ISSN 1827-8817 00724 mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA e di h c a n o cr 9 771827 881004 di Ferdinando Adornato QUOTIDIANO • SABATO 24 LUGLIO 2010 DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK Il Presidente chiede anche di accelerare la sostituzione di Scajola. «Lo farò la prossima settimana», gli risponde Berlusconi Il piccone di Napolitano «Indignazione per la corruzione e per le squallide consorterie politiche»: il Capo dello Stato denuncia la questione morale e la crisi del sistema. Ma dice: «Abbiamo gli anticorpi per reagire» L’ALIBI DELL’EUROPA di Andrea Ottieri Con la manovra di Tremonti siamo un Paese a sovranità limitata? ROMA. «Vedo in giro tanto squallore, ma il Paese ha gli anticorpi per vincere la corruzione». Poi: «L’uscita dalla crisi lascia al palo i giovani». Ancora: «L’opposizione è chiamata a una grande prova di responsabilità». E infine: «Spero che sia nominato presto il nuovo ministro per lo Sviluppo economico» (e subito Berlusconi ha annunciato che la prossima settimana nominerà il successore). Ecco il manifesto di Napolitano. di Francesco D’Onofrio l dibattito pubblico sulla manovra finanziaria da 24.9 miliardi di euro, che sta per essere votata definitivamente votata alla Camera dei deputati, sembra impostato quasi esclusivamente sull’alternativa “Europa sì – Europa no”. Sembra in particolare che l’Italia sia stata in qualche modo “costretta dall’Europa” ad adottare una manovra finanziaria di questa entità, tendente ufficialmente alla riduzione del deficit di bilancio al di sotto del 3 per cento stabilito da Maastricht, perché in “Europa” si sarebbe appunto stabilito il principio della riduzione dei deficit di bilancio nazionali annuali per renderli compatibili entro due anni con il limite del 3 per cento stabilito appunto a Maastricht. a pagina 5 I a pagina 2 L’impietosa analisi dell’ex leader Ppi Le reazioni degli analisti politici Martinazzoli: «Qui ci hanno rubato l’Italia» «Ha ragione, ma non vediamo gli anticorpi» «La nostra è una Nazione «Giusto l’allarme, un po’ meno l’ottimismo»: senza: senza politica, i commenti morale, pensiero. di Piero Ostellino Sembra l’autobiografia e Gianfranco Pasquino di Berlusconi» Gabriella Mecucci • pagina 4 Il test promuove le banche (anche italiane) Il giorno del sindaco: apre il convegno della sua corrente e invade le tv La scelta di Alemanno: asse con Giulio per il post-Silvio Né con il Cavaliere né con Fini: un’alleanza inedita per raccogliere gli indecisi del centrodestra Errico Novi • pagina 6 Francesco Capozza • pagina 3 Crescono le polemiche sulla “scelta serba” Solo l’Unione europea Possiamo accettare è finita sotto stress l’ultimatum della Fiat? il personaggio della settimana Il prete berlusconiano ma anche vendoliano Vita (affari) e miracoli di don “Zelig”Verzè di Enrico Singer di Gianfranco Polillo di Maurizio Stefanini li esperti già si dividono nella valutazione dei risultati degli stress-test sulla solidità dei 91 grandi istituti di credito europei. C’è anche chi è convinto che l’affidabilità di questa maxi indagine sia molto relativa, non fosse altro perché le banche sono state giudicate dalle autorità di vigilanza dei loro stessi Paesi. a pagina 8 uella di Fiat rischia di divenire una storia infinita. Un tormentone che tra dibattiti, interventi politici, le inevitabili proteste sindacali si trascinerà chissà per quanto. I presupposti ci sono tutti e non da ora. Tutto era cominciato con Termini Imerese: lo stabilimento perso nel profondo Sud. a pagina 10 ultima polemica è stata martedì 20 luglio: quando Barbara Berlusconi si è laureata in Filosofia con 110 e lode all’Università VitaSalute San Raffaele. Vicino alla dottoranda c’erano il presidente del Consiglio e il di lui amico rettore don Luigi Verzè. Che ho offerto alla neodottoressa un posto da docente. a pagina 30 G seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO I QUADERNI) Q • ANNO XV • NUMERO 142 • WWW.LIBERAL.IT • CHIUSO L’ IN REDAZIONE ALLE ORE 19.30 pagina 2 • 24 luglio 2010 prima pagina Esternazioni. Alla cerimonia del Ventaglio un discorso a tutto campo: dalla P3 alle intercettazioni al ruolo dell’opposizione Sostiene il Capo dello Stato Il Quirinale disegna i contorni di un’altra Italia. Tutti applaudono... Poi chiede al premier di lasciare l’interim allo Sviluppo economico di Andrea Ottieri ROMA. «Vedo in giro tanto squallore, ma il Paese ha gli anticorpi per vincere la corruzione». Poi: «L’uscita dalla crisi sembra lasciare al palo i giovani che rappresentano il futuro del Paese». Ancora: «L’opposizione è chiamata a una grande prova di responsabilità». E infine: «Spero che sia nominato presto il nuovo ministro per lo Sviluppo economico» (e subito Berlusconi ha annunciato che la prossima settimana nominerà il suo successore). Insomma: qualcuno lo ha subito ribattezzato il manifesto di Giorgio Napolitano. Perché ieri il presidente della Repubblica, parlando alla cerimonia del Ventaglio, non ha fatto solo un discorso istituzionale, ma ha disegnato i contorni di una nuova Italia. Un Paese diverso da quello che siamo abituati a vedere in televisione o che traspare da tante liti partitiche, eppure un Paese del quale sembra sempre più difficile trovare segni reali. Quello di Napolitano è stato un discorso lungo e articolato: a metà strada tra il programma di un leader politico e l’auspicio di un «antico maestro». Si disse che la fine della Prima Repubblica sia stata favorita dalle “picconate”dell’allora presidente Francesco Cossiga: ebbene, ora Napolitano è quasi costretto a utilizzare il medesimo “piccone” contro la degenerazione della Seconda. Te n u ta delle istituzioni, corruzione, crisi economica, prospettive future: le parole dell’inquilino del Quirinale hanno suscitato unanime consenso, all’apparenza, anche se in privato qualcuno avrà sicuramente masticato amaro. Ma una cosa si può dire subito: ormai Napolitano è sempre più spesso al centro dell’agone politico, anche al di là della sua funzione “esclusivamente” istitu- «Sulla legge sulle intercettazioni il ruolo del presidente della Repubblica è risultato chiaro. Non vedo come si possa equivocare» zionale. E le ragioni di ciò possono essere due: la prima è che Berlusconi stesso tende in molti casi ad additarlo come un avversario politico, più che come un interlocutore istituzionale; la seconda è invece da ricercare nella latitanza di quella sinistra moderata dalla quale Napolitano stesso proviene. E non è un caso che proprio alla funzione dell’opposizione ieri il Presidente abbia fatto riferimento diretto. Ma vedia- Berlusconi risponde subito: soluzione entro la prossima settimana «A giorni arriva il nuovo ministro» di Gaia Miani ROMA. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si appresta a lasciare l’interim dello Sviluppoo economico. Ieri infatti, al termine del vertice col presidente russo Dmitrij Medvedev, ha annunciato che «la prossima settimana verrà nominato il nuovo ministro», incarico attualmente ricoperto ad interim proprio dal premier dopo le dimissio- stero», sottolineando anche la possibilità di trasferire alcune deleghe del ministero di via Veneto presso altri dicasteri. Proprio ieri era arrivata la sollecitazione in questa direzione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante la Cerimonia del Ventaglio al Quirinale («L’istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quello della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo economico»). Du n q u e , d et to e ni di Claudio Scajola, il 4 maggio scorso, a causa dell’inchiesta sugli appalti secondo la quale la sua abitazione romana al Colosseo sarebbe stata acquistata in parte con i soldi del costruttore Anemone. «Siamo arrivati a buon punto - ha anche aggiunto il presidente del Consiglio nella conferenza stampa al termine dell’incontro con Medvedev - mi sono sufficientemente reso consapevole di tutte le attività che presiedono allo Sviluppo economico e alla responsabilità del ministero». «In questo periodo - ha concluso il premier - ho fatto qualche cambiamento importante nella struttura del mini- quasi fatto. In attesa del prossimo Consiglio dei ministri, nel quale ufficialverrà mente indicato il nuovo titolare dello Sviluppo economico, iniziano già a trapelare le prime indiscrezioni. Secondo alcuni rumors starebbe proprio in queste ore tornando in pista il nome di Paolo Romani, attualmente viceministro e il cui nome era già circolato subito dopo le dimissioni di Claudio Scajola. «È una situazione incredibile - ha subito commentato nel pomeriggio di ieri il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani - c’è una crisi di questo tipo e non c’è un ministro che se ne occupi. Ha fatto bene il presidente Napolitano a ricordare lo stallo del ministero dello Sviluppo economico. Abbiamo pezzi di industria nazionale in discussione e non abbiamo un ministro che se ne occupi. Oltre due mesi e mezzo di blocco nella politica industriale, - ha concluso Bersani - hanno avuto il loro peso». mo punto per punto come si articola questo «manifesto di Napolitano». Crisi e giovani. «Occorre guardare avanti e misurarsi con le sfide del futuro. Nessun catastrofismo sulla situazione dell’Italia ma consapevole realismo nel valutare la situazione. Si sta risalendo la china da una crisi pesante. Alla ripresa produttiva non corrisponde una ripresa dell’occupazione. Da noi, le questioni storiche dell’occupazione e del Mezzogiorno si rispecchiano, esaltate, nella condizione giovanile. Il problema dei giovani non impegnati né in un lavoro né in un percorso di studio, è oggi il problema numero uno se si guarda al futuro dell’Italia». La Costituzione. «Può essere utile, per evitare semplificazioni eccessive e sommarie polemiche su quel che la nostra Costituzio- Sul rinnovo del Csm Napolitano ha detto: «Sono certo che il Parlamento stia per procedere alla dovuta elezione dei componenti laici» ne può consentire o non consente, riflettere sul fatto che da noi è stato possibile approvare, tra giugno e luglio, una rilevante manovra di aggiustamenti dei conti pubblici; in Germania le misure annunciate il 7 luglio diventeranno legge di bilancio non prima di dicembre». Corruzione e squallore. «Indigna e allarma l’emergere di fatti di corruzione e trame inquinanti da parte di squallide consorterie, ma la nostra democrazia dispone di anticorpi: la reazione morale dei cittadini, i principi costituzionali, le leggi per applicare tali principi. Si deve intervenire senza alcuna incertezza o reticenza su ogni inquinamento o deviazione della vita pubblica o nei comportamenti di organi dello Stato ma senza cedere a nessun gioco al massacro tra le istituzioni e nelle istituzioni. Per ora c’è tanto squallore, poi vedremo cos’altro emergerà. L’importante è che si riesca a far fare alla magistratura il proprio lavoro fino in fondo per accertare fatti e responsabilità perché purtroppo, molto spesso, il riesplodere di notizie che riguardano le inchieste sulla stampa non aiuta il lavoro di questi stessi magistrati a cui si applaude». Le intercettazioni. «Il ruolo del presidente della Repubblica è risultato chiaro. Non vedo come si possa equivocare. Nessuna interferenza nella dialettica politica e nell’attività parlamentare. Il mio impegno e dovere è valorizzare i poteri del Parlamento e l’invito ad ascoltare l’opinione pubblica e il paese reale. Nel merito, occorre definire il miglior bilanciamento possibile tra i valori e diritti, tutti ugualmente riconosciuti in Costituzione. Questo è stato lo sforzo compiuto e ancora in atto a proposito della legge in prima pagina 24 luglio 2010 • pagina 3 I due commentatori sono d’accordo: la questione morale riguarda tutto il Paese «Hai ragione presidente, ma dove sono gli anticorpi?» Piero Ostellino e Gianfranco Pasquino commentano le parole del Quirinale: «L’allarme è giusto, l’ottimismo un po’ meno...» di Francesco Capozza ROMA. Manovra correttiva e crisi economica (da cui mente parlato con i suoi consiglieri e questi con Letta però, «stiamo risalendo la china»), nomina del nuovo o Alfano – riconosce Pasquino – ma dopo aver fatto saministro per lo Sviluppo Economico, scandalo della pere, com’è normale, su quali punti si sollevava qualcorruzione e delle lobby politiche-affaristiche («siamo che obiezione si è comportato nella piena correttezza indignati dalla corruzione e dalle squallide consorte- istituzionale che il suo ruolo gli affida». rie»), appello per i giovani che per la crisi «stanno pagando più di tutti» e ancora, intercettazioni e scenari Ci va giù più duro Piero Ostellino, tra gli editorialisti politici futuri (che a Napolitano non «interessano mini- del Corriere della sera letti con più attenzione dai polimamente»). La tradizionale cerimonia di consegna del tici italiani. Sull’invito di Napolitano a far presto con la Ventaglio, che si svolge ogni anno prima della pausa nomina del successore di Claudio Scajola, Ostellino pensa che sia «certamente inestiva, ha ieri dato PIERO OSTELLINO consueto sia come tipo di richiamodo al presidente mo sia per il luogo in cui è stato della Repubblica rivolto (la cerimonia di consegna Giorgio Napolitano di del ventaglio n.d.r.)» ma si collomettere davvero tanta ca nella «prassi consolidata di carne sul fuoco. Invitaquei presidenti che intervengoto dal presidente della no anche dove forse non dovrebstampa parlamentare bero. D’altronde è così: da EiPierluca Terzulli a naudi, che esternava solo con prendere la parola primessaggi alle Camere, in poi – ma di ricevere il Ventaprecisa Ostellino – i presidenti glio con raffigurata la della Repubblica hanno iniziato prima seduta del Parad interessarsi di tutto e ad lamento subalpino esporre il loro pensiero anche (avvenuta 150 anni fa), quando non richiesto. Per questi il capo della Stato ha motivi non mi sorprendo affatto avuto modo, in un discorso durato una manciata di minuti, di parlare di tut- dell’invito rivolto al presidente del Consiglio da Napoti i temi all’ordine del giorno nell’agenda politica e par- litano». Ma è sulle parole di sdegno espresse dal presidente della Repubblica sugli scandali che hanno lamlamentare. bito il governo, certa magistratura e una parte dell’imCom’era ampiamente prevedibile le reazioni non si prenditoria italiana legata agli appalti pubblici, che sono fatte attendere, tutte di unanime plauso alle paro- Piero Ostellino ha parole ancora più forti. «Sono assole di Napolitano, sia dalla maggioranza, che sembra lutamente d’accordo con Napolitano quando esterna intravedere nelle parole del presidente della Repubbli- tutto il suo scandalo per quello che sta accadendo in ca i complimenti per un buon lavoro, sia tra le opposi- Italia, io stesso sono disgustato. Resta il fatto che quezioni che viceversa leggono nelle parole di Napolitano sto non è altro che il risultato di un Paese fortemente una tirata d’orecchie all’esecutivo. corrotto, un Paese GIANFRANCO PASQUINO Le parole del capo dello Stato sono di sudditi e non di spunto di riflessione anche per due cittadini». esperti di cose politiche quali GianPer l’editorialista franco Pasquino e Piero Ostellino. del Corriere della Il primo si dice totalmente d’accordo con Napolitano, tranne che «sul sera «politica e affatto degli anticorpi. Secondo me – fari hanno un rapdice Pasquino – non è vero che queporto marcio in Itasto Paese è immune o sa guarire lia»; un rapporto dalle “squallide consorterie” di cui che Ostellino non parla il presidente. Altrimenti queesita a giudicare sto scempio di cui leggiamo ogni «molto più che magiorno con particolari sempre più lato per il quale l’uraccapriccianti sarebbe stato denica medicina sabellato già ai tempi, visto e considerebbe la riduzione, rato che uno come Carboni è risulo meglio il dimatato avere le mani in pasta già dalla fine degli anni grimento, della funzione pubblica». Il capo dello Stato, ‘70». Se poi il capo dello Stato ha colto un’ occasione tuttavia, pur essendo indignato per quello che sta accosì particolare per invitare il premier a nominare il cadendo sotto al suo vigile sguardo, ha ieri parlato di ministro dello Sviluppo Economico, per Pasquino è certi «anticorpi» di cui il Paese è fornito e grazie ai «frutto della constatazione di come il governo non stia quali, è da credere sia il pensiero di Napolitano, si può facendo nulla. In particolare un richiamo del genere guarire. Su questo Ostellino è d’accordo non con il non deve sembrare un fatto nuovo, già nel 2002 Ciam- presidente ma con Pasquino: «Quali anticorpi? Se ci pi invitò Berlusconi a lasciare il prolungato interim de- fossero non ci sarebbe questo rapporto di sudditanza gli Esteri e a nominare il successore di Renato Ruggie- tra cittadini e potere. Un rapporto che sta bene ai citro. Ma a Berlusconi, si sa, fare foto in giro per il mon- tadini stessi perché questo è un Paese malato dove do piace più di ogni altra cosa». Infine Pasquino dà ra- ognuno pur di trovare beneficio personale è disposto gione a Napolitano quando afferma che sul ddl inter- ad essere connivente e a sottostare al potere». Infine cettazioni ha “seguito le prerogative affidate dalla Co- l’affondo: «per com’è strutturata l’Italia rimane fascistituzione”. «Il presidente della Repubblica avrà certa- sta e in quanto tale, corrotta». «Sulla corruzione concordo, ma questo è un Paese di sudditi, non di cittadini» Qui sopra, il presidente Napolitano. A destra, Piero Ostellino e Gianfranco Pasquino. Nella pagina accanto, Berlusconi e Scajola materia di intercettazioni e non si può che apprezzarlo dandone merito alla dialettica parlamentare. Non deve dunque stupire che la definizione di una nuova legge in materia di intercettazioni, da lungo attesa, abbia richiesto un tempo non breve e un percorso faticoso, potremmo dire “per approssimazioni successive”». Opposizione. «Auspico che nel confronto emergano anche visioni diverse rappresentative sul piano politico delle attuali forze di maggioranza e delle attuali forze di opposizione non sottraendosi queste ultime alla prova e alle responsabilità cui sono chiamate in un quadro di feconda competizione come quello che dovrebbe caratterizzare la democrazia dell’alternanza». Scenarii ipotetici. «Non mi interessano scenari politici ipotetici di qualsiasi genere: il futuro del paese si fonda su un’ampia condivisione degli obiettivi e delle linee di intervento. Non c’è spazio per l’autosufficienza né per la contrapposizione totale». Il nuovo Csm. «Sono certo che il Parlamento stia per procedere alla dovuta elezione dei componenti laici del Consiglio superiore della magistratura». Interim. «L’istituzione Governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quello della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo economico o del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob». «Già nel 2002 Ciampi invitò il Cavaliere a lasciare il prolungato interim degli Esteri» l’approfondimento pagina 4 • 24 luglio 2010 Corruzione, interesse personale, assenza di modelli: la parola a uno dei grandi protagonisti della nostra Repubblica L’Italia da bere «Il nostro è ormai un Paese senza. Senza politica, senza morale, senza pensiero». L’impietosa analisi di Mino Martinazzoli sullo stato della Nazione che oggi sembra solo «l’autobiografia di Berlusconi». Forse i giovani... di Gabriella Mecucci uando mi domandano dove vivo, rispondo: a Brescia, in Svizzera. L’Italia preferisco guardarla da lontano anche se non ho mai avuto la tentazione in tutta la vita di fare l’antitaliano»: Mino Martinazzoli giudica con ironia e distacco la crisi degli ultimi mesi e dà giudizi netti, sferzanti, disperati sulla politica, sui partiti, ma anche sul dibattito culturale italiano. Onorevole Martinazzoli, è davvero una calda estate - e non solo dal punto di vista climatico - quella che stiamo vivendo: riesplode la questione morale, riemergono i vecchi misteri della mafia e rispunta persino uno strano arnese che chiamano P3, come giudica tutto ciò? Per quanto riguarda la cosiddetta questione morale, credo che dovremmo cominciare ad usare parole meno nobili ma che meglio si attagliano a ciò che accade: si tratta di volgari furfanti. Sarebbe un errore ritenere ciò che accade oggi una ripetizione di tangentopoli. Allora si rubava perchè c’era un troppo di politica, ora si ruba perché non ce n’è più niente. Allora le tangenti in larga misura servivano a finanziare i partiti, ora ad arricchirsi personalmente. L’illecito si è privatizzato. «Q E per quanto riguarda la mafia? Guardo con grande cautela alle indiscrezioni che circolano. Ricordo che quando ero ministro della Giustizia ebbi alcuni colloqui con Falcone e non posso dimenticare il pragmatismo col quale parlava di queste cose. Non amava i proclami, si muoveva con concretezza, passo dopo passo. E quando qualcuno nominava il “terzo livello” faceva un sorrisetto ironico. Quanto alla P3 mi sembra una definizione caricaturale, ma non ha nulla a che vedere con la Massoneria ed è profondamente diversa dalla P2. La P3 è semplicemente una cricca. Non le sembra sorprendente e per certi versi insopportabile che dopo venti anni riaffiorino i fantasmi del passato in chiave caricaturale e che, soprattutto, oggi non ci sia più una classe politica in «Prezzolini voleva unire chi non la beve, io unirei chi non la dà a bere» grado di analizzarli, di comprenderne la natura? Di dare una qualche lettura, anche se parziale, degli eventi? Sono del tutto d’accordo con lei. E questa è una constatazione che non può non preoccuparci per il futuro dell’Italia. Del resto, purtroppo, ha trionfato già tanti anni fa l’antipolitica: l’idea cioè che l’analisi politica fosse un inutile orpello, che i partiti fossero degli oggetti d’antiquariato, e che bastasse essere un buon imprenditore per governare il paese. Una volta nel 1994 incontrai Silvio Berlusconi e cercai di spiegargli che fare politica significava fare gli interessi degli altri e non i propri. Non ebbi successo.Viviamo una situazione in cui da un lato viene da pensare – parafrasando Gobetti – che Berlusconi sia l’autobiografia della Nazione, ma anche che Berlusconi abbia determinato un tale degrado riuscendo a tirar fuori il peggio dagli italiani. E allora potremmo arrivare ad affermare che la Nazione è l’autobiografia di Berlusconi. Onorevole Martinazzoli, la sua è un’analisi disperante e disperata... Tanti anni fa Prezzolini voleva metter su la conventicola degli “apoti”, di quelli cioè che “non la bevono”. Questa posizione appariva l’anticamera del qualun- quismo. Oggi io vorrei far nascere la conventicola di quelli che “non la danno a bere”. Non vede muoversi nulla di positivo? C’è qualcosa da cui partire per tornare a ritessere una politica? C’è qualcosa di positivo che vede muoversi nel mondo della cultura, magari anche in realtà più decentrate? Qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere che tocca alla politica lanciare un segnale. Ho visto, nel dibattito che è seguito, che in parecchi scartano questa possibilità. Anche io sarei in difficoltà a indicare una realtà politica in grado di fare quello che gli chiede Galli della Loggia. Una volta si diceva che gli uomini passano e le idee restano. Oggi al contrario le idee passano e gli uomini restano. Guardi, l’unica scommessa che si può fare è sui giovani. È da lì che possono nascere nuove elaborazione e nuovi impegni. Se penso al nostro Risorgimento, di cui stiamo penosamente celebrando i 150 anni, è dai giovani che venne la spinta. E anche nella scrittura della Costituzioni furono le nuove leve ad essere protagoniste, anche se allora non mancarono i grandi vecchi come Benedetto Croce. Lei non ha mai concesso niente alla Lega. Oggi quel partito - l’unico organizzato sul territorio nato come moralizzatore si è trasformato nel protettore di tutte le burocrazie (vedi il caso delle Pro- 24 luglio 2010 • pagina 5 Il dibattito pubblico, come quello interno all’esecutivo, non ha identificato un modello No, caro Tremonti, la manovra non la scrive l’Europa La politica economica del governo si limita ad assecondare la Ue senza scegliere tra il rigore tedesco e lo stimulus americano di Francesco D’Onofrio l dibattito pubblico sulla manovra finanziaria da 24.9 miliardi di euro, che sta per essere votata definitivamente votata alla Camera dei deputati, sembra impostato quasi esclusivamente sull’alternativa “Europa sì – Europa no”. Sembra in particolare che l’Italia sia stata in qualche modo “costretta dall’Europa” ad adottare una manovra finanziaria di questa entità, tendente ufficialmente alla riduzione del deficit di bilancio al di sotto del 3 per cento stabilito da Maastricht, perché in “Europa” si sarebbe appunto stabilito il principio – che si afferma essere universalmente accettato – della riduzione dei deficit di bilancio nazionali annuali per renderli compatibili entro due anni con il limite del 3 per cento stabilito appunto a Maastricht. In questo dibattito si è pertanto avuta la sensazione di una sorta di “imperialismo europeo”, al quale la “colonia Italia” non si potrebbe sottrarre, sì che la conformità della manovra italiana alla presunta decisione europea sarebbe di conseguenza l’unico criterio politico alla stregua del quale discutere il “se” della manovra medesima, lasciando ad una sorta di pigmei sociali e territoriali la discussione del “come” della manovra medesima. I 2008; una diversa valutazione sul rapporto tra un mercato mondiale tendenzialmente ispirato esclusivamente alla ricerca del profitto, e un mercato mondiale nel quale abbia legittimità di espressione quella che siamo soliti chiamare economia sociale di mercato; una diversa valutazione, infine, della rilevanza del debito nazionale a seconda della diversa La scelta di fondo che non può essere soltanto vista in termini di neoliberisti o neokeynesiani Non si tratta invece di una opinione universalmente condivisa, perché è sufficiente rilevare il notevole divario esistente da un lato tra gli Stati Uniti e i principali Paesi europei, proprio sull’orientamento complessivo da assumere nel rapporto tra rigore e sviluppo, e dall’altro la contrapposizione che proprio su questo punto si è dovuta registrare tra l’orientamento francese e quello tedesco. Si tratta pertanto di una questione di fondo in ordine alla quale non è mai risultato molto chiaro né il complessivo orientamento italiano in sede europea, né quali siano le ricadute interne all’Italia in riferimento alle scelte che la manovra tendente al rigore ha rispetto alla necessità di crescita e quindi di sviluppo dell’intera economia italiana e delle sue singoli parti, territoriali o economiche che siano. Come hanno posto in evidenza numerosi commentatori, soprattutto della stampa internazionale specializzata sui grandi temi economici, si è trattato e si tratta di una scelta di fondo che non può essere soltanto vista in termini di neoliberisti o di neokeynesiani, perché all’origine di questa distinzione vi è una diversa valutazione sulle radici della crisi economica innestata soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna tra il 2007 e il incidenza che in esso ha il debito dei privati e delle imprese. Si tratta – come si vede – di grandi questioni di ordine politico, prima ancora che economico, perché occorre orientarsi, in questo tempo della tendenziale globalizzazione economica (come anche Pomigliano insegna), tra fattori della produzione e nuova ripartizione internazionale del lavoro. Per quel che concerne la ricaduta interna della manovra in atto, è di tutta evidenza che si è di fronte ad una possibile collisione tra le esigenze dei risparmi immediati necessari per far fronte alle cosiddette richieste europee, e le potenzialità di sviluppo economico che le diverse parti del territorio hanno, come affermano i sostenitori del federalismo regionale (come dimostra in particolare lo scontro tra Formigoni e Tremonti). Non sarebbe pertanto auspicabile che il voto finale che la Camera si accinge a dare alla manovra dei 24.9 miliardi di euro, venga dato con una sorta di sentimento di adempimento doveroso, perché… l’Europa lo chiede: non esiste una comune idea europea; non esiste una comune idea tra gli Stati Uniti e i maggiori Paesi europei; non è chiaro se l’Italia si stia comportando con un atteggiamento sostanzialmente supino o se si siano seriamente considerate le ricadute che la manovra ha sul piano dell’economia sociale di mercato e sulla stessa natura del federalismo verso il quale l’Italia sembra definitivamente orientata. vince), di sprechi e privilegi (vedi il caso delle quote latte)... Non sono mai stato d’accordo con chi sosteneva che la Lega era un fenomeno positivo e che meno male che esisteva. In realtà Bossi rappresenta quanto di peggio nasce dalla pancia degli italiani. C’è poi la grande finzione del federalismo alla leghista. Se avessero letto Cattaneo saprebbero che ha sognato una Europa federale. Ma questa idea è lontana mille miglia da Bossi. La Lega, cercando di assecondare una tentazione federalista, copre in realtà una tentazione secessionista. Lei ha parlato della possibilità di rifare un partito dei cattolici. Non ho mai accettato l’idea che quella tradizione sia stata completamente consumata dalla storia. Così come non ho mai creduto nel dogma dell’unità dei cattolici in politica, non credo nemmeno nel dogma della loro disunione. Ritengo – e questa è un’idea sturziana – che una radice evangelica potrebbe essere in grado di alimentare una forza politica. Ma non vedo nulla che si muova in questa direzione. Sento parlare di far nascere un grande partito della Nazione – speriamo non lo chiamino così – ma non vedo ancora niente di conseguente. Per riuscire a fare ciò occorrerebbe mettersi in discussione, accettare il rischio. Ed è proprio questo che manca. Ma non riguarda solo l’Udc. E nemmeno solo i partiti, ma anche la cultura: dove sono i pensatori politici? E dove sono i pensatori tout court? Onorevole Martinazzoli, dove avete sbagliato? Questa è una domanda giusta, alla quale non rispondiamo. Nel momento del crollo della prima Repubblica c’era una condanna generalizzata e ingenerosa di tutto, ora si è passati alla nostalgia. Eppure occorre fare i conti con le responsabilità. Certamente abbiamo perso l’occasione che ci fornirono il crollo del muro di Berlino e il crollo del comunismo di diventare una democrazia più simile alle altre democrazie occidentali. Di costruire cioè una vera democrazia dell’alternanza. Già prima del 1989 era questa l’idea che ispirò la politica di Moro e qualcuno sostiene che morì con lui. Moro perseguiva l’alternanza per via politica, oggi l’abbiamo raggiunta per via antipolitica. Che cosa consiglierebbe di fare? In questo vuoto anche culturale anche io sarei tentato come Galli della Loggia di rivolgermi alla politica affinché dica una parola, esprima un qualche disegno. Ma subito dopo, mi ritraggo. Vedo l’estrema difficoltà di tutto questo. Cosa fa la politica? Ogni tanto, sempre più raramente, organizza convegni selezionando attentamente chi invita per non sentirsi porre domande non desiderate. E poi che coerenza c’è fra quelle elaborazioni e i compromessi che si fanno il giorno dopo? Mi sembra che più di un chiamare a raccolta intorno a delle idee, a dei programmi, ci si rallegri dei dispersi. Bisognerebbe fare il contrario. Lo dico anche a voi di liberal: pungolate i vostri politici. Avrebbe mai immaginato che il Pci, partito di cui si può dire tutto ma non che non avesse una cultura politica, avrebbe partorito tanti topolini ciechi? Si dice che bisogna buttare l’acqua sporca e tenersi il bambino. Loro, al contrario, hanno buttato il bambino e tenuto l’acqua sporca. diario pagina 6 • 24 luglio 2010 Strategie. È stato il giorno dell’ex colonnello: dopo una maratona in tv ha aperto il convegno della propria corrente L’asse Alemanno-Tremonti Il sindaco e il superministro alleati di ferro per il dopo-Berlusconi ROMA. L’ideologo? Giulio Tremonti. Il progetto? «Un partito plurale, dinamico» e, soprattutto, «strutturato», dice Gianni Alemanno. Nella testa del sindaco di Roma il Pdl del futuro c’è già. Ed è quello del dopo Berlusconi. L’ex capo della destra sociale parla con stereofonica insistenza sia dalla convention della sua Fondazione Nuova Italia, a Orvieto, sia dagli schermi de La7. Manda messaggi chiari al Cavaliere e soprattutto agli ex colonnelli di An, in grande ambasce per le intemperanze del premier. Soprattutto inaugura la sua tre giorni di convegno su “Federalismo e unità nazionale”con una scelta precisa: Giulio Tremonti, appunto. È al ministro dell’Economia che viene concesso l’onore di aprire i lavori: prima di lasciargli la parola, il primo cittadino della Capitale lo presenta come «una guida non soltanto economica ma anche culturale». In questi momenti di difficoltà nel Pdl, spiega, «ci può essere una grande riflessione per superare la crisi ma anche per avere una forte rigenerazione: in questo Tremonti può essere un punto di riferimento». Una scelta chiara, netta. Che non mancherà di alimentare sospetti e supposizioni dietrologiche nell’ambiente berlusconiano. Soprattutto, quello di Alemanno sembra essere una sorta di piano B a cui ricorrere nel caso non arrivas- davvero tutto il resto, cioè il Pdl, crollasse o si parcellizzasse in un arcipelago balcanizzato. Lo stesso Tremonti, per ora, prova a ispirarsi al miglior ecumenismo di cui è capace il suo alleato romano: «Il federalismo? O è una scelta comune o è un errore», dice nel discorso di apertura. Nien- «Giulio è un punto di riferimento non solo per l’economia», dice l’ex capo della destra sociale. Poi spiega: «Dopo Silvio verrà una squadra» sero la pacificazione e la maturazione organizzativa del Pdl. Il sindaco di Roma ha già individuato la sua opzione: un patto con il blocco di maggiore consistenza ideologica e strutturale che si trovi oggi nella maggioranza di centrodestra, quello della Lega e di Tremonti. Non a caso il convegno di Orvieto ruota attorno allo slogan “Dalle identità locali all’unità nazionale”. Formula di estrema sintesi con cui si immagina un partito, che sia o no il Pdl, capace di coniugare il pressing leghista per il decentramento con un impianto nazionale affidabile. Ma si tratta appunto della ridotta strategica, quella in cui Alemanno si rifugerebbe se tra tutti noi ex di An c’è un atteggiamento diverso sul tema della legalità. Quelli di Forza Italia sono su una posizione più garantista, per un fatto identitario, ma per noi le ragioni dell’opportunità tendono a prevalere sul pur rispettabile principio del pregiudizio d’innocenza». E allora, e qui viene il secondo decisivo punto di convergenza tra alemanniani ed ex An filo-berlusconiani, «non si può arrivare a uno showdown con Fini e consentirgli di appropriarsi della legalità, di brandirla come tema esclusivo. Bisogna sottrarglielo in qualche maniera, o tutti noi che veniamo da quell’esperienza finiremmo per trovarci in una condizione di grande disagio all’interno del Pdl». di Errico Novi te strappi, assicura il ministro, neppure con i Comuni: «Il testo sul federalismo fiscale che verrà fuori alla fine», spiega, «sarà condiviso con loro». D’altra parte Alemanno intravede la convergenza con gli altri ex colonnelli di An, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri, su almeno due punti chiave: l’organizzazione del partito e la cosiddetta questione morale. Spiega un altro ex di via della Scrofa schierato con il primo cittadino: «Berlusconi non può pensare che un partito possa ridursi a lui e ai rappresentanti di lista». Perché è questo lo schema che ha ripreso a circolare nella testa del Cavaliere. È il modello- Brambilla, in cui l’alacre animatrice dei “Promotori della libertà” diventa la vestale di un partito senza dirigenti. È un’ipotesi sulla quale Gasparri e La Russa non hanno alcuna intenzione di seguire il presidente del Consiglio. Il capogruppo dei senatori pdl peraltro a Orvieto c’è, così come non manca il suo omologo della Camera Fabrizio Cicchitto: «Non a caso anche tra gli ex forzisti doc prevalgono forti perplessità su un’eventuale nuova svolta movimentista del Cavaliere», prosegue l’alemanniano, «un discorso che vale anche per certi big del Nord come Formigoni». Un partito che si ribella al suo capo? Potrebbe essere anche questa la scena immaginata da Alemanno quando dice che «dopo Berlusconi non ne verrà un altro ma ci sarà una squadra, ci saranno più persone che avranno ruoli diversi e rappresenteranno la seconda fase del Pdl». Perché, aggiunge il sindaco nell’intervista serale su La7, «dopo una fase carismatica ce ne sarà una in cui conteranno la squadra e la struttura del partito». E questa fase è lontana, spostata in un futuro quasi irreale, o è più vicina di quanto si pensi? Alemanno non lo dice, né in tv né dal palco di Orvieto, ma certo lo sconcerto per la nuova sindrome del predellino impadronitasi di Berlusconi è evidente. Racconta, il sindaco, anche di averne parlato allo stesso premier, di aver espresso a lui per primo la richiesta urgente di «una fase congressuale da avviare innanzitutto sul territorio, a livello di città, province e regioni, perché il Pdl ha bisogno di una classe dirigente selezionata dal basso, in modo dinamico, e non dalle correnti che si formano nel Palazzo». Ma per stessa ammissione di Alemanno, «Berlusconi è rimasto perplesso, c’è una cultura politica diversa». Anche se lui non dispera di ottenere risposte riguardo all’organizzazione come sull’auspicabile «chiarimento tra Berlusconi e Fini». Riecco l’Alemanno ecumenico, che non si schiera certo con il suo ex leader ma nemmeno ne invoca l’espulsione. «Anche perché la soluzione disciplinare sarebbe sbagliata», suggerisce ancora il parlamentare alemanniano che preferisce restare anonimo, «bisogna casomai stabilire delle regole interne, ma bisogna anche rendersi conto che Sono i due elementi di frattura tra il Cavaliere e la pattuglia dei Gasparri e dei La Russa, considerati finora puntello affidabile della strategia berlusconiana: organizzazione e legalità. E almeno sul primo aspetto la sintonia può crearsi anche con una parte di quel correntone maggioritario “doroteo”, in buona parte composto dalla vecchia guardia forzista. «Non si può fare a meno dei congressi», è il mantra che accompagna un venerdì di forte presenza mediatica per Alemanno, il primo da due anni, forse, vissuto con tanta intensità sotto una veste diversa da quella di sindaco di Roma. «Il problema vero è la partecipazione», è il segnale affidato dal primo cittadino della Capitale alla tv e atteso anche nel discorso riservato alla chiusura di domenica, «ci vuole un partito strutturato se vogliamo una classe dirigente meritocratica». Su questo, conferma Alemanno, «concordano anche forzisti doc». Appunto. Ma in attesa che il pressing circolare sul premier restituisca qualche risultato, il sindaco si tiene stretto il suo Tremonti, e approfitta di Orvieto anche per tessere la sua tela con altri esponenti del filone “sociale” interno al pdl, come Maurizio Sacconi, ospitato a sua volta al convegno. Due piani, uno di ristrutturazione interna e uno “secessionista”, accomunati dalla sostanziale assenza dell’impronta berlusconiana: Alemanno non ne ha altri, a meno che il Cavaliere non si decida ad aprire una stagione nuova nel partito. diario 24 luglio 2010 • pagina 7 Il «fisco locale» pesa ogni anno per 2.364 euro a testa «Non tollereremo i sacerdoti che hanno una doppia vita» La Lombardia è la regione con le tasse più alte Preti gay: è polemica tra «Panorama» e il Vicariato ROMA. Il «fisco locale» pesa ogni anno per 2.364 euro a testa sui cittadini italiani. A fare i conti in tasca ai contribuenti alle prese con i balzelli di Regioni, Province e Comuni è uno studio dei tecnici della della Camera elaborato in base ai dati forniti dalla Commissione paritetica per il federalismo fiscale (Copaff), che l’agenzia giornalistica Ansa ha poi rielaborato. I dati sono relativi al 2008, l’ultimo anno disponibile. Il cittadino ha pagato nel 2008 in media 1.932 euro di tasse alle Regioni, 344 euro ai Comuni e 88 euro alle Province. Dall’elaborazione fatta dai giornalisti dell’Ansa, emerge che i più tartassati, nelle regioni a contabilità ordinaria, sono i cittadini lombardi con 2.697 euro pagati a testa a tutti gli enti territoriali. Le tasse «locali» più leggere sono invece quelle pagate dai campani che ogni anno sborsano 1.657 euro per finanziare le amministrazioni territoriali. Ma la Campania è al primo posto per la tassa sui rifiuti con 128 euro pro capite all’anno. La tariffa sui rifiuti più bassa è invece quella paga- ROMA. Se ci sono sacerdoti gay, «coerenza vorrebbe che venissero allo scoperto», perché «nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo i benefici». È questa la posizione secca e inequivoca espressa dal Vicariato di Roma in una nota diffusa dopo le rivelazioni del settimanale Panorama che, nel numero in edicola, sostiene - un lungo servizio ricco di particolari - che ci sono alcuni preti che conducono una «doppia vita», frequentando nel tempo libero i locali di ritrovo degli omosessuali della capitale. ta in Veneto con 24 euro pro capite all’anno. La media è di 78 euro pro capite l’anno. L’Ici sulla seconda casa più cara è in Liguria. La media dell’imposta comunale sugli immobili sulla seconda casa è stata di 170 euro pro capite, ma i liguri ne pagano 243 a testa. In Basilicata si pagano 86 euro a testa, in Calabria 95. Infine, il Molise è la prima regione per trasferimenti pro capite con 1.353 euro, mentre il Piemonte è il fanalino di coda con 166, che supera di poco la Lombardia con 175 euro. L’importo dei trasferimenti per le regioni ordinarie è in media di 331 euro. Il conteggio è stato fatto dall’Ansa in concomitanza con la discussione all’interno del governo (con Berlusconi e Tremonti su fronti opposti) sull’introduzione di una nuova tassa comunale. Vacanza d’affari per Medvedev in Italia Appello alle nostre aziende: «Investite in Russia» Il vicariato di Roma non manca di stigmatizzare la finalità «evidente dell’articolo, che non sarebbe altro che quella di di Alessandro D’Amato ROMA. «In una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione. Mi auguro soltanto che questo non accada a scapito dell’Italia e degli addetti italiani a cui la Fiat offre il lavoro». Silvio Berlusconi sceglie di rispondere a una domanda durante la conferenza stampa seguita al vertice Italia-Russia per manifestare il proprio disappunto nei confronti dell’annuncio della Fiat di trasferire parte della produzione in Serbia. Una battuta che farà discutere soprattutto ai piani alti del Lingotto, specialmente per le ripercussioni che potrebbe avere sui rapporti con il governo. Per il resto, il mini-vertice Italia-Russia tenutosi a Milano, al Palazzo della Prefettura, è stato l’occasione per tessere una serie di rapporti e relazioni e lanciare segnali diplomatici di distensione nei confronti dell’Unione Europea. Il presidente del Consiglio ha accolto l’ospite nel cortile dell’edificio, dove i due leader hanno ascoltato l’esecuzione dei rispettivi inni nazionali ed hanno passato in rassegna il picchetto d’onore interforze. All’interno del palazzo, a salutarli, c’erano anche, tra gli altri, il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, il sindaco di Milano, Letizia Moratti, e il presidente della Provincia, Guido Podestà. Berlusconi ha assicurato al presidente russo Dmitri Medvedev di essere «impegnato per portare avanti il problema» della liberalizzazione dei visti per i cittadini russi a livello europeo, chiedendo «di inserire il tema della prossima riunione dei Capi di Stato e di governo europei», e di averne parlato al presidente della Commissione Ue Josè Manuel Durao Barroso e al Commissario Antonio Tajani. Il presidente del Consiglio ha anche assicurato che i due governi collaboreranno per risolvere le difficoltà delle acciaierie di Piombino, rilevate dal gruppo russo Severstal dai Riva qualche anno fa. E Medvedev nella conferenza stampa a Milano ha anche auspicato che «la joint-venture nel comparto automobilistico tra Fiat e il gruppo russo Sollers è un progetto molto importante e spero crescerà e si amplierà», sottolineando con soddisfazione come in Russia la richiesta di mercato di automobili sia tornata ai livelli precedenti alla crisi. Più in generale Il presidente russo ha invitato le aziende italiane a partecipare al grande piano di modernizzazione dell’economia russa, in particolare nei comparti «ad alto contenuto tecnologico». Medvedev ha citato in particolare i settori della farmaceutica, delle tecnologie spaziali, delle telecomunicazioni e del nucleare: «Ciascuna di queste sfere - ha sottolineato - è aperta alla partecipazione italiana». E d’altronde, secondo Medvedev, «Le nostre economie stanno superando la crisi. Il premier Berlusconi mi ha detto che c’è una certa crescita in Italia ma anche in Russia c’è un miglioramento: noi contiamo di avere alla fine dell’anno una crescita del 5%». Medvedev ha spiegato di aver appreso con «piacere» l’andamento dei dati italiani che gli ha illustrato Berlusconi: «Indicano una crescita in Italia», ha sottolineato auspicando che questo contribuisca anche ad un ulteriore sviluppo «dei rapporti economici tra Italia e Russia, in vista di nuovi investimenti reciproci». D’altronde, «nei primi 4 mesi del 2010 c’è stato un incremento degli interscambi tra Italia e Russia del 41%», ha fatto sapere il premier italiano, il quale poi ha detto che «Il 2011 sarà l’anno della cultura e della lingua italiana in Russia e della cultura e della lingua russa in Italia». La presenza «della lingua italiana in Russia è un nostro valore», ha aggiunto Medvedev sottolineando che «è importante che i giovani» di entrambi i paesi conoscano i rispettivi idiomi oltre all’inglese. Dopo la conferenza, una breve visita al Duomo e alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Milano per ammirare il Cenacolo di Leonardo da Vinci, prima del pranzo ad Arcore. Vertice con Berlusconi prima delle ferie a Cervinia: «Mi ha detto che i vostri conti sono ottimi. Vi faccio i complimenti!» creare lo scandalo, diffamare tutti i sacerdoti, screditare la Chiesa e fare pressione contro quella parte della Chiesa da loro definita intransigente, che si sforza di non guardare la realtà dei preti omosessuali». Tuttavia, di fatto non esclude che qualche sacerdote possa condurre una doppia vita, precisando però che a Roma vivono molti sacerdoti provenienti da tutto il mondo per studiare e che nulla hanno a che fare con la Chiesa di Roma. «Non vogliamo loro del male - si afferma nella nota pubblicata sul sito del vicariato Romasette.it ma non possiamo accettare che a causa dei loro comportamenti sia infangata la onorabilità di tutti gli altri». «Chi conosce la Chiesa di Roma, dove vivono anche molte centinaia di altri preti provenienti da tutto il mondo per studiare nelle università, ma che non sono del clero romano nè impegnati nella pastorale - rileva il vicariato - non si ritrova minimamente nel comportamento di costoro dalla ”doppia vita”, che non hanno capito che cosa è il ”sacerdozio cattolico” e non dovevano diventare preti. Sappiano che nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo i benefici. Coerenza vorrebbe che venissero allo scoperto». economia pagina 8 • 24 luglio 2010 Il risultato dell’«esame» Sette bocciati su 91 istituti: Spagna e Grecia non superano il «test» europeo di Francesco Pacifico ROMA. Il campanello d’allarme non è scattato. Anche perché non si intravedono default che potrebbero riportare l’Europa in recessione. È questo l’esito degli stress test la Bce attraverso il Cebs (Committee of European Banking Supervisors) ha condotto sul grado di patrimonializzazione in base all’attività (ratio Tier 1) di 91 grandi banche europee e che ha comunicato ieri sera alle 18, a mercati chiusi. Gli operatori si sono mostrati molto scettici sul check up, che non ha preso in considerazione tutte le esposizioni delle banche sui bond a rischio. Ma il risultato, comunque, è chiaro: seppure tornasse una recessione forte come quella che nel nel 2009 ha riportato indietro la Ue di cinque anni, sarebbero sette gli istituti che rischierebbero di saltare e che risulterebbero avere un Tier 1 sotto la soglia minima (6 per cento). In totale la perdita sareb- be di 566 miliardi di qui al 2011. Non c’è quindi l’ombra di double deep, la bocciatura più eclatante riguarda un istituto della Germania, Hypo Real Estate, da tempo sotto osservazione da parte del governo (che l’ha nazionalizzata) e della vigilanza tedesca. Eppure, a guardare in filigrana i risultati, non sono da escludere a priori rafforzamenti sulla patrimonializzazione, per dare al sistema bancario la forza di affrontare con maggiore sicurezza le crisi che potranno avvenire in futuro. Non a caso, e prima che scattassero le 18, tre istituti (la Banca nazionale greca, la slovena Nib e la cassa spagnola Civica) hanno fatto sapere di aver già chiesto l’autorizzazione alle rispettive vigilanze per un rafforzamento della patrimonializzazione superiore ai 400 milioni di euro. Tra i Paesi con un sistema più stabile c’è l’Italia. Promosse le cinque banche messe a raggi X. Di fronte allo scenario peggiore, le simulazioni hanno rilevato che il Tier 1 di Intesa è pari all’8,2 per cento, Unicredit al 7,8, Banco popolare al 7, Ubi banca al 6,8 e Monte dei Paschi al 6,2. Secondo Bankitalia i risultati degli istituti nostrani pagano, a differenza dei loro concorrenti europei, «limiti nazionali più stringenti e l’assenza di capitale pubblico». Soddisfatto il Ceo di Piazza Cordusio, Alessandro Profumo: «Un passo importante per chiarire ogni dubbio sulla solidità del sistema bancario europeo». Da Siena Mps fa sapere che continuerà la sua azioni per rafforzare il patrimonio. Risultati contrastanti dalla Germania. Su 14 realtà passare al microscopio soltanto la Hypo Real Estate (Hre) non ha un livello di patrimonializzazione sufficiente: il suo Tier 1 è pari al 4,7 per cento in caso di crisi del debito sovrano e al 5,3 in uno scenario di recessio- Retroscena. A Wall Street aumentano gli scettici: la crisi innescata dalla quasi-bancarotta di Atene non è finita La Ue è sotto stress Dagli Usa dubbi sull’esame delle banche e sulla tenuta del debito dell’Ungheria di Enrico Singer li esperti già si dividono nella valutazione dei risultati degli stress-test sulla solidità dei 91 grandi istituti di credito europei. C’è anche chi è convinto che l’affidabilità di questa maxi indagine sia molto relativa, non fosse altro perché le banche sono state giudicate dalle autorità di vigilanza dei loro stessi Paesi che hanno tutto l’interesse a nascondere i problemi. E che il vero responso su questa ennesima operazione-fiducia tentata dall’Unione europea - la decisione di rendere pubblici gli stress-test è stata presa nell’ultimo summit dei capi di Stato e di governo della Ue - arriverà soltanto lunedì, quando riapriranno i mercati. «Sarà quello il vero giorno del giudizio», ha scritto ieri il Wall Street Journal che con l’Europa politica ed economica non è mai stato tenero e che ha ricordato che già nel 2009 il sistema bancario europeo superò complessivamente l’esame proprio alla vigilia dell’esplosione della crisi generale. Non solo. Moody’s ha preannunciato una possibile revisione al ribasso del rating del debito sovrano dell’Ungheria che, tra i Paesi dell’ex blocco comunista entrati nell’Unione europea, è quello più in difficoltà per l’incertezza delle politiche fiscali e per le prospetti- G ve di crescita economica. L’agenzia di rating americana è preoccupata dall’interruzione dei colloqui tra Budapest e il Fondo monetario internazionale per la concessione di una seconda linea di credito. Il vecchio prestito, per un totale di 20 miliardi di euro, scadrà il prossimo ottobre e Moody’s ha fatto sapere che, a suo giudizio, l’economia ungherese resta vulnerabile per l’alto indebitamento in valuta estera sia del settore pubblico che del privato. Così, con una procedura a dire poco spregiudicata, Moody’s ha avvertito l’Ungheria - e non solo - che potrebbe confermare il rating mi. Moody’s aveva già effettuato un downgrade da A3 a Baa1 il 31 marzo del 2009. Tra i dubbi sull’operazione stresstest sulla solidità degli istituti di credito e l’allarme sulla tenuta dell’Ungheria, quelli che arrivano dall’America sono segnali di grande scetticismo sulla stabilità dell’Europa. A Wall Street e, soprattutto, nelle banche Usa sono in molti ormai a credere che l’euro andrà incontro a nuovi shock e che la stessa costruzione istituzionale della Ue è in pericolo. I più pessimisti sostengono che il vero stress-test sul futuro dell’Unione c’è già stato: è il caso-Grecia che ha messo in discussione la capacità dei Molti analisti americani sono ormai convinti che l’Euro è destinato ad andare incontro a nuovi shock e che la stessa costruzione istituzionale dell’Europa è in pericolo per le divisioni interne attuale soltanto se il governo conservatore di Viktor Orban si impegnasse a rispettare gli obiettivi fiscali che erano stati chiesti dal Fmi e se gli altri indicatori macroeconomici restassero positivi. Una specie di ultimatum al quale Orban ha replicato che è disposto a discutere la sua politica economica con la Ue e non con l’F- ventisette Paesi della Ue di stare insieme. Il tanto temuto Patto di stabilità ha dimostrato tutti i suoi limiti per assicurare credibilità alla moneta unica che, come dicono i tecnici, non è sostenuta da regole condivise ex ante, ma soltanto da misure correttive ex post che, nella pratica attuazione, sono state il più delle volte ag- girate. O sono state modificate quando a non rispettarle sono stati la Germania e la Francia, dopo l’Italia. Il vero problema è che l’euro è la sola moneta al mondo che non ha uno Stato alle sue spalle, ma una unione di Paesi - sedici fino a questo momento che a loro volta fanno parte di una più vasta unione a ventisette in cui decisioni fondamentali, come le politiche fiscali, sono rimaste appannaggio dei singoli governi che si muovono in ordine sparso seguendo logiche nazionali di maggiore be- neficio per ottenere investimenti e favorire delocalizzazioni a scapito degli altri Paesi della stessa Ue. Senza contare che dall’unione monetaria si tengono prudentemente alla larga segmenti importanti dell’Europa come la Gran Bretagna e la Svezia - tra i “vecchi”- o la Polonia che, tra i “nuovi”, è la meno attratta dalla prospettiva di aderire all’euro. La speculazione internazionale, che per sua natura non fa opere di bene, si è inserita nelle contraddizioni e nelle divisioni dell’Europa scatenando le ondate di attacchi alla moneta comune che, se- economia ne. Promossi i giganti la Deutsche Bank e Commerzbank, che rappresentano il 50 per cento del mercato. Non vanno meglio le cose in Spagna, dove ben cinque casse di risparmio spagnole sono a rischio default. La settima pecora nera è la greca Ate Bbank, bocciata a differenza della concorrente Alpha Bank. Promossa invece la Francia: tra i quattro istituti valutati la migliore performance è quella di Socgen, con un Tier 1 al 10,2 per cento, seguita da Bnp al 9,7. Anche Danske Bank, Jyske Bank e Sydbank hanno superato i test di resistenza. Nessun problema poi in Paesi da tempo messi sotto sorveglianza dalle agenzia di rating come Portogallo o Irlanda. Per tutta la giornata sono girate voci sul mercato di bocciature più pesanti. Ne hga risentito l’euro – infatti ha chiuso in calo a 1,28 sul dollaro – ne hanno risentito i principali listini del Vecchio continente, mossi in maniera contrastata e al rallentatore. Nel giorno in cui Moody’s ha abbassato il rating dell’Ungheria, Milano, tra 24 luglio 2010 • pagina 9 le peggiori, ha segnato un -0,44 per cento. Londra ha invece ceduto lo 0,02, Parigi sale dello 0,18 per cento e Francoforte porta a casa un +0,39. Un giudizio più credibile i mercati lo daranno lunedì. Forse perché gli operatori non credono alla bontà di questi screening. Schroeders Investment ha parlato di «banche stressate con un bastoncino che fa il solletico», paventando che «saranno letti più come una pagellina di fine anno delle elementari che la ponderata e prudente opinione di un corpo di regolatori finanziari». Non poche polemiche ha scatenato la decisione del Cebs di verificare soltanto i titoli di debito sovrano detenuto nel portafoglio di negoziazione, non le posizioni in chiusura. Con il risultato che non è arrivata condo molti analisti d’oltreatlantico, non si sono ancora esaurite. Anzi, la creazione del fondo di solidarietà di 750 miliardi di euro deciso dalla Ue nel maggio scorso per fronteggiare eventuali nuovi attacchi speculativi avrebbe aumentato gli appetiti dei riders che sono sempre a caccia di tesoretti. Visto dagli Usa che, tra l’altro, l’ha fortemente voluto e favorito, l’allargamento della Ue agli otto Paesi dell’ex blocco comunista - più Cipro e Malta ha creato degli squilibri insanabili. Gli analisti americani sono convinti che il peso di realtà economiche come quelle di Bulgaria e Romania, soltanto una credibile valutazione sulle ipotesi di default degli Stati. Tamara Burnell, a capo degli analisti di M&G che si occupa di istituzioni finanziarie, ha fatto notare «che banche come quelle di Irlanda e Grecia, con i loro chiarissimi e ovvi problemi passeranno il test». Morale? «La cosa più assurda», aggiunge, «è che le banche stanno dichiarando di essere abbastanza solide da passare facilmente gli stress test, ma allo stesso tempo si dichiarano così deboli da non poter far fronte all’implementazione entro il 2012 di Basilea 3 o al ritiro della liquidità da parte della banca centrale». Agli operatori non è piaciuta neanche la scelta di fissare l’asticella del Tier 1 al 6 per cento, tenendo conto che come ratio è più credibile il Core Tier 1: cioè il rapporto tra il patrimonio di base e attività a rischio ponderate. ve non sono positive. La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) ha appena rivisto al ribasso le stime della crescita dei trenta Paesi in cui opera - dai Balcani all’Asia centrale - anche come effetto delle politiche di austerity decise dai “big” della Ue, primo fra tutti la Germania. E questo, ancora una volta, conferma l’interdipendenza tra realtà che è, al tempo stesso, molto difficile armonizzare. Allora è giustificato il pessimismo degli americani? L’euro e la Ue stessa vanno verso il disastro? Di sicuro le turbolenze di questi mesi sono la conferma che l’Europa viaggia, ormai, a Anche Tremonti ammette che le difficoltà non sono finite: «Mi sembra di essere dentro un videogame, arriva un mostro, lo distruggi, ti rilassi e ne arriva un altro più grande del primo» La Merkel, Sarkozy e Barroso con il greco Papandreou. In alto, il presidente della Bce, Trichet. A destra, David Cameron, premier della Gran Bretagna che è fuori dall’euro. A fianco, la sede della Banca centrale europea a Francoforte per fare due esempi, non raggiungeranno mai gli standard del resto dell’Unione europea. Con due effetti collegati e contrari: da una parte la concorrenza a colpi di lavoro a basso costo e poche tasse per attirare i capitali fluttuanti dei vicini più ricchi, dall’altra l’esposizione crescente a Est delle maggiori banche della “vecchia”Europa con il corollario dell’aumento dei rischi. Non è un caso che poche settimane fa il ministro delle Finanze austriaco, Josep Proell, ha chiesto alla Ue di intervenire con un pacchetto di 150 miliardi di euro per salvare le banche dell’ex blocco sovietico (non solo quelle dei Paesi entrati nella Ue). Richiesta respinta che poggiava, però, su una ragione molto semplice: le sole banche austriache hanno prestato 230 miliardi di euro una somma pari al 70 per cento di tutto il Pil dell’Austria - agli istituti di credito di questa grande area. E se salta l’Europa dell’Est salta tutto il sistema. Ancora una volta, le prospetti- diverse velocità. Ma che, proprio per questo è destinata ad andare avanti come in un grande campionato dove ci sono serie A, B e dilettanti con qualche passaggio di categoria deciso in base alle classifiche di fine anno. Giulio Tremonti, che è diventato il più europeista dei ministri italiani, è convinto, tuttavia, che «è falsa l’illusione che i costi generati dalla crisi in un Paese possano essere limitati a quel Paese», come ha detto tre giorni fa in una lezione agli studenti dell’Università di Friburgo. Dove ha rilanciato il paragone con il Titanic «nessuno pensi che sia sufficiente avere un biglietto di prima classe per salvarsi» - e ha ammesso che la crisi resta in agguato: «Mi sembra di essere dentro un videogame, arriva un mostro, lo distruggi, ti rilassi e ne arriva un altro più grande del primo». economia pagina 10 • 24 luglio 2010 Provocazioni. La strategia dell’azienda è chiara: la crisi è durissima, bisogna che politica e sindacati se ne rendano conto L’ultimatum di Marchionne Berlusconi cerca di difendere l’Italia. Ma la Fiat vuole nuove regole di Gianfranco Polillo uella di Fiat rischia di divenire una storia infinita. Un tormentone che tra dibattiti, interventi politici, le inevitabili proteste sindacali si trascinerà chissà per quanto. I presupposti ci sono tutti e non da ora. Tutto era cominciato con Termini Imerese: uno stabilimento nel profondo Sud, sottodimensionato dal punto di vista produttivo e lontano anni luce dai possibili mercati di sbocco anche se collocato nel cuore del Mediterraneo. Fino a qualche anno fa una sorta di confine tra lo sviluppo e la desolazione di Paesi che, sebbene dotati di immense ricchezze petrolifere, non riuscivano a trovare la loro strada. Oggi un grande fiorire di iniziative industriali e finanziarie, al punto che il tasso di sviluppo medio dei Paesi che vi si affacciano - con la sola esclusione del nostro Mezzogiorno - è cinque volte quello della vecchia Europa. Peccato che Sergio Marchionne non abbia voluto considerare quest’ipotesi e abbia «tirato innanzi». Lo stabilimento sarà riconvertito non si sa bene in che: dalla produzione di auto elettriche a fantastici studios televisivi. Vedremo quel che succederà. Storia solo in parte diversa per Pomigliano D’Arco. Qui verrà realizzata la nuova Panda. Destinazione? Proprio quei Paesi di cui abbiamo detto. Un investimento di 700 miliardi di euro, che l’Italia è riuscita a soffiare alla Polonia, solo dopo un lungo braccio di ferro tra le organizzazioni sindacali. Con tutti i sindacati, compresa una parte non secondaria della CGIL, da una parte ed i puri e duri della Fiom a rispondere a Q flittualità - lo stillicidio di Melfi, con tre operai che bloccano la catena di montaggio - alle furbizie della false malattie, a quell’assenteismo, spesso solo individuale, ma capace di bloccare un sistema produttivo che, per essere competitivo visto il maggior costo della mano d’opera italiana, deve funzionare come un orologio. Sergio Marchionne, già in questo caso, non aveva esitato a far trapelare la sua delusione. Ma come - avrà pensato giorno per giorno lottiamo in un mercato sempre più diffici- Annunciare il trasferimento di un pezzo della produzione di Mirafiori in Serbia è un avvertimento finale a governo e opposizione muso d’uro. Le condizioni poste dalla Fiat dovevano essere semplicemente rispedite al mittente. C’è voluto un referendum tra i lavoratori per dire che è meglio lavorare, seppure più duramente, piuttosto che morire d’inedia o finire, inevitabilmente, nelle braccia della camorra. Ci si aspettava, per la verità, un consenso maggiore. Soprattutto una consapevolezza più forte che mettesse fine alla microcon- le, dove la concorrenza non fa prigionieri. Nonostante questo, investiamo scontando un rendimento del capitale molto inferiore. Ebbene, nonostante questo, lo sforzo per convincere esercitato dalle forze più responsabili del sindacato e della politica, una fetta consistente dei lavoratori ci dice di andare al diavolo. Uno schiaffo in pieno viso, se si guarda a come funzione il resto del pianeta. E non parliamo della Ci- na o dell’India. Negli Stati Uniti, i lavoratori della Chrysler, da sempre cointeressati al buon funzionamento dell’azienda, accettano addirittura un taglio nel loro salario, pur di salvare il salvabile. Ma che razza di paese è diventato il nostro? Lo scontro - avrebbe chiosato un epigono del ’68, tra i tanti ancora in circolazione - investe il potere all’interno della fabbrica. Questioni di principio, su cui non si tratta. Fesserie. Il mondo - se mai lo è stato - non è quello che si riflette in questi deliranti atteggiamenti. Funziona semplicemente in modo diverso. E Marchionne ne è consapevole. Ed ecco allora le scelte finanziarie. La divisione in due della vecchia Fiat. Il concentrarsi sul core business, senza rinunciare, tuttavia, come osservava perfidamente Massimo Muchetti, all’interesse per i media, che com’è noto sono un tutt’uno con la produzione di automobili. Poi la botta finale. Basta: spostiamo le produzioni di Mirafiori a Kragujevac, un paesino della Serbia, che è difficile addirittura da pronunciare. Lì si realizzeranno i nuovi modelli di Fiat Idea e Lancia Musa, che il vecchio piano industriale - “Fabbrica Italia”- aveva origi- In alto, Sergio Marchionne. Qui sopra, Guglielmo Epifani che ha attaccato il trasferimento in Serbia. Sotto, il ministro Sacconi nariamente previsto nel luogo simbolo della produzione Fiat. Un cataclisma che ha determinato le immediate reazioni di tutte le forze politiche italiane: sia di maggioranza che di opposizione. La stessa Confindustria, per non parlare dei sindacati, si è unita in un atteggiamento di stupore, se non di vera ed esplicita condanna. Buon ultimo, il presidente del Consiglio/imprenditore che dice: delocalizzare sì, ma non a scapito dell’Italia! Non mancheranno le risposte. E c’è già che avanza il sospetto di una manovra, almeno in parte, strumentale, per imporre quelle modifiche nel contratto nazionale di cui si vagheggia da anni, ma che nessuno è stato in grado di realizzare. Sarà pure così. La nostra lettura è diversa. La crisi finanziaria internazionale è tutt’altro che “un pranzo di gala”: avrebbe detto il non compianto Mao Tze Tung. È la conseguenza delle grandi trasformazioni intervenute - queste sì - nei rapporti di forza effettivi tra le diverse aree del Pianeta. Rapporti che proprio in conseguenza della crisi diverranno ancora più aspri. Non c’è più tempo per le fumisterie, per il “buonismo” peloso, per la comprensione caritatevole. Nel mondo si fa sul serio. Prima ne prendiamo atto. Meglio è per tutti. La politica italiana, invece, ancora si trastulla tra un dibattito ed un talk show, rinviando le scelte necessarie. Ma se questo è possibile, almeno fin quando il grande patrimonio finanziario delle famiglie fa da paracadute, per una grande impresa, come la Fiat, è il momento delle scelte vere. Ha un capitale da difendere, una reputazione industriale costruita mentre altri si gettavano in produzioni energivore ed opulenti. Un futuro che decisioni improvvide - come insegna la crisi internazionale di case prestigiose potrebbero, all’improvviso, pregiudicare. Se questa consapevolezza si diffonde, se modifica il senso comune degli italiani, allora la sfida può essere affrontata. Ma se si vuole che l’azienda corra sui mercati internazionali con il piombo nelle ali, sotto il peso di una visione romantica, per dirla con i classici del marxismo, allora è meglio lasciar perdere. Sarà pure doloroso, ma sarà pur sempre vivere in una valle di lacrime, piuttosto che immolarsi per il nulla. mobydick INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO LA REDENZIONE Nelle sale “Il solista” di Joe Wright SULLE NOTE DI BEETHOVEN di Pietro Salvatori a buoni ultimi, arriva anche in Italia Il solista, già sbarcato nelle sale di ma se la sua vena creativa inizia a fare cilecca. La rubrica che Lopez tiene settimezzo mondo nel 2009 e relegato all’estate dalla distribuzione itamanalmente sulla spalla della prima pagina inizia a subire le pesanti critiLa storia liana targata Universal. Da una parte un peccato. Dall’altra un che dell’editore, finché il giornalista, per caso, non si imbatte in un sencolpo di coda notevole di questa povera estate cinematozatetto, uno dei tanti che vagano per le strade dei bassifondi della vera del clochard grafica, che sta regalando ben poco ai cinefili desiderosi di città di Mulholland Drive e di Beverly Hills. Sì, uno come tanmusicista Nathaniel Ayers buoni prodotti anche sotto la calura estiva. La storia è ti, ma con una dote particolare: un violino che, nonoe del giornalista del “Los Angeles tratta da un libro del 2008, intitolato The Soloist: A stante abbia due sole corde, nelle mani del barbone sprigiona una musica celestiale. È quella Lost Dream, an Unlikely Friendship, and the Times” Steve Lopez, strumento della sua del maestro Ludwig van Beethoven. E forse per Redemptive Power of Music, ancora inedito nel rinascita. Un film intenso sul dono il caso, forse no, il clochard sta suonando proprio sotBelpaese - e chissà che non si trovi un editore interesto la statua dedicata al compositore tedesco in un piccolo sato sulla scia dell’uscita della pellicola - firmato da Steve dell’amicizia ma con qualche parco della città. «Non capisco come il maestro Ludwig possa Lopez, un giornalista che ha tradotto in forma letteraria una sedifetto. Magistrale essere il capo di una così grande città come Los Angeles», confessa rie di propri articoli. E, rimanendo fedele al dettame dell’opera scritJamie Foxx lo spaesato suonatore a Lopez, che scopre che il nome del violinista è ta, Steve Lopez si chiama anche il protagonista del film, interpretato dal Nathaniel Ayers, che in un remoto passato ha frequentato la prestigiosissima volitivo Robert Downey Jr. Lopez è la firma di punta del Los Angeles Times, il scuola d’arte di Juilliard, a New York. più prestigioso quotidiano della più famosa città della West coast. Un vero proble- D Parola chiave Estate di Gennaro Malgieri Simenon spara sulla Corte d’Assise di Pier Mario Fasanotti NELLA PAGINA DI POESIA Nel regno illimitato di Apollinaire di Francesco Napoli Cristina Campo, l’imperdonabile di Pasquale Di Palmo Brevi notizie tra sacro e profano di Leone Piccioni L’altra realtà di Carlo Guarienti di Marco Vallora La redenzione sulle note di pagina 12 • 24 luglio 2010 ne di una piena riabilitazione, del recupero, per meriti indiscussi, di un emarginato nel consesso dei «normali». Larga parte della critica ha accostato la pellicola di Hicks a quella di Joe Wright, giovane e promettente regista inglese, fino a oggi impegnato nell’adattamento di opere classiche della letteratura britannica quali Orgoglio e pregiudizio,nel 2005,ed Espiazione, nel 2007. E da un lato il paragone è comprensibile. Entrambi parlano di due reietti, relegati ai margini del vivere composto ed educato della borghesia moderna. Entrambi custodiscono nelle loro mani e nella loro mente un grande dono, una sensibilità sopraffina per la musica. Ma per Nathaniel Ayers la possibilità di essere redento non si cela dietro la riscoperta di un successo perduto in gioventù e recuperato in extremis per i capelli. No, la consacrazione di Nathaniel si gioca tutta nel rapporto con «il signor Lopez», nell’amicizia donata gratuitamente a uno come lui, davanti al quale il mondo arriccia il naso, non vorrebbe avere nulla a che fare. Un’esperienza produttiva per tutti e due. Lungo tutto il corso della pellicola, infatti, Lopez si illude di far del bene. Arriva a rimediare delle lezioni per il barbone, arruolando un notissimo maestro di violoncello. Fino al momento in cui apre gli occhi: «A Nathaniel non serve qualcuno che lo salvi, occorre uno che gli sia amico». Questa la rivelazione cruciale di un film che si gioca all’interno delle piccole e delicate sfumature di un rapporto. Così il concerto per celebrare il violoncellista ritrovato viene organizzato troppo presto, incentrato più sulla vanità riposta in un nuovo articolo da prima pagina che sul bene voluto all’artista di strada. Se ne accorge tardi Lopez, ma non troppo per non poter rimediare a un errore fatto in buona fede. Dopo il pittoresco incontro, Steve torna in redazione, al tran tran quotidiano, all’idea giusta che non arriva. Ma pian piano, alcune delle informazioni che ha raccolto nella mattinata si compongono nella sua mente formando il filo di una storia formidabile. Nathaniel Ayers è un senzatetto, che gira con il suo carrello pieno di stracci difendendolo come fosse la cosa più preziosa del modo, vestito di strani cappelli raccolti in chissà quale cassonetto, in gilet di paillettes o dalle strisce catarifrangenti, perso da qualche netturbino in una serata a fare il giro di Skid Row, il Bronx losangelino. Ma Nathaniel Ayers è anche un ex allievo di una delle scuole musicali più dure e selettive d’America, i cui test d’ingresso sono noti per la loro severità. Come è possibile che un tale talento sia finito per suonare a un pubblico composto di ubriaconi e corvi che rovistano tra la spazzatura? Questa è la storia che Lopez cercava da tempo. «Ah, suona il violino adesso?», risponde con la voce rotta dall’emozione la sorella, contattata dal giornalista. «Da ragazzo amava solo il violoncello». «Non me lo posso permettere signor Lopez», si giustifica timido Nathaniel, «ma questo violino è bellissimo, anche se ha solo due corde». Scavando un poco, emerge la storia di un bambino prodigio. La passione per il violoncello coltivata nel povero scantinato di casa, dove i rumori molesti del povero sobborgo della Grande Mela non avevano ostacoli a frapporsi tra la celestiale musica di Beethoven e l’archetto del piccolo musicista, il grande salto alla Juilliard, il posto di primo violoncellista nell’orchestra della scuola, prima che un disturbo mentale segnasse la promettente carriera di Nathaniel. Il materiale per un primo pezzo c’è tutto. Il successo in edicola è assicurato.Al punto che in redazione arriva un violoncello,uno di quelli per professionisti. È di un’anziana lettrice, bloccata dall’artrite e affascinata dalla storia del clochard-prodigio. Caricato lo strumento sulla vecchia Saab, Lopez si mette in cerca di Nathaniel per la città. Lo trova sotto una galleria, l’unico posto nel quale, a suo dire, si possa fare musica a Los Angeles: «Si sentono i rumori della città, signor Lopez, dove altro potrei suonare?». Non per la strada, secondo Lopez, il rischio che qualche male intenzionato percuota Nathaniel per rubargli il prezioso strumento è troppo alto. «Te lo lascio nel centro di accoglienza di Skid Row, lo potrai suonare lì ogni volta che vorrai». Detto fatto, in breve tempo uno stranissimo pubblico di sbandati fa da cornice al barbone che accarezza con la maestria dei crini del suo archetto lo strumento. E intanto la rubrica di Lopez diventa monotematica, continua a raccontare le peripezie del piccolo-grande eroe metropolitano. Al punto che l’orchestra della città invita Nathaniel ad assistere all’esecuzione della terza sinfonia di Beethoven che si terrà alla Disney Hall di Frank Gehry. Spaventato dalla confusione che potrebbe fare non trattenendo la sua mente girovaga, l’artista di strada opta per assistere a una prova. In questa scelta la cifra contenutistica dell’opera. Nathaniel non è un eroe cinematografico, la sua è una redenzione discreta, la risalita dal baratro di un uomo che è conscio dei limiti di una mente ormai forse irrimediabilmente indirizzata sulla china della schizofrenia.Qui si gioca la differenza sostanziale con Shine, il film del 1996 di Scott Hicks. Lì, David Helfgott, reso grande da una magistrale interpretazione di Geoffrey Rush, squilibrato quanto talentuoso pianista, viaggiava spedito sulla strada di una riabilitazione completa, di un destino che lo avrebbe reso grande nonostante le asperità di una mente incontrollabile e del marchio di una sanzione sociale dal quale liberarsi attraverso il talento. Un film consolatorio per il pubblico,nell’accezione più tradizionale del termine. Dalla polvere agli altari, non senza fatica, ma offrendo l’immagianno III - numero 29 - pagina II Beethoven IL SOLISTA GENERE BIOGRAFICO, DRAMMATICO, MUSICAL DURATA 109 MINUTI PRODUZIONE GRAN BRETAGNA, USA 2009 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL REGIA JOE WRIGHT INTERPRETI ROBERT DOWNEY JR., JAMIE FOXX, CATHERINE KEENER, TOM HOLLANDER, RACHAEL HARRIS, STEPHEN ROOT A guardar bene, nel Solista le pecche si trovano, eccome. Una regia fin troppo lirica, che lascia un eccessivo spazio alle parole, alla spiegazione pedissequa di quel che sta succedendo, trascurando quel tessuto concretissimo di fatti, sguardi e azioni che, da soli, raccontano molto di più del dialogo anche se bene articolato. Il ritmo a volte si perde, fatica a riprendere il filo di un discorso annacquato nel tentativo di trovare una conclusione esplicita a ogni sequenza. Una sceneggiatura eccessivamente laccata, che lascia poco spazio alla musica, vera architettura portante di tutta la storia,per far parlare tutto quello che le ruota intorno.Tutte difficoltà che hanno relegato il film a una posizione di seconda fila nel mercato statunitense (dove è uscito nell’aprile dell’anno scorso), mentre i rumors prima del lancio lo accreditavano come sicuro protagonista degli Oscar. Dalla sua, però,Wright, oltre a Robert Downey Jr., schiera un grandissimo Jamie Foxx, che torna a cimentarsi con gli strumenti dopo la magistrale interpretazione di Ray: convincente nei panni di Nathaniel nell’invecchiare, contorcersi, deturparsi, vivere sulla propria pelle gli anni vissuti per la strada. Un piccolo gioiello in un’opera che poteva essere meglio confezionata. È lui infatti a rendere intenso un film che, in caso contrario, forse avrebbe faticato in Italia anche a conquistarsi un’uscita «tecnica» estiva per approdare direttamente sul mercato dell’home video, come per un periodo si era temuto. Il pregio del film è comunque fare emergere con discrezione e dignità il valore di un’amicizia gratuita, la prospettiva di una vita vissuta degnamente solo come dono di sé a un altro, come possibilità che un rapporto, uno sguardo inaspettato ti colpisca nella massa indistinta, possa dischiudere orizzonti prima inimmaginabili. La critica ha smontato la pellicola: troppo formale, storia dai canoni ripetuti senza fantasia,regia troppo distaccata,eccessiva leziosità nella prova degli attori. Forse. Ma non sempre quel che conta emerge in una visione distratta. Anzi, quasi mai. Il solista, al contrario, è un esempio di come, spesso, l’essenziale sia invisibile agli occhi. MobyDICK parola chiave erfino le parole sono accaldate. Faticano a uscire per mettersi in fila, una dietro l’altra. Esprimono la sofferenza di chi scrive con il solo conforto di una musica refrigerante che fa da contrappunto al sibilo dell’aria condizionata. Cercano le parole di lenire il dolore che questa stagione violenta provoca in tutti coloro che ne restano delusi. E sono tanti. Già, perché l’estate non mantiene mai le promesse. Dovrebbe essere il tempo della liberazione e invece ci fa stare tappati in casa davanti a un refrigerante qualunque; dovrebbe indurci a fuggire la pazza folla, ma al solo pensiero di incontrarne di più imponenti, sudaticce, chiassose e volgari preferiamo rifugiarci nel solito guscio; dovrebbe favorire incontri e scambi, serate gioiose e pigri pomeriggi, invece ci assediano la calura infame e la solitudine anche quando si sta in spiaggia attorniati da migliaia di bagnanti soli come noi, annoiati, come noi, nervosi forse più di noi. In colonna sulle autostrade o davanti ai chioschi marini, ma anche nelle alte malghe o nei più abbordabili agriturismi, la verità è che d’estate diventiamo intolleranti verso noi stessi e poi nei confronti degli altri. P Una volta non era così, come sanno coloro che hanno passato la quarantina. L’estate manteneva le sue promesse. E ci si divertiva con poco, si era tutti più spensierati, le vacanze non erano le bolsceviche «ferie» da fare a tutti i costi e a caro prezzo. Bastava non essere schiavi di orari e impegni per sentirsi liberi e dunque immersi in una stagione che regalava molto, dal caldo sopportabile ai frutti saporiti e profumati, e non esigeva nulla da nessuno, men che meno l’esibizione di riti di massa ai quali oggi nessuno può sottrarsi e chi lo fa o è uno snob da evitare o un poveraccio da non frequentare. Per di più l’estate un tempo avvicinava, oggi divide. Le famiglie si riunivano, adesso si frantumano. Ognuno per conto suo e arrivederci a chissà quando. Il mio paese, nel profondo Mezzogiorno, raddoppiava gli abitanti, ora d’agosto sono la metà. Gli immigrati al Nord o all’estero, ritornavano gioiosi per riappropriarsi della loro vita in quel mese «rubato» alla civiltà della disarticolazione familiare, necessaria ma quanto dolorosa. Si passavano le controre inseguendo sogni a occhi aperti e le sere a raccontarsi di inverni lunghi e talvolta avventurosi. Il mare, per chi poteva permetterselo, era una specie di Graal su cui fantasticare prima e tuffarcisi poi. E, soprattutto, comunque e dovunque, l’estate era la stagione degli amori anche se si sapeva che difficilmente sarebbero durati. Con le canzoni, i suoni, le chimere che l’amore sapeva suggerire 24 luglio 2010 • pagina 13 ESTATE È solo il colonnino di mercurio che ormai sale vertiginosamente ad avvisarci dell’arrivo della stagione. Per il resto non c’è più traccia delle promesse mantenute di un tempo Non chiamatela più così… di Gennaro Malgieri Perché non dovremmo nasconderci ai devastatori della nostra tranquillità, i forzati delle ferie a tutti i costi, i consumisti in servizio permanente, e restarcene nel nostro angolo di Paradiso sul terrazzino di casa nostra o in un metro quadro di giardino? Due mesi all’insegna del non-senso che ci fanno rimpiangere l’autunno ai creatori di miti banali, ma quanto entusiasmanti. E adesso? No, non è un per spirito di contraddizione, magari un tantino folle, desiderare che l’autunno torni presto annunciato dagli acquazzoni d’agosto. È che l’estate ha perduto il suo fascino nei modi di con- cepire lo svago, il divertimento, la stasi sublime sotto il sole, lo stacco con la normalità, la rottura con il tran tran. Non ha più una sua specificità, insomma, se si esclude il clima torrido che per qualche settimana ci annebbia fino a distruggerci letteralmente, letale come mai nei tempi da noi conosciuti, opprimente al punto di desiderare il ritorno a temperature più fredde con tutto quel che comportano. Insomma, la «mitica» estate non la riconosciamo più. Se non fosse per la colonnina di mercurio che s’alza vertiginosamente, non sapremmo neppure che luglio e agosto sono arrivati. Ho provato a girovagare, più d’una volta, in diverse ore del giorno, per le strade di varie città in queste settimane. Sapevo già che non avrei incontrato ciò che speravo, ma volevo rendermene conto empiricamente, come si dice. E ho avuto la conferma che d’estate la gente è addirittura meno allegra rispetto agli altri periodi dell’anno. Diventa più intollerante negli uffici e nei negozi. Si fa prendere più facilmente dalle smanie del riposo forzato che tutto è tranne che riposo. È maggiormente incline al litigio per un nonnulla, mentre vorrebbe sbarazzarsi del problema di come e dove trascorrere le ferie ancor prima di averle fatte. Sono i non-sensi del nostro tempo, direte. È certamente così. Ma allora perché non barricarsi in casa e sbarrare la porta ai barbari che vorrebbero trascinarci sui loro mari sporchi, sulle loro montagne infestate dai cultori del chiasso, nelle campagne devastate da dancing dove si fa rumore e la musica è sconosciuta? Perché non dovremmo nasconderci ai devastatori della nostra tranquillità e conquistarci un metro quadro sul nostro terrazzino, tra i gerani e il basilico, o, per chi può permetterselo, quell’angolo di giardino profumato che sa tanto di Paradiso? Mi verrebbe voglia di gridare: ridateci l’estate o, meglio, se proprio non è possibile, abrogatela. Ma so, ovviamente, che il mio grido susciterebbe la compassione di quanti dovessero avere la ventura di ascoltarlo. E allora, lasciatecela godere come ci pare la nostra estate. Voi gossipari inariditi dal solleone, voi giornalisti da ombrellone alla ricerca di una politica che non c’è a dicembre figurarsi ad agosto, voi consumisti in servizio permanente effettivo che ci ordinate di divertirci come avete deciso, pianificato, imposto, voi assatanati dell’ultima follia sfornata dal market del turismo straccione, tutti voi, esercito di folli che viene santificato ogni mattina sulle spiagge e per i viottoli agresti, provate a dimettervi da professionisti dell’estate soltanto per farci vedere una volta, una volta sola, l’effetto che fa. Ecco. Mi sono preso il classico colpo di sole. L’estate è allo zenit. Se ne sono andati tutti. Spero che almeno qualche lettore sia rimasto qui, con Mobydick in mano, sognando come me un’altra estate. Quella che non c’è e che chiamano estate, comunque. pagina 14 • 24 luglio 2010 MobyDICK Cd musica SANTANA: L’ARTE come opera di vita di Bruno Giurato di Stefano Bianchi hi ha inciso nel 1991 Alta marea? Che domanda, vi risponderà chiunque: Antonello Venditti. E la canzone fa parte dell’album Benvenuti in Paradiso. Ma è stato proprio lui a scriverla? Pausa, occhi al cielo, aria da compatimento: vuoi prendermi in giro? Il Venditti nazionale! E oltretutto è diventato uno dei suoi più famosi successi… Sbagliato. Alta marea è il rifacimento di Don’t Dream It’s Over, pezzo di quelli che fanno la storia del pop, composto da Neil Finn e inserito nell’86 nel disco di debutto dei Crowded House.Talmente bello che anche Paul Young ne ha architettata una cover. Quatti quatti,Venditti &Young hanno capitalizzato al massimo il gran talento di Neil Finn, classe ’58, neozelandese adottato dall’Australia, mito dappertutto tranne che in Italia. Artista di nicchia, si dice. Negli anni Settanta, lui e il fratello maggiore Tim militavano negli Split Enz, geniale gruppo dell’Art Rock. Dopo lo scioglimento, Tim si mette a fare il solista e Neil, nell’85, dà vita ai Mullanes. Cerca fortuna a Los Angeles, dove i discografici della Capitol lo mettono sotto contratto non prima d’averlo convinto a cambiare nome in Crowded House. Al disco griffato Don’t Dream It’s Over seguono Temple Of Low Men (’88), Woodface (’91) e Together Alone (’93). Successo planetario, eppure nel ’96 si decide di stoppare: il 24 novembre, alla Sydney Opera House, il gruppo di esibisce nel concerto d’addio che coincide con Recurring Dream, antologia dei pezzi più belli. Due anni dopo e nel 2001, il non plus ultra delle capacità soliste di Neil Finn coincide con Try Whistle This e One Nil; nel 2004, dopo il progetto 7 Worlds Collide con un sacco di amici (tipo Eddie Vedder dei Pearl Jam), l’artista insie- C Opera zapping er la legione degli ignorantoni Carlos Santana è il Fausto Papetti del rock. E invece per chi ama la ferina maestà della chitarra elettrica è il maestro, venerato e venerando. Perché ha un suono oggettivamente arrapante, per la sensibilità da percussionista, perché ha suonato con tutti dal pop al rock al jazz alla afro mettendoci il suo vocabolario e la sua sensualità. Si ascolti Love, Devotion, Surrender con John Mc Laughlin, jazz rock spericolatissimo, o Amen, con Salif Keita, dove tra l’altro il suo nome appare in piccolo nel booklet. Perché anche davanti a trecento spettatori spersi in uno stadio polveroso - ascoltato con queste orecchie - è in grado di scatenare l’audience. E adesso abbiamo un motivo nuovo per amarlo. In un concerto chicaghese ha concluso un memorabile duetto con la sua batterista, Cindy Blackman, e le ha chiesto pubblicamente di sposarla. E il fatto non ha niente a che vedere con il ragazzino che scrive ti amo sotto casa alla sua bella, o con Stranamore del compianto Castagna. Niente a che vedere con la scemologia del reality. Qui c’è un Love, Devotion, Surrender nell’habitat naturale di un uomo che sul palco ci campa, e che più volte scommettiamo ha chiesto alla sua bella chitarra Paul Reed Smith: perché non parli? Quella ha sorriso curiosa, e allora l’uomo l’ha presa in mano e l’ha fatta cantare. Fatti d’arte e non di vita, per fortuna. Ed è proprio per questo che d’ora in poi Santana sarà il maestro venerato, venerando e pure invidiato. In fondo fare della propria vita un’opera d’arte è un saggio precetto baudelairiano. Ma fare della propria arte un’opera di vita è un sacrosanto principio artigianale e cantastoriale. P Il ritorno di Neil Finn, Re Mida del pop me a Tim concretizza con Everyone Is Here il cantautorato piacevolmente rétro dei Finn Brothers. Ma siccome prima o poi la nostalgia è canaglia, nel 2007 ecco rimaterializzarsi i Crowded House con Time On Earth: la musica non ha perso un grammo del luccicante smalto che fu, le canzoni filano via che è un piacere e Neil Finn si riconferma singer-songwriter di razza. Uno che quando tocca il pop lo trasforma in oro: come Paul McCartney, che guarda caso è il suo punto di riferimento. E arriviamo a Intriguer. Il che significa reunion più che consolidata con Neil che canta, suona la chitarra e il pianoforte facendosi accompagnare da Mark Hart (chitarra), Nick Seymour (basso) e Matt Sherrod (batteria). Il nuovo canzoniere, va da sé, vale ampiamente il prezzo del disco. Le tracce sono dieci, e ce ne fosse una che zoppica almeno un po’. Macché: si va dal pop tintinnante di Archer’s Arrows, increspato dal violino e da un magico intreccio di voci, all’agile e giocoso dipanarsi di Either Side Of The World; dalla fluttuante, eterea e in corner psichedelica Isolation, a Twice IfYou’re Lucky che è la pop song perfetta, sulla falsariga di Don’t Dream It’s Over e Weather WithYou; dalla vellutata dolcezza di Elephants, col retrogusto country della pedal steel guitar e dell’armonica a bocca, al tris di ballate (Amsterdam, Falling Dove, Even If) che più Macca (McCartney) non si può. Neil Finn, lo avrete capito, non è un rockettaro. E il rock non è la sua cup of tea. Ma quando lo tira in ballo (nella muscolare, orecchiabilissima Saturday Sun e nella schietta Inside Out) fa sempre una gran bella figura. Lui e i Crowded House. E meno male che sono di nicchia. I modaioli, se ne stiano pure alla larga. Crowded House, Intriguer, Universal, 19,50 euro Tesi e antitesi del “Giro di vite” alla Fenice cclamato dalla stampa nazionale, Il giro di vite allestito dalla Fenice poteva dirsi buono, molto buono per certi versi, ma nulla più. Mi spiace trovarmi ancora una volta in disaccordo coi «confratelli» della critica musicale, eppure i fatti sono andati come adesso tenterò di raccontare. L’opera di Benjamin Britten - ché, a dispetto dell’anagrafe (venne alla luce nel 1954, in questo stesso teatro), d’un’opera vera e propria si tratta, basata com’è sull’eloquenza ed espressività del fattore «canto» - pretende innanzitutto una scansione verbale nitida dagl’interpreti: il principio melodico vi è decisamente estratto dalla parola. Una dizione eloquente sfoggiava il tenore Marlin Miller, ch’era Peter Quint, ovvero il suo fantasma, giacché nel libretto di Myfanwy Piper, diversamente dal racconto originario di Henry James, gli spettri (oltre a Quint c’è anche la defunta istitutrice, Miss Jessel) si esprimono a parole né più né meno come i viventi (i bimbi Flora e Miles, la nuova isti- A di Jacopo Pellegrini tutrice, la governante Mrs Grose); anche per voce e intelligenza Miller si rivelò un lieto acquisto, lo stile melismatico mediante il quale il cameriere chiama a sé e incanta il fanciullo, essendo affrontato e risolto in souplesse. Questi vocalizzi vengono dritti dal repertorio polivocale sacro e profano inglese tra Rinascimento e Ottocento, madrigali glees catches e compagnia cantante, laddove invece i sinistri pargoletti (nella mia recita i grandicelli, affidabili, ma non troppo convincenti come interpreti la Tirebuck e McNelly) simulano innocenza intonando gli schemi elementari e le poche note di filastrocche canzoncine nursery rhymes: Britten, dopo il parziale precedente di Albert Herring (1947), fertilizza il declamato vocale colla linfa della musica popolare britannica, la quale s’insinua in ogni anfratto e convive alla perfezione cogli slanci lirici, le linee ampie «italiane» dell’istitutrice. Nella fattispecie Anita Wat- son esibiva mezzi di tutto rispetto non supportati però da tecnica adeguata, ragion per cui non si capiva una parola. Discrete, la Mellor e la Oakes. L’acustica alquanto risonante della Fenice ricostruita favorisce l’orchestra.Tuttavia, Jeffrey Tate si guardò bene dal mettere ai tredici esecutori a sua disposizione la sordina e affrontò la partitura da un’angolazione marcatamente espressiva: un lirismo fervido, ma come filtrato attraverso un fondo pudico tipicamente british, formicola negli interludi orchestrali, negli inquadramenti paesaggistici, nei momenti gravidi di attesa tensione paura (pedali armonici o bassi ostinati ripresi da antiche danze, passacaglia o ciaccona). Purtroppo i tredici non furono sempre in grado di assicurare la necessaria pulizia e nitidezza della trama strumentale, così che qualche effetto risultò sminuito, qualche finezza gualcita. In antitesi con Britten e, soprattutto, con Tate, lo spettacolo conce- pito in toto da Pier Luigi Pizzi. Elegante, si capisce, ma gelido e manierato in quell’eterno svariare di grigi e neri su un ambiente d’impronta razionalista: il terrore la tragedia incombono sin dall’inizio, e se non c’è spazio per l’ironia o per l’ansia montante, ce n’è invece per qualche inopinato vuoto registico o per bizzarri accoppiamenti tra defunti. MobyDICK arti Mostre na prima considerazione d’opportunità, per evitare conflitti d’interesse privato. Sì, c’è un mio testo, in catalogo di questa mostra, meglio un mio dialogo con l’artista, a baton rompu, come direbbero i francesi, scarrucolato giù dalle vette del senso comune. E difatti, spiritosamente, Guarienti ha pensato d’intitolarlo: Fuori onda. Perché ci siamo fatti sorprendere, da noi stessi, ovviamente, nel buio intelligente e rigoroso del Bill Viola, nel romano Palazzo delle Esposizioni, mentre proferiamo anche tante sciocchezzuole divertite, e malignità ben assestate (io credo) contro le vanità inutili, davvero vane, altro che vanitas! dell’arte contemporanea, e liberi commenti, forse persino un po’ troppo strafottenti. Il resocontato «fuori onda», e Guarienti ci ha rimesso le mani divertite, era nato (e fu accasato, del resto) per un’altra mostra e catalogo, e ora si ritrova qui, per generosa volontà dell’artista. Anche facendomi un po’ scricchiolare, perché verificata poi la portata potente e terremotante di questa mostra, che si potrebbe definire davvero «strabiliante», un po’ invero ci si pente: si meritava ben altra serietà! (meglio l’ironia della retorica, comunque). Allora, eleganza deontologica, cui non derogo mai, vorrebbe ch’io non scrivessi d’una mostra di cui mi sono occupato in catalogo. Ma l’occasione della mostra è così eccezionale, e la mostra così superba, che pazienza, ci si perdoni l’eccezionale deroga, che permette pure di rettificare il tiro e di declinare una più consona, degna ammirazione. Anche perché, ci chiediamo, chi in questo mondo distratto e sbilanciato di valori, della cosiddetta critica, assoggettata al Potere della Scemenza e alla dittatura della velina-alias-comunicato-stampa, s’accorgerà d’un risultato così alto e sorprendente? Ecco, tante volte, anche da questo pulpitino, ci è capitato di sparare contro la croce-rossa, paonazza di vergogna, d’una pletora di fenomeni di sott’arte, senza più alcuna qualità. Questa è invece la volta, finalmen- U Moda 24 luglio 2010 • pagina 15 L’altra realtà di Carlo Guarienti di Marco Vallora te, di segnalare un’occasione grandiosa e senza esitazioni di risultati più che nobili, strabilianti, abbiam detto. Perché il venetissimo Guarienti c’insegna a guardare («stra») in modo diverso e rapinoso, anche terribililmente (per dirla col Vasari), quasi teppistico: perché poi non ha ovviamente la vocazione, o la pedanteria del pedagogo e d’accompagnarci, nel nostro stupore. Di farci traversare il guado, come il bravo boy scout fa, tenendo la mano sollecita al vec- chietto quasi cieco (lo vedete in quale folletto sulfureo e pestifero, alla Klossowski, s’è trasformato il nostra Artista, saltellando dovunque, nello specchio lastricato dell’aria, lastricato di cattive azioni e dispetti cromatici, in un’ossessione dell’autoritratto eroso, che è il contrario stesso dell’invadenza narcissica di tanti colleghi contemporanei?). Bafometto invecchiato e satiresco, dalla bocca sciancata in un grido afono, ci getta ripetutamente nel bel mezzo della calce viva e urticante dei suoi sperimenti leonardeschi, che non muoiono mai, ma sopravvivono sempre come in coma cromatico, in un nevischio di perplessità eventuale. Ci abbandona lì, garrulo, in mezzo a quel gran combattimento dechirichiano, agonistico e agonico (ma del De Chirico vero, non quello bollito e findus delle sputtananti mostre di oggi: mercantili-falsarie), un anchilosato combattimento di larve, che non han più voglia, come lui, di recitare l’ipocrita ruolo dei burattini di parata della pittura realista. Si guardino quei bellissimi ritratti d’atelier, mattutini o serotini, di cui parla così bene Alain Tapié: i rimasugli sfibrati (e sfebbrati) della sua pittura d’antan, più bretoniana e diligente ai dettami dell’inconscio. Qui sono sfingi disoccupate, che come nello Schiaccianoci di Cajkovskij, ma senza il concorso del superfluo fiabesco etnico, entrano ed escono dal cavalletto scavalcato, come scimmie perverse dalla loro gabbia onanista. Conversano perplesse, litigano la loro claustrofobia, si spulciano del loro color carpaccesco: sono sinopie in pensione, slavate, che non hanno smesso di tirar scherzi burloni al loro artista, che s’aggira nudo, come in un utero spoglio, inospitale. Sedendosi altero al tavolo slabbrato d’una Vocazione di San Matteo, che non lo redimerà, ma ove si tracanna la filtrate penombra di Caravaggio, quasi fosse una boccata d’assenzio, o bussando allo specchio illusorio del cavalletto-crocefisso d’un Golgota da camera (La visita di Goya), come fosse un labirinto rotto, da luna park orsonwellesiano della Malinconia manierista (en attendant Goya, Duerer e ovviamente anche il Velazquez delle Meninas, assistente-arredatore). Magnifica la mess’in scena corale di Alberto Zanmatti a Castelvecchio, ma senza confronti l’effetto rampicante e sovranamente parassitario dei finti affreschi-ritrovati, dentro le stanze familiari di Palazzo Canossa, tra i fantasmi boccheggianti di Bernardino d’India e del Moro. Guarienti. Oltre il Reale, Verona, Museo di Castelvecchio e Palazzo Canossa, fino al 19 settembre, catalogo Silvana Editoriali a cura di Paola Gribaudo Prima del sexy lo chic, il ritorno della Bamboo on ci sono ancora notizie dai negozi Gucci di Cannes, Capri e Forte dei Marmi (è presto), ma la New Bamboo bag limited edition (soltanto in blu, soltanto in pitone o pelle cellarius, soltanto dodici pezzi per ogni materiale), in vendita da dieci giorni, è un oggetto-feticcio per vere collezioniste. A nobilitarla, a dare quella patina di desiderabile aristocrazia, c’è la mostra itinerante Bamboo Forever che dopo Berlino,Vienna, Barcellona e Parigi è arrivata felicemente al mare (a Capri, a Cannes e a Forte dei Marmi fino a domani) per raccontare una storia favolosa cominciata 64 anni fa. era L’originale una piccola borsa creata nel 1947 in pelle di cinghiale, con il manico in bambù curvato a semicerchio, un’idea dettata dalla necessità: la guerra era appena finita e scarseggiavano le materie prime. Nessuno pen- N di Roselina Salemi sava che, vista al braccio di Ingrid Bergman e Vanessa Redgrave, la Bamboo bag sarebbe diventata un irrinunciabile status symbol per le dive degli anni Cinquanta e Sessanta. Le trendsetter di allora si chiamavano Liz Taylor, Liza Minnelli, Audrey Hepburn: prima del sexy, veniva lo chic. Le foto dell’Archivio Gucci sono quasi commoventi. La bella Ingrid Bergman è a spasso con tata e bimbo, a Napoli, nel ’53. È vestitissima, tailleur longuette, maglioncino dolcevita, guanti di camoscio e Bamboo bag. Vanessa Redgrave (nella foto) invece è su un set, occhi ardenti, camicia a quadretti, gonna sopra il ginocchio, trasgressiva, ma non troppo. Bamboo bag anche per lei. La mostra suggerisce che dentro quella borsetta c’è una filosofia, un pensiero, oltre che un pezzo di storia. E forse è proprio così. Altrimenti, non sarebbe nata, questa primavera, la New Bamboo, già scelta da Carla Bruni, Evan Rachel Wood (True Blood) e Ashley Greene, la vampira Alice di Twilight. Oltre che nella sua dimensione originale, ne esiste una versione più grande, con elementi in nichel. Al manico sono state aggiunte una lunga tracolla, una catena di metallo e nappine con dettagli di bambù. C’è in coccodrillo, in pelle, e addirittura in tricot. In un arcobaleno di colori, dal fucsia al grigio, oltre ai classicissimi bianco e nero. Per farne una, servono tredici ore. Costa dai 1300 ai 13 mila euro. Dicono, da Gucci, che la nostalgia non c’entra. Possibile. C’entra di sicuro il bisogno disperato di bon ton, di esclusività, di alto artigianato, il bisogno di uscire dall’onda sexy-trasgressiva, perciò è necessario guardare indietro, verso Ingrid Bergman con i guantini, tanto signora (scarseggiano, le signore). Ma il passato, come sostiene qualcuno, è una terra straniera. E anche l’esclusività, a parte le limited edition numerate, che danno grande soddisfazione a chi se le può permettere e sono difficilmente taroccabili, è un confine fragile. Chiunque può essere Carla Bruni per un giorno. Su www.myluxury.biz/ è possibile consultare un ricco catalogo di borse, originali… in affitto, con prezzi a partire da quindici euro a settimana. Le cacciatrici di status symbol sono avvisate. MobyDICK pagina 16 • 24 luglio 2010 il paginone Fece di tutto per rimanere nell’ombra, adoperando vari pseudonimi per firmare traduzioni e collaborazioni a riviste e giornali. In vita ha pubblicato tre soli libri, ma la sua figura e la sua opera (che si compone di saggi e poesie) sono tra le più significative del nostro Novecento. Ora l’uscita di un volumetto di lettere indirizzate a María Zambrano ci offre l’occasione di ritrovarla… di Pasquale Di Palmo er i tipi delle edizioni Archinto esce un raffinato volumetto che raccoglie una manciata di lettere inedite di Cristina Campo: Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975 (96 pagine, 14,50 euro). Il libretto, curato da Maria Pertile, propone una serie di epistole e brevi messaggi che Cristina Campo scrisse alla filosofa spagnola, incontrata presumibilmente a Roma intorno alla fine degli anni Cinquanta. In quell’arco di tempo la scrittrice si legò sentimentalmente a Elémire Zolla che, non a caso, intrattenne con la Zambrano, nello stesso arco cronologico, «un’altra, intensa corrispondenza epistolare, a volte condivisa sulla stessa pagina di quella di Vittoria-Cristina con María», come rileva la curatrice. P Si rimane colpiti innanzitutto dall’estrema varietà dei toto, quelle di María, «che s’indovinano stupende nel riflesso delle stesse lettere campiane», come suggerisce ancora la curatrice. Ma, nonostante l’esiguità dei messaggi pervenutici, è emblematico come il rapporto di stima reciproca e di delicata, fraterna collaborazione appaia evidente nel tono con il quale Cristina si rivolge all’amica: «Maria cara, tu mi hai salvato dalla confusione. Lascia che io ti aiuti nella fatica: portare i battenti della porta di Gaza in cima alla montagna (conosco bene ogni pietra, e posso servirti, con umiltà e con precisione). Tu mi hai detto: “la paura è il demonio stesso” e questo mi ha salvato, in un momento di orrore. Lascia che te lo dica io, nel momento dell’ansia - non avere paura, cara - e lascia che io ti aiuti in silenzio, minutamente». Alcuni messaggi sono la semplice trascrizione di brani che Cristina Campo, mannsthal. Vi sono poi trascrizioni di testi di Borges, Pasternàk, del poeta mistico persiano Gialal al Din Rumi, presumibilmente tradotto dalla stessa autrice. A questi testi d’occasione bisogna aggiungere la consuetudine di riferimenti ai suoi modelli letterari e religiosi si limitano a una serie circoscritta di situazioni e nomi privilegiati. Irrinunciabile è il richiamo a Simone Weil di cui si parla nella lettera inviata il 15 agosto 1965: «Cara, grazie di Andare controcorrente nell’affermare la suprema aristocrazia dell’idea in un’epoca in cui tutto scivola verso il basso. Questo il suo tratto distintivo, sulle orme di Simone Weil e Hugo von Hofmannsthal messaggi: brevissimi, essenziali taluni, poco più di un bagliore che rischiara il momento privilegiato della lettura, altri invece più articolati e dettagliati come l’ultima lettera riportata, risalente alla festa di San Giovanni 1975, in cui si rievoca la figura del poeta argentino e amico comune Héctor Murena, morto nello stesso anno e di cui Cristina Campo aveva tradotto sei liriche, originariamente apparse in un numero dell’Approdo Letterario del 1961. Il materiale fin qui rinvenuto è ben lungi dall’essere completo, in quanto mancano sicuramente altre lettere di Cristina e, in anno III - numero 29 - pagina VIII intrigavano particolarmente Cristina Campo, magari in occasione di una particolare ricorrenza: nella lettera del Natale 1967 è riportata, manoscritta, la poesia La Tigre Assenza, dedicata alla memoria degli amati genitori («Ahi che la Tigre,/ la Tigre Assenza,/ o amati,/ ha tutto divorato/ di questo volto rivolto/ a voi! La bocca sola,/ pura,/ prega ancora/ voi: di pregare ancora/ perché la Tigre,/ la Tigre Assenza,/ o amati,/ non divori la bocca/ e la preghiera...»), quella del Capodanno 1961 è la semplice riproduzione dattiloscritta della versione della lirica In verità più d’uno di Hugo von Hof- inviare immagini riproducenti opere d’arte che per Cristina rivestivano un particolare significato. È il caso delle cartoline, inviate il 3 giugno e il 3 ottobre 1961, del Ponte a Santa Trinita di Firenze o del ritaglio di illustrazione, non datato, raffigurante un calice con l’Adorazione dei Magi, accompagnato da questa semplice postilla: «El caliz azul de la Navidad y de los Santos Reyes (por Maria, su Cristina-Vittoria)». Come in tutti i carteggi della Campo (si pensi ad esempio alle Lettere a Mita e a Caro Bul, pubblicati da Adelphi rispettivamente nel 1999 e nel 2007) i avermi annunciato l’uscita del tuo libro - dei tuoi libri - e il tuo progetto di tradurre Simone. Sono tra le poche notizie capaci di rallegrarmi, in questo tempo tenebroso». Non è un caso che sarà proprio l’opera della pensatrice francese a segnare in maniera inimitabile il lavoro della Campo, con quella netta contrapposizione tra La pesanteur et la grâce, come si intitola una fondamentale raccolta di saggi weiliana del 1948, che sembra sottendere alla sua stessa poetica. L’uscita di questo volumetto ci consente di rivisitare la figura di una singolare autrice che fece di tutto per rimanere nel- l’ombra, adoperando vari pseudonimi per firmare traduzioni e collaborazioni a riviste e giornali (Cristina Campo era infatti un nom de plume, in quanto il suo vero nome era Vittoria Guerrini) e pubblicando in vita soltanto tre libri: la silloge poetica Passo d’addio (All’Insegna del Pesce d’Oro, 1956) e le raccolte di saggi Fiaba e mistero (Vallecchi, 1962) e Il flauto e il tappeto (Rusconi, 1971). Proprio sulla bandella di quest’ultimo libro appare la nota che sembra caratterizzare il suo percorso letterario, mai disgiunto da una macerazione spirituale che rasenta un’ascesi di ascendenza quasi monacale: «Cristina Campo è uno pseudonimo. È cresciuta a Firenze nell’ambiente del padre compositore. Ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno. [...] Oltre alla poesia il suo maggiore interesse è la liturgia: l’ex romana, la bizantina». È quanto mai significativo che, in un’epoca dominata dal dogmatismo ideologico che aveva irretito gran parte dell’intellighenzia italiana, gli interessi di Cristina si orientassero in direzione pressoché antitetica: la poesia e la liturgia. È presente infatti, negli scritti di Cristina, un profondo legame interdisciplinare che crea accostamenti insospettati fra materie diverse come poesia e traduzione, saggio di taglio erudito e investigazione esegetica. 24 luglio 2010 • pagina 17 In bianca maglia d’ortiche Di Cristina Campo ci parla con rigore e passione anche Massimo Morasso che ne traccia un ritratto profondo e partecipe nel libro In bianca maglia d’ortiche (Marietti, 128 pagine, 14,00). Il critico ci instrada nella più adatta comprensione della poesia della scrittrice, a quel «silenzio in versi», espresso come «bellezza a doppia lama» o come preghiera, e che fa assumere alla Campo, come dice Morasso, una «arcaica funzione sacerdotale, fra nostalgia del fondamento veritativo e nostalgia del fondamento liturgico». (l.f.) po classico derivata dai suoi innumerevoli lavori di traduzione e dai suoi maestri dichiarati come Hofmannsthal e la Weil. Scrive Margherita Pieracci Harwell che, oltre a essere raffinata esegeta dell’opera della Campo, fu una delle sue più care amiche: «Per penetrare più a fondo nel pensiero di Cristina Campo le due guide più sicure sono Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil - fino ai tardi anni Sessanta i più costanti phares di questa instancabile, ma soprattutto selettiva e fedelissima lettrice». I versi che figurano in questa silloge, composti tra il 1954 e il 1955, con eccezione della prima poesia datata 1945, risentono degli spunti e delle atmosfere più varie, nel tentativo di rendere «bianche tutte le mie lettere,/ inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa». Sembra un inno alla grazia che si riverbera talora in delicati versi di ascendenza dickinsoniana, talaltra in enigmatiche asperità di stampo raccolta di saggi intitolata Spagna di María Zambrano. Entrambi i primi due titoli pubblicati denotano la scarsa propensione dell’autrice a diffondere i propri testi in maniera indiscriminata, bensì la tendenza a rendere note con parsimonia le proprie pubblicazioni. Non è un caso che, a parte qualche sparuta segnalazione, i due libri venissero subito relegati nel dimenticatoio. La stessa autrice scriveva a Leone Traverso il 10 ottobre 1962 a proposito di Fiaba e mistero: «Ora anche di questo libretto mi è venuto un enorme desiderio che nessuno si accorga. Una parola è sufficiente per toglierti tutto il piacere di averlo scritto, farti sentire as public as a frog, il che equivale a non scrivere più». Il flauto e il tappeto, pubblicato da Rusconi nel 1971, costituisce il terzo e ultimo libro pubblicato in vita. Si tratta di una raccolta di saggi (alcuni di questi ripresi dal volumetto precedente) in cui l’autrice disquisisce intorno agli argo- sciti, etica ed estetica. Non è un caso che la vita stessa della scrittrice risentisse in maniera esclusiva di questo connubio dagli intrecci indissolubili: si pensi, in tal senso, alle relazioni che Cristina allacciò con il finissimo traduttore Leone Traverso e, in seguito, con quella straordinaria figura di intellettuale a tutto tondo che fu Elémire Zolla, o al fascino che esercitò su di lei il poeta Mario Luzi. Dopo la morte le prose della Campo, che si possono considerare come il punto più alto della sua opera, furono riproposte e integrate in due volumi adelphiani, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1998: Gli imperdonabili e Sotto falso nome. Quest’ultimo volume raccoglie tutti gli scritti che Cristina pubblicò in periodici con diversi pseudonimi, spesso declinati al maschile: da Puccio Quaratesi a Bernardo Trevisano, da Benedetto P. d’Angelo a Giusto Cabianca. La Tigre Assenza, pubblicato da Adelphi nel 1991 raccoglie tutta la produzione poetica della Campo, comprese le traduzioni in versi. Oltre a Passo d’addio figurano altre due brevi sezioni, intitolate rispettivamente Quadernetto e Poesie sparse. In tutto si tratta di una trentina di liriche che, per il loro potere ipnotico e per la loro intrinseca bellezza, si configurano tra le espressioni più adamantine e compiute della sua opera. l’imperdonabile Risulta perciò un po’ riduttivo circoscrivere i suoi interessi variegati nell’ambito di un genere tout court, definito in maniera netta e lineare. Si dovrà considerare il fatto che qualsiasi occasione può costituire lo spunto per argomentare sopra un determinato tema: la nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto, l’eco di una fiaba rappresentano, come una madeleine proustiana, il richiamo per modulare variazioni in- eliotiano: «Ora non resta che vegliare sola/ col salmista, coi vecchi di Colono». E non è un caso che sia Emily Dickinson sia Eliot furono tra gli autori prediletti della Campo che li tradusse da par suo. Già Leone Traverso, in una recensione apparsa sulla rivista Letteratura nel 1957, rimarcava sia le fonti plurime d’ispirazione che sottendono alla nascita di certe poesie (con riferimenti, più o meno espliciti, alle menti più disparati creando insospettabili accostamenti. Il punto di partenza collima con il punto di arrivo solo grazie a un procedimento narrativo che persegue tale obiettivo attraverso una sequenza di corrispondenze di ardua decifrazione agli occhi del profano. Il cerchio si chiude in maniera affascinante ed enigmatica, dopo un continuo peregrinare intorno ai simboli della redenzione e della perdizione. Dall’in- La nervatura di una foglia, il ricamo di un tappeto, l’eco di una fiaba rappresentavano per lei, come una “madeleine” proustiana, il richiamo per modulare variazioni intorno a una dimensione spirituale torno a una dimensione spirituale autentica e rigorosa. Passo d’addio, il suo esordio poetico che rappresenta anche l’unico libro di liriche pubblicato in vita, raccoglie soltanto undici componimenti, dominati da uno stile che si differenzia notevolmente rispetto ai canoni letterari del tempo, impostati sulle tendenze più contrastanti: da una parte il neorealismo, dall’altra le derive dell’ermetismo, con l’avvento ormai incombente degli schematismi imposti dalle neoavanguardie. La poesia della Campo sembra invece risentire di uno stile semplice, quasi frugale, che si basa su una compostezza di ti- Mille e una notte, a Lawrence d’Arabia, a san Paolo), sia l’oscurità di taluni passaggi: «Ci si incontra in altre liriche a passi che sembrano a prima vista invalicabili, non per arbitrii sintattici o lessicali, ma perché occulto rimane il pozzo profondo da cui sorgono certe immagini». Il secondo titolo della Campo fu Fiaba e mistero, edito da Vallecchi nel 1962 nella collana dei «Quaderni di pensiero e di poesia». Il volumetto, contenente cinque tra i più riusciti saggi della scrittrice, fu pubblicato in un’edizione numerata di 600 esemplari. Nella stessa collana vedrà la luce anche la treccio di un tappeto persiano a una «frase glaciale» di Proust, dalle considerazioni sul tema della «sprezzatura» alle suggestioni del rito gregoriano, la prosa della Campo si delinea come un perfetto emblema araldico miracolosamente scampato alla distruzione e alla rovina incombenti. Come Borges, la Campo si interroga a lungo sui propri ideali e modelli letterari, stabilendo un’opera di interpretazione quanto mai preziosa, anche se dai tratti atipici. La letteratura rappresenta per la Campo una sorta di modello che riesce a coniugare mirabilmente, nei suoi esiti più riu- Le copertine delle opere di Cristina Campo ritratta in diverse immagini sopra il titolo. A sinistra, Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil Bisogna segnalare inoltre gli ultimi versi, composti negli anni Settanta e ispirati a una religiosità dominata da figure bibliche o attinenti al mondo della liturgia (la Campo, oltre a condurre una strenua battaglia a favore dell’opera di monsignor Marcel Lefèvbre per il ripristino della messa in latino, predilesse il rito bizantino-slavo). In quest’ottica risaltano i versi di Missa Romana e dell’intenso poemetto intitolato Diario bizantino. «Perfezione, bellezza. Che significa? Tra le definizioni, una è possibile. È un carattere aristocratico, anzi è in sé la suprema aristocrazia. Della natura, della specie, dell’idea» scriveva la Campo nel saggio Gli imperdonabili. Gli imperdonabili sono i poeti che vanno controcorrente, che corteggiano lo stile nell’epoca in cui tutto scivola irrimediabilmente verso il basso, che, come Pound, scelgono di tacere laddove regna il più assordante dei vaniloqui. La stessa Cristina Campo si può annoverare tra quelli che lei stessa aveva definito «imperdonabili», questi araldi della perfezione che scelgono l’ombra, il silenzio, l’anonimato nel periodo in cui impazzano l’arrivismo più abietto, la volgarità più truce, l’esibizione più sfrenata. Narrativa MobyDICK pagina 18 • 24 luglio 2010 l titolo è semplicemente Corte d’Assise, ed è questa, con tutto quel che ci sta dietro, che Simenon mette sotto accusa. Un romanzo «giudiziario» che scrisse nell’agosto del 1937 all’Isola dei Pescatori, Lago Maggiore. Apparve però solo quattro anni dopo: la direzione di Paris soir lo rifiutò giudicandolo immorale. Simenon anzi frusta corde istituzionali delicatissime perché solenni e totemiche, scuoia quello che a volte agisce e si mostra come un animale che carica a testa bassa. In questa operazione ne mostra i difetti genetici, il disequilibrio organico, la malformazione cerebrale che porta diritto al seguente assioma: «l’imputato è un mascalzone, quindi è colpevole». Altrettanto forte è il colpo che assesta quando afferma che il giudice istruttore, scrupoloso a senso unico, costruisce un fascicolo di 823 pagine con ben 237 testimonianze senza ammettere, o dubitare, di aver eretto una piramide criminale che risponde a criteri architettonici suoi e non a quelli che dovrebbero ispirarsi all’imparzialità. In quel fascicolo c’è quasi tutto di un giovane uomo, salvo la verità dei fatti. Romanzo scritto in Italia, abbiamo detto. Forse per questo, Simenon calca la mano sugli italiani, verso i quali non ha mai dimostrato molta stima. E questo è francamente irritante. Come infastidiscono, in tutta la sua opera, certi stereotipati riferimenti ad alcune nazionalità. La prima parte di Corte d’Assise pare abbia l’andamento del feuilleton tirato un po’ come un elastico. Poi ci si accorge, con la svolta giudiziaria della trama, che certi particolari sono essenziali. Si passa da una chansonette delinquenziale a toni dostoevskijani, senza la rinuncia del ritmo brillante e delle ripetizioni a effetto. Al centro di tutto c’è il ventiquattrenne Louis Bert detto Le petit Louis. Entra in scena come un bulletto, uno sciupafemmine, uno che in un clan marsigliese crede d’avere il suo peso. Poveretto: quelli della mala, infinitamente più astuti di lui, lo giudicano un incapace. In occasione di un «colpo» riesce ad affascinare Constance Ropiquet che si fa chiamare contessa d’Orval: è una donna avanti con gli anni, ma Simenon lascia al lettore immaginare l’esatta sua età. Potrebbe avere circa cinquant’anni. Passa sempre per una «tardona» per il fatto che diventa subito l’amante di un ventenne. Ospita a casa sua, a Niz- Georges Simenon CORTE D’ASSISE Adelphi, 180 pagine, 18,00 euro I Riletture libri Il destino giudiziario del Petit Louis di Pier Mario Fasanotti za, quel gigolo così bravo ad ammaliare i gonzi, senza sapere che oltre non è in grado di andare. Fa niente, la fasulla contessa, agiata ma anche mantenuta da un attempato funzionario, è in estasi, si guarda attorno «per assicurarsi che Petit Louis non è un sogno». Vanitosamente desidera che la gente sbirci un po’ più del solito e sappia che lei è dorme con un giovane. Lo soffoca con «baci umidicci e interminabili, con il suo seno pesante», ma gli consente una vita assai diversa da quella precedente, intrisa di miseria, espedienti e ambizioni grossolane. Louis è schifosamente cinico, approfitta di quel che lei può offrirgli, ossia vantaggi materiali, e respinge l’ossessiva dolcezza dei sentimenti di una donna che penosamente sfida la verità dell’anagrafe. E poi c’è Nizza con i viali a mare, il profumo dei fiori, i palazzi dai colori pastello. Gli sembra di vivere «in una confetteria». Nato nel Nord, costretto a coabitare con una madre moralmente distratta e con l’ex datore di lei diventato suo amante, tale Dutto (altro nome italiano!), laido, esibizionista, vizioso, Petit Louis è contento della svolta. Continua nella sua parte di duro. A Louise Mazzone (altro cognome italiano!), che lavora in una casa chiusa e che lui vuole «liberare», scrive una lettera in cui elogia ciò che gli regala «una che ha soldi ma è anche un po’ spilorcia». Fa il gradasso, dice che «dovrà metterla in riga». Louise, giovane che «profuma di verbena», lo raggiunge a Nizza. All’inizio passa per sua sorella, ma Constance poco dopo scopre tutto. Non le conviene indignarsi più di tanto. «Cattivo!», lo rimprovera con ambiguità materna, poi accetta il ménage à trois. Abilissimo Simenon nel tratteggiare la famosa atmosphére, stavolta molto vischiosa. Non viene solo creato un personaggio, ma un intero ambiente, e minuziosamente. E poi il punto di rottura, tema caro a Simenon. Da una certa insofferenza verso «un appartamento saturo di vita indolente» al dramma: Constance finisce con la gola tagliata. Inizio di errori e di stupide avidità. Alla fine Louis è arrestato. Nessuna prova per quanto riguarda l’assassinio (mai si ritroverà il corpo della donna), ma quel meccanismo «tritatutto» della magistratura riesuma il suo passato «dal letame» e inventa il suo presente. E non lo fa mai parlare. La giustizia è burla e tirannide. Con un sorriso sornione guarda i giudici in toga rossa. Senza mai poter spiegare nulla di sé. Heidegger sotto l’ombrellone? Basta bagnarsi la testa o so, Essere e tempo di Heidegger non è una lettura da farsi sotto l’ombrellone. Il pensiero del filosofo dell’essere è troppo difficile ed esige una concentrazione che la spiaggia non permette di raggiungere. Ma ne siamo sicuri? Perché dobbiamo immaginare la lettura di libri di filosofia come cose estremamente complicate? In fondo, i filosofi cosa fanno se non parlare di noi stessi? Un testo di filosofia non «funziona» come tutti gli altri libri? Come dobbiamo abituarci al linguaggio dello scrittore e come dobbiamo entrare nella storia o nello spirito di un romanzo, così non dobbiamo entrare in sintonia anche con il linguaggio e il pensiero dei filosofi? Essere e tempo, dopo tutto, non può essere letto come un «romanzo»? Magari un particolare romanzo, quello che si usa chiamare «romanzo di formazione», ma che è pur sempre un romanzo, ossia un libro che racconta una storia. E qui la storia che si racconta è la nostra, perché noi stessi siamo quell’ente particolare che è interrogato e che risponde: L di Giancristiano Desiderio l’esser-ci. Le edizioni per leggere Essere e tempo sono varie: la Longanesi ha da poco aggiornato la versione classica della traduzione di Pietro Chiodi, mentre la Mondadori ha dedicato un Meridiano al libro di Heidegger con un nuovo tentativo di traduzione di Alfredo Marini. Insomma, procurarsi il testo heideggeriano è una cosa molto semplice perché c’è l’imbarazzo della scelta. Se poi la cosa vi appassiona vi suggerirei anche di procurarvi alcuni testi che vi possono aiutare nella lettura o nella comprensione - o anche il fraintendimento, a volte sono la stessa cosa - del pensiero di Heidegger: potete, ad esempio, cercare un piccolo classico come Introduzione a Heidegger di Gianni Vattimo edito da Laterza, oppure un testo appena uscito del povero Franco Volpi Heidegger e Aristotele, ancora per Laterza. Ma la cosa migliore, probabilmente, è quella di affidarsi a due libri di Adriano Fabris: uno è un’introduzione complessiva al filosofo di Essere e tempo e s’intitola Heidegger, mentre un altro è Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, entrambi editi da Carocci. Il secondo libro di Fabris vi guiderà passo passo nella lettura e nella comprensione di Essere e tempo. Fabris, infatti, sa cosa dice ed è oggi probabilmente il maggior conoscitore dell’opera di Heidegger. Tuttavia, tutti questi consigli e queste cautele non rischiano di allontanare piuttosto che invogliare alla lettura di Essere e tempo? Che cosa fa Heidegger in questo suo libro? Ci dà la vita, ossia il nostro essere-nel-mondo, sotto forma di pensiero scritto. Detto in parole semplici Heidegger fa questo: mostra come l’uomo (l’esserci) può entrare in rapporto con tutto ciò che è (gli altri uomini, gli animali e le cose) perché questo rapporto è già mediato o «aperto» o reso possibile da una particolare comprensione di ciò che chiamiamo «essere». Come potremmo dire l’essere se non fossimo già da sempre coinvolti nell’essere? Il mio Croce lo dice in modo più chiaro: l’uomo vive nella verità. Anche sotto l’ombrellone (se ogni tanto si rinfresca la testa). Accostarsi a “Essere e tempo” come a un romanzo non è una missione impossibile Memorie Incontri ravvicinati con Nostro MobyDICK milio Cecchi in Ritratti e profili dedica alcune pagine al Piovano Arlotto, un vecchio canonico dei suoi tempi. Il Piovano «camminava dondolando e soffiando, panciuto ed elefantesco. I beceri per istrada si toccavano nel gomito dicendo, non tanto a voce bassa “quelli son tutti polli” al che egli replicava stentoreo “e son fagioli”. Sulla sua tomba il Piovano aveva fatto dettare: “Questa sepoltura il Piovano Arlotto la fece fare per sé e per chi ci vuole entrare”». E Cecchi prosegue: «Non è una cinica sfida, un sogghignante invito mortuario, un salamelecchi di danza macabra; ma come dire che se c’era qualcuno così misero da mancargli perfino dove stendersi per l’ultimo sonno, il Piovano si sarebbe tirato un poco più in là e gli avrebbe fatto posto volentieri». E A Pontassieve vicino a Firenze c’era l’osteria del Tomboloni, molto frequentata da scrittori della città: Bilenchi, Luzi, Bo e altri. A un cliente normale il Tomboloni offriva seccamente spaghetti, bistecche e vino locale; ma se ci andavamo noi, con amici scrittori, ecco che c’erano le penne strascicate, il fritto di pollo e coniglio con funghi e carciofi. Si trovavano dal Tombolini un certo numero di vecchietti al medesimo tavolo che si raccontavano cose del passato, con un’aria certamente bonaria, ma fervidamente anticlericale. Si ricordavano ad esempio di un vecchio amico ateo che giunto vicino alla morte fu con insistenza pregato dalla moglie di ricevere il prete. Non ne voleva sapere, ma alla fine il prete arrivò. Si svolse pressappoco questo colloquio: il prete: «In Chiesa non ci siete stato mai», il malato: «È vero non ci sono stato mai»; il prete: «Avete bestemmiato sempre», il malato: «Sì, ho molto bestemmiato»; il prete: «Gliene avete fatte a nostro Signore», il malato: «Sì, gliene ho fatte ma come quella che mi sta per far Lui non gliene ho fatta mai!». Nella stessa situazione un altro vecchio amico che rifiutò sul letto di morte di vedere il prete, ma la moglie lo fece entrare lo stesso. Accanto al moribondo il sacerdote gli sussurrò nell’orecchio: «Dite Giuseppe Gesù e Maria. Dite Gesù Giuseppe e Maria» e il moribondo a botta: «Tre assi e napoletana a picche!». Molto vecchio il Vescovo di Arezzo aveva buona frequentazione con i fedeli e particolarmente con il Prefetto e la moglie che per le feste usavano portargli una scatola di cioccolatini e una bottiglia di cognac. Quando fu sul letto di morte il Vescovo ricevette dal Prefetto una scatola di cioccolatini e gli disse: «Sarebbe stato gradito anche il cognac». Il grande Vescovo di Livorno contava su fedeli molto affezionati, malgrado il loro colore preferito politicamente. Quando venne da Roma la scomunica per i comunisti, il Vescovo suggerì ai suoi sacerdoti di non chiedere in confessione a quale partito fosse iscritto il penitente. Di lì a poco - il Vescovo era già molto anziano gli fu messo accanto un “coadiutore” di carattere molto duro e spigoloso. Proibì al Vescovo di presiedere le funzioni in Duomo, fidando in qualche modo sulla mente indebolita del Vescovo; lo intimoriva e lo spaventava. Quando il grande Vescovo fu sul letto di morte il coadiutore decise di portargli i sacramenti in forma Signore di Leone Piccioni 24 luglio 2010 • pagina 19 Il proverbiale anticlericalismo toscano, un incontro con Malaparte sul letto di morte, Davide Lazzaretti al Teatro povero di Monticchiello, secolarità e spiritualità dei Vescovi, Papi e tv... Brevi notizie tra sacro e profano da un carabiniere. Alla fine dello spettacolo di Monticchiello si svolse come sempre un dibattito fra il pubblico. Era presente un sacerdote di Pienza, intelligentissimo, spiritoso e di grande vocazione che fu ripetutamente invitato a prendere la parola. Era riluttante, ma alla fine si alzò e disse: «Lo vedete, io sono un sacerdote cattolico. Che volete che vi dica? Posso solo confessare - con trepidazione - che nella mia vita in seminario e in parrocchia ho dubitato una o più volte della prima incarnazione del Cristo: figuratevi se posso credere nella seconda!». Il famoso scrittore privata. Ma il grande Vescovo, che era ormai in coma, ebbe come un sussulto, si tirò su dai cuscini e disse imperiosamente: «Al Vescovo che muore i Sacramenti si portano in forma solenne». E così fu. Un brav’uomo di Pienza non aveva mai nascosto il suo ateismo ma tutti gli volevano bene anche per la sua vita di miseria e si fermavano con lui anche i sacerdoti della bella città toscana con i quali disputava francamente. Ebbe lutti in famiglia, rimase solo e si avviava alla disperazione. E un giorno, uno dei preti che lo conosceva bene, con grande sorpresa lo trovò in Chiesa davanti al Crocifisso che bisbigliava: «Io non ce l’ho con Te, che hai tanto sofferto, ti hanno picchiato, ti hanno crocifisso; non ce l’ho con Te, ce l’ho con tu’ Padre che m’ha ridotto così». A Monticchiello, vicino a Pienza, si svolge ogni anno un evento teatrale che porta a recitare in piazza tutti i cittadini del posto su nuovi copioni che dovrebbero essere di interesse generale. Anni fa fu scelto come soggetto della recita un personaggio come Davide Lazzaretti: era un carrettiere toscano dell’Ottocento e intorno a lui si esercitò un culto, una sorta di vera religione che lo indicava come il nuovo Gesù dell’epoca industriale, perché il Cristo sarebbe stato l’apostolo delle genti dell’età agricola. Il culto intorno a lui permane come “Giurisdavismo”. Era morto durante una manifestazione ucciso Curzio Malaparte, ormai morente per un tumore, era ricoverato in una clinica di Roma. Aveva frequentato la bella zona di Bagni Vignone divenendo grande amico di un albergatore del luogo fervente cattolico. La sala d’aspetto della clinica era piena di politici comunisti e di personaggi cattolici che si disputavano l’anima del morente, da una parte comunista, dall’altra credente. Un microfono convocava via via i visitatori. L’albergatore di Bagni Vignone venne a Roma e si inserì anche lui nella sala d’aspetto prevedendo di dover aspettare tanto tempo: fu invece chiamato subito con sorpresa di tutti gli altri. Cercò di dire parole di speranza e di conforto a Malaparte ma lui taceva e si rivolgeva all’amico solo per dirgli: «Ti devo chiedere una cosa: prega per me, prega per me», e l’altro: «Porca…(e giù una bestemmia), che vuoi che non preghi per te, lo faccio, porca… sempre». Due brevi battutine per chiudere. Quando la Tv era in bianco e nero l’operatore Giandinoto ebbe l’incarico di riprendere in televisione Papa Pacelli, Pio XII, ma staccò quasi subito l’occhio dalla telecamera e disse: «Non mi viene bene: Santità il bianco spara». Un altro operatore si recò con Piero Angela per una ripresa a Papa Montini, Paolo VI. Inquadrò la telecamera, non si decideva a girare finché disse rivolto al Pontefice: «Eccellenza, faccia finta di pregare». L’occhiata di Paolo VI si può immaginare. ALTRE LETTURE MARX STA ANCORA BENE, PAROLA DI EDGAR MORIN di Riccardo Paradisi entre «il liberalismo realmente esistente», si dispiega sul mondo e lo affonda in un abisso ecologico, finanziario, politico ed etico, Edgar Morin in Pro e contro Marx (Erickson, 104 pagine, 10,00 euro) ci invita a ritrovare il filosofo di Treviri nelle sue intenzioni più feconde sotto le macerie dei marxismi. Morin si pone contro lo spirito di sistema che uccide il pensiero e sterilizza l’azione utilizzando il pensiero di Marx per esplorare i meccanismi che agiscono in ogni sistema dogmatico e chiuso. Meccanismi attivi anche all’interno del marxismo stesso. «La concezione antropologica di Marx era unidimensionale: né l’immaginario né il mito facevano parte della realtà umana profonda. L’essere umano era un homo faber senza complessità, un produttore prometeico. Sappiamo invece, come hanno mostrato Montaigne, Pascal, Shakespeare, Dostoevskij, che homo è sapiens demens - un essere complesso, multiplo, che porta in sé il cosmo di sogni e fantasmi». M QUANDO LE PAROLE SONO MINIERE DI ZOLFO ***** l Dizionario del diavolo (Guanda, 189 pagine, 13,00 euro) ha avuto una genesi durata più di quarant’anni, durante la quale si è chiamato in vari modi: Dizionario del cinico, Dizionario del demonio, Dizionario del comico. In sostanza si tratta di un lavoro di correzione della lingua del giornalista Ambrose Bierce allo scopo di modificarne il cuore più profondo, di sovvertire il comune senso delle parole a favore di un significato paradossale. Bierce costruisce un testo estremo ed esilarante in cui tutto viene dissacrato compresa la sacra rivoluzione: «Il brusco passaggio da una forma all’altra di malgoverno». I LA GUERRA PERSA DALLA SOCIALDEMOCRAZIA ***** rande sconfitta delle ultime elezioni in Europa, in Germania nel 2009 come nel Regno Unito nel 2010, la socialdemocrazia ha subito un ridimensionamento tale da oscurare le sue prospettive politiche. Il suo declino elettorale, secondo Giuseppe Berta (Eclisse della socialdemocrazia, Il Mulino, 156 pagine, 10,00 euro) è la conseguenza dello smarrimento dell’istanza di equità che l’universo socialdemocratico aveva incarnato nella storia del Novecento, col grande e nobile progetto di correggere l’evoluzione capitalista mediante una forte spinta all’eguaglianza sociale. Un’analisi severa e stringente che rende conto del disorientamento della sinistra europea d’oggi. G pagina 20 • 24 luglio 2010 di Diana Del Monte l’artista associato designato per l’edizione 2011, ma anche una novità nel panorama di questa 64esima edizione del Festival di Avignone. Si tratta di Boris Charmatz, coreografo e danzatore di formazione classica, ma votato a «l’altra danza», che quest’anno è entrato, per la prima volta, in territorio avignonese. Per saggiare il terreno di questa sua prestigiosa conquista artistica, Charmatz ha portato ad Avignone due coreografie dall’anima profondamente diversa, quasi opposta: Flip Book, in scena dal 9 all’11 luglio, e La danseuse malade, che stasera aprirà il sipario per l’ultima volta. Entrambi prendono ispirazione da una figura emblematica della storia della danza, Merce Cunningham per Flip Book e Tatsumi Hijikata per La danseuse malade, ed entrambi lavorano sull’insolito e ignorato ruolo della scrittura all’interno dell’universo del corpo. Flip Book è stato rappresentato, per la prima volta lo scorso dicembre al Theatre de la Ville di Parigi e può essere considerato un lavoro in itinere, il primo capitolo della nuova avventura di Charmatz nella storia e nello stile del coreografo statunitense; La danseuse malade, invece, è una coreografia del 2008 riallestita per l’occasione. Un lavoro, quest’ultimo, che si pone a metà tra la danza e il teatro e che prende avvio dal testo Matériau du dedans, D’envier les veines du chien di Hijikata; uno scritto surreale, che porta in sé la corporeità del padre del butoh e che non è mai stato pubblicato in nessuna lingua europea. «Ma attenzione alla confusione: noi non ricostruiamo il butoh a partire da questo testo allucinante - ha precisato il coreografo - si tratta, piuttosto, di assumere il pensiero di un immenso artista in modo tale da lasciarci completamente liberi di andare verso la nostra personale deriva». E di butoh, in effetti, non ce n’è; né tradizionale, filologicamente corretto e adatto a una ricostruzione della scena di Hijikata, né di seconda generazione. Sulla scena un camion, Charmatz e Jeanne Balibar, attrice e cantante francese, intenti a È Televisione Danza Butoh e rock and roll ispirano Charmatz MobyDICK spettacoli DVD VIAGGIO SULLA LUNA DAL DIVANO DI CASA ono trascorsi quasi quarant’anni dal primo sbarco, ma la graziosa Luna sembra non aver perso un’oncia di fascino. Meta cult del prossimo futuro per lunatici magnati, il satellite che suggerì la tintarella alla Mazzini e indicibili livori alla Bertè continua a essere inseguito dalla Nasa, che conta di condurre alla scoperta delle meraviglie locali un drappello di passeggeri disposti a scucire cento milioni di dollari per l’offerta lancio. Per gli astro-muniti farà da sapido antipasto La Luna come non l’aveta mai vista, bel documentario Bbc ricco di immagini inedite. Per i comuni terrestri è sufficiente il divano in dotazione. S PERSONAGGI SE TRA MICK E KEITH ROTOLANO LE PIETRE strionico e trasgressivo sulle sei corde, tanto quanto con il calamaio. Nonostante l’età avanzata, il mitico Keith Richards sfoggia ancora sul palco polmoni d’acciaio, ma soprattutto una memoria tutt’altro che labile. A tal punto che dopo le iniziali remore, il chitarrista degli Stones ha sfornato una striminzita biografia di sole 550 pagine per l’editore Little Brown. Non fosse che la dovizia di particolari, su cui la stampa si è tuffata in branco, ha prodotto importanti movimenti tellurici nei pressi del baricentro basso di sir Jagger. A tal punto, che molti danno per imminente il divorzio del secolo. Altro che mister e misses Trump. I diffondere l’epidemia Hijikata attraverso la loro strada. Diverso, quasi opposto, come lo era d’altronde il suo ispiratore, è, invece, Flip Book; un lavoro che prende origine anch’esso dal rapporto con la lettura, tentando di diventare lui stesso una sorta di libro/palcoscenico fatto di immagini suggerite all’autore dallo scritto di Cunningham, 50 anni di danza. Una coreografia dai ritmi rapidissimi, «rock and roll» l’ha definita il coreografo francese, che si avvicina al genio della danza postmoderna come una forma di museologia della danza, fatta di corpi in movimento. Un omaggio al coreografo statunitense pensato da Charmatz come un lavoro collettivo - e in questo molto poco cunninghaniano - e interattivo, che, come di- chiara lo stesso artista, non vuole lasciare spazio a nessuna forma di nostalgia o rivalità. Dopo Avignone, l’esperienza di Flip book confluirà in 50 anni di danza, il nuovo lavoro di Charmatz su Cunningham, in prima a Berlino il 24 e 25 agosto in occasione del primo anniversario della morte del coreografo; La danseuse malade, invece, grazie all’interesse suscitato ad Avignone, sembra pronta a una nuova giovinezza della scena. Per ora, il suo avvenire già prevede un viaggio nella patria di uno dei genitori del butoh: «Abbiamo avuto un grande ritorno da parte degli specialisti giapponesi di Hijikata per questo spettacolo - ha spiegato Charmatz per questo ci piacerebbe portarlo lì, come una sorta di orizzonte ultimo». di Francesco Lo Dico A caccia di serial killer da Quantico a L.A. rmai è piena estate, senza retromarce meteorologiche. E siamo agli sgoccioli, almeno sugli schermi Rai e su quelli di Mediaset. Francamente nessun rimpianto: l’annata, come si dice con i vini, non è davvero stata delle migliori. Un discorso a parte meriterebbe l’informazione: bisogna andarla a cercare, ed è una fatica perché non è proprio in primo piano. Per chi ama la fiction e non vuole subire le repliche stantie delle grandi emittenti, segnalo la resistenza e una certa - ma non totale - freschezza di Sky. È il caso di dirlo: per fortuna c’è Criminal Minds (su Fox Crime a orari diversi, con repliche su Fox Crime 1). Siamo alla quinta stagione. Csi Miami è addirittura alla settima, Csi alla decima. Insomma un Beautiful nero che ha diverse versioni, ognuna delle quali con- O di Pier Mario Fasanotti notata dalla città dove si svolge il serial. Criminal Minds parte da Quantico, città cult per chi ama i polizieschi. È una squadra quella che appare in video, esperta in «analisi comportamentali». Psicologia e criminologia applicate alla ricerca di chi compie il male. Campeggia l’attore Joe Mantenga, ma anche gli altri sono bravi e credibili. Il gruppo di psico-detective è suddiviso per caratteri personali. Immancabile la donna che fa ricerche al computer e dialoga con chi va sulla scena dei reati. Stereotipata, televisivamente clonata: non bella, grassoccia, occhialuta, efficientissima, amicona dei colleghi, battuta pronta, ironia e autostima. Poi c’è l’immancabile «primo della classe». In questo caso il giovane e plurilaureato Spencer Reed: apparentemente pedante, con le tasche mentali piene di citazioni e di fardelli statistici, in realtà un buon giovane con comuni debolezze. Lasciata la base, la squadra trova una polizia locale un po’ grezza, e soprattutto diffidente verso i «cervelloni». Il tutto poi si appiana. Così anche in uno degli ultimi episodi intitolato Il principe delle tenebre (potevano ave- re più fantasia, in effetti). Costui ammazza e stupra da 26 anni, spostandosi in vari Stati americani, ma avendo come baricentro Los Angeles. È l’uomo nero, che si muove nel buio. Brutale, ignorante (lascia messaggi sgrammaticati), fuma in continuazione (c’è sempre un perché nei copioni, ideati da Jeff Davis). Gli analisti si muovono quando trovano connessioni criminali, mai per un singolo episodio. Sono esperti di serialità. Il Ba-Bau della città degli angeli approfitta dei black-out dovuti al caldo torrido e quindi al sovraccarico elettrico. Uccide chi trova nelle sue «invasioni domestiche» e lascia sempre un testimone. Gli esperti con la pistola spiegano ai policemen locali che questo ha a che vedere con la volontà di ottenere «potere e controllo». La squadra di Quantico lavora su un puzzle e a furia di confrontare dati e dettagli si mette sulla pista giusta. Non rivelo l’epilogo, che sarà in un’altra puntata. Certo è che Criminal Minds ha i presupposti per diventare uno o più film. MobyDICK poesia 24 luglio 2010 • pagina 21 Nel regno illimitato di Apollinaire di Francesco Napoli i conoscevano bene. Avevano condiviso gli slanci culturali di una Parigi inizi del Novecento, per ambedue estremamente decisiva nella formazione e una donna amata: Giuseppe Ungaretti e Guillaume Apollinaire. Quando nel dicembre del 1918 il grande poeta italiano ritorna dal fronte francese del conflitto nella capitale parigina ha sottobraccio una scatola di sigari toscani promessi all’amico. Entra nella città in fermento contro la Germania del kaiser e urlante A mort Guillaume e ha come un presagio, «l’equivoco del grido era atrocissimo». Corre verso SaintGermain des Prés col cuore in gola, sale le scale e viene accolto dalle donne dell’intellettuale francese, la madre e la moglie. Gli cade il pacchetto dei sigari dalle mani mentre di sottofondo gridavano sempre a morte Guillaume. «Apollinaire era morto. Non era morta la sua poesia». S Guillaume Albert Wladimir Alexandre Apollinaire nasce a Roma il 26 agosto 1880, figlio naturale di Angelica de Kostrowitzky, polacca d’origine, e del napoletano Francesco Flugi d’Aspermont. Giovanissimo si trasferisce in Francia dove procede negli studi e nel 1899 va a stabilirsi a Parigi. Ha bisogno di guadagnarsi da vivere e lo fa con la penna, pubblicando nel 1901 il romanzo erotico Mirely ou le petit trou pas cher. Trova una migliore sistemazione in Germania, al seguito dei visconti Milhau come precettore della figlia. Lì s’innamora della governante della bambina, ma dura poco. Nel 1902 avverte il richiamo culturale di Parigi e vi fa ritorno. Lavora in banca di giorno e la sera frequenta scrittori e artisti: Picasso (che gli regalerà una tela per le nozze), Max Jacob, Vlaminck, Jarry e avvia un’intensa attività culturale collaborando a giornali e riviste. Il nom de plume Guillaume Apollinaire compare per la prima volta sulla Revue Blanche sottoscritta alla novella fantastica L’Hérésiarque. Dopo aver curato una edizione delle opere di De il club di calliope L’ADDIO Ho colto questo briciolo d’erica L’autunno è morto ricordalo Non ci vedremo più su questa terra Odor del tempo filo di brughiera E io t’aspetto ricordati Sade e pubblicato in prosa, nel 1911 compaiono i suoi primi versi del Bestiaire ou Cortège d’Orphée. In seguito ad alcuni furti avvenuti al Louvre, e tra le tele sottratte perfino la mitica Gioconda, viene clamorosamente arrestato nel 1913 con l’accusa di ricettazione, ma ne esce assolto. Dopo aver pubblicato Alcools (1913) cresce la sua fama anche in Italia e prima sulla Lacerba (1914) e poi sulla Voce (1915), con il poemetto A l’Italie, compaiono suoi versi. Fa appena in tempo a vedere pubblicati i suoi celebri Calligrammes (1918) e il 9 novembre di quell’anno, colto da un attacco di influenza spagnola, muore a Parigi. Apollinaire non è stato certo un teorico o un trascinatore come Marinetti e neppure un capo scuola come Andrè Breton; di Valery non ha avuto l’altezza di commisurarsi e interrogarsi sul significato e sulle condizioni della sua produzione poetica; la sua opera non ha avuto la forza d’attrazione, o di repulsione, come quella di Mallarmé pur tuttavia non è un solitario degli inizi del Novecento, tutt’altro. È ammirato, ispira tanto musicisti, come Poulenc, e le sue opere vengono illustrate da Braque, Matisse e Dalì. Sembra quasi che la sua poesia non abbia frontiere delineate: poche sono le tendenze che, durante la sua attività, non abbia sperimentato a dovere, e altrettanto poche sono anche quelle che, dopo la sua morte, in un modo o nell’altro, non abbiano fatto i conti con la sua opera poetica. A quei critici che avevano trovano «tristi» le poesie di Alcools lo stesso Apollinaire rispondeva che quella raccolta rappresenta in verità «la vita stessa, con una costante e cosciente volontà di vivere, di conoscere, di vedere, di sapere e di esprimere». Certo, la dolorosa malinconia del «malamato» e un diffuso sentimento di fuga dalla vita e della vanità delle cose vi sussistono. Eppure con un guizzo d’ironia neppure Guillaume Apollinaire da Alcool velata o una parola audace Apollinaire riesce a neutralizzare un sentimento del tempo che non poteva non essere amaro visto quanto attorno succedeva. Un sentimento del tempo che si sviluppa e si precisa nei Calligrammes, raccolta che principia nell’allegria della creazione di un verso totalmente libero da ogni ingabbiatura formale e capace di «dipingere» una tela sul foglio bianco e termina con La jolie rousse, ambiziosa affermazione di poetica e commovente confessione di umiltà. In questa raccolta, al pari della prima ungarettiana dell’Allegria, la guerra vi compare come un’esperienza e una spettacolo senza precedenti, una prova di una crudeltà inumana alla quale fa da contraltare un’esaltazione del sentimento dell’esistenza e dell’amore. Il linguaggio militare, tecnico o gergale che sia, le esagerazioni della retorica patriottica - tenendo comunque presente che Apollinaire resta molo più misurato della maggior parte dei suoi colleghi - le violenze e le tenerezze della solitudine amorosa, gli accenti quasi messianici si alternano a una riscoperta fascinosa dell’ottosillabo tradizionale. Andare a scoprire queste pagine per riconoscere una sintonia govoniana non significa però non intravedere l’estrema libertà sempre osservata da Apollinaire, in grado ancora di sfruttare la tradizione metrica e di disporre un calligramma in ottosillabi rimati come La colombe poignardée et le jet d’eau. Il poeta pratica con assoluta coscienza e sicurezza la poesia figurata, il cui disegno corrisponde al senso, mette insieme anche più figure per comporre un testo (Paysage), si misura con una ambiziosa costruzione astratta come Lettre-océan, si abbandona in Case d’armons a un gioco tipografico che soltanto in apparenza assomiglia alle parole in libertà futuriste, ma Apollinaire appartiene certamente, come il giovane Hugo delle Odes o Claudel, alla schiera dei poeti per i quali il regno della poesia è illimitato. I FLUSSI DELLA VITA E LA STRETTA DEL TEMPO in libreria di Loretto Rafanelli Così ritornano e sentono un lungo bacio senza luce, un mutismo che non trova il battito del sangue. Escono da quella stanza nello spavento delle strade con un volto invisibile e uno straziato, nessuna impronta li segnala e allora tornano in questo bar di Affori, dove li aspetto con un piede nel vuoto. Milo De Angelis i Fabio Scotto, è bene rendere conto non solo del suo straordinario impegno come traduttore, specie di Yves Bonnefoy, di cui esce a giorni il Meridiano da lui curato, ma pure della sua scrittura poetica, di cui l’ultima raccolta Bocca segreta (Passigli, 130 pagine, 14,50 euro), ne è una ulteriore felice prova. Già l’inizio del volume ci consegna tre eccellenti poesie dedicate alla morte del padre, versi profondi e dolenti di rara intensità. Scotto è un poeta che attraversa i luoghi, le persone, i loro stati d’animo con attenzione e candore raccontando con dovizia di particolari i flussi della vita, nella stretta di un tempo che «cola come una febbre densa/ sui campi arsi dal gelo». Scotto è un poeta «generoso» che vuole molto dire e riferire delle gioie e dei dolori degli uomini, e sente quasi come un dovere la necessità di guardare nel quadrante del mondo, senza sfinimenti interiori. Egli, con la dovuta riflessione, e un chiaro linguaggio, si spinge verso i più oscuri meandri della vita, perché solo attraverso questo slancio si può ricavare la cifra ultima dell’umanità («se non vivi non muori»). D MobyDICK Essere&Tempo pagina 22 • 24 luglio 2010 ai confini della realtà Leonardo Da Vinci sul lettino di Freud di Leonardo Tondo er molti il Rinascimeno italiano rappresenta il momento in cui l’individuo emerge dalla massa e si esprime con tutta la sua forza creativa. Leonardo di ser Piero da Vinci percorse sessantasette anni di quell’esplosivo periodo storico e più di tutti ne incarnò il senso. Il suo eclettismo lo portò a sviluppare ricerche nell’ingegneria e nell’anatomia, ma anche a contribuire da protagonista alla storia dell’arte. Passano quattro secoli e l’artista diventa il protagonista di un piccolo saggio di Freud, attratto dai suoi labirinti psicologici. Che il personaggio potesse stimolare l’attenzione investigativa dello psicanalista non è difficile da capire. P Enigmatico dall’inizio alla fine, a partire dal suo originale modo di scrivere leggibile soltanto allo specchio, per arrivare alla rappresentazione di Monna Lisa la cui identità è ancora in discussione, così come quella di uno degli apostoli dell’Ultima cena che ha ispirato Dan Brown nel suo fortunatissimo Codice da Vinci. Eppure l’interesse psicanalitico va verso un dettaglio artisticobiografico che porta alla scrittura di Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (Skira, 144 pagine, 15,00 euro). Oltre al centenario della sua prima pubblicazione, alle ragioni della ristampa non sarebbe estranea la modernità sia dell’artista (vegetariano e pacifista, tanto per dire) sia dello stesso saggio che esplora l’intricato e intrigante rapporto fra psicanalisi e arte. Lo scritto parte dall’indagine sull’attività sessuale dell’artista scartandone frettolosamente una componente omosessuale agita (ma limitata agli aspetti più emotivi) e sostenendo che in generale non fosse «di alto grado». Anzi, il suo atteggiamento sarebbe stato molto controllato e indifferente a spinte passionali positive o negative che Il San Giovanni Battista di Leonardo Da Vinci. Sotto, il suo autoritratto e una foto di Sigmund Freud. In basso, particolare del foglio 186 v dal “Codice Atlantico” di Leonardo: nelle prime tre righe in alto Leonardo ricorda l’episodio infantile del nibbio. In basso, a destra la copertina del volumetto edito da Skira fossero. Questa interpretazione dà la possibilità di sviluppare il concetto di sublimazione, «il potere di sostituire al suo scopo immediato altri scopi che possono essere maggiormente stimati e che non sono sessuali», in altre pa- sul volo del nibbio, ricerca probabilmente influenzata da quella sua prima ricordatione in cui gli pareva di essere in una culla e che un nibbio «venissi a me e mi aprissi la bocha colla sua coda e molte volte mi per- Un ricordo d’infanzia annotato su una pagina dedicata al volo del nibbio fornisce allo psicanalista viennese l’occasione per spiegare l’omosessualità non agita dell’artista. Con molte notazioni convenzionali e puritane per non offendere la morale del tempo role quel meccanismo di difesa dell’Io per cui l’individuo insensibile o bloccato converte le sue passioni sessuali in attività socialmente utili nella ricerca o in campo artistico. Leonardo ebbe successo nei due rami, il primo probabilmente per esprimere la sua razionalità e il secondo le sue emozioni; pur rimanendone insoddisfatto fino al momento della sua morte («mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio… non avendo operato nell’arte come si conveniva»). Il ricordo d’infanzia a cui Freud fa riferimento riguarda una rara annotazione personale in un brano scientifico chotessi con tal coda dentro alle labbra». A un secolo di distanza dalla scrittura del saggio ed educati ormai ai sospetti psicanalitici, anche uno studente di liceo che ignora la grammatica, vede nella ricordatione leonardesca riferimenti chiaramente sessuali, ma al tempo di Freud non era ancora apparso sulla scena un suo alter ego che gli avesse spianato la strada. Non solo. Il pudore dell’inizio del Novecento viennese (peraltro caratterizzato da eccessi libertini ben nascosti) non permetteva di parlare di piedi, figuriamoci di fellatio, tanto che Freud ritiene utile spiegare in dettaglio di cosa si tratti per poi scusarsi con il lettore sperando che «si domini e non permetta a un impeto di sdegno di impedirgli di seguire ulteriormente la psicanalisi solo perché conduce a un’imperdonabile calunnia alla memoria di un uomo grande e puro». Preoccupazioni che a un secolo di distanza fanno sorridere e che potrebbero addirittura invogliare la lettura se non fosse che l’argomento è ormai venuto a noia. Tra le pieghe del saggio si mette in evidenza il cambiamento di percezione della sessualità quando Freud si dilunga su quella che lui chiama una «disgustosa perversione sessuale» che si «ritrova con notevole frequenza tra le donne di oggi» (inimmaginabile riportare che avvenisse anche tra uomini) e che «nella condizione di trasporto amoroso sembra perdere il suo aspetto ributtante». Per meravigliarsi che «le donne non abbiano difficoltà a produrre spontaneamente questo genere di fantasie di desiderio». Le affermazioni sono convenzionali e puritane (e Freud certamente non era né l’uno nell’altro), ma è evidente la sua preoccupazione che una maggiore concessione all’argomento non sarebbe stata accettata mettendo a rischio il suo impianto interpretativo. Così, se da una parte parla di fantasia disgustosa, dall’altra afferma che la morale del tempo condannava con tanta severità nient’altro che la rappresentazione della suzione di un capezzolo.Tesi suggestiva ma discutibilissima visto che la maggior parte degli uomini va direttamente all’origine e molte donne non lo ritengano assolutamente necessario (a meno che non sia in gioco una carriera) nella gamma delle possibili effusioni sessuali. Per tornare a Leonardo sul lettino di Freud, la fantasia del nibbio aiuta lo psicanalista a fare outing dell’artista e a spiegare che la sua omosessualità fosse legata alla ricerca della madre attraverso la considerazione che il nibbio era creduto nell’antichità egizia (conosciuta a Leonardo) essere soltanto di genere femminile. Da qui Freud costruisce una teoria dell’orientamento omosessuale del genio rinascimentale come un attaccamento erotico verso la madre nei primi anni di vita a cui rimane fedele per tutta l’esistenza, una figura che lo riempie di attenzioni e di sorrisi, che dà al figlio le carezze e le attenzioni che lei stessa non ha ricevuto (il padre di Leonardo la confinò in una sua proprietà appena nato il figlio). Quegli stessi sorrisi di Sant’Anna e la Madonna che nel celebre quadro del Louvre guardano il Bambino ma che diventeranno la cifra misteriosa e inquietante di molti altri soggetti, da Monna Lisa, a Bacco e a San Giovanni Battista. o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Presenza di fibre di amianto aereo disperse in provincia di Messina È inammissibile che in zone balneari, ad alta densità abitativa, siano presenti unità abitative e non, nelle quali è stata accertata la presenza di amianto. Le persone che vivono nelle vicinanze, soprattutto bambini e anziani, in questo momento stanno inalando queste polveri estremamente pericolose e dannose per la salute. Episodi come questi si verificano quasi ogni giorno in località diverse della Penisola. Una recente indagine, avviata dall’Università cattolica del Sacro Cuore, ha accertato il pericolo d’inquinamento da fibre di amianto aereo-disperse, e conferma che questa esposizione darebbe inizio ad una cancerogenesi (mesotelioma pleurico) che potrebbe impiegare fino a venti anni per manifestarsi, ma dalla quale, dopo la diagnosi clinica dell’affezione, ne risulterebbe una sopravvivenza di circa un anno. La cosa che lascia perplessi è che gli organi preposti a controllare e a risolvere situazioni estreme con queste problematiche, sono spesso sordi e insensibili da moltissimi anni e zone altamente degradate, come quella di Acquitta, ne sono un esempio lampante. Domenico Scilipoti e Giuseppe Cuschera NEGATI I FONDI REGIONALI ALLE SCUOLE PARITARIE Malgrado le continue e ripetute promesse in tema di scuole paritarie e di riconoscimento della libertà educativa, promesse ribadite anche in recenti convegni che hanno visto d’accordo esponenti di primo piano del governo, delle istituzioni e delle diverse forze politiche, la situazione delle scuole paritarie viene ignorata e spesso danneggiata. Questo nonostante la legge 62 del 2000 affermi che le scuole paritarie sono pubbliche e i ragazzi che le frequentano hanno gli stessi diritti e doveri di quelli che frequentano le scuole statali. Molti uffici scolastici regionali da tempo lamentavano il fatto che i fondi destinati alle scuole paritarie dalla legge finanziaria per il 2010 non sono ancora stati assegnati. Adesso Campania e Lazio hanno diramato circolari in cui spiegano che non essendoci soldi non verranno erogati i previsti e dovuti finanziamenti alle scuole paritarie. Ci teniamo a specificare che si tratta di diritti acquisiti. È il momento di dire basta alla continua presa in giro nei confronti delle scuole paritarie, e di chiedere a questo governo serietà e coerenza dal momento che promette e annuncia, ma nei fatti non solo non fa nulla ma procede con tagli indiscriminati ai danni delle famiglie e dell’intero sistema scolastico italiano. Il ministro Gelmini che intende fare, al di là delle risposte generiche date in aula con le quali non è stato risolto il problema dei fondi regionali, dichiarazioni di principio che non affrontano le attese concrete di scuole e famiglie?”. L.C. PRESIDENZA CONSOB ANCORA VACANTE: SERVE A QUALCUNO? Abbiamo già auspicato che la fine dell’era Cardia alla Consob coincidesse con un periodo di maggiore trasparenza e attenzione alle esigenze degli investitori. Purtroppo, iniziamo male. L’autorità di vigilanza sui mercati finanziari non ha ancora un presidente e sembra che al governo non importi granché essendo in tutt’altre faccende affaccendato... Che fosse necessario un successore dell’ex presidente prof. Lamberto Cardia era cosa nota da tempo. A volerla dire tutta, è solo grazie ad una interpretazione cervellotica della legge che Cardia è potuto stare in carica alla Consob ben oltre i 10 anni previsti dalla legge. Negli ultimi mesi dell’era Cardia, la Consob ha iniziato ad essere particolarmente attiva sul fronte dei provvedimenti a tutela degli investitori, cosa che non era accaduta in tutti i 12 anni precedenti nei quali Cardia è stato in Consob. Ci domandiamo se questo periodo di presidenza vacante L’IMMAGINE Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 18278817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc e di cronach via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 38 email: [email protected] - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30 Nella morsa dell’onda Sommerso da una nube di spruzzi c’è Yuri Farrant, il surfista che ha cavalcato questo “mostro” marino. Siamo sull’isola di Maui, alle Hawaii, dove una particolare conformazione del reef oceanico consente la formazione di cavalloni da capogiro: alti anche 21 metri LE VERITÀ NASCOSTE Il Taj Mahal, la passione di Beckham LONDRA. Poniamo che David Beckham non avesse uno dei piedi destri più deliziosi degli ultimi quindici anni, un piedino fatato che lo ha portato a giocare nel Manchester United, nel Real Madrid, nel Milan e nella nazionale inglese: che lavoro avrebbe fatto? Il modello di intimo? L’attore di commedie rosa hollywoodiane? No: si sarebbe dedicato a costruire con il Lego. Durante un’intervista, gli è stato chiesto: «Se non fossi diventato un calciatore, che carriera avresti scelto?». E lui ha risposto: «Adoro disegnare fumetti e adoro i Lego. So che potrebbe suonare strano, ma quando ero a Milano avevo molto tempo libero [causa infortuni, ndr] e ho scoperto che in Rete era possibile acquistare un set del Taj Mahal e così l’ho comprato. Non sono ancora riuscito a finirlo, a dire il vero. Lo so che non è un lavoro, ma mi piace tantissimo e piace anche miei figli». Il set del Taj Mahal è la versione a cubetti del famoso mausoleo indiano, un modello gigante da ben 5922 pezzi - e da 320 euro, ma per Beckham questo non è un grosso problema. È bastato che Beckham citasse i Lego per scatenare una conseguenza sorprendente: nel giro di un giorno le vendite della scatola del Taj Mahal sono salite del 663%. non sia utile per rallentare qualche provvedimento in corso in modo da poter contestare, successivamente, lo scadere di qualche termine. Come ricordava Andreotti “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”. Vedremo quanto tempo aspetteremo per avere una Consob nella pienezza dei suoi poteri. Alessandro Pedone RU486. LE MINACCE DEL GOVERNO ALLE REGIONI: ABUSO DI POTERE? Le linee guida per la pillola abortiva suonano come una chiara minaccia ritorsiva alle Regioni, tale da configurarsi come abuso di potere. Il sottosegretario al ministero della Salute, Eugenia Roccella, segnala che «chi dovesse applicare protocolli clinici che ammettono le dimissioni volontarie della donna dopo l’assunzione della prima pillola vanno incontro a irregolarità» tali da «determinare dei problemi sul piano del rimborso della prestazione da parte del servizio pubblico». E come si dovrebbe fare per non accettare le dimissioni volontarie che una donna, in caso, farebbe assumendosi le proprie responsabilità? Forse la sottosegretaria Roccella sta chiedendo alle Regioni di fare “trattamenti sanitari obbligatori”, contenzioni nei letti, opera di persuasione occulta nei confronti delle donne per trattenerle (inutilmente dal punto di vista sanitario) ricoverate in ospedale? Tutto questo in barba all’autonomia delle Regioni in materia di organizzazione sanitaria. È evidente che la minaccia del governo è per dissuadere Regioni, Asl e singoli ospedali a promuovere uso e diffusione di questo metodo abortivo. Infatti, chi, contro la degenza di meno di 24 ore per un aborto chirurgico, che è quella piu’ diffusa, promuoverebbe una degenza di 72 ore? Donatella Poretti pagina 24 • 24 luglio 2010 reportage Il Paese dei cedri si avvia verso la formazione (nebulosa) della sua Terza Repubblica Viaggio al centro di Hezbollah Tra milizia e fazione, il Partito di Dio combatte da anni per un Libano libero dalla Siria e multi-confessionale. Guidato dall’unico leader islamico che abbia sconfitto Israele sul campo di Lorenzo Biondi nelle regioni di confine - ad est, come nella Galilea contesa con Israele - che Hezbollah ha le sue roccaforti. Elettorali e non solo. Ne stiamo raggiungendo una: la valle della Beqaa. Da lì la Siria è lontana solo pochi chilometri. L’ultima epoca della politica libanese è iniziata cinque anni fa, quando l’esercito siriano tornò oltre la frontiera. La Beqaa fu l’ultima tappa sulla via di Damasco. Forse la Seconda Repubblica libanese è finita allora. Era iniziata nel 1990: gli occupanti siriani avevano messo fine alla sanguinosa guerra civile tra cristiani e musulmani, una sorta di guerra a distanza tra Israele e i Paesi arabi. Nel 2004 il parlamento emenda la costituzione per permettere al presidente Émile Lahoud, cristiano e filo-siriano, di rimanere in carica oltre la scadenza del mandato. Il premier Rafik Hariri, musulmano sunnita, si dimette in segno di protesta. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2005, Hariri muore in un attentato su cui ancora non si è fatta luce. Beirut diventa il teatro di continue manifestazioni di piazza: è la Rivoluzione dei Cedri - con sunniti, drusi e la maggioranza dei cristiani uniti nel chiedere il ritiro della Siria. Dall’altra parte gli sciiti di Hezbollah vogliono che le truppe siriane rimangano, per continuare la Resistenza contro Israele. Il Partito di Dio raduna mezzo milione di persone in piazza, gli anti-siriani raddoppiano la cifra. Numeri da capogiro, per un Paese di quattro milioni di abitanti. Gli amici libanesi ci chiedono sorridendo: «Quanta gente riesce a portare in piazza Berlusconi?». È la primavera del 2005 quando la Siria accetta di ritirarsi. Non ci vorrà molto prima che scoppi la nuova guerra: Hezbollah intensifica le sue azioni sul confine e le truppe di Tel Aviv invadono il sud del Libano. È Siamo in viaggio in macchina, in mezzo ai monti. Le nostre guide, due sacerdoti della Chiesa maronita, ci indicano tratti di asfalto dal colore più scuro. È dove nel 2006 sono cadute le bombe degli israeliani. A guardarsi intorno però, si fa fatica ad immaginare cosa abbia reso una tale landa desolata teatro di scontri durante ciascuna delle ultime guerre. Quest’altopiano desertico i liba- nesi lo chiamano semplicemente «la montagna», o «monte Libano». A perdita d’occhio si vedono solo sassi e sterpaglie. L’unica presenza umana è quella di tre pastori - il più grande di loro avrà al massimo dieci anni - che pascolano il gregge. La ragione degli scontri è nascosta alla vista, alle nostre spalle. Beirut è lontana poche decine di chilometri: da qui si bombarda la capitale. I posti di blocco che incontriamo frequentemente, allora, sorprendono di meno. Superiamo il valico e la Beqaa appare ai nostri piedi. Verde e giallo, un mosaico di campi rigogliosi; già ai tempi di Roma era uno dei «granai dell’impero». All’ingresso di ogni villaggio della valle, gli avventori vengono accolte da archi di metallo con scritte in arabo: inneggiano alla Resistenza e a Sayyid Hassan Nasrallah, il quarantenne leader di Hezbollah. Pur avendo “perso”le elezioni del 2009, con più del dieci per cento dei voti il movimento è la terza forza del Parlamento libanese. È l’unico gruppo a possedere armi, oltre all’esercito regolare. Si dice che da questi valichi, di tanto in tanto, arrivino ancora spedizioni di fucili e persino di missili, che la Siria offre ai suoi alleati. Tutti in Libano, che siano d’accordo con Hezbollah o meno, riconoscono che la guerra del 2006 è stata vinta dal Partito di Dio. Israele è stato costretto ad una ritirata ingloriosa, dopo perdite sanguinose. Milizia e partito, l’ambiguità di Hezbollah è al centro di critiche continue. Sta di fatto che il movimento è cambiato radicalmente, in tempi recenti. Non più di dieci anni fa un giornalista occidentale che volesse incontrare Hezbollah doveva passare per procedure da servizio segreto: si veniva perquisiti, poi bendati e portati in giro in macchina per ore, fino a perdere il senso dell’orientamento. Il nostro incontro ha tutt’altra storia. L’appuntamento non è in qualche località sperduta della Beqaa ma in uno dei palazzi del Parlamento, sulla piazza più centrale di Beirut. I soldati all’ingresso ci aspettano, ci fanno passare con un cenno della mano. Nawaf Al-Mousawi è tra i parlamentari più in vista del partito, già responsabile per le questioni internazionali. Rilascia un’intervista al mensile 24 luglio 2010 • pagina 25 glie nella meravigliosa villa di famiglia, sulle colline sopra Beirut. Le forze armate sono ben visibili in tutto il Libano, ma questa villa è territorio militarizzato: i Gemayel hanno subito troppe perdite per permettersi leggerezze. La Falange è una voce critica nella coalizione di Hariri e nel governo di unità nazionale: cauti sulla «normalizzazione» dei rapporti con la Siria, intransigenti sulla questione dei diritti dei palestinesi. Anche per questo sono scettici nei confronti della formula del «consenso», che impone l’accordo tra tutte le componenti religiose del Paese. All’unità nazionale preferirebbero gli scontri della dialettica maggioranza-opposizione. cattolico 30Giorni, sul tema della convivenza tra cristiani e musulmani in Libano. Mousawi ci accoglie alla sua scrivania, accanto alla foto di un Nasrallah sorridente. Se si provassero ad applicare le categorie occidentali di «laicità» e «integralismo», non si andrebbe molto lontano. Hezbollah usa il Corano per spiegare la propria scelta in favore della democrazia. «Se Dio avesse voluto, avrebbe dato a tutti la stessa fede», spiega Mousawi. «La verità sarà affermata al tempo della Resurrezione e del Giudizio», prima di allora non si può che accettare e difendere il pluralismo dello Stato.Tanto è vero che Hezbollah oggi è alleato con un partito cristiano: la Corrente patriottica libera del generale Michel Aoun, capo dell’esercito e del go- Dopo la morte di Rafic Hariri, il Paese ha visto la spaccatura delle alleanze tradizionali. Come quella dei cristiani verno negli ultimi due anni della guerra civile. Alle elezioni del 2009 i cristiani si sono presentati divisi: gli aounisti con gli sciiti, la Falange insieme ai sunniti di Saad Hariri, figlio del defunto presidente. Il discrimine non è la religione, ma la politica: è il leit motiv che ci racconta ogni libanese che incontriamo. La politica libanese però è materia fluida, se è vero che le alleanze si fanno e si disfano seguendo il ciclo delle guerre. E così il generale Aoun - nemico giurato della Siria ed esule per tutto il tempo dell’occupazione militare - si ritrova oggi nello schieramento filo-siriano. La nascita di questa strana alleanza la racconta a 30Giorni Ibrahim Kanaan, parlamentare della Corrente patriottica e stretto collaboratore di Aoun. «Era il febbraio 2006: il generale Aoun aveva predetto momenti difficili dopo il ritiro della Siria. C’era la necessità di tendere la mano ai partiti più vicini alla Siria, non si poteva pensare solo a cercare la vittoria sul piano interno: sarebbe stato enormemente pericoloso per la stabilità e l’unità nazionale». La guerra con Israele sarebbe scoppiata poco dopo, a luglio, per rappresaglia contro un attacco di Hezbollah a postazioni militari in territorio israeliano. Il cambiamento di mentalità causato dalla guerra è stato enorme. Per usare parole che qui si sentono molto, l’aggressione israeliana ha rafforzato il sentimento di unità nazionale superando i settarismi. In altri termini: uniti contro Israele. Ormai tutti riconoscono che la guerra civile è iniziata per l’esodo dei palestinesi dopo la Guerra del Kippur, e che c’è una responsabilità diretta di Israele. Certo, solo in pochi condividono la linea di Hezbollah, che non riconosce lo Stato israeliano e continua a chiedere una Palestina unita e multiconfessionale. È pressocché impossibile però trovare qualcuno che osi definirsi filo-israeliano. Anche nel partito del premier Hariri, che gode del sostegno degli Stati Uniti, l’ipotesi di una pace separata tra Libano ed Israele viene considerata impercorribile. L’avversione allo Stato ebraico si traduce - paradossalmente - in conseguenze pesanti per le centinaia di migliaia di profughi palestinesi, fuggiti in Libano proprio per sfuggire alle guerre israeliane. I rifugiati chiedono di ottenere la cittadinanza libanese ma le principali forze politiche oppongono un fermo rifiuto: accettare sarebbe come darla vinta ad Israele, legittimare la logica «sionista» della separazione tra arabi ed ebrei. Proprio in questi giorni si sta discutendo di revocare per i palestinesi il divieto di lavorare in Libano, pur senza concedere il diritto ad acquistare una casa. La richiesta è partita dai drusi di Walid Jumblatt - setta musulmana dal sapore esoterico storicamente alleata coi palestinesi, sin dai tempi della guerra civile. Il premier Saad Hariri (sunnita, come i palestinesi) ha dato il suo ap- poggio, ribadendo comunque che di cittadinanza non se ne parla. A votare contro però ci sarà un’alleanza trasversale tra gli sciiti di Hezbollah e tutti i partiti cristiani, dagli aounisti alla Falange. È una politica strana, quella libanese: maggioranza e opposizione si scontrano alle elezioni ma tutti partecipano al governo di unità nazionale; le coalizioni in Parlamento cambiano poi da un voto all’altro. Così la Falange di Amin Gemayel e le Forze Libanesi di Samir Geagea - i due movimenti di «destra» cristiana - hanno fatto parte della Rivoluzione dei Cedri e della coalizione elettorale guidata da Hariri, ma sopportano con fastidio il governo di unità nazionale e votano insieme agli arci-nemici di Hezbollah sulla questione dei profughi. Anche la storia della Falange, del resto, è complessa a dir poco. Il gruppo era stato fondato da Pierre Gemayel negli anni Trenta con il mito delle milizie naziste e fasciste; durante la guerra civile il figlio di Pierre Gemayel, Bashir, aveva dato vita ad una organizzazione militare parallela (le Forze Libanesi) che riceveva armi e addestramento dagli israeliani. Erano stati uomini vicini all’organizzazione, reagendo all’uccisione del presidente Bashir Gemayel, ad entrare nei campi profughi di Sabra e Chatila e a far strage di palestinesi con la copertura dell’esercito israeliano. Sia la Falange sia le Forze Libanesi sono adesso partiti politici, con una rappresentanza in Parlamento. E con la voglia di voltare pagina. Lo spiega a 30Giorni Sami Gemayel, nipote di Pierre e probabile erede del padre Amin. Il massacro di Sabra e Chatila fu «un errore grave», commesso da alcuni amici del presidente senza una decisione «né ufficiale né ufficiosa» del partito. La Falange, dal ritiro della Siria, «ha fatto la scelta dello Stato» rinunciando completamente alle armi. Sami, nonostante i contrasti col padre, è tornato all’ovile falangista nel 2006 dopo l’assassinio di suo fratello Pierre. L’obiettivo è quello di trovare un punto di incontro tra tutti i cristiani, anche se l’appoggio del generale Aoun a Hezbollah (l’unico partito a rifiutare di consegnare le proprie armi) è per ora un ostacolo insormontabile. Sami Gemayel che non ha neppure trent’anni, ma parla come un politico navigato - ci acco- In realtà non sono solo i falangisti a chiedere cambiamenti nella gestione del potere. È la Seconda Repubblica libanese, iniziata con gli accordi di Taef che misero fine alla guerra civile. Ora, un po’ come in Italia, in molti vogliono superare quell’assetto. Sulle ipotesi per il dopo, però, regna il caos. La sistemazione attuale si gioca tutta sul delicato equilibrio del consenso tra le diverse comunità religiose. Per Costituzione il presidente della Repubblica è un cristiano, il premier un sunnita e il presidente del Parlamento uno sciita. I parlamentari vengono eletti per quote: metà cristiani e metà musulmani, con percentuali fisse per tutte le diverse confessioni. Le coalizioni, che vincano o che perdano le elezioni, devono fare i conti con le alchimie del sistema confessionale. Il generale Aoun parla da tempo della necessità di passare ad una «Terza Repubblica», pur senza chiarire i dettagli di questa riforma. Il dato che preoccupa molti cristiani è che la popolazione musulmana ha ormai preso il sopravvento, in termini numerici: gli islamici fanno più figli e i cristiani, negli ultimi decenni, hanno iniziato un esodo di massa verso l’Europa e l’America. La popolazione cristiana è ormai ridotta a circa un terzo del totale, con una rappresentanza politica evidentemente sovradimensionata. L’ipotesi di Aoun sarebbe quella di prendere atto delle nuove proporzioni, dando in Parlamento lo stesso peso a cristiani, sunniti e sciiti. In cambio i poteri del presidente della Repubblica (maronita) dovrebbero superare quelli - oggi dominanti - del premier (sunnita). Altri sognano un sistema «secolarizzato», che vada oltre il confessionalismo. Per molti cristiani però è forte la paura di diventare una minoranza sempre più piccola e ininfluente, fino a sparire. Nella regione dello Chouf ci raccontano della strage di cristiani perpetrata dai drusi durante la guerra civile. Di tutte le città cristiane della zona ha resistito solo Deir El Kamar, dove ora sono raccolte le ossa di centinaia di martiri. Ma la speranza non è sparita e non dipende dalla forza dei numeri. Qualcuno usa la metafora evangelica del lievito nella farina: ne basta poco. Qualcun’altro, più cinicamente, ricorda che i sunniti non accetterebbero mai un presidente sciita - e viceversa - e che solo un cristiano può mettere tutti d’accordo. Perché alla fine, nonostante le stragi della guerra, in Libano cristiani e musulmani vivono insieme da più di un millennio, dalla nascita dell’Islam. Sono un popolo solo, anche se con culture diverse. Nella valle della Beqaa, roccaforte sciita, assistiamo ad una Messa maronita. La chiesa è piena, la liturgia in arabo. Il nome di Dio, qui, ha per tutti lo stesso suono: Allah. mondo pagina 26 • 24 luglio 2010 America del Sud. Sotto accusa la pericolosa protezione garantita dal dittatore ai movimenti armati di stampo marxista Lo strappo di Chávez Il Venezuela mostra i muscoli alla Colombia E il mondo teme una nuova guerra americana di Osvaldo Baldacci onostante Maradona, Chávez non ha imparato i dribbling. Spirano sempre nuovi venti di guerra sul SudAmerica settentrionale. A soffiare è inevitabilmente il presidente del Venezuela Hugo Chávez, che se avesse ragione sarebbe davvero sotto assedio. Ma può anche venire il dubbio che il suo governo populista ma non democratico abbia qualche responsabilità nell’escalation continua con chiunque gli passi vicino e non si allinei. E poi forse questo continuo alzare i toni in quegli Stati serve anche e soprattutto per serrare le fila e distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni additando il nemico esterno. Fatto sta che ieri, dopo giorni di escalation seguiti ad anni di pessimi rapporti, il Venezuela ha rotto ogni relazione diplomatica con la vicina Colombia, dando al personale di ambasciata e consolati 72 ore per lasciare il Paese. Questo dopo che nei giorni scorsi aveva accusato l’Olanda di mandare aerei spia sul paese complottando con gli Stati Uniti per preparare una guerra contro di lui, e mentre è sempre più furente e diretto il suo attacco alla Chiesa cattolica nonostante le parole distensive delle autorità ecclesiali venezuelane. Per non ricordare le ripetute denunce di piani di colpi di Stato che portano a periodici mandati di arresto e provvedimenti vari contro gli opposito- N ri. Stavolta per il duro attacco alla Colombia Chávez ha scelto di avvalersi del fiancheggiamento di un grande attaccante, ma da lui non ha imparato il dribbling, perché l’irruenza del presidente preferisce sempre la carica frontale: durante l’annuncio a fianco di Chávez c’era Diego Armando Maradona, già estimatore di Castro. Ieri Hugo Chávez ha rotto le relazioni diplomatiche con Bogotà e ha dichiarato il “massimo stato di Allerta” delle Forze Armate ai confini. Chávez ha anche annunciato prossime nuove misu- guerriglieri delle Farc e alcuni capi della guerriglia colombiana, cinque alti dirigenti delle Farc e dell’Eln, si nascondono in Venezuela, e in particolare fanno il bello e il cattivo tempo nello Stato di Zulia, a 20chilometri dalla Colombia. Qui di recente avrebbero anche allestito tranquillamente dei campi di addestramento militare dove hanno accolto anche aspiranti guerriglieri di 7 Paesi stranieri. Decine di video, testimonianze di disertori, immagini e mappe fotografiche sono state mostrate dall’ambasciatore per esor- Il Segretario generale delle Nazioni Unite invita i due contendenti a evitare un’escalation militare, mentre il Brasile di Lula si propone come mediatore. Il 6 agosto nuovo round diplomatico re come ad esempio la sospensione dei voli tra i Paesi. Il presidente venezuelano ha convocato una riunione di emergenza del consiglio di Difesa, mentre il suo governo ha chiesto all’alleato Ecuador, che detiene la presidenza temporanea dell’Unasur, di convocare una riunione ministeriale di “emergenza” del gruppo dei 12 Paesi dell’area sudamericana. L’ultimo casus belli sono state le dichiarazioni dell’ambasciatore colombiano Luis Alfonso Hoyos all’Organizzazione degli Sati Americani, quando pochi giorni fa ha denunciato ai delegati dell’Assemblea OSA che 1500 tare pubblicamente il Paese vicino a “intervenire”e “far rispettare le sue leggi e la Costituzione”. Chávez ha definito una “aggressione” la denuncia della Colombia: “Non avevamo altra scelta per preservare la nostra dignità, che rompere totalmente le nostre relazioni con la sorella Colombia”. Per il leader bolivariano, Uribe è “un mafioso”, un “bugiardo” ed è irrimediabilmente “ossessionato” dalla caccia ai vincoli tra nemici politici e terroristi. «Caracas ha risposto ironizzando il vicepresidente colombiano Francisco Santos, appena eletto prossimo presidente - ha rotto le re- lazioni con la Colombia ma non lo ha fatto con le Farc». L’ambasciatore colombiano ha definito quello del Venezuela “un errore storico”: «Il Venezuela - ha detto - dovrebbe rompere le proprie relazioni con le gang che rapiscono e uccidono e con il traffico di droga e non con un governo legalmente costituito». Per ora comunque la Colombia ha voluto esplicitamente escludere l’ipotesi di militarizzare la frontiera ammassando truppe al confine. Bogotà piuttosto al momento sta valutando l’ipotesi di una denuncia contro il governo venezuelano davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. La crisi attira l’attenzione internazionale. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha invitato i governi dei due Paesi ad “evitare una escalation di tensione” e a risolvere il contenzioso attraverso il dialogo. Il presidente brasiliano Lula ha telefonato a Chávez e i due leader hanno concordato di affrontare il problema nella visita del presidente brasiliano a Caracas prevista per il 6 agosto. Chávez ha avuto colloqui telefonici anche con i presidenti di Argentina ed Ecuador. Il presidente boloviano Evo Morales si è schierato in sua difesa, definendo il leader colombiano un “lacché dell’imperialismo”. La Colombia dal canto suo ha incassato la solidarietà degli Stati Uniti, lungo quelli che sono i confini ormai usuali della Guerra Fredda latino-americana. In particolare è molto molto forte la contrapposizione di Chávez, che si candida a diventare l’erede di Fidel Castro, e il presidente uscente colombiano Uri- Chi sono e per cosa combattono i guerriglieri della “liberazione”, che operano e si armano con l’aiuto di Caracas Non solo Farc: tutte le sigle del terrore e Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) sono il gruppo più antico e grande tra i ribelli di sinistra della Colombia. E sono una delle organizzazioni guerrigliere più ricche del mondo. Il gruppo è stato fondato nel 1964, quando dichiarò la sua intenzione ad usare la lotta armata per far crollare il governo ed installare un regime marxista. Tuttavia la tattica è cambiata nel corso degli anni Novanta, quando con l’attacco ai ribelli da parte di forze paramilitari di destra le Farc diventarono quindi sempre più coinvolte nel traffico di droga per reperire soldi per la loro campagna. Come riportava un atto d’accusa del Dipartimento di giustizia statunitense nel 2006, le Farc forniscono più del 50% della cocaina L di Vicente Colao mondiale e più del 60% della cocaina che entra negli Stati Uniti. Le Farc, che figurano nelle liste europee e statunitensi di organizzazioni terroristiche, hanno avuto una serie di colpi nel 2008. Diversi leader sono morti. Il colpo più forte è stato inferto col recupero da parte dei militari di 15 ostaggi importanti, tra cui l’ex candidata alla presidenza Ingrid Betancourt. Gli ostaggi sono stati visti a lungo come elementi chiave nei tentativi dei ribelli di scambiarli coi guerriglieri catturati. Il presidente Alvaro Uribe ha lanciato un offensiva senza precedenti contro le Farc, con il sostegno del corpo militare Usa. La quantità di diserzioni tra le file dei ribelli suggerisce che il morale è stato colpito. Il gruppo vantava circa 16 mila combattenti nel 2001, secondo il governo colombiano, ma si pensa che questo numero sia sceso a 9mila. Ciò nonostante i ribelli controllano ancora le aree rurali, in particolar modo il sud e l’est, dove la presenza dello stato è debole, e nel 2009 hanno aumentato gli attacchi e le imboscate. Il gruppo internazionale di Crisi suggerisce che sotto il loro nuovo leader, Alfonso Cano, le Farc hanno dimostrato di essere capaci di adattarsi e continuare a combattere. Nel dicembre 2009, le Farc e il minore Esercito di Liberazione Nazionale hanno annunciato che stanno radunando forze unite contro lo Stato. L’Esercito di liberazione nazionale è un gruppo ribelle di mondo 24 luglio 2010 • pagina 27 La lotta al narcotraffico è una priorità del governo Obama. Ma per vincere ha bisogno dei vicini Uribe paga in prima linea l’amicizia con gli Stati Uniti Nata con Bush, la partnership fra Bogotà e Washington contribuisce a rendere molto dura la vita del nuovo Caudillo. Che ora si vendica di Antonio Picasso a rottura dei rapporti diplomatici fra Colombia e Venezuela, annunciata ieri dal Presidente Chavez, trova una sua motivazione nella ramificata partnership tra gli Usa e il Governo di Bogotà. La Casa Bianca ha deciso di effettuare un giro di vite per quanto riguarda le questioni immigrazione clandestina, criminalità organizzata, droga e gruppi paramilitari attivi nelle aree più depresse dell’America Latina. Questo è stato chiaramente espresso in occasione dell’assemblea straordinaria dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che si è tenuta proprio nella capitale statunitense in questi ultimi giorni. Ovviamente, per una politica di così ampie dimensioni, l’Amministrazione Obama necessita del supporto dei governi locali, che sono direttamente coinvolti nel problema. Lasciando da parte Argentina, Brasile e Cile che garantiscono la massima collaborazione, Washington vuole vedere a fianco a sé il Messico e la Colombia.Vale a dire i due Paesi che pagano più onerosamente il prezzo di un status di insicurezza congenita e infiltrata pieghe nelle più profonde della società civile. Giovedì, proprio il rappresentante del Governo di Bogotà all’Osa, Luis Hoyos, ha accusato il Venezuela di accogliere 1.500 guerriglieri delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) sul proprio territorio. Da qui la rottura voluta da Caracas. Il Venezuela si è sentito minacciato in prima persona dai piani degli Usa e dei loro alleati. L be, rigoroso nella lotta alla guerriglia marxista e stretto alleato statunitense. Già nel 2008 Chávez aveva schierato le sue truppe al confine dopo il bombardamento di una postazione delle Farc in Ecuador, alleato di Caracas, che era costato al vita a 25 uomini tra cui il numero due dei guerriglieri. Il prossimo presidente Santos, a Uribe strettamente legato, ha però da subito detto che per conto suo intenderebbe riaprire il dialogo con Caracas, ma senza cedimenti. E le relazioni commerciali tra i due Paesi sono congelate da tempo, in particolare dalla firma da parte della Colombia del trattato militare con gli Stati Uniti, in base al quale esistono basi militari statunitensi nel Paese, basi (in teoria dedicate alla lotta al traffico di droga) che Chávez proprio non digerisce. È possibile che Chavez non aspettasse altro per accendere la miccia della crisi. A rigor di logica però, un’attesa di neanche un mese avrebbe avuto più senso. Il nuovo Presidente colombiano, Juan Manuel Santos, subentrato ad Alvaro Uribe, è stato eletto il 20 giugno, ma entrerà in possesso del mandato solo il 7 agosto. Chavez avrebbe potuto attendere circa due setti- sinistra, formato nel 1965 da intellettuali ispirati dalla rivoluzione cubana e dall’ideologia marxista. A lungo è stato visto come gruppo più motivato politicamente delle Farc, che si è tenuto fuori dal traffico illegale di droghe per motivi ideologici. L’Eln ha raggiunto il culmine del potere alla fine degli anni Novanta, realizzando centinaia di rapimenti e colpendo infrastrutture come oleodotti. Le fila dell’Eln sono scese da circa 4000 soggetti a 1500, accusando le perdite per mano delle forze di sicurezza e dei paramilitari. Tuttavia, nell’ottobre del 2009, i ribelli dell’Eln sono stati capaci di far evadere uno dei loro leader dal carcere, dimostrando che non sono una forza estinta. La principale fonte di liquidi del gruppo adesso è anche il traffico di droga, piuttosto che solo riscatti e pagamenti di “protezione”. Si sono svolti, nella capitale cubana Havana, una serie di giri di colloqui di pace esplorativi con il governo negli anni passati, ma senza alcun progresso. Il gruppo figura nelle liste statunitensi e europee di organizzazioni terroristiche. Le unità di mane e capire la rotta che prenderà il nuovo Governo colombiano, prima di effettuare una mossa tanto aggressiva. È anche possibile che se Hoyos non fosse partito all’attacco, da Caracas non sarebbe giunta una reazione tanto convulsa. D’altra parte è nella personalità del lider venezuelano entrare a gamba tesa contro chiunque. Del resto Santos ha affiancato Uribe negli ultimi otto anni di attività politica, prima come Ministro dell’Industria, poi al vertice del Partido Social de Unidad Nacional (Parti- I detrattori accusano il presidente uscente di essere un fantoccio della Casa Bianca do de la U), ma soprattutto come titolare del dicastero della Difesa. Dal 2006 a oggi, grazie alla collaborazione tra le forze di sicurezza colombiane e le agenzie investigative Usa, i narcotrafficanti locali e le Farc hanno subito una serie di colpi micidiali. Di cui ha pagato incidentalmente lo scotto anche il Venezuela. L’asse Bogotà-Wa- autodifesa della Colombia (Auc) si sono invece formate da un gruppo di destra, nel 1997, per volontà di trafficanti di droga e proprietari terrieri per combattere i rapimenti e le estorsioni dei ribelli. L’Auc aveva le sue radici negli eserciti paramilitari costruiti da signori della droga negli anni ottanta, e sostiene di aver imbracciato le armi per autodifesa, al posto di uno stato senza potere. L’ex leader paramilitare Salvatore Mancuso viene scortato ad un aereo per venire estradato negli Stati Uniti il 13 maggio, la Colombia ha estradato 15 ex leader paramilitari negli Stati Uniti nel maggio 2008. I critici denunciano che si sia trattato di poco più di un scambio di prigionieri. L’influenza dell’Auc si è staccata dai suoi legami con l’esercito e con alcuni circoli politici e la sua forza è aumentata con i finanziamenti da interessi economici e proprietari terrieri. Il gruppo ha eseguito massacri e omicidi, mirati a colpire gli attivisti di sinistra che facevano dichiarazioni contro di loro. Nel 2003 con un trattato di pace firmato con l’Auc, i leader paramilitari si arrendevano in cambio di una riduzione dei termini di prigionia e di shington quindi costituisce un elemento di politica estera più che consolidato. Per questo, già l’anno scorso, in occasione del primo summit fra Obama e Uribe, si sollevarono voci di scontento che echeggiarono nelle due Americhe. Era la fine di giugno 2009, il nuovo inquilino della Casa Bianca era ancora visto come l’uomo nuovo e del tutto diverso dai suoi predecessori. Aderente sì agli schietti principi della realpolitk, ma altrettanto fermo sulla volontà di non compromettersi con quei Governi stranieri sui quali gravasse una qualsiasi ombra di scandalo. Il fatto che Obama si fosse confrontato con Uribe provocò delusione e un primo calo di popolarità per la sua Amministrazione. Era possibile fare altrimenti? Il Presidente uscente colombiano è accusato corruzione e violazione dei diritti umani per le presunte torture contro i detenuti nelle carceri colombiane. I suoi detrattori lo giudicano un fantoccio degli Usa, sostenuto appositamente per fare da garante dei loro interessi nel Paese e in tutto il Sud America. Nel 2009, stando al Foreign Direct Investment di Washington (Fdi), gli Usa hanno immesso nel Paese latinoamericano un capitale pari a 8,5 miliardi di dollari. Di fronte a questo giro di affari così invasivo, non ha importanza chi abiti alla Casa Bianca e chi governi la Colombia. Prioritario è mantenere salda la collaborazione fra i due Paesi. Affinché Washington continui a svilupparsi in Colombia e questa ne tragga altrettanti benefici. Ciò si traduce in una partnership in cui i rispettivi leader si confrontano amichevolmente e si scambiano una reciproca fiducia. La vittoria di Santos quindi non poteva che nascere sotto auspici migliori. Il suo passato di Ministro della Difesa lo rende l’“uomo di Washington” a Bogotà ancora più di quanto fosse Uribe. Questo teorema per Chavez dev’essere apparso subito chiaro. una protezione dall’estradizione. Ciò nonostante le autorità colombiane hanno estradato 17 ex leader paramilitari negli Stati Uniti per far fronte alle accuse di traffico di droga dal 2008, affermando che avevano violato i termini del trattato di pace. Dal 2003 circa 31mila combattenti paramilitari sono stati congedati. Tuttavia la struttura legale alla base del processo è stata ampiamente criticate per permettere ai responsabili di questi gravi reati di evitare la punizione. Vi sono inoltre prove che nuovi gruppi armati si sono formati. Il Gruppo di Crisi Internazionale, in un documento del 2007, ha evidenziato preoccupazione circa la comparsa di ex elementi paramilitari con potenti organizzazioni criminali, spesso profondamente coinvolte con il traffico di droga. Sono state condotte inchieste su diversi membri attuali o del passato del congresso circa i loro presunti legami con l’Auc in quello che è stato definito lo scandalo della “parapolitica”. L’Auc figura nelle liste europee e statunitensi delle organizzazioni terroristiche. quadrante pagina 28 • 24 luglio 2010 Gb. Debutta il “787” Dreamliner, il nuovo aereo passeggeri della Boeing l salone aerospaziale di Farnborough si è aperto quest’anno nel segno dell’ottimismo nonostante il mordere della crisi e gli strascichi nel settore aerospaziale lasciati dai “fumi” del Vulcano islandese. Probabilmente, il segno più evidente di questo ottimismo è il debutto europeo del “787” Dreamliner, il nuovo aereo passeggeri della Boeing. Un volo, atteso da due anni dopo i problemi tecnici incontrati lungo lo sviluppo, che ha decisamente dato lustro a tutto il salone. Il 787 è un vero e proprio gioiello dell’industria aeronautica. Dotato di una struttura super-leggera in materiale composito e fibra di carbonio, l’aereo consuma il 20% del carburante in meno rispetto agli aerei attuali e garantisce risparmi del 30% sui costi di manutenzione. Una filosofia, quella di un aereo “lungo raggio” leggero, ideale per collegamenti punto-punto radicalmente diversa da quella del concorrente e acerrimo rivale, l’Airbus A380. Airbus che peraltro sta sviluppando la sua risposta al 787, l’A350XWB. Nella realizzazione del 787 è ampiamente coinvolta l’industria italiana e, in particolare,Alenia Aeronautica che produce gli stabilizzatori orizzontali, la sezione centrale e centro-posteriore della fusoliera ed altre componenti primarie, per un buon 14% dell’intera struttura dell’aereo, negli stabilimenti pugliesi e campani. Per quanto riguarda la partecipazione italiana, Finmeccanica si è presentata al salone in modo massiccio, anche perché la Gran Bretagna è uno dei suoi mercati domestici. Nonostante la crisi, il gruppo regge e manifesta un grande ottimismo. I risultati del 2009 sono buoni e l’azienda è pronta ad intercettare i segnali della ripresa, dove questi si manifestano più forti, come nei Paesi emergenti. Solo per fare alcu- I La crisi “risparmia” gli aerei di Farnborough Ottimismo e eccellenza italiana insieme nel Salone dell’aerospaziale di Pietro Batacchi del Presidente Martinelli. Con la Turchia, la partnership strategica, a cominciare dal settore elicotteristico, è consolidata da tempo e negli ultimi anni Finmeccanica ha ricevuto oltre due miliardi di commesse militari da Ankara. La buona notizia è che finalmente, Finmeccanica punta ai Paesi emergenti come Turchia, Brasile e India. Con Ankara, il gruppo ha già firmato accordi per due miliardi di euro ni esempi, la Turchia nel 2011 spenderà 6,6 miliardi di euro in sistemi militari. Sulla stessa d’onda lunghezza d’onda si muoverà anche il Brasile, che ha pianificato 14 miliardi di euro, e altrettanto farà l’India con 13 miliardi. Paesi dove Finmeccanica sta puntando in modo deciso, sfruttando anche l’appoggio del Governo Italiano pronto a forgiare accordi a tutto campo con le controparti. È accaduto così lo scorso anno con la Libia di Gheddafi e quest’anno con il Brasile di Lula ed il Panama anche in Italia si è capito l’importanza degli accordi governativi per aprire i mercati. In tutti i casi citati si tratta di pacchetti di accordo ad ampio raggio dai quali discendono successive intese industriali in diversi settori. Con la Libia, i primi frutti di questa strategia sono già stati colti, in particolare nel settore della sorveglianza dei confini con la commessa concessa a SELEX SI. In Brasile è in discussione l’acquisto da parte della Marina locale di quattro fregate FREMM e cinque pattu- Co-prodotto al 50 per cento da Cina e Pakistan Fra le novità, il caccia JF-17 ul fronte novità, un attenzione particolare la merita il JF-17, il caccia leggero coprodotto, al 50%, da Pakistan e Cina e mostrato per la prima volta al pubblico europeo. L’Aeronautica pakistana ne ha già acquistati una trentina di esemplari, a fronte di un requisito iniziale di 150, ma adesso sta cercando di aggiornare il velivolo dotandolo di avionica occidentale. Una scelta che si spiega alla luce del fatto che l’avionica cinese, nonostante certi progressi, resta ancora lontana anni luce da quella occidentale. S Un accordo in tal senso con il Governo francese è saltato ed è per questo che è entrata pesantemente in gioco Finmeccanica che sta puntando a fornire un pacchetto avionico completo comprendente display, monitor sistemi di gestione e radar. Nel complesso, il JF-17 si presenta come una soluzione low cost, alternativa alle proposte russe o occidentali, che i due paesi stanno cercando di esportare in paesi africani e mediorientali. Grande interesse è già stato mostrato da Egitto, Nigeria, Sri Lanka ed altri paesi, tutti alla ricerca di un caccia multiruolo leggero ed economico. Secondo alcune fonti, il velivolo è offerto sul mercato a non più di 15 milioni di dollari a pezzo. gliatori. A Panama, invece, si sta parlando della fornitura di un sistema di sorveglianza per le aree costiere, simile a quello già venduto allo Yemen, e tra breve, come annunciato dallo stesso Presidente ed Amministratore Delegato Guarguaglini, ci potrebbero essere buone notizie. In genere, già nel 2009, il 22% dei ricavi di Finmeccanica è stato ottenuto sul mercato dei paesi extra-europei. Una quota destinata decisamente a salire nei prossimi due anni e, probabilmente, a superare il 30%. Una parte importante di questa quota sarà assorbita dal settore della sicurezza, il cui mercato, a breve, non più tardi del 2016, oltrepasserà quello della Difesa in senso stretto ed il cui business è ritenuto sempre più importante per la futura crescita di Finmeccanica. Sicurezza, intesa come protezione di grandi infrastrutture, di obiettivi sensibili e di interessi economici in senso più generale. A tal proposito, proprio durante il salone, la controllata AgustaWestland ha presentato il nuovo elicottero AW169, pensato per rispondere a esigenze di clienti civili, ma, appunto, anche di forze di sicurezza e polizia. La presentazione di un nuovo prodotto conferma che la strategia del gruppo non cambia a dispetto della crisi e che continuano gli investimenti in ricerca e sviluppo. Sul fronte della Difesa in senso classico, le energie del gruppo sono in questo momento assorbite dalle campagne per l’esportazione del caccia Typhoon in Turchia, Giappone e India dove il velivolo europeo è in piena corsa. Un passo in avanti molto importante sarebbe lo sviluppo di un radar a scansione elettronica per l’aereo – requisito indispensabile per ottenere il successo in queste gare – ed in tale ambito si sta lavorando per procedere ad un’ulteriore evoluzione dell’aereo e renderlo così ancora più appetibile sul mercato. Le campagne di export stanno andando avanti anche per l’addestratore avanzato M346. Negli Emirati continuano le trattative per la firma sul contratto dopo che il velivolo è stato selezionato dal Governo locale ormai oltre un anno fa. In Israele, si sta invece lavorando ad un accordo con l’industria locale, che comunque opererà come prime contractor, e non è da escludere anche un coinvolgimento della controllata elettronica americana di Finmeccanica, DRS. Resta il fatto che l’interesse dell’Aeronautica israeliana per l’M346 è ormai una realtà. quadrante 24 luglio 2010 • pagina 29 Israele chiede alle Nazioni Unite di intervenire “in tempo utile” Il partito pubblica nuove regole: «Basta con le avventure» Gaza, pronte altre 3 navi per portare aiuti umanitari In Cina sei corrotto soltanto se hai l’amante GAZA. Dopo essere riuscito una settimana fa ad impedire che una nave che trasportava aiuti umanitari dalla Libia forzasse il blocco marino a Gaza, adesso Israele guarda con preoccupazione al Libano, dove almeno due navi - se non tre - si stanno preparando a salpare per la Striscia. Ieri, in un intervento alle Nazioni Unite, l’ambasciatrice di Israele, Gabriela Shalev, ha lanciato un appello ai dirigenti del Libano e alla comunità internazionale affinché fermino quelle navi. In ogni caso, ha aggiunto, «Israele è pronto ad intercettarle nel rispetto del diritto internazionale». Nel frattempo Israele cerca di placare la collera della Turchia dopo il blitz in alto mare che il 31 maggio fermò la “Freedom Flotilla”, sempre diretta a Gaza. Sulla nave passeggeri Marmara nove passeggeri (otto turchi e un cittadino statunitense) rimasero uccisi dal fuoco dei militari, e i feriti si contarono a decine. PECHINO. Per fare carriera nel distretto di Shuyang, provincia di Jiangsu, bisogna essere in buoni rapporti con genitori, figli, vicinato e soprattutto non bisogna tradire la moglie. Sono i nuovi standard di moralità imposti dal Partito comunista cinese (Cpc) a 96 membri del governo locale e funzionari del Cpc del distretto di Shuyang. La moralità personale sarà accertata attraverso interviste, visite a casa e investigazioni da parte della polizia. Eventuali segni di “corruzione morale”saranno segnalati come punti di demerito nella valutazione biennale del rendimento dei funzionari del governo e del partito, compromettendo la carriera. Secondo le statistiche Sull’episodio Israele sta ora conducendo un’inchiesta. Due giorni fa ha annullato l’allerta per i cittadini israeliani desiderosi di visitare la Turchia e adesso il governo israeliano ha deciso di rilasciare la Marmara e le altre sei imbarcazioni della “Freedom Flotilla”. Il governo L’esordio del Kosovo? Un arresto eccellente In carcere per corruzione il boss della Banca centrale di Massimo Ciullo l governatore della banca centrale del Kosovo, Hashim Rexhepi, ha dovuto rinunciare ai festeggiamenti per la pronuncia di legittimità della dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia, emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. L’uomo è stato arrestato ieri dalla polizia con l’accusa di corruzione. La missione dell’Ue, Eulex, afferma che la polizia ha anche perquisito l’ufficio e l’abitazione del governatore. «Le perquisizioni sono legate a un’indagine in corso su atti di corruzione in campo finanziario», dice una nota, aggiungendo anche la lista dei capi d’accusa: abuso di posizione, evasione fiscale, riciclaggio di denaro, corruzione e traffico di influenze illecite. Non è andata meglio all’ex Primo ministro kosovaro Ramush Haradinaj, accusato di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Il tribunale penale internazionale per la Ex-Jugoslavia ha ordinato un nuovo processo per Haradinaj. L’uomo era già stato processato due anni fa con l’accusa di aver compiuto persecuzioni, uccisioni, torture e violenze contro i civili serbi e gli oppositori politici tra il 1998 e il 1999. La pronuncia di legittimità della dichiarazione d’indipendenza ha provocato reazioni di segno opposto non solo in Serbia e in Albania, ma anche in molti altri Paesi europei alle prese con movimenti autonomisti o secessionisti. A Cipro, il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle ha dichiarato che il parere della Corte internazionale rappresenta un caso “particolare” e non crea precedenti. Per il capo della diplomazia tedesca, «si tratta di una decisione unica, che riguarda una particolare situazione in un particolare contesto storico». La posizione di Berlino corrisponde a quella dei 69 Paesi che hanno sino ad ora riconosciuto l’indipendenza della regione serba a maggioranza albanofona e che non intendono sottoscrivere la tesi del “vaso di Pandora”aperto dalla Corte Onu con il pronunciamento favorevole all’indipendenza kosovara. Cipro, invece, è uno dei cinque Paesi Ue che non hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, assieme a Spagna, Romania, Slovacchia e Gre- I cia. L’isola, divisa dal 1974, teme che l’auto-proclamata Repubblica Turca di Cipro Nord (riconosciuta finora solo dalla Turchia), possa far leva sul nuovo orientamento della Corte per ipostatizzare lo status quo. Il governo spagnolo ha dichiarato che continuerà a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Maria Fernandez de la Vega, vicepresidente del Consiglio spagnolo ha negato che la posizione di Madrid sia legata alle istanze secessioniste basche e catalane. «Penso che sia abbastanza irrealistico paragonare la Spagna ai Balcani», ha detto la vice di Zapatero. Non la pensano così proprio a Bilbao e Barcellona, dove la pronuncia dei magistrati internazionali era attesa con una tensione simile a quella vissuta nelle ultime ore a Pristina. Da Mosca, si è tornati a ribadire la legittimità della proclamazione di indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud, due province ribelli della Georgia, che la Russia sostiene in funzione anti-Nato. L’Armenia invece, ha accolto positivamente la decisione dei giudici dell’Aja, e ha rilanciato la questione del Nagorno-Karabakh, l’enclave armena nel territorio dell’Azerbaijan. Di segno opposto le reazioni ad Atene, preoccupata per il ritorno in auge del sogno di una Grande Albania, con Tirana pronta a rivendicare la sua sovranità sui territori contesi dell’Epiro. Oggi, a Belgrado il governo serbo si riunisce in seduta straordinaria per decidere la posizione da assumere in merito all’opinione della Corte dell’Aja. Il primo ministro Cvetkovic, ha dichiarato ieri che la decisione richiede una «analisi minuziosa» e ha annunciato un’iniziativa diplomatica in vista del dibattito dell’Assemblea generale dell’Onu. La Serbia dovrà agire con estrema per evitare che posizioni radicali possano pregiudicare il suo cammino verso l’Unione europea. Allo stesso tempo dovrà cercare di tenere a bada gli estremisti nazionalisti che non avrebbero alcun problema a riprendere le armi per una riedizione del macello balcanico degli anni Novanta che portò alla dissoluzione della Jugoslavia. Madrid si è espressa contro la sentenza della Corte dell’Aja, mentre per Berlino si tratta «di un caso molto particolare» di Benyamin Netanyahu spera così di ridurre, almeno in parte, le tensioni con Ankara. Ma la iniziativa di un uomo d’affari palestinese, Yasser Kashlak, non dà respiro al governo israeliano. Nel porto di Tripoli (Libano) si accingono a partire due sue navi con aiuti destinati ai palestinesi di Gaza: la “Julya” (ribattezzata “Miriam”) e la “Junya”. Questa porta il nome del celebre caricaturista palestinese Naji el-Ali, ucciso a Londra nel 1987 in un attentato i cui mandanti (chi dice Olp, chi Mossad) non sono mai stati scoperti. Ora il problema è capire come, e se, Israele riuscirà a fermare queste nuove imbarcazioni pronte a partire. effettuate dalla Commissione centrale per il controllo della disciplina del Cpc, nel 95% dei maggiori casi di corruzione, i colpevoli hanno relazioni extraconiugali. «Queste regole sono necessarie» ha detto Tian Xianfeng, capo della polizia di Shuyang. «Se troviamo segni di corruzione nei controlli di routine, possiamo intervenire e risolverli prima». Non tutti sono d’accordo. Secondo He Bing, professore di legge e scienze politiche della China University, le nuove disposizioni sono inutili: «Come si fa a valutare le relazioni amorose di una persona con un controllo di routine? C’è il forte rischio che avvengano violazioni della privacy. Per combattere la corruzione sarebbe meglio fare sforzi maggiori per verificare l’uso dei fondi pubblici e porre requisiti rigidi per la presentazione della dichiarazione dei redditi». Per Tian Xiangbo, membro del Centro ricerche per un governo trasparente dell’università di Hunan, le nuove misure sono giuste: «I confini della privacy dei funzionari non dovrebbero essere gli stessi della gente normale. Per il bene pubblico, devono rivelare alcuni dei loro affari personali». Amanti incluse. pagina 30 • 24 luglio 2010 il personaggio della settimana Ritratto del prete atipico che ha fondato l’ospedale universitario San Raffaele Don “Zelig” Verzè Premiato con Berlusconi a Milano, gran cerimoniere della laurea (con polemiche) della figlia del Cavaliere. Vita e miracoli di un sacerdote sospeso a divinis (che, per affari, non disdegna rapporti con Vendola) di Maurizio Stefanini ultima polemica è stata martedì 20 luglio: quando Barbara Berlusconi si è laureata in Filosofia con 110 e lode all’Università Vita-Salute San Raffaele, con una tesi su Il concetto di benessere libertà e giustizia nel pensiero di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia del 1998. E non solo il padre presidente del Consiglio è venuto, ma anche il rettore don Luigi Verzè. Che di Berlusconi è amico di lunga data, e che ha chiesto alla neodottoressa se le sarebbe piaciuto diventare docente di un’eventuale nuova facoltà di Economia. Ira della docente di Filosofia della Persona, Roberta De Monticelli, che ha riempito i giornali di proteste contro l’idea di «far nascere una facoltà di Economia rivolta alla sola Barbara Berlusconi». E chiarimento dell’Ateneo su Don Verzè, secondo cui «quello di restare è l’invito che lui fa, da sempre, a ognuno», con tanto di lettera firmata da Michele Di Francesco (preside della Facoltà di Filosofia) e Massimo Cacciari (prorettore Vicario dell’Università): «L’idea che una battuta paterna del Rettore Don Verzé possa essere interpretata come la proposta formale nei confronti della signora Barbara Berlusconi di far parte del corpo docente del San Raffaele sfida ogni ragionevolezza e ogni criterio di buon senso». La penultima polemica era stata il giorno prima: non trovando il tempo per presenziare alla commemo- L’ razione della strage di Via D’Amelio a Palermo, Berlusconi si è però recato a Piazza Duomo a ricevere assieme a Don Verzè il Premio“Grande Milano”, riservato a chi «con straordinaria lungimiranza e capacità ha reso Milano, la sua amata città, grande in Italia e nel mondo». «Statista di rara capacità», recita la motivazione, che «conduce con responsabilità e lucida consapevolezza il Paese verso un futuro di donne e di uomini liberi che compongono una società solidale fondata sull’amore, la tolleranza e il rispetto per la vita». E Don Verzè appena lo vede gli dice: «Silvio tu durerai, perché con te ci sta Dio». La terzultima polemica il 12 luglio, quando in un’intervista alla Stampa Don Verzè racconta che Berlusconi gli ha chiesto «di farlo campare fino a 150 anni e lui pensa che arrivando a 150 anni metterà a posto l’Italia». Cosa che secondo Don Verzè non sarebbe affatto impossibile. «Credo a ciò che è stato scritto su Matusalemme». «È scientificamente provato che si può arrivare a un’età media di 120 anni». Da cui un progetto per l’istituzione di un centro chiamato Quo Vadis sulla medicina predittiva. «Abbiamo il terreno e stiamo cercando i soldini. Si predice quale sarà la patologia di ogni persona leggendo il genoma con un microchip sottopelle che avverte se c’è qualcosa che non va». Ma Verzè, chiede l’intervistatore, «ferma i suoi ricercatori se vanno in una direzione che la Chiesa non vuole?». «No. La scienza non la ferma nessuno, nemmeno la Chiesa». In un’altra intervista rilasciata al Corriere della Sera il13 ottobre 2006 Don Verzè era stato ancora più spiazzante. Allora aveva infatti rivelato di aver aiutato un amico medico malato a morire. «Quando a chiederlo è chi vive grazie alle macchine, allora non è eutanasia. È un atto d’amore». Certamente un tipo mediatico, Don Verzè. E per mol- ti versi il tipo di prete progressista che dovrebbe piacere a sinistra. Favorevole al sacerdozio femminile, al sacramento ai divorziati, alla procreazione assistita, a chi gli rimprovera di essere un cattolico disobbediente lui ribatte che «la Chiesa le farà queste cose». «Il mondo, con la globalizzazione, diventerà una città sola. Ma la Chiesa, purtroppo, lo sta perdendo il mondo, perché non ha messo in atto il precetto del Signore: amatevi l’un l’altro come io vi ho amati». Però, è un prete progressista innamorato di Berlusconi: il che a sinistra è anatema. E ha in più una sicura vocazione che a seconda dei punti di vista può essere definita“imprenditoriale”o“affarista”, e che è anatema al quadrato in un tipo di mondo per il quale il tratto d’unione tra cattolicesimo e progressismo è stato spesso rappresentato proprio dal pauperismo anticapitalista. Proprio nel mondo degli affari è nata l’amicizia tra Don Verzè e Berlusconi. Un’amicizia che nel mondo giustizialista è spesso fatta sconfinare nella complicità tout court, nel senso penale del termine. Ne è un eloquente saggio la Wikipedia in italiano, che oltre la metà della voce su Don Verzè la dedica al capitolo “Questioni giudiziarie e controversie”. Citiamo. «Le vicende di Verzè incontrano presto quelle di Berlusconi, all’epoca imprenditore e proprietario di Edilnord, dato che il sacerdote aveva acquistato un terreno di 46 mila metri quadri - con l’idea di costruire quello che sarebbe poi diventato il San Raffaele - vicino all’area che sarebbe poi diventata Milano 2, il complesso residenziale realizzato poi da Berlusconi. Il problema allora era che gli aerei da e per Linate transitavano sopra quell’area così, nel 1971 inoltrarono, assieme, una petizione al ministro dei Trasporti al fine di salvaguardare la tranquillità degli abitanti di Milano 2 e i ricoverati del san Raffaele. Questo però creò 24 luglio 2010 • pagina 31 In queste pagine, un’immagine di Don Luigi Maria Verzè e uno scatto del sacerdote insieme con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e sua figlia Barbara, il giorno della laurea in Economia della ragazza problemi di rumore ai comuni limitrofi; la questione delle rotte si trascinerà per qualche anno, tra direttive serrate, proteste, irregolarità e comitati antirumore [...] la direttiva Civilavia del 30 agosto 1973, a seguito dell’incontro di marzo [il 13 marzo 1973 si incontrano comitati dei cittadini e funzionari del ministero dove però le carte topografiche di riferimento risultano pesantemente manomesse: Pioltello e Segrate rispecchiano la cartografia del 1848 mentre Milano 2, terminata al 25%, risulta completata], scontenta tutti, eccetto, naturalmente, Edilnord e San Raffaele. Dopo la messa in circolo di falsi studi scientifici sulla questione (formalmente del Politecnico di Milano ma in realtà commissionato dalla Edilnord ad alcuni docenti dell’ateneo) e la condanna del direttore generale di Civilavia, vengono rivolte una serie di accuse a personaggi coinvolti nell’affare fra cui Luigi Verzè». La stessa fonte ci ricorda [...] La polemica si inasprì quando, nel 1999, la procura mise sotto la sua lente cinque professori del San Raffaele». C’è poi, nel 2000, la «vicenda della succursale romana dell’Ospedale San Raffaele, un’operazione colossale che, grazie ad un’abile campagna mediatica, sembrò un complotto ai danni del sacerdote. Verzè sostenne infatti che, a causa di pressioni del mondo politico e degli ambienti finanziari di Roma, fu“costretto”a vendere l’ospedale “a un prezzo irrisorio”all’imprenditore romano Antonio Angelucci, il quale, soltanto pochi mesi più tardi lo rivendette allo Stato, suscitando scandalo sui media e numerose interrogazioni li». La Wikipedia non ricorda però che Don Verzè si è accordato anche con NichiVendola per la costruzione di un centro oncologico di eccellenza nella zona di Taranto, attraverso una fondazione costituita ad hoc il 28 maggio scorso dopo 4 anni di incubazione, e controllata a maggioranza dalla regione Puglia. Al di là delle polemiche, il San Raffaele resta comunque un centro di eccellenza. E perVendola l’unica alternativa sarebbe di continuare a far viaggiare i pazienti pugliesi verso altre regioni, tra cui è in testa la Lombardia. Al San Raffaele dunque finirebbero comunque: ma a costi molto più elevati. E poi, i rapporti personali tra Verzè e Vendola sono altrettanto buoni che con Berlusconi, anche se non convivendo i due a Milano le occasioni di interferenza sono ovviamente minori. D’altra parte, pur avendo ricevuto il dna imprenditoriale per eredità familiare Luigi Maria Verzè a suo tempo seppe anche rinunciare alle ricchezze di famiglia. Nato il 14 marzo 1920 a Illasi, vicino a Verona, suo padre Emilio era un proprietario terriero, e sua madre Lucilla Bozzi una nobildonna. E le sue biografie autorizzate ricordano che quando a dodici anni lasciò la casa paterna per frequentare il ginnasio in seminario a Verona, fu «una scelta decisamente contrastata dal padre che cerca con ogni mezzo di reprimere ogni espressione religiosa del figlio». E la scelta di tipo francescano sembra accentuarsi quando nel 1939, concluso il liceo, va a stare per 10 anni col futuro santo don Giovanni Calabria. L’impegno con quell’apostolo dell’assistenza ai malati poveri non gli impedisce di studiare Lettere e Filosofia alla Cattolica di Milano. Quando però nel 1948 prende i voti, il confluire tra l’esempio di impegno ospedaliero di Don Calabria e l’istinto imprenditoriale È stato difeso anche da Cacciari: «Quella su Barbara è stata una battuta, è irragionevole interpretarla davvero come una proposta formale» che Don Verzè «nel marzo 1976 è stato condannato dal tribunale di Milano a un anno e quattro mesi di reclusione per tentata corruzione in relazione alla convenzione con la facoltà di medicina dell’università Statale e la concessione di un contributo di due miliardi di lire da parte della Regione Lombardia. Inoltre è stato incriminato di truffa aggravata nei confronti della signora Anna Bottero alla quale ha sottratto un appartamento del valore di 30 milioni di lire». E che «nel marzo del 1977 è riconosciuto colpevole di istigazione alla corruzione. Ma, tra archiviazioni, rinvii a giudizio e prescrizioni, non si arriverà per nessuno a sentenze definitive». Nel 1995 di nuovo «Verzè finisce nel mirino della magistratura per presunte irregolarità.Tre anni dopo, il sacerdote viene attenzionato per altri lavori nella stessa area parlamentari». E anche «una serie di collusioni fra Luigi Verzè e un rappresentante del Sismi, Pio Pompa» che sarebbero «state riscontrate all’interno di un’indagine giudiziaria a carico di quest’ultimo e Nicolò Pollari. Dalle carte risulta che Pompa teneva costantemente al corrente Verzè di quanto accadeva in ambito politico ed istituzionale, affinché Verzè stesso potesse sfruttare le suddette informazioni in modo da ottenere particolari vantaggi per le sue attività imprenditoria- di famiglia gli fa prendere una direzione inconsueta. «Non posso essere un buon prete senza essere anche medico» decide, interpretando l’evangelico «andate, predicate e guarite gli infermi». D’altra parte, lo stesso Don Calabria, di cui è stato segretario, gli ha dato il suo imprimatur: «Va, è il Signore che ti manda. A Milano nascerà una grande opera che farà parlare di sé l’intera Europa». Già nel 1952 fonda a Milano un centro di addestramento professionale per ragazzi anche handicappati. Nel 1960 dà vita all’Associazione Centro Assistenza Ospedaliera San Romanello, in cui per meglio curare bambini e anziani fa sorgere un centro di assistenza residenziale. Nel 1971 inaugura l’Ospedale San Raffaele, riconosciuto subito dopo Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico. Nel 1981 il San Raffaele diviene polo universitario della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano. Nel 1996 affianca all’Ospedale San Raffaele una iniziativa di formazione universitaria in Medicina, assumendo la presidenza anche di questo ente. È un giro di soldi sempre più vasto, ma anche la creazione di strutture sempre più specializzate: il Dipartimento per la medicina riabilitativa; il Centro San Luigi Gonzaga per l’assistenza ai malati di Aids; l’International Heart Center; i Centri Trapianti Multiorgano; il Parco Scientifico Biomedico San Raffaele... D’altra parte, non intrallazza solo con Berlusconi. Attraverso l’Aispo, Associazione Italiana per la Solidarietà tra i Popoli, non si limita a aprire ospedali in Israele, India, Polonia e Brasile: stringe anche accordi di collaborazione con il Dalai Lama e Fidel Castro; trasforma il Polo Universitario nell’Università Vita-Salute San Raffaele, un ateneo creato sullo stile americano; concorda con il sindaco di Gerusalemme il restauro del Cenacolo di Leonardo a spese del San Raffaele. Sopratutto, Dalla Chiesa all’impresa Don Luigi Maria Verzè è nato a Illasi il 14 marzo del 1920. È un imprenditore, sacerdote e accademico italiano. Già segretario di san Giovanni Calabria, è un sacerdote della diocesi di Verona, fondatore dell’Ospedale San Raffaele, presidente della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor e attuale rettore dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Si laurea in Lettere e Filosofia nel ’47 presso l’Università Cattolica di Milano. Viene ordinato sacerdote nel ’48 e nominato segretario di san Giovanni Calabria. Nel ’50 apre in collaborazione con san Giovanni Calabria un centro di assistenza all’infanzia abbandonata a Milano; subito dopo progetta e fonda l’Ospedale San Raffaele di Milano. Nel ’96 affianca all’Ospedale un’iniziativa di formazione universitaria in Medicina, assumendo la presidenza anche di questo ente. citiamo ancora dalla sua biografia ufficiale, «punta per il prossimo futuro sempre più volutamente alla ricerca scientifica come la più importante delle attività legate all’uomo e al suo progresso». Nel 2000 alla presentazione di un libro ha fatto amicizia anche con Massimo Cacciari; nel 2001 ha creato per lui la nuova Facoltà di Filosofia, nella villa seicentesca dei Borromeo a Cesano Maderno, in Brianza.; nel 2007 spiega al Corriere della Sera che ormai Cacciari è “la sua voce”. E alla facoltà di Filosofia del San Raffaele sono di casa un bel po’ di personaggi non del tutto in linea con la teologia cattolica ortodossa: da Emanuele Severino allo scientista Luca CavalliSforza, all’ateo militante Piergiorgio Odifreddi. Non è che la Chiesa abbia del tutto gradito. Il cardinale Schuster lo protegge, ma nel 1964 la Curia milanese gli proibisce di «esercitare il Sacro ministero», mentre nel 1973 viene sospeso a divinis. Ma lui tira avanti. «L’uomo, questo composito di corpo, intelletto, spirito», spiega, non ha diritto solo alla salute ma anche al “ben-essere”, inteso come realizzazione della «comune esigenza di un fisico sempre più perfetto, agile, elegante e vigoroso, insieme alla brama del conoscere, della beltà, della scienza e dell’ascesi, atti a replicare l’armonia che, all’origine, lasciò ammirato lo stesso Dio creatore». E alla Chiesa risponde: «Se io fossi Papa non farei il monarca, ma tutte le mattine starei davanti a Gesù Cristo a pensare. E per la Chiesa, che si arrangino quelli della Segreteria di Stato». Ma Benedetto XVI purtroppo per lui ha «il carattere di un tedesco. Rigido. I tedeschi sono freddi. Una freddezza che pagano loro, poverini». ULTIMAPAGINA Usa. La zona colpita dalla marea nera aspetta una nuova catastrofe Dopo il petrolio, l’uragano. La condanna della di Anna Camaiti Hostert uragano che minaccia la Louisiana e il Mississippi è stato ribattezzato “Bonnie”. Un nome simpatico per una tempesta che da giorni tiene col fiato sospeso e gli sguardi rivolti verso il cielo, gli abitanti del Golfo del Messico. La stessa popolazione a quasi tre mesi dall’esplosione dal pozzo petrolifero Deepwater Horizon della Bp, si prepara ad affrontare un’altra sciagura. Dopo il danno, ora anche la beffa. Sono più di 5 mila i barili di greggio che quotidianamente vengono estratti dal Golfo, le conseguenze sono: un’ecosistema ridotto all’osso e un’economia distrutta. La marea nera ha incupito sogni e speranze di una popolazione in continua crescita. Per domenica sera è previsto l’arrivo della tempesta, l’annuncio viene dal Centro nazionale degli uragani (Noaa), con sede a Miami. Le autorità americane hanno deciso di far scattare l’evacuazione delle decine di navi e delle circa 2 mila persone impegnate nelle operazioni di bonifica del greggio fuoriuscito dal pozzo della Bp. A causa del rischio rappresentato da Bonnie, navi e piattaforme si stanno preparando «a evacuare», ha indicato Thad Allen, responsabile della Casa Bianca per le operazioni nel Golfo. «La decisione riguarda anche la piattaforma di perforazione dei pozzi di derivazione che permetteranno di bloccare definitivamente la falla», ha precisato Allen. L’evacuazione «ritarderà gli sforzi in corso da giorni per bloccare il pozzo, ma la sicurezza delle persone è la nostra priorità», ha spiegato l’ammiraglio in pensione. Allen ha anche precisato che il tappo resterà al suo posto, mentre le navi si allontaneranno dalla zona del pozzo. L’ I danni provocati dalla marea nera sono sotto gli occhi di tutti, basti pensare alle innumerevoli paludi, usate come rifugio, da migliaia di specie animali, parte integrante dell’ecosistema del golfo. Granchi, ostriche, gamberi e plancton che, oltre ad essere cibo per altri animali come i delfini e varie specie di uccelli, sono parte integrante di un’industria ittica, prima fiorente, ora in declino. Un numero destinato a crescere man mano che il greggio si avvicina alle coste senza possibilità di essere fermati.Gli effetti di questa catastrofe si potranno misurare solo a lungo termine. Il greggio infatti continuerà nei prossimi mesi ad uccidere molti animali rari e in pericolo, bruciandone la pelle o le piume e danneggiandone il sistema riproduttivo. Colpirà anche quelle specie che per il momento non sembrano esserne affette. E non pare aiutare affatto la strategia di bruciare il greggio in superficie perché in realtà oltre a non risolvere il problema arde vivi gli animali che si trovano intrappolati negli incendi, soprattutto le tartarughe. Contro questo nuovo sistema c’è già infatti una causa intentata contro la BP da numero- si gruppi ambientalisti tra cui l’Animal Welfare Institute, il Biological Diversity Center, l’Animal Legal Defense Fund, e il Turtle Island Restoration Network. I gruppi sostengono che la BP viola l’ Endangered Species Act e altre leggi protettive delle specie in estinzione usando il sistema di quelli che vengono chiamati incendi controllati (controlled burns). Impallidisce al confronto il disastro ecologico della Esso, avvenuto in Alaska nel 1989 le cui immagini di uccelli, foche e lontre coperte di petrolio sono ancora vivide nella nostra mente come in un film dell’orrore . Qui invece è il turno dei pellicani, delle tartarughe, dei pesci.Tra i pesci la specie del tonno pinna blu, già decimato ché la perdita di greggio ha danneggiato le uova e le larve durante questo periodo cruciale» ha detto Lee Crocket, direttore generale del reparto politiche ittiche federali dell’istituto ambientale Pew. Inoltre, nove specie di delfini che vivono in questa zona saranno affetti dal pesce contami- LOUISIANA nato di cui si cibano, senza contare la balena Bryde che nutrendosi di plancton ingoierà grandi quantità di petrolio che galleggia in superficie.Tra gli uccelli un numero sensibile di pellicani marroni risulta colpito. Una percentuale che varia tra il 50% e l’80% degli esemplari salvati sopravvive secondo i dati del Bird Resarch Rescue Center e viene pertanto reintrodotta nel sistema. Ma la durata della sopravvivenza è un po’ più difficile da determinare ed è oggetto si una grande controversia. La biologa marina Silvia Gaus afferma infatti che il 99% degli esemplari ripuliti e fatti volare via entro settimane o addirittura giorni muoiono per le conseguenze dell’ingestione di greggio. Quindi ritiene che si dovrebbe pensare ad un sistema indolore di eliminare questi esemplari che altrimenti morirebbero in atroci condizioni. Ci sono infine cinque specie di tartarughe che vivono in questa regione del golfo e che sono state dichiarate in pericolo: almeno 430 specie protette di tartarughe sono morte dall’inizio del disastro. Quindi se si vuole praticare il sistema dei cosiddetti “incendi controllati” si dovrebbero poter rimuovere le tartarughe prima di appiccare il fuoco. Sono già terribili i danni alla fauna: granchi, ostriche, gamberi e plancton che, oltre ad essere cibo per altri animali come i delfini e varie specie di uccelli, sono parte integrante di un’industria ittica, prima fiorente, ora in declino del 20% negli ultimi quaranta anni, sembra essere quella più colpita. Infatti depone le uova solamente una volta all’anno, in certe condizioni ambientali e solo dopo un lungo periodo dalla nascita dei piccoli che sono ormai divenuti esemplari adulti. «L’impatto che il disastro avrà su questa specie sarà conosciuto solo tra alcuni anni quando i pesci saranno nati e diverranno adulti. Se non si vedranno esemplari di una certa età o se ne vedranno molti di meno sarà per-