la storia raccontata da Paul A u s t e r i n Tr i l o g i a d i N e w Yo r k di un fanatico religioso che aveva rinchiuso fin dalla nascita un ragazzo in una cantina, senza mai fargli incontrare altri esseri umani né sentire una sola parola del loro linguaggio perché convinto che in quel modo il ragazzo avrebbe parlato la lingua di Dio pura, scevra da interferenze umane. Chissà se innamorandosi avrebbe detto anche lui “kookenhaken”... E se questa può sembrare un’interpretazione ardita, è meno strano associare la filosofia del linguaggio a Word y R a p p i n g h o o d d e i To m To m Club , progetto parallelo della sezione ritmica dei proverb i a l m e n t e i n t e l l e t t u a l i Ta l k i n g Heads. Qualcuno ricorderà questa canzone nella versione “Mago G, mago G” approntata per la pubblicità di una ditta di biscotti (gliel’avranno chiesta l’autorizzazione?): in quella originale c’era un ritornello di puri suoni senza senso, che evidentemente esemplificava quanto espresso nella frase ricorrente “What are words for?” (“a che servono le parole?”). A pubblicizzare i biscotti, no? Dopo aver citato di passata Mmm Mmm Mmm Mmm dei C r a s h Te s t D u m m i e s , c h e r a c conta storie di disagio vagamente simili a quella di Paul Auster ma nella quale non si capisce cosa c’entri il ritornello in stile Zum Zum Zum, e Scatman’s World, prediche moraliste rappate da un buffo personaggio scomparso dalle scene dopo questo singolo, per l’appunto Scatman, che sul finale della canzone manteneva fede al suo nome esibendosi in uno scat, e She Bangs di Ricky Martin, chiudiamo parlando di una illustre signora della canzone italiana: Nada. Finale: Nada e un’arpa L’ a n n o è i l 1 9 7 3 , l ’ a l b u m è H o scoperto che esisto anch’io, autori e produttori Piero Ciampi e Gianni Marchetti, brano d’apertura Confiteor: prima che l’intro orchestrale sanremese-hollywoodiano lasci il posto a una cupa cadenza di piano, Nada entra imitando un’arpa, prima normalmente poi con intonazione ironica. Nel testo racconta che tutti la credono una brava ragazza mentre in realtà fa pensieri (e atti) oscuri che nessuno sospetterebbe in lei, con la musica che segue alla perfezione ogni sfumatura, ogni indugio, ogni piega del testo; il senso però era già stato espresso in quell’introduzione in cui prima si fingeva uno strumento etereo come l’arpa e poi, proprio come la ragazza cui dà voce nel brano, smascherava beffardamente l’inganno. What are words for? sentireascoltare 73 classic album Steely Dan – Pretzel Logic (ABC, 1974) Gli Steely Dan. Quella strana contrazione/contraddizione tra cerebrale e sanguigno, tra lieve e ombroso, tra sofisticato e ridanciano. A partire dalla ragione sociale, che è sì citazione “colta” – estrapolata dal Naked Lunch di Burroughs - ma pur sempre il nome di: un vibratore. Due spiccioli di storia: Donald Fagen e Walter Becker affrontano audizioni già dalla fine dei sixties, ma la loro miscela di jazz, palpitazioni pop e reverie classiche non convince i discografici. Per il debutto occorre quindi attendere il ’71, quando vede l a l u c e Yo u G o t t a Wa l k I t L i k e Y o u Ta l k I t , u n a s o u n d t r a c k passata in archivio piuttosto inosservata. A raccogliere i consensi sperati (e con gli interessi) ci pensa nel 1972 Can’t Buy A Thrill, ribadito l’anno successivo da Count d o w n To E c s t a s y . N e l g i r o d i pochi mesi, obbedendo ad una prolificità quasi offensiva, arriva Pretzel Logic. A quel punto sono già in orbita, gli Steely Dan. Se Pretzel Logic non è il loro titolo più famoso, 74 sentireascoltare poco ci manca. Non il capolavoro: personalmente propendo per Aja, che in quanto a stile alberga in tutt’altre coordinate, ovvero fusion atmosferica, levigatezze/destrezze strumentali, insidie stilizzate e penombre vibranti. Pretzel Logic, invece, segue una rotta altrettanto inafferrabile ma indubbiamente più terrena. Una danza mutante, lieve e sfrenata, tra accattivanti quisquilie. Come il RnB luminoso di Barrytown, o quella sorta di sogno Phil Spector-Beach Boys che risponde al nome di Through With Buzz (il vellutato dinamismo degli archi, il piglio quasi glam del piano, l’evanescenza della slide), o ancora ill funky soul cinematico di Night By Night, con quel concistoro ritmico a maglie serrate, i galleggiamenti obliqui della voce, le folate sfavillanti degli ottoni e la chitarra a unghiate. Diamo agli Steely Dan ciò che è degli Steely Dan, ovvero il merito d’essersi voluti moderni oltre la propria contemporaneità, d’aver travalicato il rock/bossa/RnB di Rikki Don’t Lose That Number, alla morbidezza folk-soul di Any Major D u d e W i l l Te l l Y o u ( q u e l p i a n o elettrico, la duttilità ombrosa della melodia…), o infine alla pseudo-tarantella opalina di Charlie Freak: allora tutto appare chiaro, lampante, ineq u i v o c a b i l e . Vo g l i o d i r e , t a l volta accade che il talento e lo stato di grazia s’incontrino al momento e nel luogo giusti, tutto qui. Avviene una specie di magia di cui potremmo parlare (scrivere) per ore (pagine), e non riusciremmo a venirne a capo meglio di quanto non farebbe una sola parola: bello. É bello lasciare questa musica sbrigliata, a distrarci, cullarci, rapirci, intristirci, rallegrarci. Fa lo stesso. Sbalestrarci in mezzo al volto la fusion rovente di Parker ’s Band, oppure il country rock appuntito di With A Gun, oppure la crepitante elasticità s o u l d i M o n k e y I n Yo u r S o u l . Unico il gesto, il respiro, il suolo calpestato. Musica da auscultare o lasciar scorrere, tempo solcandone le onde e gli steccati. Sembrerebbe un complimento cucito su misura p e r E a s t S t . L o u i s To o d l e - O o , cover di un classico a firma Duke Ellington/Bubber Miley che intreccia arcaismi jazz e richiami country-psych, vapor i z z a u m o r i d i w u r l i t z e r, g o r goglii di chitarra wah-wah e suadenti understatement di sax. Poi ti abbandoni alla cospirazione jazz-blues della title track (swing sotto anestes i a , m i c r o t e n t a z i o n i c o u n t r y, assolo di chitarra da urlo), alla strategia di trapassi vivisezionare o carezzare. Fa lo stesso. Stefano Solventi Captain Beefheart & His Magic band – Safe as Milk (Buddha, 1967) Se c’è un personaggio capace di gareggiare con il sommo sacerdote Frank Zappa in irriverenza e odio per gli schemi c o n s o l i d a t i , q u e l l o è D o n Va n Vliet , in arte Captain Beefheart. Un artista legato a filo doppio al santone di Freak Out! da un rapporto di amore/ odio nato in gioventù, quando i due suonavano nelle stesse formazioni, e consolidato in anni successivi in occasione delle registrazioni del capol a v o r o a s s o l u t o d i Va n V l i e t , Tr o u t M a s k R e p l i c a . Tuttavia, prima di arrivare a concepire il blues destrutturato e folle del disco citato, Vliet è un musicista plagiato dal jazz di Ornette Coleman , un artista che si interessa di pittura e scultura, un istrionico pensatore libero che si rintana ai margini del deserto del Mojave e con un pugno di musicisti altrettanto sfasati decide di rileggere la musica del Diavolo alla maniera di Howlin’ Wolf, ibridandola con i dettami del free. I primi risultati sono un paio di 45 giri pubblicati dalla A&M - Diddy Wa h D i d d y / W h o D o Yo u T h i n k Yo u A r e F o o l i n g e M o o n C h i l d / Frying Pan - immediatamente rinnegati dai vertici della casa discografica perché commercialmente poco attraenti. Una scelta discutibile, ma che costringe il gruppo a rimandare l’esordio sulla lunga distanza al 1967, quando approda presso la Buddha Records. Nobilitato dalla chitarra di un giovanissimo Ry Cooder , dall e p e r c u s s i o n i d i Ta j M a h a l e dall’apporto di Alex St. Clair S n o u ff e r, Jerry Handley e John French, Safe As Milk raccoglie undici episodi che traggono linfa vitale dal blues ma al tempo stesso vanno oltre le semplici dodici battute tipiche del genere. Se Sure ‘ N u f f ’ N Ye s I D o s e m b r a i n f a t - ti ricalcare la Hobo Blues di Johnny Lewis elettrificandola, Zig Zag Wanderer risente invece delle influenze del beat, Call On Me parla il linguaggio del soul, Dropout Boogie cita i K i n k s d i Yo u R e a l l y G o t m e , I’m Glad è Wilson Pickett in a b i t i d a c r o o n e r. La prima facciata del disco scivola via su toni piuttosto ordinari, considerati i canoni espressivi di quello che sarà lo stile del Beefheart maturo e soltanto sul lato B si intravedono i primi segnali di un piacevole squilibrio stilistico. E l e c t r i c i t y v e d e u n Va n V l i e t instillare un cantato quasi diabolico su riff di chitarra monocromatici e zampettanti, Ye l l o w B r i c k R o a d è u n ’ e s c u r sione nel country meno banale, Abba Zaba fonde ritmiche africane e riff ossessivi, Plastic Factory è un primo tentativo concreto di “liberalizzare” le geometrie canoniche dei brani. Where There’s Woman , Grown So Hugly e Autumn’s Child chiudono la scaletta, con una formula in bilico tra umori latini e percussioni, atmosfere soft ed incedere ritmico fuori tempo. Benché il minutaggio dei brani superi raramente i tre minuti – Trout Mask Replica si dimostrerà assai meno legato alle logiche da 45 giri – Safe As Milk contiene già molti di quelli che saranno gli elementi distintivi del suono a marca Captain Beefheart & His Magic Band, a cominciare da una voce gracchiante e profonda e da un background strumentale volutamente incapace di circoscrivere gli impeti diaframmatici del leader del gruppo. Una frizione continua, che se in questa sede pare ancora imbrigliata dall’innocenza giovanile, col tempo assumerà i toni di in una vera e propria guerriglia sonora spesa tra dissonanze ragionate e atomizzazioni espressive. Fabrizio Zampighi Motorpsycho - Demon Box (Voices Of Wonder, 1993) Negli anni a cavallo tra gli ‘80 e i ‘90 si assistette in campo indie al recupero di sonorità considerate blasfeme, quali l’hard rock, il folk e il progressive. Fortunatamente non fu un vero e proprio revival fatto di pezzi interminabili, tecnicismi vari, concept album, strumenti d’antan, formazioni numerose, quanto un tentativo di disassemblare quei generi e usarne alcuni componenti filtrandoli con attitudide punk, bassa fedeltà e un approccio spesso dissacrante. È un fenomeno che riguarda soprattutto la provincia USA ma, se le celebberime bands di Seattle furono maestre nell’arte del riciclo creativo (dai Melvins ai Soundgarden, dai Nirvana agli Screaming Trees), è nella periferia remota del rock che è stata prodotta l’opera più rappresentativa del periodo, a Trondheim, cittadina industriale norvegese. Qui i Motorpsycho sfornano il loro terzo, monumentale album, Demon Box. Il titolo è preso da un libro di Ken Kesey (padre della psichedelia USA), la copertina da una vecchia foto familiare, a dimostare un doppio legame con la tradizione. I quattro norvegesi aprono il vaso di Pandora del rock e ci accompagnano in un viaggio meraviglioso tra macigni lisergici e vortici fuzzedelici, comuni hippie e colonie marziane, assalti all’arma bianca e pillole surrealistiche e sul- sentireascoltare 75 furee, stagedives senza rete e trip senza fine, leggende nordiche raccontate con clangori industriali in sottofondo. Sunchild è l’indie song definitiva, si sviluppa sull’asse Hüsker Dü - Dinosaur Jr e sfodera un assolo contaggioso da (air) guitar hero. Junior sembra la classica slacker song alla Pavement, ma quando dovrebbe terminare, scala una marcia, sbanda, accenna una assolo e si schianta contro un cumulo di spazzatura grunge. Plain #1 è una perla, parte in punta di piedi con fraseggio acustico su un tappeto di samples vocali e rumoristici (glitch?) per poi gonfiarsi e esplodere in una supernova psichedelica. Sheer Profundity e Feedtime sembrano uscite da Dope, Guns, and Fucking in the Streets dell’Amphetamine Reptile, l’atmosfera è quella malsana della Grande Mela, le urla belluine e i riff quadrati ricordano Helmet e Unsane. La cover di Moondog All Is Loneliness è un assurdo raga che ipnotizza lo spettatore al suono di sitar elettrico e violino per poi catapultarlo nella notte artica senza fine. Demon Box ci sprofonda in un incubo interminabile, figlio illegittimo di Throbbing Sabbat h e S o n i c C h e e r, d i c i a s s e t t e minuti di doom apocalittico e feedback accecante capaci di far impallidire (se possibile) la moltitudine di black metal bands che in quegli anni nascevano in Scandinavia. La versione in doppio vinile presenta tre pezzi in più, tra cui il mammuth progressive Mountain (ripreso nell’EP omonimo). Album irripetibile e strabordante, Demon Box è un lavoro a doppia anima, nel quale si alternano pezzi solari e visionari a tracce cupe e introspettive, come se fosse stato registrato in due sessions durante le due lunghe stagioni polari. Il risultato è un’opera 76 sentireascoltare discontinua e circolare (inizia e finisce con due versioni della stessa canzone) nella quale passato e futuro convivono in (dis)armonia: registrazioni casalinghe dei genitori e synth, taurus e samples futuristici, hammond e chitarre ultrasature. I Motorpsycho non sono solo dei geniali antiquari, ma anche degli ottimi fabbri, riescono a fondere generi apparentemente inconciliabili (punk, folk, heavy metal, lo-fi) e a ricavarne leghe miracolose, che risentono profondamente dell’ambiente alien(o|ante) del Profondo Nord. All’epoca della storica alluvione del ‘93, un centinaio di ragazzi sfidò natura e buonsenso per assistere alla prima esibizione italiana dei Nostri a Va l e n z a P o . U n a m o n u m e n tale versione di Demon Box (intorno alla mezz’ora) li ripagò in pieno. rubrica i cosiddetti contemporanei a cura di Daniele Follero Erik Satie ...uno strano precursore Troppo anticonformista per diventare un “classico”, avanguardista prima delle Avanguardie. Precursore di tutto e di niente, Erik Satie rimane uno dei più grandi provocatori che la storia della musica abbia conosciuto, emblema di un’arte che si affacciava al nuovo secolo con sfrontatezza, scrollandosi di dosso senza troppo rimpianto il “peso” ingombrante del Romanticismo. “Mi chiamo Erik Satie, come chiunque” (Erik Satie) Quando scherzava la gente non ci credeva, quando ha cominciato a fare il serio tutti ci hanno riso e lui se l’è presa. Forse Satie non l’ha mai capito nessuno e probabilmente è quello che lui ha sempre voluto. Progressista e conservatore. Colto e bizzarro. Ironico, iconoclasta, sarcastico. E chi più ne ha più ne metta (di aggettivi). Ancora oggi, ascoltando la sua musica, risulta difficile definirne i confini, in quell’ambiguità che la fa apparire seria e giocosa allo stesso tempo. Tutto il Novecento musicale è in qualche modo debitore di Erik Satie, per quanto la “grande musica” non l’abbia mai neanche accostato ai “grandi” della sua epoca: D e b u s s y, R a v e l , S t r a v i n s k i j , M a h l e r. Tr o p p o p o c o “ s e r i o ” per ottenere il parere unanime dell’Accademia (e del pubblico). Troppo anticonformista per diventare un “classico”. Eppure Satie il suo momento di gloria lo ha avuto, quando è diventato esponente di spicco delle avanguardie parigine di inizio secolo, camminando a braccetto sulla riva della Senna con personaggi come P a b l o P i c a s s o , R e n é C l a i r, Jean Cocteau. Ma non era un giovane, aveva già passato i quarant’anni e si avviava a trascorrere l’ultimo periodo della sua vita tra provocazioni e ripensamenti. Il giovane Satie aveva vissuto esperienze ben diverse, spesso e volentieri suonando il pianoforte di un café chantant, lontano da quegli ambienti “colti” che lui stesso si divertiva a sbeffeggiare. “Je s u i s u n g y m n o p edist e ” Honfleur è una piccola città della bassa Normandia, nord della Francia. E’ lì che nasce, il 17 maggio del 1866 Eric Alfred Lesile Satie. Eric, con la c. La k alla fine ce l’ha messa lui: ennesima provocazione di un personaggio che non ha mai smesso di rappresentare tutto e il contrario di tutto. Non amava farsi chiamare musicista, ma gymnopediste (aggettivo intraducibile riferito alla gymnopaedia, antica danza di Sparta), senza un motivo particolare. Il nonsense, del resto, è stata per lui una specie di leitmotiv che ha caratterizzato tutta la sua vita artistica, conducendolo fino alle esperienze dadaiste. Divenuto orfano, Satie comincia molto presto la sua vita di “vagabondo” trasferendosi a Parigi. Avvezzo allo studio non lo sarà mai: nel 1879 riesce ad entrare al Conservatorio della capitale francese ed è lì che probabilmente conosce per la prima volta D e b u s s y. M a l a s u a c a r r i e r a di musicista “professionista” finisce presto, dopo essere stato definito “privo di talento” dai suoi stessi insegnanti. Espulso dal Conservatorio ci ritornerà dopo due anni, ma senza nessun miglioramento. sentireascoltare 77 Preferirà partire per il servizio militare, ma sotto le armi resisterà ben poco e con un “imbroglio”, dopo qualche settimana, riuscirà, non si sa come, a ritornare un cittadino libero. La vita del compositore sarà, di lì in avanti, un continuo stravolgimento delle posizioni prese, come se la sua esistenza fosse di per sé un’opera d’arte e lui ne fosse l’oggetto principale. Nel 1887 si trasferisce a Montmartre e lì stringe una stretta amicizia con il poeta Patrice Contamine, le cui poesie gli forniranno spunti interessanti per le sue prime opere pianistiche. Sono di questo periodo le prime due Gymnopedies (la terza sarà pubblicata solo alcuni anni dopo) e le Gnossiennes, brevi composizioni inizialmente trascurate e in seguito divenute un marchio distintivo della musica di Satie: l’estrema esilità della scrittura e la semplicità strutturale di questi brevi pezzi pianistici starà alla base, seppure in forme molto diverse, di tutta la sua arte. Uno degli elementi più caratterizzanti del suo eclettismo sarà il cabaret, presenza costante (se di qualche tipo di costanza si può parlare nella sua vita) nel suo percorso artistico. Un percorso che spesso intraprende strade incomprensibili se non associate all’ambiguità del personaggio. Satie mischia il “sacro” e il “profano” con una facilità disarmante: grande frequentatore del locale di Cabaret “Le Chat Noir”, dove spesso si diverte ad intrattenere i presenti suonando il piano, aderisce presto alla setta misteriosofica Ordre de la Rose - Croix C a t h o l i q u e , d u Te m p l e e t d u Graal, divenendone Maestro di Cappella, fino a diventar e u n “ G e n t i l u o m o Ve l l u t a t o ” , iscriversi al Partito Comunista Francese e ritornare agli studi “seri” entrando, nel 1905, 78 sentireascoltare già musicista consumato, alla Schola Cantorum per studiare il contrappunto. La gloria e i l “satismo ” Elencare gli episodi della vita di Erik Satie e le sue opere significherebbe fare un lunghissimo elenco delle provocazioni con le quali il compositore francese si è fatto largo tra i suoi contemporanei. In una Parigi che, a cavallo dei due secoli si preparava, culturalmente parlando, a diventare la capitale più rappresentativa e propositiva d’Europa nel passaggio dalla modernità alla contemporaneità, Satie non prenderà mai una posizione netta e coerente nei confronti dei movimenti artistici radicali dell’epoca (impressionismo, simbolismo, surrealismo, dadaismo), a testimonianza di quello spirito libero che lo ha reso una sorta di “cane sciolto” della musica contemporanea. Di questo si accorse John Cage, un altro grande provocatore della contemporaneità, e ne fu affascinato:“Per interessarsi a Satie occorre cominciare non avendo interessi, accettare che un uomo sia un uomo, lasciar perdere le nostre illusioni sull’idea di ordine, di espressione dei sentimenti e tutti gli imbonimenti estetici di cui siamo gli eredi. Non si tratta di sapere se Satie è valido. Egli è indispensabile”. Le sue Vexations rappresentarono una sorta di punto di riferimento per gli esperimenti del compositore americano. Le prime esecuzioni di questo brano sono diventate famose proprio ad opera di Cage, che interpretò alla lettera l’indicazione in partitura “da ripetere 840 volte”. Ne venne fuori un vero e proprio tour-de-force che tenne impegnati cinque pianisti, che suonarono alternandosi dalle sei di sera al mezzogiorno successivo! La gloria arriva nel 1917 con la pantomima Parade, apoteosi di un’”estetica del circo e del music hall che in quegli anni veniva contrapposta alle seriosità post-romantiche e alle vibrazioni simboliste” (Guido Salvetti). Il cast a dir poco esclusivo ne garantisce di per sè il successo: le sceneggiature sono di Cocteau, le scene di Picasso e la cor e o g r a f i a d i S e r g e i j D j a g h i l e v. Tutt’a un tratto il mondo si accorge di lui e non mancano gli adepti, che cominciano ad affollarsi attorno al Maestro. Il cosiddetto “Gruppo dei Sei” (che comprendeva i musicisti Darius Milhaud, Franc i s P o u l e n c , A r t h u r H o n e g g e r, Georges Auric, Louis Durey e G e r m a n e Ta i l l f e r r e ) t r o v e r à i n lui il vero animatore e ispiratore. E Satie ripagherà come suo solito con un entusiasmo “a orologeria”, che ben presto si trasformerà in un dissenso molto forte con alcuni di loro. A t t o r n o a g l i a n n i Ve n t i , s i f a avanti in lui un atteggiamento che molti hanno definito “socratico”. Una sorta di espressione di saggezza che si manifesta in un atteggiamento serioso, sia nella vita che nell’arte, spiazzando ancora una volta un po’ tutti. Quando presenta il suo Socrate, per voce e piccola orchestra (da cui Cage trarrà spunto per Cheap Imitation), un pubblico ormai abituato alle sue provocazioni, lo accoglie con grandi risate. Il compositore, invece di compiacersi della reazione suscitata va su tutte le furie, testimoniando la sua (ri)conversione “seria”. E, sempre e comunque, provocando. Ma non gli resta ancora molto tempo per stupire. Erik Satie muore il 1 luglio del 1925 in un ospedale parigino, povero ma illustre. Musique d’ameublement: Satie padre dell’Ambient Music? Un precursore. Molti lo hanno definito così, anche impropriamente, e soprattutto dopo la sua morte. Del resto le “acrobazie” del compositore, quel suo naufragare tra le mode e le contraddizioni dell’epoca permette di collocarlo facilmente ovunque. O da nessuna parte. In ambito popular c’è chi lo definisce il precursore dell’ambient music e non a torto. Il concetto satiano di “musique d’ameublement” (da cui prende il nome anche una sua composizione del 1920) non è molto lontano da quello di “discreet music” che cinquant’anni più tardi farà la fortuna artistica (ed economica) di Brian Eno. E’ vero che l’interesse particolare per questo tipo di funzione della musica è ristretto ad un periodo molto breve della carriera del musicista francese (come qualcuno potrebbe obiettare), ma è vero anche che tutta la musica di Satie è pregna di quella “discrezione” che la rende “Musica d’arredamento” . Dalle famose Gymnopedies alle ultime composizioni una caratteristica abbastanza costante nella sua musica è quella mancanza di punti di riferimento, di elementi d’attenzione, che la rendono fatua, quasi eterea, senza consistenza. Gli aeroporti e i supermercati erano ancora un miraggio nell’Europa di inizio novecento, la muzak non aveva nessun contesto in cui nascere, eppure c’era già qualcuno che pensava che la musica potesse avere diverse funzioni e, nel piccolo del- la sua casa, immaginando le note come soprammobili, si era avvantaggiato sui tempi. Forse troppo. . The essential Erik Satie Tr o i s M e l o d i e s ( s u t e s t o d i Contaimine de Latour) (1887) Gymnopédies (1888) Gnossiennes (1890) Sonneries De La Rose + Croix (1892) Vexations (1893) La Belle Excentrique (Fantaisie Sérieuse) - per pianoforte e orchestra di Music Hall (1902) Embryons Desséchés (1913) Parade (Ballet Réaliste) (1917) Socrate - dramma sinfonico per pianoforte, orchestra da camera e voci (1918) Musique d’Ameublement (1920) sentireascoltare 79 rubrica la sera della prima a c u r a d i Te r e s a G r e c o Sam Raimi T h e E v i l D e a d Tr i l o g y di Antonello Comunale La genesi di uno dei più grandi film horror di tutti i tempi, il cult Evil Dead (La Casa) di Sam Raimi, che fece epoca per l’impatto delle immagini e per le riprese ardite e originali, e gli episodi che ne sono seguiti, a formare una trilogia che potrebbe avere presto un seguito. Un gruppo di amici decide di fare una scampagnata, passando il week-end in una baita di montagna affittata per l’occasione. Una volta arrivati nella rustica maison, trovano in cantina uno strano libro, scritto in sumero, e un registratore con qualcosa inciso. Fanno partire il nastro e le parole emesse scatenano le forze maligne in attesa di essere risvegliate. Ecco. Il plot di uno dei più grandi film horror di tutti i tempi è tutto qui. Una mancia- 80 sentireascoltare ta di luoghi comuni e qualche citazione accademica per salire sulle montagne russe dell o s p l a t t e r. I l m e r i t o v a a S a m Raimi, Bruce Campbell e Rob e r t Ta p e r t , g l i u o m i n i d i e t r o la Renaissence Picture, una spartana casa di distribuzione creata ad hoc per la realizzazione - tra amici - di Evil Dead, ribattezzato in Italia L a C a s a . L’ i s p i r a z i o n e p e r l o script e la miccia che innesca tutto viene a Sam Raimi da un compito di storia, all’epoca dei suoi studi di letteratura alla Michigan State Univers i t y. I l c o m p i t o i n q u e s t i o n e era quello di leggere il Book Of The Dead della tradizione tibetana. Affascinato dal titolo, Raimi getta rapidamente le basi per una sceneggiatura che ruota intorno ad un libro dei morti analogo, il Necronomicon ex mortis, che tanta parte ha avuto nelle storie di Lovecraft. Il problema divenne, allora, la mancanza totale di soldi per procedere alle riprese e la pressoché totale sfiducia di qualsiasi finanzia- tore. La necessità aguzza l’ingegno e Raimi, coadiuvato da un suo amico di infanzia, Bruce Campbell e da un compagno d i U n i v e r s i t à , R o b e r t Ta p e r t , decisero di procedere alla realizzazione di un 8mm, che avesse i requisiti base della sceneggiatura e mostrasse in piccolo quello che si sarebbe visto a riprese ultimate. Una sorta di corto-trailer per convincesse i finanziatori a investire qualche dollaro nel progetto. Visto l’ingente uso di effetti di make-up e riprese ardite che la sceneggiatura prevedeva, i tre chiesero Ellen Edelweiss, nel ruolo femminile. Le cronache parlano di un Campbell completamente esausto alla fine delle riprese, soprattutto per il trucco di latex e per i liquami di cui era costantemente ricoperto. Alla fine il corto completato fu fatto vedere, a vicini di casa, amici, conoscenti, attraverso un semplicissimo porta a porta che dopo un po’ di tempo frutt ò a R a i m i , C a m p b e l l e Ta p e r t , all’incirca 90.000 dollari. In pratica il budget di base per la realizzazione di Evil Dead. e entusiastiche, altri non è c h e i l r e d e l l ’ h o r r o r, S t e p h e n King, che fu uno dei primissimi sponsor della pellicola, quando questa cominciò rapidamente a farsi notare in giro per i festival, ottenendo, tra l’altro, un premio al Festival d e l l ’ O r r o r e d i N e w Yo r k e u n Gran Premio Speciale della Giuria al Festival del Film Fantastico di Parigi. Il sogno d i R a i m i , C a m p b e l l e Ta p e r t sembrò finalmente materializzarsi. Il film fece epoca soprattutto per l’impatto delle immagini e per le riprese ardite e originali che non sembravano trovare giustificazione in l’aiuto di un altro compagno di s t u d i d i R a i m i , To m S u l l i v a n , che si dedicò completamente al trucco. Within The Woods, questo il titolo del corto della durata di trenta minuti, fu girato in un solo week-end, in una fattoria della famiglia Ta p e r t , n e l M i c h i g a n . Si sa che il prototipo può differire dal progetto finale, e in Within The Woods, possiamo vedere un giovanissimo Bruce Campbell nella parte del mostro posseduto e un’altra compagna di università di Raimi, la forza evocativa delle storie che si raccontano intorno al fuoco dell’accampamento, ma questa semplicità non è certo dovuta al caso. E’ invece il risultato di uno sforzo mirato di Raimi, che è tutto fuorché ovvio […] Cosa funziona così bene? Quello che funziona è soprattutto Sam Raimi. Egli è talmente bravo che un altro meno dotato di lui non riuscirebbe a fare altrettanto bene, anche a costo di “mangiarsi” un pezzo di Raimi”. L’ a u t o r e d i q u e s t e r i g h e c o s ì un budget irrisorio, gonfiato fino a 375.000 dollari, soprattutto grazie al giro di offerte di Within The Woods. Il merito e la perizia vanno soprattutto a Raimi, che da enfant prodige della tecnica inventò di sana pianta soluzioni artigianali, ma efficaci. Un esempio su tutti: la Shakeycam, una cinepresa da 16mm, con una lente da 8mm, montata su una tavola di due metri per due, grazie alla quale si riuscivano ad ottenere dei movimenti di macchina con Evi l D e a d ( 1 9 8 2 ) “La Casa ha la semplicità sentireascoltare 81 una fluidità perfetta, soprattutto nelle riprese in corsa. La Shakey-cam, infatti, veniva letteralmente montata addosso a Raimi o all’operatore Tim Philo, che altro non dovevano fare che correre avanti e indietro per il bosco, come dei forsennati. Le invenzioni di Raimi non finirono qui. Una ripresa surreale ed efficacissima di Evil Dead, quando Ash pugnala la sua ragazza posseduta, e l’immagine scivola, letteralmente, lungo il pavimento, venne creata con la Vasil-cam (cinepresa alla vaselina…). In pratica sul pavimento fu montata una cinepresa attaccata ad un nastro scorrevole e con una rotaia ricoperta di vaselina, di modo che la macchina potesse scivolare morbidamente. Sono soluzioni artigianali che aggirano la mancanza di soldi e ottengono l’effetto prefissato. I meriti del film, però, non sono solo nella tecnica. Raimi si inserisce, con Evil Dead, nel filone del new horror anni ’70. Un uso spregiudicato dei corpi e della loro rappresentazione, una mancanza totale di pudore nell’esposizione del sangue. Sono gli anni feroci d i a u t o r i c o m e To b e H o o p e r , J o h n C a r p e n t e r, D a v i d C r o - 82 sentireascoltare nenberg e Wes Craven. Raimi, però fa fare al genere un ulteriore scatto in avanti. Inserisce evidenti correnti comiche e l’ironia surreale e acida dei cartoni animati; le inquadrature evaporano su volti gonfiati come palloncini e ripresi nelle loro espressioni più caricate, una messa in scena dell’esagerazione come poetica dell’assurdo, in una maniera non dissimile da Hanna&Barbera e s o p r a t t u t t o Te x A v e r y . L ’ o r r o re può essere talmente forte da far ridere: in Evil Dead il tutto è ancora abbozzato, ma nel furibondo finale, quando il povero Ash, rimasto solo a combattere con i demoni, viene letteralmente inondato da fontane di sangue, molti invece di spaventarsi si abbandonarono al riso. Gli attori furono tutti scelti nel giro di amici e conoscenti di Raimi e Campbell. Ellen Edelweiss, che nel film interpreta Cheryl, la sorella si Ash, fu ripresa da Within the Wood s , m e n t r e B e t s y B a k e r, H a l D e l h r i c h e S a r a h Yo r k f e c e r o il loro vero e proprio esordio. Il trucco che Sullivan creò per le possessioni fu evident e m e n t e i s p i r a t o d a L’ E s o r c i sta, mentre è da segnalare la citazione di Le colline hanno gli occhi, il cui manifesto è appeso giù in cantina. Qualche anno più tardi Craven ricambierà la cortesia facendo proiettare Evil Dead, dal televisore delle camera di Johnny Depp, in Nightmare. Evil Dea d I I : D e a d B y Dawn (1 9 8 7 ) Dopo il successo di Evil Dead, Raimi tentò una strada diversa con Crimewave, conosciuto in Italia, con il titolo di I due criminali più pazzi del mondo. Soggetto e sceneggiatura furono vergati insieme ai fratelli Coen, che nonostante fossero più vecchi, si adombrarono alla corte di Raimi, cercando letteralmente di “imparare il mestiere” e dimostrando rapi- damente di averne appreso la tecnica, con il notevole Blood Simple. Crimewave andava ancora di più in direzione cartoon, ma non ottenne successo né attenzione critica, cadendo nel dimenticatoio. Fu così che Raimi, di nuovo in compagnia d i C a m p b e l l e Ta p e r t d e c i s e di tornare sulle orme di Evil Dead, forti questa volta di un investimento finanziario raddoppiato rispetto allo spartano esordio. Evil Dead II è praticamente un remake accelerato del primo film, che ne evolve le soluzioni portando l’occhio a n c o r a d i p i ù v e r s o l ’ h u m o u r, la caricatura, l’assurdo ridanciano delle trovate. Le immagini più levigate, e i presupposti tecnici più solidi sono al servizio di un film, che porta all’estremo il gusto per l’eccesso e le situazioni limite del primo film. I tempi e i ritmi vengono manipolati, le inquadrature vengono tagliate da tutti gli angoli possibili, i movimenti di macchina non conoscono forza di gravità. Evil Dead II è il massimo della perizia tecnica e del peculiare tocco di Raimi. I puristi, però, storsero subito il naso di fronte a sequenze come quella della mano posseduta che si ribella al suo padrone, o quella del bulbo oculare sparato in bocca, che più che provenire dalla tra- d i z i o n e h o r r o r, t r o v a n o o r i g i ne nei cartoon della Warner Bros, quelli di Wile E. Coyote e B u g s B u n n y. M a q u e l l o c h e preme principalmente a Raimi è aggredire lo spettatore con situazioni shock che lo facciano sobbalzare sulla sedia. Gag comiche e momenti da infarto si alternano con il preciso scopo di non dare tregua. Quello che non viene mai meno è l’occhio visionario del regista. Bruce Campbell continua, nella parte di Ash, a patirne di tutti i colori. Al punto che viene definito “il primo eroe masochista della storia dell’horror”. Il finale visionario e apocalittico chiude il film come meglio non potrebbe, gettando le basi per il terzo capitolo. Evil Dead III: Army Of Darkness (1993) “Mi piacciono i buoni film di h o r r o r, m a i n q u e s t o c a s o v o levo verificare con me stesso se fossi in grado di avere una buona risposta del pubblico con stimoli mai usati prima. Non volevo spaventare la gente, ma farla ridere, farla sentire bene e per questo ho scelto di fare un film con un taglio più ironico, […] Con La Casa avevo tentato con tutte le mie forze di terrorizzare il pubblico. Con La Casa 2 ero più interessato al coinvolgimento dello spettatore sul piano delle immagini. Due anni fa, quando ho cominciato a scrivere con mio fratello l’Armata d e l l e Te n e b r e , e r o i n u n a f a s e positiva della mia vita e avevo voglia di trasmettere questo benessere attraverso un film”. Le dichiarazioni di Raimi non lasciano spazio a dubbi e chiariscono la filosofia che sottende al terzo capitolo della trilogia di Ash. Un cambiamento, che in realtà è una ulteriore evoluzione di quella progressiva cessione a l l ’ i r o n i a e a l l o h u m o u r, c h e dal primo Evil Dead si è poi sparsa lungo tutta la filmografia di Raimi. Dove più marcata, come in Crimewave o Evil Dead II, dove meno, come in Darkman. Il progetto dell’Arm a t a d e l l e Te n e b r e v u o l e e s sere quello di una commedia fantastica, piena di ironia. Per questo si decide da subito di non intitolare il film come Evil Dead III, anche se a conti fatti la storia prosegue li dove si era interrotta in Evil Dead II, ovvero con Ash, scaraventato attraverso un salto temporale, nel passato medievale. Il budget di tre milioni di dollari e le riprese effettuate ai limiti del deserto del Mojave, nei pressi di Los Angeles, consentono a Raimi di avere la manica larga sugli effetti speciali e sulle inquadrature, ma i problemi produttivi co- minciano a sorgere allorquando De Laurentiis e Universal, i due produttori dell’occasione, cominciano un braccio di ferro per contendersi Hannibal, il sequel de IlSilenzio degli innocenti. Il film rischia di bloccarsi totalmente e Raimi, C a m p b e l l e Ta p e r t d e c i d o n o di mettere mano direttamente alle loro risorse, pur di completare il film. Questa débacle è anche il motivo per cui il finale del film fu cambiato. Alla Universal il finale scelto da Raimi non piaceva, e questi senza battere ciglio rigirò i minuti finali appiccicando un finalino ironico e autoconclusivo. Un vero peccato perché il finale scelto da Raimi era tutt’altra cosa. Ash sbagliava per l’ennesima volta la formula magica e, con il Necronomicon, finiva scaraventato in un sentireascoltare 83 mondo del futuro, totalmente distrutto da una guerra atomica. Il film è comunque un piccolo trionfo della cinefilia fantastica. Non si contano le citazioni, a partire dall’Armata delle tenebre, completamente fatta di scheletri animati in stop motion, che riprendono pedissequamente gli scheletri del leggendario Ray Harryhausen (Il 7° viaggio di Sinbad, Gli Argonauti). La formula magica che Ash non riesce mai a ricordarsi, “Klaatu barada nikto”, sono le parole che servono ad impedire che il robot Gort distrugga la terra in Ultimatum alla terra di Robert Wise. Tutto il villaggio medievale e finanche la discesa nella grotta con la strega riprende passaggi e situazioni dal peplum e dal mitologico italiano dei vari Freda, Bava e Cottafavi. Nel portabagagli della macchina di Ash, tra le varie cianfrusaglie si scorge un numero della rivista horror Fangoria. La vera novità del film però, sta tutta nel personaggio di Ash. Oltre a riprodursi per gemmazione in un alter ego cattivo e a moltiplicarsi in tanti piccoli Ash nelle deliranti sequenze del mulino abbandonato, la novità di rilievo è che per la prima volta il protagonista prende le redini in mano della storia e decide di agire. I risultati però, non sono quasi mai quelli voluti, perché come ebbe a dire Marco Giusti, questo Ash de L ’ A r m a t a d e l l e Te n e b r e “ è u n personaggio genuinamente imbecille. Ash, che si presenta all’inizio del film come se fosse una parodia dell’Ismael di Moby Dick (mi chiamo Ash e sono uno schiavo) e il cui nome è di per sé distruttivo (cenere, ma anche spazzatura) è un misto di Li’l Abner di Al Capp e dei forzuti di tutti i media, dai fumetti al cinema di Stallone e Van Damme”. 84 sentireascoltare Evil Dea d I V ( ? ) La trilogia di Ash è diventata con il passare degli anni un oggetto di culto per gener a z i o n i d i f a n d e l l ’ h o r r o r. A r tisticamente ha sicuramente fruttato bene a Sam Raimi, che dopo qualche film interlocutorio di stampo hollywoodiano e un piccolo gioiello nascosto, come A Simple Plan, ha dato il via libera alle super mega produzioni di Spider Man, ottenendo un successo ragguardevole. E’ andata meno bene a Bruce Campbell, il simpatico protagonista della serie. Continua l’amicizia con Raimi, testimoniata dal fatto, che praticamente in ogni film del regista appare anche per brevi secondi Campbell. Quest’ultimo, però, è rimasto più relegato nel circolo chiuso d e l l ’ h o r r o r. L’ u l t i m o s u c c e s s o avuto in patria è nella parte di Elvis Presley nel b-movie diretto da Don Coscarelli, Bubba H o Te p , t r a t t o d a u n r a c c o n t o di Joe R. Lansdale. Campbell è comunque diventato un’icon a h o r r o r, c o m e n e g l i a n n i passati lo erano Christopher Lee o Vincent Price. Ash è un eroe, un personaggio entrato nella cultura pop, al punto che tra i progetti di sequel più quotati c’è un Freddy vs Jason vs Ash, per cui ci sarebbe uno script già pronto. Di un Evil Dead IV si è cominciato a parlare assiduamente soprattutto nell’ultimo biennio, soprattutto grazie ad alcune dichiarazioni di Raimi che andavano in questa direzione: “Ci sarà un Evil Dead 4 e ANCHE un remake di Evil Dead. Il remake sarà prodotto dalla Ghost House Pictures, con un nuovo cast e un nuovo regista. Con la Ghost House vogliamo portare a Hollywood n u o v i r e g i s t i ( c o m e Ta k a h a s h i Shimizu di The Grudge) e dar loro la possibilità di fare buoni film horror”. Il motivo di questo sblocco psicologico, che prima gli impediva di tornare nuovamente sulla serie, sarebbe da trovare nella serie di remake di classici horror anni ’70, in voga attualmente nelle sale. L’ i d e a d i u n r e m a k e d e l p r i m o Evil Dead si inserirebbe nella scia e darebbe il la per un ritorno del nostro Ash. Il sito ufficiale di Bruce Campbell però, smentisce i “rumours” sul quarto Evil Dead, mentre conferma quelli del remake. Bisogna solo aspettare il corso degli eventi. Con il cuore in gola. Me And You (di Miranda July, USA, 2005) “Vivrò ogni giorno come se fosse l’ultimo”. O p e r a p r i m a d e l l a p e r f o r m e r e a r t i s t a M i r a n d a J u l y, v i n c i t r i c e d e l p r e m i o d e l l a g i u r i a a l S u n d a n c e F e s t i v a l , M e A n d Yo u A n d Everyone We Know (il titolo originale) è una commedia lieve sulle difficoltà di comunicazione e sull’isolamento in cui sono ingabbiati gli strambi protagonisti del suo film. La vicenda è costruita attorno a più storie della quotidianità e a personaggi che si incastrano gli uni negli altri, in una danza sottile e surreale, in cui si riflette sulla mutevole natura umana e sulla ricerca di attenzione e di amore da parte di bambini e adulti. Fanno da collante delle storie i due protagonisti: una sensibile artista multimediale, Christine (la stessa July) e un commesso maldestro, Richard, separato e con due figli piccoli, che lei decide che entrerà nella sua vita, inesorabilmente. Un film minimalista e disincantato, in cui la regista guarda con tenerezza ai suoi personaggi, e dove niente è inopportuno, anche la ricerca bizzarra dell’incontro attraverso le chatline, tra adulti e bambini o le avances pornopedofile di un uomo a due ragazzine adolescenti. Lo sguardo è indulgente e mai presuntuoso, con un sfondo di speranza, le storie restano al limite del drammatico; una delle chiavi di lettura è proprio la sdrammatizzazione, che permette al film di camminare sulle proprie gambe. Simbolismo, poesia minimale di un mondo visto con gli occhi dei bambini, lo sguardo innocente che filtra la realtà e oltrepassa il cinismo degli adulti: piccoli segnali che fanno di questo esordio un film da segnalare. . Te r e s a G r e c o Munich (di Steven Spielberg – USA, 2005) Quando si fa serio, Spielberg non riesce proprio ad essere scevro di retorica. Il suo è un approccio insopportabilmente didascalico, moralista, dogmatico. Un continuo sovraccaricare le immagini e la storia di una pesantezza allegorica, che si fa integralista del messaggio che si vuole propugnare. C’era da aspettarsi quindi, che il suo excursus di due ore e passa nei fatti di cronaca legati alle Olimpiadi di Monaco del ’72, quando un gruppo di fedayn compì la strage della squadra israeliana e scatenò una faida sotterranea tra israeliani e palestinesi, si trasformasse in un interminabile tour de force sulle lezioni impartite dalla storia e sul delicato equilibrio tra i due popoli. Spielberg è così preoccupato di apparire equidistante e freddo documentarista delle posizioni in campo, che riduce a rapide scenette teatrali le parti più delicate, quando si parla di principi ed etica, ed espande all’inverosimile la parte centrale, legata ai diversi attentati e quella finale, con il protagonista sempre più ripiegato nei suoi rimorsi. Golda Meir espone la sua filosofia, con contrito e misurato ardore: «Ogni civiltà scopre che è necessario negoziare i suoi più alti valori con molticompromessi». Da qui si dipana la storia, che si trasforma rapid a m e n t e i n u n a s p y s t o r y, v e n a t a d i e s o t i s m o e u r o p e i s t a , c o n tutte le principali capitali europee passate in rassegna come luogo dei diversi attentati. Quello che giova al film, oltre all’ambientazione, è sicuramente il gruppo di attori. Una prova esaltante quella dei cinque agenti del Mossad, capitanati da un Eric Bana particolarmente efficace. Un bravissimo Mathieu Kassovitz e un irriconoscibile Geoffrey Rush fanno da corollario, in un film dove anche i ca- sentireascoltare 85 ratteristi sembrano brillare, forse anche per l’impianto decisamente teatrale delle sequenze incentrate sui dialoghi. Un’altra summa della retorica spielberghiana viene poi esposta n e l l ’ i n d i g e s t o f i n a l e , d o v e E r i c B a n a v i v e a N e w Yo r k , a s s e diato dal terrore e dal rimorso. Sempre più ossessionato da un possibile agguato, corre ad una cabina telefonica e chiama il patriarca francese che gli aveva dato i nomi dei fedayn da eliminare. Questi recita il suo aforisma da terrorista: «Noi siamo uomini tragici: mani damacellaio, animi gentili». I nemici non sono né di qua, né di là e chi si sporca le mani nel sangue non riuscirà a lavarsi la coscienza. Due ore e passa per arrivare a dire l’ovvio. Ma nel mezzo, almeno un po’ di azione l’ha messa. . Antonello Comunale 86 sentireascoltare rubrica la promiscuità dell’arte contemporanea Marina Abramovic di Silvia Bifaro Sesso e pratiche rituali, erotismo e forze naturali della terra, carnalità ed energie universali. Balkan Erotic Epic, ultimo lavoro di Marina Abramovic, ci regala un momento satirico all’interno della dolorosa serie Balcan Epic esposta all’Hangar Bicocca a partire dal 20 gennaio. Balkan Erotic Epic Sesso e pratiche rituali, erotismo e forze naturali della terra, carnalità ed energie universali. Balkan Erotic Epic, ultimo lavoro di Marina Abramovic, ci regala un momento satirico all’interno della dolorosa serie Balcan Epic esposta all’Hangar Bicocca a partire dal 20 gennaio. Balkan Erotic Epic si ispira a riti serbi che usavano il sesso per propiziarsi gli elementi e sedurre gli dei ed è il più recente lavoro della serie Balkan Epic. Questa serie nacque a metà degli anni novanta, periodo della guerra nei Balcani, e fu ispirata dal dolore dell’artista nel vedere la patria martoriata dal conflitto. A differenza di molti lavori precedenti, in cui la performer metteva a dura prova la propria resistenza fisica, Balkan Epic sembra talmente carica di sofferenza da non avere bisogno di atti estremi per essere spiegata. Essa è sicuramente uno dei momenti più simbolici ed evocativi della produzione di Abramovic. In Balkan Erotic Epic, è il tema dell’energia a fare da padrone. Esso era già stato affront a t o i n Te s l a U r n , m a q u i v i e n e legato al senso primordiale di un’energia corporea e carnale, in poche parole erotica. L’ o p e r a , p r o i e t t a t a s u d i v e r s i schermi, è divisa in tre parti: nella prima delle donne corrono sotto la pioggia alzando a turno le vesti e mostrando il pube al cielo; nella seconda degli uomini distesi nell’erba fecondano la terra stessa; nella terza un gruppo di uomini in fila, vestiti in abiti folkloristici sta immobile con il pene in erezione, mentre di fronte, un’icona del cinema serbo intona canzoni patriottiche. Sicuramente alcune di queste immagini risultano fastidiose per il nostro senso del decoro anche se le sappiamo provenire da riti perduti, primitivi e pagani. Marina Abramovic ci riporta all’eros come valore di una legge universale che muove il pianeta in quanto fonte di vita ed energia, oggi seppellita sotto i molteplici veli delle inibizioni. In questo lavoro la nudità del corpo corrisponde alla verità, l’esposizione di questa nudità come mezzo per la sopravvivenza della popolazione corrisponde al potere del popolo di autogestirsi, di vivere di se stesso e d e l l a Te r r a c h e l o h a g e n e r a t o . L’ a v e r c o p e r t o d i v e s t i t i il corpo corrisponde all’aver nascosto la verità sotto inn a t u r a l i i m p a l c a t u r e . L’ a v e r sottratto l’energia erotica al popolo è stato soggiogarlo, piegare la sovranità del corpo alla ben più misera e falsa sentireascoltare 87 sovranità dello stato, uno stato che basa il suo potere sull’impotenza del singolo e sulla dominazione attraverso il senso di colpa e di vergogna. Oggi l’erotismo coperto dalla macchia della vergogna sembra liberarsi solo attraverso la pornografia. In realtà paradossalmente, è esattamente il contrario. La pornografia è il frutto di una società dominata dal senso di colpa dove solo con il sesso mercificato si possono appagare le nostre pulsioni senza un contatto diretto e quindi senza il peccato. La pornografia quindi sembra sfidare i tabù, in realtà anch’essa fa parte a tutti gli effetti di una società basata sull’inibizione del sesso ed è la naturale conseguenza di tutta una storia di vergogne e proibizioni. La pornografia scolorisce ancora di più il senso degli atti carnali, non rendendo loro il carattere sovversivo e di energia pura che invece gli è proprio. La sofferenza nei confronti delle vicende della sua terra ha portato l’artista ad esprimere non più un corpo trascendente ma un corpo carnale. Esso soffre, gode, la sua energia è lontana dal dualismo corpo-spirito ed è vicina ad una più bassa ed ancestra- 88 sentireascoltare le concezione di materia . Balkan Erotic è l’elegia di un popolo legato alla sua terra in un amplesso continuamente rinnovato da riti pagani ed agrari, dove il corpo erotico interagisce con gli elementi della terra per tentare di soggiogarli seducendoli. Così le donne corrono invasate sotto la pioggia, usano il proprio erotismo per calmare la tempesta. Con il suo corpo la donna è in grado calmare la natura caotica (associata alla maschilità, che agisce di sola forza) e di domarla rendendola feconda e non distruttiva. Atto complementare a quello femminile è quello maschile del coito con la terra. Ha di sicuro un carattere antitetico invece il terzo video, dove l’immobilità degli uomini che vestiti di tutto punto ci mostrano la loro potenzialità erotica con tanto orgoglio, si contrappone all’energia vitale con la quale invece le donne si mostrano nel video precedente. Questi uomini, invece di impressionarci, come sembrano voler fare, ci rendono partecipi della loro vulnerabilità e l’inutilità del loro gesto rivela la fragilità del loro essere virili senza uno scopo. Le opere si distribuiscono su un percorso di videoinstallazioni creato accanto all’imponente opera permanente di Anselm Kiefercon con cui non si può fare a meno di relazionarsi. Si crea così un percorso laterale di suoni ed immagini, cartoline di un viaggio già fatto dall’autrice, che le ha portate a testimonianza della sua esperienza per insegnarci, per provocarci, per smuovere in noi qualcosa che è stato per troppo tempo assopito. Note BALKAN EPIC a cura di Adelina von Fürstenberg Hangar Bicocca Viale Sarca 336 (20126) MI +39 3357978214 (info) · w w w. b i c o c c a - e . o r g in mostra dal 20 GENNAIO al 23 APRILE da martedì a domenica ORE 11 . 0 0 - 1 9 . 0 0 , il giovedì ORE 14.30 - 22.00 (chiuso il lunedì). ingresso: intero 8 euro, ridotto 6 euro rubrica cose dell’altro mondo a cura di Ivano Rebustini Neon Eater trasloca dalla musica al cinema, per narrarci in “Ultima visione” una favola per adulti che non ha lieto fine, anzi, non ha proprio fine. Low Story ci racconta l’avvincente storia del Jaga Chang Collective, uno strano combo alfiere dell’improvvisazione spirituale E poi:”Inaudito” propone un po’ di scimmie in libera uscita per poi si aggirarsi dalle parti di Bowie; in “Impossible News” il clamoroso ritiro del Critico per eccellenza e l’ultima pensata delle major; le idee di Capossela e le pene d’amore di Bobby Solo a “Parole in libertà”… Titolo originale: No Love Regia: Tim Kim Hayao Michell V o c i : F r y J i , Ta k u y a U h l , A k i h i k o K i - D u k , C h i e k o R h y s P a r k , Ifans Zambarloukos Durata: 6h 59’ Nazionalità: USA del Sud, 2004 Genere: drammatico fantastico U LT I M A V I S I O N E Il Cioccolato Fatale Della Samaritana Errante Dal Castello di Oz alla fabbrica di ideologie in mongolfiera di Neon Eater “ L’ i n n a m o r a m e n t o è sempre un labirinto di accadimenti: quando ci si innamora l’altro si muove su un territorio minato” (Christopher Lee) La leggerezza gotica e grottesca di Tim Kim Hayao Michell diverte e fa riflettere. La storia, tratta dal romanzo di Roald Wynne McEwan, garantisce all’autore la possibilità di muoversi alla ricerca del filo di Arianna che possa redimere la sua poetica à la page: la periferia londine- se, i graffi a sfondo religioso, la neve esistenziale, la metamorfosi metaforica dei Beatles, la prassi melodrammatica di Kubrick, la grafica scenografica beachboysiana, la fabbrica immaginifica di Cagliostro, l’estetica metafisica di Psycho, il cioccolato per adulti. “I dolci non hanno bisogno dei bambini di periferia” (Hanif Kureishi). Il professore Willy Howl (Deep Depp), il re della prostituzione che indice un concorso mondiale per racimolare abbastanza soldi per poter fare un viaggio in Europa in mongolfiera, è in realtà alla ricerca di un’anziana mistica e sadica che prosegua il suo lavoro. Il padre di Willy (un terrificante demone, che vediamo raccontato nei flashback da musical hollywoodiano anni ’50) è un devoto alla superficialità dell’esistenza consumistica e si troverà faccia a faccia con i monologhi mentali di Sophie Va s u m i t r a , f i d a n z a t a d i W i l l y, v i z i a t a , e g o i s t a e a r r i v i s t a , lontana anni luce dalla cameretta a sfondo religioso. dove il modo in cui sposta le tende dalle finestre è un chiaro segnale che si annoia… To s s i c a e a l g i d a d a g i o v a n e , priva di interesse e interessi, dell’alternanza aperto-chiuso tipica dello shojo manga, dona il proprio corpo agli uomini “che quando mettono su un’attività tornano bambini”. Willy Howl è un bambino mai sentireascoltare 89 cresciuto, scappato di casa anni prima per inseguire il suo sogno, l’eroina, contro la volontà del padre Charlie. Un inedito trattamento è riservato anche a lui: si trova a essere pedinato e spiato ossessivamente da un folle adone trash glam metal, Jed Mononoke, innamorato di lui e convinto di esserne ricambiato. Jed è vittima della sindrome di Miyazaki, una forma di psicosi estetica (scoperta nel secolo scorso dall’omonimo scrittore di manga con tematiche romantiche) nei confronti del cioccolato, spesso inconsapevole, con ossessione a sfondo sessuale. È un amore implacabile in cui ci si sente investiti dalla missione di percorrere strade nuove insieme agli operai della fabbrica che, coinvolti in un gioco psicologico sottile e ossessivo attraverso particolari segnali segreti, ne escono a pezzi. L’ a u t o r e s i l a s c i a a n d a r e n o n solo in primavera, ma anche in estate, autunno e inverno a mo’ di omaggio-dissacrazione, e ci regala una visionaria, mistica meditazione sulle possibili forme di bambino tecnologizzato giapponese. Un film da non perdere, aspettando la guerra, prossimamente sui nostri schermi. INAUDITO LOW STORY In un laboratorio sugli Appalachi, nel segreto più assoluto (ma non per noi), un pool di scienziati assoldati dalle maggiori m a j o r, d a l l e m a j o r m a g g i o r i , i n s o m m a d a l o r o , s t a m e t t e n d o a punto un cd vergine impossibile da masterizzare, con l’obiettivo di metterlo in vendita dalla primavera del 2007. Coloratissimo e con la custodia cartonata, impreziosita da frammenti di cristalli Swarovski difettati, con il nuovo cd le major tenteranno di fare breccia nel mercato degli imbecilli, dato in forte c r e s c i t a . ( i . r. ) Jaga Chang Collective, dalle campagne di Fishtank al giardino dello stregone Sun Ra di Neon Eater Uno dei vecchi ensemble di terz’ordine di Cornelius Mingus, uno shock immaginario tra lo scoramento ambientale d i F e n n e s z Tw i n e i l c a l d e r o n e isolazionista di lisergica memoria degli Amon Lull. Dalle campagne di Fishtank (piccola cittadina dalle parti di Labradford) al giardino zen dello stregone Sun Ra, istantanea a forte velocità metafisica del- 90 sentireascoltare Arctic Monkeys & The Monkees - Chita’s Story (Zoo Records, 2006) Una delle più spudorate truffe artistiche dell’industria discografica degli anni ‘60 insieme a una delle più spudorate truffe artistiche dell’industria discografica degli anni 2000. Scimmie e scimmiette tutte insieme appassionatamente si cimentano in un album concept sulla storia della scimmia cinematografica per eccellenza. Non vedo, non sento, non parlo e non suono, o - se suono - suono poco e male, ma è davvero un gran divertimento. Soprattutto quando sulla scena irrompono i Gorillaz per l ’ e v o c a t i v a c o v e r d i B a n a n a B o a t . ( i . r. ) Dawid Bovie - Fake Songs (Buffalo Records, 2006) Stesso titolo di un album di Liam Lynch, allievo di Paul McCartney (la qual cosa, come si vedrà, ha un suo perché), questo disco ripercorre in lungo e in largo la carriera - anche apocrifa - del Duca Bianco, saccheggiando a destra e manca. La cover italiana di Space Oddity, con testo di Mogol (Ragazzo solo, ragazza sola), è ancora più irritante dell’originale, mentre in Amsterdam sembra di ascoltare Bowie che scopiazza a piena voce Scott Walker (ma qualcuno sostiene che succedesse già n e l l a v e r s i o n e d i M r. J o n e s ) . I l p e z z o f o r t e d e l c d è p e r ò i l r i facimento, senza troppa fantasia, della bitolsiana Penny Lane; sicuramente è un fake, ma potrebbe pure essere un fake del fake, e a questo punto non si capisce più niente, se non che a Bowie il Macca (eccolo qui) sta sul birillo, e Bovie se ne approf i t t a . I m p e r d i b i l e p e r c h i a m a i R u t l e s . ( i . r. ) INCREDIBLES NEWS Piero Scaruffi si ritira a vita privata: il sommo critico musicale, nauseato dalla piega presa dal rock negli ultimi sessant’anni, ha ceduto il suo sito ad All Music Guide (i testi) e al Metrop o l i t a n M u s e u m o f A r t d i N e w Yo r k ( l a v e s t e g r a f i c a ) : d ’ o r a i n avanti si limiterà a produrre Cabernet nel suo eremo di Santo California. Baldini Castoldi Dalai editore ha offerto 500 euro p e r l a r i s t a m p a d e l l ’ o p e r a o m n i a . ( i . r. ) PA R O L E I N L I B E R T À Vinicio Capossela: “Coraggio, strafottenza, disinvoltura. idee nuove, insulti necessari, buoni consigli, poesia originale: il m i o n u o v o a l b u m è t u t t o q u i ” ( i . r. ) Bobby Solo: “Dopo Marta, ci ho provato con fittando che dormiva, ma gnente. Clara nun posa je so venute le cose sue... che c’avete tedesca, come se chiama, Marlene Kuntze?” Valentina, approme vole, a Marier numero de ‘sta ( i . r. ) l’intera famiglia Collective. Jaga Chang Carter Chang (theremin giapponese e strumenti giocattolo), Panda Chang (Batteria ottica), Ketil Andreas Chang (bonghi norvegesi e split-tablas), Chang Chang Chang (fisarmoniche e pietre), Lars Harald Chang (tuba “generativa” di Nick Drake), Lars Chang-Deaken (basso tenore), Mark Even Chang (vibrafono, flauto, trombone), Ketil Chang-The Geologist (trombone, vibrafono, flauto), Conrad Chang (flauto, trombone, vibrafono), Martin Chang (riempitivo): così si presentano i Jaga Chang Collective. Dieci travestiti grotteschi campioni dell’improvvisazione spirituale, uno strano combo dal nome dilatato come l’ombelico bizzarro di Quincy Jones. Autore di un linguaggio in grado di far dialogare il cavallo bifronte di Brian Wilson e l’organista post-umano della “Chiesa del nuovo rumore” di Louisville, l’industrial indiano e il glitch hop spagnolo, i frullati psichedelici e le fanfare ultra-epiche, il combo “interstellare” Jaga Chang Collective si è imposto all’attenzione delle pietre apocalittiche e dei rombi nordici come un pugno di personaggi camaleontici nati per suonare insieme a Ti m B u c k l e y. L’ a p p r o c c i o c o m u n q u e è t u t t’altro che da dark club giapponese. Se analizziamo, ad esempio, certe frange dello sfogo pre mistico della stampa norvegese, si nota come sempre più imponente sia la miniatura dettagliata e semplice che porta alla sublimazione crepuscolare dei sensi e si stempera nell’esplorazione dei droni ibridi più bislacchi dell’avanguardia storica. Ma forse non è proprio così... La storia discografica dei Nostri inizia ufficialmente quando decidono di darsi una ra- gione sociale prendendo a prestito il cognome di un giocatore nipponico di basket particolarmente colto e raffin a t o ( Ts u G i Ta r e J a g a ) . N e l 1989 esce Pooka Asa Hana, acclamato dall’Indian Trance Project come miglior album kraut/wave del 2002 (la band è per certi versi così avanti da essersi lasciata un millennio dietro le spalle) e, grazie al sabor latino di Michael Gira, l’anno successivo la famiglia Chang ottiene un contratto per il 2004 con l’etichetta londinese Smalltown Cat. Sicuramente un disco da avere, per i seguaci sia del Festival Ska di Fuji sia degli sfrigolii radiofonici della BBC (ma non solo). Here Comes Senaka (Drive 8, 2001) irrompe sul mercato del modernariato giapponese ed è subito rammarico per un un esperimento limitato allo spettacolo di danza freak e al programma radiofonico sull’insanità di Syd Barrett. Questa è la la metafisica della provincia americana: ambientale e cosmica, abbandonata e trasognata, filmica e ineccepibile, imprescindibile e impressionista. Imparentati con le manfrine della Red Microphones Orchestra, fanno musica libera, senza scorie canterburiane o maschere trans-etniche cercando, dicono, un terzo posto nelle chart s d i C h i c a g o e B o m b a y. La tournée che sussegue il disco si avvale della tecnologia cosmic weltanshauung anni ‘70, è un viaggio intertemporale a ritroso e fa sì che i Jaga Chang Collective rientrino nello stato meditativo dei primi istanti risalenti all’epoca dell’allunaggio. Con i loro Stivali delle Sette Leghe a forte velocità, sono uno dei cavalli da battaglia del teatro c l a s s i c o d i Ta h i t i , f u o c h i f a t u i di un paesaggio free form. Nel 1992, la piccola svolta con la pubblicazione di 107 split per la collana In The Kitty Kranky : 107 collaborazioni con oscuri figuri psichedelici che non dispiacerà ai fan dei 7” sui generis. Le session durano la consueta manciata di minuti, alimentando, anche oltre i confini nordici, un contatto spirituale sempre più imponente con natura e vita che parte dal Maryland per espandersi in lidi ancora sconosciuti, dal deserto tunisino e al viaggio/sballo lunare. Il 2001 è l’anno dell’EP di cover di artisti solitari del 1800 (The Livingroom Outside/Retro Ninja) in cui tutto concilia con tutto. Trascorrono pochi mesi e i nostri sono di nuovo in pista: A Everlast Hush/ sentireascoltare 91