ISSN 1827-8817
00724
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ALL’INTERNO L’INSERTO
DI ARTI E CULTURA
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9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 24 LUGLIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Presidente chiede anche di accelerare la sostituzione di Scajola. «Lo farò la prossima settimana», gli risponde Berlusconi
Il piccone di Napolitano
«Indignazione per la corruzione e per le squallide consorterie politiche»: il Capo dello Stato
denuncia la questione morale e la crisi del sistema. Ma dice: «Abbiamo gli anticorpi per reagire»
L’ALIBI DELL’EUROPA
di Andrea Ottieri
Con la manovra
di Tremonti
siamo un Paese
a sovranità
limitata?
ROMA. «Vedo in giro tanto
squallore, ma il Paese ha gli anticorpi per vincere la corruzione». Poi: «L’uscita dalla crisi lascia al palo i giovani». Ancora:
«L’opposizione è chiamata a
una grande prova di responsabilità». E infine: «Spero che sia
nominato presto il nuovo ministro per lo Sviluppo economico» (e subito Berlusconi ha annunciato che la prossima settimana nominerà il successore).
Ecco il manifesto di Napolitano.
di Francesco D’Onofrio
l dibattito pubblico sulla manovra finanziaria da 24.9 miliardi
di euro, che sta per essere votata definitivamente votata alla Camera dei deputati, sembra impostato quasi esclusivamente sull’alternativa “Europa sì – Europa no”.
Sembra in particolare che l’Italia
sia stata in qualche modo “costretta dall’Europa” ad adottare una
manovra finanziaria di questa entità, tendente ufficialmente alla riduzione del deficit di bilancio al di
sotto del 3 per cento stabilito da
Maastricht, perché in “Europa” si
sarebbe appunto stabilito il principio della riduzione dei deficit di
bilancio nazionali annuali per
renderli compatibili entro due anni con il limite del 3 per cento stabilito appunto a Maastricht.
a pagina 5
I
a pagina 2
L’impietosa analisi dell’ex leader Ppi
Le reazioni degli analisti politici
Martinazzoli:
«Qui ci hanno
rubato l’Italia»
«Ha ragione,
ma non vediamo
gli anticorpi»
«La nostra è una Nazione «Giusto l’allarme, un po’
meno l’ottimismo»:
senza: senza politica,
i commenti
morale, pensiero.
di Piero Ostellino
Sembra l’autobiografia
e Gianfranco Pasquino
di Berlusconi»
Gabriella Mecucci • pagina 4
Il test promuove le banche (anche italiane)
Il giorno del sindaco: apre il convegno
della sua corrente e invade le tv
La scelta
di Alemanno:
asse con Giulio
per il post-Silvio
Né con il Cavaliere
né con Fini: un’alleanza
inedita per raccogliere
gli indecisi
del centrodestra
Errico Novi • pagina 6
Francesco Capozza • pagina 3
Crescono le polemiche sulla “scelta serba”
Solo l’Unione europea Possiamo accettare
è finita sotto stress
l’ultimatum della Fiat?
il personaggio della settimana
Il prete berlusconiano ma anche vendoliano
Vita (affari) e miracoli
di don “Zelig”Verzè
di Enrico Singer
di Gianfranco Polillo
di Maurizio Stefanini
li esperti già si dividono nella valutazione dei risultati degli stress-test sulla solidità
dei 91 grandi istituti di credito europei. C’è anche chi
è convinto che l’affidabilità di questa maxi indagine sia molto relativa, non
fosse altro perché le banche sono state giudicate
dalle autorità di vigilanza
dei loro stessi Paesi.
a pagina 8
uella di Fiat rischia
di divenire una storia infinita. Un tormentone che tra dibattiti, interventi politici,
le inevitabili proteste sindacali si trascinerà chissà
per quanto. I presupposti
ci sono tutti e non da ora.
Tutto era cominciato con
Termini Imerese: lo stabilimento perso nel profondo Sud.
a pagina 10
ultima polemica è
stata martedì 20 luglio: quando Barbara Berlusconi si è laureata in Filosofia con 110 e
lode all’Università VitaSalute San Raffaele. Vicino alla dottoranda c’erano
il presidente del Consiglio
e il di lui amico rettore
don Luigi Verzè. Che ho
offerto alla neodottoressa
un posto da docente.
a pagina 30
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I QUADERNI)
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• ANNO XV •
NUMERO
142 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 24 luglio 2010
prima pagina
Esternazioni. Alla cerimonia del Ventaglio un discorso a tutto campo: dalla P3 alle intercettazioni al ruolo dell’opposizione
Sostiene il Capo dello Stato
Il Quirinale disegna i contorni di un’altra Italia. Tutti applaudono...
Poi chiede al premier di lasciare l’interim allo Sviluppo economico
di Andrea Ottieri
ROMA. «Vedo in giro tanto squallore, ma il
Paese ha gli anticorpi per vincere la corruzione». Poi: «L’uscita dalla crisi sembra lasciare al palo i giovani che rappresentano
il futuro del Paese». Ancora: «L’opposizione è chiamata a una grande prova di responsabilità». E infine: «Spero che sia nominato presto il nuovo ministro per lo Sviluppo economico» (e subito Berlusconi ha
annunciato che la prossima settimana nominerà il suo successore). Insomma: qualcuno lo ha subito ribattezzato il manifesto
di Giorgio Napolitano. Perché ieri il presidente della Repubblica, parlando alla cerimonia del Ventaglio, non ha fatto solo un
discorso istituzionale, ma ha disegnato i
contorni di una nuova Italia. Un Paese diverso da quello che siamo abituati a vedere in televisione o che traspare da tante liti partitiche, eppure un Paese del quale
sembra sempre più difficile trovare segni
reali. Quello di Napolitano è stato un discorso lungo e articolato: a metà strada tra
il programma di un leader
politico e l’auspicio di un
«antico maestro». Si disse
che la fine della Prima Repubblica sia stata favorita
dalle “picconate”dell’allora
presidente Francesco Cossiga: ebbene, ora Napolitano è quasi costretto a utilizzare il medesimo “piccone”
contro la degenerazione
della Seconda.
Te n u ta delle istituzioni,
corruzione, crisi economica, prospettive future: le
parole dell’inquilino del
Quirinale hanno suscitato
unanime consenso, all’apparenza, anche se in privato qualcuno avrà sicuramente masticato amaro. Ma
una cosa si può dire subito:
ormai Napolitano è sempre più spesso al
centro dell’agone politico, anche al di là
della sua funzione “esclusivamente” istitu-
«Sulla legge
sulle intercettazioni il ruolo
del presidente della Repubblica
è risultato chiaro. Non vedo
come si possa equivocare»
zionale. E le ragioni di ciò possono essere
due: la prima è che Berlusconi stesso tende
in molti casi ad additarlo come un avversario politico, più che come un interlocutore
istituzionale; la seconda è invece da ricercare nella latitanza di quella sinistra moderata dalla quale Napolitano stesso proviene. E non è un caso che proprio alla funzione dell’opposizione ieri il Presidente
abbia fatto riferimento diretto. Ma vedia-
Berlusconi risponde subito: soluzione entro la prossima settimana
«A giorni arriva
il nuovo ministro»
di Gaia Miani
ROMA. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si appresta a lasciare l’interim
dello Sviluppoo economico.
Ieri infatti, al termine del vertice col presidente russo Dmitrij Medvedev, ha annunciato
che «la prossima settimana
verrà nominato il nuovo ministro», incarico attualmente
ricoperto ad interim proprio
dal premier dopo le dimissio-
stero», sottolineando anche
la possibilità di trasferire alcune deleghe del ministero di
via Veneto presso altri dicasteri. Proprio ieri era arrivata
la sollecitazione in questa direzione del presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, durante la Cerimonia
del Ventaglio al Quirinale
(«L’istituzione governo non
può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come
quello della nomina del titolare
del ministero dello Sviluppo economico»).
Du n q u e , d et to e
ni di Claudio Scajola, il 4
maggio scorso, a causa dell’inchiesta sugli appalti secondo la quale la sua abitazione romana al Colosseo sarebbe stata acquistata in parte con i soldi del costruttore
Anemone.
«Siamo arrivati a buon
punto - ha anche aggiunto il
presidente del Consiglio nella
conferenza stampa al termine dell’incontro con Medvedev - mi sono sufficientemente reso consapevole di tutte le
attività che presiedono allo
Sviluppo economico e alla responsabilità del ministero».
«In questo periodo - ha concluso il premier - ho fatto
qualche cambiamento importante nella struttura del mini-
quasi fatto. In attesa del prossimo
Consiglio dei ministri, nel quale
ufficialverrà
mente indicato il
nuovo
titolare
dello
Sviluppo
economico, iniziano già a trapelare le prime indiscrezioni. Secondo alcuni rumors
starebbe proprio
in queste ore tornando in pista il nome di Paolo Romani, attualmente viceministro e il cui nome era già
circolato subito dopo le dimissioni di Claudio Scajola.
«È una situazione incredibile
- ha subito commentato nel
pomeriggio di ieri il segretario del Partito democratico
Pier Luigi Bersani - c’è una
crisi di questo tipo e non c’è
un ministro che se ne occupi.
Ha fatto bene il presidente
Napolitano a ricordare lo
stallo del ministero dello Sviluppo economico. Abbiamo
pezzi di industria nazionale
in discussione e non abbiamo
un ministro che se ne occupi.
Oltre due mesi e mezzo di
blocco nella politica industriale, - ha concluso Bersani
- hanno avuto il loro peso».
mo punto per punto come si articola questo «manifesto di Napolitano».
Crisi e giovani. «Occorre guardare avanti e
misurarsi con le sfide del futuro. Nessun catastrofismo sulla situazione dell’Italia ma
consapevole realismo nel valutare la situazione. Si sta risalendo la china da una crisi
pesante. Alla ripresa produttiva non corrisponde una ripresa dell’occupazione. Da
noi, le questioni storiche dell’occupazione e
del Mezzogiorno si rispecchiano, esaltate,
nella condizione giovanile. Il problema dei
giovani non impegnati né in un lavoro né in
un percorso di studio, è oggi il problema numero uno se si guarda al futuro dell’Italia».
La Costituzione. «Può essere utile, per evitare semplificazioni eccessive e sommarie
polemiche su quel che la nostra Costituzio-
Sul rinnovo del Csm
Napolitano ha detto:
«Sono certo che il Parlamento
stia per procedere alla dovuta
elezione dei componenti laici»
ne può consentire o non consente, riflettere
sul fatto che da noi è stato possibile approvare, tra giugno e luglio, una rilevante manovra di aggiustamenti dei conti pubblici; in
Germania le misure annunciate il 7 luglio
diventeranno legge di bilancio non prima di
dicembre».
Corruzione e squallore. «Indigna e allarma l’emergere di fatti di corruzione e trame
inquinanti da parte di squallide consorterie,
ma la nostra democrazia dispone di anticorpi: la reazione morale dei cittadini, i principi costituzionali, le leggi per applicare tali
principi. Si deve intervenire senza alcuna
incertezza o reticenza su ogni inquinamento
o deviazione della vita pubblica o nei comportamenti di organi dello Stato ma senza
cedere a nessun gioco al massacro tra le istituzioni e nelle istituzioni. Per ora c’è tanto
squallore, poi vedremo cos’altro emergerà.
L’importante è che si riesca a far fare alla
magistratura il proprio lavoro fino in fondo
per accertare fatti e responsabilità perché
purtroppo, molto spesso, il riesplodere di
notizie che riguardano le inchieste sulla
stampa non aiuta il lavoro di questi stessi
magistrati a cui si applaude».
Le intercettazioni. «Il ruolo del presidente della Repubblica è risultato chiaro. Non
vedo come si possa equivocare. Nessuna interferenza nella dialettica politica e nell’attività parlamentare. Il mio impegno e dovere
è valorizzare i poteri del Parlamento e l’invito ad ascoltare l’opinione pubblica e il paese reale. Nel merito, occorre definire il miglior bilanciamento possibile tra i valori e
diritti, tutti ugualmente riconosciuti in Costituzione. Questo è stato lo sforzo compiuto e ancora in atto a proposito della legge in
prima pagina
24 luglio 2010 • pagina 3
I due commentatori sono d’accordo: la questione morale riguarda tutto il Paese
«Hai ragione presidente,
ma dove sono gli anticorpi?»
Piero Ostellino e Gianfranco Pasquino commentano le parole
del Quirinale: «L’allarme è giusto, l’ottimismo un po’ meno...»
di Francesco Capozza
ROMA. Manovra correttiva e crisi economica (da cui mente parlato con i suoi consiglieri e questi con Letta
però, «stiamo risalendo la china»), nomina del nuovo o Alfano – riconosce Pasquino – ma dopo aver fatto saministro per lo Sviluppo Economico, scandalo della pere, com’è normale, su quali punti si sollevava qualcorruzione e delle lobby politiche-affaristiche («siamo che obiezione si è comportato nella piena correttezza
indignati dalla corruzione e dalle squallide consorte- istituzionale che il suo ruolo gli affida».
rie»), appello per i giovani che per la crisi «stanno pagando più di tutti» e ancora, intercettazioni e scenari Ci va giù più duro Piero Ostellino, tra gli editorialisti
politici futuri (che a Napolitano non «interessano mini- del Corriere della sera letti con più attenzione dai polimamente»). La tradizionale cerimonia di consegna del tici italiani. Sull’invito di Napolitano a far presto con la
Ventaglio, che si svolge ogni anno prima della pausa nomina del successore di Claudio Scajola, Ostellino
pensa che sia «certamente inestiva, ha ieri dato
PIERO OSTELLINO
consueto sia come tipo di richiamodo al presidente
mo sia per il luogo in cui è stato
della
Repubblica
rivolto (la cerimonia di consegna
Giorgio Napolitano di
del ventaglio n.d.r.)» ma si collomettere davvero tanta
ca nella «prassi consolidata di
carne sul fuoco. Invitaquei presidenti che intervengoto dal presidente della
no anche dove forse non dovrebstampa parlamentare
bero. D’altronde è così: da EiPierluca Terzulli a
naudi, che esternava solo con
prendere la parola primessaggi alle Camere, in poi –
ma di ricevere il Ventaprecisa Ostellino – i presidenti
glio con raffigurata la
della Repubblica hanno iniziato
prima seduta del Parad interessarsi di tutto e ad
lamento
subalpino
esporre il loro pensiero anche
(avvenuta 150 anni fa),
quando non richiesto. Per questi
il capo della Stato ha
motivi non mi sorprendo affatto
avuto modo, in un discorso durato una manciata di minuti, di parlare di tut- dell’invito rivolto al presidente del Consiglio da Napoti i temi all’ordine del giorno nell’agenda politica e par- litano». Ma è sulle parole di sdegno espresse dal presidente della Repubblica sugli scandali che hanno lamlamentare.
bito il governo, certa magistratura e una parte dell’imCom’era ampiamente prevedibile le reazioni non si prenditoria italiana legata agli appalti pubblici, che
sono fatte attendere, tutte di unanime plauso alle paro- Piero Ostellino ha parole ancora più forti. «Sono assole di Napolitano, sia dalla maggioranza, che sembra lutamente d’accordo con Napolitano quando esterna
intravedere nelle parole del presidente della Repubbli- tutto il suo scandalo per quello che sta accadendo in
ca i complimenti per un buon lavoro, sia tra le opposi- Italia, io stesso sono disgustato. Resta il fatto che quezioni che viceversa leggono nelle parole di Napolitano sto non è altro che il risultato di un Paese fortemente
una tirata d’orecchie all’esecutivo.
corrotto, un Paese
GIANFRANCO PASQUINO
Le parole del capo dello Stato sono
di sudditi e non di
spunto di riflessione anche per due
cittadini».
esperti di cose politiche quali GianPer l’editorialista
franco Pasquino e Piero Ostellino.
del Corriere della
Il primo si dice totalmente d’accordo con Napolitano, tranne che «sul
sera «politica e affatto degli anticorpi. Secondo me –
fari hanno un rapdice Pasquino – non è vero che queporto marcio in Itasto Paese è immune o sa guarire
lia»; un rapporto
dalle “squallide consorterie” di cui
che Ostellino non
parla il presidente. Altrimenti queesita a giudicare
sto scempio di cui leggiamo ogni
«molto più che magiorno con particolari sempre più
lato per il quale l’uraccapriccianti sarebbe stato denica medicina sabellato già ai tempi, visto e considerebbe la riduzione,
rato che uno come Carboni è risulo meglio il dimatato avere le mani in pasta già dalla fine degli anni grimento, della funzione pubblica». Il capo dello Stato,
‘70». Se poi il capo dello Stato ha colto un’ occasione tuttavia, pur essendo indignato per quello che sta accosì particolare per invitare il premier a nominare il cadendo sotto al suo vigile sguardo, ha ieri parlato di
ministro dello Sviluppo Economico, per Pasquino è certi «anticorpi» di cui il Paese è fornito e grazie ai
«frutto della constatazione di come il governo non stia quali, è da credere sia il pensiero di Napolitano, si può
facendo nulla. In particolare un richiamo del genere guarire. Su questo Ostellino è d’accordo non con il
non deve sembrare un fatto nuovo, già nel 2002 Ciam- presidente ma con Pasquino: «Quali anticorpi? Se ci
pi invitò Berlusconi a lasciare il prolungato interim de- fossero non ci sarebbe questo rapporto di sudditanza
gli Esteri e a nominare il successore di Renato Ruggie- tra cittadini e potere. Un rapporto che sta bene ai citro. Ma a Berlusconi, si sa, fare foto in giro per il mon- tadini stessi perché questo è un Paese malato dove
do piace più di ogni altra cosa». Infine Pasquino dà ra- ognuno pur di trovare beneficio personale è disposto
gione a Napolitano quando afferma che sul ddl inter- ad essere connivente e a sottostare al potere». Infine
cettazioni ha “seguito le prerogative affidate dalla Co- l’affondo: «per com’è strutturata l’Italia rimane fascistituzione”. «Il presidente della Repubblica avrà certa- sta e in quanto tale, corrotta».
«Sulla
corruzione
concordo,
ma questo
è un Paese
di sudditi, non
di cittadini»
Qui sopra, il presidente Napolitano.
A destra, Piero Ostellino
e Gianfranco Pasquino.
Nella pagina accanto, Berlusconi e Scajola
materia di intercettazioni e non si può che
apprezzarlo dandone merito alla dialettica
parlamentare. Non deve dunque stupire
che la definizione di una nuova legge in
materia di intercettazioni, da lungo attesa,
abbia richiesto un tempo non breve e un
percorso faticoso, potremmo dire “per approssimazioni successive”».
Opposizione. «Auspico che nel confronto
emergano anche visioni diverse rappresentative sul piano politico delle attuali
forze di maggioranza e delle attuali forze
di opposizione non sottraendosi queste ultime alla prova e alle responsabilità cui sono chiamate in un quadro di feconda competizione come quello che dovrebbe caratterizzare la democrazia dell’alternanza».
Scenarii ipotetici. «Non mi interessano
scenari politici ipotetici di qualsiasi genere: il futuro del paese si fonda su un’ampia
condivisione degli obiettivi e delle linee di
intervento. Non c’è spazio per l’autosufficienza né per la contrapposizione totale».
Il nuovo Csm. «Sono certo che il Parlamento stia per procedere alla dovuta elezione dei componenti laici del Consiglio
superiore della magistratura».
Interim. «L’istituzione Governo non può
ormai sottrarsi a decisioni dovute, come
quello della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo economico o del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob».
«Già nel 2002
Ciampi invitò
il Cavaliere
a lasciare
il prolungato
interim
degli Esteri»
l’approfondimento
pagina 4 • 24 luglio 2010
Corruzione, interesse personale, assenza di modelli: la parola a uno dei grandi protagonisti della nostra Repubblica
L’Italia da bere
«Il nostro è ormai un Paese senza. Senza politica,
senza morale, senza pensiero». L’impietosa analisi
di Mino Martinazzoli sullo stato della Nazione che oggi sembra
solo «l’autobiografia di Berlusconi». Forse i giovani...
di Gabriella Mecucci
uando mi domandano dove
vivo, rispondo: a Brescia,
in Svizzera. L’Italia preferisco guardarla da lontano
anche se non ho mai avuto
la tentazione in tutta la vita di fare
l’antitaliano»: Mino Martinazzoli giudica con ironia e distacco la crisi degli
ultimi mesi e dà giudizi netti, sferzanti,
disperati sulla politica, sui partiti, ma
anche sul dibattito culturale italiano.
Onorevole Martinazzoli, è davvero una calda estate - e non solo
dal punto di vista climatico - quella che stiamo vivendo: riesplode
la questione morale, riemergono i
vecchi misteri della mafia e rispunta persino uno strano arnese
che chiamano P3, come giudica
tutto ciò?
Per quanto riguarda la cosiddetta questione morale, credo che dovremmo cominciare ad usare parole
meno nobili ma che meglio si attagliano a ciò che
accade: si tratta di volgari
furfanti. Sarebbe un errore
ritenere ciò che accade oggi una ripetizione di tangentopoli. Allora si rubava
perchè c’era un troppo di
politica, ora si ruba perché
non ce n’è più niente. Allora le tangenti in larga misura servivano a finanziare i partiti, ora ad arricchirsi personalmente. L’illecito si è privatizzato.
«Q
E per quanto riguarda la mafia?
Guardo con grande cautela alle indiscrezioni che circolano. Ricordo che
quando ero ministro della Giustizia ebbi alcuni colloqui con Falcone e non
posso dimenticare il pragmatismo col
quale parlava di queste cose. Non
amava i proclami, si muoveva con concretezza, passo dopo passo. E quando
qualcuno nominava il “terzo livello” faceva un sorrisetto ironico. Quanto alla
P3 mi sembra una definizione caricaturale, ma non ha nulla a che vedere
con la Massoneria ed è profondamente
diversa dalla P2. La P3 è semplicemente una cricca.
Non le sembra sorprendente e per
certi versi insopportabile che dopo venti anni riaffiorino i fantasmi del passato in chiave caricaturale e che, soprattutto, oggi non
ci sia più una classe politica in
«Prezzolini
voleva unire chi
non la beve,
io unirei chi
non la dà a bere»
grado di analizzarli, di comprenderne la natura? Di dare una
qualche lettura, anche se parziale, degli eventi?
Sono del tutto d’accordo con lei. E questa è una constatazione che non può
non preoccuparci per il futuro dell’Italia. Del resto, purtroppo, ha trionfato
già tanti anni fa l’antipolitica: l’idea
cioè che l’analisi politica fosse un inutile orpello, che i partiti fossero degli
oggetti d’antiquariato, e che bastasse
essere un buon imprenditore per governare il paese. Una volta nel 1994 incontrai Silvio Berlusconi e cercai di
spiegargli che fare politica significava
fare gli interessi degli altri e non i propri. Non ebbi successo.Viviamo una situazione in cui da un lato viene da pensare – parafrasando Gobetti – che Berlusconi sia l’autobiografia della Nazione, ma anche che Berlusconi abbia determinato un tale degrado
riuscendo a tirar fuori il
peggio dagli italiani. E allora potremmo arrivare ad
affermare che la Nazione è
l’autobiografia di Berlusconi.
Onorevole Martinazzoli, la
sua è un’analisi disperante
e disperata...
Tanti anni fa Prezzolini voleva metter su la conventicola degli “apoti”, di quelli
cioè che “non la bevono”.
Questa posizione appariva
l’anticamera del qualun-
quismo. Oggi io vorrei far nascere la
conventicola di quelli che “non la danno a bere”.
Non vede muoversi nulla di positivo? C’è qualcosa da cui partire
per tornare a ritessere una politica? C’è qualcosa di positivo che
vede muoversi nel mondo della
cultura, magari anche in realtà
più decentrate?
Qualche giorno fa Ernesto Galli della
Loggia ha scritto sul Corriere che tocca alla politica lanciare un segnale. Ho
visto, nel dibattito che è seguito, che in
parecchi scartano questa possibilità.
Anche io sarei in difficoltà a indicare
una realtà politica in grado di fare
quello che gli chiede Galli della Loggia. Una volta si diceva che gli uomini
passano e le idee restano. Oggi al contrario le idee passano e gli uomini restano. Guardi, l’unica scommessa che
si può fare è sui giovani. È da lì che
possono nascere nuove elaborazione e
nuovi impegni. Se penso al nostro Risorgimento, di cui stiamo penosamente celebrando i 150 anni, è dai giovani
che venne la spinta. E anche nella
scrittura della Costituzioni furono le
nuove leve ad essere protagoniste, anche se allora non mancarono i grandi
vecchi come Benedetto Croce.
Lei non ha mai concesso niente
alla Lega. Oggi quel partito - l’unico organizzato sul territorio nato come moralizzatore si è trasformato nel protettore di tutte le
burocrazie (vedi il caso delle Pro-
24 luglio 2010 • pagina 5
Il dibattito pubblico, come quello interno all’esecutivo, non ha identificato un modello
No, caro Tremonti, la manovra
non la scrive l’Europa
La politica economica del governo si limita ad assecondare la Ue
senza scegliere tra il rigore tedesco e lo stimulus americano
di Francesco D’Onofrio
l dibattito pubblico sulla manovra finanziaria da 24.9 miliardi di
euro, che sta per essere votata definitivamente votata alla Camera
dei deputati, sembra impostato quasi
esclusivamente sull’alternativa “Europa sì – Europa no”. Sembra in particolare che l’Italia sia stata in qualche modo “costretta dall’Europa” ad
adottare una manovra finanziaria di
questa entità, tendente ufficialmente alla riduzione del deficit
di bilancio al di sotto del 3 per
cento stabilito da Maastricht,
perché in “Europa” si sarebbe
appunto stabilito il principio –
che si afferma essere universalmente accettato – della riduzione dei deficit di bilancio
nazionali annuali per renderli
compatibili entro due anni con
il limite del 3 per cento stabilito appunto a Maastricht. In
questo dibattito si è pertanto
avuta la sensazione di una sorta di “imperialismo europeo”,
al quale la “colonia Italia” non
si potrebbe sottrarre, sì che la
conformità della manovra italiana alla presunta decisione europea
sarebbe di conseguenza l’unico criterio politico alla stregua del quale discutere il “se” della manovra medesima, lasciando ad una sorta di pigmei
sociali e territoriali la discussione del
“come” della manovra medesima.
I
2008; una diversa valutazione sul
rapporto tra un mercato mondiale
tendenzialmente ispirato esclusivamente alla ricerca del profitto, e un
mercato mondiale nel quale abbia legittimità di espressione quella che
siamo soliti chiamare economia sociale di mercato; una diversa valutazione, infine, della rilevanza del debito nazionale a seconda della diversa
La scelta di fondo
che non può essere
soltanto vista
in termini
di neoliberisti
o neokeynesiani
Non si tratta invece di una opinione universalmente condivisa, perché
è sufficiente rilevare il notevole divario esistente da un lato tra gli Stati
Uniti e i principali Paesi europei, proprio sull’orientamento complessivo
da assumere nel rapporto tra rigore e
sviluppo, e dall’altro la contrapposizione che proprio su questo punto si
è dovuta registrare tra l’orientamento francese e quello tedesco. Si tratta
pertanto di una questione di fondo in
ordine alla quale non è mai risultato
molto chiaro né il complessivo orientamento italiano in sede europea, né
quali siano le ricadute interne all’Italia in riferimento alle scelte che la
manovra tendente al rigore ha rispetto alla necessità di crescita e quindi
di sviluppo dell’intera economia italiana e delle sue singoli parti, territoriali o economiche che siano. Come
hanno posto in evidenza numerosi
commentatori, soprattutto della
stampa internazionale specializzata
sui grandi temi economici, si è trattato e si tratta di una scelta di fondo
che non può essere soltanto vista in
termini di neoliberisti o di neokeynesiani, perché all’origine di questa distinzione vi è una diversa valutazione sulle radici della crisi economica
innestata soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna tra il 2007 e il
incidenza che in esso ha il debito dei privati e delle imprese.
Si tratta – come si vede – di
grandi questioni di ordine politico, prima ancora che economico, perché occorre orientarsi, in
questo tempo della tendenziale
globalizzazione economica (come
anche Pomigliano insegna), tra fattori della produzione e nuova ripartizione internazionale del lavoro.
Per quel che concerne la ricaduta
interna della manovra in atto, è di
tutta evidenza che si è di fronte ad
una possibile collisione tra le esigenze dei risparmi immediati necessari per far fronte alle cosiddette richieste europee, e le potenzialità di
sviluppo economico che le diverse
parti del territorio hanno, come affermano i sostenitori del federalismo regionale (come dimostra in particolare
lo scontro tra Formigoni e Tremonti).
Non sarebbe pertanto auspicabile
che il voto finale che la Camera si accinge a dare alla manovra dei 24.9
miliardi di euro, venga dato con una
sorta di sentimento di adempimento
doveroso, perché… l’Europa lo chiede: non esiste una comune idea europea; non esiste una comune idea tra
gli Stati Uniti e i maggiori Paesi europei; non è chiaro se l’Italia si stia
comportando con un atteggiamento
sostanzialmente supino o se si siano
seriamente considerate le ricadute
che la manovra ha sul piano dell’economia sociale di mercato e sulla
stessa natura del federalismo
verso il quale l’Italia sembra definitivamente orientata.
vince), di sprechi e privilegi (vedi
il caso delle quote latte)...
Non sono mai stato d’accordo con chi
sosteneva che la Lega era un fenomeno
positivo e che meno male che esisteva.
In realtà Bossi rappresenta quanto di
peggio nasce dalla pancia degli italiani.
C’è poi la grande finzione del federalismo alla leghista. Se avessero letto Cattaneo saprebbero che ha sognato una
Europa federale. Ma questa idea è lontana mille miglia da Bossi. La Lega, cercando di assecondare una tentazione
federalista, copre in realtà una tentazione secessionista.
Lei ha parlato della possibilità di
rifare un partito dei cattolici.
Non ho mai accettato l’idea che quella
tradizione sia stata completamente
consumata dalla storia. Così come non
ho mai creduto nel dogma dell’unità
dei cattolici in politica, non credo nemmeno nel dogma della loro disunione.
Ritengo – e questa è un’idea sturziana
– che una radice evangelica potrebbe
essere in grado di alimentare una forza politica. Ma non vedo nulla che si
muova in questa direzione. Sento parlare di far nascere un grande partito
della Nazione – speriamo non lo chiamino così – ma non vedo ancora niente di conseguente. Per riuscire a fare
ciò occorrerebbe mettersi in discussione, accettare il rischio. Ed è proprio
questo che manca. Ma non riguarda
solo l’Udc. E nemmeno solo i partiti,
ma anche la cultura: dove sono i pensatori politici? E dove sono i pensatori
tout court?
Onorevole Martinazzoli, dove
avete sbagliato?
Questa è una domanda giusta, alla
quale non rispondiamo. Nel momento
del crollo della prima Repubblica c’era
una condanna generalizzata e ingenerosa di tutto, ora si è passati alla nostalgia. Eppure occorre fare i conti con
le responsabilità. Certamente abbiamo
perso l’occasione che ci fornirono il
crollo del muro di Berlino e il crollo del
comunismo di diventare una democrazia più simile alle altre democrazie occidentali. Di costruire cioè una vera
democrazia dell’alternanza. Già prima
del 1989 era questa l’idea che ispirò la
politica di Moro e qualcuno sostiene
che morì con lui. Moro perseguiva l’alternanza per via politica, oggi l’abbiamo raggiunta per via antipolitica.
Che cosa consiglierebbe di fare?
In questo vuoto anche culturale anche
io sarei tentato come Galli della Loggia di rivolgermi alla politica affinché
dica una parola, esprima un qualche
disegno. Ma subito dopo, mi ritraggo.
Vedo l’estrema difficoltà di tutto questo. Cosa fa la politica? Ogni tanto,
sempre più raramente, organizza convegni selezionando attentamente chi
invita per non sentirsi porre domande
non desiderate. E poi che coerenza c’è
fra quelle elaborazioni e i compromessi che si fanno il giorno dopo? Mi
sembra che più di un chiamare a raccolta intorno a delle idee, a dei programmi, ci si rallegri dei dispersi. Bisognerebbe fare il contrario. Lo dico
anche a voi di liberal: pungolate i vostri politici.
Avrebbe mai immaginato che il
Pci, partito di cui si può dire tutto
ma non che non avesse una cultura politica, avrebbe partorito tanti topolini ciechi?
Si dice che bisogna buttare l’acqua
sporca e tenersi il bambino. Loro, al
contrario, hanno buttato il bambino e
tenuto l’acqua sporca.
diario
pagina 6 • 24 luglio 2010
Strategie. È stato il giorno dell’ex colonnello: dopo una maratona in tv ha aperto il convegno della propria corrente
L’asse Alemanno-Tremonti
Il sindaco e il superministro alleati di ferro per il dopo-Berlusconi
ROMA. L’ideologo? Giulio Tremonti. Il progetto? «Un partito
plurale, dinamico» e, soprattutto, «strutturato», dice Gianni Alemanno. Nella testa del
sindaco di Roma il Pdl del futuro c’è già. Ed è quello del dopo Berlusconi. L’ex capo della
destra sociale parla con stereofonica insistenza sia dalla
convention della sua Fondazione Nuova Italia, a Orvieto,
sia dagli schermi de La7. Manda messaggi chiari al Cavaliere e soprattutto agli ex colonnelli di An, in grande ambasce
per le intemperanze del premier. Soprattutto inaugura la
sua tre giorni di convegno su
“Federalismo e unità nazionale”con una scelta precisa: Giulio Tremonti, appunto. È al ministro dell’Economia che viene concesso l’onore di aprire i
lavori: prima di lasciargli la
parola, il primo cittadino della
Capitale lo presenta come
«una guida non soltanto economica ma anche culturale».
In questi momenti di difficoltà
nel Pdl, spiega, «ci può essere
una grande riflessione per superare la crisi ma anche per
avere una forte rigenerazione:
in questo Tremonti può essere
un punto di riferimento».
Una scelta chiara, netta. Che
non mancherà di alimentare
sospetti e supposizioni dietrologiche nell’ambiente berlusconiano. Soprattutto, quello
di Alemanno sembra essere
una sorta di piano B a cui ricorrere nel caso non arrivas-
davvero tutto il resto, cioè il
Pdl, crollasse o si parcellizzasse in un arcipelago balcanizzato. Lo stesso Tremonti, per
ora, prova a ispirarsi al miglior ecumenismo di cui è capace il suo alleato romano: «Il
federalismo? O è una scelta
comune o è un errore», dice
nel discorso di apertura. Nien-
«Giulio è un punto di riferimento non solo
per l’economia», dice l’ex capo della destra sociale.
Poi spiega: «Dopo Silvio verrà una squadra»
sero la pacificazione e la maturazione organizzativa del
Pdl. Il sindaco di Roma ha già
individuato la sua opzione: un
patto con il blocco di maggiore consistenza ideologica e
strutturale che si trovi oggi
nella maggioranza di centrodestra, quello della Lega e di
Tremonti. Non a caso il convegno di Orvieto ruota attorno
allo slogan “Dalle identità locali all’unità nazionale”. Formula di estrema sintesi con
cui si immagina un partito,
che sia o no il Pdl, capace di
coniugare il pressing leghista
per il decentramento con un
impianto nazionale affidabile.
Ma si tratta appunto della ridotta strategica, quella in cui
Alemanno si rifugerebbe se
tra tutti noi ex di An c’è un atteggiamento diverso sul tema
della legalità. Quelli di Forza
Italia sono su una posizione
più garantista, per un fatto
identitario, ma per noi le ragioni dell’opportunità tendono a prevalere sul pur rispettabile principio del pregiudizio d’innocenza». E allora, e
qui viene il secondo decisivo
punto di convergenza tra alemanniani ed ex An filo-berlusconiani, «non si può arrivare
a uno showdown con Fini e
consentirgli di appropriarsi
della legalità, di brandirla come tema esclusivo. Bisogna
sottrarglielo in qualche maniera, o tutti noi che veniamo
da quell’esperienza finiremmo per trovarci in una condizione di grande disagio all’interno del Pdl».
di Errico Novi
te strappi, assicura il ministro,
neppure con i Comuni: «Il testo sul federalismo fiscale che
verrà fuori alla fine», spiega,
«sarà condiviso con loro».
D’altra parte Alemanno intravede la convergenza con gli
altri ex colonnelli di An, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri, su almeno due punti
chiave: l’organizzazione del
partito e la cosiddetta questione morale. Spiega un altro ex
di via della Scrofa schierato
con il primo cittadino: «Berlusconi non può pensare che un
partito possa ridursi a lui e ai
rappresentanti di lista». Perché è questo lo schema che ha
ripreso a circolare nella testa
del Cavaliere. È il modello-
Brambilla, in cui l’alacre animatrice dei “Promotori della libertà” diventa la vestale di un
partito senza dirigenti. È un’ipotesi sulla quale Gasparri e
La Russa non hanno alcuna
intenzione di seguire il presidente del Consiglio. Il capogruppo dei senatori pdl peraltro a Orvieto c’è, così come
non manca il suo omologo
della Camera Fabrizio Cicchitto: «Non a caso anche tra
gli ex forzisti doc prevalgono
forti perplessità su un’eventuale nuova svolta movimentista del Cavaliere», prosegue
l’alemanniano, «un discorso
che vale anche per certi big
del Nord come Formigoni».
Un partito che si ribella al
suo capo? Potrebbe essere anche questa la scena immaginata da Alemanno quando dice che «dopo Berlusconi non
ne verrà un altro ma ci sarà
una squadra, ci saranno più
persone che avranno ruoli diversi e rappresenteranno la
seconda fase del Pdl». Perché,
aggiunge il sindaco nell’intervista serale su La7, «dopo una
fase carismatica ce ne sarà
una in cui conteranno la squadra e la struttura del partito».
E questa fase è lontana, spostata in un futuro quasi irreale, o è più vicina di quanto si
pensi? Alemanno non lo dice,
né in tv né dal palco di Orvieto, ma certo lo sconcerto per la
nuova sindrome del predellino impadronitasi di Berlusconi è evidente. Racconta, il sindaco, anche di averne parlato
allo stesso premier, di aver
espresso a lui per primo la richiesta urgente di «una fase
congressuale da avviare innanzitutto sul territorio, a livello di città, province e regioni, perché il Pdl ha bisogno di
una classe dirigente selezionata dal basso, in modo dinamico, e non dalle correnti che
si formano nel Palazzo». Ma
per stessa ammissione di Alemanno, «Berlusconi è rimasto
perplesso, c’è una cultura politica diversa». Anche se lui non
dispera di ottenere risposte riguardo all’organizzazione come sull’auspicabile «chiarimento tra Berlusconi e Fini».
Riecco l’Alemanno ecumenico, che non si schiera certo
con il suo ex leader ma nemmeno ne invoca l’espulsione.
«Anche perché la soluzione
disciplinare sarebbe sbagliata», suggerisce ancora il parlamentare alemanniano che
preferisce restare anonimo,
«bisogna casomai stabilire
delle regole interne, ma bisogna anche rendersi conto che
Sono i due elementi di frattura tra il Cavaliere e la pattuglia dei Gasparri e dei La Russa, considerati finora puntello
affidabile della strategia berlusconiana: organizzazione e
legalità. E almeno sul primo
aspetto la sintonia può crearsi
anche con una parte di quel
correntone maggioritario “doroteo”, in buona parte composto dalla vecchia guardia forzista. «Non si può fare a meno
dei congressi», è il mantra che
accompagna un venerdì di
forte presenza mediatica per
Alemanno, il primo da due anni, forse, vissuto con tanta intensità sotto una veste diversa
da quella di sindaco di Roma.
«Il problema vero è la partecipazione», è il segnale affidato
dal primo cittadino della Capitale alla tv e atteso anche nel
discorso riservato alla chiusura di domenica, «ci vuole un
partito strutturato se vogliamo una classe dirigente meritocratica». Su questo, conferma Alemanno, «concordano
anche forzisti doc». Appunto.
Ma in attesa che il pressing
circolare sul premier restituisca qualche risultato, il sindaco si tiene stretto il suo Tremonti, e approfitta di Orvieto
anche per tessere la sua tela
con altri esponenti del filone
“sociale” interno al pdl, come
Maurizio Sacconi, ospitato a
sua volta al convegno. Due
piani, uno di ristrutturazione
interna e uno “secessionista”,
accomunati dalla sostanziale
assenza dell’impronta berlusconiana: Alemanno non ne
ha altri, a meno che il Cavaliere non si decida ad aprire una
stagione nuova nel partito.
diario
24 luglio 2010 • pagina 7
Il «fisco locale» pesa ogni anno
per 2.364 euro a testa
«Non tollereremo i sacerdoti
che hanno una doppia vita»
La Lombardia
è la regione
con le tasse
più alte
Preti gay:
è polemica
tra «Panorama»
e il Vicariato
ROMA. Il «fisco locale» pesa
ogni anno per 2.364 euro a testa sui cittadini italiani. A fare i
conti in tasca ai contribuenti
alle prese con i balzelli di Regioni, Province e Comuni è uno
studio dei tecnici della della
Camera elaborato in base ai
dati forniti dalla Commissione
paritetica per il federalismo fiscale (Copaff), che l’agenzia
giornalistica Ansa ha poi rielaborato. I dati sono relativi al
2008, l’ultimo anno disponibile.
Il cittadino ha pagato nel 2008
in media 1.932 euro di tasse alle Regioni, 344 euro ai Comuni
e 88 euro alle Province. Dall’elaborazione fatta dai giornalisti dell’Ansa, emerge che i più
tartassati, nelle regioni a contabilità ordinaria, sono i cittadini lombardi con 2.697 euro
pagati a testa a tutti gli enti territoriali. Le tasse «locali» più
leggere sono invece quelle pagate dai campani che ogni anno sborsano 1.657 euro per finanziare le amministrazioni
territoriali. Ma la Campania è
al primo posto per la tassa sui
rifiuti con 128 euro pro capite
all’anno. La tariffa sui rifiuti
più bassa è invece quella paga-
ROMA. Se ci sono sacerdoti
gay, «coerenza vorrebbe che
venissero allo scoperto», perché «nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo
i benefici». È questa la posizione secca e inequivoca espressa
dal Vicariato di Roma in una
nota diffusa dopo le rivelazioni
del settimanale Panorama che,
nel numero in edicola, sostiene
- un lungo servizio ricco di particolari - che ci sono alcuni preti che conducono una «doppia
vita», frequentando nel tempo
libero i locali di ritrovo degli
omosessuali della capitale.
ta in Veneto con 24 euro pro capite all’anno. La media è di 78
euro pro capite l’anno.
L’Ici sulla seconda casa più
cara è in Liguria. La media
dell’imposta comunale sugli
immobili sulla seconda casa è
stata di 170 euro pro capite,
ma i liguri ne pagano 243 a testa. In Basilicata si pagano 86
euro a testa, in Calabria 95. Infine, il Molise è la prima regione per trasferimenti pro capite
con 1.353 euro, mentre il Piemonte è il fanalino di coda con
166, che supera di poco la
Lombardia con 175 euro. L’importo dei trasferimenti per le
regioni ordinarie è in media di
331 euro. Il conteggio è stato
fatto dall’Ansa in concomitanza con la discussione all’interno del governo (con Berlusconi e Tremonti su fronti opposti)
sull’introduzione di una nuova
tassa comunale.
Vacanza d’affari
per Medvedev in Italia
Appello alle nostre aziende: «Investite in Russia»
Il vicariato di Roma non
manca di stigmatizzare la finalità «evidente dell’articolo, che
non sarebbe altro che quella di
di Alessandro D’Amato
ROMA. «In una libera economia e in un libero
Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione. Mi auguro soltanto che questo non accada a scapito dell’Italia e degli addetti italiani a cui la Fiat offre il lavoro». Silvio Berlusconi sceglie di rispondere a una domanda durante la conferenza stampa seguita al vertice
Italia-Russia per manifestare il proprio disappunto nei confronti dell’annuncio della Fiat di
trasferire parte della produzione in Serbia.
Una battuta che farà discutere soprattutto ai
piani alti del Lingotto, specialmente per le ripercussioni che potrebbe avere sui rapporti
con il governo.
Per il resto, il mini-vertice Italia-Russia tenutosi a Milano, al Palazzo della Prefettura, è
stato l’occasione per tessere una serie di rapporti e relazioni e lanciare segnali diplomatici
di distensione nei confronti dell’Unione Europea. Il presidente del Consiglio ha accolto l’ospite nel cortile
dell’edificio, dove
i due leader hanno ascoltato l’esecuzione dei rispettivi inni nazionali ed hanno
passato in rassegna il picchetto d’onore interforze. All’interno del palazzo, a salutarli,
c’erano anche, tra gli altri, il presidente della
Regione Lombardia, Roberto Formigoni, il
sindaco di Milano, Letizia Moratti, e il presidente della Provincia, Guido Podestà. Berlusconi ha assicurato al presidente russo Dmitri
Medvedev di essere «impegnato per portare
avanti il problema» della liberalizzazione dei
visti per i cittadini russi a livello europeo, chiedendo «di inserire il tema della prossima riunione dei Capi di Stato e di governo europei»,
e di averne parlato al presidente della Commissione Ue Josè Manuel Durao Barroso e al
Commissario Antonio Tajani. Il presidente del
Consiglio ha anche assicurato che i due governi collaboreranno per risolvere le difficoltà
delle acciaierie di Piombino, rilevate dal gruppo russo Severstal dai Riva qualche anno fa. E
Medvedev nella conferenza stampa a Milano
ha anche auspicato che «la joint-venture nel
comparto automobilistico tra Fiat e il gruppo
russo Sollers è un progetto molto importante
e spero crescerà e si amplierà», sottolineando
con soddisfazione come in Russia la richiesta
di mercato di automobili sia tornata ai livelli
precedenti alla crisi.
Più in generale Il presidente russo ha invitato le aziende italiane a partecipare al grande
piano di modernizzazione dell’economia russa, in particolare nei comparti «ad alto contenuto tecnologico». Medvedev ha citato in particolare i settori della farmaceutica, delle tecnologie spaziali, delle telecomunicazioni e del
nucleare: «Ciascuna di queste sfere - ha sottolineato - è aperta alla partecipazione italiana».
E d’altronde, secondo Medvedev, «Le nostre
economie stanno superando la crisi. Il premier
Berlusconi mi ha detto che c’è una certa crescita in Italia ma anche in Russia c’è un miglioramento: noi contiamo di avere alla fine
dell’anno
una
crescita del 5%».
Medvedev
ha
spiegato di aver
appreso con «piacere» l’andamento dei dati italiani
che gli ha illustrato Berlusconi: «Indicano una
crescita in Italia», ha sottolineato auspicando
che questo contribuisca anche ad un ulteriore
sviluppo «dei rapporti economici tra Italia e
Russia, in vista di nuovi investimenti reciproci». D’altronde, «nei primi 4 mesi del 2010 c’è
stato un incremento degli interscambi tra Italia e Russia del 41%», ha fatto sapere il premier italiano, il quale poi ha detto che «Il 2011
sarà l’anno della cultura e della lingua italiana
in Russia e della cultura e della lingua russa in
Italia». La presenza «della lingua italiana in
Russia è un nostro valore», ha aggiunto Medvedev sottolineando che «è importante che i
giovani» di entrambi i paesi conoscano i rispettivi idiomi oltre all’inglese. Dopo la conferenza, una breve visita al Duomo e alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Milano per
ammirare il Cenacolo di Leonardo da Vinci,
prima del pranzo ad Arcore.
Vertice con Berlusconi prima delle ferie
a Cervinia: «Mi ha detto che i vostri conti
sono ottimi. Vi faccio i complimenti!»
creare lo scandalo, diffamare
tutti i sacerdoti, screditare la
Chiesa e fare pressione contro
quella parte della Chiesa da loro definita intransigente, che si
sforza di non guardare la realtà
dei preti omosessuali». Tuttavia, di fatto non esclude che
qualche sacerdote possa condurre una doppia vita, precisando però che a Roma vivono
molti sacerdoti provenienti da
tutto il mondo per studiare e
che nulla hanno a che fare con
la Chiesa di Roma. «Non vogliamo loro del male - si afferma nella nota pubblicata sul sito del vicariato Romasette.it ma non possiamo accettare che
a causa dei loro comportamenti sia infangata la onorabilità di
tutti gli altri». «Chi conosce la
Chiesa di Roma, dove vivono
anche molte centinaia di altri
preti provenienti da tutto il
mondo per studiare nelle università, ma che non sono del
clero romano nè impegnati nella pastorale - rileva il vicariato
- non si ritrova minimamente
nel comportamento di costoro
dalla ”doppia vita”, che non
hanno capito che cosa è il ”sacerdozio cattolico” e non dovevano diventare preti. Sappiano
che nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo
i benefici. Coerenza vorrebbe
che venissero allo scoperto».
economia
pagina 8 • 24 luglio 2010
Il risultato dell’«esame»
Sette bocciati
su 91 istituti:
Spagna e Grecia
non superano
il «test» europeo
di Francesco Pacifico
ROMA. Il campanello d’allarme non è
scattato. Anche perché non si intravedono default che potrebbero riportare
l’Europa in recessione.
È questo l’esito degli stress test la Bce
attraverso il Cebs (Committee of European Banking Supervisors) ha condotto sul grado di patrimonializzazione in
base all’attività (ratio Tier 1) di 91 grandi banche europee e che ha comunicato ieri sera alle 18, a mercati chiusi.
Gli operatori si sono mostrati molto
scettici sul check up, che non ha preso
in considerazione tutte le esposizioni
delle banche sui bond a rischio.
Ma il risultato, comunque, è chiaro:
seppure tornasse una recessione forte
come quella che nel nel 2009 ha riportato indietro la Ue di cinque anni, sarebbero sette gli istituti che rischierebbero di saltare e che risulterebbero
avere un Tier 1 sotto la soglia minima
(6 per cento). In totale la perdita sareb-
be di 566 miliardi di qui al 2011.
Non c’è quindi l’ombra di double deep,
la bocciatura più eclatante riguarda un
istituto della Germania, Hypo Real
Estate, da tempo sotto osservazione da
parte del governo (che l’ha nazionalizzata) e della vigilanza tedesca. Eppure,
a guardare in filigrana i risultati, non
sono da escludere a priori rafforzamenti sulla patrimonializzazione, per
dare al sistema bancario la forza di affrontare con maggiore sicurezza le crisi che potranno avvenire in futuro.
Non a caso, e prima che scattassero le
18, tre istituti (la Banca nazionale greca, la slovena Nib e la cassa spagnola
Civica) hanno fatto sapere di aver già
chiesto l’autorizzazione alle rispettive
vigilanze per un rafforzamento della
patrimonializzazione superiore ai 400
milioni di euro.
Tra i Paesi con un sistema più stabile
c’è l’Italia. Promosse le cinque banche
messe a raggi X. Di fronte allo scenario
peggiore, le simulazioni hanno rilevato
che il Tier 1 di Intesa è pari all’8,2 per
cento, Unicredit al 7,8, Banco popolare
al 7, Ubi banca al 6,8 e Monte dei Paschi al 6,2.
Secondo Bankitalia i risultati degli
istituti nostrani pagano, a differenza
dei loro concorrenti europei, «limiti nazionali più stringenti e l’assenza di capitale pubblico». Soddisfatto il Ceo di
Piazza Cordusio, Alessandro Profumo:
«Un passo importante per chiarire
ogni dubbio sulla solidità del sistema
bancario europeo». Da Siena Mps fa
sapere che continuerà la sua azioni per
rafforzare il patrimonio.
Risultati contrastanti dalla Germania.
Su 14 realtà passare al microscopio
soltanto la Hypo Real Estate (Hre) non
ha un livello di patrimonializzazione
sufficiente: il suo Tier 1 è pari al 4,7 per
cento in caso di crisi del debito sovrano e al 5,3 in uno scenario di recessio-
Retroscena. A Wall Street aumentano gli scettici: la crisi
innescata dalla quasi-bancarotta di Atene non è finita
La Ue è sotto stress
Dagli Usa dubbi sull’esame delle banche
e sulla tenuta del debito dell’Ungheria
di Enrico Singer
li esperti già si dividono
nella valutazione dei risultati degli stress-test
sulla solidità dei 91
grandi istituti di credito europei. C’è anche chi è convinto
che l’affidabilità di questa maxi
indagine sia molto relativa, non
fosse altro perché le banche sono state giudicate dalle autorità
di vigilanza dei loro stessi Paesi che hanno tutto l’interesse a
nascondere i problemi. E che il
vero responso su questa ennesima operazione-fiducia tentata dall’Unione europea - la decisione di rendere pubblici gli
stress-test è stata presa nell’ultimo summit dei capi di Stato e
di governo della Ue - arriverà
soltanto lunedì, quando riapriranno i mercati. «Sarà quello il
vero giorno del giudizio», ha
scritto ieri il Wall Street Journal che con l’Europa politica ed
economica non è mai stato tenero e che ha ricordato che già
nel 2009 il sistema bancario europeo superò complessivamente l’esame proprio alla vigilia
dell’esplosione della crisi generale. Non solo. Moody’s ha
preannunciato una possibile
revisione al ribasso del rating
del debito sovrano dell’Ungheria che, tra i Paesi dell’ex blocco comunista entrati nell’Unione europea, è quello più in difficoltà per l’incertezza delle politiche fiscali e per le prospetti-
G
ve di crescita economica. L’agenzia di rating americana è
preoccupata dall’interruzione
dei colloqui tra Budapest e il
Fondo monetario internazionale per la concessione di una seconda linea di credito.
Il vecchio prestito, per un
totale di 20 miliardi di euro,
scadrà il prossimo ottobre e
Moody’s ha fatto sapere che, a
suo giudizio, l’economia ungherese resta vulnerabile per
l’alto indebitamento in valuta
estera sia del settore pubblico
che del privato. Così, con una
procedura a dire poco spregiudicata, Moody’s ha avvertito
l’Ungheria - e non solo - che
potrebbe confermare il rating
mi. Moody’s aveva già effettuato un downgrade da A3 a
Baa1 il 31 marzo del 2009. Tra
i dubbi sull’operazione stresstest sulla solidità degli istituti
di credito e l’allarme sulla tenuta dell’Ungheria, quelli che
arrivano dall’America sono
segnali di grande scetticismo
sulla stabilità dell’Europa. A
Wall Street e, soprattutto, nelle banche Usa sono in molti
ormai a credere che l’euro andrà incontro a nuovi shock e
che la stessa costruzione istituzionale della Ue è in pericolo. I più pessimisti sostengono
che il vero stress-test sul futuro dell’Unione c’è già stato: è il
caso-Grecia che ha messo in
discussione la capacità dei
Molti analisti americani sono ormai convinti
che l’Euro è destinato ad andare incontro a nuovi
shock e che la stessa costruzione istituzionale
dell’Europa è in pericolo per le divisioni interne
attuale soltanto se il governo
conservatore di Viktor Orban
si impegnasse a rispettare gli
obiettivi fiscali che erano stati
chiesti dal Fmi e se gli altri indicatori macroeconomici restassero positivi. Una specie di
ultimatum al quale Orban ha
replicato che è disposto a discutere la sua politica economica con la Ue e non con l’F-
ventisette Paesi della Ue di
stare insieme. Il tanto temuto
Patto di stabilità ha dimostrato tutti i suoi limiti per assicurare credibilità alla moneta
unica che, come dicono i tecnici, non è sostenuta da regole
condivise ex ante, ma soltanto
da misure correttive ex post
che, nella pratica attuazione,
sono state il più delle volte ag-
girate. O sono state modificate
quando a non rispettarle sono
stati la Germania e la Francia,
dopo l’Italia.
Il vero problema è che l’euro
è la sola moneta al mondo che
non ha uno Stato alle sue spalle, ma una unione di Paesi - sedici fino a questo momento che a loro volta fanno parte di
una più vasta unione a ventisette in cui decisioni fondamentali, come le politiche fiscali, sono
rimaste appannaggio dei singoli governi che si muovono in
ordine sparso seguendo logiche nazionali di maggiore be-
neficio per ottenere investimenti e favorire delocalizzazioni a scapito degli altri Paesi della stessa Ue. Senza contare che
dall’unione monetaria si tengono prudentemente alla larga
segmenti importanti dell’Europa come la Gran Bretagna e la
Svezia - tra i “vecchi”- o la Polonia che, tra i “nuovi”, è la meno
attratta dalla prospettiva di
aderire all’euro. La speculazione internazionale, che per sua
natura non fa opere di bene, si
è inserita nelle contraddizioni e
nelle divisioni dell’Europa scatenando le ondate di attacchi
alla moneta comune che, se-
economia
ne. Promossi i giganti la Deutsche
Bank e Commerzbank, che rappresentano il 50 per cento del mercato.
Non vanno meglio le cose in Spagna,
dove ben cinque casse di risparmio spagnole sono a rischio default. La settima pecora nera è la greca Ate
Bbank, bocciata a differenza
della concorrente Alpha
Bank.
Promossa invece la Francia:
tra i quattro istituti valutati
la migliore performance è
quella di Socgen, con un Tier
1 al 10,2 per cento, seguita
da Bnp al 9,7. Anche Danske
Bank, Jyske Bank e Sydbank hanno superato i test
di resistenza. Nessun problema poi in Paesi da tempo messi sotto
sorveglianza dalle agenzia di rating come Portogallo o Irlanda.
Per tutta la giornata sono girate voci
sul mercato di bocciature più pesanti.
Ne hga risentito l’euro – infatti ha chiuso in calo a 1,28 sul dollaro – ne hanno
risentito i principali listini del Vecchio
continente, mossi in maniera contrastata e al rallentatore.
Nel giorno in cui Moody’s ha abbassato il rating dell’Ungheria, Milano, tra
24 luglio 2010 • pagina 9
le peggiori, ha segnato un -0,44 per
cento. Londra ha invece ceduto lo 0,02,
Parigi sale dello 0,18 per cento e Francoforte porta a casa un +0,39. Un giudizio più credibile i mercati
lo daranno lunedì.
Forse perché gli operatori
non credono alla bontà di
questi screening. Schroeders
Investment ha parlato di
«banche stressate con un bastoncino che fa il solletico»,
paventando che «saranno letti più come una pagellina di
fine anno delle elementari
che la ponderata e prudente
opinione di un corpo di regolatori finanziari».
Non poche polemiche ha scatenato la decisione del Cebs
di verificare soltanto i titoli di debito
sovrano detenuto nel portafoglio di negoziazione, non le posizioni in chiusura. Con il risultato che non è arrivata
condo molti analisti d’oltreatlantico, non si sono ancora
esaurite. Anzi, la creazione del
fondo di solidarietà di 750 miliardi di euro deciso dalla Ue
nel maggio scorso per fronteggiare eventuali nuovi attacchi
speculativi avrebbe aumentato
gli appetiti dei riders che sono
sempre a caccia di tesoretti.
Visto dagli Usa che, tra l’altro, l’ha fortemente voluto e favorito, l’allargamento della Ue
agli otto Paesi dell’ex blocco
comunista - più Cipro e Malta ha creato degli squilibri insanabili. Gli analisti americani sono
convinti che il peso di realtà
economiche come quelle di
Bulgaria e Romania, soltanto
una credibile valutazione sulle ipotesi
di default degli Stati.
Tamara Burnell, a capo degli analisti di
M&G che si occupa di istituzioni finanziarie, ha fatto notare «che banche come quelle di Irlanda e Grecia, con i loro chiarissimi e ovvi problemi passeranno il test».
Morale? «La cosa più assurda», aggiunge, «è che le banche stanno dichiarando di essere abbastanza solide da
passare facilmente gli stress test, ma
allo stesso tempo si dichiarano così deboli da non poter far fronte all’implementazione entro il 2012 di Basilea 3 o
al ritiro della liquidità da parte della
banca centrale».
Agli operatori non è piaciuta neanche
la scelta di fissare l’asticella del Tier 1 al
6 per cento, tenendo conto che come ratio è più credibile il Core Tier 1: cioè il
rapporto tra il patrimonio di base e attività a rischio ponderate.
ve non sono positive. La Banca
europea per la ricostruzione e
lo sviluppo (Bers) ha appena rivisto al ribasso le stime della
crescita dei trenta Paesi in cui
opera - dai Balcani all’Asia
centrale - anche come effetto
delle politiche di austerity decise dai “big” della Ue, primo fra
tutti la Germania. E questo, ancora una volta, conferma l’interdipendenza tra realtà che è,
al tempo stesso, molto difficile
armonizzare.
Allora è giustificato il pessimismo degli americani? L’euro
e la Ue stessa vanno verso il disastro? Di sicuro le turbolenze
di questi mesi sono la conferma
che l’Europa viaggia, ormai, a
Anche Tremonti ammette che le difficoltà
non sono finite: «Mi sembra di essere dentro
un videogame, arriva un mostro, lo distruggi,
ti rilassi e ne arriva un altro più grande del primo»
La Merkel,
Sarkozy
e Barroso
con il greco
Papandreou.
In alto,
il presidente
della Bce, Trichet.
A destra,
David Cameron,
premier
della Gran
Bretagna
che è fuori
dall’euro.
A fianco, la sede
della Banca
centrale europea
a Francoforte
per fare due esempi, non raggiungeranno mai gli standard
del resto dell’Unione europea.
Con due effetti collegati e contrari: da una parte la concorrenza a colpi di lavoro a basso
costo e poche tasse per attirare
i capitali fluttuanti dei vicini
più ricchi, dall’altra l’esposizione crescente a Est delle maggiori banche della “vecchia”Europa con il corollario dell’aumento dei rischi. Non è un caso
che poche settimane fa il ministro delle Finanze austriaco, Josep Proell, ha chiesto alla Ue di
intervenire con un pacchetto di
150 miliardi di euro per salvare
le banche dell’ex blocco sovietico (non solo quelle dei Paesi
entrati nella Ue). Richiesta respinta che poggiava, però, su
una ragione molto semplice: le
sole banche austriache hanno
prestato 230 miliardi di euro una somma pari al 70 per cento
di tutto il Pil dell’Austria - agli
istituti di credito di questa
grande area. E se salta l’Europa
dell’Est salta tutto il sistema.
Ancora una volta, le prospetti-
diverse velocità. Ma che, proprio per questo è destinata ad
andare avanti come in un
grande campionato dove ci
sono serie A, B e dilettanti
con qualche passaggio di
categoria deciso in base alle classifiche di fine anno.
Giulio Tremonti, che è diventato il più europeista
dei ministri italiani, è convinto, tuttavia, che «è falsa
l’illusione che i costi generati dalla crisi in un Paese
possano essere limitati a
quel Paese», come ha detto tre giorni fa in una lezione agli studenti dell’Università di Friburgo.
Dove ha rilanciato il paragone con il Titanic «nessuno pensi che sia
sufficiente avere un biglietto di prima classe
per salvarsi» - e ha ammesso che la crisi resta in
agguato: «Mi sembra di essere dentro un videogame, arriva un mostro, lo distruggi, ti
rilassi e ne arriva un altro
più grande del primo».
economia
pagina 10 • 24 luglio 2010
Provocazioni. La strategia dell’azienda è chiara: la crisi è durissima, bisogna che politica e sindacati se ne rendano conto
L’ultimatum di Marchionne
Berlusconi cerca di difendere l’Italia. Ma la Fiat vuole nuove regole
di Gianfranco Polillo
uella di Fiat rischia di
divenire una storia infinita. Un tormentone
che tra dibattiti, interventi politici, le inevitabili proteste sindacali si trascinerà chissà per quanto. I
presupposti ci sono tutti e non
da ora. Tutto era cominciato
con Termini Imerese: uno stabilimento nel profondo Sud,
sottodimensionato dal punto
di vista produttivo e lontano
anni luce dai possibili mercati
di sbocco anche se collocato
nel cuore del Mediterraneo. Fino a qualche anno fa una sorta
di confine tra lo sviluppo e la
desolazione di Paesi che, sebbene dotati di immense ricchezze petrolifere, non riuscivano a trovare la loro strada.
Oggi un grande fiorire di iniziative industriali e finanziarie,
al punto che il tasso di sviluppo medio dei Paesi che vi si affacciano - con la sola esclusione del nostro Mezzogiorno - è
cinque volte quello della vecchia Europa. Peccato che Sergio Marchionne non abbia voluto considerare quest’ipotesi
e abbia «tirato innanzi». Lo
stabilimento sarà riconvertito
non si sa bene in che: dalla
produzione di auto elettriche a
fantastici studios televisivi. Vedremo quel che succederà.
Storia solo in parte diversa per
Pomigliano D’Arco. Qui verrà
realizzata la nuova Panda. Destinazione? Proprio quei Paesi
di cui abbiamo detto. Un investimento di 700 miliardi di euro, che l’Italia è riuscita a soffiare alla Polonia, solo dopo un
lungo braccio di ferro tra le organizzazioni sindacali. Con
tutti i sindacati, compresa una
parte non secondaria della
CGIL, da una parte ed i puri e
duri della Fiom a rispondere a
Q
flittualità - lo stillicidio di Melfi, con tre operai che bloccano
la catena di montaggio - alle
furbizie della false malattie, a
quell’assenteismo, spesso solo
individuale, ma capace di
bloccare un sistema produttivo che, per essere competitivo
visto il maggior costo della
mano d’opera italiana, deve
funzionare come un orologio.
Sergio Marchionne, già in
questo caso, non aveva esitato
a far trapelare la sua delusione. Ma come - avrà pensato giorno per giorno lottiamo in
un mercato sempre più diffici-
Annunciare il trasferimento di un pezzo
della produzione di Mirafiori in Serbia
è un avvertimento finale a governo e opposizione
muso d’uro. Le condizioni poste dalla Fiat dovevano essere
semplicemente rispedite al
mittente. C’è voluto un referendum tra i lavoratori per dire che è meglio lavorare, seppure più duramente, piuttosto
che morire d’inedia o finire,
inevitabilmente, nelle braccia
della camorra. Ci si aspettava,
per la verità, un consenso
maggiore. Soprattutto una
consapevolezza più forte che
mettesse fine alla microcon-
le, dove la concorrenza non fa
prigionieri. Nonostante questo, investiamo scontando un
rendimento del capitale molto
inferiore. Ebbene, nonostante
questo, lo sforzo per convincere esercitato dalle forze più responsabili del sindacato e della politica, una fetta consistente dei lavoratori ci dice di andare al diavolo. Uno schiaffo
in pieno viso, se si guarda a
come funzione il resto del pianeta. E non parliamo della Ci-
na o dell’India. Negli Stati
Uniti, i lavoratori della Chrysler, da sempre cointeressati
al buon funzionamento dell’azienda, accettano addirittura
un taglio nel loro salario, pur
di salvare il salvabile. Ma che
razza di paese è diventato il
nostro? Lo scontro - avrebbe
chiosato un epigono del ’68,
tra i tanti ancora in circolazione - investe il potere all’interno della fabbrica. Questioni di
principio, su cui non si tratta.
Fesserie. Il mondo - se mai lo è
stato - non è quello che si riflette in questi deliranti atteggiamenti. Funziona semplicemente in modo diverso. E
Marchionne ne è consapevole.
Ed ecco allora le scelte finanziarie. La divisione in due della
vecchia Fiat. Il concentrarsi sul
core business, senza rinunciare, tuttavia, come osservava
perfidamente Massimo Muchetti, all’interesse per i media,
che com’è noto sono un tutt’uno con la produzione di automobili. Poi la botta finale. Basta: spostiamo le produzioni di
Mirafiori a Kragujevac, un paesino della Serbia, che è difficile
addirittura da pronunciare. Lì
si realizzeranno i nuovi modelli di Fiat Idea e Lancia Musa,
che il vecchio piano industriale
- “Fabbrica Italia”- aveva origi-
In alto, Sergio Marchionne.
Qui sopra, Guglielmo Epifani
che ha attaccato
il trasferimento in Serbia.
Sotto, il ministro Sacconi
nariamente previsto nel luogo
simbolo della produzione Fiat.
Un cataclisma che ha determinato le immediate reazioni di
tutte le forze politiche italiane:
sia di maggioranza che di opposizione. La stessa Confindustria, per non parlare dei sindacati, si è unita in un atteggiamento di stupore, se non di vera ed esplicita condanna. Buon
ultimo, il presidente del Consiglio/imprenditore che dice: delocalizzare sì, ma non a scapito
dell’Italia! Non mancheranno
le risposte. E c’è già che avanza
il sospetto di una manovra, almeno in parte, strumentale, per
imporre quelle modifiche nel
contratto nazionale di cui si vagheggia da anni, ma che nessuno è stato in grado di realizzare. Sarà pure così. La nostra
lettura è diversa. La crisi finanziaria internazionale è tutt’altro che “un pranzo di gala”:
avrebbe detto il non compianto
Mao Tze Tung. È la conseguenza delle grandi trasformazioni
intervenute - queste sì - nei rapporti di forza effettivi tra le diverse aree del Pianeta. Rapporti che proprio in conseguenza
della crisi diverranno ancora
più aspri. Non c’è più tempo
per le fumisterie, per il “buonismo” peloso, per la comprensione caritatevole. Nel mondo
si fa sul serio. Prima ne prendiamo atto. Meglio è per tutti.
La politica italiana, invece, ancora si trastulla tra un dibattito
ed un talk show, rinviando le
scelte necessarie. Ma se questo
è possibile, almeno fin quando
il grande patrimonio finanziario delle famiglie fa da paracadute, per una grande impresa,
come la Fiat, è il momento delle scelte vere. Ha un capitale da
difendere, una reputazione industriale costruita mentre altri
si gettavano in produzioni
energivore ed opulenti. Un futuro che decisioni improvvide
- come insegna la crisi internazionale di case prestigiose potrebbero, all’improvviso,
pregiudicare. Se questa consapevolezza si diffonde, se modifica il senso comune degli italiani, allora la sfida può essere
affrontata. Ma se si vuole che
l’azienda corra sui mercati internazionali con il piombo nelle ali, sotto il peso di una visione romantica, per dirla con i
classici del marxismo, allora è
meglio lasciar perdere. Sarà
pure doloroso, ma sarà pur
sempre vivere in una valle di
lacrime, piuttosto che immolarsi per il nulla.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
LA REDENZIONE
Nelle sale
“Il solista”
di Joe Wright
SULLE NOTE
DI BEETHOVEN
di Pietro Salvatori
a buoni ultimi, arriva anche in Italia Il solista, già sbarcato nelle sale di
ma se la sua vena creativa inizia a fare cilecca. La rubrica che Lopez tiene settimezzo mondo nel 2009 e relegato all’estate dalla distribuzione itamanalmente sulla spalla della prima pagina inizia a subire le pesanti critiLa storia
liana targata Universal. Da una parte un peccato. Dall’altra un
che dell’editore, finché il giornalista, per caso, non si imbatte in un sencolpo di coda notevole di questa povera estate cinematozatetto, uno dei tanti che vagano per le strade dei bassifondi della
vera del clochard
grafica, che sta regalando ben poco ai cinefili desiderosi di
città di Mulholland Drive e di Beverly Hills. Sì, uno come tanmusicista Nathaniel Ayers
buoni prodotti anche sotto la calura estiva. La storia è
ti, ma con una dote particolare: un violino che, nonoe del giornalista del “Los Angeles
tratta da un libro del 2008, intitolato The Soloist: A
stante abbia due sole corde, nelle mani del barbone sprigiona una musica celestiale. È quella
Lost Dream, an Unlikely Friendship, and the
Times” Steve Lopez, strumento della sua
del maestro Ludwig van Beethoven. E forse per
Redemptive Power of Music, ancora inedito nel
rinascita. Un film intenso sul dono
il caso, forse no, il clochard sta suonando proprio sotBelpaese - e chissà che non si trovi un editore interesto la statua dedicata al compositore tedesco in un piccolo
sato sulla scia dell’uscita della pellicola - firmato da Steve
dell’amicizia ma con qualche
parco della città. «Non capisco come il maestro Ludwig possa
Lopez, un giornalista che ha tradotto in forma letteraria una sedifetto. Magistrale
essere il capo di una così grande città come Los Angeles», confessa
rie di propri articoli. E, rimanendo fedele al dettame dell’opera scritJamie Foxx lo spaesato suonatore a Lopez, che scopre che il nome del violinista è
ta, Steve Lopez si chiama anche il protagonista del film, interpretato dal
Nathaniel Ayers, che in un remoto passato ha frequentato la prestigiosissima
volitivo Robert Downey Jr. Lopez è la firma di punta del Los Angeles Times, il
scuola d’arte di Juilliard, a New York.
più prestigioso quotidiano della più famosa città della West coast. Un vero proble-
D
Parola chiave
Estate
di Gennaro Malgieri
Simenon spara
sulla Corte d’Assise
di Pier Mario Fasanotti
NELLA PAGINA DI POESIA
Nel regno
illimitato
di Apollinaire
di Francesco Napoli
Cristina Campo,
l’imperdonabile
di Pasquale Di Palmo
Brevi notizie
tra sacro e profano
di Leone Piccioni
L’altra realtà
di Carlo Guarienti
di Marco Vallora
La redenzione sulle note di
pagina 12 • 24 luglio 2010
ne di una piena riabilitazione, del recupero, per
meriti indiscussi, di un emarginato nel consesso dei «normali». Larga parte della critica ha
accostato la pellicola di Hicks a quella di Joe
Wright, giovane e promettente regista inglese,
fino a oggi impegnato nell’adattamento di opere classiche della letteratura britannica quali
Orgoglio e pregiudizio,nel 2005,ed Espiazione,
nel 2007. E da un lato il paragone è comprensibile. Entrambi parlano di due reietti, relegati ai
margini del vivere composto ed educato della
borghesia moderna. Entrambi custodiscono
nelle loro mani e nella loro mente un grande
dono, una sensibilità sopraffina per la musica.
Ma per Nathaniel Ayers la possibilità di essere
redento non si cela dietro la riscoperta di un
successo perduto in gioventù e recuperato in
extremis per i capelli. No, la consacrazione di
Nathaniel si gioca tutta nel rapporto con «il signor Lopez», nell’amicizia donata gratuitamente a uno come lui, davanti al quale il mondo arriccia il naso, non vorrebbe avere nulla a
che fare. Un’esperienza produttiva per tutti e
due. Lungo tutto il corso della pellicola, infatti,
Lopez si illude di far del bene. Arriva a rimediare delle lezioni per il barbone, arruolando
un notissimo maestro di violoncello. Fino al
momento in cui apre gli occhi: «A Nathaniel
non serve qualcuno che lo salvi, occorre uno
che gli sia amico». Questa la rivelazione cruciale di un film che si gioca all’interno delle piccole e delicate sfumature di un rapporto. Così il
concerto per celebrare il violoncellista ritrovato viene organizzato troppo presto, incentrato
più sulla vanità riposta in un nuovo articolo da
prima pagina che sul bene voluto all’artista di
strada. Se ne accorge tardi Lopez, ma non
troppo per non poter rimediare a un errore fatto in buona fede.
Dopo il pittoresco incontro, Steve torna in redazione, al tran tran quotidiano, all’idea giusta
che non arriva. Ma pian piano, alcune delle
informazioni che ha raccolto nella mattinata si
compongono nella sua mente formando il filo
di una storia formidabile. Nathaniel Ayers è un
senzatetto, che gira con il suo carrello pieno di
stracci difendendolo come fosse la cosa più
preziosa del modo, vestito di strani cappelli
raccolti in chissà quale cassonetto, in gilet di
paillettes o dalle strisce catarifrangenti, perso
da qualche netturbino in una serata a fare il giro di Skid Row, il Bronx losangelino. Ma
Nathaniel Ayers è anche un ex allievo di una
delle scuole musicali più dure e selettive d’America, i cui test d’ingresso sono noti per la loro severità. Come è possibile che un tale talento sia finito per suonare a un pubblico composto di ubriaconi e corvi che rovistano tra la
spazzatura?
Questa è la storia che Lopez cercava da tempo. «Ah, suona il violino adesso?», risponde
con la voce rotta dall’emozione la sorella, contattata dal giornalista. «Da ragazzo amava solo il violoncello». «Non me lo posso permettere signor Lopez», si giustifica timido Nathaniel, «ma questo violino è bellissimo, anche se
ha solo due corde». Scavando un poco, emerge
la storia di un bambino prodigio. La passione
per il violoncello coltivata nel povero scantinato di casa, dove i rumori molesti del povero
sobborgo della Grande Mela non avevano
ostacoli a frapporsi tra la celestiale musica di
Beethoven e l’archetto del piccolo musicista, il
grande salto alla Juilliard, il posto di primo violoncellista nell’orchestra della scuola, prima
che un disturbo mentale segnasse la promettente carriera di Nathaniel. Il materiale per un
primo pezzo c’è tutto. Il successo in edicola è
assicurato.Al punto che in redazione arriva un
violoncello,uno di quelli per professionisti. È di
un’anziana lettrice, bloccata dall’artrite e affascinata dalla storia del clochard-prodigio. Caricato lo strumento sulla vecchia Saab, Lopez si
mette in cerca di Nathaniel per la città. Lo trova sotto una galleria, l’unico posto nel quale, a
suo dire, si possa fare musica a Los Angeles:
«Si sentono i rumori della città, signor Lopez,
dove altro potrei suonare?». Non per la strada,
secondo Lopez, il rischio che qualche male intenzionato percuota Nathaniel per rubargli il
prezioso strumento è troppo alto. «Te lo lascio
nel centro di accoglienza di Skid Row, lo potrai
suonare lì ogni volta che vorrai». Detto fatto, in
breve tempo uno stranissimo pubblico di sbandati fa da cornice al barbone che accarezza
con la maestria dei crini del suo archetto lo
strumento. E intanto la rubrica di Lopez diventa monotematica, continua a raccontare le peripezie del piccolo-grande eroe metropolitano.
Al punto che l’orchestra della città invita
Nathaniel ad assistere all’esecuzione della terza sinfonia di Beethoven che si terrà alla Disney Hall di Frank Gehry. Spaventato dalla
confusione che potrebbe fare non trattenendo
la sua mente girovaga, l’artista di strada opta
per assistere a una prova. In questa scelta la cifra contenutistica dell’opera. Nathaniel non è
un eroe cinematografico, la sua è una redenzione discreta, la risalita dal baratro di un uomo che è conscio dei limiti di una mente ormai
forse irrimediabilmente indirizzata sulla china
della schizofrenia.Qui si gioca la differenza sostanziale con Shine, il film del 1996 di Scott
Hicks. Lì, David Helfgott, reso grande da una
magistrale interpretazione di Geoffrey Rush,
squilibrato quanto talentuoso pianista, viaggiava spedito sulla strada di una riabilitazione
completa, di un destino che lo avrebbe reso
grande nonostante le asperità di una mente incontrollabile e del marchio di una sanzione sociale dal quale liberarsi attraverso il talento. Un
film consolatorio per il pubblico,nell’accezione
più tradizionale del termine. Dalla polvere agli
altari, non senza fatica, ma offrendo l’immagianno III - numero 29 - pagina II
Beethoven
IL SOLISTA
GENERE
BIOGRAFICO, DRAMMATICO,
MUSICAL
DURATA
109 MINUTI
PRODUZIONE
GRAN BRETAGNA, USA 2009
DISTRIBUZIONE
UNIVERSAL
REGIA
JOE WRIGHT
INTERPRETI
ROBERT DOWNEY JR.,
JAMIE FOXX,
CATHERINE KEENER,
TOM HOLLANDER,
RACHAEL HARRIS,
STEPHEN ROOT
A guardar bene, nel Solista le pecche si trovano, eccome. Una regia fin troppo lirica, che
lascia un eccessivo spazio alle parole, alla spiegazione pedissequa di quel che sta succedendo, trascurando quel tessuto concretissimo di
fatti, sguardi e azioni che, da soli, raccontano
molto di più del dialogo anche se bene articolato. Il ritmo a volte si perde, fatica a riprendere il filo di un discorso annacquato nel tentativo di trovare una conclusione esplicita a ogni
sequenza. Una sceneggiatura eccessivamente
laccata, che lascia poco spazio alla musica, vera architettura portante di tutta la storia,per far
parlare tutto quello che le ruota intorno.Tutte
difficoltà che hanno relegato il film a una posizione di seconda fila nel mercato statunitense
(dove è uscito nell’aprile dell’anno scorso),
mentre i rumors prima del lancio lo accreditavano come sicuro protagonista degli Oscar.
Dalla sua, però,Wright, oltre a Robert Downey
Jr., schiera un grandissimo Jamie Foxx, che
torna a cimentarsi con gli strumenti dopo la
magistrale interpretazione di Ray: convincente nei panni di Nathaniel nell’invecchiare, contorcersi, deturparsi, vivere sulla propria pelle
gli anni vissuti per la strada. Un piccolo gioiello in un’opera che poteva essere meglio confezionata. È lui infatti a rendere intenso un film
che, in caso contrario, forse avrebbe faticato in
Italia anche a conquistarsi un’uscita «tecnica»
estiva per approdare direttamente sul mercato
dell’home video, come per un periodo si era temuto. Il pregio del film è comunque fare emergere con discrezione e dignità il valore di un’amicizia gratuita, la prospettiva di una vita vissuta degnamente solo come dono di sé a un altro, come possibilità che un rapporto, uno
sguardo inaspettato ti colpisca nella massa indistinta, possa dischiudere orizzonti prima
inimmaginabili. La critica ha smontato la pellicola: troppo formale, storia dai canoni ripetuti
senza fantasia,regia troppo distaccata,eccessiva leziosità nella prova degli attori. Forse. Ma
non sempre quel che conta emerge in una visione distratta. Anzi, quasi mai. Il solista, al
contrario, è un esempio di come, spesso, l’essenziale sia invisibile agli occhi.
MobyDICK
parola chiave
erfino le parole sono accaldate.
Faticano a uscire per mettersi in
fila, una dietro l’altra. Esprimono la sofferenza di chi scrive
con il solo conforto di una musica refrigerante che fa da contrappunto al
sibilo dell’aria condizionata. Cercano
le parole di lenire il dolore che questa
stagione violenta provoca in tutti coloro che ne restano delusi. E sono tanti.
Già, perché l’estate non mantiene mai
le promesse. Dovrebbe essere il tempo
della liberazione e invece ci fa stare
tappati in casa davanti a un refrigerante qualunque; dovrebbe indurci a fuggire la pazza folla, ma al solo pensiero
di incontrarne di più imponenti, sudaticce, chiassose e volgari preferiamo
rifugiarci nel solito guscio; dovrebbe
favorire incontri e scambi, serate
gioiose e pigri pomeriggi, invece ci assediano la calura infame e la solitudine anche quando si sta in spiaggia attorniati da migliaia di bagnanti soli come noi, annoiati, come noi, nervosi forse più di noi. In colonna sulle autostrade o davanti ai chioschi
marini, ma anche nelle alte malghe o nei più abbordabili agriturismi, la verità è che d’estate diventiamo intolleranti verso
noi stessi e poi nei confronti degli altri.
P
Una volta non era così,
come sanno coloro che
hanno passato la quarantina. L’estate manteneva
le sue promesse. E ci si divertiva con poco, si era
tutti più spensierati, le vacanze non erano le bolsceviche «ferie» da fare a
tutti i costi e a caro prezzo. Bastava non essere
schiavi di orari e impegni
per sentirsi liberi e dunque immersi in una stagione che regalava molto,
dal caldo sopportabile ai
frutti saporiti e profumati,
e non esigeva nulla da
nessuno, men che meno
l’esibizione di riti di massa ai quali oggi nessuno
può sottrarsi e chi lo fa o è
uno snob da evitare o un
poveraccio da non frequentare. Per di più l’estate un tempo avvicinava,
oggi divide. Le famiglie si
riunivano, adesso si frantumano. Ognuno per conto suo e arrivederci a chissà quando. Il mio paese,
nel profondo Mezzogiorno, raddoppiava gli abitanti, ora d’agosto sono la metà. Gli
immigrati al Nord o all’estero, ritornavano gioiosi per riappropriarsi della
loro vita in quel mese «rubato» alla civiltà della disarticolazione familiare,
necessaria ma quanto dolorosa. Si
passavano le controre inseguendo sogni a occhi aperti e le sere a raccontarsi di inverni lunghi e talvolta avventurosi. Il mare, per chi poteva permetterselo, era una specie di Graal su cui fantasticare prima e tuffarcisi poi. E, soprattutto, comunque e dovunque, l’estate era la stagione degli amori anche
se si sapeva che difficilmente sarebbero durati. Con le canzoni, i suoni, le
chimere che l’amore sapeva suggerire
24 luglio 2010 • pagina 13
ESTATE
È solo il colonnino di mercurio che ormai
sale vertiginosamente ad avvisarci dell’arrivo
della stagione. Per il resto non c’è più traccia
delle promesse mantenute di un tempo
Non chiamatela
più così…
di Gennaro Malgieri
Perché non dovremmo nasconderci ai devastatori
della nostra tranquillità, i forzati delle ferie a tutti i costi,
i consumisti in servizio permanente, e restarcene
nel nostro angolo di Paradiso sul terrazzino di casa nostra
o in un metro quadro di giardino? Due mesi all’insegna
del non-senso che ci fanno rimpiangere l’autunno
ai creatori di miti banali, ma quanto
entusiasmanti. E adesso? No, non è un
per spirito di contraddizione, magari
un tantino folle, desiderare che l’autunno torni presto annunciato dagli
acquazzoni d’agosto. È che l’estate ha
perduto il suo fascino nei modi di con-
cepire lo svago, il divertimento, la stasi sublime sotto il sole, lo stacco con la
normalità, la rottura con il tran tran.
Non ha più una sua specificità, insomma, se si esclude il clima torrido che
per qualche settimana ci annebbia fino a distruggerci letteralmente, letale
come mai nei tempi da noi conosciuti,
opprimente al punto di desiderare il ritorno a temperature più fredde con
tutto quel che comportano. Insomma,
la «mitica» estate non la riconosciamo
più. Se non fosse per la colonnina di
mercurio che s’alza vertiginosamente,
non sapremmo neppure che luglio e
agosto sono arrivati.
Ho provato a girovagare, più d’una
volta, in diverse ore del giorno, per le
strade di varie città in queste settimane. Sapevo già che non avrei incontrato ciò che speravo, ma volevo rendermene conto empiricamente, come si
dice. E ho avuto la conferma che d’estate la gente è addirittura meno allegra rispetto agli altri periodi dell’anno.
Diventa più intollerante negli uffici e
nei negozi. Si fa prendere più facilmente dalle smanie del riposo forzato
che tutto è tranne che riposo. È maggiormente incline al litigio per un nonnulla, mentre vorrebbe sbarazzarsi del
problema di come e dove trascorrere
le ferie ancor prima di averle fatte. Sono i non-sensi del nostro
tempo, direte. È certamente così. Ma allora perché non barricarsi in casa
e sbarrare la porta ai barbari che vorrebbero trascinarci sui loro mari
sporchi, sulle loro montagne infestate dai cultori
del chiasso, nelle campagne devastate da dancing
dove si fa rumore e la musica è sconosciuta? Perché non dovremmo nasconderci ai devastatori
della nostra tranquillità e
conquistarci un metro
quadro sul nostro terrazzino, tra i gerani e il basilico, o, per chi può permetterselo, quell’angolo
di giardino profumato che
sa tanto di Paradiso?
Mi verrebbe voglia di
gridare: ridateci l’estate o,
meglio, se proprio non è
possibile, abrogatela. Ma
so, ovviamente, che il mio
grido susciterebbe la
compassione di quanti
dovessero avere la ventura di ascoltarlo. E allora,
lasciatecela godere come
ci pare la nostra estate.
Voi gossipari inariditi dal
solleone, voi giornalisti da
ombrellone alla ricerca di
una politica che non c’è a
dicembre figurarsi ad
agosto, voi consumisti in
servizio permanente effettivo che ci ordinate di divertirci come avete deciso, pianificato, imposto,
voi assatanati dell’ultima follia sfornata dal market del turismo straccione,
tutti voi, esercito di folli che viene santificato ogni mattina sulle spiagge e
per i viottoli agresti, provate a dimettervi da professionisti dell’estate soltanto per farci vedere una volta, una
volta sola, l’effetto che fa. Ecco. Mi sono preso il classico colpo di sole. L’estate è allo zenit. Se ne sono andati tutti. Spero che almeno qualche lettore
sia rimasto qui, con Mobydick in mano, sognando come me un’altra estate.
Quella che non c’è e che chiamano
estate, comunque.
pagina 14 • 24 luglio 2010
MobyDICK
Cd
musica
SANTANA: L’ARTE
come opera di vita
di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi
hi ha inciso nel 1991 Alta marea?
Che domanda, vi risponderà
chiunque: Antonello Venditti. E la
canzone fa parte dell’album Benvenuti in Paradiso. Ma è stato proprio lui a
scriverla? Pausa, occhi al cielo, aria da
compatimento: vuoi prendermi in giro? Il
Venditti nazionale! E oltretutto è diventato
uno dei suoi più famosi successi… Sbagliato. Alta marea è il rifacimento di Don’t
Dream It’s Over, pezzo di quelli che fanno
la storia del pop, composto da Neil Finn e
inserito nell’86 nel disco di debutto dei
Crowded House.Talmente bello che anche
Paul Young ne ha architettata una cover.
Quatti quatti,Venditti &Young hanno capitalizzato al massimo il gran talento di Neil
Finn, classe ’58, neozelandese adottato dall’Australia, mito dappertutto tranne che in
Italia. Artista di nicchia, si dice. Negli anni
Settanta, lui e il fratello maggiore Tim militavano negli Split Enz, geniale gruppo dell’Art Rock. Dopo lo scioglimento, Tim si
mette a fare il solista e Neil, nell’85, dà vita
ai Mullanes. Cerca fortuna a Los Angeles,
dove i discografici della Capitol lo mettono
sotto contratto non prima d’averlo convinto a cambiare nome in Crowded House. Al
disco griffato Don’t
Dream It’s Over seguono Temple Of Low Men
(’88), Woodface (’91) e
Together Alone (’93).
Successo planetario, eppure nel ’96 si decide di
stoppare: il 24 novembre, alla Sydney Opera
House, il gruppo di esibisce nel concerto d’addio che coincide con Recurring Dream, antologia dei pezzi più belli. Due anni dopo e nel
2001, il non plus ultra delle capacità soliste
di Neil Finn coincide con Try Whistle This
e One Nil; nel 2004, dopo il progetto 7
Worlds Collide con un sacco di amici (tipo
Eddie Vedder dei Pearl Jam), l’artista insie-
C
Opera
zapping
er la legione degli ignorantoni
Carlos Santana è il Fausto Papetti del rock. E invece per chi ama la ferina maestà della chitarra elettrica è il
maestro, venerato e venerando. Perché ha un suono oggettivamente arrapante, per la sensibilità da percussionista, perché ha suonato con tutti
dal pop al rock al jazz alla afro mettendoci il suo vocabolario e la sua
sensualità. Si ascolti Love, Devotion,
Surrender con John Mc Laughlin,
jazz rock spericolatissimo, o Amen,
con Salif Keita, dove tra l’altro il suo
nome appare in piccolo nel booklet.
Perché anche davanti a trecento
spettatori spersi in uno stadio polveroso - ascoltato con queste orecchie
- è in grado di scatenare l’audience. E
adesso abbiamo un motivo nuovo
per amarlo. In un concerto chicaghese ha concluso un memorabile duetto con la sua batterista, Cindy Blackman, e le ha chiesto pubblicamente
di sposarla. E il fatto non ha niente a
che vedere con il ragazzino che scrive ti amo sotto casa alla sua bella, o
con Stranamore del compianto Castagna. Niente a che vedere con la
scemologia del reality. Qui c’è un Love, Devotion, Surrender nell’habitat
naturale di un uomo che sul palco ci
campa, e che più volte scommettiamo ha chiesto alla sua bella chitarra
Paul Reed Smith: perché non parli?
Quella ha sorriso curiosa, e allora
l’uomo l’ha presa in mano e l’ha fatta
cantare. Fatti d’arte e non di vita, per
fortuna. Ed è proprio per questo che
d’ora in poi Santana sarà il maestro
venerato, venerando e pure invidiato.
In fondo fare della propria vita un’opera d’arte è un saggio precetto baudelairiano. Ma fare della propria arte
un’opera di vita è un sacrosanto principio artigianale e cantastoriale.
P
Il ritorno di Neil Finn,
Re Mida del pop
me a Tim concretizza con Everyone Is Here il cantautorato piacevolmente rétro dei
Finn Brothers. Ma siccome prima o poi la
nostalgia è canaglia, nel 2007 ecco rimaterializzarsi i Crowded House con Time On
Earth: la musica non ha perso un grammo
del luccicante smalto
che fu, le canzoni filano
via che è un piacere e
Neil Finn si riconferma
singer-songwriter di razza. Uno che quando tocca il pop lo trasforma in
oro: come Paul McCartney, che guarda caso è il
suo punto di riferimento.
E arriviamo a Intriguer.
Il che significa reunion
più che consolidata con
Neil che canta, suona la chitarra e il pianoforte facendosi accompagnare da Mark
Hart (chitarra), Nick Seymour (basso) e
Matt Sherrod (batteria). Il nuovo canzoniere, va da sé, vale ampiamente il prezzo del
disco. Le tracce sono dieci, e ce ne fosse
una che zoppica almeno un po’. Macché: si
va dal pop tintinnante di Archer’s Arrows,
increspato dal violino e da un magico intreccio di voci, all’agile e giocoso dipanarsi di Either Side Of The World; dalla fluttuante, eterea e in corner psichedelica Isolation, a Twice IfYou’re Lucky che è la pop
song perfetta, sulla falsariga di Don’t
Dream It’s Over e Weather WithYou; dalla
vellutata dolcezza di Elephants, col retrogusto country della pedal steel guitar e
dell’armonica a bocca, al tris di ballate
(Amsterdam, Falling Dove, Even If) che più
Macca (McCartney) non si può. Neil Finn,
lo avrete capito, non è un rockettaro. E il
rock non è la sua cup of tea. Ma quando lo
tira in ballo (nella muscolare, orecchiabilissima Saturday Sun e nella schietta Inside Out) fa sempre una gran bella figura.
Lui e i Crowded House. E meno male che
sono di nicchia. I modaioli, se ne stiano pure alla larga.
Crowded House, Intriguer, Universal,
19,50 euro
Tesi e antitesi del “Giro di vite” alla Fenice
cclamato dalla stampa nazionale, Il giro di vite allestito dalla Fenice poteva dirsi buono, molto
buono per certi versi, ma nulla
più. Mi spiace trovarmi ancora una volta
in disaccordo coi «confratelli» della critica musicale, eppure i fatti sono andati come adesso tenterò di raccontare. L’opera
di Benjamin Britten - ché, a dispetto dell’anagrafe (venne alla luce nel 1954, in
questo stesso teatro), d’un’opera vera e
propria si tratta, basata com’è sull’eloquenza ed espressività del fattore «canto» - pretende innanzitutto una scansione
verbale nitida dagl’interpreti: il principio
melodico vi è decisamente estratto dalla
parola. Una dizione eloquente sfoggiava
il tenore Marlin Miller, ch’era Peter
Quint, ovvero il suo fantasma, giacché
nel libretto di Myfanwy Piper, diversamente dal racconto originario di Henry
James, gli spettri (oltre a Quint c’è anche
la defunta istitutrice, Miss Jessel) si esprimono a parole né più né meno come i viventi (i bimbi Flora e Miles, la nuova isti-
A
di Jacopo Pellegrini
tutrice, la governante Mrs Grose); anche
per voce e intelligenza Miller si rivelò un
lieto acquisto, lo stile melismatico mediante il quale il cameriere chiama a sé e
incanta il fanciullo, essendo affrontato e
risolto in souplesse. Questi vocalizzi vengono dritti dal repertorio polivocale sacro e profano inglese tra Rinascimento e
Ottocento, madrigali glees catches e
compagnia cantante, laddove invece i sinistri pargoletti (nella mia recita i grandicelli, affidabili, ma non troppo convincenti come interpreti la Tirebuck e McNelly) simulano innocenza intonando gli
schemi elementari e le poche note di filastrocche canzoncine nursery rhymes:
Britten, dopo il parziale precedente di Albert Herring (1947), fertilizza il declamato vocale colla linfa della musica popolare britannica, la quale s’insinua in ogni
anfratto e convive alla perfezione cogli
slanci lirici, le linee ampie «italiane» dell’istitutrice. Nella fattispecie Anita Wat-
son esibiva mezzi di tutto rispetto non
supportati però da tecnica adeguata, ragion per cui non si capiva una parola. Discrete, la Mellor e la Oakes. L’acustica alquanto risonante della Fenice ricostruita
favorisce l’orchestra.Tuttavia, Jeffrey Tate
si guardò bene dal mettere ai tredici esecutori a sua disposizione la sordina e affrontò la partitura da un’angolazione
marcatamente espressiva: un lirismo fervido, ma come filtrato attraverso un fondo pudico tipicamente british, formicola
negli interludi orchestrali, negli inquadramenti paesaggistici, nei momenti gravidi di attesa tensione paura (pedali armonici o bassi ostinati ripresi da antiche
danze, passacaglia o ciaccona). Purtroppo i tredici non furono sempre in grado di
assicurare la necessaria pulizia e nitidezza della trama strumentale, così che qualche effetto risultò sminuito, qualche finezza gualcita. In antitesi con Britten e,
soprattutto, con Tate, lo spettacolo conce-
pito in toto da Pier Luigi Pizzi. Elegante,
si capisce, ma gelido e manierato in quell’eterno svariare di grigi e neri su un ambiente d’impronta razionalista: il terrore
la tragedia incombono sin dall’inizio, e se
non c’è spazio per l’ironia o per l’ansia
montante, ce n’è invece per qualche inopinato vuoto registico o per bizzarri accoppiamenti tra defunti.
MobyDICK
arti
Mostre
na prima considerazione d’opportunità, per evitare conflitti d’interesse privato. Sì, c’è un mio testo,
in catalogo di questa mostra, meglio un mio dialogo con l’artista, a baton
rompu, come direbbero i francesi, scarrucolato giù dalle vette del senso comune. E
difatti, spiritosamente, Guarienti ha pensato d’intitolarlo: Fuori onda. Perché ci siamo fatti sorprendere, da noi stessi, ovviamente, nel buio intelligente e rigoroso del
Bill Viola, nel romano Palazzo delle Esposizioni, mentre proferiamo anche tante
sciocchezzuole divertite, e malignità ben
assestate (io credo) contro le vanità inutili,
davvero vane, altro che vanitas! dell’arte
contemporanea, e liberi commenti, forse
persino un po’ troppo strafottenti. Il resocontato «fuori onda», e Guarienti ci ha rimesso le mani divertite, era nato (e fu accasato, del resto) per un’altra mostra e catalogo, e ora si ritrova qui, per generosa
volontà dell’artista. Anche facendomi un
po’ scricchiolare, perché verificata poi la
portata potente e terremotante di questa
mostra, che si potrebbe definire davvero
«strabiliante», un po’ invero ci si pente: si
meritava ben altra serietà! (meglio l’ironia
della retorica, comunque). Allora, eleganza deontologica, cui non derogo mai, vorrebbe ch’io non scrivessi d’una mostra di
cui mi sono occupato in catalogo. Ma l’occasione della mostra è così eccezionale, e
la mostra così superba, che pazienza, ci si
perdoni l’eccezionale deroga, che permette pure di rettificare il tiro e di declinare
una più consona, degna ammirazione. Anche perché, ci chiediamo, chi in questo
mondo distratto e sbilanciato di valori, della cosiddetta critica, assoggettata al Potere
della Scemenza e alla dittatura della velina-alias-comunicato-stampa, s’accorgerà
d’un risultato così alto e sorprendente? Ecco, tante volte, anche da questo pulpitino,
ci è capitato di sparare contro la croce-rossa, paonazza di vergogna, d’una pletora di
fenomeni di sott’arte, senza più alcuna
qualità. Questa è invece la volta, finalmen-
U
Moda
24 luglio 2010 • pagina 15
L’altra realtà
di Carlo Guarienti
di Marco Vallora
te, di segnalare un’occasione grandiosa e
senza esitazioni di risultati più che nobili,
strabilianti, abbiam detto. Perché il venetissimo Guarienti c’insegna a guardare
(«stra») in modo diverso e rapinoso, anche
terribililmente (per dirla col Vasari), quasi
teppistico: perché poi non ha ovviamente
la vocazione, o la pedanteria del pedagogo
e d’accompagnarci, nel nostro stupore. Di
farci traversare il guado, come il bravo boy
scout fa, tenendo la mano sollecita al vec-
chietto quasi cieco (lo vedete in quale folletto sulfureo e pestifero, alla Klossowski,
s’è trasformato il nostra Artista, saltellando dovunque, nello specchio lastricato dell’aria, lastricato di cattive azioni e dispetti
cromatici, in un’ossessione dell’autoritratto eroso, che è il contrario stesso dell’invadenza narcissica di tanti colleghi contemporanei?). Bafometto invecchiato e satiresco, dalla bocca sciancata in un grido afono, ci getta ripetutamente nel bel mezzo
della calce viva e urticante dei suoi sperimenti leonardeschi, che non muoiono mai,
ma sopravvivono sempre come in coma
cromatico, in un nevischio di perplessità
eventuale. Ci abbandona lì, garrulo, in
mezzo a quel gran combattimento dechirichiano, agonistico e agonico (ma del De
Chirico vero, non quello bollito e findus
delle sputtananti mostre di oggi: mercantili-falsarie), un anchilosato combattimento
di larve, che non han più voglia, come lui,
di recitare l’ipocrita ruolo dei burattini di
parata della pittura realista. Si guardino
quei bellissimi ritratti d’atelier, mattutini o
serotini, di cui parla così bene Alain Tapié:
i rimasugli sfibrati (e sfebbrati) della sua
pittura d’antan, più bretoniana e diligente
ai dettami dell’inconscio. Qui sono sfingi
disoccupate, che come nello Schiaccianoci
di Cajkovskij, ma senza il concorso del superfluo fiabesco etnico, entrano ed escono
dal cavalletto scavalcato, come scimmie
perverse dalla loro gabbia onanista. Conversano perplesse, litigano la loro claustrofobia, si spulciano del loro color carpaccesco: sono sinopie in pensione, slavate, che non hanno smesso di tirar scherzi
burloni al loro artista, che s’aggira nudo,
come in un utero spoglio, inospitale. Sedendosi altero al tavolo slabbrato d’una
Vocazione di San Matteo, che non lo redimerà, ma ove si tracanna la filtrate penombra di Caravaggio, quasi fosse una
boccata d’assenzio, o bussando allo specchio illusorio del cavalletto-crocefisso d’un
Golgota da camera (La visita di Goya), come fosse un labirinto rotto, da luna park
orsonwellesiano della Malinconia manierista (en attendant Goya, Duerer e ovviamente anche il Velazquez delle Meninas,
assistente-arredatore). Magnifica la mess’in scena corale di Alberto Zanmatti a Castelvecchio, ma senza confronti l’effetto
rampicante e sovranamente parassitario
dei finti affreschi-ritrovati, dentro le stanze
familiari di Palazzo Canossa, tra i fantasmi boccheggianti di Bernardino d’India e
del Moro.
Guarienti. Oltre il Reale, Verona, Museo di
Castelvecchio e Palazzo Canossa, fino al
19 settembre, catalogo Silvana Editoriali a
cura di Paola Gribaudo
Prima del sexy lo chic, il ritorno della Bamboo
on ci sono ancora notizie dai negozi Gucci di
Cannes, Capri e Forte dei Marmi (è presto),
ma la New Bamboo bag limited edition (soltanto in blu, soltanto in pitone o pelle cellarius, soltanto dodici pezzi per ogni materiale), in
vendita da dieci giorni, è un oggetto-feticcio per vere collezioniste. A nobilitarla, a dare quella patina di
desiderabile aristocrazia, c’è la mostra itinerante
Bamboo Forever che dopo Berlino,Vienna, Barcellona e Parigi è arrivata felicemente al mare (a Capri, a
Cannes e a Forte dei Marmi fino a domani) per raccontare una storia
favolosa cominciata 64 anni fa.
era
L’originale
una piccola borsa
creata nel 1947 in
pelle di cinghiale,
con il manico in
bambù curvato a
semicerchio, un’idea dettata dalla
necessità: la guerra era appena finita e scarseggiavano le materie prime. Nessuno pen-
N
di Roselina Salemi
sava che, vista al braccio di Ingrid Bergman e Vanessa Redgrave, la Bamboo bag sarebbe diventata un irrinunciabile status symbol per le dive degli anni
Cinquanta e Sessanta. Le trendsetter di allora si
chiamavano Liz Taylor, Liza Minnelli, Audrey Hepburn: prima del sexy, veniva lo chic. Le foto dell’Archivio Gucci sono quasi commoventi. La bella Ingrid
Bergman è a spasso con tata e bimbo, a Napoli, nel
’53. È vestitissima, tailleur longuette, maglioncino
dolcevita, guanti di camoscio e Bamboo bag. Vanessa Redgrave (nella foto) invece è su un
set, occhi ardenti, camicia a quadretti,
gonna sopra il ginocchio, trasgressiva, ma non troppo. Bamboo bag anche per lei. La mostra suggerisce
che dentro quella borsetta c’è una
filosofia, un pensiero, oltre che
un pezzo di storia. E forse è
proprio così. Altrimenti, non
sarebbe nata, questa primavera, la New Bamboo, già
scelta da Carla Bruni,
Evan Rachel Wood (True
Blood) e Ashley Greene, la
vampira Alice di Twilight.
Oltre che nella sua dimensione originale, ne esiste
una versione più grande, con elementi in nichel. Al
manico sono state aggiunte una lunga tracolla, una
catena di metallo e nappine con dettagli di bambù.
C’è in coccodrillo, in pelle, e addirittura in tricot. In
un arcobaleno di colori, dal fucsia al grigio, oltre ai
classicissimi bianco e nero. Per farne una, servono
tredici ore. Costa dai 1300 ai 13 mila euro. Dicono, da
Gucci, che la nostalgia non c’entra. Possibile. C’entra
di sicuro il bisogno disperato di bon ton, di esclusività, di alto artigianato, il bisogno di uscire dall’onda
sexy-trasgressiva, perciò è necessario guardare indietro, verso Ingrid Bergman con i guantini, tanto signora (scarseggiano, le signore). Ma il
passato, come sostiene qualcuno, è una terra
straniera. E anche l’esclusività, a parte le limited edition numerate, che danno grande
soddisfazione a chi se le può permettere e
sono difficilmente taroccabili, è un confine fragile. Chiunque può essere Carla Bruni per un giorno. Su www.myluxury.biz/ è possibile consultare un
ricco catalogo di borse, originali… in
affitto, con prezzi a partire da quindici euro a settimana. Le cacciatrici di status symbol sono
avvisate.
MobyDICK
pagina 16 • 24 luglio 2010
il paginone
Fece di tutto per rimanere
nell’ombra, adoperando vari
pseudonimi per firmare traduzioni
e collaborazioni a riviste e giornali.
In vita ha pubblicato tre soli libri,
ma la sua figura e la sua opera
(che si compone di saggi e poesie)
sono tra le più significative
del nostro Novecento. Ora l’uscita
di un volumetto di lettere
indirizzate a María Zambrano
ci offre l’occasione di ritrovarla…
di Pasquale Di Palmo
er i tipi delle edizioni Archinto esce un raffinato
volumetto che raccoglie
una manciata di lettere
inedite di Cristina Campo: Se
tu fossi qui. Lettere a María
Zambrano 1961-1975 (96 pagine, 14,50 euro). Il libretto, curato da Maria Pertile, propone
una serie di epistole e brevi
messaggi che Cristina Campo
scrisse alla filosofa spagnola,
incontrata presumibilmente a
Roma intorno alla fine degli
anni Cinquanta. In quell’arco
di tempo la scrittrice si legò
sentimentalmente a Elémire
Zolla che, non a caso, intrattenne con la Zambrano, nello stesso arco cronologico, «un’altra,
intensa corrispondenza epistolare, a volte condivisa sulla
stessa pagina di quella di Vittoria-Cristina con María», come
rileva la curatrice.
P
Si rimane colpiti innanzitutto dall’estrema varietà dei
toto, quelle di María, «che s’indovinano stupende nel riflesso
delle stesse lettere campiane»,
come suggerisce ancora la curatrice. Ma, nonostante l’esiguità dei messaggi pervenutici,
è emblematico come il rapporto di stima reciproca e di delicata, fraterna collaborazione
appaia evidente nel tono con il
quale Cristina si rivolge all’amica: «Maria cara, tu mi hai
salvato dalla confusione. Lascia che io ti aiuti nella fatica:
portare i battenti della porta di
Gaza in cima alla montagna (conosco bene ogni pietra, e
posso servirti, con umiltà e con
precisione). Tu mi hai detto: “la
paura è il demonio stesso” e
questo mi ha salvato, in un momento di orrore. Lascia che te
lo dica io, nel momento dell’ansia - non avere paura, cara - e
lascia che io ti aiuti in silenzio,
minutamente».
Alcuni messaggi sono la semplice trascrizione di brani che
Cristina Campo,
mannsthal. Vi sono poi trascrizioni di testi di Borges, Pasternàk,
del poeta mistico
persiano Gialal
al Din Rumi, presumibilmente
tradotto
dalla
stessa autrice. A
questi testi d’occasione bisogna
aggiungere
la
consuetudine di
riferimenti
ai
suoi modelli letterari e religiosi
si limitano a una
serie circoscritta
di situazioni e
nomi privilegiati.
Irrinunciabile è il
richiamo a Simone Weil di cui si
parla nella lettera inviata il 15
agosto
1965:
«Cara, grazie di
Andare controcorrente nell’affermare la suprema
aristocrazia dell’idea in un’epoca in cui tutto scivola
verso il basso. Questo il suo tratto distintivo, sulle
orme di Simone Weil e Hugo von Hofmannsthal
messaggi: brevissimi, essenziali taluni, poco più di un bagliore che rischiara il momento privilegiato della lettura, altri invece più articolati e dettagliati come l’ultima lettera riportata, risalente alla festa di
San Giovanni 1975, in cui si
rievoca la figura del poeta argentino e amico comune Héctor Murena, morto nello stesso
anno e di cui Cristina Campo
aveva tradotto sei liriche, originariamente apparse in un
numero dell’Approdo Letterario del 1961.
Il materiale fin qui rinvenuto è
ben lungi dall’essere completo,
in quanto mancano sicuramente altre lettere di Cristina e, in
anno III - numero 29 - pagina VIII
intrigavano particolarmente
Cristina Campo, magari in occasione di una particolare ricorrenza: nella lettera del Natale 1967 è riportata, manoscritta, la poesia La Tigre Assenza, dedicata alla memoria
degli amati genitori («Ahi che
la Tigre,/ la Tigre Assenza,/ o
amati,/ ha tutto divorato/ di
questo volto rivolto/ a voi! La
bocca sola,/ pura,/ prega ancora/ voi: di pregare ancora/ perché la Tigre,/ la Tigre Assenza,/
o amati,/ non divori la bocca/ e
la preghiera...»), quella del Capodanno 1961 è la semplice riproduzione dattiloscritta della
versione della lirica In verità
più d’uno di Hugo von Hof-
inviare immagini riproducenti
opere d’arte che per Cristina
rivestivano un particolare significato. È il caso delle cartoline, inviate il 3 giugno e il 3 ottobre 1961, del Ponte a Santa
Trinita di Firenze o del ritaglio
di illustrazione, non datato, raffigurante un calice con l’Adorazione dei Magi, accompagnato da questa semplice postilla: «El caliz azul de la Navidad y de los Santos Reyes (por
Maria, su Cristina-Vittoria)».
Come in tutti i carteggi della
Campo (si pensi ad esempio alle Lettere a Mita e a Caro Bul,
pubblicati da Adelphi rispettivamente nel 1999 e nel 2007) i
avermi annunciato l’uscita del
tuo libro - dei tuoi libri - e il tuo
progetto di tradurre Simone.
Sono tra le poche notizie capaci di rallegrarmi, in questo tempo tenebroso». Non è un caso
che sarà proprio l’opera della
pensatrice francese a segnare
in maniera inimitabile il lavoro
della Campo, con quella netta
contrapposizione tra La pesanteur et la grâce, come si intitola una fondamentale raccolta
di saggi weiliana del 1948, che
sembra sottendere alla sua
stessa poetica.
L’uscita di questo volumetto ci
consente di rivisitare la figura
di una singolare autrice che fece di tutto per rimanere nel-
l’ombra, adoperando vari
pseudonimi per firmare traduzioni e collaborazioni a riviste
e giornali (Cristina Campo era
infatti un nom de plume, in
quanto il suo vero nome era
Vittoria Guerrini) e pubblicando in vita soltanto tre libri: la
silloge poetica Passo d’addio
(All’Insegna del Pesce d’Oro,
1956) e le raccolte di saggi Fiaba e mistero (Vallecchi, 1962) e
Il flauto e il tappeto (Rusconi,
1971). Proprio sulla bandella di
quest’ultimo libro appare la
nota che sembra caratterizzare
il suo percorso letterario, mai
disgiunto da una macerazione
spirituale che rasenta un’ascesi di ascendenza quasi monacale: «Cristina Campo è uno
pseudonimo. È cresciuta a Firenze nell’ambiente del padre
compositore. Ha scritto poco e
le piacerebbe avere scritto meno. [...] Oltre alla poesia il suo
maggiore interesse è la liturgia: l’ex romana, la bizantina».
È quanto mai significativo
che, in un’epoca dominata dal
dogmatismo ideologico che
aveva irretito gran parte
dell’intellighenzia italiana, gli
interessi di Cristina si orientassero in direzione pressoché antitetica: la poesia e la liturgia. È
presente infatti, negli scritti di
Cristina, un profondo legame
interdisciplinare che crea accostamenti insospettati fra materie diverse come poesia e traduzione, saggio di taglio erudito e investigazione esegetica.
24 luglio 2010 • pagina 17
In bianca
maglia
d’ortiche
Di Cristina Campo ci
parla con rigore e passione anche Massimo Morasso che ne traccia un
ritratto profondo e partecipe nel libro In bianca
maglia d’ortiche (Marietti, 128 pagine, 14,00). Il
critico ci instrada nella
più adatta comprensione
della poesia della scrittrice, a quel «silenzio in
versi», espresso come
«bellezza a doppia lama»
o come preghiera, e che
fa assumere alla Campo,
come dice Morasso, una
«arcaica funzione sacerdotale, fra nostalgia del
fondamento veritativo e
nostalgia del fondamento liturgico».
(l.f.)
po classico derivata dai suoi innumerevoli lavori di traduzione e dai suoi maestri dichiarati
come Hofmannsthal e la Weil.
Scrive Margherita Pieracci
Harwell che, oltre a essere raffinata esegeta dell’opera della
Campo, fu una delle sue più care amiche: «Per penetrare più a
fondo nel pensiero di Cristina
Campo le due guide più sicure
sono Hugo von Hofmannsthal
e Simone Weil - fino ai tardi anni Sessanta i più costanti phares di questa instancabile, ma
soprattutto selettiva e fedelissima lettrice».
I versi che figurano in questa silloge, composti tra il 1954
e il 1955, con eccezione della
prima poesia datata 1945, risentono degli spunti e delle atmosfere più varie, nel tentativo di rendere «bianche tutte le
mie lettere,/ inaudito il mio
nome, la mia grazia richiusa».
Sembra un inno alla grazia
che si riverbera talora in delicati versi di ascendenza
dickinsoniana, talaltra in enigmatiche asperità di stampo
raccolta di saggi intitolata Spagna di María Zambrano. Entrambi i primi due titoli pubblicati denotano la scarsa propensione dell’autrice a diffondere i propri testi in maniera
indiscriminata, bensì la tendenza a rendere note con parsimonia le proprie pubblicazioni. Non è un caso che, a parte
qualche sparuta segnalazione,
i due libri venissero subito relegati nel dimenticatoio. La
stessa autrice scriveva a Leone
Traverso il 10 ottobre 1962 a
proposito di Fiaba e mistero:
«Ora anche di questo libretto
mi è venuto un enorme desiderio che nessuno si accorga.
Una parola è sufficiente per toglierti tutto il piacere di averlo
scritto, farti sentire as public as
a frog, il che equivale a non
scrivere più».
Il flauto e il tappeto, pubblicato da Rusconi nel 1971, costituisce il terzo e ultimo libro
pubblicato in vita. Si tratta di
una raccolta di saggi (alcuni di
questi ripresi dal volumetto
precedente) in cui l’autrice disquisisce intorno agli argo-
sciti, etica ed estetica. Non è
un caso che la vita stessa della
scrittrice risentisse in maniera
esclusiva di questo connubio
dagli intrecci indissolubili: si
pensi, in tal senso, alle relazioni che Cristina allacciò con il
finissimo traduttore Leone
Traverso e, in seguito, con
quella straordinaria figura di
intellettuale a tutto tondo che
fu Elémire Zolla, o al fascino
che esercitò su di lei il poeta
Mario Luzi.
Dopo la morte le prose della
Campo, che si possono considerare come il punto più alto
della sua opera, furono riproposte e integrate in due volumi
adelphiani, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1998: Gli
imperdonabili e Sotto falso nome. Quest’ultimo volume raccoglie tutti gli scritti che Cristina pubblicò in periodici con diversi pseudonimi, spesso declinati al maschile: da Puccio
Quaratesi a Bernardo Trevisano, da Benedetto P. d’Angelo a
Giusto Cabianca.
La Tigre Assenza, pubblicato
da Adelphi nel 1991 raccoglie
tutta la produzione poetica
della Campo, comprese le traduzioni in versi. Oltre a Passo
d’addio figurano altre due brevi sezioni, intitolate rispettivamente Quadernetto e Poesie
sparse. In tutto si tratta di una
trentina di liriche che, per il
loro potere ipnotico e per la
loro intrinseca bellezza, si
configurano tra le espressioni
più adamantine e compiute
della sua opera.
l’imperdonabile
Risulta perciò un po’ riduttivo
circoscrivere i suoi interessi
variegati nell’ambito di un genere tout court, definito in maniera netta e lineare. Si dovrà
considerare il fatto che qualsiasi occasione può costituire
lo spunto per argomentare sopra un determinato tema: la
nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto, l’eco di una
fiaba rappresentano, come una
madeleine proustiana, il richiamo per modulare variazioni in-
eliotiano: «Ora non resta che
vegliare sola/ col salmista, coi
vecchi di Colono». E non è un
caso che sia Emily Dickinson
sia Eliot furono tra gli autori
prediletti della Campo che li
tradusse da par suo.
Già Leone Traverso, in una recensione apparsa sulla rivista
Letteratura nel 1957, rimarcava sia le fonti plurime d’ispirazione che sottendono alla nascita di certe poesie (con riferimenti, più o meno espliciti, alle
menti più disparati creando insospettabili accostamenti. Il
punto di partenza collima con
il punto di arrivo solo grazie a
un procedimento narrativo che
persegue tale obiettivo attraverso una sequenza di corrispondenze di ardua decifrazione agli occhi del profano. Il
cerchio si chiude in maniera
affascinante ed enigmatica, dopo un continuo peregrinare intorno ai simboli della redenzione e della perdizione. Dall’in-
La nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto,
l’eco di una fiaba rappresentavano per lei, come una
“madeleine” proustiana, il richiamo per modulare
variazioni intorno a una dimensione spirituale
torno a una dimensione spirituale autentica e rigorosa.
Passo d’addio, il suo esordio
poetico che rappresenta anche
l’unico libro di liriche pubblicato in vita, raccoglie soltanto
undici componimenti, dominati da uno stile che si differenzia
notevolmente rispetto ai canoni letterari del tempo, impostati sulle tendenze più contrastanti: da una parte il neorealismo, dall’altra le derive dell’ermetismo, con l’avvento ormai
incombente degli schematismi
imposti dalle neoavanguardie.
La poesia della Campo sembra
invece risentire di uno stile
semplice, quasi frugale, che si
basa su una compostezza di ti-
Mille e una notte, a Lawrence
d’Arabia, a san Paolo), sia l’oscurità di taluni passaggi: «Ci
si incontra in altre liriche a
passi che sembrano a prima vista invalicabili, non per arbitrii
sintattici o lessicali, ma perché
occulto rimane il pozzo
profondo da cui sorgono certe
immagini».
Il secondo titolo della Campo
fu Fiaba e mistero, edito da Vallecchi nel 1962 nella collana
dei «Quaderni di pensiero e di
poesia». Il volumetto, contenente cinque tra i più riusciti
saggi della scrittrice, fu pubblicato in un’edizione numerata
di 600 esemplari. Nella stessa
collana vedrà la luce anche la
treccio di un tappeto persiano
a una «frase glaciale» di Proust, dalle considerazioni sul tema della «sprezzatura» alle
suggestioni del rito gregoriano, la prosa della Campo si delinea come un perfetto emblema araldico miracolosamente
scampato alla distruzione e alla rovina incombenti. Come
Borges, la Campo si interroga
a lungo sui propri ideali e modelli letterari, stabilendo un’opera di interpretazione quanto
mai preziosa, anche se dai tratti atipici.
La letteratura rappresenta per
la Campo una sorta di modello che riesce a coniugare mirabilmente, nei suoi esiti più riu-
Le copertine delle opere
di Cristina Campo
ritratta in diverse immagini
sopra il titolo. A sinistra,
Hugo von Hofmannsthal
e Simone Weil
Bisogna segnalare inoltre gli
ultimi versi, composti negli anni Settanta e ispirati a una religiosità dominata da figure bibliche o attinenti al mondo della liturgia (la Campo, oltre a
condurre una strenua battaglia
a favore dell’opera di monsignor Marcel Lefèvbre per il ripristino della messa in latino,
predilesse il rito bizantino-slavo). In quest’ottica risaltano i
versi di Missa Romana e dell’intenso poemetto intitolato
Diario bizantino.
«Perfezione, bellezza. Che significa? Tra le definizioni, una
è possibile. È un carattere aristocratico, anzi è in sé la suprema aristocrazia. Della natura, della specie, dell’idea»
scriveva la Campo nel saggio
Gli imperdonabili. Gli imperdonabili sono i poeti che vanno controcorrente, che corteggiano lo stile nell’epoca in cui
tutto scivola irrimediabilmente verso il basso, che, come
Pound, scelgono di tacere laddove regna il più assordante
dei vaniloqui. La stessa Cristina Campo si può annoverare
tra quelli che lei stessa aveva
definito «imperdonabili», questi araldi della perfezione che
scelgono l’ombra, il silenzio,
l’anonimato nel periodo in cui
impazzano l’arrivismo più
abietto, la volgarità più truce,
l’esibizione più sfrenata.
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 24 luglio 2010
l titolo è semplicemente Corte
d’Assise, ed è questa, con tutto
quel che ci sta dietro, che Simenon mette sotto accusa. Un
romanzo «giudiziario» che scrisse
nell’agosto del 1937 all’Isola dei
Pescatori, Lago Maggiore. Apparve però solo quattro anni dopo: la
direzione di Paris soir lo rifiutò
giudicandolo immorale. Simenon
anzi frusta corde istituzionali delicatissime perché solenni e totemiche, scuoia quello che a volte agisce e si mostra come un animale
che carica a testa bassa. In questa
operazione ne mostra i difetti genetici, il disequilibrio organico, la
malformazione cerebrale che porta diritto al seguente assioma: «l’imputato è un mascalzone, quindi è colpevole». Altrettanto forte è il colpo che assesta quando afferma che il giudice istruttore, scrupoloso a senso unico, costruisce un fascicolo di
823 pagine con ben 237 testimonianze senza ammettere, o dubitare, di aver eretto una piramide criminale
che risponde a criteri architettonici suoi e non a quelli che dovrebbero ispirarsi all’imparzialità. In quel fascicolo c’è quasi tutto di un giovane uomo, salvo la verità dei fatti. Romanzo scritto in Italia, abbiamo detto.
Forse per questo, Simenon calca la mano sugli italiani,
verso i quali non ha mai dimostrato molta stima. E
questo è francamente irritante. Come infastidiscono,
in tutta la sua opera, certi stereotipati riferimenti ad alcune nazionalità. La prima parte di Corte d’Assise pare abbia l’andamento del feuilleton tirato un po’ come
un elastico. Poi ci si accorge, con la svolta giudiziaria
della trama, che certi particolari sono essenziali. Si
passa da una chansonette delinquenziale a toni dostoevskijani, senza la rinuncia del ritmo brillante e
delle ripetizioni a effetto. Al centro di tutto c’è il ventiquattrenne Louis Bert detto Le petit Louis. Entra in
scena come un bulletto, uno sciupafemmine, uno che
in un clan marsigliese crede d’avere il suo peso. Poveretto: quelli della mala, infinitamente più astuti di lui,
lo giudicano un incapace. In occasione di un «colpo»
riesce ad affascinare Constance Ropiquet che si fa
chiamare contessa d’Orval: è una donna avanti con gli
anni, ma Simenon lascia al lettore immaginare l’esatta sua età. Potrebbe avere circa cinquant’anni. Passa
sempre per una «tardona» per il fatto che diventa subito l’amante di un ventenne. Ospita a casa sua, a Niz-
Georges Simenon
CORTE D’ASSISE
Adelphi, 180 pagine, 18,00 euro
I
Riletture
libri
Il destino
giudiziario
del Petit
Louis
di Pier Mario Fasanotti
za, quel gigolo così bravo ad ammaliare i gonzi, senza
sapere che oltre non è in grado di andare. Fa niente, la
fasulla contessa, agiata ma anche mantenuta da un attempato funzionario, è in estasi, si guarda attorno «per
assicurarsi che Petit Louis non è un sogno».
Vanitosamente desidera che la gente sbirci un po’ più
del solito e sappia che lei è dorme con un giovane. Lo
soffoca con «baci umidicci e interminabili, con il suo
seno pesante», ma gli consente una vita assai diversa
da quella precedente, intrisa di miseria, espedienti e
ambizioni grossolane. Louis è
schifosamente cinico, approfitta
di quel che lei può offrirgli, ossia
vantaggi materiali, e respinge l’ossessiva dolcezza dei sentimenti di
una donna che penosamente sfida
la verità dell’anagrafe.
E poi c’è Nizza con i viali a mare,
il profumo dei fiori, i palazzi dai
colori pastello. Gli sembra di vivere «in una confetteria». Nato nel
Nord, costretto a coabitare con
una madre moralmente distratta e
con l’ex datore di lei diventato suo amante, tale Dutto (altro nome italiano!), laido,
esibizionista, vizioso, Petit
Louis è contento della svolta. Continua nella sua parte
di duro. A Louise Mazzone
(altro cognome italiano!),
che lavora in una casa chiusa e che lui vuole «liberare»,
scrive una lettera in cui elogia ciò che gli regala «una
che ha soldi ma è anche un
po’ spilorcia». Fa il gradasso,
dice che «dovrà metterla in riga». Louise, giovane che
«profuma di verbena», lo raggiunge a Nizza. All’inizio
passa per sua sorella, ma Constance poco dopo scopre
tutto. Non le conviene indignarsi più di tanto. «Cattivo!», lo rimprovera con ambiguità materna, poi accetta il ménage à trois.
Abilissimo Simenon nel tratteggiare la famosa atmosphére, stavolta molto vischiosa. Non viene solo creato un personaggio, ma un intero ambiente, e minuziosamente. E poi il punto di rottura, tema caro a Simenon. Da una certa insofferenza verso «un appartamento saturo di vita indolente» al dramma: Constance
finisce con la gola tagliata. Inizio di errori e di stupide
avidità. Alla fine Louis è arrestato. Nessuna prova per
quanto riguarda l’assassinio (mai si ritroverà il corpo
della donna), ma quel meccanismo «tritatutto» della
magistratura riesuma il suo passato «dal letame» e inventa il suo presente. E non lo fa mai parlare. La giustizia è burla e tirannide. Con un sorriso sornione
guarda i giudici in toga rossa. Senza mai poter spiegare nulla di sé.
Heidegger sotto l’ombrellone? Basta bagnarsi la testa
o so, Essere e tempo di Heidegger non è una
lettura da farsi sotto l’ombrellone. Il pensiero
del filosofo dell’essere è troppo difficile ed esige una concentrazione che la spiaggia non
permette di raggiungere. Ma ne siamo sicuri? Perché
dobbiamo immaginare la lettura di libri di filosofia
come cose estremamente complicate? In fondo, i filosofi cosa fanno se non parlare di noi stessi? Un testo di filosofia non «funziona» come tutti gli altri libri? Come dobbiamo abituarci al linguaggio dello
scrittore e come dobbiamo entrare
nella storia o nello spirito di un romanzo, così non dobbiamo entrare
in sintonia anche con il linguaggio
e il pensiero dei filosofi? Essere e
tempo, dopo tutto, non può essere
letto come un «romanzo»? Magari
un particolare romanzo, quello che
si usa chiamare «romanzo di formazione», ma che è pur sempre un
romanzo, ossia un libro che racconta una storia. E qui la storia che
si racconta è la nostra, perché noi
stessi siamo quell’ente particolare
che è interrogato e che risponde:
L
di Giancristiano Desiderio
l’esser-ci. Le edizioni per leggere Essere e tempo sono varie: la Longanesi ha da poco aggiornato la versione classica della traduzione di Pietro Chiodi,
mentre la Mondadori ha dedicato un Meridiano al libro di Heidegger con un nuovo tentativo di traduzione di Alfredo Marini. Insomma, procurarsi il testo
heideggeriano è una cosa molto semplice perché c’è
l’imbarazzo della scelta. Se poi la cosa vi appassiona vi suggerirei anche di procurarvi alcuni testi che vi possono aiutare nella
lettura o nella comprensione - o anche
il fraintendimento, a volte sono la stessa cosa - del pensiero di Heidegger: potete, ad esempio, cercare un piccolo
classico come Introduzione a
Heidegger di Gianni Vattimo
edito da Laterza, oppure un
testo appena uscito del povero Franco Volpi Heidegger e
Aristotele, ancora per Laterza. Ma la cosa migliore, probabilmente, è quella di affidarsi a due libri di Adriano
Fabris: uno è un’introduzione complessiva al filosofo
di Essere e tempo e s’intitola Heidegger, mentre un
altro è Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, entrambi editi da Carocci. Il secondo libro
di Fabris vi guiderà passo passo nella lettura e nella
comprensione di Essere e tempo. Fabris, infatti, sa
cosa dice ed è oggi probabilmente il maggior conoscitore dell’opera di Heidegger. Tuttavia, tutti questi
consigli e queste cautele non rischiano di allontanare piuttosto che invogliare alla lettura di Essere e
tempo? Che cosa fa Heidegger in questo suo libro?
Ci dà la vita, ossia il nostro essere-nel-mondo, sotto
forma di pensiero scritto. Detto in parole semplici
Heidegger fa questo: mostra come l’uomo (l’esserci)
può entrare in rapporto con tutto ciò che è (gli altri
uomini, gli animali e le cose) perché questo rapporto è già mediato o «aperto» o reso
possibile da una particolare comprensione di ciò che chiamiamo «essere».
Come potremmo dire l’essere se non
fossimo già da sempre coinvolti nell’essere? Il mio Croce lo dice in modo
più chiaro: l’uomo vive nella verità.
Anche sotto l’ombrellone (se ogni tanto si rinfresca la testa).
Accostarsi
a “Essere e tempo”
come
a un romanzo
non è una missione
impossibile
Memorie Incontri
ravvicinati
con Nostro
MobyDICK
milio Cecchi in Ritratti e profili
dedica alcune pagine al Piovano
Arlotto, un vecchio canonico dei
suoi tempi. Il Piovano «camminava dondolando e soffiando, panciuto ed
elefantesco. I beceri per istrada si toccavano nel gomito dicendo, non tanto a voce bassa “quelli son tutti polli” al che egli
replicava stentoreo “e son fagioli”. Sulla
sua tomba il Piovano aveva fatto dettare:
“Questa sepoltura il Piovano Arlotto la fece fare per sé e per chi ci vuole entrare”».
E Cecchi prosegue: «Non è una cinica sfida, un sogghignante invito mortuario, un
salamelecchi di danza macabra; ma come dire che se c’era qualcuno così misero da mancargli perfino dove stendersi
per l’ultimo sonno, il Piovano si sarebbe
tirato un poco più in là e gli avrebbe fatto
posto volentieri».
E
A Pontassieve vicino a Firenze c’era l’osteria del Tomboloni, molto frequentata
da scrittori della città: Bilenchi, Luzi, Bo e
altri. A un cliente normale il Tomboloni
offriva seccamente spaghetti, bistecche e
vino locale; ma se ci andavamo noi, con
amici scrittori, ecco che c’erano le penne
strascicate, il fritto di pollo e coniglio con
funghi e carciofi. Si trovavano dal Tombolini un certo numero di vecchietti al medesimo tavolo che si raccontavano cose
del passato, con un’aria certamente bonaria, ma fervidamente anticlericale. Si
ricordavano ad esempio di un vecchio
amico ateo che giunto vicino alla morte
fu con insistenza pregato dalla moglie di
ricevere il prete. Non ne voleva sapere,
ma alla fine il prete arrivò. Si svolse pressappoco questo colloquio: il prete: «In
Chiesa non ci siete stato mai», il malato:
«È vero non ci sono stato mai»; il prete:
«Avete bestemmiato sempre», il malato:
«Sì, ho molto bestemmiato»; il prete:
«Gliene avete fatte a nostro Signore», il
malato: «Sì, gliene ho fatte ma come
quella che mi sta per far Lui non gliene
ho fatta mai!».
Nella stessa situazione un altro vecchio
amico che rifiutò sul letto di morte di vedere il prete, ma la moglie lo fece entrare
lo stesso. Accanto al moribondo il sacerdote gli sussurrò nell’orecchio: «Dite Giuseppe Gesù e Maria. Dite Gesù Giuseppe
e Maria» e il moribondo a botta: «Tre assi e napoletana a picche!».
Molto vecchio il Vescovo di Arezzo aveva buona frequentazione con i fedeli e
particolarmente con il Prefetto e la moglie che per le feste usavano portargli
una scatola di cioccolatini e una bottiglia
di cognac. Quando fu sul letto di morte il
Vescovo ricevette dal Prefetto una scatola di cioccolatini e gli disse: «Sarebbe stato gradito anche il cognac».
Il grande Vescovo di Livorno contava
su fedeli molto affezionati, malgrado il loro colore preferito politicamente. Quando venne da Roma la scomunica per i comunisti, il Vescovo suggerì ai suoi sacerdoti di non chiedere in confessione a quale partito fosse iscritto il penitente. Di lì a
poco - il Vescovo era già molto anziano gli fu messo accanto un “coadiutore” di
carattere molto duro e spigoloso. Proibì
al Vescovo di presiedere le funzioni in
Duomo, fidando in qualche modo sulla
mente indebolita del Vescovo; lo intimoriva e lo spaventava. Quando il grande Vescovo fu sul letto di morte il coadiutore
decise di portargli i sacramenti in forma
Signore
di Leone Piccioni
24 luglio 2010 • pagina 19
Il proverbiale
anticlericalismo
toscano, un incontro
con Malaparte
sul letto di morte,
Davide Lazzaretti
al Teatro povero
di Monticchiello,
secolarità
e spiritualità
dei Vescovi, Papi e tv...
Brevi notizie
tra sacro e profano
da un carabiniere. Alla
fine dello spettacolo di
Monticchiello si svolse
come sempre un dibattito fra il pubblico. Era
presente un sacerdote
di Pienza, intelligentissimo, spiritoso e di
grande vocazione che
fu ripetutamente invitato a prendere la parola.
Era riluttante, ma alla
fine si alzò e disse: «Lo
vedete, io sono un sacerdote cattolico. Che
volete che vi dica? Posso solo confessare - con
trepidazione - che nella
mia vita in seminario e
in parrocchia ho dubitato una o più volte della prima incarnazione
del Cristo: figuratevi se
posso credere nella seconda!».
Il famoso scrittore
privata. Ma il grande Vescovo, che era ormai in coma, ebbe come un sussulto, si
tirò su dai cuscini e disse imperiosamente: «Al Vescovo che muore i Sacramenti si
portano in forma solenne». E così fu.
Un brav’uomo di Pienza non aveva mai
nascosto il suo ateismo ma tutti gli volevano bene anche per la sua vita di miseria e si fermavano con lui anche i sacerdoti della bella città toscana con i quali
disputava francamente. Ebbe lutti in famiglia, rimase solo e si avviava alla disperazione. E un giorno, uno dei preti che
lo conosceva bene, con grande sorpresa
lo trovò in Chiesa davanti al Crocifisso
che bisbigliava: «Io non ce l’ho con Te,
che hai tanto sofferto, ti hanno picchiato,
ti hanno crocifisso; non ce l’ho con Te, ce
l’ho con tu’ Padre che m’ha ridotto così».
A Monticchiello, vicino a Pienza, si
svolge ogni anno un evento teatrale che
porta a recitare in piazza tutti i cittadini
del posto su nuovi copioni che dovrebbero essere di interesse generale. Anni fa fu
scelto come soggetto della recita un personaggio come Davide Lazzaretti: era un
carrettiere toscano dell’Ottocento e intorno a lui si esercitò un culto, una sorta di
vera religione che lo indicava come il
nuovo Gesù dell’epoca industriale, perché
il Cristo sarebbe stato l’apostolo delle
genti dell’età agricola. Il culto intorno a
lui permane come “Giurisdavismo”. Era
morto durante una manifestazione ucciso
Curzio Malaparte, ormai morente per un tumore, era ricoverato in
una clinica di Roma. Aveva frequentato
la bella zona di Bagni Vignone divenendo
grande amico di un albergatore del luogo
fervente cattolico. La sala d’aspetto della
clinica era piena di politici comunisti e di
personaggi cattolici che si disputavano
l’anima del morente, da una parte comunista, dall’altra credente. Un microfono
convocava via via i visitatori. L’albergatore di Bagni Vignone venne a Roma e si inserì anche lui nella sala d’aspetto prevedendo di dover aspettare tanto tempo: fu
invece chiamato subito con sorpresa di
tutti gli altri. Cercò di dire parole di speranza e di conforto a Malaparte ma lui taceva e si rivolgeva all’amico solo per dirgli: «Ti devo chiedere una cosa: prega per
me, prega per me», e l’altro: «Porca…(e
giù una bestemmia), che vuoi che non
preghi per te, lo faccio, porca… sempre».
Due brevi battutine per chiudere.
Quando la Tv era in bianco e nero l’operatore Giandinoto ebbe l’incarico di riprendere in televisione Papa Pacelli, Pio
XII, ma staccò quasi subito l’occhio dalla
telecamera e disse: «Non mi viene bene:
Santità il bianco spara».
Un altro operatore si recò con Piero
Angela per una ripresa a Papa Montini,
Paolo VI. Inquadrò la telecamera, non si
decideva a girare finché disse rivolto al
Pontefice: «Eccellenza, faccia finta di
pregare». L’occhiata di Paolo VI si può
immaginare.
ALTRE LETTURE
MARX STA ANCORA BENE,
PAROLA DI EDGAR MORIN
di Riccardo Paradisi
entre «il liberalismo realmente
esistente», si dispiega sul mondo e lo affonda in un abisso ecologico, finanziario, politico ed etico, Edgar Morin in Pro e contro Marx
(Erickson, 104 pagine, 10,00 euro) ci
invita a ritrovare il filosofo di Treviri nelle sue intenzioni più feconde
sotto le macerie dei marxismi. Morin si pone contro lo spirito di sistema che uccide il pensiero e sterilizza l’azione utilizzando il pensiero di
Marx per esplorare i meccanismi
che agiscono in ogni sistema dogmatico e chiuso. Meccanismi attivi
anche all’interno del marxismo
stesso. «La concezione antropologica di Marx era unidimensionale: né
l’immaginario né il mito facevano
parte della realtà umana profonda.
L’essere umano era un homo faber
senza complessità, un produttore
prometeico. Sappiamo invece, come
hanno mostrato Montaigne, Pascal,
Shakespeare, Dostoevskij, che homo è sapiens demens - un essere
complesso, multiplo, che porta in sé
il cosmo di sogni e fantasmi».
M
QUANDO LE PAROLE
SONO MINIERE DI ZOLFO
*****
l Dizionario del diavolo (Guanda,
189 pagine, 13,00 euro) ha avuto
una genesi durata più di quarant’anni, durante la quale si è chiamato in vari modi: Dizionario del cinico, Dizionario del demonio, Dizionario del comico. In sostanza si tratta di un lavoro di correzione della
lingua del giornalista Ambrose
Bierce allo scopo di modificarne il
cuore più profondo, di sovvertire il
comune senso delle parole a favore
di un significato paradossale. Bierce
costruisce un testo estremo ed esilarante in cui tutto viene dissacrato
compresa la sacra rivoluzione: «Il
brusco passaggio da una forma all’altra di malgoverno».
I
LA GUERRA PERSA
DALLA SOCIALDEMOCRAZIA
*****
rande sconfitta delle ultime elezioni in Europa, in Germania
nel 2009 come nel Regno Unito nel
2010, la socialdemocrazia ha subito
un ridimensionamento tale da oscurare le sue prospettive politiche. Il
suo declino elettorale, secondo Giuseppe Berta (Eclisse della socialdemocrazia, Il Mulino, 156 pagine,
10,00 euro) è la conseguenza dello
smarrimento dell’istanza di equità
che l’universo socialdemocratico
aveva incarnato nella storia del Novecento, col grande e nobile progetto di correggere l’evoluzione capitalista mediante una forte spinta all’eguaglianza sociale. Un’analisi severa e stringente che rende conto del
disorientamento della sinistra europea d’oggi.
G
pagina 20 • 24 luglio 2010
di Diana Del Monte
l’artista associato designato per
l’edizione 2011, ma anche una novità nel panorama di questa 64esima edizione del Festival di Avignone. Si tratta di Boris Charmatz, coreografo e danzatore di formazione classica,
ma votato a «l’altra danza», che quest’anno è entrato, per la prima volta, in territorio avignonese. Per saggiare il terreno di
questa sua prestigiosa conquista artistica, Charmatz ha portato ad Avignone
due coreografie dall’anima profondamente diversa, quasi opposta: Flip Book,
in scena dal 9 all’11 luglio, e La danseuse
malade, che stasera aprirà il sipario per
l’ultima volta. Entrambi prendono ispirazione da una figura emblematica della
storia della danza, Merce Cunningham
per Flip Book e Tatsumi Hijikata per La
danseuse malade, ed entrambi lavorano
sull’insolito e ignorato ruolo della scrittura all’interno dell’universo del corpo. Flip
Book è stato rappresentato, per la prima
volta lo scorso dicembre al Theatre de la
Ville di Parigi e può essere considerato un
lavoro in itinere, il primo capitolo della
nuova avventura di Charmatz nella storia e nello stile del coreografo statunitense; La danseuse malade, invece, è una coreografia del 2008 riallestita per l’occasione. Un lavoro, quest’ultimo, che si pone a metà tra la danza e il teatro e che
prende avvio dal testo Matériau du dedans, D’envier les veines du chien di
Hijikata; uno scritto surreale, che porta in
sé la corporeità del padre del butoh e che
non è mai stato pubblicato in nessuna lingua europea.
«Ma attenzione alla confusione: noi non
ricostruiamo il butoh a partire da questo
testo allucinante - ha precisato il coreografo - si tratta, piuttosto, di assumere il
pensiero di un immenso artista in modo
tale da lasciarci completamente liberi di
andare verso la nostra personale deriva».
E di butoh, in effetti, non ce n’è; né tradizionale, filologicamente corretto e adatto
a una ricostruzione della scena di Hijikata, né di seconda generazione. Sulla scena un camion, Charmatz e Jeanne Balibar, attrice e cantante francese, intenti a
È
Televisione
Danza
Butoh e rock and roll
ispirano Charmatz
MobyDICK
spettacoli
DVD
VIAGGIO SULLA LUNA
DAL DIVANO DI CASA
ono trascorsi quasi quarant’anni
dal primo sbarco, ma la graziosa
Luna sembra non aver perso un’oncia
di fascino. Meta cult del prossimo futuro per lunatici magnati, il satellite
che suggerì la tintarella alla Mazzini
e indicibili livori alla Bertè continua a
essere inseguito dalla Nasa, che conta di condurre alla scoperta delle meraviglie locali un drappello di passeggeri disposti a scucire cento milioni di
dollari per l’offerta lancio. Per gli
astro-muniti farà da sapido antipasto
La Luna come non l’aveta mai vista,
bel documentario Bbc ricco di immagini inedite. Per i comuni terrestri è
sufficiente il divano in dotazione.
S
PERSONAGGI
SE TRA MICK E KEITH
ROTOLANO LE PIETRE
strionico e trasgressivo sulle sei
corde, tanto quanto con il calamaio. Nonostante l’età avanzata, il
mitico Keith Richards sfoggia ancora sul palco polmoni d’acciaio, ma
soprattutto una memoria tutt’altro
che labile. A tal punto che dopo le
iniziali remore, il chitarrista degli
Stones ha sfornato una striminzita
biografia di sole 550 pagine per l’editore Little Brown. Non fosse che la
dovizia di particolari, su cui la stampa si è tuffata in branco, ha prodotto importanti movimenti tellurici
nei pressi del baricentro basso di sir
Jagger. A tal punto, che molti danno
per imminente il divorzio del secolo.
Altro che mister e misses Trump.
I
diffondere l’epidemia Hijikata attraverso
la loro strada. Diverso, quasi opposto, come lo era d’altronde il suo ispiratore, è,
invece, Flip Book; un lavoro che prende
origine anch’esso dal rapporto con la lettura, tentando di diventare lui stesso una
sorta di libro/palcoscenico fatto di immagini suggerite all’autore dallo scritto di
Cunningham, 50 anni di danza. Una coreografia dai ritmi rapidissimi, «rock and
roll» l’ha definita il coreografo francese,
che si avvicina al genio della danza postmoderna come una forma di museologia
della danza, fatta di corpi in movimento.
Un omaggio al coreografo statunitense
pensato da Charmatz come un lavoro
collettivo - e in questo molto poco cunninghaniano - e interattivo, che, come di-
chiara lo stesso artista, non vuole lasciare spazio a nessuna forma di nostalgia o
rivalità. Dopo Avignone, l’esperienza di
Flip book confluirà in 50 anni di danza, il
nuovo lavoro di Charmatz su Cunningham, in prima a Berlino il 24 e 25 agosto
in occasione del primo anniversario della
morte del coreografo; La danseuse malade, invece, grazie all’interesse suscitato
ad Avignone, sembra pronta a una nuova
giovinezza della scena. Per ora, il suo avvenire già prevede un viaggio nella patria
di uno dei genitori del butoh: «Abbiamo
avuto un grande ritorno da parte degli
specialisti giapponesi di Hijikata per questo spettacolo - ha spiegato Charmatz per questo ci piacerebbe portarlo lì, come
una sorta di orizzonte ultimo».
di Francesco Lo Dico
A caccia di serial killer da Quantico a L.A.
rmai è piena estate, senza retromarce meteorologiche. E
siamo agli sgoccioli, almeno sugli schermi Rai e su quelli di
Mediaset. Francamente nessun rimpianto: l’annata, come si dice con i vini,
non è davvero stata delle migliori. Un
discorso a parte meriterebbe l’informazione: bisogna andarla a cercare, ed è
una fatica perché non è proprio in primo piano. Per chi ama la fiction e non
vuole subire le repliche
stantie delle grandi emittenti, segnalo la resistenza
e una certa - ma non totale - freschezza di Sky. È il
caso di dirlo: per fortuna
c’è Criminal Minds (su Fox
Crime a orari diversi, con
repliche su Fox Crime 1).
Siamo alla quinta stagione. Csi Miami è addirittura
alla settima, Csi alla decima. Insomma un Beautiful
nero che ha diverse versioni, ognuna delle quali con-
O
di Pier Mario Fasanotti
notata dalla città dove si svolge il serial.
Criminal Minds parte da Quantico, città
cult per chi ama i polizieschi. È una
squadra quella che appare in video,
esperta in «analisi comportamentali».
Psicologia e criminologia applicate alla
ricerca di chi compie il male. Campeggia l’attore Joe Mantenga, ma anche gli
altri sono bravi e credibili. Il gruppo di
psico-detective è suddiviso per caratteri personali. Immancabile la donna che
fa ricerche al computer e dialoga con
chi va sulla scena dei reati. Stereotipata, televisivamente clonata: non bella,
grassoccia, occhialuta, efficientissima,
amicona dei colleghi, battuta pronta,
ironia e autostima. Poi c’è l’immancabile «primo della classe». In questo caso
il giovane e plurilaureato
Spencer Reed: apparentemente pedante, con le tasche mentali piene di citazioni e di fardelli statistici,
in realtà un buon giovane
con comuni debolezze. Lasciata la base, la squadra
trova una polizia locale un
po’ grezza, e soprattutto diffidente verso i «cervelloni».
Il tutto poi si appiana. Così
anche in uno degli ultimi
episodi intitolato Il principe
delle tenebre (potevano ave-
re più fantasia, in effetti). Costui ammazza e stupra da 26 anni, spostandosi
in vari Stati americani, ma avendo come baricentro Los Angeles. È l’uomo
nero, che si muove nel buio. Brutale,
ignorante (lascia messaggi sgrammaticati), fuma in continuazione (c’è sempre un perché nei copioni, ideati da Jeff
Davis). Gli analisti si muovono quando
trovano connessioni criminali, mai per
un singolo episodio. Sono esperti di serialità. Il Ba-Bau della città degli angeli
approfitta dei black-out dovuti al caldo
torrido e quindi al sovraccarico elettrico. Uccide chi trova nelle sue «invasioni domestiche» e lascia sempre un testimone. Gli esperti con la pistola spiegano ai policemen locali che questo ha a
che vedere con la volontà di ottenere
«potere e controllo». La squadra di
Quantico lavora su un puzzle e a furia
di confrontare dati e dettagli si mette
sulla pista giusta. Non rivelo l’epilogo,
che sarà in un’altra puntata. Certo è che
Criminal Minds ha i presupposti per diventare uno o più film.
MobyDICK
poesia
24 luglio 2010 • pagina 21
Nel regno illimitato
di Apollinaire
di Francesco Napoli
i conoscevano bene. Avevano condiviso gli slanci culturali di una Parigi inizi del Novecento, per
ambedue estremamente decisiva nella formazione e una donna amata: Giuseppe Ungaretti e
Guillaume Apollinaire. Quando nel dicembre del 1918
il grande poeta italiano ritorna dal fronte francese del
conflitto nella capitale parigina ha sottobraccio una
scatola di sigari toscani promessi all’amico. Entra nella città in fermento contro la Germania del kaiser e urlante A mort Guillaume e ha come un presagio, «l’equivoco del grido era atrocissimo». Corre verso SaintGermain des Prés col cuore in gola, sale le scale e viene accolto dalle donne dell’intellettuale francese, la
madre e la moglie. Gli cade il pacchetto dei sigari dalle mani mentre di sottofondo gridavano sempre a
morte Guillaume. «Apollinaire era morto. Non era
morta la sua poesia».
S
Guillaume Albert Wladimir Alexandre Apollinaire
nasce a Roma il 26 agosto 1880, figlio naturale di Angelica de Kostrowitzky, polacca d’origine, e del napoletano Francesco Flugi d’Aspermont. Giovanissimo si
trasferisce in Francia dove
procede negli studi e nel 1899
va a stabilirsi a Parigi. Ha bisogno di guadagnarsi da vivere e lo fa con la penna, pubblicando nel 1901 il romanzo
erotico Mirely ou le petit trou
pas cher. Trova una migliore
sistemazione in Germania, al
seguito dei visconti Milhau
come precettore della figlia.
Lì s’innamora della governante della bambina, ma dura poco. Nel 1902 avverte il richiamo culturale di Parigi e
vi fa ritorno. Lavora in banca
di giorno e la sera frequenta
scrittori e artisti: Picasso (che
gli regalerà una tela per le
nozze), Max Jacob, Vlaminck, Jarry e avvia un’intensa attività culturale collaborando a giornali e riviste. Il nom de plume Guillaume
Apollinaire compare per la prima volta sulla Revue
Blanche sottoscritta alla novella fantastica L’Hérésiarque. Dopo aver curato una edizione delle opere di De
il club
di calliope
L’ADDIO
Ho colto questo briciolo d’erica
L’autunno è morto ricordalo
Non ci vedremo più su questa terra
Odor del tempo filo di brughiera
E io t’aspetto ricordati
Sade e pubblicato in prosa, nel 1911 compaiono i suoi primi versi del Bestiaire ou
Cortège d’Orphée. In seguito ad alcuni furti avvenuti al Louvre, e tra le tele sottratte
perfino la mitica Gioconda, viene clamorosamente arrestato nel 1913 con l’accusa di
ricettazione, ma ne esce assolto. Dopo aver
pubblicato Alcools (1913) cresce la sua fama anche in Italia e prima sulla Lacerba
(1914) e poi sulla Voce (1915), con il poemetto A l’Italie, compaiono suoi versi. Fa
appena in tempo a vedere pubblicati i suoi celebri Calligrammes (1918) e il 9 novembre di quell’anno, colto
da un attacco di influenza spagnola, muore a Parigi.
Apollinaire non è stato certo un teorico o un trascinatore come Marinetti e neppure un capo scuola come
Andrè Breton; di Valery non ha avuto l’altezza di commisurarsi e interrogarsi sul significato e sulle condizioni della sua produzione poetica; la sua opera non
ha avuto la forza d’attrazione, o di repulsione, come
quella di Mallarmé pur tuttavia non è un solitario degli
inizi del Novecento, tutt’altro.
È ammirato, ispira tanto musicisti, come Poulenc, e le sue
opere vengono illustrate da
Braque, Matisse e Dalì. Sembra quasi che la sua poesia
non abbia frontiere delineate:
poche sono le tendenze che,
durante la sua attività, non
abbia sperimentato a dovere,
e altrettanto poche sono anche quelle che, dopo la sua
morte, in un modo o nell’altro, non abbiano fatto i conti
con la sua opera poetica.
A quei critici che avevano
trovano «tristi» le poesie di
Alcools lo stesso Apollinaire
rispondeva che quella raccolta rappresenta in verità «la
vita stessa, con una costante
e cosciente volontà di vivere, di
conoscere, di vedere, di sapere e di esprimere». Certo,
la dolorosa malinconia del «malamato» e un diffuso
sentimento di fuga dalla vita e della vanità delle cose
vi sussistono. Eppure con un guizzo d’ironia neppure
Guillaume Apollinaire
da Alcool
velata o una parola audace Apollinaire riesce a neutralizzare un sentimento del tempo che non poteva
non essere amaro visto quanto attorno succedeva. Un
sentimento del tempo che si sviluppa e si precisa nei
Calligrammes, raccolta che principia nell’allegria della creazione di un verso totalmente libero da ogni ingabbiatura formale e capace di «dipingere» una tela
sul foglio bianco e termina con La jolie rousse, ambiziosa affermazione di poetica e commovente confessione di umiltà. In questa raccolta, al pari della prima
ungarettiana dell’Allegria, la guerra vi compare come
un’esperienza e una spettacolo senza precedenti, una
prova di una crudeltà inumana alla quale fa da contraltare un’esaltazione del sentimento dell’esistenza e
dell’amore. Il linguaggio militare, tecnico o gergale
che sia, le esagerazioni della retorica patriottica - tenendo comunque presente che Apollinaire resta molo
più misurato della maggior parte dei suoi colleghi - le
violenze e le tenerezze della solitudine amorosa, gli
accenti quasi messianici si alternano a una riscoperta
fascinosa dell’ottosillabo tradizionale.
Andare a scoprire queste pagine per riconoscere
una sintonia govoniana non significa però non intravedere l’estrema libertà sempre osservata da Apollinaire, in grado ancora di sfruttare la tradizione metrica e di disporre un calligramma in ottosillabi rimati
come La colombe poignardée et le jet d’eau. Il poeta
pratica con assoluta coscienza e sicurezza la poesia figurata, il cui disegno corrisponde al senso, mette insieme anche più figure per comporre un testo (Paysage),
si misura con una ambiziosa costruzione astratta come Lettre-océan, si abbandona in Case d’armons a un
gioco tipografico che soltanto in apparenza assomiglia alle parole in libertà futuriste, ma Apollinaire appartiene certamente, come il giovane Hugo delle Odes
o Claudel, alla schiera dei poeti per i quali il regno della poesia è illimitato.
I FLUSSI DELLA VITA E LA STRETTA DEL TEMPO
in libreria
di Loretto Rafanelli
Così ritornano e sentono
un lungo bacio senza luce, un mutismo
che non trova il battito del sangue.
Escono da quella stanza
nello spavento delle strade
con un volto invisibile e uno straziato,
nessuna impronta li segnala e allora tornano
in questo bar di Affori, dove li aspetto
con un piede nel vuoto.
Milo De Angelis
i Fabio Scotto, è bene rendere conto non solo del suo
straordinario impegno come traduttore, specie di Yves
Bonnefoy, di cui esce a giorni il Meridiano da lui curato,
ma pure della sua scrittura poetica, di cui l’ultima raccolta Bocca segreta (Passigli, 130 pagine, 14,50 euro), ne è una ulteriore
felice prova. Già l’inizio del volume ci consegna tre eccellenti
poesie dedicate alla morte del padre, versi profondi e dolenti di
rara intensità. Scotto è un poeta che attraversa i luoghi, le persone, i loro stati d’animo con attenzione e candore raccontando con dovizia di particolari i flussi della vita, nella stretta di un
tempo che «cola come una febbre densa/ sui campi arsi dal gelo». Scotto è un poeta «generoso» che vuole molto dire e riferire delle gioie e dei dolori degli uomini, e sente quasi come un
dovere la necessità di guardare nel quadrante del mondo, senza sfinimenti interiori. Egli, con la dovuta riflessione, e un chiaro linguaggio, si spinge verso i più oscuri meandri della vita,
perché solo attraverso questo slancio si può ricavare la cifra ultima dell’umanità («se non vivi non muori»).
D
MobyDICK
Essere&Tempo
pagina 22 • 24 luglio 2010
ai confini della realtà
Leonardo
Da Vinci
sul lettino
di Freud
di Leonardo Tondo
er molti il Rinascimeno italiano
rappresenta il momento in cui
l’individuo emerge dalla massa
e si esprime con tutta la sua
forza creativa. Leonardo di ser Piero
da Vinci percorse sessantasette anni
di quell’esplosivo periodo storico e
più di tutti ne incarnò il senso. Il suo
eclettismo lo portò a sviluppare ricerche nell’ingegneria e nell’anatomia,
ma anche a contribuire da protagonista alla storia dell’arte. Passano quattro secoli e l’artista diventa il protagonista di un piccolo saggio di Freud,
attratto dai suoi labirinti psicologici.
Che il personaggio potesse stimolare
l’attenzione investigativa dello psicanalista non è difficile da capire.
P
Enigmatico dall’inizio alla fine, a
partire dal suo originale modo di scrivere leggibile soltanto allo specchio,
per arrivare alla rappresentazione di
Monna Lisa la cui identità è ancora in
discussione, così come quella di uno
degli apostoli dell’Ultima cena che ha
ispirato
Dan
Brown nel suo
fortunatissimo
Codice da Vinci.
Eppure l’interesse psicanalitico
va verso un dettaglio artisticobiografico che
porta alla scrittura di Un ricordo d’infanzia di
Leonardo da Vinci (Skira, 144 pagine, 15,00 euro). Oltre al centenario
della sua prima pubblicazione, alle
ragioni della ristampa non sarebbe
estranea la modernità sia dell’artista
(vegetariano e pacifista, tanto per dire) sia dello stesso saggio che esplora
l’intricato e intrigante rapporto fra
psicanalisi e arte. Lo scritto parte dall’indagine
sull’attività
sessuale dell’artista scartandone frettolosamente
una componente omosessuale agita (ma limitata
agli aspetti più emotivi) e
sostenendo che in generale non fosse «di alto
grado». Anzi, il suo atteggiamento sarebbe stato
molto controllato e indifferente a spinte passionali positive o negative che
Il San Giovanni
Battista
di Leonardo
Da Vinci.
Sotto, il suo
autoritratto
e una foto
di Sigmund Freud.
In basso,
particolare
del foglio 186 v dal
“Codice Atlantico”
di Leonardo:
nelle prime
tre righe in alto
Leonardo ricorda
l’episodio infantile
del nibbio.
In basso, a destra
la copertina
del volumetto
edito da Skira
fossero. Questa interpretazione dà la
possibilità di sviluppare il concetto di
sublimazione, «il potere di sostituire
al suo scopo immediato altri scopi che
possono essere maggiormente stimati
e che non sono sessuali», in altre pa-
sul volo del nibbio, ricerca probabilmente influenzata da quella sua prima ricordatione in cui gli pareva di
essere in una culla e che un nibbio
«venissi a me e mi aprissi la bocha
colla sua coda e molte volte mi per-
Un ricordo d’infanzia annotato
su una pagina dedicata al volo
del nibbio fornisce allo psicanalista
viennese l’occasione per spiegare
l’omosessualità non agita
dell’artista. Con molte notazioni
convenzionali e puritane per non
offendere la morale del tempo
role quel meccanismo di difesa dell’Io
per cui l’individuo insensibile o bloccato converte le sue passioni sessuali
in attività socialmente utili nella ricerca o in campo artistico. Leonardo
ebbe successo nei due rami, il primo
probabilmente per esprimere la sua
razionalità e il secondo le sue emozioni; pur rimanendone
insoddisfatto fino al
momento della sua
morte («mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio… non avendo
operato nell’arte come
si conveniva»). Il ricordo d’infanzia a cui
Freud fa riferimento
riguarda una rara annotazione personale
in un brano scientifico
chotessi con tal coda dentro alle labbra». A un secolo di distanza dalla
scrittura del saggio ed educati ormai
ai sospetti psicanalitici, anche uno
studente di liceo che ignora la grammatica, vede nella ricordatione leonardesca riferimenti chiaramente sessuali, ma al tempo di Freud non era
ancora apparso sulla
scena un suo alter ego
che gli avesse spianato la strada. Non solo.
Il pudore dell’inizio
del Novecento viennese (peraltro caratterizzato da eccessi libertini ben nascosti) non
permetteva di parlare
di piedi, figuriamoci di
fellatio, tanto che
Freud ritiene utile
spiegare in dettaglio di cosa si tratti
per poi scusarsi con il lettore sperando che «si domini e non permetta a un
impeto di sdegno di impedirgli di seguire ulteriormente la psicanalisi solo
perché conduce a un’imperdonabile
calunnia alla memoria di un uomo
grande e puro». Preoccupazioni che a
un secolo di distanza fanno sorridere
e che potrebbero addirittura invogliare la lettura se non fosse che l’argomento è ormai venuto a noia.
Tra le pieghe del saggio si mette in
evidenza il cambiamento di percezione della sessualità quando Freud si
dilunga su quella che lui chiama una
«disgustosa perversione sessuale»
che si «ritrova con notevole frequenza tra le donne di oggi» (inimmaginabile riportare che avvenisse anche tra
uomini) e che «nella condizione di
trasporto amoroso sembra perdere il
suo aspetto ributtante». Per meravigliarsi che «le donne non abbiano difficoltà a produrre spontaneamente
questo genere di fantasie di desiderio». Le affermazioni sono convenzionali e puritane (e Freud certamente non era né l’uno nell’altro), ma è
evidente la sua preoccupazione che
una maggiore concessione all’argomento non sarebbe stata accettata
mettendo a rischio il suo impianto interpretativo. Così, se da una parte
parla di fantasia disgustosa, dall’altra
afferma che la morale del tempo condannava con tanta severità nient’altro che la rappresentazione della suzione di un capezzolo.Tesi suggestiva
ma discutibilissima visto che la maggior parte degli uomini va direttamente all’origine e molte donne non
lo ritengano assolutamente necessario (a meno che non sia in gioco una
carriera) nella gamma delle possibili
effusioni sessuali.
Per tornare a Leonardo sul lettino
di Freud, la fantasia del nibbio aiuta lo
psicanalista a fare outing dell’artista e
a spiegare che la
sua omosessualità fosse legata
alla ricerca della
madre attraverso
la considerazione che il nibbio
era creduto nell’antichità egizia
(conosciuta
a
Leonardo) essere
soltanto di genere femminile. Da
qui Freud costruisce una teoria dell’orientamento
omosessuale del genio rinascimentale
come un attaccamento erotico verso
la madre nei primi anni di vita a cui rimane fedele per tutta l’esistenza, una
figura che lo riempie di attenzioni e di
sorrisi, che dà al figlio le carezze e le
attenzioni che lei stessa non ha ricevuto (il padre di Leonardo la confinò in una sua
proprietà appena nato il
figlio). Quegli stessi sorrisi di Sant’Anna e la Madonna che nel celebre
quadro del Louvre guardano il Bambino ma che
diventeranno la cifra misteriosa e inquietante di
molti altri soggetti, da
Monna Lisa, a Bacco e a
San Giovanni Battista.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
e di
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Presenza di fibre di amianto aereo
disperse in provincia di Messina
È inammissibile che in zone balneari, ad alta densità abitativa, siano presenti unità abitative e non, nelle quali è stata accertata la presenza di amianto. Le persone che vivono
nelle vicinanze, soprattutto bambini e anziani, in questo momento stanno inalando queste polveri estremamente pericolose e dannose per la salute. Episodi come questi si verificano quasi ogni giorno in località diverse della Penisola. Una recente indagine, avviata dall’Università cattolica del Sacro Cuore, ha accertato il pericolo d’inquinamento
da fibre di amianto aereo-disperse, e conferma che questa esposizione darebbe inizio
ad una cancerogenesi (mesotelioma pleurico) che potrebbe impiegare fino a venti anni
per manifestarsi, ma dalla quale, dopo la diagnosi clinica dell’affezione, ne risulterebbe
una sopravvivenza di circa un anno. La cosa che lascia perplessi è che gli organi preposti a controllare e a risolvere situazioni estreme con queste problematiche, sono spesso sordi e insensibili da moltissimi anni e zone altamente degradate, come quella di Acquitta, ne sono un esempio lampante.
Domenico Scilipoti e Giuseppe Cuschera
NEGATI I FONDI REGIONALI
ALLE SCUOLE PARITARIE
Malgrado le continue e ripetute promesse in tema di scuole paritarie e di riconoscimento della libertà educativa, promesse ribadite anche in recenti convegni che
hanno visto d’accordo esponenti di primo piano del governo, delle istituzioni e
delle diverse forze politiche, la situazione delle scuole paritarie viene ignorata e
spesso danneggiata. Questo nonostante
la legge 62 del 2000 affermi che le scuole
paritarie sono pubbliche e i ragazzi che
le frequentano hanno gli stessi diritti e
doveri di quelli che frequentano le scuole statali. Molti uffici scolastici regionali
da tempo lamentavano il fatto che i fondi destinati alle scuole paritarie dalla
legge finanziaria per il 2010 non sono
ancora stati assegnati. Adesso Campania
e Lazio hanno diramato circolari in cui
spiegano che non essendoci soldi non
verranno erogati i previsti e dovuti finanziamenti alle scuole paritarie. Ci teniamo
a specificare che si tratta di diritti acquisiti. È il momento di dire basta alla continua presa in giro nei confronti delle
scuole paritarie, e di chiedere a questo
governo serietà e coerenza dal momento
che promette e annuncia, ma nei fatti
non solo non fa nulla ma procede con tagli indiscriminati ai danni delle famiglie
e dell’intero sistema scolastico italiano. Il
ministro Gelmini che intende fare, al di
là delle risposte generiche date in aula
con le quali non è stato risolto il problema dei fondi regionali, dichiarazioni di
principio che non affrontano le attese
concrete di scuole e famiglie?”.
L.C.
PRESIDENZA CONSOB ANCORA VACANTE:
SERVE A QUALCUNO?
Abbiamo già auspicato che la fine dell’era Cardia alla Consob coincidesse con
un periodo di maggiore trasparenza e attenzione alle esigenze degli investitori.
Purtroppo, iniziamo male. L’autorità di
vigilanza sui mercati finanziari non ha
ancora un presidente e sembra che al governo non importi granché essendo in
tutt’altre faccende affaccendato... Che
fosse necessario un successore dell’ex
presidente prof. Lamberto Cardia era cosa nota da tempo. A volerla dire tutta, è
solo grazie ad una interpretazione cervellotica della legge che Cardia è potuto
stare in carica alla Consob ben oltre i 10
anni previsti dalla legge. Negli ultimi
mesi dell’era Cardia, la Consob ha iniziato ad essere particolarmente attiva sul
fronte dei provvedimenti a tutela degli
investitori, cosa che non era accaduta in
tutti i 12 anni precedenti nei quali Cardia
è stato in Consob. Ci domandiamo se
questo periodo di presidenza vacante
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Questo numero è stato chiuso
in redazione alle ore 19.30
Nella morsa dell’onda
Sommerso da una nube di spruzzi c’è Yuri Farrant, il surfista
che ha cavalcato questo “mostro” marino. Siamo sull’isola di Maui,
alle Hawaii, dove una particolare conformazione del reef oceanico
consente la formazione di cavalloni da capogiro: alti anche 21 metri
LE VERITÀ NASCOSTE
Il Taj Mahal,
la passione
di Beckham
LONDRA. Poniamo che David Beckham non avesse uno dei piedi destri
più deliziosi degli ultimi quindici anni,
un piedino fatato che lo ha portato a
giocare nel Manchester United, nel
Real Madrid, nel Milan e nella nazionale inglese: che lavoro avrebbe fatto?
Il modello di intimo? L’attore di commedie rosa hollywoodiane? No: si sarebbe dedicato a costruire con il Lego.
Durante un’intervista, gli è stato chiesto: «Se non fossi diventato un calciatore, che carriera avresti scelto?». E
lui ha risposto: «Adoro disegnare fumetti e adoro i Lego. So che potrebbe
suonare strano, ma quando ero a Milano avevo molto tempo libero [causa
infortuni, ndr] e ho scoperto che in
Rete era possibile acquistare un set
del Taj Mahal e così l’ho comprato.
Non sono ancora riuscito a finirlo, a
dire il vero. Lo so che non è un lavoro,
ma mi piace tantissimo e piace anche
miei figli». Il set del Taj Mahal è la versione a cubetti del famoso mausoleo
indiano, un modello gigante da ben
5922 pezzi - e da 320 euro, ma per
Beckham questo non è un grosso problema. È bastato che Beckham citasse
i Lego per scatenare una conseguenza
sorprendente: nel giro di un giorno le
vendite della scatola del Taj Mahal sono salite del 663%.
non sia utile per rallentare qualche provvedimento in corso in modo da poter
contestare, successivamente, lo scadere
di qualche termine. Come ricordava Andreotti “a pensar male si fa peccato, ma
spesso ci si azzecca”. Vedremo quanto
tempo aspetteremo per avere una Consob nella pienezza dei suoi poteri.
Alessandro Pedone
RU486. LE MINACCE DEL GOVERNO
ALLE REGIONI: ABUSO DI POTERE?
Le linee guida per la pillola abortiva suonano come una chiara minaccia ritorsiva
alle Regioni, tale da configurarsi come
abuso di potere. Il sottosegretario al ministero della Salute, Eugenia Roccella, segnala che «chi dovesse applicare protocolli clinici che ammettono le dimissioni volontarie della donna dopo l’assunzione
della prima pillola vanno incontro a irregolarità» tali da «determinare dei problemi sul piano del rimborso della prestazione da parte del servizio pubblico». E come
si dovrebbe fare per non accettare le dimissioni volontarie che una donna, in caso, farebbe assumendosi le proprie responsabilità? Forse la sottosegretaria
Roccella sta chiedendo alle Regioni di fare “trattamenti sanitari obbligatori”, contenzioni nei letti, opera di persuasione occulta nei confronti delle donne per trattenerle (inutilmente dal punto di vista sanitario) ricoverate in ospedale? Tutto questo
in barba all’autonomia delle Regioni in
materia di organizzazione sanitaria. È evidente che la minaccia del governo è per
dissuadere Regioni, Asl e singoli ospedali
a promuovere uso e diffusione di questo
metodo abortivo. Infatti, chi, contro la degenza di meno di 24 ore per un aborto chirurgico, che è quella piu’ diffusa, promuoverebbe una degenza di 72 ore?
Donatella Poretti
pagina 24 • 24 luglio 2010
reportage
Il Paese dei cedri si avvia verso la formazione (nebulosa) della sua Terza Repubblica
Viaggio al centro
di Hezbollah
Tra milizia e fazione, il Partito di Dio
combatte da anni per un Libano libero
dalla Siria e multi-confessionale. Guidato
dall’unico leader islamico che abbia
sconfitto Israele sul campo
di Lorenzo Biondi
nelle regioni di confine - ad est,
come nella Galilea contesa con
Israele - che Hezbollah ha le sue
roccaforti. Elettorali e non solo.
Ne stiamo raggiungendo una: la valle
della Beqaa. Da lì la Siria è lontana solo pochi chilometri. L’ultima epoca della
politica libanese è iniziata cinque anni
fa, quando l’esercito siriano tornò oltre
la frontiera. La Beqaa fu l’ultima tappa
sulla via di Damasco. Forse la Seconda
Repubblica libanese è finita allora. Era
iniziata nel 1990: gli occupanti siriani
avevano messo fine alla sanguinosa
guerra civile tra cristiani e musulmani,
una sorta di guerra a distanza tra Israele e i Paesi arabi. Nel 2004 il parlamento emenda la costituzione per permettere al presidente Émile Lahoud, cristiano
e filo-siriano, di rimanere in carica oltre
la scadenza del mandato. Il premier Rafik Hariri, musulmano sunnita, si dimette in segno di protesta. Pochi mesi dopo,
nel febbraio 2005, Hariri muore in un attentato su cui ancora non si è fatta luce.
Beirut diventa il teatro di continue manifestazioni di piazza: è la Rivoluzione
dei Cedri - con sunniti, drusi e la maggioranza dei cristiani uniti nel chiedere
il ritiro della Siria. Dall’altra parte gli
sciiti di Hezbollah vogliono che le truppe siriane rimangano, per continuare la
Resistenza contro Israele. Il Partito di
Dio raduna mezzo milione di persone in
piazza, gli anti-siriani raddoppiano la
cifra. Numeri da capogiro, per un Paese
di quattro milioni di abitanti. Gli amici
libanesi ci chiedono sorridendo: «Quanta gente riesce a portare in piazza Berlusconi?». È la primavera del 2005 quando la Siria accetta di ritirarsi. Non ci
vorrà molto prima che scoppi la nuova
guerra: Hezbollah intensifica le sue
azioni sul confine e le truppe di Tel Aviv
invadono il sud del Libano.
È
Siamo in viaggio in macchina, in mezzo ai monti. Le nostre guide, due sacerdoti della Chiesa maronita, ci indicano
tratti di asfalto dal colore più scuro. È
dove nel 2006 sono cadute le bombe degli israeliani. A guardarsi intorno però,
si fa fatica ad immaginare cosa abbia
reso una tale landa desolata teatro di
scontri durante ciascuna delle ultime
guerre. Quest’altopiano desertico i liba-
nesi lo chiamano semplicemente «la
montagna», o «monte Libano». A perdita d’occhio si vedono solo sassi e sterpaglie. L’unica presenza umana è quella di
tre pastori - il più grande di loro avrà al
massimo dieci anni - che pascolano il
gregge. La ragione degli scontri è nascosta alla vista, alle nostre spalle. Beirut è lontana poche decine di chilometri: da qui si bombarda la capitale. I posti di blocco che incontriamo frequentemente, allora, sorprendono di meno.
Superiamo il valico e la Beqaa appare
ai nostri piedi. Verde e giallo, un mosaico di campi rigogliosi; già ai tempi di
Roma era uno dei «granai dell’impero».
All’ingresso di ogni villaggio della valle,
gli avventori vengono accolte da archi
di metallo con scritte in arabo: inneggiano alla Resistenza e a Sayyid Hassan
Nasrallah, il quarantenne leader di Hezbollah. Pur avendo “perso”le elezioni del
2009, con più del dieci per cento dei voti il movimento è la terza forza del Parlamento libanese. È l’unico gruppo a
possedere armi, oltre all’esercito regolare. Si dice che da questi valichi, di tanto
in tanto, arrivino ancora spedizioni di
fucili e persino di missili, che la Siria offre ai suoi alleati. Tutti in Libano, che
siano d’accordo con Hezbollah o meno,
riconoscono che la guerra del 2006 è
stata vinta dal Partito di Dio. Israele è
stato costretto ad una ritirata ingloriosa,
dopo perdite sanguinose. Milizia e partito, l’ambiguità di Hezbollah è al centro
di critiche continue. Sta di fatto che il
movimento è cambiato radicalmente, in
tempi recenti. Non più di dieci anni fa
un giornalista occidentale che volesse
incontrare Hezbollah doveva passare
per procedure da servizio segreto: si veniva perquisiti, poi bendati e portati in
giro in macchina per ore, fino a perdere
il senso dell’orientamento. Il nostro incontro ha tutt’altra storia. L’appuntamento non è in qualche località sperduta della Beqaa ma in uno dei palazzi del
Parlamento, sulla piazza più centrale di
Beirut. I soldati all’ingresso ci aspettano, ci fanno passare con un cenno della
mano. Nawaf Al-Mousawi è tra i parlamentari più in vista del partito, già responsabile per le questioni internazionali. Rilascia un’intervista al mensile
24 luglio 2010 • pagina 25
glie nella meravigliosa villa di famiglia,
sulle colline sopra Beirut. Le forze armate sono ben visibili in tutto il Libano,
ma questa villa è territorio militarizzato: i Gemayel hanno subito troppe perdite per permettersi leggerezze. La Falange è una voce critica nella coalizione
di Hariri e nel governo di unità nazionale: cauti sulla «normalizzazione» dei
rapporti con la Siria, intransigenti sulla
questione dei diritti dei palestinesi. Anche per questo sono scettici nei confronti della formula del «consenso», che impone l’accordo tra tutte le componenti
religiose del Paese. All’unità nazionale
preferirebbero gli scontri della dialettica maggioranza-opposizione.
cattolico 30Giorni, sul tema della convivenza tra cristiani e musulmani in Libano. Mousawi ci accoglie alla sua scrivania, accanto alla foto di un Nasrallah
sorridente. Se si provassero ad applicare le categorie occidentali di «laicità» e
«integralismo», non si andrebbe molto
lontano. Hezbollah usa il Corano per
spiegare la propria scelta in favore della democrazia. «Se Dio avesse voluto,
avrebbe dato a tutti la stessa fede», spiega Mousawi. «La verità sarà affermata
al tempo della Resurrezione e del Giudizio», prima di allora non si può che accettare e difendere il pluralismo dello
Stato.Tanto è vero che Hezbollah oggi è
alleato con un partito cristiano: la Corrente patriottica libera del generale Michel Aoun, capo dell’esercito e del go-
Dopo la morte
di Rafic Hariri,
il Paese ha visto
la spaccatura
delle alleanze
tradizionali.
Come quella
dei cristiani
verno negli ultimi due anni della guerra
civile. Alle elezioni del 2009 i cristiani si
sono presentati divisi: gli aounisti con
gli sciiti, la Falange insieme ai sunniti di
Saad Hariri, figlio del defunto presidente. Il discrimine non è la religione, ma la
politica: è il leit motiv che ci racconta
ogni libanese che incontriamo. La politica libanese però è materia fluida, se è
vero che le alleanze si fanno e si disfano
seguendo il ciclo delle guerre. E così il
generale Aoun - nemico giurato della
Siria ed esule per tutto il tempo dell’occupazione militare - si ritrova oggi nello
schieramento filo-siriano. La nascita di
questa strana alleanza la racconta a
30Giorni Ibrahim Kanaan, parlamentare della Corrente patriottica e stretto
collaboratore di Aoun. «Era il febbraio
2006: il generale Aoun aveva predetto
momenti difficili dopo il ritiro della Siria. C’era la necessità di tendere la mano ai partiti più vicini alla Siria, non si
poteva pensare solo a cercare la vittoria
sul piano interno: sarebbe stato enormemente pericoloso per la stabilità e
l’unità nazionale». La guerra con Israele sarebbe scoppiata poco dopo, a luglio,
per rappresaglia contro un attacco di
Hezbollah a postazioni militari in territorio israeliano. Il cambiamento di mentalità causato dalla guerra è stato enorme. Per usare parole che qui si sentono
molto, l’aggressione israeliana ha
rafforzato il sentimento di unità nazionale superando i settarismi. In altri termini: uniti contro Israele. Ormai tutti riconoscono che la guerra civile è iniziata
per l’esodo dei palestinesi dopo la Guerra del Kippur, e che c’è una responsabilità diretta di Israele. Certo, solo in pochi condividono la linea di Hezbollah,
che non riconosce lo Stato israeliano e
continua a chiedere una Palestina unita
e multiconfessionale. È pressocché impossibile però trovare qualcuno che osi
definirsi filo-israeliano. Anche nel partito del premier Hariri, che gode del sostegno degli Stati Uniti, l’ipotesi di una
pace separata tra Libano ed Israele viene considerata impercorribile.
L’avversione allo Stato ebraico si traduce - paradossalmente - in conseguenze pesanti per le centinaia di migliaia di
profughi palestinesi, fuggiti in Libano
proprio per sfuggire alle guerre israeliane. I rifugiati chiedono di ottenere la cittadinanza libanese ma le principali forze politiche oppongono un fermo rifiuto: accettare sarebbe come darla vinta
ad Israele, legittimare la logica «sionista» della separazione tra arabi ed
ebrei. Proprio in questi giorni si sta discutendo di revocare per i palestinesi il
divieto di lavorare in Libano, pur senza
concedere il diritto ad acquistare una
casa. La richiesta è partita dai drusi di
Walid Jumblatt - setta musulmana dal
sapore esoterico storicamente alleata
coi palestinesi, sin dai tempi della guerra civile. Il premier Saad Hariri (sunnita, come i palestinesi) ha dato il suo ap-
poggio, ribadendo comunque che di cittadinanza non se ne parla. A votare contro però ci sarà un’alleanza trasversale
tra gli sciiti di Hezbollah e tutti i partiti
cristiani, dagli aounisti alla Falange.
È una politica strana, quella libanese:
maggioranza e opposizione si scontrano alle elezioni ma tutti partecipano al
governo di unità nazionale; le coalizioni
in Parlamento cambiano poi da un voto
all’altro. Così la Falange di Amin Gemayel e le Forze Libanesi di Samir Geagea - i due movimenti di «destra» cristiana - hanno fatto parte della Rivoluzione dei Cedri e della coalizione elettorale guidata da Hariri, ma sopportano
con fastidio il governo di unità nazionale e votano insieme agli arci-nemici di
Hezbollah sulla questione dei profughi.
Anche la storia della Falange, del resto,
è complessa a dir poco. Il gruppo era
stato fondato da Pierre Gemayel negli
anni Trenta con il mito delle milizie naziste e fasciste; durante la guerra civile
il figlio di Pierre Gemayel, Bashir, aveva
dato vita ad una organizzazione militare parallela (le Forze Libanesi) che riceveva armi e addestramento dagli israeliani. Erano stati uomini vicini all’organizzazione, reagendo all’uccisione del
presidente Bashir Gemayel, ad entrare
nei campi profughi di Sabra e Chatila e
a far strage di palestinesi con la copertura dell’esercito israeliano. Sia la Falange sia le Forze Libanesi sono adesso
partiti politici, con una rappresentanza
in Parlamento. E con la voglia di voltare
pagina. Lo spiega a 30Giorni Sami Gemayel, nipote di Pierre e probabile erede del padre Amin. Il massacro di Sabra
e Chatila fu «un errore grave», commesso da alcuni amici del presidente senza
una decisione «né ufficiale né ufficiosa»
del partito. La Falange, dal ritiro della
Siria, «ha fatto la scelta dello Stato» rinunciando completamente alle armi.
Sami, nonostante i contrasti col padre, è
tornato all’ovile falangista nel 2006 dopo l’assassinio di suo fratello Pierre. L’obiettivo è quello di trovare un punto di
incontro tra tutti i cristiani, anche se
l’appoggio del generale Aoun a Hezbollah (l’unico partito a rifiutare di consegnare le proprie armi) è per ora un ostacolo insormontabile. Sami Gemayel che non ha neppure trent’anni, ma parla come un politico navigato - ci acco-
In realtà non sono solo i falangisti a
chiedere cambiamenti nella gestione
del potere. È la Seconda Repubblica libanese, iniziata con gli accordi di Taef
che misero fine alla guerra civile. Ora,
un po’ come in Italia, in molti vogliono
superare quell’assetto. Sulle ipotesi per
il dopo, però, regna il caos. La sistemazione attuale si gioca tutta sul delicato
equilibrio del consenso tra le diverse
comunità religiose. Per Costituzione il
presidente della Repubblica è un cristiano, il premier un sunnita e il presidente del Parlamento uno sciita. I parlamentari vengono eletti per quote: metà
cristiani e metà musulmani, con percentuali fisse per tutte le diverse confessioni. Le coalizioni, che vincano o che perdano le elezioni, devono fare i conti con
le alchimie del sistema confessionale. Il
generale Aoun parla da tempo della necessità di passare ad una «Terza Repubblica», pur senza chiarire i dettagli di
questa riforma. Il dato che preoccupa
molti cristiani è che la popolazione musulmana ha ormai preso il sopravvento,
in termini numerici: gli islamici fanno
più figli e i cristiani, negli ultimi decenni, hanno iniziato un esodo di massa
verso l’Europa e l’America. La popolazione cristiana è ormai ridotta a circa
un terzo del totale, con una rappresentanza politica evidentemente sovradimensionata. L’ipotesi di Aoun sarebbe
quella di prendere atto delle nuove proporzioni, dando in Parlamento lo stesso
peso a cristiani, sunniti e sciiti. In cambio i poteri del presidente della Repubblica (maronita) dovrebbero superare
quelli - oggi dominanti - del premier
(sunnita). Altri sognano un sistema «secolarizzato», che vada oltre il confessionalismo. Per molti cristiani però è forte
la paura di diventare una minoranza
sempre più piccola e ininfluente, fino a
sparire. Nella regione dello Chouf ci
raccontano della strage di cristiani perpetrata dai drusi durante la guerra civile. Di tutte le città cristiane della zona
ha resistito solo Deir El Kamar, dove
ora sono raccolte le ossa di centinaia di
martiri. Ma la speranza non è sparita e
non dipende dalla forza dei numeri.
Qualcuno usa la metafora evangelica
del lievito nella farina: ne basta poco.
Qualcun’altro, più cinicamente, ricorda
che i sunniti non accetterebbero mai un
presidente sciita - e viceversa - e che solo un cristiano può mettere tutti d’accordo. Perché alla fine, nonostante le
stragi della guerra, in Libano cristiani e
musulmani vivono insieme da più di un
millennio, dalla nascita dell’Islam. Sono
un popolo solo, anche se con culture diverse. Nella valle della Beqaa, roccaforte sciita, assistiamo ad una Messa maronita. La chiesa è piena, la liturgia in
arabo. Il nome di Dio, qui, ha per tutti lo
stesso suono: Allah.
mondo
pagina 26 • 24 luglio 2010
America del Sud. Sotto accusa la pericolosa protezione
garantita dal dittatore ai movimenti armati di stampo marxista
Lo strappo di Chávez
Il Venezuela mostra i muscoli alla Colombia
E il mondo teme una nuova guerra americana
di Osvaldo Baldacci
onostante Maradona,
Chávez non ha imparato i dribbling. Spirano
sempre nuovi venti di
guerra sul SudAmerica settentrionale. A soffiare è inevitabilmente il presidente del Venezuela Hugo Chávez, che se
avesse ragione sarebbe davvero sotto assedio. Ma può anche
venire il dubbio che il suo governo populista ma non democratico abbia qualche responsabilità nell’escalation continua con chiunque gli passi vicino e non si allinei. E poi forse
questo continuo alzare i toni in
quegli Stati serve anche e soprattutto per serrare le fila e distrarre l’opinione pubblica dai
problemi interni additando il
nemico esterno. Fatto sta che
ieri, dopo giorni di escalation
seguiti ad anni di pessimi rapporti, il Venezuela ha rotto ogni
relazione diplomatica con la vicina Colombia, dando al personale di ambasciata e consolati
72 ore per lasciare il Paese.
Questo dopo che nei giorni
scorsi aveva accusato l’Olanda
di mandare aerei spia sul paese
complottando con gli Stati Uniti per preparare una guerra
contro di lui, e mentre è sempre
più furente e diretto il suo attacco alla Chiesa cattolica nonostante le parole distensive
delle autorità ecclesiali venezuelane. Per non ricordare le ripetute denunce di piani di colpi
di Stato che portano a periodici
mandati di arresto e provvedimenti vari contro gli opposito-
N
ri. Stavolta per il duro attacco
alla Colombia Chávez ha scelto
di avvalersi del fiancheggiamento di un grande attaccante,
ma da lui non ha imparato il
dribbling, perché l’irruenza del
presidente preferisce sempre la
carica frontale: durante l’annuncio a fianco di Chávez c’era
Diego Armando Maradona, già
estimatore di Castro. Ieri Hugo
Chávez ha rotto le relazioni diplomatiche con Bogotà e ha dichiarato il “massimo stato di Allerta” delle Forze Armate ai
confini. Chávez ha anche annunciato prossime nuove misu-
guerriglieri delle Farc e alcuni
capi della guerriglia colombiana, cinque alti dirigenti delle
Farc e dell’Eln, si nascondono
in Venezuela, e in particolare
fanno il bello e il cattivo tempo
nello Stato di Zulia, a 20chilometri dalla Colombia. Qui di recente avrebbero anche allestito
tranquillamente dei campi di
addestramento militare dove
hanno accolto anche aspiranti
guerriglieri di 7 Paesi stranieri.
Decine di video, testimonianze
di disertori, immagini e mappe
fotografiche sono state mostrate dall’ambasciatore per esor-
Il Segretario generale delle Nazioni Unite
invita i due contendenti a evitare un’escalation
militare, mentre il Brasile di Lula si propone come
mediatore. Il 6 agosto nuovo round diplomatico
re come ad esempio la sospensione dei voli tra i Paesi. Il presidente venezuelano ha convocato una riunione di emergenza del consiglio di Difesa, mentre il suo governo ha chiesto all’alleato Ecuador, che detiene la
presidenza temporanea dell’Unasur, di convocare una riunione ministeriale di “emergenza”
del gruppo dei 12 Paesi dell’area sudamericana. L’ultimo casus belli sono state le dichiarazioni dell’ambasciatore colombiano Luis Alfonso Hoyos all’Organizzazione degli Sati
Americani, quando pochi giorni fa ha denunciato ai delegati
dell’Assemblea OSA che 1500
tare pubblicamente il Paese vicino a “intervenire”e “far rispettare le sue leggi e la Costituzione”. Chávez ha definito una
“aggressione” la denuncia della
Colombia: “Non avevamo altra
scelta per preservare la nostra
dignità, che rompere totalmente le nostre relazioni con la sorella Colombia”. Per il leader
bolivariano, Uribe è “un mafioso”, un “bugiardo” ed è irrimediabilmente “ossessionato” dalla caccia ai vincoli tra nemici
politici e terroristi. «Caracas ha risposto ironizzando il vicepresidente colombiano Francisco Santos, appena eletto prossimo presidente - ha rotto le re-
lazioni con la Colombia ma
non lo ha fatto con le Farc».
L’ambasciatore colombiano ha
definito quello del Venezuela
“un errore storico”: «Il Venezuela - ha detto - dovrebbe
rompere le proprie relazioni
con le gang che rapiscono e uccidono e con il traffico di droga
e non con un governo legalmente costituito».
Per ora comunque la Colombia ha voluto esplicitamente
escludere l’ipotesi di militarizzare la frontiera ammassando
truppe al confine. Bogotà piuttosto al momento sta valutando l’ipotesi di una denuncia
contro il governo venezuelano
davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. La crisi attira
l’attenzione internazionale. Il
segretario generale dell’Onu
Ban Ki-moon ha invitato i governi dei due Paesi ad “evitare
una escalation di tensione” e a
risolvere il contenzioso attraverso il dialogo. Il presidente
brasiliano Lula ha telefonato a
Chávez e i due leader hanno
concordato di affrontare il problema nella visita del presidente brasiliano a Caracas prevista per il 6 agosto. Chávez ha
avuto colloqui telefonici anche
con i presidenti di Argentina
ed Ecuador. Il presidente boloviano Evo Morales si è schierato in sua difesa, definendo il
leader colombiano un “lacché
dell’imperialismo”. La Colombia dal canto suo ha incassato
la solidarietà degli Stati Uniti,
lungo quelli che sono i confini
ormai usuali della Guerra
Fredda latino-americana. In
particolare è molto molto forte
la contrapposizione di Chávez,
che si candida a diventare l’erede di Fidel Castro, e il presidente uscente colombiano Uri-
Chi sono e per cosa combattono i guerriglieri della “liberazione”, che operano e si armano con l’aiuto di Caracas
Non solo Farc: tutte le sigle del terrore
e Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) sono il gruppo più antico e grande tra i ribelli di sinistra della Colombia. E sono una delle organizzazioni guerrigliere più ricche del
mondo. Il gruppo è stato fondato nel 1964, quando dichiarò la sua intenzione ad usare la lotta armata per
far crollare il governo ed installare un regime marxista. Tuttavia la tattica è cambiata nel corso degli anni
Novanta, quando con l’attacco ai ribelli da parte di forze paramilitari di destra le Farc diventarono quindi
sempre più coinvolte nel traffico di droga per reperire
soldi per la loro campagna. Come riportava un atto
d’accusa del Dipartimento di giustizia statunitense nel
2006, le Farc forniscono più del 50% della cocaina
L
di Vicente Colao
mondiale e più del 60% della cocaina che entra negli
Stati Uniti. Le Farc, che figurano nelle liste europee e
statunitensi di organizzazioni terroristiche, hanno
avuto una serie di colpi nel 2008. Diversi leader sono
morti. Il colpo più forte è stato inferto col recupero da
parte dei militari di 15 ostaggi importanti, tra cui l’ex
candidata alla presidenza Ingrid Betancourt. Gli
ostaggi sono stati visti a lungo come elementi chiave
nei tentativi dei ribelli di scambiarli coi guerriglieri
catturati. Il presidente Alvaro Uribe ha lanciato un offensiva senza precedenti contro le Farc, con il sostegno del corpo militare Usa. La quantità di diserzioni
tra le file dei ribelli suggerisce che il morale è stato
colpito. Il gruppo vantava circa 16 mila combattenti
nel 2001, secondo il governo colombiano, ma si pensa
che questo numero sia sceso a 9mila. Ciò nonostante i
ribelli controllano ancora le aree rurali, in particolar
modo il sud e l’est, dove la presenza dello stato è debole, e nel 2009 hanno aumentato gli attacchi e le imboscate. Il gruppo internazionale di Crisi suggerisce che
sotto il loro nuovo leader, Alfonso Cano, le Farc hanno
dimostrato di essere capaci di adattarsi e continuare a
combattere. Nel dicembre 2009, le Farc e il minore
Esercito di Liberazione Nazionale hanno annunciato
che stanno radunando forze unite contro lo Stato. L’Esercito di liberazione nazionale è un gruppo ribelle di
mondo
24 luglio 2010 • pagina 27
La lotta al narcotraffico è una priorità del governo Obama. Ma per vincere ha bisogno dei vicini
Uribe paga in prima linea
l’amicizia con gli Stati Uniti
Nata con Bush, la partnership fra Bogotà e Washington contribuisce
a rendere molto dura la vita del nuovo Caudillo. Che ora si vendica
di Antonio Picasso
a rottura dei rapporti diplomatici fra
Colombia e Venezuela, annunciata
ieri dal Presidente Chavez, trova
una sua motivazione nella ramificata partnership tra gli Usa e il Governo di
Bogotà. La Casa Bianca ha deciso di effettuare un giro di vite per quanto riguarda le
questioni immigrazione clandestina, criminalità organizzata, droga e gruppi paramilitari attivi nelle aree più depresse dell’America Latina. Questo è stato chiaramente
espresso in occasione dell’assemblea
straordinaria dell’Organizzazione degli
Stati Americani (Osa), che si è tenuta proprio nella capitale statunitense in questi
ultimi giorni. Ovviamente, per una politica di così ampie dimensioni, l’Amministrazione Obama necessita del supporto
dei governi locali, che sono direttamente
coinvolti nel problema. Lasciando da parte Argentina, Brasile e Cile che garantiscono la massima collaborazione, Washington vuole vedere a fianco a sé il Messico e la Colombia.Vale a dire i due Paesi
che pagano più onerosamente il prezzo di
un status di insicurezza congenita e infiltrata pieghe nelle più profonde della società civile. Giovedì, proprio il rappresentante del Governo di Bogotà all’Osa, Luis
Hoyos, ha accusato il Venezuela di accogliere 1.500 guerriglieri delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc)
sul proprio territorio. Da qui la rottura voluta da Caracas. Il Venezuela si è sentito
minacciato in prima persona dai piani degli Usa e dei loro alleati.
L
be, rigoroso nella lotta alla
guerriglia marxista e stretto alleato statunitense. Già nel 2008
Chávez aveva schierato le sue
truppe al confine dopo il bombardamento di una postazione
delle Farc in Ecuador, alleato di
Caracas, che era costato al vita
a 25 uomini tra cui il numero
due dei guerriglieri. Il prossimo presidente Santos, a Uribe
strettamente legato, ha però da
subito detto che per conto suo
intenderebbe riaprire il dialogo con Caracas, ma senza cedimenti. E le relazioni commerciali tra i due Paesi sono congelate da tempo, in particolare
dalla firma da parte della Colombia del trattato militare con
gli Stati Uniti, in base al quale
esistono basi militari statunitensi nel Paese, basi (in teoria
dedicate alla lotta al traffico di
droga) che Chávez proprio non
digerisce.
È possibile che Chavez non aspettasse
altro per accendere la miccia della crisi. A
rigor di logica però, un’attesa di neanche
un mese avrebbe avuto più senso. Il nuovo
Presidente colombiano, Juan Manuel Santos, subentrato ad Alvaro Uribe, è stato
eletto il 20 giugno, ma entrerà in possesso
del mandato solo il 7 agosto. Chavez
avrebbe potuto attendere circa due setti-
sinistra, formato nel 1965 da intellettuali ispirati dalla
rivoluzione cubana e dall’ideologia marxista. A lungo
è stato visto come gruppo più motivato politicamente
delle Farc, che si è tenuto fuori dal traffico illegale di
droghe per motivi ideologici. L’Eln ha raggiunto il culmine del potere alla fine degli anni Novanta, realizzando centinaia di rapimenti e colpendo infrastrutture
come oleodotti. Le fila dell’Eln sono scese da circa
4000 soggetti a 1500, accusando le perdite per mano
delle forze di sicurezza e dei paramilitari.
Tuttavia, nell’ottobre del 2009, i ribelli dell’Eln sono stati capaci di far evadere uno dei loro leader dal
carcere, dimostrando che non sono una forza estinta.
La principale fonte di liquidi del gruppo adesso è anche il traffico di droga, piuttosto che solo riscatti e pagamenti di “protezione”. Si sono svolti, nella capitale
cubana Havana, una serie di giri di colloqui di pace
esplorativi con il governo negli anni passati, ma senza
alcun progresso. Il gruppo figura nelle liste statunitensi e europee di organizzazioni terroristiche. Le unità di
mane e capire la rotta che prenderà il nuovo Governo colombiano, prima di effettuare una mossa tanto aggressiva. È anche
possibile che se Hoyos non fosse partito all’attacco, da Caracas non sarebbe giunta
una reazione tanto convulsa. D’altra parte
è nella personalità del lider venezuelano
entrare a gamba tesa contro chiunque. Del
resto Santos ha affiancato Uribe negli ultimi otto anni di attività politica, prima come
Ministro dell’Industria, poi al vertice del
Partido Social de Unidad Nacional (Parti-
I detrattori accusano
il presidente uscente di essere
un fantoccio della Casa Bianca
do de la U), ma soprattutto come titolare
del dicastero della Difesa. Dal 2006 a oggi,
grazie alla collaborazione tra le forze di sicurezza colombiane e le agenzie investigative Usa, i narcotrafficanti locali e le Farc
hanno subito una serie di colpi micidiali.
Di cui ha pagato incidentalmente lo scotto
anche il Venezuela. L’asse Bogotà-Wa-
autodifesa della Colombia (Auc) si sono invece formate da un gruppo di destra, nel 1997, per volontà di trafficanti di droga e proprietari terrieri per combattere i
rapimenti e le estorsioni dei ribelli. L’Auc aveva le sue
radici negli eserciti paramilitari costruiti da signori
della droga negli anni ottanta, e sostiene di aver imbracciato le armi per autodifesa, al posto di uno stato
senza potere. L’ex leader paramilitare Salvatore Mancuso viene scortato ad un aereo per venire estradato
negli Stati Uniti il 13 maggio, la Colombia ha estradato 15 ex leader paramilitari negli Stati Uniti nel maggio 2008. I critici denunciano che si sia trattato di poco più di un scambio di prigionieri. L’influenza dell’Auc si è staccata dai suoi legami con l’esercito e con
alcuni circoli politici e la sua forza è aumentata con i
finanziamenti da interessi economici e proprietari terrieri. Il gruppo ha eseguito massacri e omicidi, mirati
a colpire gli attivisti di sinistra che facevano dichiarazioni contro di loro. Nel 2003 con un trattato di pace
firmato con l’Auc, i leader paramilitari si arrendevano
in cambio di una riduzione dei termini di prigionia e di
shington quindi costituisce un elemento di
politica estera più che consolidato.
Per questo, già l’anno scorso, in occasione del primo summit fra Obama e Uribe, si sollevarono voci di scontento che
echeggiarono nelle due Americhe. Era la
fine di giugno 2009, il nuovo inquilino della Casa Bianca era ancora visto come l’uomo nuovo e del tutto diverso dai suoi predecessori. Aderente sì agli schietti principi
della realpolitk, ma altrettanto fermo sulla
volontà di non compromettersi con quei
Governi stranieri sui quali gravasse una
qualsiasi ombra di scandalo. Il fatto che
Obama si fosse confrontato con Uribe
provocò delusione e un primo calo di popolarità per la sua Amministrazione. Era
possibile fare altrimenti? Il Presidente
uscente colombiano è accusato corruzione e violazione dei diritti umani per le presunte torture contro i detenuti nelle carceri colombiane. I suoi detrattori lo giudicano un fantoccio degli Usa, sostenuto appositamente per fare da garante dei loro
interessi nel Paese e in tutto il Sud America. Nel 2009, stando al Foreign Direct Investment di Washington (Fdi), gli Usa
hanno immesso nel Paese latinoamericano un capitale pari a 8,5 miliardi di dollari. Di fronte a questo giro di affari così invasivo, non ha importanza chi abiti alla
Casa Bianca e chi governi la Colombia.
Prioritario è mantenere salda la collaborazione fra i due Paesi. Affinché Washington continui a svilupparsi in Colombia e
questa ne tragga altrettanti benefici. Ciò si
traduce in una partnership in cui i rispettivi leader si confrontano amichevolmente
e si scambiano una reciproca fiducia. La
vittoria di Santos quindi non poteva che
nascere sotto auspici migliori. Il suo passato di Ministro della Difesa lo rende l’“uomo
di Washington” a Bogotà ancora più di
quanto fosse Uribe. Questo teorema per
Chavez dev’essere apparso subito chiaro.
una protezione dall’estradizione. Ciò nonostante le
autorità colombiane hanno estradato 17 ex leader paramilitari negli Stati Uniti per far fronte alle accuse di
traffico di droga dal 2008, affermando che avevano
violato i termini del trattato di pace. Dal 2003 circa
31mila combattenti paramilitari sono stati congedati.
Tuttavia la struttura legale alla base del processo è stata ampiamente criticate per permettere ai responsabili di questi gravi reati di evitare la punizione.
Vi sono inoltre prove che nuovi gruppi armati si sono formati. Il Gruppo di Crisi Internazionale, in un documento del 2007, ha evidenziato preoccupazione circa la comparsa di ex elementi paramilitari con potenti organizzazioni criminali, spesso profondamente
coinvolte con il traffico di droga. Sono state condotte
inchieste su diversi membri attuali o del passato del
congresso circa i loro presunti legami con l’Auc in
quello che è stato definito lo scandalo della “parapolitica”. L’Auc figura nelle liste europee e statunitensi
delle organizzazioni terroristiche.
quadrante
pagina 28 • 24 luglio 2010
Gb. Debutta il “787” Dreamliner, il nuovo aereo passeggeri della Boeing
l salone aerospaziale di
Farnborough si è aperto
quest’anno nel segno dell’ottimismo nonostante il
mordere della crisi e gli strascichi nel settore aerospaziale
lasciati dai “fumi” del Vulcano
islandese. Probabilmente, il
segno più evidente di questo
ottimismo è il debutto europeo del “787” Dreamliner, il
nuovo aereo passeggeri della
Boeing. Un volo, atteso da due
anni dopo i problemi tecnici
incontrati lungo lo sviluppo,
che ha decisamente dato lustro a tutto il salone. Il 787 è
un vero e proprio gioiello dell’industria aeronautica. Dotato di una struttura super-leggera in materiale composito e
fibra di carbonio, l’aereo consuma il 20% del carburante in
meno rispetto agli aerei attuali e garantisce risparmi del
30% sui costi di manutenzione. Una filosofia, quella di un
aereo “lungo raggio” leggero,
ideale per collegamenti punto-punto radicalmente diversa da quella del concorrente e
acerrimo rivale, l’Airbus
A380. Airbus che peraltro sta
sviluppando la sua risposta al
787, l’A350XWB. Nella realizzazione del 787 è ampiamente coinvolta l’industria italiana e, in particolare,Alenia Aeronautica che produce gli stabilizzatori orizzontali, la sezione centrale e centro-posteriore della fusoliera ed altre
componenti primarie, per un
buon 14% dell’intera struttura
dell’aereo, negli stabilimenti
pugliesi e campani. Per quanto riguarda la partecipazione
italiana, Finmeccanica si è
presentata al salone in modo
massiccio, anche perché la
Gran Bretagna è uno dei suoi
mercati domestici. Nonostante la crisi, il gruppo regge e
manifesta un grande ottimismo. I risultati del 2009 sono
buoni e l’azienda è pronta ad
intercettare i segnali della ripresa, dove questi si manifestano più forti, come nei Paesi
emergenti. Solo per fare alcu-
I
La crisi “risparmia”
gli aerei di Farnborough
Ottimismo e eccellenza italiana
insieme nel Salone dell’aerospaziale
di Pietro Batacchi
del Presidente Martinelli. Con
la Turchia, la partnership strategica, a cominciare dal settore elicotteristico, è consolidata da tempo e negli ultimi anni Finmeccanica ha ricevuto
oltre due miliardi di commesse militari da Ankara. La buona notizia è che finalmente,
Finmeccanica punta ai Paesi emergenti come
Turchia, Brasile e India. Con Ankara, il gruppo
ha già firmato accordi per due miliardi di euro
ni esempi, la Turchia nel 2011
spenderà 6,6 miliardi di euro
in sistemi militari. Sulla stessa d’onda lunghezza d’onda
si muoverà anche il Brasile,
che ha pianificato 14 miliardi
di euro, e altrettanto farà l’India con 13 miliardi. Paesi dove
Finmeccanica sta puntando
in modo deciso, sfruttando
anche l’appoggio del Governo
Italiano pronto a forgiare accordi a tutto campo con le
controparti. È accaduto così
lo scorso anno con la Libia di
Gheddafi e quest’anno con il
Brasile di Lula ed il Panama
anche in Italia si è capito l’importanza degli accordi governativi per aprire i mercati. In
tutti i casi citati si tratta di
pacchetti di accordo ad ampio
raggio dai quali discendono
successive intese industriali
in diversi settori. Con la Libia,
i primi frutti di questa strategia sono già stati colti, in particolare nel settore della sorveglianza dei confini con la
commessa concessa a SELEX SI. In Brasile è in discussione l’acquisto da parte della
Marina locale di quattro fregate FREMM e cinque pattu-
Co-prodotto al 50 per cento da Cina e Pakistan
Fra le novità, il caccia JF-17
ul fronte novità, un attenzione particolare la
merita il JF-17, il caccia
leggero coprodotto, al
50%, da Pakistan e Cina e mostrato per la prima volta al
pubblico europeo. L’Aeronautica pakistana ne ha già acquistati una trentina di esemplari,
a fronte di un requisito iniziale di
150, ma adesso
sta cercando di
aggiornare il velivolo dotandolo di
avionica
occidentale. Una scelta che si spiega
alla luce del fatto
che l’avionica cinese, nonostante
certi progressi,
resta ancora lontana anni luce
da quella occidentale.
S
Un accordo in tal senso con
il Governo francese è saltato
ed è per questo che è entrata
pesantemente in gioco Finmeccanica che sta puntando a
fornire un pacchetto avionico
completo comprendente display, monitor sistemi di gestione e radar.
Nel complesso, il JF-17 si
presenta come una soluzione
low cost, alternativa alle proposte
russe o occidentali, che i due
paesi stanno cercando di esportare in paesi africani e mediorientali. Grande interesse è già stato
mostrato da Egitto, Nigeria, Sri
Lanka ed altri
paesi, tutti alla ricerca di un
caccia multiruolo leggero ed
economico. Secondo alcune
fonti, il velivolo è offerto sul
mercato a non più di 15 milioni di dollari a pezzo.
gliatori. A Panama, invece, si
sta parlando della fornitura
di un sistema di sorveglianza
per le aree costiere, simile a
quello già venduto allo Yemen, e tra breve, come annunciato dallo stesso Presidente ed Amministratore Delegato Guarguaglini, ci potrebbero essere buone notizie. In genere, già nel 2009, il
22% dei ricavi di Finmeccanica è stato ottenuto sul mercato dei paesi extra-europei.
Una quota destinata decisamente a salire nei prossimi
due anni e, probabilmente, a
superare il 30%.
Una parte importante di
questa quota sarà assorbita
dal settore della sicurezza, il
cui mercato, a breve, non più
tardi del 2016, oltrepasserà
quello della Difesa in senso
stretto ed il cui business è ritenuto sempre più importante
per la futura crescita di Finmeccanica. Sicurezza, intesa
come protezione di grandi infrastrutture, di obiettivi sensibili e di interessi economici in
senso più generale. A tal proposito, proprio durante il salone, la controllata AgustaWestland ha presentato il nuovo
elicottero AW169, pensato per
rispondere a esigenze di
clienti civili, ma, appunto, anche di forze di sicurezza e polizia. La presentazione di un
nuovo prodotto conferma che
la strategia del gruppo non
cambia a dispetto della crisi e
che continuano gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Sul fronte della Difesa in senso classico, le energie del
gruppo sono in questo momento assorbite dalle campagne per l’esportazione del
caccia Typhoon in Turchia,
Giappone e India dove il velivolo europeo è in piena corsa.
Un passo in avanti molto importante sarebbe lo sviluppo
di un radar a scansione elettronica per l’aereo – requisito
indispensabile per ottenere il
successo in queste gare – ed
in tale ambito si sta lavorando
per procedere ad un’ulteriore
evoluzione dell’aereo e renderlo così ancora più appetibile sul mercato. Le campagne di export stanno andando
avanti anche per l’addestratore avanzato M346. Negli Emirati continuano le trattative
per la firma sul contratto dopo che il velivolo è stato selezionato dal Governo locale
ormai oltre un anno fa. In
Israele, si sta invece lavorando ad un accordo con l’industria locale, che comunque
opererà come prime contractor, e non è da escludere anche un coinvolgimento della
controllata elettronica americana di Finmeccanica, DRS.
Resta il fatto che l’interesse
dell’Aeronautica israeliana
per l’M346 è ormai una realtà.
quadrante
24 luglio 2010 • pagina 29
Israele chiede alle Nazioni Unite
di intervenire “in tempo utile”
Il partito pubblica nuove regole:
«Basta con le avventure»
Gaza, pronte
altre 3 navi
per portare
aiuti umanitari
In Cina
sei corrotto
soltanto
se hai l’amante
GAZA. Dopo essere riuscito
una settimana fa ad impedire
che una nave che trasportava
aiuti umanitari dalla Libia forzasse il blocco marino a Gaza,
adesso Israele guarda con
preoccupazione al Libano, dove almeno due navi - se non tre
- si stanno preparando a salpare per la Striscia. Ieri, in un intervento alle Nazioni Unite,
l’ambasciatrice di Israele, Gabriela Shalev, ha lanciato un
appello ai dirigenti del Libano
e alla comunità internazionale
affinché fermino quelle navi. In
ogni caso, ha aggiunto, «Israele
è pronto ad intercettarle nel rispetto del diritto internazionale». Nel frattempo Israele cerca
di placare la collera della Turchia dopo il blitz in alto mare
che il 31 maggio fermò la “Freedom Flotilla”, sempre diretta a
Gaza. Sulla nave passeggeri
Marmara nove passeggeri (otto
turchi e un cittadino statunitense) rimasero uccisi dal fuoco
dei militari, e i feriti si contarono a decine.
PECHINO. Per fare carriera nel
distretto di Shuyang, provincia
di Jiangsu, bisogna essere in
buoni rapporti con genitori, figli, vicinato e soprattutto non
bisogna tradire la moglie. Sono
i nuovi standard di moralità imposti dal Partito comunista cinese (Cpc) a 96 membri del governo locale e funzionari del
Cpc del distretto di Shuyang.
La moralità personale sarà accertata attraverso interviste, visite a casa e investigazioni da
parte della polizia. Eventuali
segni di “corruzione morale”saranno segnalati come punti di
demerito nella valutazione
biennale del rendimento dei
funzionari del governo e del
partito, compromettendo la
carriera. Secondo le statistiche
Sull’episodio Israele sta ora
conducendo un’inchiesta. Due
giorni fa ha annullato l’allerta
per i cittadini israeliani desiderosi di visitare la Turchia e
adesso il governo israeliano ha
deciso di rilasciare la Marmara
e le altre sei imbarcazioni della
“Freedom Flotilla”. Il governo
L’esordio del Kosovo?
Un arresto eccellente
In carcere per corruzione il boss della Banca centrale
di Massimo Ciullo
l governatore della banca centrale del Kosovo, Hashim Rexhepi, ha dovuto rinunciare ai
festeggiamenti per la pronuncia di legittimità della dichiarazione d’indipendenza
dalla Serbia, emessa dalla Corte Internazionale
di Giustizia dell’Aja. L’uomo è stato arrestato ieri dalla polizia con l’accusa di corruzione. La
missione dell’Ue, Eulex, afferma che la polizia
ha anche perquisito l’ufficio e l’abitazione del
governatore. «Le perquisizioni sono legate a
un’indagine in corso su atti di corruzione in
campo finanziario», dice una nota, aggiungendo
anche la lista dei capi d’accusa: abuso di posizione, evasione fiscale, riciclaggio di denaro, corruzione e traffico di influenze illecite. Non è andata meglio all’ex Primo ministro kosovaro Ramush Haradinaj, accusato di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Il tribunale penale internazionale per la Ex-Jugoslavia ha ordinato un nuovo processo per Haradinaj. L’uomo
era già stato processato due anni fa con l’accusa
di aver compiuto persecuzioni, uccisioni, torture
e violenze contro i
civili serbi e gli
oppositori politici
tra il 1998 e il
1999. La pronuncia di legittimità
della dichiarazione d’indipendenza ha provocato reazioni di segno opposto non solo in Serbia e in Albania, ma
anche in molti altri Paesi europei alle prese con
movimenti autonomisti o secessionisti. A Cipro,
il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle ha
dichiarato che il parere della Corte internazionale rappresenta un caso “particolare” e non
crea precedenti. Per il capo della diplomazia tedesca, «si tratta di una decisione unica, che riguarda una particolare situazione in un particolare contesto storico». La posizione di Berlino
corrisponde a quella dei 69 Paesi che hanno sino ad ora riconosciuto l’indipendenza della regione serba a maggioranza albanofona e che
non intendono sottoscrivere la tesi del “vaso di
Pandora”aperto dalla Corte Onu con il pronunciamento favorevole all’indipendenza kosovara.
Cipro, invece, è uno dei cinque Paesi Ue che non
hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo,
assieme a Spagna, Romania, Slovacchia e Gre-
I
cia. L’isola, divisa dal 1974, teme che l’auto-proclamata Repubblica Turca di Cipro Nord (riconosciuta finora solo dalla Turchia), possa far leva sul nuovo orientamento della Corte per ipostatizzare lo status quo. Il governo spagnolo ha
dichiarato che continuerà a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo.
Maria Fernandez de la Vega, vicepresidente
del Consiglio spagnolo ha negato che la posizione di Madrid sia legata alle istanze secessioniste
basche e catalane. «Penso che sia abbastanza irrealistico paragonare la Spagna ai Balcani», ha
detto la vice di Zapatero. Non la pensano così
proprio a Bilbao e Barcellona, dove la pronuncia
dei magistrati internazionali era attesa con una
tensione simile a quella vissuta nelle ultime ore
a Pristina. Da Mosca, si è tornati a ribadire la legittimità della proclamazione di indipendenza
di Abkhazia e Ossezia del Sud, due province ribelli della Georgia, che la Russia sostiene in funzione anti-Nato. L’Armenia invece, ha accolto
positivamente la
decisione dei giudici dell’Aja, e ha
rilanciato la questione del Nagorno-Karabakh,
l’enclave armena
nel territorio dell’Azerbaijan. Di segno opposto
le reazioni ad Atene, preoccupata per il ritorno
in auge del sogno di una Grande Albania, con Tirana pronta a rivendicare la sua sovranità sui
territori contesi dell’Epiro. Oggi, a Belgrado il
governo serbo si riunisce in seduta straordinaria
per decidere la posizione da assumere in merito
all’opinione della Corte dell’Aja. Il primo ministro Cvetkovic, ha dichiarato ieri che la decisione richiede una «analisi minuziosa» e ha annunciato un’iniziativa diplomatica in vista del dibattito dell’Assemblea generale dell’Onu. La Serbia
dovrà agire con estrema per evitare che posizioni radicali possano pregiudicare il suo cammino
verso l’Unione europea. Allo stesso tempo dovrà
cercare di tenere a bada gli estremisti nazionalisti che non avrebbero alcun problema a riprendere le armi per una riedizione del macello balcanico degli anni Novanta che portò alla dissoluzione della Jugoslavia.
Madrid si è espressa contro la sentenza
della Corte dell’Aja, mentre per Berlino
si tratta «di un caso molto particolare»
di Benyamin Netanyahu spera
così di ridurre, almeno in parte,
le tensioni con Ankara. Ma la
iniziativa di un uomo d’affari
palestinese, Yasser Kashlak,
non dà respiro al governo
israeliano. Nel porto di Tripoli
(Libano) si accingono a partire
due sue navi con aiuti destinati
ai palestinesi di Gaza: la “Julya”
(ribattezzata “Miriam”) e la
“Junya”. Questa porta il nome
del celebre caricaturista palestinese Naji el-Ali, ucciso a
Londra nel 1987 in un attentato
i cui mandanti (chi dice Olp, chi
Mossad) non sono mai stati
scoperti. Ora il problema è capire come, e se, Israele riuscirà
a fermare queste nuove imbarcazioni pronte a partire.
effettuate dalla Commissione
centrale per il controllo della
disciplina del Cpc, nel 95% dei
maggiori casi di corruzione, i
colpevoli hanno relazioni extraconiugali. «Queste regole
sono necessarie» ha detto Tian
Xianfeng, capo della polizia di
Shuyang. «Se troviamo segni di
corruzione nei controlli di routine, possiamo intervenire e risolverli prima».
Non tutti sono d’accordo. Secondo He Bing, professore di
legge e scienze politiche della
China University, le nuove disposizioni sono inutili: «Come
si fa a valutare le relazioni
amorose di una persona con un
controllo di routine? C’è il forte
rischio che avvengano violazioni della privacy. Per combattere la corruzione sarebbe meglio fare sforzi maggiori per verificare l’uso dei fondi pubblici
e porre requisiti rigidi per la
presentazione della dichiarazione dei redditi». Per Tian
Xiangbo, membro del Centro
ricerche per un governo trasparente dell’università di Hunan,
le nuove misure sono giuste: «I
confini della privacy dei funzionari non dovrebbero essere
gli stessi della gente normale.
Per il bene pubblico, devono rivelare alcuni dei loro affari personali». Amanti incluse.
pagina 30 • 24 luglio 2010
il personaggio della settimana
Ritratto del prete atipico che ha fondato l’ospedale universitario San Raffaele
Don “Zelig” Verzè
Premiato con Berlusconi a Milano, gran cerimoniere
della laurea (con polemiche) della figlia del Cavaliere.
Vita e miracoli di un sacerdote sospeso a divinis
(che, per affari, non disdegna rapporti con Vendola)
di Maurizio Stefanini
ultima polemica è stata
martedì 20 luglio:
quando Barbara Berlusconi si è laureata in Filosofia con 110 e lode all’Università Vita-Salute San Raffaele, con
una tesi su Il concetto di benessere libertà e giustizia nel pensiero di Amartya Sen, premio
Nobel per l’economia del 1998. E
non solo il padre presidente del
Consiglio è venuto, ma anche il
rettore don Luigi Verzè. Che di
Berlusconi è amico di lunga data, e che ha chiesto alla neodottoressa se le sarebbe piaciuto diventare docente di un’eventuale
nuova facoltà di Economia. Ira
della docente di Filosofia della
Persona, Roberta De Monticelli,
che ha riempito i giornali di
proteste contro l’idea di «far
nascere una facoltà di Economia rivolta alla sola Barbara
Berlusconi». E chiarimento dell’Ateneo su Don
Verzè, secondo cui
«quello di restare è l’invito che lui fa, da sempre, a ognuno», con
tanto di lettera firmata
da Michele Di Francesco (preside della Facoltà di Filosofia) e
Massimo Cacciari
(prorettore Vicario dell’Università): «L’idea che
una battuta paterna del
Rettore Don Verzé possa essere interpretata come la proposta formale nei confronti della signora Barbara Berlusconi di
far parte del corpo docente del
San Raffaele sfida ogni ragionevolezza e ogni criterio di buon senso». La
penultima polemica
era stata il giorno prima: non trovando
il tempo per presenziare alla
commemo-
L’
razione della strage di Via D’Amelio a Palermo, Berlusconi si è
però recato a Piazza Duomo a ricevere assieme a Don Verzè il
Premio“Grande Milano”, riservato a chi «con straordinaria lungimiranza e capacità ha reso Milano, la sua amata città, grande in
Italia e nel mondo». «Statista di
rara capacità», recita la motivazione, che «conduce con responsabilità e lucida consapevolezza
il Paese verso un futuro di donne
e di uomini liberi che compongono una società solidale fondata
sull’amore, la tolleranza e il rispetto per la vita». E Don Verzè
appena lo vede gli dice: «Silvio tu
durerai, perché con te ci sta Dio».
La terzultima polemica il 12 luglio, quando in un’intervista alla
Stampa Don Verzè racconta che
Berlusconi gli ha chiesto «di farlo campare fino a 150 anni e lui
pensa che arrivando a 150 anni
metterà a posto l’Italia». Cosa
che secondo Don Verzè non sarebbe affatto impossibile. «Credo a ciò che è stato scritto su Matusalemme». «È scientificamente provato che si può arrivare a
un’età media di 120 anni». Da
cui un progetto per l’istituzione
di un centro chiamato Quo Vadis
sulla medicina predittiva. «Abbiamo il terreno e stiamo cercando i soldini. Si predice quale sarà
la patologia di ogni persona leggendo il genoma con un microchip sottopelle che avverte se c’è
qualcosa che non va». Ma Verzè,
chiede l’intervistatore, «ferma i
suoi ricercatori se vanno in una
direzione che la Chiesa non vuole?». «No. La scienza non la ferma nessuno, nemmeno la Chiesa». In un’altra intervista rilasciata al Corriere della Sera il13
ottobre 2006 Don Verzè era stato
ancora più spiazzante. Allora
aveva infatti rivelato di aver aiutato un amico medico malato a
morire. «Quando a chiederlo è
chi vive grazie alle macchine, allora non è eutanasia. È un atto
d’amore». Certamente un tipo
mediatico, Don Verzè. E per mol-
ti versi il tipo di prete progressista che dovrebbe piacere a sinistra. Favorevole al sacerdozio
femminile, al sacramento ai divorziati, alla procreazione assistita, a chi gli rimprovera di essere un cattolico disobbediente lui
ribatte che «la Chiesa le farà
queste cose». «Il mondo, con la
globalizzazione, diventerà una
città sola. Ma la Chiesa, purtroppo, lo sta perdendo il mondo,
perché non ha messo in atto il
precetto del Signore: amatevi
l’un l’altro come io vi ho amati».
Però, è un prete progressista innamorato di Berlusconi: il che a
sinistra è anatema. E ha in più
una sicura vocazione che a seconda dei punti di vista può essere definita“imprenditoriale”o“affarista”, e che è anatema al quadrato in un tipo di mondo per il
quale il tratto d’unione tra cattolicesimo e progressismo è stato
spesso rappresentato proprio dal
pauperismo anticapitalista. Proprio nel mondo degli affari è nata l’amicizia tra Don Verzè e Berlusconi. Un’amicizia che nel
mondo giustizialista è spesso fatta sconfinare nella complicità
tout court, nel senso penale del
termine. Ne è un eloquente saggio la Wikipedia in italiano, che
oltre la metà della voce su Don
Verzè la dedica al capitolo “Questioni giudiziarie e controversie”.
Citiamo. «Le vicende di Verzè incontrano presto quelle di Berlusconi, all’epoca imprenditore e
proprietario di Edilnord, dato
che il sacerdote aveva acquistato
un terreno di 46 mila metri quadri - con l’idea di costruire quello
che sarebbe poi diventato il San
Raffaele - vicino all’area che sarebbe poi diventata Milano 2, il
complesso residenziale realizzato poi da Berlusconi. Il problema
allora era che gli aerei da e per
Linate transitavano sopra quell’area così, nel 1971 inoltrarono,
assieme, una petizione al ministro dei Trasporti al fine di salvaguardare la tranquillità degli abitanti di Milano 2 e i ricoverati del
san Raffaele. Questo però creò
24 luglio 2010 • pagina 31
In queste pagine,
un’immagine
di Don Luigi
Maria Verzè
e uno scatto
del sacerdote
insieme con
il presidente
del Consiglio
Silvio Berlusconi
e sua figlia
Barbara,
il giorno della
laurea
in Economia
della ragazza
problemi di rumore ai comuni limitrofi; la questione delle rotte si
trascinerà per qualche anno, tra
direttive serrate, proteste, irregolarità e comitati antirumore [...]
la direttiva Civilavia del 30 agosto 1973, a seguito dell’incontro
di marzo [il 13 marzo 1973 si incontrano comitati dei cittadini e
funzionari del ministero dove
però le carte topografiche di riferimento risultano pesantemente
manomesse: Pioltello e Segrate
rispecchiano la cartografia del
1848 mentre Milano 2, terminata
al 25%, risulta completata],
scontenta tutti, eccetto, naturalmente, Edilnord e San Raffaele.
Dopo la messa in circolo di falsi
studi scientifici sulla questione
(formalmente del Politecnico
di Milano ma in realtà commissionato dalla Edilnord ad
alcuni docenti dell’ateneo) e
la condanna del direttore generale di Civilavia, vengono
rivolte una serie di accuse a
personaggi coinvolti nell’affare fra cui Luigi Verzè».
La stessa fonte ci ricorda
[...] La polemica si inasprì quando, nel 1999, la procura mise sotto la sua lente cinque professori
del San Raffaele». C’è poi, nel
2000, la «vicenda della succursale romana dell’Ospedale San
Raffaele, un’operazione colossale che, grazie ad un’abile campagna mediatica, sembrò un complotto ai danni del sacerdote.
Verzè sostenne infatti che, a causa di pressioni del mondo politico e degli ambienti finanziari di
Roma, fu“costretto”a vendere l’ospedale “a un prezzo irrisorio”all’imprenditore romano Antonio
Angelucci, il quale, soltanto pochi mesi più tardi lo rivendette allo Stato, suscitando scandalo sui
media e numerose interrogazioni
li». La Wikipedia non ricorda
però che Don Verzè si è accordato anche con NichiVendola per la
costruzione di un centro oncologico di eccellenza nella zona di
Taranto, attraverso una fondazione costituita ad hoc il 28 maggio
scorso dopo 4 anni di incubazione, e controllata a maggioranza
dalla regione Puglia. Al di là delle polemiche, il San Raffaele resta comunque un centro di eccellenza. E perVendola l’unica alternativa sarebbe di continuare a
far viaggiare i pazienti pugliesi
verso altre regioni, tra cui è in testa la Lombardia. Al San Raffaele dunque finirebbero comunque: ma a costi molto più elevati.
E poi, i rapporti personali tra
Verzè e Vendola sono altrettanto buoni che con Berlusconi, anche se non convivendo i due a Milano le occasioni di interferenza sono ovviamente minori. D’altra parte, pur avendo ricevuto il dna
imprenditoriale per eredità
familiare Luigi Maria Verzè a
suo tempo seppe anche rinunciare alle ricchezze di famiglia. Nato il 14 marzo 1920
a Illasi, vicino a Verona, suo
padre Emilio era un proprietario terriero, e sua madre
Lucilla Bozzi una nobildonna. E le sue biografie autorizzate ricordano che quando a
dodici anni lasciò la casa paterna per frequentare il ginnasio in seminario a Verona,
fu «una scelta decisamente
contrastata dal padre che
cerca con ogni mezzo di reprimere ogni espressione religiosa del
figlio». E la scelta di tipo francescano sembra accentuarsi quando nel 1939, concluso il liceo, va a
stare per 10 anni col futuro santo
don Giovanni Calabria. L’impegno con quell’apostolo dell’assistenza ai malati poveri non gli
impedisce di studiare Lettere e
Filosofia alla Cattolica di Milano.
Quando però nel 1948 prende i
voti, il confluire tra l’esempio di
impegno ospedaliero di Don Calabria e l’istinto imprenditoriale
È stato difeso
anche da Cacciari:
«Quella su Barbara
è stata una battuta,
è irragionevole
interpretarla
davvero come una
proposta formale»
che Don Verzè «nel marzo
1976 è stato condannato dal
tribunale di Milano a un anno
e quattro mesi di reclusione
per tentata corruzione in relazione alla convenzione con
la facoltà di medicina dell’università Statale e la concessione di un contributo di due
miliardi di lire da parte della
Regione Lombardia. Inoltre è
stato incriminato di truffa aggravata nei confronti della signora Anna Bottero alla quale ha
sottratto un appartamento del
valore di 30 milioni di lire». E che
«nel marzo del 1977 è riconosciuto colpevole di istigazione alla corruzione. Ma, tra archiviazioni, rinvii a giudizio e prescrizioni, non si arriverà per nessuno
a sentenze definitive». Nel 1995
di nuovo «Verzè finisce nel mirino della magistratura per presunte irregolarità.Tre anni dopo,
il sacerdote viene attenzionato
per altri lavori nella stessa area
parlamentari». E anche «una serie di collusioni fra Luigi Verzè e
un rappresentante del Sismi, Pio
Pompa» che sarebbero «state riscontrate all’interno di un’indagine giudiziaria a carico di quest’ultimo e Nicolò Pollari. Dalle
carte risulta che Pompa teneva
costantemente al corrente Verzè
di quanto accadeva in ambito politico ed istituzionale, affinché
Verzè stesso potesse sfruttare le
suddette informazioni in modo
da ottenere particolari vantaggi
per le sue attività imprenditoria-
di famiglia gli fa prendere una direzione inconsueta. «Non posso
essere un buon prete senza essere anche medico» decide, interpretando l’evangelico «andate,
predicate e guarite gli infermi».
D’altra parte, lo stesso Don Calabria, di cui è stato segretario, gli
ha dato il suo imprimatur: «Va, è
il Signore che ti manda. A Milano nascerà una grande opera che
farà parlare di sé l’intera Europa». Già nel 1952 fonda a Milano
un centro di addestramento professionale per ragazzi anche
handicappati. Nel 1960 dà vita all’Associazione Centro Assistenza Ospedaliera San Romanello,
in cui per meglio curare bambini
e anziani fa sorgere un centro di
assistenza residenziale. Nel 1971
inaugura l’Ospedale San Raffaele, riconosciuto subito dopo Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico. Nel 1981 il San
Raffaele diviene polo universitario della facoltà di Medicina e
Chirurgia dell’Università Statale
di Milano. Nel 1996 affianca all’Ospedale San Raffaele una iniziativa di formazione universitaria in Medicina, assumendo la
presidenza anche di questo ente.
È un giro di soldi sempre più vasto, ma anche la creazione di
strutture sempre più specializzate: il Dipartimento per la medicina riabilitativa; il Centro San
Luigi Gonzaga per l’assistenza ai
malati di Aids; l’International
Heart Center; i Centri Trapianti
Multiorgano; il Parco Scientifico
Biomedico San Raffaele... D’altra
parte, non intrallazza solo con
Berlusconi. Attraverso l’Aispo,
Associazione Italiana per la Solidarietà tra i Popoli, non si limita
a aprire ospedali in Israele, India,
Polonia e Brasile: stringe anche
accordi di collaborazione con il
Dalai Lama e Fidel Castro; trasforma il Polo Universitario nell’Università Vita-Salute San Raffaele, un ateneo creato sullo stile
americano; concorda con il sindaco di Gerusalemme il restauro
del Cenacolo di Leonardo a spese del San Raffaele. Sopratutto,
Dalla Chiesa
all’impresa
Don Luigi Maria Verzè è
nato a Illasi il 14 marzo del
1920. È un imprenditore,
sacerdote e accademico
italiano. Già segretario di
san Giovanni Calabria, è
un sacerdote della diocesi
di Verona, fondatore dell’Ospedale San Raffaele, presidente della Fondazione
Centro San Raffaele del
Monte Tabor e attuale rettore dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Si laurea
in Lettere e Filosofia nel ’47
presso l’Università Cattolica di Milano. Viene ordinato sacerdote nel ’48 e nominato segretario di san Giovanni Calabria. Nel ’50
apre in collaborazione con
san Giovanni Calabria un
centro di assistenza all’infanzia abbandonata a Milano; subito dopo progetta
e fonda l’Ospedale San
Raffaele di Milano. Nel ’96
affianca all’Ospedale un’iniziativa di formazione
universitaria in Medicina,
assumendo la presidenza
anche di questo ente.
citiamo ancora dalla sua biografia ufficiale, «punta per il prossimo futuro sempre più volutamente alla ricerca scientifica come la più importante delle attività legate all’uomo e al suo progresso». Nel 2000 alla presentazione di un libro ha fatto amicizia
anche con Massimo Cacciari; nel
2001 ha creato per lui la nuova
Facoltà di Filosofia, nella villa
seicentesca dei Borromeo a Cesano Maderno, in Brianza.; nel
2007 spiega al Corriere della Sera che ormai Cacciari è “la sua
voce”. E alla facoltà di Filosofia
del San Raffaele sono di casa un
bel po’ di personaggi non del tutto in linea con la teologia cattolica ortodossa: da Emanuele Severino allo scientista Luca CavalliSforza, all’ateo militante Piergiorgio Odifreddi.
Non è che la Chiesa abbia del
tutto gradito. Il cardinale Schuster lo protegge, ma nel 1964 la
Curia milanese gli proibisce di
«esercitare il Sacro ministero»,
mentre nel 1973 viene sospeso a
divinis. Ma lui tira avanti. «L’uomo, questo composito di corpo,
intelletto, spirito», spiega, non ha
diritto solo alla salute ma anche
al “ben-essere”, inteso come realizzazione della «comune esigenza di un fisico sempre più perfetto, agile, elegante e vigoroso, insieme alla brama del conoscere,
della beltà, della scienza e dell’ascesi, atti a replicare l’armonia
che, all’origine, lasciò ammirato
lo stesso Dio creatore». E alla
Chiesa risponde: «Se io fossi Papa non farei il monarca, ma tutte
le mattine starei davanti a Gesù
Cristo a pensare. E per la Chiesa,
che si arrangino quelli della Segreteria di Stato». Ma Benedetto
XVI purtroppo per lui ha «il carattere di un tedesco. Rigido. I tedeschi sono freddi. Una freddezza che pagano loro, poverini».
ULTIMAPAGINA
Usa. La zona colpita dalla marea nera aspetta una nuova catastrofe
Dopo il petrolio,
l’uragano.
La condanna della
di Anna Camaiti Hostert
uragano che minaccia la Louisiana e
il Mississippi è stato ribattezzato
“Bonnie”. Un nome simpatico per
una tempesta che da giorni tiene col
fiato sospeso e gli sguardi rivolti verso il cielo,
gli abitanti del Golfo del Messico. La stessa
popolazione a quasi tre mesi dall’esplosione
dal pozzo petrolifero Deepwater Horizon della
Bp, si prepara ad affrontare un’altra sciagura.
Dopo il danno, ora anche la beffa. Sono più di
5 mila i barili di greggio che quotidianamente
vengono estratti dal Golfo, le conseguenze sono: un’ecosistema ridotto all’osso e un’economia distrutta. La marea nera ha incupito sogni
e speranze di una popolazione in continua crescita. Per domenica sera è previsto l’arrivo della tempesta, l’annuncio viene dal Centro nazionale degli uragani (Noaa), con sede a Miami. Le autorità americane hanno deciso di far
scattare l’evacuazione delle decine di navi e
delle circa 2 mila persone impegnate nelle operazioni di bonifica del greggio fuoriuscito dal
pozzo della Bp. A causa del rischio rappresentato da Bonnie, navi e piattaforme si stanno
preparando «a evacuare», ha indicato Thad Allen, responsabile della Casa Bianca per le operazioni nel Golfo. «La decisione riguarda anche la piattaforma di perforazione dei pozzi di
derivazione che permetteranno di bloccare definitivamente la falla», ha precisato Allen. L’evacuazione «ritarderà gli sforzi in corso da
giorni per bloccare il pozzo, ma la sicurezza
delle persone è la nostra priorità», ha spiegato
l’ammiraglio in pensione. Allen ha anche precisato che il tappo resterà al suo posto, mentre
le navi si allontaneranno dalla zona del pozzo.
L’
I danni provocati dalla marea nera sono sotto gli occhi di tutti, basti pensare alle innumerevoli paludi, usate come rifugio, da migliaia di
specie animali, parte integrante dell’ecosistema
del golfo. Granchi, ostriche, gamberi e plancton
che, oltre ad essere cibo per altri animali come
i delfini e varie specie di uccelli, sono parte integrante di un’industria ittica, prima fiorente,
ora in declino. Un numero destinato a crescere
man mano che il greggio si avvicina alle coste
senza possibilità di essere fermati.Gli effetti di
questa catastrofe si potranno misurare solo a
lungo termine. Il greggio infatti continuerà nei
prossimi mesi ad uccidere molti animali rari e
in pericolo, bruciandone la pelle o le piume e
danneggiandone il sistema riproduttivo. Colpirà anche quelle specie che per il momento
non sembrano esserne affette. E non pare aiutare affatto la strategia di bruciare il greggio in
superficie perché in realtà oltre a non risolvere
il problema arde vivi gli animali che si trovano
intrappolati negli incendi, soprattutto le tartarughe. Contro questo nuovo sistema c’è già infatti una causa intentata contro la BP da numero-
si gruppi ambientalisti tra cui l’Animal Welfare
Institute, il Biological Diversity Center, l’Animal
Legal Defense Fund, e il Turtle Island Restoration Network. I gruppi sostengono che la BP
viola l’ Endangered Species
Act e altre leggi protettive
delle specie in estinzione
usando il sistema di quelli
che vengono chiamati incendi controllati (controlled
burns). Impallidisce al confronto il disastro ecologico
della Esso, avvenuto in Alaska nel 1989 le cui
immagini di uccelli, foche e lontre coperte di petrolio sono ancora vivide nella nostra mente come in un film dell’orrore . Qui invece è il turno
dei pellicani, delle tartarughe, dei pesci.Tra i pesci la specie del tonno pinna blu, già decimato
ché la perdita di greggio ha danneggiato le uova e le larve durante questo periodo cruciale» ha detto Lee Crocket, direttore generale del reparto politiche ittiche federali dell’istituto ambientale Pew.
Inoltre, nove specie di delfini che vivono in
questa zona saranno affetti dal pesce contami-
LOUISIANA
nato di cui si cibano, senza
contare la balena Bryde che
nutrendosi di plancton ingoierà grandi quantità di petrolio che galleggia in superficie.Tra gli uccelli un numero sensibile di pellicani marroni risulta colpito. Una percentuale che varia tra il 50%
e l’80% degli esemplari salvati sopravvive secondo i
dati del Bird Resarch Rescue Center e viene pertanto
reintrodotta nel sistema. Ma
la durata della sopravvivenza è un po’ più difficile da
determinare ed è oggetto si
una grande controversia. La
biologa marina Silvia Gaus
afferma infatti che il 99%
degli esemplari ripuliti e fatti volare via entro settimane
o addirittura giorni muoiono
per le conseguenze dell’ingestione di greggio. Quindi
ritiene che si dovrebbe pensare ad un sistema indolore
di eliminare questi esemplari che altrimenti
morirebbero in atroci condizioni. Ci sono infine cinque specie di tartarughe che vivono in
questa regione del golfo e che sono state dichiarate in pericolo: almeno 430 specie protette di tartarughe sono morte dall’inizio del disastro. Quindi se si vuole praticare il sistema dei
cosiddetti “incendi controllati” si dovrebbero
poter rimuovere le tartarughe prima di appiccare il fuoco.
Sono già terribili i danni alla fauna:
granchi, ostriche, gamberi e plancton che, oltre
ad essere cibo per altri animali come i delfini
e varie specie di uccelli, sono parte integrante
di un’industria ittica, prima fiorente, ora in declino
del 20% negli ultimi quaranta anni, sembra essere quella più colpita. Infatti depone le uova
solamente una volta all’anno, in certe condizioni ambientali e solo dopo un lungo periodo dalla nascita dei piccoli che sono ormai divenuti
esemplari adulti. «L’impatto che il disastro avrà
su questa specie sarà conosciuto solo tra alcuni
anni quando i pesci saranno nati e diverranno
adulti. Se non si vedranno esemplari di una certa età o se ne vedranno molti di meno sarà per-
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