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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 11 ottobre 2012, n. 17320
A cura di Sarah Cantarella
La Suprema Corte interviene ancora in tema di danno tanatologico
Sommario: 1. Premessa- 2. Il Caso- 3. Una questione dibattuta: perdita della vita e risarcimento del
danno- 4. Gli argomenti contrari: la posizione della giurisprudenza- 5. Gli argomenti a favore: la
posizione della dottrina- 6. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Nell’ambito della ricostruzione sistematica del danno non patrimoniale concessa dalle Sezioni
Unite della Suprema Corte di Cassazione del 2008, particolare rilievo assume la costante negazione
della ristorabilità della perdita della vita in favore del soggetto deceduto. In proposito le Sezioni
Unite si sono limitate ad ammettere solo il risarcimento del danno subito dalla persona danneggiata,
rimasta lucida quodam tempore nella consapevole attesa della morte, laddove l’evento morte segua
“dopo breve tempo” dall’avvenimento dannoso, sulla scorta della considerazione che la vittima
soffre “una sofferenza psichica di massima intensità”, anche se “di durata contenuta”, in ragione del
breve lasso di tempo tra lesioni e morte ( Cass. Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973). In seguito alla
pronuncia del 2008, mentre la perdita del congiunto ha trovato ristoro nel riconoscimento della
risarcibilità iure hereditatis da parte della giurisprudenza di merito, nella giurisprudenza di
legittimità è stato confermato che il c.d. danno tanatologico deve essere ricondotto al danno morale,
concorrendo alla relativa liquidazione, non potendo ritenersi assimilabile alla nozione di danno
biologico c.d. terminale ( Cass., 13/01/2009, n. 458; Cass. 27/05/2009 n. 12326; Cass. 8/04/2010 n.
8360; Cass. 29/05/2012, n. 8575). In particolare è stato affermato che il risarcimento del c.d. danno
catastrofale, il quale presuppone la consapevolezza in capo alla vittima dell’imminenza della morte
o della grave entità delle lesioni subite, può essere fatto valere iure hereditatis solo a condizione che
sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte ( Cass. 24/03/2011, n.
6754).
La decisione in commento, in aderenza all’orientamento riferito, ribadisce la non ristorabilità del
danno tanatologico, aprendo nuovamente così il dibattito intorno a tale ius controversum.
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2. Il Caso
La vicenda di specie trae origine dalla richiesta risarcitoria avanzata dai familiari di un
ragazzo rimasto ucciso in seguito a fatto illecito. Tra le poste di danno dedotte in giudizio,
veniva allegato anche il danno biologico e morale iure hereditatis patito dal giovane. I parenti
della vittima non soddisfatti delle risultanze dei giudizi di primo e secondo grado ricorrono
dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione sollevando, tra le varie doglianze, una questione di
costituzionalità sulla scorta della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 32 Cost, nel
punto in cui la Corte di Appello ha escluso la risarcibilità del danno biologico e morale
terminale. Si sostiene infatti come le lesioni mortali con exitum immediato o quasi immediato,
in relazione alla perdita del bene della vita siano identiche e pertanto riconoscere solamente il
risarcimento nel caso di lesione mortale, che permetta una breve sopravvivenza, configurerebbe
una palese incostituzionalità.
In altri termini la Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a verificare se il caso di specie
trovi un’adeguata tutela a livello nazionale sotto il profilo della responsabilità civile, ovvero se
il giudice nazionale possa innalzare il livello di protezione in ambito sovranazionale e pertanto
sollevare la questione di rinvio pregiudiziale ex art. 276 TFUE nonché ai sensi dell’art. 6, par. 1,
CEDU.
3. Una questione dibattuta: perdita della vita e risarcimento del danno.
Com’è noto il risarcimento del danno costituisce solo una forma di tutela conseguente alla
lesione di “un diritto di credito, diverso dal diritto inciso, ad essere tenuto per quanto è possibile
indenne dalle conseguenze negative che dalla lesione del diritto derivano, mediante il ripristino
del bene perduto, la riparazione, l’eliminazione della perdita o la consolazione- soddisfazionecompensazione se la riparazione non sia possibile”. Ciò posto non sarebbe allora giuridicamente
concepibile che dal soggetto deceduto venga acquisito un diritto che gli deriverebbe dal fatto
stesso della sua morte. In altri termini citando Epicuro: “ […] quando ci siamo noi non c’è la
morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i
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morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a
non esserci [...]”.
In tal senso sarebbe logicamente inconfigurabile la stessa funzione del risarcimento che, nello ius
civile del nostro ordinamento, non ha funzione sanzionatoria quanto piuttosto riparatoria ovvero
consolatoria. Secondo tale argomentare il risarcimento “assumerebbe in tal caso una funzione
meramente punitiva, viceversa assolta dalla sanzione penale. E si risolverebbe in breve in una
diminuzione di quanto riconosciuto iure proprio ai congiunti.” (Cass. 17/07/2012 n. 12236).
Ciò posto, preme sottolineare come la pronuncia in commento non presenti rilevanti novità
rispetto alle precedenti decisioni, collocandosi perfettamente in quella parte dell’atlante
giurisprudenziale contrario alla risarcibilità del danno tanatologico. Le considerazioni da trarsi
per le statuizioni contenute in tale arresto sono le medesime già espresse in precedenza e che
possono essere così brevemente richiamate: 1) un diritto non può sorgere in capo a chi non ha
capacità giuridica, in quanto deceduto;
2) intrasmissibilità del danno tanatologico, tale
pregiudizio secondo la Corte di Cassazione, incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui
perdita, per il venir meno del soggetto titolare, non può tradursi nel contestuale acquisto al
patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento trasferibile agli eredi; 3)
irrilevanza della mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita, atteso che il risarcimento del
danno non svolge funzioni sanzionatorie, ma di reintegrazione e riparazione; 4) la morte non
può provocare nel defunto una sofferenza morale, e pertanto idonea ad essere risarcita.
4. Gli argomenti contrari: la posizione della giurisprudenza.
L’orientamento dominante in giurisprudenza postula che la lesione dell’integrità fisica a cui
segua la morte, intervenuta immediatamente ovvero a breve distanza, non configurerebbe un
danno biologico tout couture, sulla scorta della considerazione che la morte non costituirebbe la
massima espressione della lesione del diritto alla salute, quanto piuttosto essa stessa
inciderebbe sul diverso bene giuridico del diritto alla vita, non risarcibile in quanto rilevi la
funzione non sanzionatoria quanto piuttosto di reintegrazione e riparazione degli effettivi
pregiudizi propri del risarcimento del danno. Ed inoltre la conseguente impossibilità che lo
stesso operi quando il titolare del bene vita abbia cessato di esistere, non essendo possibile ne
ipotizzabile un risarcimento per equivalente che operi quando la persona sia deceduta.
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L’esposta argomentazione, trovò immediato riscontro nella Consulta, che nel 1994 affermò
espressamente: “ un diritto può sorgere in capo alla persona deceduta limitatamente ai danni
verificatisi dal momento della lesione a quello della morte, e quindi non sorge in caso di morte
immediata, la quale impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona
offesa, ormai non più in vita”.
Da qui in poi, in ogni pronuncia che statuisse sulla domanda di risarcimento del danno da
perdita di vita, venne sancita l’irrisarcibilità.
L’argomento giuridico ricorrente divenne il seguente: la lesione dell’integrità fisica a cui segua
l’esito letale non può considerarsi la più grave forma possibile della lesione alla salute, in
quanto la tutela di tale bene implica che il soggetto leso resti in vita invalido, mentre se la
persona offesa perisce in conseguenza delle lesioni senza una fase di consapevole lucidità,
l’immediata morte impedisce che la lesione del bene giuridico della salute sia risarcibile per
colui che non è più in vita.
Alla base di tale orientamento risiede la convinzione che non sia possibile compensare una
persona deceduta, ovvero non sia dato di riportarla allo stato previgente della lesione, cioè
quella che in campo economico viene definita “curva di indifferenza” iniziale.
Quanto esposto però va incontro ad una grande obiezione: se le regole della responsabilità
civile non sono in grado di attribuire alcun risarcimento, verrebbe a crearsi un ingiustificato
effetto di deficit di giustizia distributiva. In altri termini, chi muore perde tutto senza essere
risarcito e chi cagiona la morte non deve risarcire nulla. Così facendo si sanzionerebbe una
fattispecie meno grave, lasciando priva di tutela una fattispecie più grave. Quest’ultimo aspetto
si presta ad una riflessione ulteriore: argomentando in tal guisa il sistema apparirebbe
profondamente iniquo ed ingiusto. Citando Voltaire: “ il sentimento di giustizia è così
universalmente connaturato all’umanità da sembrare indipendente da ogni legge, partito o
religione”, ciò posto è da chiedersi se a questo punto la soluzione della ristorabilità del danno
tanatologico non vada ricercata aliunde.
5. Gli argomenti a favore: la posizione della dottrina.
All’orientamento prevalente in giurisprudenza si contrappone una corrente dottrinaria la
quale propende per il riconoscimento del danno c.d. tanatologico. Secondo autorevole dottrina,
infatti, è possibile confutare ogni singola argomentazione posta alla base della negata
ristorabilità del danno da perdita della vita.
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Giova pertanto all’ordine dell’esposizione procedere alla disamina delle singole
argomentazioni, per poi giungere, attraverso un percorso deduttivo, alla configurabilità ex iure
civili del danno da morte immediata.
Occorre partire dalla prima obiezione: il diritto al risarcimento non può sorgere in capo a chi
non ha la capacità giuridica. Si parte dall’assunto che la vittima perde con la vita la propria
capacità giuridica e di conseguenza non può acquisire alcun diritto al risarcimento. Tuttavia
occorre partire da una precisazione: non è risarcibile il danno evento, ma solo il dannoconseguenza ( Cass. 11 novembre 2008, n. 26972).
Se si tiene fermo tale principio diviene irrilevante riconoscere che il danno –evento, ossia la
lesione mortale, si verifichi solo quando la vittima è ancora in vita. In tal senso è da precisare
che i danni-conseguenza, i soli rilevanti ai fini del risarcimento, sono successivi all’evento della
morte e colpiscono la vittima ormai sprovvista di capacità giuridica. Tuttavia la irrisarcibilità
del danno-evento non ha riscontro normativo e spesso viene anche sconfessato dallo stesso ius
vivente. Basti ricordare come grazie alla giurisprudenza sia stato riconosciuto il risarcimento
delle lesioni arrecate ai valori della persona prescindendo dalle conseguenze pregiudizievoli.
Ciò posto, dunque, laddove il fatto lesivo cagioni alla vittima la perdita della vita, è il danno per
la perdita di siffatto bene giuridico,in sé e per sé considerato, che deve essere risarcito. In altri
termini occorre ammettere che il danno da perdita della vita sorge al momento in cui la vittima
è ancora in vita perché è quando è in vita che subisce il danno della privazione della vita.
Seconda obiezione confutabile: le azioni strettamente personali non si trasmettono agli eredi.
Secondo autorevole dottrina tale orientamento sarebbe stato superato dalla stessa
giurisprudenza, la quale oramai riconosce che il diritto al risarcimento del danno è cedibile e
trasmissibile in via ereditaria ( Cass. 2 febbraio 1991, n. 1003). Inoltre la cedibilità e la
trasmissibilità sono ammesse anche quando il danno si sostanzia nella lesione dell’integrità
psicofisica, e pertanto nulla quaestio laddove si tratti di lesione dell’integrità psicofisica che
causa la morte della persona.
Altra contestazione riferita dalla giurisprudenza afferma che la vittima non possa beneficiare
del risarcimento. Vero è che la condanna al risarcimento sarebbe a favore degli eredi estranei al
danno da morte, non potendo in tal senso assolvere ad una funzione riparatoria quanto piuttosto
punitiva. Si configurerebbe, in altri termini, una nuova figura di danno c.d. punitivo, che la
giurisprudenza ha più volte ritenuto avulso dal nostro sistema ordinamentale. Tuttavia, si
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osserva, occorre effettuare una precisazione in merito. L’autore del fatto letale non verrebbe
punito, bensì condannato a risarcire il danno che ha causato, a nulla rilevando che il suddetto
risarcimento venga percepito dai prossimi congiunti, dal momento che risulta ben chiaro il
titolo dell’obbligazione. Inoltre è da precisare come attraverso la trasmissione ereditaria del
credito la vittima tragga vantaggio dallo stesso risarcimento, poiché il credito viene destinato a
coloro che la vittima ha interesse a beneficiare, accrescendo in tal senso l’eredità lasciata ai
propri congiunti.
Altra argomentazione contro la risarcibilità del danno tanatologico poggia sul rilievo che la
morte non provoca una sofferenza morale, in altri termini il danno morale è irrisarcibile poiché
non sussiste. Com’è stato rilevato in dottrina alla base di tale assunto è riscontrabile la
concezione che assimila il danno non patrimoniale al danno morale soggettivo, ovvero al
patema d’animo. Ciò posto è da rilevare come il danno morale soggettivo è una componente del
danno non patrimoniale rappresentato dalla perdita di un bene essenziale della persona. La
mancanza della sofferenza morale non toglie che la vittima abbia ad ogni modo subito il danno
di quella perdita, non precludendo, pertanto, il diritto al risarcimento in favore della persona
che non sia in grado di percepire una sofferenza morale. In tal senso particolarmente
significativa risulta il riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale causato agli
enti giuridici. Una siffatta posta di danno va risarcita in quanto dev’essere ristabilito l’ordine
turbato dalla lesione di un bene non patrimoniale ad esso appartenente, come ad esempio il
nome, l’immagine). In tal guisa coerenza vuole che non vanga negato il risarcimento alla
persona adulta che a seguito della lesione subita alla propria integrità psicofisica sia divenuta
incapace di sofferenza morale.
In conclusione, dunque, è possibile affermare, alla luce di siffatte considerazioni dottrinali
come non sussistano valide ragioni giuridiche per negare l’ingresso alla risarcibilità del danno
da perdita della vita.
6. Osservazioni Conclusive.
Riassunto in tal modo il quadro dei contrapposti orientamenti occorre porsi un
interrogativo: la questione del danno tanatologico si atteggia come un problema di categorie
giuridiche? In altri termini, bisogna forse riflettere intorno al fatto che la soluzione del problema
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de quo passi attraverso l’affrancazione da categorie giuridiche obsolete ed inadeguate e se ne
creino di nuove e più confacenti alle esigenze della società?.
Le risposte ai quesiti sollevati devono ad ogni modo partire da un assunto: la morte
dev’essere considerata come il massimo danno del diritto alla salute ( Pardolisi). In tal senso
sarebbe del tutto illogico lasciare priva di ogni tutela la massima espressione della lesione del
diritto alla salute. Ciò posto occorre partire da una premessa: i giuristi sono generalmente
convinti che le categorie giuridiche rappresentino delle scatole preconfezionate in cui collocare il
fatto. O meglio che le stesse non siano altro che dei dati oggettivi esistenti in rerum natura come
il fatto da qualificare.
In realtà il lavoro del giurista non si sostanzia solamente nell’accertare i fatti concreti e
nell’inquadrarli giuridicamente, quanto piuttosto di creare nuova categorie giuridiche astratte,
necessarie a supplire le sempre maggiori necessità della realtà circostante. Dimostrazione di tale
fenomeno è per esempio il caso dell’ampliamento della nozione di danno non patrimoniale
compiuta dalla giurisprudenza (Cass. 31/05/2003 n. 8827) che ha capovolto la tradizionale
prospettiva: dalla tipicità del danno non patrimoniale si è passati all’opposta tesi della atipicità
dello stesso.
Ciò posto l’impressione che emerge è che la giurisprudenza, sul problema da perdita della
vita, sia rimasta schiava di schemi concettuali obsoleti, rappresentati in particolare da due
postulati: a) il postulato della soggettività, e cioè l’opinione che il soggetto esista prima ed a
prescindere dai modi in cui l’ordinamento giuridico lo assume a punto di riferimento delle
proprie qualificazioni; b) il postulato della coincidenza tra vittima del danno e titolare del diritto
al risarcimento. Ciononostante occorre rilevare come la distruzione della vita umana non è
soltanto un danno per la vittima, ma costituisce un’offesa per il suo nucleo familiare, un costo
per la società. Pertanto si ridurrebbe tutto ad un mero schematismo concettuale limitare la lesione
del bene protetto solo in capo alla vittima. Ciò che dovrebbe rilevare è che la tutela non sia
circoscritta al soggetto titolare, quanto piuttosto estesa alla collettività. Se dunque la vita si possa
ricondurre al concetto di interesse generale, non si vede perché la perdita della stessa non debba
essere risarcita.
Il punto nodale della questione è proprio questo: la morte è un danno per la persona ed un
costo per la società, al quale deve corrispondere un risarcimento capace di trasmettere ai
consociati il disvalore dell’uccisione e la deterrenza della reazione dell’ordinamento.
In conclusione,
dunque, giustificare soluzioni sulla base di categorie classificatorie
preconfezionate è ingiustificato e ambiguo quando si tratta di affrontare problemi nuovi come
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quello relativo alla ristorabilità del danno tanatologico. Sarà dunque compito del giurista mettere
in discussione gli schemi tradizionali, modificandoli e creandone di nuovi. Oggi pertanto è
giunto il momento di compiere un passo ulteriore ed esplicito in questa direzione, ossia verso
l’integrale tutela non solo di tutti i beni della vita ma del bene stesso della vita.
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