Riflessioni in tema di recesso del socio da società consortile tra
profili giuridici e valutativi
di
Alberto Dello Strologo e Federica Ricci
Abstract:
This paper, concerning the controversial issue about the existence of the
right of liquidation in the event of withdrawal of a partner from the
consortium, will investigate about the possibility to include, in some
cases, an economic evaluation of the corresponding fee.
The study, after a brief explanation of the strategic importance of
consortium and consortium companies in the current phase of economic
development, will deal with the matter in jurisprudential key as regards
the coordination between the corporate norm and the consortium norm
and, then, it will explore the issue from a business economic perspective,
in order to reach a conclusion as possible, giving reasons for the
position taken.
Il contributo, posizionandosi nell’ambito del dibattuto tema circa
l’esistenza del diritto di liquidazione in ipotesi di recesso del socio da
società consortile, intende indagare sull’eventualità di contemplare, in
taluni casi, una valutazione economica della quota corrispettiva.
Lo studio, dopo avere sinteticamente motivato l’importanza strategica
dei consorzi e delle società consortili nell’attuale fase dello sviluppo
economico, richiamerà il contributo in chiave giurisprudenziale, sul
coordinamento tra la norma societaria e la norma consortile e,
successivamente, si inquadrerà la questione da una prospettiva
economico aziendale, allo scopo di addivenire a una possibile
conclusione, motivando la posizione assunta.
Sommario: 1. Premessa: il ruolo dei consorzi nell’economia della
conoscenza; 2. La disciplina dei consorzi in chiave giuridica con
particolare riferimento al caso del recesso del socio: brevi cenni; 3. Il
dibattito relativo alla liquidazione del socio tra giurisprudenza ed
economia aziendale: prime considerazioni; 4. La liquidazione della
quota consortile: profili valutativi; 5. 5. Conclusioni.
1. Premessa: il ruolo dei consorzi nell’economia della conoscenza
In prima approssimazione, il consorzio può essere definito come una
forma tipica di coordinamento tra imprese [1], volta all’istituzione di
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«un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di
determinate fasi delle rispettive imprese» [2].
Il consorzio, funzionale al raggiungimento di diversi obiettivi nella
varietà delle sue configurazioni, è stato definito come un istituto
«giustificabile pressoché sotto tutte le teorie del coordinamento
interorganizzativo» [3].
Proprio a cagione del risvolto strategico del consorzio quale strumento
di coordinamento interaziendale, prima di passare all’analisi della
dibattuta disciplina del recesso del socio, si intende fare chiarezza sul
ruolo dell’istituto consortile nell’ambito delle relazioni cooperative.
A tal fine, è opportuno rammentare come la dottrina economico
aziendale sia concorde nel qualificare complesso l’attuale contesto
esterno alle imprese, per via della varietà, variabilità e indeterminatezza
dominante [4]; ne consegue che la gestione delle imprese del
ventunesimo secolo è una questione altrettanto difficoltosa.
Per sopperire a tali difficoltà, e per rispondere alla logica intrinseca della
sopravvivenza [5] le imprese si trovano ad attivare – sempre più
frequentemente – relazioni di cooperazione.
Indagate da questa prospettiva, le relazioni inter-impresa consentono di
beneficiare del contributo di un patrimonio cognitivo non altrimenti
disponibile internamente, non totalmente reperibile sul mercato, ovvero,
difficoltoso da generare autonomamente in ragione degli elevati costi e
rischiosità, e per questioni di tempo [6].
Per siffatti motivi, gli studi economico aziendali hanno convenuto
sull’importanza strategica delle relazioni interaziendali [7], sia con
riferimento al dibattito sulle reti d’impresa che sugli accordi di
partnership.
Parimenti, una recente dottrina [8] rileva che le relazioni [9] apportano
all’impresa un duplice vantaggio, nell’ottica della produzione e
diffusione della conoscenza: in primo luogo, esse rappresentano
un’occasione per incrementare il livello di conoscenza posseduta
dall’azienda in una logica di apprendimento reciproco che genera valore
[10]; in secondo luogo, esse permettono all’azienda di contenere i costi
legati alla generazione di nuova conoscenza.
Condividendo la stessa impostazione, Hakansson [11] considera le
relazioni interaziendali come le risorse di maggior valore dell’impresa,
in ragione del contributo che da esse perviene all’innalzamento dei
livelli di produttività e di efficienza, sia in considerazione della loro
funzionalità ai fini della circolazione delle informazioni tra
organizzazioni.
I contributi sul tema degli accordi di cooperazione possono essere
sistematizzati almeno in due grandi filoni:
- il primo filone di stampo strategico-manageriale, al quale
appartengono gli studi incentrati sulla natura strategica delle relazioni,
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soprattutto con riferimento all’efficienza cognitiva che connota le
relazioni interaziendali [12];
- il secondo filoni di studi, di matrice organizzativa, accoglie le ricerche
finalizzate a spiegare le forme di coordinamento e i meccanismi di
governo con i quali si strutturano le relazioni interaziendali [13].
In particolare, allorquando gli studi di stampo strategico prendono in
considerazione anche il risvolto sociale che il legame interaziendale
esercita sulle organizzazioni coinvolte, prende forma la prospettiva
teorica dell’embeddedness [14].
Indagati nell’ottica della natura, i processi di aggregazione aziendale
possono edificarsi su accordi:
a) informali;
b) formali di natura contrattuale;
c) formali di natura patrimoniale.
Le forme aggregative di natura informale rappresentano forme di
collaborazione “di fatto”, che operano in assenza di una struttura
stabile, e, di conseguenza, presentano una natura precaria e di breve
termine. Rientrano nella categoria i rapporti di subfornitura, i
gentlemen’s agreement e i city community of interest.
Gli accordi formali di natura contrattuale, invece, si caratterizzano per la
presenza di una relazione formale e strutturata che può dare origine
anche a organizzazioni autonome. Rientrano in siffatta tipologia i
contratti di associazione in partecipazione, i patrimoni destinati a uno
specifico scopo, le associazioni temporanee d’impresa, i contratti di
franchising e, altresì, i consorzi.
Il consorzio, in particolare, rientra nella macro categoria degli accordi
interaziendali di natura contrattuale, realizzati viepiù «per il
conseguimento di un obiettivo ben definito, in genere legato alla
commercializzazione in comune di più prodotti» [15]; in tale senso,
proprio in ragione del fatto che l’istituto consortile è, in primis, un
contratto, si può convenire che esso è la veste giuridica di un fenomeno
sostanziale [16], rinvenibile nella diffusa esigenza di cooperazione,
quale risposta alla complessità ambientale dominante lo scenario
contemporaneo.
Accogliendo tale impostazione, il consorzio viene a qualificarsi come
una tra le possibili forme giuridiche strumentali al governo degli accordi
di cooperazione: come le reti, i gentlemen’s agreements, i patti
parasociali, le partecipazioni reciproche. Similmente, è stato osservato
che il consorzio «è esso stesso una rete» [17].
I consorzi, oltre a semplici accordi contrattuali, possono qualificarsi
come legami sorretti da un adeguato patrimonio e da una struttura
organizzativa; più precisamente, possono distinguersi tre diverse
configurazioni dell’istituto consortile: 1) consorzi con attività interna; 2)
consorzi con attività esterna; 3) società consortili.
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La prima fattispecie si riscontra allorquando il contratto è destinato a
produrre effetti unicamente nei riguardi delle imprese consorziate. La
finalità è principalmente quella di disciplinare i rapporti tra imprese per
quanto concerne il contingentamento dei livelli di produzione e/o la
verifica di prestabiliti standard qualitativi.
Il consorzio con attività esterna, al contrario, è un contratto che prevede
l’istituzione di un’organizzazione stabile, attraverso la quale viene
svolta un’attività imprenditoriale nei riguardi di soggetti esterni e non
aderenti alla realtà consortile.
La disciplina civilistica affianca alle due tipologie richiamate le società
consortili, alle quali si ricorre nei casi in cui il raggiungimento dello
scopo consortile richiede una struttura più stabile e meglio organizzata,
prescelta tra una delle tipologie societarie [18]. L’art. 2615-ter stabilisce
che, ugualmente, le società di persone e di capitali possono perseguire
lo scopo mutualistico come indicato nell’art. 2602, dando così origine
alle società consortili [19].
Svariate possono essere le motivazioni che potrebbero muovere le
imprese ad aderire a una forma aggregativa consortile; è stato osservato
che il principio alla base del vantaggio competitivo legato alla
partecipazione di un’impresa a un consorzio è quello di costituire la
massa critica [20] analogamente, una parte della dottrina sintetizza
l’insieme dei vantaggi connessi all’appartenenza a identità collettive con
il neologismo “economie di agglomerazione”.
Sulla base delle considerazioni effettuate nel presente paragrafo, si può
concludere come i principali benefici economici derivanti dalla
partecipazione di un’impresa a un consorzio sono largamente
riconducibili alla possibilità di acquisire risorse immateriali all’origine di
vantaggio competitivo, idealmente scomponibili in: abilità, competenze,
conoscenze tacite ed esplicite [21], relazioni, cultura [22], brevetti e
marchi.
L’idea di fondo, pertanto, può essere sintetizzata nella considerazione
che le relazioni cooperative possano consentire alle imprese di accedere
a opportunità cognitive superiori; ciò posto, il consorzio può essere
inteso come uno strumento idoneo alla circolazione di conoscenza e
immaterialità.
2. La disciplina dei consorzi in chiave giuridica con particolare
riferimento al caso del recesso del socio: brevi cenni
Indagato sotto il profilo giuridico, l’istituto del consorzio è denso di
criticità; in primo luogo è doveroso osservare come, nonostante
l’interesse destato dalla letteratura circa il consorzio quale forma
alternativa per l’esercizio e il coordinamento della produzione, non si
assiste ugualmente alla piena consapevolezza del fenomeno e, neppure,
alla sua adeguata valorizzazione, in ragione di taluni ostacoli che la
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letteratura giuridica ha incontrato nel mettere in luce la specifica
identità dell’istituto consortile.
Riguardo le peculiarità della struttura del contratto consortile e la non
sempre lineare disciplina orientata a regolarlo, occorre riferire, per un
verso, alla tradizionale dicotomia riscontrabile nella generale
ricostruzione dell’istituto consortile tra le figure dei consorzi
anticoncorrenziali e con attività interna, e quelle dei consorzi di
cooperazione industriale e con attività esterna; dicotomia che ha
condotto taluni a dubitare persino dell’opportunità di una ricostruzione
unitaria dell’istituto [23].
In tal senso, l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale attuale
pacificamente considera il consorzio come un contratto associativo
preordinato alla realizzazione degli interessi comuni ai soggetti coinvolti
[24].
Risolta la diatriba tra la finalità anticoncorrenziale e quella cooperativa,
altre criticità riguardano la naturale flessibilità dell’istituto, che si
sostanzia nella capacità di adattarsi tempestivamente alle contingenze
emergenti. La norma, infatti, viene incontro a questa esigenza
ammettendo le più diverse ipotesi di trasformazione dei consorzi e
società consortili in società di capitali, con deliberazione della
maggioranza richiesta della legge o dall’atto costitutivo per le società
consortili, ovvero con il voto favorevole della maggioranza assoluta nei
consorzi [25].
In questa sede, è appropriato rilevare altri profili critici in riguardo, ad
esempio, la possibilità di recesso e/o di esclusione dei membri da una
realtà consortile; in via preliminare, è opportuno differenziare la
fattispecie del recesso dal consorzio e da società consortile.
In generale, il contratto di consorzio deve indicare, tra gli altri elementi,
i casi di recesso e di esclusione dei membri [26], rimettendo, pertanto,
all’autonomia delle parti l’enucleazione [27].
Tuttavia, casi di recesso o di esclusione possono ricavarsi da altre
clausole contrattuali con specifico riferimento alle condizioni di
ammissione dei nuovi consorziati [28].
Può, quindi, giustificarsi il recesso
ovvero l’esclusione
nei casi in
cui il consorziato cessa l’attività imprenditoriale o, comunque, smette di
far parte di quella specifica categoria imprenditoriale, la cui
appartenenza ha costituito la giustificazione, anche causale, della
stipula del contratto di consorzio [29].
Al di fuori dei casi di recesso ed esclusione stabiliti dal contratto, allo
scioglimento parziale del rapporto si potrà pervenire soltanto sulla base
della disciplina della risoluzione giudiziaria per inadempimento (artt.
1453 ss. e 1459 c.c.), o per impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 ss. e
1466) [30].
Con riferimento alle società consortili di capitali è tuttavia doveroso
menzionare l’acceso dibattito intrattenuto tra la dottrina e la prassi
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giurisprudenziale, circa l’ammissibilità di una clausola statutaria che
preveda il diritto del socio di società consortile di recedere liberamente,
contemplando, così, ulteriori motivazioni di recesso rispetto a quelle
notoriamente stabilite dall’art. 2437 c.c.
Da un lato, infatti, si riscontra la posizione sostenuta da coloro i quali
non ammettono la possibilità di ampliare le ipotesi previste dal
legislatore, motivandone la causa con il fine di evitare, da un lato, «il
rischio di dissoluzione dell’impresa a tutto vantaggio della
conservazione della destinazione produttiva dei valori aziendali, nonché
in ottemperanza al principio di fissità del capitale, per evitare la
variabilità del capitale sociale in contrasto con tutto il sistema delle
società di capitali» [31]; e, dall’altro, per tutelare l’interesse dei creditori
all’integrità del capitale sociale [32].
All’angolazione diametralmente opposta, invece, si posizionano i
sostenitori dell’ammissibilità dell’ampliamento delle cause di recesso,
nella convinzione che i terzi siano comunque adeguatamente tutelati
dalle procedure di rimborso [33].
In ogni caso, è apposito prendere atto che le due posizioni altro non
sono che la conseguenza di una scelta effettuata a monte tra sostenitori
della tesi istituzionalistica e sostenitori della tesi contrattualistica e,
comunque, tende a prevalere la tesi della tassatività delle ipotesi di
recesso e quindi la considerazione dell’art. 2437 c.c. quale norma
inderogabile [34].
Un aggiuntivo risvolto critico appare legato alla circostanza per la quale,
come noto, il consorzio contempla la creazione di un istituto
giuridicamente autonomo per la realizzazione di un determinato fine; a
cagione di ciò esso offre, parimenti, una tutela per così dire “reale” ai
non recedenti; il bene specifico eventualmente acquisito dal consorzio
(ad esempio, il brevetto frutto dell’attività di ricerca compiuta dal
consorzio stesso) in nome e per conto proprio, e ancor più della società
consortile, è conservato normalmente – ovvero, sempre se non vi siano
accordi differenti – in capo al consorzio medesimo, risolvendo, dunque,
le dispute sulla sua attribuzione [35].
3. Il dibattito relativo alla liquidazione del socio tra giurisprudenza
ed economia aziendale: prime considerazioni
Il presente paragrafo intende indagare sulle problematiche relative alla
liquidazione del socio in ipotesi di recesso [36] nell’ambito di
un’organizzazione consortile.
E’ opportuno specificare sin da subito come l’ipotesi di recesso del socio
dal consorzio non contempla alcun diritto correlato alla quota di
liquidazione, ai sensi dell’articolo 2609 del codice civile, il quale, come
noto, si limita a stabilire che la corrispettiva quota del consorziato
uscente debba essere ripartita proporzionalmente tra quelle esistenti.
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Diversa, invece, è la fattispecie del recesso del socio da società
consortile.
Prima di addentrarci nella questione, tuttavia, è doveroso precisare
come subentri, in questa prospettiva, un delicato dibattito sul tema del
coordinamento tra la norma societaria e la norma consortile, con
evidenti risvolti anche sulla modalità di computo dell’eventuale quota di
liquidazione.
In merito, la dottrina non accoglie affatto un’opinione unanime; da un
lato, infatti, viene sostenuta l’applicabilità della normativa dettata dal
codice civile per i consorzi; d’altro canto, viene postulato che l’istituto
consortile debba essere accostato alla disciplina societaria, nella
particolarità della tipologia adottata [37].
Tra le due posizioni, l’ultima è l’opinione attualmente prevalente,
seppure con non poche opposizioni e controversie, sommamente
imputabili al fatto che la società consortile è caratterizzata dal
perseguimento diretto di finalità consortili.
E’ stato osservato come «il bisticcio tra oggetto e scopo contenuto
nell’art. 2615 ter non può considerarsi determinante ai fini della
qualificazione dello scopo sociale, perché, a ben vedere, caratteristica
della mutualità è la compenetrazione tra oggetto e scopo dell’ente, nel
senso che scopo comune dei soci è la gestione mutualistica
dell’impresa. In altre parole la gestione mutualistica, e quindi anche la
gestione consortile, riassume oggetto e scopo della società, o se si
preferisce scopo-mezzo e scopo-fine, come è implicitamente
riconosciuto dalla tesi dominante che individua nella reciprocità di
prestazioni tra società e soci l’essenza dello scopo mutualistico» [38].
Tuttavia, se si accogliesse la posizione prevalente per la quale la materia
consortile debba essere accostata alla disciplina societaria, allora, in
ipotesi di recesso del socio, occorre spingersi ben oltre la ripartizione
proporzionale della quota posseduta dal consorziato uscente, in quanto
verrebbe alla luce la questione sul riconoscimento del diritto alla
liquidazione di quest’ultimo.
Gran parte della dottrina risolve la dibattuta questione in senso
negativo, nella misura in cui, da un lato, riferisce alla disposizione
dell’accrescimento proporzionale delle quote detenute dagli altri
consorziati e; dall’altro, alla regola dell’indivisibilità del fondo comune
[39].
Secondo accreditate e autorevoli opinioni, l’art. 2609 c.c., comma 1,
nello stabilire che «nei casi di recesso e di esclusione previsti dal
contratto, la quota di partecipazione del consorziato receduto o escluso
si accresce proporzionalmente a quelle degli altri», non si riferisce alla
quota di partecipazione al fondo consortile, ma unicamente ai diritti e
agli obblighi assunti dalle parti nei consorzi di contingentamento.
L’accrescimento della quota a favore degli altri consorziati, in altre
parole, riguarda solo l’eventuale quota di produzione riservata al
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singolo consorziato e non la quota di partecipazione dello stesso al
patrimonio del consorzio. Questa va, invece, liquidata al consorziato
receduto, non sussistendo alcun obbligo per i soci rimasti di procedere
essi stessi al rimborso [40].
Un’altra parte della dottrina, invece, ammette l’inesistenza del diritto
alla quota di liquidazione in ipotesi di recesso solo alla fattispecie dei
consorzi di contingentamento [41].
Sul punto, scrive Marasà: «non è chiaro se il consorziato abbia diritto
alla quota di liquidazione secondo quanto prevede la disciplina delle
società lucrative e delle cooperative, ma non quella delle associazioni in
senso stretto. La questione non è risolta negativamente: la quota cui
allude il legislatore non è la quota di patrimonio consortile, bensì la
quota a proposito dei consorzi di contingentamento. Pertanto,
considerando che alla base del contratto di consorzio vi è la
realizzazione di scopi economici, è da preferire la tesi che riconosce al
consorziato receduto o escluso il diritto alla liquidazione della quota»
[42].
Tuttavia, occorre evitare che il meccanismo di liquidazione della quota
crei incompatibilità con la qualifica del contratto, come accadrebbe
qualora il consorziato receduto o escluso potesse realizzare uno scopo
di lucro analogo a quello del socio di società lucrativa.
Il problema riguarda principalmente i consorzi con attività esterna spuri,
in cui bisogna evitare che attraverso la liquidazione della quota il
consorziato si appropri degli utili conseguiti nell’attività con i terzi, non
distribuiti e non distribuibili sotto forma di dividendi periodici [43].
La delicata questione che in giurisprudenza non ha trovato posizione
unanime, necessita di essere inquadrata da un’angolazione economico
aziendale, in ordine al problema della modalità di computo
dell’eventuale quota di liquidazione spettante al socio receduto.
4. La liquidazione della quota consortile: profili valutativi
Il dibattito, mai sopito, circa l’eventuale diritto di liquidazione della
quota del socio recedente dalla società consortile presenta un risvolto
altrettanto interessante se indagato in chiave economico-aziendale.
In generale, è noto come in ipotesi di recesso del socio, questi – ovvero
gli eredi – hanno diritto alla liquidazione della quota sociale, che si
sostanzia con «una somma di denaro che rappresenti il valore della
quota» [44].
Il socio, quindi, non può pretendere la restituzione dei beni conferiti in
proprietà, quand’anche ancora presenti nel patrimonio sociale; e
neppure può esigere la restituzione dei beni conferiti in godimento fin
quando dura la società, salvo che non sia stato diversamente pattuito
[45].
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Per quanto attiene, invece, la determinazione della quota, è risaputo
come la medesima debba essere quantificata tenendo conto
dell’effettivo valore economico, superando, quindi, la logica prudenziale
[46] alla base della redazione dell’informativa contabile civilistica [47].
Il rimborso della quota della partecipazione del socio, infatti, deve
avvenire tenendo conto del valore pro quota del capitale economico
[48].
In particolare, per quanto concerne i criteri di liquidazione del
controvalore della quota di partecipazione del socio receduto, mentre
nel sistema previgente erano tendenzialmente puntivi, con la riforma
avvenuta per mezzo del D. Lgs n. 6/2003, egli non è più penalizzato in
quanto posto nelle condizioni di vedersi riconosciuto il valore effettivo
della propria partecipazione ancorando il tutto a parametri predefiniti
[49].
A cagione dell’evenienza che tra il socio uscente e gli amministratori
della società possano verificarsi situazioni di conflitto in sede di
determinazione del valore della quota, è opportuno utilizzare
metodologie relativamente semplici, dimostrabili, razionali e generali
[50].
Se, in questa sede, si accogliesse la posizione per cui il recesso del socio
da società consortile legittimasse lo stesso alla liquidazione, a tutta
evidenza, emergerebbe un ulteriore quesito circa il metodo [51] con cui
addivenire alla determinazione quantitativa della quota corrispettiva.
In generale, il valore della quota è determinato sulla base di una
situazione patrimoniale della società alla data in cui il recesso del socio
ha efficacia, attraverso la quale si giunge alla determinazione del valore
economico del complesso aziendale, comprensivo dell’avviamento e
degli utili in corso di formazione.
Tanto premesso, il socio ha diritto alla quota del valore economico del
capitale, rappresentativa della propria partecipazione.
Tradizionalmente, la stima del valore economico del complesso
aziendale viene effettuata attraverso l’attualizzazione dei sovra redditi
futuri; come è noto, il sovra reddito (o super-reddito, o profitto) deriva
«dal conseguimento di redditi futuri in misura superiore a quella
adeguata al valore del capitale netto di gestione» [52].
In sovra reddito trova sintetica rappresentazione nella formulazione
seguente:
(R
iK’)
dove:
R rappresenta il reddito medio prospettico;
K’ è il valore del patrimonio netto contabile riespresso a valori
correnti;
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i è il tasso di attualizzazione, che la dottrina dominante tende a fare
coincidere con il tasso di remunerazione normale che si attendono
coloro i quali conferiscono capitale proprio per avere deciso di operare
in un determinato comparto.
Per quanto attiene, invece, la durata del sovra reddito, essa viene a
dipendere generalmente da fattori soggettivi e oggettivi; nell’ipotesi in
cui il profitto sia legato a condizioni di soggettività, la dottrina e la
prassi operativa sono concordi nel considerare l’orizzonte temporale
compreso tra i tre e i cinque anni.
Nel caso, invece, in cui il sovra reddito dipenda da fattori oggettivi,
l’orizzonte temporale può anche estendersi sino a otto-dieci anni.
Nella fattispecie della società consortile, la determinazione del valore
economico sulla base dell’attualizzazione dei sovra redditi futuri perde
di significatività, in ragione del fatto che, come è stato più volte posto in
rilievo, la causa consortile è puramente mutualistica, vietandosi,
peraltro, la divisione degli utili in qualsivoglia forma [53].
Riferendo alle metodologie di stima del valore economico del capitale
maggiormente accreditate dalla dottrina e dalla prassi operativa, è
possibile sistematizzarle in due macrogruppi:
1) i metodi diretti;
2) i metodi indiretti.
Nell’ambito dei metodi indiretti, ancora, è possibile distinguere:
2.1) i metodi basati su grandezze flusso;
2.2) i metodi basati su grandezze stock;
2.3) i metodi basati su grandezze miste (flusso- stock).
Avendo chiarito che il sovra reddito non è una grandezza riscontrabile
nella prassi delle società consortili, si rileva come la scelta
dell’appropriata metodologia per la stima del valore economico della
quota consortile, escluda, a priori, sia metodi diretti che i metodi misti.
Per quanto attiene l’esclusione dei metodi diretti, essa è giustificata dal
fatto che le società consortili, a cagione della poliedricità che le
distingue, sono difficilmente comparabili a realtà organizzative similari,
inficiando la tecnica della comparazione (il c.d. comparison approach to
valutation). La società consortile, in tal senso, può considerarsi un
accadimento economico a sé stante, difficilmente affiancabile a realtà
commensurabili, poiché ogni volta mutano le coordinate sociali,
economiche e mutualistiche che spingono gli imprenditori a dare vita a
una società consortile.
L’esclusione delle metodologie miste, altresì, è una diretta conseguenza
del fatto che esse fondano la stima del valore economico del capitale
sulle aspettative del flusso del sovra reddito. In particolare, sebbene le
formulazioni di tipo misto non accordino tutte la medesima importanza
all’avviamento, sia il metodo dei pratici tedeschi che il metodo
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anglosassone, comunque, basano il proprio algoritmo sul valore stimato
del sovra reddito futuro.
Avendo motivato l’esclusione dei metodi diretti e misti, appare evidente
come la determinazione del valore economico della quota di
liquidazione del socio debba ricadere sui metodi fondati su grandezze
stock, ovvero, patrimoniali; in tal senso, allorquando si accogliesse il
metodo patrimoniale semplice, il valore della quota di liquidazione si
fonderebbe sul patrimonio netto rettificato.
I limiti di quest’approccio, sono, tuttavia, ben evidenti ove si consideri
che la partecipazione a una società consortile consente di beneficiare di
immaterialità riconducibili, in larga misura, all’incremento di know-how,
alla condivisione di esperienze e al consolidamento di relazioni e scambi
all’origine di vantaggio competitivo.
Tali ragioni rilevano come, in presenza di immaterialità, la scelta per la
determinazione del valore economico della quota di recesso debba
propendere verso il metodo patrimoniale complesso, il quale, come è
noto, somma al patrimonio netto rettificato il valore dei beni immateriali
non contabilizzati.
Sebbene, infatti, la società consortile sia posta in essere per finalità
tipicamente mutualistiche, non si esclude, di contro, la possibilità che il
socio, nella permanenza in società, comunque, concorra alla
realizzazione di asset tipicamente immateriali i quali, pur non
producendo reddito, ugualmente assumono valore strategici per
l’organizzazione considerata.
Questa conclusione, tuttavia, merita di essere opportunamente
argomentata: avendo compreso l’assenza del sovra reddito, rimane,
infatti, da fare chiarezza su come possa essere dimostrata l’esistenza di
beni immateriali in tale fattispecie.
In sostanza, la presenza di intangibilità all’origine del vantaggio
competitivo potrebbe essere dimostrata verificando, in primis,
l’esistenza della condizione di equilibrio economico, la quale, rispetto
alla tipicità dell’azienda lucrativa, nella società consortile muta.
Giova rammentare, infatti, che nelle società lucrative l’equilibrio
economico viene soddisfatto quando i ricavi totali uguagliano – ovvero
superano – i costi totali e consentono, al contempo, la congrua
remunerazione del fattore in posizione residuale [54].
Nella mutualità della società consortile, invece, viene meno la
remunerazione congrua del fattore in posizione residuale e, quindi,
l’equilibrio economico può dirsi conseguito nell’ipotesi in cui i ricavi
totali uguagliano i costi totali.
Sempre allo scopo di provare l’esistenza di beni immateriali, è altresì
necessario che la società consortile soddisfi il fine istituzionale per il
quale è posta in essere.
Una volta che sia il criterio di equilibrio economico, che il fine
istituzionale sono soddisfatti, allora, si passa a verificare le condizioni
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che per concorde dottrina vengono annoverate nell’affermare la
legittimità di stima autonoma di un intangibile asset, ovvero [55]:
- l’essere o l’essere stato oggetto di un significativo costo di
investimenti;
- l’attitudine a generare benefici economici futuri differenziali;
- la trasferibilità.
La dottrina ha molto indagato nella direzione degli intangibile assest, sia
per individuare valide strategie per sfruttarne in toto le potenzialità, sia
per addivenire a una possibile tassonomia. A tale scopo, sono stati
elaborati diversi modelli di sistematizzazione.
Un primo contributo porta a distinguere tra risorse forti e deboli:
all’interno del primo gruppo rientrerebbero tutte le immaterialità
suscettibili di autonoma stima rispetto all’azienda in cui sono inserite, al
secondo gruppo, invece, tutti le risorse non divisibili autonomamente
[56].
Un secondo contributo, invece, distingue le risorse immateriali in tre
gruppi: 1) human capital, ovvero qualità della leadership, motivazione,
know how; 2) market capital, identificabile nella percezione che i clienti
hanno delle caratteristiche e della qualità dei beni e servizi offerti
dall’azienda; 3) confidence capital, rappresentato da opinioni e
atteggiamenti che i principali stakeholder aziendali hanno nei confronti
dell’azienda [57].
Una terza classificazione, invece, suddivide le risorse immateriali in beni
in senso stretto, dotati di autonoma rilevanza e, dunque, identificabili e
valori
immateriali
non
identificabili,
riconducibili
nell’ambito
dell’avviamento [58].
Un quarto modello classifica le risorse immateriali in base alla
controllabilità, distinguendo le risorse immateriali controllabili; non
totalmente controllabili; fuori controllo [59].
Un quinto modello, ancora, distingue gli intangibile asset in beni
immateriali strutturali e non strutturali: i primi esprimono il valore di
capacità interne all’azienda dotate dell’attributo della necessità; i
secondi traggono il proprio valore dalle relazioni che si istaurano tra
l’impresa e il mercato [60].
Un ulteriore studio suddivide le immaterialità nelle categorie del capitale
umano; capitale infrastrutturale; capitale relazionale; proprietà
intellettuale [61].
Recenti contributi, invece, riferiscono al capitale intellettuale nella
classica tripartizione: capitale umano, relazionale, strutturale [62].
Una volta individuati i beni immateriali non contabilizzati oggetto di
stima autonoma, è possibile procedere con l’applicazione del metodo
patrimoniale complesso il quale trova espressione nel seguente
algoritmo:
W = K’ + B.I.N.C.
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12
dove:
K’ è il valore del patrimonio netto contabilizzato;
B.I.N.C. è il valore dei beni immateriali non contabilizzati.
5. Conclusioni
Il presente lavoro ha preso le mosse dalla consapevolezza che
l’ambiente esterno dove le imprese trovano attualmente collocazione è
caratterizzato da un incisivo livello di variabilità, varietà e
indeterminatezza, tale da potersi definire complesso.
In tale scenario, le imprese pongono in essere sempre più
frequentemente
relazioni
di
cooperazione
per
beneficiare
reciprocamente di immaterialità difficilmente ascrivibili, altrimenti, a
un’unica realtà aziendale.
In tal senso, il consorzio è stato considerato nell’ambito della più ampia
macrocategoria degli accordi di cooperazione e, declinando i medesimi,
si è visto come esso afferisca, più specificatamente, alla fattispecie degli
accordi di natura contrattuale.
Successivamente, è stato posto in evidenza come la disciplina
dell’istituto consortile sia densa di criticità; da un lato, si è riferito al
tradizionale dibattito sull’interpretazione della causa del consorzio, con
riferimento alla natura anticoncorrenziale e cooperativa. Se, da un lato,
la dicotomia sulla funzione consortile può essere considerata
attualmente risolta, ugualmente si riscontrano altre criticità, in larga
misura collegate alla flessibilità intrinseca dell’istituto.
Particolare rilievo è stato dato alla possibilità di recesso/esclusione dei
membri da una realtà consortile, poiché, in merito, non si riscontra in
dottrina un’opinione unanime circa il diritto di liquidazione della quota.
Se, da un lato, viene sostenuta l’applicabilità della normativa dettata dal
codice civile per i consorzi, dall’altro viene postulato che l’istituto
consortile debba essere accostato alla disciplina societaria, nella
peculiarità della tipologia societaria prescelta. Quest’ultima posizione, in
particolare, è quella attualmente dominante; tuttavia, condividendone
l’impostazione, emerge come in ipotesi di recesso del socio sia
opportuno spingersi ben oltre la ripartizione proporzionale della quota
posseduta dal consorziato uscente, perché emerge l’annosa questione
sul riconoscimento del corrispettivo diritto alla liquidazione.
Nel corso della trattazione è stato posto in rilevo come, accogliendo
l’opinione prevalente che vede riconosciuto il diritto di liquidazione al
consorziato uscente, viene a farsi strada un interessante dibattito circa
la modalità di determinazione della quota.
Si è visto che, nella generalità di recesso del socio, il valore della quota
viene quantificato sulla base di una situazione patrimoniale della società
alla data in cui il recesso ha efficacia, attraverso la quale si giunge alla
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determinazione del valore economico del complesso aziendale,
comprensivo dell’avviamento e degli utili in corso di formazione. In tale
ambito, la stima del valore economico del capitale viene determinata,
nella maggior parte dei casi, facendo ricadere la scelta, nella vastità dei
metodi esistenti, tra quelli che tengono conto dell’attualizzazione dei
sovra redditi futuri.
Nella particolarità del recesso del socio da società consortile, invece,
tale logica perde di razionalità in ragione del fatto che, come è stato più
volte richiamato nel presente contributo, la finalità lucrative è estranea
all’istituto consortile e, quindi, il sovra reddito non trova esistenza.
L’assenza reddituale, quindi, determina l’esclusione dei metodi diretti e
dei metodi misti in ordine alla ricerca della metodologia di stima
appropriata. E’ stato messo in evidenza, pertanto, che la determinazione
del valore economico della quota di liquidazione del socio debba
ricadere sui metodi fondati su grandezze stock, ovvero, sui metodi
patrimoniali.
In tal senso, in raccordo con la motivazione che ha ispirato il presente
contributo, per cui la partecipazione a una società consortile consente
alle imprese di beneficiare soprattutto di immaterialità, si è ritenuto
opportuno concludere che il metodo patrimoniale complesso
rappresenta una scelta razionale. Il presupposto che muove la
preferenza in parola è che, nonostante la società consortile sia posta in
essere per finalità tipicamente mutualistiche, non si esclude, di contro,
la possibilità che il socio, nella permanenza in società, concorra alla
realizzazione di asset tipicamente immateriali che, pur non producendo
reddito, ugualmente assumono valore strategici per l’organizzazione
considerata.
Peraltro, se si accetta l’idea del going concern value, secondo la quale la
costituzione di un’azienda ex novo comporta il sostenimento di costi
che, invece, non vengono sopportati nel caso di acquisto di un’impresa
già avviata, non si può escludere, a priori, l’esistenza di beni immateriali
anche in imprese consortili e, in generale, in imprese che non
producono sovra reddito [63].
Accogliendo quest’ultima impostazione, e propendendo per il metodo
patrimoniale complesso, non va ugualmente sottaciuto che, comunque,
si avverte l’esigenza di verificare l’esistenza di immaterialità meritevoli
di autonoma stima. Tale accertamento viene effettuato
verificando l’equilibrio economico in condizioni non lucrative e la
rispondenza al fine istituzionale; se entrambe le condizioni sono
soddisfatte, allora, si passa all’analisi dei requisisti che la dottrina e la
prassi operativa sono solite considerare ai fini della verifica della
legittimità di stima autonoma di un intangibile asset, con riguardo
all’oggetto di costo, alla predisposizione di benefici economici futuri, e
all’autonoma trasferibilità.
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14
Tanto premesso, si può concludere, che, allorquando le condizioni siano
contemporaneamente soddisfatte, il metodo patrimoniale complesso
può rappresentare una scelta ragionevole per la stima del valore
economico della quota di liquidazione da società consortile, sotto il
profilo della razionalità, dell’obiettività e della neutralità.
Sebbene il lavoro sia frutto dell’opera congiunta dei due autori, i
paragrafi 2 4 e 5 sono stati sviluppati da Alberto Dello Strologo e i
paragrafi 1 3 sono stati sviluppati da Federica Ricci.
-----------------Note:
[*] Il presente saggio è stato preventivamente sottoposto a referaggio
anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il
Regolamento adottato da questa Rivista.
[1] M. SARALE, Consorzi, società consortili, in Trattato di diritto
commerciale, diretto DA G. COTTINO, Volume III, Trattato di diritto
commerciale, G. COTTINO, M. SARALE, R. WEIGMANN, Società di persone e
consorzi, Cedam, Padova, 2004.
[2] Art. 2602 cod.civ.
[3] B.R. BARRINGER, J.S. HARRISON, Walking a tightrope: creating value
through interorganizational relationships, in Journal of Management,
2000.
[4] E. RULLANI, La teoria dell’impresa: soggetti, sistemi, evoluzione, in M.
RISPOLI (a cura di), L’impresa industriale. Economia, tecnologia,
management, il Mulino, Bologna, 1984;
[5] G. ZAPPA, Tendenze nuove negli studi di ragioneria, Istituto Editoriale
Scientifico, Milano, 1927, p. 30.
[6] J. HAGEDOORN, G. DUYSTERS, The Effect of Mergers and Acquisitions on
the Technological Performance of Companies in a Hightech
Environment, in Technology Analysis et Strategic Management, vol. 14,
n. 1, 2002, pp. 67-85.
[7] Sulla vastità dei contributi in ordine alla knowledge economy si rinvia,
tra gli altri, ai lavori di: A. PILATI, A. PERRUCCi (a cura di), Economia della
conoscenza. Profili teorici ed evidenze empiriche, il Mulino, Bologna,
2005; D. FORAY, L’economia della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2006;
E. RULLANI, New/Net/Knowledge Economy: le molte facce del
postfordismo, in Economia e Politica Industriale, n. 110, 2001; J. MOKYR,
The gifs of Atena. Historical origins of the knowledge economy,
Princetom University Press, New Jersey, 2002; J. KENWAY, E. BULLEN, J.
FAHEY, S. ROBB, Haunting the knowledge economy, Rout ledge, New York,
2006; R. TREQUATTRINI, Conoscenza ed economia aziendale, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 2008; G. ZANDA, Il governo della grande
impresa nella società della conoscenza, Giappichelli, Torino, 2009; W.
ISSN (Online edition): 2239-7442
15
DOLFSMA, L. SOETE (eds), Understanding the dynamics of a knowledge
economy, Edward Elgar Publishing Limited, Massachusetts, 2006; M.A.
PETERS, S. MARGINSON, P. MURPHY, Creativity and the Global Knowledge
Economy, Peter Lang Publishing, New York, 2009; K. INGAR WESTEREN,
Foundations of the Knowledge Economy, Edward Elgar Publishing
Limited, Massachusetts, 2012.
[8] R. TREQUATTRINI, Conoscenza ed economia aziendale, op. cit., pp. 141142.
[9] Sui rapporti di collaborazione interaziendale, M. CIAMBOTTI, Il
franchising nell’economia delle imprese minori, Franco Angeli, Milano,
1989, p. 63, scrive: «L’azienda, muovendo dalla propria convenienza e
dall’esigenza di accrescere l’efficacia dell’attività aziendale in
riferimento ai propri fini, pone in essere rapporti di collaborazione
interaziendale allorché questi siano giudicati potenzialmente in grado di
contribuire, in modo determinante, al soddisfacimento di tale esigenza».
[10] W.W. POWELL, K.W. KOPUT, L. SMITH-DOERR, Interorganizational
Collaboration and the Locus of Innovation: Networks of Learning in
Biotechnology, in Administrative Science Quarterly, n. 41, 1996, pp.
116-145.
[11] H. HAKANSSON, Industrial technological development. A network
approach, Croom Helm, New York, 1987.
[12] K.R. HARRIGAN, Strategic Alliances and Partner Asymmetries, in F.J.
CONTRACTOR, P. LORANGE, Cooperative Strategies in International Business,
Elsevier Science Ltd, 2002; T. KHANNA, R. GULATI, N. NOHRIA, The Dynamics
of Learning Alliances: Competition, Cooperation, and Relative Scope, in
Strategic Management Journal, vol 19, n. 3, 1998, pp. 193-210.
[13] J. HAGEDOORN, Understanding the rationale of strategic technology
partenering: inter-organizational modes of cooperation and sectoral
differences, in Strategic Management Journal, vol. 14, 1993, pp. 371385; G.P. PISANO, Using Equity Partecipation to Support Exchange:
Evidence from the Biotechnology Industry, in Journal of Law, Economics
& Organization, vol. 5, n. 1, 1989, pp. 109-126; O.E. WILLIAMSON, The
Economic Institutions of Capitalism, The Free Press, New York, 1985.
[14] M. GRANOVETTER, Economic Action and Social Structure: The Problem
of Embeddedness, in American Journal of Sociology, vol. 91, n. 3, 1985,
pp. 481-510.
[15] D. DEPPERU, Economia dei consorzi tra imprese, Egea, Milano, 1996,
p. 69.
[16] In molti casi, infatti, non è il contratto a costituire la rete, che
invece nasce in modo per così dire spontaneo, al di fuori di un vincolo
giuridico in qualche modo formalizzato. B. KOGUT, The network as
knowledge: Generative rules and the emergence of structure, in
Strategic Management Journal, vol. 21, 2000, pp. 405-425.
ISSN (Online edition): 2239-7442
16
[17] A. ZORZI, Reti di imprese e modelli societari di coordinamento, in F.
CAFAGGI (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, il
Mulino, Bologna, 2004, pp. 177-231.
[18] Art. 2603 cod. civ.
[19] M. ELEFANTI, P. CELLA, Consorzi e società consortili, Maggioli Editore,
Bologna, 2011, p. 97.
[20] La teoria della massa critica, come è noto, affonda le sue radici
concettuali nella fisica moderna. Secondo l’impostazione fisicoscientifica, la massa critica è la quantità di materiale radioattivo
necessario per dare vita ad un’esplosione atomica. Secondo gli Autori
Marwell, Oliver e Texeira la massa critica ha, altresì, un ruolo importante
nella produzione dell’azione collettiva: sono pochi gli individui che
decidono di dare all’agire, mentre gli altri non agiscono affatto;
nell’impostazione in esame, l’elittario gruppo di individui attivi
coinciderebbe, appunto, con la massa critica dell’azione collettiva. Per
approfondimenti si consulti: P.E. OLIVER, G. MARWELL, Whatever Happened
to Critical Mass Theory? A Retrospective and Assessment, in Sociological
Theory, vol. 19, n. 3, 2001, pp. 292-311; P.E. OLIVER, G. MARWELL, The
Paradox f Group Size in Collective Action: A Theory of the Critical Mass.
II, in American Sociological Review, vol. 53, n. 1, 1988, pp. 1-8; P.E.
OLIVER, G. MARWELL, R. TEIXEIRA, A Theory of the Critical Mass. I.
Interdependence, Group Heterogeneity, and the Production of Collective
Action, in The American Journal of Sociology, vol. 91, n. 3, 1985, pp.
522-556; G. MARWELL, P. OLIVER, The critical mass in collective action: a
micro-social theory, Cambridge University Press, New York, 1993.
[21] I. NONAKA, A Dynamic Theory of Organizational Knowledge Creation,
in Organization Science, vol. 5, n. 1, 1994, pp. 14-37.
[22] E. SCHEIN, Verso una nuova consapevolezza della cultura
organizzativa, in P. GAGLIARDI (a cura di), Le imprese come culture. Nuove
prospettive di analisi organizzativa, Isedi, Milano, 1995, p. 396.
[23] Sulla contrapposizione dottrinale tra i fautori della funzione
anticoncorrenziale e i sostenitori della funzione di cooperazione
interaziendale si rinvia a: T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei
beni immateriali, 3a ed., Giuffrè, Milano, 1960; ID, Riflessioni in tema di
consorzi, mutue, associazioni e società, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1953,
p. 327 e ss; ID., Consorzi volontari tra imprenditori, 2a ed., Giuffrè,
Milano, 1937; R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della
produzione e degli scambi, nel Comm. del cod. civ. a cura di Scialoja e
Branca, Libro V, Del Lavoro, artt. 2602-2642, Bologna-Roma, 1970; ID., I
consorzi industriali, Cedam, Padova, 1939.
[24] Prima dell’introduzione della disciplina consortile codicistica, la
natura associativa del contratto di consorzio veniva infatti messa in
dubbio da chi posizionava il fenomeno nell’ambito di un fascio di
rapporti obbligatori tra i consorziati e i soggetti preposti ad agire. F.
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17
CARNELUTTI, Natura giuridica dei consorzi industriali, in Riv. dir. comm.,
1939.
[25] Art. 2500 septies e 2500 octies cod. civ.
[26] Art. 2603 cod. civ.
[27] Il legislatore, infatti, contempla un unico caso di giusta causa, in
ipotesi di trasferimento dell’azienda per atto fra vivi, riconoscendo agli
altri consorziati la possibilità di deliberare, entro un mese dalla notizia
dell’avvenuto trasferimento, l’esclusione dell’acquirente del consorzio.
Art. 2610 cod. civ.
[28] Art. 2603, comma 2, cod. civ.
[29] R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e
degli scambi, nel Comm. del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Libro V,
Del Lavoro, artt. 2602-2642, op. cit.; G. MINERVINI, Concorrenza e
consorzi, in Trattato del diritto civile diretto da G. GROSSO e F. SANTOROPASSARELLI, Giuffrè, Milano, 1965; G. GUGLIELMETTI, Trattato di diritto civile
italiano, diretto da F. VASSALLI, Utet, Torino, 1970; G. VOLPE PUTZOLU, I
consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in
Trattato di diritto commerciale diretto da F. Galgano, IV, Cedam,
Padova, 1981.
[30] G. MARASÀ, Consori e società consortili, Giappichelli, Torino, 1990,
p. 68.
[31] G. GRIPPO, Il recesso del socio, in Trattato delle società per azioni, a
cura di G.E. COLOMBO E G.B. PORTALE, Utet, Torino, 1993, p. 146; V. SALAFIA,
Il recesso del socio nelle società consortili, in Le Società, 1983, p. 310 e
ss.
[32] B. VISENTINI, Azioni di società, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè,
Milano, 1959, p. 985; G.L. PELLIZZI, Sui poteri indisponibili della
maggioranza assembleare, in Riv. dir. civ., 1967, I, p. 202; F. DI SABATO,
Manuale delle società, Utet, Torino, 1995, p. 661; G.F. CAMPOBASSO,
Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Utet, Torino, 1995, p. 441.
[33] Sulla pozione della non tassatività delle cause di recesso si rinvia ai
lavori di: G. FERRI, Le società, in Trattato di diritto civile italiano, fondato
da F. Vassalli, Utet, Torino, 1995, p. 913; U. BELVISO, Le modificazioni
dell’atto costitutivo nella società per azioni, in Trattato di diritto privato,
diretto da P. RESCIGNO, vol. 17, Utet, Torino, 1985, p. 87; G. TANTINI, Le
modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Cedam,
Padova, 1973, p. 160 e ss.
[34] E. BRESSAN, Le modalità di rimborso del socio receduto da società
consortile, in Giur. comm., 26.1, 1999, p. 35.
[35] In realtà, Zorzi con criticità rileva come la flessibilità strutturale, in
tal senso, non sempre è un fatto positivo. Con le parole dell’autore
«Possono porsi circostanze nelle quali è essenziale ottenere un effetto di
lock in dei consorziati; ciò vale soprattutto – come in ogni attività –
laddove perché l’investimento renda, o l’iniziativa abbia successo, è
necessario attendere un tempo critico. Il problema del lockin è ancor più
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18
acuto in altre forme di coordinamento tra imprese, in primis per il
venture capital, dove l’essenza di efficaci strumenti per costringere i
soci a restare in società può prestarsi a comportamenti opportunistici di
notevole intensità». A Zorzi, Reti di imprese e modelli societari di
coordinamento, in F. CAFAGGI (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e
norme sociali, op. cit., p. 210.
[36] Scrive Angelici: «Non è difficile convincersi che il potere di exit,
perché in grado di imporre costi a chi in concreto è nella posizione di
decidere in merito alle scelte societarie, può rappresentare uno
strumento di maggiore efficacia per la tutela del socio che non essendo
nella condizione di contribuire più alla formazione di tali scelte si
vedrebbe in mancanza ridotto ad un atteggiamento soltanto negativo,
se si vuol dire difensivo». C. ANGELICI, Diritto commerciale, Vol. 1, Editori
Laterza, Bari, 2003, p. 73.
[37] G. CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, I, Utet, Torino,
2006, p. 274 e ss; F. CASALE, Le società consortili tra diritto comune,
diritto speciale e saltuari ripensamenti della Cassazione, in La nuova
giurisprudenza commentata, 2005, II, 1, p. 363.
[38] T. ASCARELLI, Cooperativa e società. Concettualismo giuridico e
magia delle parole, in Riv. soc., 1957, p. 401 e ss; V. BASSI, Delle imprese
cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il codice civile, commentario
diretto da Schelsinger, Giuffrè, Milano, 1980; G. OPPO, L’essenza della
società cooperativa e gli studi recenti, in Riv. dir. civ., 1959, p. 388 e ss;
P. SPADA, La tipicità delle società, Cedam, Padova, 1974, p. 187 e ss; G.
VOLPE PUTZOLU, Le società consortili, in Trattato delle società per azioni,
diretto da G.E. COLOMBO, G.B. PORTALE, Utet, Torino, 1992, p. 271.
[39] G.D. MOSCO, I consorzi tra imprenditori, Giuffrè, Milano, 1988, p.
213; G. GUGLIELMETTI, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto
civile italiano diretto da F. VASSALLI, vol. X, 1, 2, Utet, Torino, 1970, p.
370;
G. FERRI, voce Consorzio, Teoria generale in Enc. dir., Giuffrè, Milano,
1961, p. 371; ID, Consorzi e società consortili: ancora una modificazione
occulta del codice civile, in Riv. dir. comm., I, 1976, p. 126.
[40] E. BRESSAN, Le modalità di rimborso del socio receduto da società
consortile, in Giur. comm., op. cit., p. 39.
[41] L’opinione maggioritaria che riconosce al consorziato receduto il
diritto alla liquidazione della quota è sostenuta da T. ASCARELLI, Teoria
della concorrenza e dei beni immateriali, Giuffrè, Milano, 1960, p. 127;
R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e degli
scambi, op. cit., p. 150; G. GHIDINI, M. LIBERTINI, G. VOLPE PUTZOLU, La
concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto
pubblico dell’economia, a cura di F. GALGANO, IV, Cedam, Padova, 1981,
p. 390; G. MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, Giuffrè, Milano,
1984 p. 221 e ss; G. MARASÀ, Consorzi e società consortili, op. cit., p. 70;
G. MINERVINI, Concorrenza e consorzi, op. cit., p. 84.
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19
[42] R. FRANCESCHELLI, Consorzi per il coordinamento della produzione e
degli scambi, op. cit., p. 126; G. VOLPE PUTZOLU, La concorrenza e i
consorzi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico
dell’economia, a cura di F. GALGANO, IV, op. cit., p. 390.
[43] G. MARASÀ, Consorzi e società consortili, op. cit., p. 222.
[44] Art. 2289 cod. civ., primo comma.
[45] G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, op.
cit., p. 120.
[46] Sul principio generale di prudenza nell’ambito del modello di
bilancio civilistico si rinvia a: M. LACCHINI, Modelli teorico-contabili e
principi di redazione del bilancio, Giappichelli, Torino, 1994, pp. 90102.
[47] Si confronti M. NOTARI (a cura di), Dialoghi tra giuristi e aziendalisti
in tema di operazioni straordinarie, Giuffré, Milano, 2008.
[48] Osserva Onesti che il valore economico della quota del socio
recedente dovrà essere sicuramente inferiore al valore economico del
capitale
d’azienda,
calcolato
pro
quota
determinato
prima
dell’operazione di recesso. T. ONESTI, Problemi valutativi nella
liquidazione della quota del socio uscente nelle società di capitali e di
persone, Giappichelli, Torino, 1991, p. 39.
[49] Coerentemente, è stato affermato che: «la riforma del diritto delle
società di capitali allarga la legittimazione teorica del socio a recedere e
rende “effettivo” il diritto di recesso mediante il miglioramento delle
regole in materia di valutazione della partecipazione. Inoltre, la
novellata disciplina del recesso prevede una particolare procedura del
rimborso della partecipazione del socio uscente, al fine di tutelare gli
assetti proprietari e gli interessi dei creditori della società». N. ANGIOLA, Il
diritto di recesso del socio di società di capitali. Riflessioni economicoaziendali alla luce dell’innovata disciplina civilistica, in N. ABRIANI, T.
ONESTI (a cura di), La riforma delle società di capitali. Aziendalisti e
giuristi a confronto, in Atti del Convegno tenutosi a Foggia il 12 e il 13
giugno 2003, Giuffrè, Milano, 2004, p. 314.
[50] La dottrina e la prassi economico aziendale sono unanimemente
d’accordo nel ritenere che una metodologia di stima del valore
economico di un’azienda o di un ramo di essa, per potersi considerare
valida debba rispondere, almeno, al requisito della razionalità,
obiettività e generalità. Sul punto, nell’ampia disponibilità di contributi,
si rinvia, al lavoro di: G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle
aziende. V edizione riveduta, Giappichelli, Torino, 2005.
[51] Sullo specifico tema del capitale economico e sulle metodologie di
valutazione si confronti, nell’ampia dottrina nazionale: A. AMADUZZI, La
teoria della valutazione dei complessi aziendali, in Rivista di Politica
Economica, 1954; E. ARDEMANI, La determinazione del prezzo di cessione,
in Saggi di Ragioneria e di Economia Aziendale, Scritti in onore di
Domenico Amodeo, Cedam, Padova, 1987; T. BIANCHI, Some Reflections
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20
on Economic Value of Production Concern Capital, in Economia
Aziendale, 1982; C. CARAMIELLO, La valutazione dell’azienda, Giuffré,
Milano, 1993; M. CATTANEO, Alcune osservazioni sulla scelta della
formula della valutazione del capitale economico, in Finanza, Marketing
e Produzione, n. 1, 1986; G. CERIANI, Il trasferimento dell’impresa in
economia aziendale, Cedam, Padova, 1990; V. CODA, Introduzione alle
valutazioni dei capitali economici d’impresa, Giuffrè, Milano, 1963; G.
FERRERO, La valutazione economica del capitale d’impresa, Giuffrè,
Milano, 1966; L. GUATRI, La valutazione delle aziende. Teoria e pratica
dei paesi avanzati a confronto, Giuffrè, Milano, 1995; C. MASINI, La
dinamica economica dei nei sistemi di valori d’azienda: valutazioni e
rivalutazioni, Giuffrè, Milano, 1984; P. MELLA, Il valore di cessione. Il
capitale economico e l’expected discounted cash flow, in Contabilità e
Bilancio, n. 20, 1986; L. OLIVOTTO, La valutazione economica del capitale
d’impresa, Cedam, Padova, 1983; P. ONIDA, Le dimensioni del capitale di
impresa. Concentrazioni, trasformazioni, variazioni di capitale, Giuffrè,
Milano, 1944; O. PAGNANELLI, Valutazione delle aziende. Principi e
procedimenti, Utet, Torino, 1990; N. ROSSI, Contributi allo studio del
capitale-valore nelle imprese, Utet, Torino, 1965; C. SORCI, Note critiche
e metodologiche sulla valutazione delle aziende avviate, in Rivista dei
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Riflessioni in tema di recesso del socio da società consortile tra