Riflessioni in tema di recesso del socio da società consortile tra profili giuridici e valutativi di Alberto Dello Strologo e Federica Ricci Abstract: This paper, concerning the controversial issue about the existence of the right of liquidation in the event of withdrawal of a partner from the consortium, will investigate about the possibility to include, in some cases, an economic evaluation of the corresponding fee. The study, after a brief explanation of the strategic importance of consortium and consortium companies in the current phase of economic development, will deal with the matter in jurisprudential key as regards the coordination between the corporate norm and the consortium norm and, then, it will explore the issue from a business economic perspective, in order to reach a conclusion as possible, giving reasons for the position taken. Il contributo, posizionandosi nell’ambito del dibattuto tema circa l’esistenza del diritto di liquidazione in ipotesi di recesso del socio da società consortile, intende indagare sull’eventualità di contemplare, in taluni casi, una valutazione economica della quota corrispettiva. Lo studio, dopo avere sinteticamente motivato l’importanza strategica dei consorzi e delle società consortili nell’attuale fase dello sviluppo economico, richiamerà il contributo in chiave giurisprudenziale, sul coordinamento tra la norma societaria e la norma consortile e, successivamente, si inquadrerà la questione da una prospettiva economico aziendale, allo scopo di addivenire a una possibile conclusione, motivando la posizione assunta. Sommario: 1. Premessa: il ruolo dei consorzi nell’economia della conoscenza; 2. La disciplina dei consorzi in chiave giuridica con particolare riferimento al caso del recesso del socio: brevi cenni; 3. Il dibattito relativo alla liquidazione del socio tra giurisprudenza ed economia aziendale: prime considerazioni; 4. La liquidazione della quota consortile: profili valutativi; 5. 5. Conclusioni. 1. Premessa: il ruolo dei consorzi nell’economia della conoscenza In prima approssimazione, il consorzio può essere definito come una forma tipica di coordinamento tra imprese [1], volta all’istituzione di ISSN (Online edition): 2239-7442 1 «un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese» [2]. Il consorzio, funzionale al raggiungimento di diversi obiettivi nella varietà delle sue configurazioni, è stato definito come un istituto «giustificabile pressoché sotto tutte le teorie del coordinamento interorganizzativo» [3]. Proprio a cagione del risvolto strategico del consorzio quale strumento di coordinamento interaziendale, prima di passare all’analisi della dibattuta disciplina del recesso del socio, si intende fare chiarezza sul ruolo dell’istituto consortile nell’ambito delle relazioni cooperative. A tal fine, è opportuno rammentare come la dottrina economico aziendale sia concorde nel qualificare complesso l’attuale contesto esterno alle imprese, per via della varietà, variabilità e indeterminatezza dominante [4]; ne consegue che la gestione delle imprese del ventunesimo secolo è una questione altrettanto difficoltosa. Per sopperire a tali difficoltà, e per rispondere alla logica intrinseca della sopravvivenza [5] le imprese si trovano ad attivare – sempre più frequentemente – relazioni di cooperazione. Indagate da questa prospettiva, le relazioni inter-impresa consentono di beneficiare del contributo di un patrimonio cognitivo non altrimenti disponibile internamente, non totalmente reperibile sul mercato, ovvero, difficoltoso da generare autonomamente in ragione degli elevati costi e rischiosità, e per questioni di tempo [6]. Per siffatti motivi, gli studi economico aziendali hanno convenuto sull’importanza strategica delle relazioni interaziendali [7], sia con riferimento al dibattito sulle reti d’impresa che sugli accordi di partnership. Parimenti, una recente dottrina [8] rileva che le relazioni [9] apportano all’impresa un duplice vantaggio, nell’ottica della produzione e diffusione della conoscenza: in primo luogo, esse rappresentano un’occasione per incrementare il livello di conoscenza posseduta dall’azienda in una logica di apprendimento reciproco che genera valore [10]; in secondo luogo, esse permettono all’azienda di contenere i costi legati alla generazione di nuova conoscenza. Condividendo la stessa impostazione, Hakansson [11] considera le relazioni interaziendali come le risorse di maggior valore dell’impresa, in ragione del contributo che da esse perviene all’innalzamento dei livelli di produttività e di efficienza, sia in considerazione della loro funzionalità ai fini della circolazione delle informazioni tra organizzazioni. I contributi sul tema degli accordi di cooperazione possono essere sistematizzati almeno in due grandi filoni: - il primo filone di stampo strategico-manageriale, al quale appartengono gli studi incentrati sulla natura strategica delle relazioni, ISSN (Online edition): 2239-7442 2 soprattutto con riferimento all’efficienza cognitiva che connota le relazioni interaziendali [12]; - il secondo filoni di studi, di matrice organizzativa, accoglie le ricerche finalizzate a spiegare le forme di coordinamento e i meccanismi di governo con i quali si strutturano le relazioni interaziendali [13]. In particolare, allorquando gli studi di stampo strategico prendono in considerazione anche il risvolto sociale che il legame interaziendale esercita sulle organizzazioni coinvolte, prende forma la prospettiva teorica dell’embeddedness [14]. Indagati nell’ottica della natura, i processi di aggregazione aziendale possono edificarsi su accordi: a) informali; b) formali di natura contrattuale; c) formali di natura patrimoniale. Le forme aggregative di natura informale rappresentano forme di collaborazione “di fatto”, che operano in assenza di una struttura stabile, e, di conseguenza, presentano una natura precaria e di breve termine. Rientrano nella categoria i rapporti di subfornitura, i gentlemen’s agreement e i city community of interest. Gli accordi formali di natura contrattuale, invece, si caratterizzano per la presenza di una relazione formale e strutturata che può dare origine anche a organizzazioni autonome. Rientrano in siffatta tipologia i contratti di associazione in partecipazione, i patrimoni destinati a uno specifico scopo, le associazioni temporanee d’impresa, i contratti di franchising e, altresì, i consorzi. Il consorzio, in particolare, rientra nella macro categoria degli accordi interaziendali di natura contrattuale, realizzati viepiù «per il conseguimento di un obiettivo ben definito, in genere legato alla commercializzazione in comune di più prodotti» [15]; in tale senso, proprio in ragione del fatto che l’istituto consortile è, in primis, un contratto, si può convenire che esso è la veste giuridica di un fenomeno sostanziale [16], rinvenibile nella diffusa esigenza di cooperazione, quale risposta alla complessità ambientale dominante lo scenario contemporaneo. Accogliendo tale impostazione, il consorzio viene a qualificarsi come una tra le possibili forme giuridiche strumentali al governo degli accordi di cooperazione: come le reti, i gentlemen’s agreements, i patti parasociali, le partecipazioni reciproche. Similmente, è stato osservato che il consorzio «è esso stesso una rete» [17]. I consorzi, oltre a semplici accordi contrattuali, possono qualificarsi come legami sorretti da un adeguato patrimonio e da una struttura organizzativa; più precisamente, possono distinguersi tre diverse configurazioni dell’istituto consortile: 1) consorzi con attività interna; 2) consorzi con attività esterna; 3) società consortili. ISSN (Online edition): 2239-7442 3 La prima fattispecie si riscontra allorquando il contratto è destinato a produrre effetti unicamente nei riguardi delle imprese consorziate. La finalità è principalmente quella di disciplinare i rapporti tra imprese per quanto concerne il contingentamento dei livelli di produzione e/o la verifica di prestabiliti standard qualitativi. Il consorzio con attività esterna, al contrario, è un contratto che prevede l’istituzione di un’organizzazione stabile, attraverso la quale viene svolta un’attività imprenditoriale nei riguardi di soggetti esterni e non aderenti alla realtà consortile. La disciplina civilistica affianca alle due tipologie richiamate le società consortili, alle quali si ricorre nei casi in cui il raggiungimento dello scopo consortile richiede una struttura più stabile e meglio organizzata, prescelta tra una delle tipologie societarie [18]. L’art. 2615-ter stabilisce che, ugualmente, le società di persone e di capitali possono perseguire lo scopo mutualistico come indicato nell’art. 2602, dando così origine alle società consortili [19]. Svariate possono essere le motivazioni che potrebbero muovere le imprese ad aderire a una forma aggregativa consortile; è stato osservato che il principio alla base del vantaggio competitivo legato alla partecipazione di un’impresa a un consorzio è quello di costituire la massa critica [20] analogamente, una parte della dottrina sintetizza l’insieme dei vantaggi connessi all’appartenenza a identità collettive con il neologismo “economie di agglomerazione”. Sulla base delle considerazioni effettuate nel presente paragrafo, si può concludere come i principali benefici economici derivanti dalla partecipazione di un’impresa a un consorzio sono largamente riconducibili alla possibilità di acquisire risorse immateriali all’origine di vantaggio competitivo, idealmente scomponibili in: abilità, competenze, conoscenze tacite ed esplicite [21], relazioni, cultura [22], brevetti e marchi. L’idea di fondo, pertanto, può essere sintetizzata nella considerazione che le relazioni cooperative possano consentire alle imprese di accedere a opportunità cognitive superiori; ciò posto, il consorzio può essere inteso come uno strumento idoneo alla circolazione di conoscenza e immaterialità. 2. La disciplina dei consorzi in chiave giuridica con particolare riferimento al caso del recesso del socio: brevi cenni Indagato sotto il profilo giuridico, l’istituto del consorzio è denso di criticità; in primo luogo è doveroso osservare come, nonostante l’interesse destato dalla letteratura circa il consorzio quale forma alternativa per l’esercizio e il coordinamento della produzione, non si assiste ugualmente alla piena consapevolezza del fenomeno e, neppure, alla sua adeguata valorizzazione, in ragione di taluni ostacoli che la ISSN (Online edition): 2239-7442 4 letteratura giuridica ha incontrato nel mettere in luce la specifica identità dell’istituto consortile. Riguardo le peculiarità della struttura del contratto consortile e la non sempre lineare disciplina orientata a regolarlo, occorre riferire, per un verso, alla tradizionale dicotomia riscontrabile nella generale ricostruzione dell’istituto consortile tra le figure dei consorzi anticoncorrenziali e con attività interna, e quelle dei consorzi di cooperazione industriale e con attività esterna; dicotomia che ha condotto taluni a dubitare persino dell’opportunità di una ricostruzione unitaria dell’istituto [23]. In tal senso, l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale attuale pacificamente considera il consorzio come un contratto associativo preordinato alla realizzazione degli interessi comuni ai soggetti coinvolti [24]. Risolta la diatriba tra la finalità anticoncorrenziale e quella cooperativa, altre criticità riguardano la naturale flessibilità dell’istituto, che si sostanzia nella capacità di adattarsi tempestivamente alle contingenze emergenti. La norma, infatti, viene incontro a questa esigenza ammettendo le più diverse ipotesi di trasformazione dei consorzi e società consortili in società di capitali, con deliberazione della maggioranza richiesta della legge o dall’atto costitutivo per le società consortili, ovvero con il voto favorevole della maggioranza assoluta nei consorzi [25]. In questa sede, è appropriato rilevare altri profili critici in riguardo, ad esempio, la possibilità di recesso e/o di esclusione dei membri da una realtà consortile; in via preliminare, è opportuno differenziare la fattispecie del recesso dal consorzio e da società consortile. In generale, il contratto di consorzio deve indicare, tra gli altri elementi, i casi di recesso e di esclusione dei membri [26], rimettendo, pertanto, all’autonomia delle parti l’enucleazione [27]. Tuttavia, casi di recesso o di esclusione possono ricavarsi da altre clausole contrattuali con specifico riferimento alle condizioni di ammissione dei nuovi consorziati [28]. Può, quindi, giustificarsi il recesso ovvero l’esclusione nei casi in cui il consorziato cessa l’attività imprenditoriale o, comunque, smette di far parte di quella specifica categoria imprenditoriale, la cui appartenenza ha costituito la giustificazione, anche causale, della stipula del contratto di consorzio [29]. Al di fuori dei casi di recesso ed esclusione stabiliti dal contratto, allo scioglimento parziale del rapporto si potrà pervenire soltanto sulla base della disciplina della risoluzione giudiziaria per inadempimento (artt. 1453 ss. e 1459 c.c.), o per impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 ss. e 1466) [30]. Con riferimento alle società consortili di capitali è tuttavia doveroso menzionare l’acceso dibattito intrattenuto tra la dottrina e la prassi ISSN (Online edition): 2239-7442 5 giurisprudenziale, circa l’ammissibilità di una clausola statutaria che preveda il diritto del socio di società consortile di recedere liberamente, contemplando, così, ulteriori motivazioni di recesso rispetto a quelle notoriamente stabilite dall’art. 2437 c.c. Da un lato, infatti, si riscontra la posizione sostenuta da coloro i quali non ammettono la possibilità di ampliare le ipotesi previste dal legislatore, motivandone la causa con il fine di evitare, da un lato, «il rischio di dissoluzione dell’impresa a tutto vantaggio della conservazione della destinazione produttiva dei valori aziendali, nonché in ottemperanza al principio di fissità del capitale, per evitare la variabilità del capitale sociale in contrasto con tutto il sistema delle società di capitali» [31]; e, dall’altro, per tutelare l’interesse dei creditori all’integrità del capitale sociale [32]. All’angolazione diametralmente opposta, invece, si posizionano i sostenitori dell’ammissibilità dell’ampliamento delle cause di recesso, nella convinzione che i terzi siano comunque adeguatamente tutelati dalle procedure di rimborso [33]. In ogni caso, è apposito prendere atto che le due posizioni altro non sono che la conseguenza di una scelta effettuata a monte tra sostenitori della tesi istituzionalistica e sostenitori della tesi contrattualistica e, comunque, tende a prevalere la tesi della tassatività delle ipotesi di recesso e quindi la considerazione dell’art. 2437 c.c. quale norma inderogabile [34]. Un aggiuntivo risvolto critico appare legato alla circostanza per la quale, come noto, il consorzio contempla la creazione di un istituto giuridicamente autonomo per la realizzazione di un determinato fine; a cagione di ciò esso offre, parimenti, una tutela per così dire “reale” ai non recedenti; il bene specifico eventualmente acquisito dal consorzio (ad esempio, il brevetto frutto dell’attività di ricerca compiuta dal consorzio stesso) in nome e per conto proprio, e ancor più della società consortile, è conservato normalmente – ovvero, sempre se non vi siano accordi differenti – in capo al consorzio medesimo, risolvendo, dunque, le dispute sulla sua attribuzione [35]. 3. Il dibattito relativo alla liquidazione del socio tra giurisprudenza ed economia aziendale: prime considerazioni Il presente paragrafo intende indagare sulle problematiche relative alla liquidazione del socio in ipotesi di recesso [36] nell’ambito di un’organizzazione consortile. E’ opportuno specificare sin da subito come l’ipotesi di recesso del socio dal consorzio non contempla alcun diritto correlato alla quota di liquidazione, ai sensi dell’articolo 2609 del codice civile, il quale, come noto, si limita a stabilire che la corrispettiva quota del consorziato uscente debba essere ripartita proporzionalmente tra quelle esistenti. ISSN (Online edition): 2239-7442 6 Diversa, invece, è la fattispecie del recesso del socio da società consortile. Prima di addentrarci nella questione, tuttavia, è doveroso precisare come subentri, in questa prospettiva, un delicato dibattito sul tema del coordinamento tra la norma societaria e la norma consortile, con evidenti risvolti anche sulla modalità di computo dell’eventuale quota di liquidazione. In merito, la dottrina non accoglie affatto un’opinione unanime; da un lato, infatti, viene sostenuta l’applicabilità della normativa dettata dal codice civile per i consorzi; d’altro canto, viene postulato che l’istituto consortile debba essere accostato alla disciplina societaria, nella particolarità della tipologia adottata [37]. Tra le due posizioni, l’ultima è l’opinione attualmente prevalente, seppure con non poche opposizioni e controversie, sommamente imputabili al fatto che la società consortile è caratterizzata dal perseguimento diretto di finalità consortili. E’ stato osservato come «il bisticcio tra oggetto e scopo contenuto nell’art. 2615 ter non può considerarsi determinante ai fini della qualificazione dello scopo sociale, perché, a ben vedere, caratteristica della mutualità è la compenetrazione tra oggetto e scopo dell’ente, nel senso che scopo comune dei soci è la gestione mutualistica dell’impresa. In altre parole la gestione mutualistica, e quindi anche la gestione consortile, riassume oggetto e scopo della società, o se si preferisce scopo-mezzo e scopo-fine, come è implicitamente riconosciuto dalla tesi dominante che individua nella reciprocità di prestazioni tra società e soci l’essenza dello scopo mutualistico» [38]. Tuttavia, se si accogliesse la posizione prevalente per la quale la materia consortile debba essere accostata alla disciplina societaria, allora, in ipotesi di recesso del socio, occorre spingersi ben oltre la ripartizione proporzionale della quota posseduta dal consorziato uscente, in quanto verrebbe alla luce la questione sul riconoscimento del diritto alla liquidazione di quest’ultimo. Gran parte della dottrina risolve la dibattuta questione in senso negativo, nella misura in cui, da un lato, riferisce alla disposizione dell’accrescimento proporzionale delle quote detenute dagli altri consorziati e; dall’altro, alla regola dell’indivisibilità del fondo comune [39]. Secondo accreditate e autorevoli opinioni, l’art. 2609 c.c., comma 1, nello stabilire che «nei casi di recesso e di esclusione previsti dal contratto, la quota di partecipazione del consorziato receduto o escluso si accresce proporzionalmente a quelle degli altri», non si riferisce alla quota di partecipazione al fondo consortile, ma unicamente ai diritti e agli obblighi assunti dalle parti nei consorzi di contingentamento. L’accrescimento della quota a favore degli altri consorziati, in altre parole, riguarda solo l’eventuale quota di produzione riservata al ISSN (Online edition): 2239-7442 7 singolo consorziato e non la quota di partecipazione dello stesso al patrimonio del consorzio. Questa va, invece, liquidata al consorziato receduto, non sussistendo alcun obbligo per i soci rimasti di procedere essi stessi al rimborso [40]. Un’altra parte della dottrina, invece, ammette l’inesistenza del diritto alla quota di liquidazione in ipotesi di recesso solo alla fattispecie dei consorzi di contingentamento [41]. Sul punto, scrive Marasà: «non è chiaro se il consorziato abbia diritto alla quota di liquidazione secondo quanto prevede la disciplina delle società lucrative e delle cooperative, ma non quella delle associazioni in senso stretto. La questione non è risolta negativamente: la quota cui allude il legislatore non è la quota di patrimonio consortile, bensì la quota a proposito dei consorzi di contingentamento. Pertanto, considerando che alla base del contratto di consorzio vi è la realizzazione di scopi economici, è da preferire la tesi che riconosce al consorziato receduto o escluso il diritto alla liquidazione della quota» [42]. Tuttavia, occorre evitare che il meccanismo di liquidazione della quota crei incompatibilità con la qualifica del contratto, come accadrebbe qualora il consorziato receduto o escluso potesse realizzare uno scopo di lucro analogo a quello del socio di società lucrativa. Il problema riguarda principalmente i consorzi con attività esterna spuri, in cui bisogna evitare che attraverso la liquidazione della quota il consorziato si appropri degli utili conseguiti nell’attività con i terzi, non distribuiti e non distribuibili sotto forma di dividendi periodici [43]. La delicata questione che in giurisprudenza non ha trovato posizione unanime, necessita di essere inquadrata da un’angolazione economico aziendale, in ordine al problema della modalità di computo dell’eventuale quota di liquidazione spettante al socio receduto. 4. La liquidazione della quota consortile: profili valutativi Il dibattito, mai sopito, circa l’eventuale diritto di liquidazione della quota del socio recedente dalla società consortile presenta un risvolto altrettanto interessante se indagato in chiave economico-aziendale. In generale, è noto come in ipotesi di recesso del socio, questi – ovvero gli eredi – hanno diritto alla liquidazione della quota sociale, che si sostanzia con «una somma di denaro che rappresenti il valore della quota» [44]. Il socio, quindi, non può pretendere la restituzione dei beni conferiti in proprietà, quand’anche ancora presenti nel patrimonio sociale; e neppure può esigere la restituzione dei beni conferiti in godimento fin quando dura la società, salvo che non sia stato diversamente pattuito [45]. ISSN (Online edition): 2239-7442 8 Per quanto attiene, invece, la determinazione della quota, è risaputo come la medesima debba essere quantificata tenendo conto dell’effettivo valore economico, superando, quindi, la logica prudenziale [46] alla base della redazione dell’informativa contabile civilistica [47]. Il rimborso della quota della partecipazione del socio, infatti, deve avvenire tenendo conto del valore pro quota del capitale economico [48]. In particolare, per quanto concerne i criteri di liquidazione del controvalore della quota di partecipazione del socio receduto, mentre nel sistema previgente erano tendenzialmente puntivi, con la riforma avvenuta per mezzo del D. Lgs n. 6/2003, egli non è più penalizzato in quanto posto nelle condizioni di vedersi riconosciuto il valore effettivo della propria partecipazione ancorando il tutto a parametri predefiniti [49]. A cagione dell’evenienza che tra il socio uscente e gli amministratori della società possano verificarsi situazioni di conflitto in sede di determinazione del valore della quota, è opportuno utilizzare metodologie relativamente semplici, dimostrabili, razionali e generali [50]. Se, in questa sede, si accogliesse la posizione per cui il recesso del socio da società consortile legittimasse lo stesso alla liquidazione, a tutta evidenza, emergerebbe un ulteriore quesito circa il metodo [51] con cui addivenire alla determinazione quantitativa della quota corrispettiva. In generale, il valore della quota è determinato sulla base di una situazione patrimoniale della società alla data in cui il recesso del socio ha efficacia, attraverso la quale si giunge alla determinazione del valore economico del complesso aziendale, comprensivo dell’avviamento e degli utili in corso di formazione. Tanto premesso, il socio ha diritto alla quota del valore economico del capitale, rappresentativa della propria partecipazione. Tradizionalmente, la stima del valore economico del complesso aziendale viene effettuata attraverso l’attualizzazione dei sovra redditi futuri; come è noto, il sovra reddito (o super-reddito, o profitto) deriva «dal conseguimento di redditi futuri in misura superiore a quella adeguata al valore del capitale netto di gestione» [52]. In sovra reddito trova sintetica rappresentazione nella formulazione seguente: (R iK’) dove: R rappresenta il reddito medio prospettico; K’ è il valore del patrimonio netto contabile riespresso a valori correnti; ISSN (Online edition): 2239-7442 9 i è il tasso di attualizzazione, che la dottrina dominante tende a fare coincidere con il tasso di remunerazione normale che si attendono coloro i quali conferiscono capitale proprio per avere deciso di operare in un determinato comparto. Per quanto attiene, invece, la durata del sovra reddito, essa viene a dipendere generalmente da fattori soggettivi e oggettivi; nell’ipotesi in cui il profitto sia legato a condizioni di soggettività, la dottrina e la prassi operativa sono concordi nel considerare l’orizzonte temporale compreso tra i tre e i cinque anni. Nel caso, invece, in cui il sovra reddito dipenda da fattori oggettivi, l’orizzonte temporale può anche estendersi sino a otto-dieci anni. Nella fattispecie della società consortile, la determinazione del valore economico sulla base dell’attualizzazione dei sovra redditi futuri perde di significatività, in ragione del fatto che, come è stato più volte posto in rilievo, la causa consortile è puramente mutualistica, vietandosi, peraltro, la divisione degli utili in qualsivoglia forma [53]. Riferendo alle metodologie di stima del valore economico del capitale maggiormente accreditate dalla dottrina e dalla prassi operativa, è possibile sistematizzarle in due macrogruppi: 1) i metodi diretti; 2) i metodi indiretti. Nell’ambito dei metodi indiretti, ancora, è possibile distinguere: 2.1) i metodi basati su grandezze flusso; 2.2) i metodi basati su grandezze stock; 2.3) i metodi basati su grandezze miste (flusso- stock). Avendo chiarito che il sovra reddito non è una grandezza riscontrabile nella prassi delle società consortili, si rileva come la scelta dell’appropriata metodologia per la stima del valore economico della quota consortile, escluda, a priori, sia metodi diretti che i metodi misti. Per quanto attiene l’esclusione dei metodi diretti, essa è giustificata dal fatto che le società consortili, a cagione della poliedricità che le distingue, sono difficilmente comparabili a realtà organizzative similari, inficiando la tecnica della comparazione (il c.d. comparison approach to valutation). La società consortile, in tal senso, può considerarsi un accadimento economico a sé stante, difficilmente affiancabile a realtà commensurabili, poiché ogni volta mutano le coordinate sociali, economiche e mutualistiche che spingono gli imprenditori a dare vita a una società consortile. L’esclusione delle metodologie miste, altresì, è una diretta conseguenza del fatto che esse fondano la stima del valore economico del capitale sulle aspettative del flusso del sovra reddito. In particolare, sebbene le formulazioni di tipo misto non accordino tutte la medesima importanza all’avviamento, sia il metodo dei pratici tedeschi che il metodo ISSN (Online edition): 2239-7442 10 anglosassone, comunque, basano il proprio algoritmo sul valore stimato del sovra reddito futuro. Avendo motivato l’esclusione dei metodi diretti e misti, appare evidente come la determinazione del valore economico della quota di liquidazione del socio debba ricadere sui metodi fondati su grandezze stock, ovvero, patrimoniali; in tal senso, allorquando si accogliesse il metodo patrimoniale semplice, il valore della quota di liquidazione si fonderebbe sul patrimonio netto rettificato. I limiti di quest’approccio, sono, tuttavia, ben evidenti ove si consideri che la partecipazione a una società consortile consente di beneficiare di immaterialità riconducibili, in larga misura, all’incremento di know-how, alla condivisione di esperienze e al consolidamento di relazioni e scambi all’origine di vantaggio competitivo. Tali ragioni rilevano come, in presenza di immaterialità, la scelta per la determinazione del valore economico della quota di recesso debba propendere verso il metodo patrimoniale complesso, il quale, come è noto, somma al patrimonio netto rettificato il valore dei beni immateriali non contabilizzati. Sebbene, infatti, la società consortile sia posta in essere per finalità tipicamente mutualistiche, non si esclude, di contro, la possibilità che il socio, nella permanenza in società, comunque, concorra alla realizzazione di asset tipicamente immateriali i quali, pur non producendo reddito, ugualmente assumono valore strategici per l’organizzazione considerata. Questa conclusione, tuttavia, merita di essere opportunamente argomentata: avendo compreso l’assenza del sovra reddito, rimane, infatti, da fare chiarezza su come possa essere dimostrata l’esistenza di beni immateriali in tale fattispecie. In sostanza, la presenza di intangibilità all’origine del vantaggio competitivo potrebbe essere dimostrata verificando, in primis, l’esistenza della condizione di equilibrio economico, la quale, rispetto alla tipicità dell’azienda lucrativa, nella società consortile muta. Giova rammentare, infatti, che nelle società lucrative l’equilibrio economico viene soddisfatto quando i ricavi totali uguagliano – ovvero superano – i costi totali e consentono, al contempo, la congrua remunerazione del fattore in posizione residuale [54]. Nella mutualità della società consortile, invece, viene meno la remunerazione congrua del fattore in posizione residuale e, quindi, l’equilibrio economico può dirsi conseguito nell’ipotesi in cui i ricavi totali uguagliano i costi totali. Sempre allo scopo di provare l’esistenza di beni immateriali, è altresì necessario che la società consortile soddisfi il fine istituzionale per il quale è posta in essere. Una volta che sia il criterio di equilibrio economico, che il fine istituzionale sono soddisfatti, allora, si passa a verificare le condizioni ISSN (Online edition): 2239-7442 11 che per concorde dottrina vengono annoverate nell’affermare la legittimità di stima autonoma di un intangibile asset, ovvero [55]: - l’essere o l’essere stato oggetto di un significativo costo di investimenti; - l’attitudine a generare benefici economici futuri differenziali; - la trasferibilità. La dottrina ha molto indagato nella direzione degli intangibile assest, sia per individuare valide strategie per sfruttarne in toto le potenzialità, sia per addivenire a una possibile tassonomia. A tale scopo, sono stati elaborati diversi modelli di sistematizzazione. Un primo contributo porta a distinguere tra risorse forti e deboli: all’interno del primo gruppo rientrerebbero tutte le immaterialità suscettibili di autonoma stima rispetto all’azienda in cui sono inserite, al secondo gruppo, invece, tutti le risorse non divisibili autonomamente [56]. Un secondo contributo, invece, distingue le risorse immateriali in tre gruppi: 1) human capital, ovvero qualità della leadership, motivazione, know how; 2) market capital, identificabile nella percezione che i clienti hanno delle caratteristiche e della qualità dei beni e servizi offerti dall’azienda; 3) confidence capital, rappresentato da opinioni e atteggiamenti che i principali stakeholder aziendali hanno nei confronti dell’azienda [57]. Una terza classificazione, invece, suddivide le risorse immateriali in beni in senso stretto, dotati di autonoma rilevanza e, dunque, identificabili e valori immateriali non identificabili, riconducibili nell’ambito dell’avviamento [58]. Un quarto modello classifica le risorse immateriali in base alla controllabilità, distinguendo le risorse immateriali controllabili; non totalmente controllabili; fuori controllo [59]. Un quinto modello, ancora, distingue gli intangibile asset in beni immateriali strutturali e non strutturali: i primi esprimono il valore di capacità interne all’azienda dotate dell’attributo della necessità; i secondi traggono il proprio valore dalle relazioni che si istaurano tra l’impresa e il mercato [60]. Un ulteriore studio suddivide le immaterialità nelle categorie del capitale umano; capitale infrastrutturale; capitale relazionale; proprietà intellettuale [61]. Recenti contributi, invece, riferiscono al capitale intellettuale nella classica tripartizione: capitale umano, relazionale, strutturale [62]. Una volta individuati i beni immateriali non contabilizzati oggetto di stima autonoma, è possibile procedere con l’applicazione del metodo patrimoniale complesso il quale trova espressione nel seguente algoritmo: W = K’ + B.I.N.C. ISSN (Online edition): 2239-7442 12 dove: K’ è il valore del patrimonio netto contabilizzato; B.I.N.C. è il valore dei beni immateriali non contabilizzati. 5. Conclusioni Il presente lavoro ha preso le mosse dalla consapevolezza che l’ambiente esterno dove le imprese trovano attualmente collocazione è caratterizzato da un incisivo livello di variabilità, varietà e indeterminatezza, tale da potersi definire complesso. In tale scenario, le imprese pongono in essere sempre più frequentemente relazioni di cooperazione per beneficiare reciprocamente di immaterialità difficilmente ascrivibili, altrimenti, a un’unica realtà aziendale. In tal senso, il consorzio è stato considerato nell’ambito della più ampia macrocategoria degli accordi di cooperazione e, declinando i medesimi, si è visto come esso afferisca, più specificatamente, alla fattispecie degli accordi di natura contrattuale. Successivamente, è stato posto in evidenza come la disciplina dell’istituto consortile sia densa di criticità; da un lato, si è riferito al tradizionale dibattito sull’interpretazione della causa del consorzio, con riferimento alla natura anticoncorrenziale e cooperativa. Se, da un lato, la dicotomia sulla funzione consortile può essere considerata attualmente risolta, ugualmente si riscontrano altre criticità, in larga misura collegate alla flessibilità intrinseca dell’istituto. Particolare rilievo è stato dato alla possibilità di recesso/esclusione dei membri da una realtà consortile, poiché, in merito, non si riscontra in dottrina un’opinione unanime circa il diritto di liquidazione della quota. Se, da un lato, viene sostenuta l’applicabilità della normativa dettata dal codice civile per i consorzi, dall’altro viene postulato che l’istituto consortile debba essere accostato alla disciplina societaria, nella peculiarità della tipologia societaria prescelta. Quest’ultima posizione, in particolare, è quella attualmente dominante; tuttavia, condividendone l’impostazione, emerge come in ipotesi di recesso del socio sia opportuno spingersi ben oltre la ripartizione proporzionale della quota posseduta dal consorziato uscente, perché emerge l’annosa questione sul riconoscimento del corrispettivo diritto alla liquidazione. Nel corso della trattazione è stato posto in rilevo come, accogliendo l’opinione prevalente che vede riconosciuto il diritto di liquidazione al consorziato uscente, viene a farsi strada un interessante dibattito circa la modalità di determinazione della quota. Si è visto che, nella generalità di recesso del socio, il valore della quota viene quantificato sulla base di una situazione patrimoniale della società alla data in cui il recesso ha efficacia, attraverso la quale si giunge alla ISSN (Online edition): 2239-7442 13 determinazione del valore economico del complesso aziendale, comprensivo dell’avviamento e degli utili in corso di formazione. In tale ambito, la stima del valore economico del capitale viene determinata, nella maggior parte dei casi, facendo ricadere la scelta, nella vastità dei metodi esistenti, tra quelli che tengono conto dell’attualizzazione dei sovra redditi futuri. Nella particolarità del recesso del socio da società consortile, invece, tale logica perde di razionalità in ragione del fatto che, come è stato più volte richiamato nel presente contributo, la finalità lucrative è estranea all’istituto consortile e, quindi, il sovra reddito non trova esistenza. L’assenza reddituale, quindi, determina l’esclusione dei metodi diretti e dei metodi misti in ordine alla ricerca della metodologia di stima appropriata. E’ stato messo in evidenza, pertanto, che la determinazione del valore economico della quota di liquidazione del socio debba ricadere sui metodi fondati su grandezze stock, ovvero, sui metodi patrimoniali. In tal senso, in raccordo con la motivazione che ha ispirato il presente contributo, per cui la partecipazione a una società consortile consente alle imprese di beneficiare soprattutto di immaterialità, si è ritenuto opportuno concludere che il metodo patrimoniale complesso rappresenta una scelta razionale. Il presupposto che muove la preferenza in parola è che, nonostante la società consortile sia posta in essere per finalità tipicamente mutualistiche, non si esclude, di contro, la possibilità che il socio, nella permanenza in società, concorra alla realizzazione di asset tipicamente immateriali che, pur non producendo reddito, ugualmente assumono valore strategici per l’organizzazione considerata. Peraltro, se si accetta l’idea del going concern value, secondo la quale la costituzione di un’azienda ex novo comporta il sostenimento di costi che, invece, non vengono sopportati nel caso di acquisto di un’impresa già avviata, non si può escludere, a priori, l’esistenza di beni immateriali anche in imprese consortili e, in generale, in imprese che non producono sovra reddito [63]. Accogliendo quest’ultima impostazione, e propendendo per il metodo patrimoniale complesso, non va ugualmente sottaciuto che, comunque, si avverte l’esigenza di verificare l’esistenza di immaterialità meritevoli di autonoma stima. Tale accertamento viene effettuato verificando l’equilibrio economico in condizioni non lucrative e la rispondenza al fine istituzionale; se entrambe le condizioni sono soddisfatte, allora, si passa all’analisi dei requisisti che la dottrina e la prassi operativa sono solite considerare ai fini della verifica della legittimità di stima autonoma di un intangibile asset, con riguardo all’oggetto di costo, alla predisposizione di benefici economici futuri, e all’autonoma trasferibilità. ISSN (Online edition): 2239-7442 14 Tanto premesso, si può concludere, che, allorquando le condizioni siano contemporaneamente soddisfatte, il metodo patrimoniale complesso può rappresentare una scelta ragionevole per la stima del valore economico della quota di liquidazione da società consortile, sotto il profilo della razionalità, dell’obiettività e della neutralità. Sebbene il lavoro sia frutto dell’opera congiunta dei due autori, i paragrafi 2 4 e 5 sono stati sviluppati da Alberto Dello Strologo e i paragrafi 1 3 sono stati sviluppati da Federica Ricci. -----------------Note: [*] Il presente saggio è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] M. SARALE, Consorzi, società consortili, in Trattato di diritto commerciale, diretto DA G. COTTINO, Volume III, Trattato di diritto commerciale, G. COTTINO, M. SARALE, R. WEIGMANN, Società di persone e consorzi, Cedam, Padova, 2004. [2] Art. 2602 cod.civ. [3] B.R. BARRINGER, J.S. HARRISON, Walking a tightrope: creating value through interorganizational relationships, in Journal of Management, 2000. [4] E. RULLANI, La teoria dell’impresa: soggetti, sistemi, evoluzione, in M. RISPOLI (a cura di), L’impresa industriale. Economia, tecnologia, management, il Mulino, Bologna, 1984; [5] G. ZAPPA, Tendenze nuove negli studi di ragioneria, Istituto Editoriale Scientifico, Milano, 1927, p. 30. [6] J. HAGEDOORN, G. DUYSTERS, The Effect of Mergers and Acquisitions on the Technological Performance of Companies in a Hightech Environment, in Technology Analysis et Strategic Management, vol. 14, n. 1, 2002, pp. 67-85. [7] Sulla vastità dei contributi in ordine alla knowledge economy si rinvia, tra gli altri, ai lavori di: A. PILATI, A. PERRUCCi (a cura di), Economia della conoscenza. Profili teorici ed evidenze empiriche, il Mulino, Bologna, 2005; D. FORAY, L’economia della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2006; E. RULLANI, New/Net/Knowledge Economy: le molte facce del postfordismo, in Economia e Politica Industriale, n. 110, 2001; J. MOKYR, The gifs of Atena. Historical origins of the knowledge economy, Princetom University Press, New Jersey, 2002; J. KENWAY, E. BULLEN, J. FAHEY, S. ROBB, Haunting the knowledge economy, Rout ledge, New York, 2006; R. TREQUATTRINI, Conoscenza ed economia aziendale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008; G. ZANDA, Il governo della grande impresa nella società della conoscenza, Giappichelli, Torino, 2009; W. ISSN (Online edition): 2239-7442 15 DOLFSMA, L. SOETE (eds), Understanding the dynamics of a knowledge economy, Edward Elgar Publishing Limited, Massachusetts, 2006; M.A. PETERS, S. MARGINSON, P. MURPHY, Creativity and the Global Knowledge Economy, Peter Lang Publishing, New York, 2009; K. INGAR WESTEREN, Foundations of the Knowledge Economy, Edward Elgar Publishing Limited, Massachusetts, 2012. [8] R. TREQUATTRINI, Conoscenza ed economia aziendale, op. cit., pp. 141142. [9] Sui rapporti di collaborazione interaziendale, M. CIAMBOTTI, Il franchising nell’economia delle imprese minori, Franco Angeli, Milano, 1989, p. 63, scrive: «L’azienda, muovendo dalla propria convenienza e dall’esigenza di accrescere l’efficacia dell’attività aziendale in riferimento ai propri fini, pone in essere rapporti di collaborazione interaziendale allorché questi siano giudicati potenzialmente in grado di contribuire, in modo determinante, al soddisfacimento di tale esigenza». [10] W.W. POWELL, K.W. KOPUT, L. SMITH-DOERR, Interorganizational Collaboration and the Locus of Innovation: Networks of Learning in Biotechnology, in Administrative Science Quarterly, n. 41, 1996, pp. 116-145. [11] H. HAKANSSON, Industrial technological development. A network approach, Croom Helm, New York, 1987. [12] K.R. HARRIGAN, Strategic Alliances and Partner Asymmetries, in F.J. CONTRACTOR, P. LORANGE, Cooperative Strategies in International Business, Elsevier Science Ltd, 2002; T. KHANNA, R. GULATI, N. NOHRIA, The Dynamics of Learning Alliances: Competition, Cooperation, and Relative Scope, in Strategic Management Journal, vol 19, n. 3, 1998, pp. 193-210. [13] J. HAGEDOORN, Understanding the rationale of strategic technology partenering: inter-organizational modes of cooperation and sectoral differences, in Strategic Management Journal, vol. 14, 1993, pp. 371385; G.P. PISANO, Using Equity Partecipation to Support Exchange: Evidence from the Biotechnology Industry, in Journal of Law, Economics & Organization, vol. 5, n. 1, 1989, pp. 109-126; O.E. WILLIAMSON, The Economic Institutions of Capitalism, The Free Press, New York, 1985. [14] M. GRANOVETTER, Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness, in American Journal of Sociology, vol. 91, n. 3, 1985, pp. 481-510. [15] D. DEPPERU, Economia dei consorzi tra imprese, Egea, Milano, 1996, p. 69. [16] In molti casi, infatti, non è il contratto a costituire la rete, che invece nasce in modo per così dire spontaneo, al di fuori di un vincolo giuridico in qualche modo formalizzato. B. KOGUT, The network as knowledge: Generative rules and the emergence of structure, in Strategic Management Journal, vol. 21, 2000, pp. 405-425. ISSN (Online edition): 2239-7442 16 [17] A. ZORZI, Reti di imprese e modelli societari di coordinamento, in F. CAFAGGI (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 177-231. [18] Art. 2603 cod. civ. [19] M. ELEFANTI, P. CELLA, Consorzi e società consortili, Maggioli Editore, Bologna, 2011, p. 97. [20] La teoria della massa critica, come è noto, affonda le sue radici concettuali nella fisica moderna. Secondo l’impostazione fisicoscientifica, la massa critica è la quantità di materiale radioattivo necessario per dare vita ad un’esplosione atomica. Secondo gli Autori Marwell, Oliver e Texeira la massa critica ha, altresì, un ruolo importante nella produzione dell’azione collettiva: sono pochi gli individui che decidono di dare all’agire, mentre gli altri non agiscono affatto; nell’impostazione in esame, l’elittario gruppo di individui attivi coinciderebbe, appunto, con la massa critica dell’azione collettiva. Per approfondimenti si consulti: P.E. OLIVER, G. MARWELL, Whatever Happened to Critical Mass Theory? A Retrospective and Assessment, in Sociological Theory, vol. 19, n. 3, 2001, pp. 292-311; P.E. OLIVER, G. MARWELL, The Paradox f Group Size in Collective Action: A Theory of the Critical Mass. II, in American Sociological Review, vol. 53, n. 1, 1988, pp. 1-8; P.E. OLIVER, G. MARWELL, R. TEIXEIRA, A Theory of the Critical Mass. I. Interdependence, Group Heterogeneity, and the Production of Collective Action, in The American Journal of Sociology, vol. 91, n. 3, 1985, pp. 522-556; G. MARWELL, P. OLIVER, The critical mass in collective action: a micro-social theory, Cambridge University Press, New York, 1993. [21] I. NONAKA, A Dynamic Theory of Organizational Knowledge Creation, in Organization Science, vol. 5, n. 1, 1994, pp. 14-37. [22] E. SCHEIN, Verso una nuova consapevolezza della cultura organizzativa, in P. GAGLIARDI (a cura di), Le imprese come culture. Nuove prospettive di analisi organizzativa, Isedi, Milano, 1995, p. 396. [23] Sulla contrapposizione dottrinale tra i fautori della funzione anticoncorrenziale e i sostenitori della funzione di cooperazione interaziendale si rinvia a: T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 3a ed., Giuffrè, Milano, 1960; ID, Riflessioni in tema di consorzi, mutue, associazioni e società, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1953, p. 327 e ss; ID., Consorzi volontari tra imprenditori, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1937; R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, nel Comm. del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro, artt. 2602-2642, Bologna-Roma, 1970; ID., I consorzi industriali, Cedam, Padova, 1939. [24] Prima dell’introduzione della disciplina consortile codicistica, la natura associativa del contratto di consorzio veniva infatti messa in dubbio da chi posizionava il fenomeno nell’ambito di un fascio di rapporti obbligatori tra i consorziati e i soggetti preposti ad agire. F. ISSN (Online edition): 2239-7442 17 CARNELUTTI, Natura giuridica dei consorzi industriali, in Riv. dir. comm., 1939. [25] Art. 2500 septies e 2500 octies cod. civ. [26] Art. 2603 cod. civ. [27] Il legislatore, infatti, contempla un unico caso di giusta causa, in ipotesi di trasferimento dell’azienda per atto fra vivi, riconoscendo agli altri consorziati la possibilità di deliberare, entro un mese dalla notizia dell’avvenuto trasferimento, l’esclusione dell’acquirente del consorzio. Art. 2610 cod. civ. [28] Art. 2603, comma 2, cod. civ. [29] R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, nel Comm. del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro, artt. 2602-2642, op. cit.; G. MINERVINI, Concorrenza e consorzi, in Trattato del diritto civile diretto da G. GROSSO e F. SANTOROPASSARELLI, Giuffrè, Milano, 1965; G. GUGLIELMETTI, Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, Utet, Torino, 1970; G. VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Trattato di diritto commerciale diretto da F. Galgano, IV, Cedam, Padova, 1981. [30] G. MARASÀ, Consori e società consortili, Giappichelli, Torino, 1990, p. 68. [31] G. GRIPPO, Il recesso del socio, in Trattato delle società per azioni, a cura di G.E. COLOMBO E G.B. PORTALE, Utet, Torino, 1993, p. 146; V. SALAFIA, Il recesso del socio nelle società consortili, in Le Società, 1983, p. 310 e ss. [32] B. VISENTINI, Azioni di società, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 1959, p. 985; G.L. PELLIZZI, Sui poteri indisponibili della maggioranza assembleare, in Riv. dir. civ., 1967, I, p. 202; F. DI SABATO, Manuale delle società, Utet, Torino, 1995, p. 661; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Utet, Torino, 1995, p. 441. [33] Sulla pozione della non tassatività delle cause di recesso si rinvia ai lavori di: G. FERRI, Le società, in Trattato di diritto civile italiano, fondato da F. Vassalli, Utet, Torino, 1995, p. 913; U. BELVISO, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, in Trattato di diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, vol. 17, Utet, Torino, 1985, p. 87; G. TANTINI, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Cedam, Padova, 1973, p. 160 e ss. [34] E. BRESSAN, Le modalità di rimborso del socio receduto da società consortile, in Giur. comm., 26.1, 1999, p. 35. [35] In realtà, Zorzi con criticità rileva come la flessibilità strutturale, in tal senso, non sempre è un fatto positivo. Con le parole dell’autore «Possono porsi circostanze nelle quali è essenziale ottenere un effetto di lock in dei consorziati; ciò vale soprattutto – come in ogni attività – laddove perché l’investimento renda, o l’iniziativa abbia successo, è necessario attendere un tempo critico. Il problema del lockin è ancor più ISSN (Online edition): 2239-7442 18 acuto in altre forme di coordinamento tra imprese, in primis per il venture capital, dove l’essenza di efficaci strumenti per costringere i soci a restare in società può prestarsi a comportamenti opportunistici di notevole intensità». A Zorzi, Reti di imprese e modelli societari di coordinamento, in F. CAFAGGI (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, op. cit., p. 210. [36] Scrive Angelici: «Non è difficile convincersi che il potere di exit, perché in grado di imporre costi a chi in concreto è nella posizione di decidere in merito alle scelte societarie, può rappresentare uno strumento di maggiore efficacia per la tutela del socio che non essendo nella condizione di contribuire più alla formazione di tali scelte si vedrebbe in mancanza ridotto ad un atteggiamento soltanto negativo, se si vuol dire difensivo». C. ANGELICI, Diritto commerciale, Vol. 1, Editori Laterza, Bari, 2003, p. 73. [37] G. CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, I, Utet, Torino, 2006, p. 274 e ss; F. CASALE, Le società consortili tra diritto comune, diritto speciale e saltuari ripensamenti della Cassazione, in La nuova giurisprudenza commentata, 2005, II, 1, p. 363. [38] T. ASCARELLI, Cooperativa e società. Concettualismo giuridico e magia delle parole, in Riv. soc., 1957, p. 401 e ss; V. BASSI, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il codice civile, commentario diretto da Schelsinger, Giuffrè, Milano, 1980; G. OPPO, L’essenza della società cooperativa e gli studi recenti, in Riv. dir. civ., 1959, p. 388 e ss; P. SPADA, La tipicità delle società, Cedam, Padova, 1974, p. 187 e ss; G. VOLPE PUTZOLU, Le società consortili, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. COLOMBO, G.B. PORTALE, Utet, Torino, 1992, p. 271. [39] G.D. MOSCO, I consorzi tra imprenditori, Giuffrè, Milano, 1988, p. 213; G. GUGLIELMETTI, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. VASSALLI, vol. X, 1, 2, Utet, Torino, 1970, p. 370; G. FERRI, voce Consorzio, Teoria generale in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1961, p. 371; ID, Consorzi e società consortili: ancora una modificazione occulta del codice civile, in Riv. dir. comm., I, 1976, p. 126. [40] E. BRESSAN, Le modalità di rimborso del socio receduto da società consortile, in Giur. comm., op. cit., p. 39. [41] L’opinione maggioritaria che riconosce al consorziato receduto il diritto alla liquidazione della quota è sostenuta da T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Giuffrè, Milano, 1960, p. 127; R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, op. cit., p. 150; G. GHIDINI, M. LIBERTINI, G. VOLPE PUTZOLU, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, a cura di F. GALGANO, IV, Cedam, Padova, 1981, p. 390; G. MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, Giuffrè, Milano, 1984 p. 221 e ss; G. MARASÀ, Consorzi e società consortili, op. cit., p. 70; G. MINERVINI, Concorrenza e consorzi, op. cit., p. 84. ISSN (Online edition): 2239-7442 19 [42] R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, op. cit., p. 126; G. VOLPE PUTZOLU, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, a cura di F. GALGANO, IV, op. cit., p. 390. [43] G. MARASÀ, Consorzi e società consortili, op. cit., p. 222. [44] Art. 2289 cod. civ., primo comma. [45] G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, op. cit., p. 120. [46] Sul principio generale di prudenza nell’ambito del modello di bilancio civilistico si rinvia a: M. LACCHINI, Modelli teorico-contabili e principi di redazione del bilancio, Giappichelli, Torino, 1994, pp. 90102. [47] Si confronti M. NOTARI (a cura di), Dialoghi tra giuristi e aziendalisti in tema di operazioni straordinarie, Giuffré, Milano, 2008. [48] Osserva Onesti che il valore economico della quota del socio recedente dovrà essere sicuramente inferiore al valore economico del capitale d’azienda, calcolato pro quota determinato prima dell’operazione di recesso. T. ONESTI, Problemi valutativi nella liquidazione della quota del socio uscente nelle società di capitali e di persone, Giappichelli, Torino, 1991, p. 39. [49] Coerentemente, è stato affermato che: «la riforma del diritto delle società di capitali allarga la legittimazione teorica del socio a recedere e rende “effettivo” il diritto di recesso mediante il miglioramento delle regole in materia di valutazione della partecipazione. Inoltre, la novellata disciplina del recesso prevede una particolare procedura del rimborso della partecipazione del socio uscente, al fine di tutelare gli assetti proprietari e gli interessi dei creditori della società». N. ANGIOLA, Il diritto di recesso del socio di società di capitali. Riflessioni economicoaziendali alla luce dell’innovata disciplina civilistica, in N. ABRIANI, T. ONESTI (a cura di), La riforma delle società di capitali. Aziendalisti e giuristi a confronto, in Atti del Convegno tenutosi a Foggia il 12 e il 13 giugno 2003, Giuffrè, Milano, 2004, p. 314. [50] La dottrina e la prassi economico aziendale sono unanimemente d’accordo nel ritenere che una metodologia di stima del valore economico di un’azienda o di un ramo di essa, per potersi considerare valida debba rispondere, almeno, al requisito della razionalità, obiettività e generalità. Sul punto, nell’ampia disponibilità di contributi, si rinvia, al lavoro di: G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende. V edizione riveduta, Giappichelli, Torino, 2005. [51] Sullo specifico tema del capitale economico e sulle metodologie di valutazione si confronti, nell’ampia dottrina nazionale: A. AMADUZZI, La teoria della valutazione dei complessi aziendali, in Rivista di Politica Economica, 1954; E. ARDEMANI, La determinazione del prezzo di cessione, in Saggi di Ragioneria e di Economia Aziendale, Scritti in onore di Domenico Amodeo, Cedam, Padova, 1987; T. BIANCHI, Some Reflections ISSN (Online edition): 2239-7442 20 on Economic Value of Production Concern Capital, in Economia Aziendale, 1982; C. CARAMIELLO, La valutazione dell’azienda, Giuffré, Milano, 1993; M. CATTANEO, Alcune osservazioni sulla scelta della formula della valutazione del capitale economico, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 1, 1986; G. CERIANI, Il trasferimento dell’impresa in economia aziendale, Cedam, Padova, 1990; V. CODA, Introduzione alle valutazioni dei capitali economici d’impresa, Giuffrè, Milano, 1963; G. FERRERO, La valutazione economica del capitale d’impresa, Giuffrè, Milano, 1966; L. GUATRI, La valutazione delle aziende. Teoria e pratica dei paesi avanzati a confronto, Giuffrè, Milano, 1995; C. MASINI, La dinamica economica dei nei sistemi di valori d’azienda: valutazioni e rivalutazioni, Giuffrè, Milano, 1984; P. MELLA, Il valore di cessione. Il capitale economico e l’expected discounted cash flow, in Contabilità e Bilancio, n. 20, 1986; L. OLIVOTTO, La valutazione economica del capitale d’impresa, Cedam, Padova, 1983; P. ONIDA, Le dimensioni del capitale di impresa. Concentrazioni, trasformazioni, variazioni di capitale, Giuffrè, Milano, 1944; O. PAGNANELLI, Valutazione delle aziende. Principi e procedimenti, Utet, Torino, 1990; N. ROSSI, Contributi allo studio del capitale-valore nelle imprese, Utet, Torino, 1965; C. SORCI, Note critiche e metodologiche sulla valutazione delle aziende avviate, in Rivista dei Dottori Commercialisti, 1974; L. STAFFICO, Studio delle valutazioni di cessione con particolare riguardo alle imprese, Giuffrè, Milano, 1967; E. VIGANÒ, La natura del valore economico del capitale di impresa e le sue applicazioni, Giannini, Napoli, 1967; G. ZAPPA, Il reddito d’impresa, Giuffè, Milano, 1950; G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, op. cit. [52] P. ONIDA, Economia d’azienda, Utet, Torino, 1971, p. 658. [53] A. ZORZI, Reti di imprese e modelli societari di coordinamento, in F. CAFAGGI (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, il Mulino, Bologna, 2004, p. 205. [54] G. ZANDA, Lineamenti di economia aziendale, III edizione, Kappa, Roma, 2006. [55] G. BRUGGER, La valutazione dei beni immateriali legati al marketing e alla tecnologia, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 1, 1989, p. 43. [56] B. MARINALI, T. ONESTI, La valutazione del portafoglio lavori in ipotesi di cessione d’azienda, in Auditing, n. 9, 1990. [57] F. AT PETERSEN, J. BJUSTROM, Identifyifing and analyzing intangible asset, in M. E A Europe, september-october, 1991. [58] A. RENOLDI, La valutazione dei beni immateriali. Metodi e soluzioni, Egea, Milano, 1992. [59] G. LIBERATORE, Le risorse immateriali nella comunicazione economica integrata, Cedam, Padova, 1996, p. 70. [60] E. LAGHI, Problemi di classificazione e di valutazione dei beni immateriali ai fini della stima del capitale economico d’impresa con i metodi patrimoniale complessi, in G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La ISSN (Online edition): 2239-7442 21 valutazione delle aziende, IV edizione riveduta e amplificata, Giappichelli, Torino, 2001. [61] L. HUNTER, A management perspective, in D. BOSWORTH, E. WEBSTER (eds), The management of intellectual property, Edward Elgar Publishing Limited, Cheltenham, 2006, p. 67. [62] T.A. STEWART, Il capital intellettuale. La nuova ricchezza, Ponte alle Grazie, Milano, 1999. [63] M. LACCHINI, Le valutazioni del capitale nelle procedure concorsuali, Cedam, Padova, 1998, p. 75. ISSN (Online edition): 2239-7442 22