Antonio Mele
I Montalto di Fragnito a Volturino
di Antonio Mele
1. Introduzione
Obiettivo di questa ricerca* è quello di connotare la concreta gestione del
feudo di Volturino, in Capitanata, da parte degli esponenti del casato Montalto di
Fragnito, signori di esso dal 1628 sino all’eversione della feudalità.
Si propone quindi un’indagine contenuta entro limiti geografici molto ristretti, e ciò non solo per comodità di studio, ma anche, e soprattutto, per le molteplici questioni relative alla società del Regno di Napoli in età moderna che possono
essere colte dal punto di vista di una singola unità feudale. A quest’ultima possono
infatti essere (e sono stati) connessi una pluralità di significati storici, dei quali citiamo qui di seguito quelli maggiormente tenuti in considerazione nell’impostazione
di questo lavoro.
Innanzitutto il feudo offre spunti di riflessione come spazio geografico,
abitativo, economico, amministrativo e sociologico autonomo,1 ma al contempo
inserito in una trama di rapporti con altri feudi o città demaniali, per le caratteristiche dei quali hanno grande importanza il contesto territoriale e produttivo e le
gerarchie amministrative a livello locale.
In secondo luogo, allargando il campo di osservazione, non può negarsi che il
feudo “fu un importante nodo politico dell’età moderna nel Regno di Napoli, apparentemente in contraddizione con le dottrine assolutistiche della monarchia ma in
realtà mai aggredito nella sua essenza da essa”.2 In effetti né la monarchia spagnola
nei secoli sedicesimo e diciassettesimo, né quella borbonica nel Settecento disposero
mai dei mezzi per mantenere un ‘moderno’ apparato statale in grado di garantire
l’amministrazione (essenzialmente la giurisdizione e l’esazione fiscale) di zone rurali
spesso lontane e difficilmente raggiungibili dalla capitale. E la struttura signorile offriva indubbiamente al potere centrale un’alternativa economica, e del tutto funzionale ai suoi scopi, di controllo politico–sociale del territorio. Controllo che poteva
alternativamente basarsi sul “consenso, sulla consuetudine, sulla minaccia”,3 a secon-
* Tesi di laurea discussa nell’Anno Accademico 2000/2001 presso l’Università degli Studi di Bari, Facoltà
di Lettere, relatore il prof. Saverio Russo. Le immagini sono state pubblicate su autorizzazione dell’Archivio
di Stato di Napoli, prot. n. 1999.
1
Michèle BENAITEAU, Vassalli e cittadini, Bari, Edipuglia, 1997, pp. 118-119.
2
Ibid., pp. 16 – 17.
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da che, parallelamente all’azione delle istituzioni comunali, non pregiudicasse i diritti
attribuiti ai contadini dalla tradizione.4
In un tale contesto politico non sorprende che il feudo fu per tutta l’età moderna, ed oltre, il bene che più di ogni altro connotava la ricchezza e lo status dell’aristocrazia del Regno di Napoli,5 il bene al centro delle strategie economiche e
famigliari (successorie, matrimoniali, ecc.…) di ogni casato.
Come dice bene Tommaso Astarita, non si può prescindere dalla “grande
importanza del carattere feudale dell’aristocrazia napoletana nel determinare il suo
reddito, il suo ruolo politico, la sua autorappresentazione, le sue strategie familiari
e le sue relazioni con la popolazione rurale del Regno. Anche dopo l’insediamento,
a metà del sedicesimo secolo, di una solida amministrazione da parte dei viceré
spagnoli l’aristocrazia dominava economia e società. Leggi feudali, tradizioni e istituzioni erano usate o adattate dall’aristocrazia per proteggere i suoi patrimoni dalla
dispersione e diminuzione. I valori e le tradizioni feudali (che possono in certi casi
ridursi alla mera retorica feudale)6 erano cruciali nel determinare lo status di una
famiglia entro l’aristocrazia in generale e quindi nel formare la sua politica di alleanza. I vecchi clan feudali giocavano un importante ruolo politico nella vita della
città di Napoli e del Regno in generale. La rendita da fonti feudali non dipendenti
dal possesso di terra rimase un elemento sostanziale della rendita aristocratica sino
a ben dentro il diciottesimo secolo. Le tradizioni e le concezioni feudali foggiavano
i legami dell’aristocrazia con la popolazione contadina e giocavano un ruolo importante nel rafforzare il controllo aristocratico della vita provinciale del regno”.
Tutte queste considerazioni di carattere generale fanno da sfondo ai quattro
paragrafi di questa ricerca, basata principalmente su documenti tratti dall’archivio
privato della famiglia Montalto di Fragnito, conservato presso l’Archivio di Stato
di Napoli.
Nel primo di essi si cercherà di connotare l’ambiente geografico del feudo di
Volturino, data la forte influenza del contesto territoriale sull’assetto agrario, sul
regime della proprietà fondiaria, sulle attività produttive e le relazioni degli abitanti
della comunità con l’esterno.7
Nel secondo paragrafo delineeremo, risalendo sino all’età medievale, la storia del casato dei Montalto, cercando di seguirne l’ascesa dal rango di famiglia
baronale del Regno di Sicilia nel Basso Medioevo, sino a quello di famiglia ducale
del Regno di Napoli nel Seicento. Come vedremo, nel salto di qualità del casato,
che si compie essenzialmente nel corso del sedicesimo secolo, in una fase di parziale
rinnovamento dei ranghi della feudalità napoletana,8 un ruolo di fondamentale im3
Loc. cit.
4
Tommaso ASTARITA, The continuity of feudal power. The Caracciolo di Brienza in Spanish Naple,
Cambridge University Press, 1992, p. 235.
5
Ibid., pp. 233-234.
6
Renata AGO, La feudalità in età moderna, Roma – Bari, Laterza, 1994.
7
M. BENAITEAU, Vassalli e cittadini…, cit., pp. 117 e segg.
8
Giuseppe GALASSO, La feudalità napoletana nel secolo XVI, in Elena FASANO GUARINI (a cura di),
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portanza avranno le scelte di carriera, le strategie successorie e di alleanza matrimoniale.
Il terzo paragrafo sarà dedicato alla descrizione del patrimonio dei duchi di
Fragnito in Volturino, nelle sue componenti sia feudali che allodiali. Come brevemente vedremo, questi due tipi di beni presentavano caratteristiche diverse dal punto
di vista giuridico, soprattutto riguardo alla libertà di alienazione, fatto tenuto in
non poca considerazione dalle famiglie feudali nelle loro strategie patrimoniali.
Il quarto ed ultimo paragrafo sarà invece dedicato alla connotazione della
comunità locale dei vassalli, per quanto attiene essenzialmente all’evoluzione dell’articolazione socio-professionale nel periodo considerato, alla distribuzione dei
poteri tra corte baronale ed università - qui saranno dunque analizzati i diritti
giurisdizionali in possesso del signore - ed alla dinamica delle relazioni tra di esse.
Cercheremo inoltre di rilevare se, all’interno della comunità locale, i duchi di Fragnito
furono capaci di intessere rapporti clientelari all’interno del feudo e di caratterizzare basi ed effetti, sulla realtà politica ed economica della comunità, di tali alleanze.
2. Inquadramento geografico di Volturino
Volturino è oggi un comune della Capitanata di 2224 abitanti,9 e dista dal
capoluogo poco più di 40 chilometri in direzione ovest. Il suo abitato si concentra
su di un poggio alto 735 metri che appartiene al contrafforte più orientale (l’ultimo
prima della pianura del Tavoliere) dei Monti del Subappennino Dauno.
Un apprezzo del 169810 ci fornisce le distanze esatte di Volturino dai centri
ad esso confinanti, ossia Alberona, sita due miglia a sud; Volturara, quattro miglia
ad ovest; Lucera, otto miglia ad est; Motta Montecorvino, due miglia a nord. Quest’ultimo feudo, appartiene dagli anni ottanta del Cinquecento alla famiglia Montalto,
insieme a quello di Pietra Montecorvino, sito altre due miglia a nord di Motta. Dal
1628 anche Volturino, con la città di Volturara, entrerà a far parte di questo stato
feudale dei duchi di Fragnito, casato di cui tratteggeremo la storia e l’ascesa nel
prossimo capitolo.
Un altro dato geografico utile da riportare è la distanza di questo feudo dalla
capitale Napoli, ossia novantotto miglia, da percorrere opzionalmente su due strade: quella “per Ariano Irpino”, abbastanza larga da consentire l’utilizzo sia di una
carrozza, sia di un calesse; e quella “per Campobasso”, percorribile soltanto con
quest’ultimo.11 Inoltre il demanio di Volturino era attraversato dal Tratturo Regio
che collegava i centri di Lucera e Castel di Sangro negli Abruzzi.12 Come vedremo
Potere e società negli stati regionali italiani del ‘500 e ‘600, Bologna, il Mulino, 1978, p. 249 e segg.
9
Cifra tratta dal sito ufficiale della Provincia di Foggia, www.provincia.foggia.it.
ASNA, Archivio Montalto (d’ora in poi A. M.), b. 3 G/4 A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
11
Ibid.
12
ASFG, Atlante geografico del Regno di Napoli delineato per ordine di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie da
Giovanni Antonio Rizzi- Zannoni geografo di Sua Maestà e terminato nel 1808.
10
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nel terzo paragrafo, ciò poneva questo feudo su di una delle rotte principali della
transumanza,13 con effetti non trascurabili per l’economia signorile.
All’interno del vasto territorio di Volturino, del perimetro di undici miglia,14
le maggiori pendenze e i più alti rilievi (come il Montorso di 860 metri o il Monte
La Guardia di 856 metri)15 sono collocati nei margini meridionale ed occidentale.
Man mano che da questi si procede verso nord e verso est, la pendenza del terreno
si riduce, così come l’altezza delle colline, sino a trovare, nella parte orientale del
contado, zone pianeggianti come quelle di Selvapiana, Vadocarro e Grotticelle (od
Orticelle).
Di queste zone, indicate oggi con gli stessi toponimi di trecento anni orsono,
le ultime due sono senza dubbio quelle più favorevoli alla cerealicoltura, all’interno
di un territorio costituito principalmente da colline boscose.
In età moderna esso conteneva una grande quantità di boschi e foreste di
querce,16 sui monti ed in piano, di cui oggi solo esigue parti sono sopravvissute al
disboscamento. Vanno ricordati tra questi, la foresta di Selvapiana, posta nel cuore
del demanio di Volturino, il bosco Marano e quello di Santa Lucia, tutti in grado di
fornire abbondanti pascoli, legna e selvaggina da cacciare, come volpi, lepri e cinghiali.17
I principali corsi d’acqua del territorio di Volturino, individuabili anche nella
cartografia del primo Ottocento,18 sono tre: “la Canala”, indicato in passato come
“Guado del Mulino”, che lambisce la pendice meridionale della collina ove è posto
l’abitato, il “Canale del bosco di S. Lucia” e il “Radicosa” o “Fiumara di Volturino”, il cui letto separa il demanio di questo centro (a sud) da quello di Motta Montecorvino. Tutti di regime prettamente torrentizio, ossia spesso secchi in estate e
straripanti nei periodi più piovosi, con pericolo costante di inondazione per le coltivazioni.19
Di certo il regime idrografico di questo territorio era in età moderna molto
differente da quello attuale, come dimostra la vicenda dei suoi laghi. L’agro infatti
ne conteneva due, uno chiamato Lago Vitrelli, prosciugato artificialmente nel 1882,
l’altro, il Lago Santa Lucia, scomparso alla fine del Settecento, probabilmente per
effetto di un prosciugamento naturale.20
13
Su questo fenomeno caratteristico dell’economia pastorale del Regno di Napoli, cfr. John MARINO,
L’economia pastorale nel Regno di Napoli, Napoli, Guida, 1992.
14
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
15
Salvatore SAVASTIO, Notizie storiche sul Comune di Volturino in Provincia di Foggia, Pozzuoli, Ind.
Grafica Puteolana D. Conte, 1940, p. 3.
16
Ibid.; nell’apprezzo del 1698, in un periodo di grande depressione demografica, il territorio boscoso
appare nettamente più vasto del seminativo.
17
Domenico DEMARCO (a cura di), La statistica del Regno di Napoli del 1811, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1988, p. 419.
18
ASFG, Atlante geografico del Regno di Napoli delineato per ordine di Ferdinando IV Re delle Due
Sicilie da Giovanni Antonio Rizzi- Zannoni geografo di Sua Maestà e terminato nel 1808.
19
D. DEMARCO, La statistica del Regno di Napoli…, cit., p. 384.
20
S. SAVASTIO, Notizie storiche sul Comune di Volturino...., cit., pp. 85-87.
218
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La costituzione geologica del territorio di Volturino è quella tipica di tutta la
regione del Subappennino Dauno, caratterizzato dalla prevalenza delle argille su di
un sostrato di calcare. Ne risulta un suolo principalmente pietroso ed in gran parte
arido sulle alture, spogliate, da parte degli agenti atmosferici, della terra più fertile,
che viene trasportata nelle pianure e nelle depressioni.
Il reticolo idrografico non può che essere caratterizzato, in questo ambiente,
dalla grande irregolarità di torrenti e canali, i quali, proprio per la presenza di argille e calcari, non compiono solo un’azione di erosione meccanica, ma anche un’azione chimica di soluzione, producendo, in alcune zone, spaccature e calanchi nel terreno. L’acqua in tal modo viene spesso richiamata nel sottosuolo, il che determina
una grande scarsità di acque superficiali. In qualche rara occasione la presenza di
strati argillosi impone alle acque di fermarsi a pochi metri di profondità, dando
luogo a falde freatiche che possono generare sorgenti di acqua molto pura e buona
da bere.21
Nelle zone più basse tuttavia, queste caratteristiche geologiche favorivano,
nei secoli passati, la formazione di vasti impaludamenti ed acquitrini, dove prosperava l’anofele, la zanzara capace di trasmettere all’uomo la malaria.
Proprio l’esigenza di sfuggire a questa malattia, insieme a quelle di difesa,
rendono predominante nel paesaggio del Regno di Napoli, la tipologia dell’abitato
concentrato su di un’altura,22 tipologia di cui Volturino è un perfetto esempio.
Le antiche preoccupazioni difensive sono testimoniate, agli occhi del redattore dell’apprezzo del 1698, anche dalla presenza di rovine della muraglia e di torri
quadre e tonde di fortificazione. Alla fine del Settecento restano solo rovine pure
della porta orientale del villaggio, quella in direzione della città di Lucera, mentre
quella occidentale appare ancora in buono stato.23
Le porte del paese sono i termini della strada principale, spina dorsale, a
Volturino come nella maggior parte dei centri dall’abitato concentrato, della rete
delle strade interne all’abitato.24 Da questa, dove affacciano gli edifici più rappresentativi, è possibile accedere ad una serie di vicoli25 che portano alle abitazioni più
umili, secondo una gerarchia degli spazi comune a tanti altri borghi rurali del Regno di Napoli. Questi vicoli (le rue nel dialetto locale) sono costruite, a Volturino,
in modo da attenuare il vento vorticoso che quasi ogni giorno soffia da ovest (chiamato favonio). Esso, incanalatosi nelle stradine occidentali, si frange contro gli edifici che, volutamente, chiudono il margine orientale di queste. In questo modo la
forza della corrente giunge alla strada principale molto attenuata.26
21
DEMARCO, op. cit., p. 393.
Gerard LABROT, Quand l’histoire murmure. Villages et campagnes du royaume de Naples (XVI- XVIII
siècle), Roma, École Française de Rome, 1995, p. 53 e segg.
23
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
24
G. LABROT, Quand l’histoire murmure..., cit., p. 75.
25
Ibid., p. 61 e segg.
26
SAVASTIO, op. cit., pp. 5-6.
22
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I Montalto di Fragnito a Volturino
A questo vento costante è attribuita dall’apprezzatore del 1698 la “bontà dell’aria”, uno dei motivi di lode maggiore del feudo di Volturino insieme all’abbondanza dei boschi e delle vigne. Possiamo invece riscontrare che alla fine del Seicento
è praticamente assente l’ulivo, motivo per cui i volturinesi comprano l’olio dai centri vicini.27
3. Breve storia della famiglia Montalto
Descritte le principali caratteristiche ambientali del feudo di Volturino, sarà
utile soffermarsi, in questo capitolo, sulla storia della famiglia che ne deterrà la
signoria a partire dagli anni trenta del Seicento, e fornire qualche elemento per connotarla all’interno della società nobiliare del tempo.
Ci è di supporto, a questo proposito, un’opera, di chiaro intento celebrativo,
scritta dall’avvocato napoletano Giuseppe Aurelio Di Gennaro nel 1735,28 in occasione delle nozze tra Antonio Montalto, duca di Fragnito, e Maddalena Imperiale,
nobildonna imparentata col Principe di Francavilla, al quale lo scritto è dedicato.
L’autore colloca nella Francia del secolo XII l’origine dei Montalto, signori
di vari castelli, tra cui quello di Montault, da cui essi prendono il nome.29
Le notizie italiane della famiglia risalgono alla metà del medesimo secolo, cioè
al tempo del re normanno di Sicilia Ruggero II (1130-1154), da cui Trasimondo
Montalto riceve la baronia della “terra” di S. Giuliano in Capitanata, come compenso
per l’aiuto militare prestato durante la conquista dell’isola.30 Siamo dunque di fronte
ad una famiglia di origine normanna che può vantare una nobiltà antica e di spada.31
Due generazioni dopo Trasimondo, nel ventennio (1245-1266) di più dura
lotta tra la dinastia sveva - al governo del Regno di Sicilia dal 1220 con l’insediamento dell’imperatore Federico II - e la Chiesa, osserviamo la scelta di Ruggero
Montalto a favore di quest’ultima, attraverso la sua alleanza con i papi Innocenzo
IV prima ed Alessandro IV poi, contro Manfredi di Svevia, il quale, per questo, lo
spoglia di tutti i suoi beni feudali, inducendolo a trasferirsi a Roma.
I figli di Ruggero, Jacopo e Trogisio, non abbandonano la fazione paterna e si
schierano dalla parte di Carlo d’Angiò, alleato della Chiesa, il quale, grazie all’appoggio di buona parte dei feudatari meridionali, batte Manfredi e diventa re di Napoli
nel 1266.32
27
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698. A nostro avviso erroneamente, il
redattore dell’apprezzo definisce scirocco il vento da cui è costantemente battuto Volturino.
28
Giuseppe Aurelio DI GENNARO, Della famiglia Montalto libri III, Bologna, Longhi, 1735.
29
Ibid., p. 4.
30
Ibid., p.10. Nella fonte c’è un errore, presumibilmente di stampa: si fa riferimento ad un Ruggero III. Sull’inquadramento storico dei regni normanno e svevo di Sicilia, cfr. Salvatore TRAMONTANA, La monarchia normanna e
sveva, in Giuseppe GALASSO (a cura di), Storia d’Italia, Torino, UTET, 1983, 24 voll.: vol. III, p. 437 e segg.
31
Per un affresco sulle stratificazioni nobiliari in Europa, cfr. Jean Pierre LABATUT, Le nobiltà europee dal
XV al XVIII secolo, Bologna, il Mulino, 1982.
32
Ibid., p. 14.
220
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Il ramo di Trogisio si sarebbe estinto alla generazione successiva, con un
Ruggero Montalto, signore del castello omonimo in Abruzzo, nominato, nelle fonti del Di Gennaro, soltanto in un “dispaccio di polizia” di Carlo II d’Angiò (12851309).33 A Jacopo, primogenito, vengono concessi dal nuovo sovrano alcuni feudi
nella Città di Carinola.34
Come è noto, nell’ultimo ventennio del tredicesimo secolo, si assiste, a seguito della rivolta antiangioina dei Vespri siciliani e di una lunga e devastante guerra
terminata nel 1302 con la stipula del trattato di Caltabellotta, alla conquista del
trono di Sicilia da parte di Federico, fratello cadetto del re d’Aragona Giacomo II
(1291-1327), ed alla separazione dinastica dell’isola dal Mezzogiorno continentale.35 Ebbene Riccardo, figlio di Jacopo Montalto, nella nuova temperie politica,
sceglie di rompere l’alleanza con la casa angioina e si trasferisce in Sicilia per combattere al servizio di Federico d’Aragona, che cerca di consolidare un potere destinato ad essere a lungo minacciato dai regnanti di Napoli. Una scelta, questa, descritta dal Di Gennaro come obbligata da “rilevanti disgusti, dal re Carlo II ricevuti”,36 giustificata quindi, secondo la connotazione “pattizia” del vincolo di fedeltà
tipica della cultura e della retorica feudale,37 della cultura che l’autore sa essere condivisa dai propri committenti. Riguardo alle successive vicende familiari dei Montalto
l’evento è significativo, poiché segna l’inizio della lunga storia della famiglia nell’isola siciliana, dove Riccardo stabilisce la propria casa e dove rimarrà anche dopo
la sua riabilitazione presso la corte angioina, accompagnata dalla restituzione di
tutti i suoi beni, precedentemente confiscati, nel regno di Napoli; tra questi, il feudo
calabrese di Regina.
Non è inutile ricordare che tale riabilitazione è propiziata dall’interessamento di personaggi del calibro di Ruggero Sanseverino e dell’ammiraglio Ruggero di
Lauria, con la cui nipote Riccardo celebra un matrimonio di grande prestigio.38
Di pari rilievo il prestigio dei matrimoni dei propri figli, Gerardo e Barnabeo.
Il cadetto, dopo un periodo di permanenza a Napoli alla corte di Roberto d’Angiò,
nel 1318 accorre, al seguito del sovrano, in aiuto della parte guelfa della città di
Genova, dove si stabilisce sposando una dama appartenente alla famiglia Boccanegra,
casato destinato a raggiungere i vertici del governo cittadino con Simone, primo
doge genovese, che ascende al potere dopo la rivolta popolare del 1339.39 E così ben
introdotte nel tessuto sociale della città ligure, le due successive generazioni di
Montalto giocano un ruolo di protagoniste della lotta di fazioni nell’ultimo ventennio
33
Ibid., pp.16-17.
Ibid., p. 15.
35
Salvatore TRAMONTANA, Gli anni del Vespro, Bari, Dedalo, 1989.
36
G. DI GENNARO, Della famiglia Montalto…, cit., pp. 17-18.
37
R. AGO, La feudalità in età moderna…, cit., pp. 138-145.
38
Ibid., pp. 18-19.
39
Sulla breve esperienza del “dogato popolare” di Boccanegra e sull’evoluzione in senso oligarchico dell’istituzione, cfr. Gabriella AIRALDI, Genova e la Liguria nel Medioevo, in G.GALASSO (a cura di), Storia d’Italia…, cit., vol. V, p. 364 e segg.
34
221
I Montalto di Fragnito a Volturino
del Trecento, soprattutto con Leonardo, figlio di Bernabeo, e il suo primogenito
Antonio, che assurgono entrambi alla dignità dogale.40 Il ramo genovese è definito
genericamente dal Di Gennaro, che ne narra le vicende sino alla metà del Quattrocento, estinto “moltissimi anni orsono”.41
Il primogenito di Riccardo, Gerardo, nel 1305 celebra un prestigioso matrimonio con Maria d’Alagona, imparentandosi quindi con quel Blasco d’Alagona
che è il punto di riferimento del baronaggio catalano di Sicilia, e tra i maggiori
fautori, nei primi decenni del Trecento, del consolidamento del potere aragonese,
insidiato per più di mezzo secolo dagli angioini e dai fuoriusciti siciliani ad essi
alleati.42 Nel 1313 Gerardo ottiene la Baronia di Boccheri, in Val di Noto, presso
Siracusa, dando inizio ad un ramo dei Montalto i cui esponenti appaiono in posizioni di comando, negli anni sessanta del Trecento, nella difesa del re Federico IV
dalle forze a lui ribelli.43 In cambio otterranno dal sovrano vantaggi finanziari, ma
soprattutto la possibilità di esercitare l’alta giustizia nel proprio feudo.44
Grazie a Raimondo, figlio cadetto del primo signore di Boccheri, è possibile
lo sviluppo di un ramo della famiglia Montalto in Francia. A questi viene infatti
concessa, dal re di Napoli Roberto d’Angiò, la carica di Conestabile di Provenza,
che lo porta a stabilirsi al di là delle Alpi. La mancanza di eredi diretti induce
Raimondo a trasmettere la propria eredità al nipote Jazzolino, cadetto del secondo
signore di Boccheri, il quale, trasferitosi in Francia, sposa la baronessa di Benac,
dando origine, secondo il Di Gennaro, alla dinastia dei de Montault de Benac, duchi di Navailles dal 1650.45
Parallelamente al ramo dei signori di Boccheri si sviluppa, dal 1365, un altro
ramo feudale della famiglia Montalto, a partire dall’acquisto da parte di Filippo,
cadetto del terzo barone di Boccheri emancipato dalla patria potestà, del feudo di
Lo Prato, sempre in Val di Noto. A questo feudo si aggiungeranno, dopo una generazione, quelli di Milocca ed Arcimusa,46 secondo una dinamica che appare propria
dei feudatari di questo Vallo nel Trecento e nel Quattrocento, coinvolti in “processi di ridistribuzione e di promozione di feudatari minori e di cadetti delle famiglie
antiche”, in un “quadro di grande stabilità delle famiglie antiche e di moderato
dinamismo volto al recupero della terra da parte dei gruppi nobiliari locali”.47
40
Le vicende del ramo genovese sono trattate da DI GENNARO, op. cit., pp. 20-37.
Ibid., p. 36.
42
S. TRAMONTANA, Gli anni del vespro…, cit., pp. 217, 276-277.
43
Francesco GIUNTA, Il Vespro e l’esperienza della “Communitas Siciliae”. Il baronaggio e al soluzione
catalano – aragonese dalla fine dell’indipendenza al Viceregno spagnolo, in Storia della Sicilia, Napoli, 1990,
vol. III, cap. II.
44
DI GENNARO, op.cit., p. 59.
45
Ibid., pp. 47-50 ; cfr. Jean Paul LABATUT, Les Ducs et Pairs de France au XVII siècle, Paris, Presses
Universitaires de France, 1972, p. 77.
46
DI GENNARO, op. cit., pp. 66-67.
47
Domenico LIGRESTI, La feudalità parlamentare siciliana alla fine del Quattrocento, in Maria Antonietta
VISCEGLIA (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, Bari, Laterza, 1992, p. 21.
41
222
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Dunque il secolo XIV è, per i Montalto, di grande espansione politica e
patrimoniale, in cui un ruolo catalizzatore assumono le strategie matrimoniali, cui
anche successivamente verrà rivolta molta attenzione. L’obiettivo dei matrimoni è
chiaramente quello di stringere “nuove solidarietà e alleanze”:48 la dote principale
delle spose, in questa fase, appare essere la possibilità di imparentarsi a gruppi di
potere radicati nei diversi contesti in cui si opera, partecipando ai quali, politicamente e militarmente, non tarderanno a pervenire al casato acquisizioni patrimoniali
significative.
Come rilevato da Maria Antonietta Visceglia, questa strategia di alleanze
matrimoniali è tipica di un lignaggio che tenda a distendersi in rami, di cui il maggior numero possibile si cerca di dotare di beni feudali. Laddove il patrimonio feudale è già cospicuo sono le scelte successorie, in un contesto legale che ancora lo
consente, a frazionare il possesso.49 Nel caso dei Montalto, che nel Trecento sono
in una fase di consolidamento patrimoniale, l’obiettivo perseguito è quello di promuovere, quando possibile, il cadetto,50 con nuove acquisizioni feudali, o con carriere politico amministrative che portano alcuni loro esponenti ad operare in luoghi anche lontani dalla Sicilia, come Genova o la Francia. Logicamente le intenzioni
strategiche di una famiglia feudale si devono confrontare con la congiuntura politica in cui si cerca di metterle in atto: come osserva Giovanna Motta,51 quella siciliana
della seconda metà del Trecento si dimostra propizia per l’accrescimento del potere
e del patrimonio di alcuni casati. Tra questi di sicuro si annovera quello dei Montalto,
i quali, legati alla fazione filoaragonese e imparentati con la potente famiglia
d’Alagona, appaiono, in questo contesto e sino alla fine del XV secolo, molto attivi
48
Maria Antonietta VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, i comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Napoli, Guida, 1988, p. 65: “Le vicende matrimoniali delle famiglie aristocratiche studiate mostrano come
tra il tardo Medioevo e gli inizi dell’Età Moderna, nel momento della più ampia affermazione del gruppo
familiare strutturato a rami di lignaggio, le preferenze matrimoniali sembrano denotare una volontà di equilibrio tra il matrimonio interno al lignaggio e la ricerca di nuove solidarietà ed alleanze. Lo scopo in entrambi i
casi è di salvaguardare e accrescere l’ampiezza delle signorie: l’endogamia di lignaggio permette, in una fase
storica in cui la legislazione feudale è ancora incerta e comunque in fieri, di fare passare i feudi alle linee
cugine, i matrimoni con le ereditiere di entrare in possesso di cospicue doti composte di beni feudali”.
49
Ibid., pp.15-27.
50
Sull’argomento in generale, cfr. Gerarde DELILLE – Antonio CIUFFREDA, Lo scambio dei ruoli: primogeniti - e, cadetti - e tra Quattrocento e Settecento nel Mezzogiorno d’Italia, in «Quaderni Storici», 1993, 83, pp.
507-527.
51
Giovanna MOTTA, Strategie familiari e alleanze matrimoniali in Sicilia nell’età della transizione (secoli
XIV-XVII), Firenze, Olschki, 1983, p. 31: “[…] le famiglie feudali di antica origine esercitano un ruolo fondamentale nella formazione dell’indirizzo politico della Corona, alcune volte condizionandolo anche pesantemente, altre volte sostituendosi addirittura al potere regio. Lo scorcio della fine del secolo decimoquarto
vede un regno di Sicilia di fatto inesistente: né il partito dei catalani né quello dei latini sembra avere la capacità
di esprimere un re, le lotte dei vicariati esauriscono le forze dell’isola in conflitti e tensioni difficili da superare.
Sullo sfondo di un equilibrio politico assolutamente instabile alcune tra le principali famiglie feudali realizzano, dalla sostanziale situazione di anarchia, crescite del loro potere politico e patrimoniale. Al di là delle
possibilità per così dire normali della classe feudale, le famiglie vicariali (e quelle legate ad esse) realizzano in
concreto uno strapotere rispetto alle altre, ponendosi come gruppi familiari maggiori rispetto alla rimanente
feudalità minore. Tra queste famiglie molte scompaiono presto dalla scena politica, altre riescono a conservare
situazioni di preminenza nell’età dei Martini ed ancora da Alfonso a Carlo V.”
223
I Montalto di Fragnito a Volturino
nella difesa militare del potere sovrano. Rilevante in questo senso la figura di Antonio, terzo signore del Prato, che ricopre, alla metà del XVI secolo, la prestigiosa
carica di Capitano della città di Siracusa, e poi quella di viceré in Sardegna, dopo
aver sedato là una rivolta in nome della corona aragonese.52
La successione dei due nuclei feudali siciliani (Boccheri e Lo Prato) sino a
tutto il Quattrocento seguirà in modo lineare lo schema della primogenitura, com’è
noto precocemente adottato dai feudatari siciliani;53 numerosi cadetti sono inseriti
nell’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani.54
Nei primi anni del Cinquecento si registra il vero e proprio salto di qualità,
quanto a prestigio e ricchezze, della famiglia Montalto. Artefice è Ludovico, sesto
signore del Prato, il quale, attraverso una folgorante carriera nell’apparato di governo del Regno di Sicilia prima, e del Viceregno napoletano poi, radica il proprio
casato a Napoli.
Nel 1495 egli rinuncia ai propri beni feudali (Prato, Milocca, Arcinusa) a
favore del fratello minore Gianbattista55 - capostipite a sua volta di una dinastia
isolana che si estinguerà nella prima metà del Seicento - e si dedica agli studi letterari e giuridici. Il matrimonio con la figlia di Niccolò di Sabia gli permette, grazie
all’interessamento del suocero, di succedere a questi nella carica di avvocato fiscale
del Regno di Sicilia, nell’anno 1500.56
È subito il caso di riflettere sulle scelte che riguardano Ludovico tra XV e
XVI secolo, sulla strategia matrimoniale della famiglia, volta alla penetrazione in
uno dei settori dello stato aragonese, quello fiscale, oggetto, con quello finanziario,
di una massiccia riorganizzazione.57 I Montalto avevano percepito giustamente che
“negli anni in cui Napoli fece parte integrante della Corona d’Aragona, motore
dell’intero sistema politico - finanziario fu il nucleo burocratico e di potere costituito intorno al tesoriere generale e al conservatore generale del real patrimonio, ambedue operanti in strettissimo accordo con il re”,58 e quanto potesse essere vantaggioso, come apparirà in seguito, far parte di esso.
Dal 1503 il Regno di Napoli, grazie alla vittoria conseguita sui francesi dal
52
DI GENNARO, op. cit., pp. 68-69.
In generale sulla trasmissione dei beni feudali in età moderna, cfr. AGO, op.cit., pp. 21-42.
54
Angelantonio SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta nell’Italia Moderna, Roma, École
Française de Rome, 1988.
55
Questa rinuncia dei beni feudali a favore del cadetto rappresenta l’ultima scelta patrimoniale di un
Montalto che vada nel senso della strutturazione della famiglia in rami di lignaggio dotati di feudi. Dalla
generazione successiva non incontreremo più questa promozione del cadetto sperimentata anche in precedenza, secondo un’evoluzione che conferma, anche nella cronologia, quanto afferma Maria Antonietta
VISCEGLIA, Il bisogno di eternità…., cit., “Strategie successorie e regimi dotali”. Sull’argomento, cfr. Gerard
DELILLE, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli, Torino, Einaudi, 1988, pp. 25-45.
56
DI GENNARO, op. cit., p. 82.
57
Mario DEL TREPPO, Il regno aragonese, in Giuseppe GALASSO-Rosario ROMEO (a cura di), Storia del
Mezzogiorno, Roma, Editalia, 1986, pp. 104–153.
58
Ibid., p. 128.
53
224
Antonio Mele
Gran Capitano Consalvo di Cordova, è nelle mani della Spagna.59 Nel 1508, poco
dopo aver acquistato i feudi siciliani di Lizzari e Collibassi, Ludovico Montalto è
nominato Reggente del Consiglio Collaterale,60 organo istituito a Napoli da
Ferdinando il Cattolico nel 1506, sul modello del Consejo de Estado aragonese,
all’interno di un progetto istituzionale volto a separare nettamente l’azione del
baronaggio da quella degli organi ministeriali. Questi sarebbero stati affidati a togati
scelti tra i dignitari di corte ed i giuristi di provata fedeltà alla dinastia, e preferibilmente non napoletani nella fase iniziale. All’interno del nuovo organo, che diventa
l’organo supremo dell’apparato statale, in posizione paritetica col viceré, viene presto ad assumere un ruolo particolare la Cancelleria, formata dai due reggenti del
Consiglio nominati a vita,61 i quali diventeranno tre con l’avvento al trono di Carlo
d’Asburgo (futuro Carlo V), nel 1516.62
Risulta agevole comprendere quanto una nomina del genere potesse proiettare il Montalto in una posizione di potere, in un circuito di relazioni prestigiose ed
in quella “dimensione sovrastatale ed internazionale delle aristocrazie italiane connessa al ruolo unificatore della monarchia asburgica sulle classi dirigenti e sugli stati
italiani in generale”,63 che non tarderanno ad esprimere i loro vantaggi, sia in termini patrimoniali, sia in termini di carriera ed onori. Nel 1514 egli riceve dal re
Ferdinando il Cattolico il feudo di La Chioppeta nel territorio di Capua; nel 1516,
anno della successione al trono napoletano di Carlo d’Asburgo, il Montalto partecipa ad un’ambasceria alla corte di Bruxelles del nuovo sovrano, dal quale riceve in
dono alcune proprietà nella città di Napoli: cento moggia di terreno paludoso nel
territorio di Poggio Reale, ed alcune case nel quartiere di Nido, dopo aver ottenuto,
nello stesso anno, la carica di avvocato fiscale del Regno di Sicilia (già ricoperta
all’inizio della carriera) e la concessione, da parte del nuovo sovrano, delle prerogative di reggente in tutti i territori soggetti al suo dominio.
Successivamente viene concesso al Montalto il Casale di Striano in Terra di Lavoro; nel 1521 è nominato dal viceré Raimondo de Cardona vicario generale del regno,
nel 1526, dal nuovo viceré Carlo de Lannoy,64 proprio luogotenente; l’anno successivo
gli viene concesso l’ufficio di Doganiere del Sale di Castellammare di Stabia.65
Dunque cariche da esercitare nel regno e riconoscibili anche fuori da esso,
elargizioni patrimoniali: si riconoscono alcuni tra gli espedienti che la monarchia
59
Sulla vittoria della Spagna ed i primi anni successivi ad essa, cfr. Aurelio MUSI, Il Viceregno spagnolo, in
G. GALASSO-R. ROMEO, Storia del Mezzogiorno…, cit., pp. 213-217.
60
DI GENNARO, op. cit., pp. 84-85. Sulla connotazione del Collaterale all’interno del progetto di riforma
ferdinandeo, cfr. Aurelio CERNIGLIARO, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli, 1505-1557, Napoli, Jovene,1983,
2 voll: vol. I, p. 43.
61
Loc. cit.
62
Ibid., p. 92.
63
A. SPAGNOLETTI, Stato, aristocrazie e Ordine di Malta…, cit., p. 27.
64
Per la successione dei viceré, cfr. A. MUSI, Il Viceregno spagnolo…, cit.
65
DI GENNARO, op. cit., pp. 90-101.
225
I Montalto di Fragnito a Volturino
spagnola utilizzerà, sino a tutto il secolo XVII, per garantirsi la “coesione e la fedeltà” delle aristocrazie meridionali, mentre tenterà di ridimensionarne il potere politico, pure mediante la “disgregazione dei grandi stati feudali”, “l’ampliamento dei
gradi di trasmissione del feudo”, la sua stessa “mercantilizzazione”.66 A tempo debito, quando le condizioni patrimoniali lo giustificheranno, non tarderà (come vedremo) ad essere concesso ai Montalto un degno titolo feudale.
Altro elemento della vicenda di Ludovico, su cui occorre fare qualche riflessione, è la sua integrazione nel circolo della nobiltà napoletana dei Seggi, che viene
sancita con l’aggregazione al Seggio di Nido del 1520.67 Egli proviene da una potente famiglia feudale siciliana, legata agli aragonesi da antica alleanza. Giunge però a
Napoli nella funzione di togato del massimo livello, sino ad occupare il vertice di
un organo di governo, il Collaterale, concepito dalla monarchia all’interno di un
disegno di centralizzazione e burocratizzazione del potere di stampo chiaramente
“moderno”.68 Noi abbiamo qualche indizio di frizioni iniziali tra il Montalto ed
esponenti del mondo della nobiltà dei Seggi: nel 1516 viene accusato del fallimento
dell’ambasceria a Bruxelles dai rappresentanti del Parlamento napoletano, che non
avevano ottenuto dal sovrano le garanzie giurisdizionali sperate (il Montalto sarà
difeso da una lettera dello stesso CarloV);69 i rappresentanti del Seggio di Capuana
esprimono pubblicamente il loro dissenso circa la sua aggregazione a quello di Nido.70
Si ha l’impressione che, intorno agli anni venti, parte della nobiltà cittadina napoletana guardi con grande diffidenza a questo alto magistrato, per giunta “extero”,71
diffidenza che crediamo vada connessa al malcontento per lo squilibrio di potere
che in quel periodo la corona tentava di realizzare a favore del Consiglio Collaterale.72
Ma questi dissensi iniziali non impediranno l’ingresso del Montalto, e la sua piena
integrazione, in quello “che doveva rimanere il nerbo storico della feudalità napoletana durante tutta l’età moderna, coacervo di vecchie stirpi feudali e di nuovi fedeli al re, di nobiltà cittadine e di parvenus della toga o degli affari; [di cui] la parte
più antica […], ossia il vecchio baronaggio delle provincie e la nobiltà napoletana,
già tra la fine dello stesso secolo XV e gli inizi di quello seguente consolida e radica
con una nuova mentalità patrimoniale i suoi vecchi e nuovi domini”.73
Ad un personaggio così potente non tarda ad arrivare neppure la celebrazione dei letterati: Jacopo Sannazzaro, principale esponente dell’Accademia pontaniana,
66
Angelantonio SPAGNOLETTI, Principi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano, Mondadori, 1996, pp.
132 e 143.
67
DI GENNARO, op. cit., p. 99; e A. CERNIGLIARO, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli…, cit., p. 269.
68
A. MUSI, Il Viceregno spagnolo… cit., p. 218.
69
Ibid., p. 530.
70
Ibid., p. 428.
71
CERNIGLIARO, op. cit., p. 43.
72
MUSI, op. cit., p. 92.
73
Giuseppe GALASSO, La feudalità napoletana nel secolo XVI, in Elena FASANO GUARINI (a cura di), Potere e società negli stati regionali italiani del ‘500 e ‘600, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 248-249.
226
Antonio Mele
di cui Ludovico fa parte, gli dedica un componimento in latino in cui rintraccia
l’origine del cognome del destinatario.74
Ludovico Montalto diventa naturalmente il punto di riferimento di tutto il
proprio casato. Particolarmente beneficiati dalla sua influenza appaiono i nipoti
(figli del suo secondo fratello Francesco) Antonio e Guglielmo. Il primo rimpiazza
lo zio nella carica di avvocato fiscale del Regno di Sicilia, quando questi si trasferisce a Napoli e, nel 1539, si trasferisce in Spagna, dove muore senza figli dopo una
carriera nell’apparato imperiale. Il secondo, Guglielmo, cadetto di Francesco, dapprima, secondo uno schema costante, è inserito in un ordine cavalleresco (in questo
caso quello di San Jacopo della Spada), successivamente, dopo un periodo a Napoli
presso Ludovico, si sposa con una nobile napoletana ed è insignito della carica di
pretore di Palermo, dove si stabilisce, dando origine ad un ramo della famiglia che
non sopravviverà alla seconda metà del Cinquecento.75
Sicuramente da collegare alla strategia di alleanze impostata da Ludovico,
ed alla sua penetrazione nei ranghi della nobiltà di Seggio, il matrimonio, alla
metà del secolo XVI, di Isabella Montalto, ultima esponente del ramo di Boccheri,
cui, dopo una travagliata vicenda successoria, perviene in eredità il feudo paterno,
con il nobile napoletano Girolamo Morra, del Seggio di Capuana76 (il loro figlio
Jacopo Galeota otterrà nel 1578 il titolo di principe di Boccheri da Filippo II).77 Il
passaggio sotto forma di dote del feudo più antico del casato, sito in Sicilia, ad
una famiglia della nobiltà cittadina napoletana spiega il senso di quella strategia.
Dal punto di vista successorio, Isabella eredita il patrimonio per la morte senza
prole dei suoi due fratelli maggiori e della sorella più anziana. Inoltre il padre non
aveva fratelli: non era disponibile alcuna linea maschile dell’ampio campo della
successione feudale vigente in Sicilia,78 ed evidentemente nel “patto di concessione originario del feudo c’era la clausola della sua trasmissibilità sia maschile che
femminile”.79
È forse degno di interesse precisare i capisaldi del ritratto agiografico di
Ludovico Montalto che Di Gennaro tratteggia: gentilezza dei costumi, saggia condotta degli affari pubblici come privati, che guadagnano al funzionario la fama del
“Ministro più zelante per il suo Sovrano”, del “[…] più amorevole Padre della gente povera, così di fortuna come di consiglio, il più vigilante promotore del giusto e
dell’onesto, e’l ristoratore più vigoroso del Bene universale e comune felicità”. Tutti elementi in cui si riscontra una sintesi tra il paternalismo della cultura amministrativa del Settecento80 e le nuove idee che vengono d’Oltralpe.
74
DI GENNARO, op. cit., p. 103.
Ibid., pp. 78-80.
76
Ibid., p. 65.
77
Ibid., p. 66.
78
DELILLE, op. cit., p. 74.
79
VISCEGLIA, op. cit., p. 19.
80
BENAITEAU, op.cit., pp. 225-229.
75
227
I Montalto di Fragnito a Volturino
Ludovico Montalto, che muore a Palermo nel 1528,81 lascia al mondo dieci figli,
di cui cinque femmine e cinque maschi.82 Significativa la politica matrimoniale decisa
per essi. Delle cinque femmine ben quattro vengono maritate: Lucrezia con Luigi
d’Aragona, figlio del principe d’Altamura, e dopo la morte di questi,83 con Cesare
Cavaniglia, figlio del Conte di Montella; Giovanna ed Agata rispettivamente con Carlo
Cicinello, barone di Forino, e con suo fratello Fabrizio; Costanza con Scipione
Gambacorta, marchese di Celenza. Solo per Laura si sceglie la via del monastero.
Si palesa in questo modo una grande disponibilità ad investire, attraverso le
doti, in matrimoni che mirano alla penetrazione nei ranghi della feudalità ‘radicata’
del regno Napoli, da parte di questo potente togato siciliano (la sua potenza compensa senza dubbio la mancanza di beni feudali agli occhi dei casati cui ci si imparenta) che possiede un solo piccolo feudo (il casale di Striano) nel continente.
La politica matrimoniale messa in atto per i maschi è esattamente opposta:
dei cinque è fatto sposare solo il primogenito, Giovan Massimo. Si cerca così di non
disperdere risorse per garantire a questi un matrimonio di tutto prestigio, come
infatti è quello celebrato, nel 1537, con Aurelia Caracciolo, figlia del Duca di Martina, in vista del quale, la madre dello sposo, Vincenza di Sabia, acquista e dona al
figlio il feudo d’Arienzo, su cui basare l’ipoteca per l’eventuale restituzione della
dote. Continua, nella prima metà del Cinquecento, il tradizionale orientamento
primogeniturale dei Montalto, accompagnato, in questa generazione, dal “matrimonio generalizzato” delle femmine a scopo di alleanza,84 segno peraltro di un buono
stato di salute finanziaria.
Nella generazione successiva la strategia matrimoniale per le femmine sarà
del tutto differente: tutte e tre sono fatte monache, al fine di quella “concentrazione
della ricchezza nella linea primogeniturale [ottenuta anche attraverso] il celibato o
nubilato forzato per quasi tutti i cadetti e le figlie femmine”, che si generalizza tra la
nobiltà napoletana proprio dalla seconda metà del Cinquecento.85
Il primogenito di Giovan Massimo, Ludovico, eredita dal padre il feudo di
Arienzo nel 1553.86 Muore senza sposarsi, dunque il feudo viene trasmesso al
secondogenito Virgilio, il quale è l’artefice della grande espansione del casato, in
termini di proprietà feudali, che si realizza tra la metà degli anni settanta ed il decennio successivo del XVI secolo. Essa si inserisce nella fase di grande crescita delle
vendite di feudi tra privati compresa tra la seconda metà del Cinquecento e la prima
metà del Seicento, fra le quali assumono un peso notevole quelle ‘forzate’, effet-
81
DI GENNARO, op. cit., p.104.
Ibid., p.109 e segg.
83
Il DI GENNARO, op. cit., p. 110, fa cenno alla contemplata eventualità di restituzione della dote: appare
chiaro che il matrimonio fosse stato stipulato secondo il Patto di Capuana e Nido, costume dotale aristocratica su cui cfr. VISCEGLIA, op. cit., pp. 93-105.
84
VISCEGLIA, op. cit., pp. 64 e 65 (uno stralcio di quest’ultima in nota 20).
85
Ibid.
86
DI GENNARO, op. cit., p. 113 e segg.
82
228
Antonio Mele
tuate cioè su richiesta dei creditori, meccanismo sconosciuto prima del 1550”.87
Proprio a quest’ultima categoria di vendite, non osteggiata affatto dalla monarchia spagnola, bisognosa di enormi somme per il finanziamento della suo apparato
burocratico e dei suoi eserciti (quindi di feudatari solvibili di fronte al fisco),88 appartengono quelle di cui beneficia Virgilio Montalto. Egli riesce a comprare: nel 1574 il
feudo di Fragnito, nella provincia di Principato Ultra (venduto ad istanza dei creditori
di Bossillo Crispano); nel 1580 il feudo di Pietra Montecorvino, con il bosco di Celle,
in Capitanata, cui aggiunge due anni dopo il territorio di Juvara, appartenente all’agro di Pietra (tutto ciò venduto ad istanza dei creditori di Giambattista Carafa,
conte di Montecalvo); nel 1583, per 15.400 ducati, la ‘terra’ di Motta Montecorvino
(vendutagli da Girolamo Turri), anch’essa in Capitanata e confinante con l’acquisto
precedente; nel 1585 il feudo di Monteroni in Principato Ultra.89
Alla sua morte, nel 1588, tutti i suoi beni sono ereditati dal primogenito Fabrizio, che al momento della scomparsa del padre è sotto il ‘baliato’ della madre,
Porzia Capece. Egli si sposerà con Giustina Caracciolo, figlia del Marchese di
Casalbore, con la quale genererà solo due figlie femmine, Porzia e Giulia.
Questo evento apriva il delicato problema di una successione femminile, particolarmente acuto in concomitanza con l’applicazione (tradizionale per i Montalto)
della primogenitura, la quale non consentendo il matrimonio degli altri fratelli del
testatore, rende indisponibili cugini in linea paterna da far sposare all’erede e a cui
trasmettere i beni di famiglia sotto forma di dote.90 Ma la più recente legislazione in
materia di successioni veniva incontro alle esigenze della prosecuzione dei casati
nobiliari: dal 1595, a norma della Prammatica 33 De feudis, emanata da Filippo II,
era consentito “scartare dalla successione feudale le figlie ereditiere a profitto dei
maschi anche più lontani”.91 Fabrizio tuttavia pare non potersi avvalere in modo
diretto di questa possibilità se il Di Gennaro afferma che questi, non potendo “di
ragione” negare l’eredità alla primogenita, la grava comunque di legati, di valore
pari quasi alla sua totalità, in favore del proprio fratello Massimo.92 Evidentemente
l’istituzione di un maggiorasco93 sui feudi di famiglia giustifica l’utilizzo di un tale
stratagemma che, nei fatti, camuffa la diseredazione forzata di Porzia a favore dello
zio paterno.94 Tra i due sarà effettuata una transazione che otterrà il risultato programmato: Massimo si impossesserà di tutta la proprietà feudale in cambio di una
dote per la nipote, ricavata sull’eredità, di qualche migliaio di ducati. Di questa
beneficerà il marito prescelto per la ragazza, Vincenzo Caracciolo, marchese di
87
DELILLE, op. cit., p. 22.
Ibid., p.57. Sulle cause del forte indebitamento di molte famiglie feudali, cfr. GALASSO, op. cit., p. 255.
89
DI GENNARO, op. cit., p.114 e segg.
90
DELILLE, op. cit., p.41.
91
Ibid., p.55. Cfr. anche VISCEGLIA, op. cit., pp. 27-28, riguardo al contesto di generale “irrigidimento delle
regole della vita nobiliare” in cui, secondo l’Autrice, questa prammatica si inserisce.
92
DI GENNARO, op. cit., p. 116.
93
DELILLE, op. cit., p. 67
94
Ibid., p. 60.
88
229
I Montalto di Fragnito a Volturino
Casalbore e suo zio materno, nel contesto di un’unione su cui è opportuno fare qualche considerazione.
Gérard Delille95 contrappone questo tipo di matrimoni “endogamici” (tra
consanguinei) a quelli effettuati tra famiglie che basano sulla regola della “reciprocità” lo scambio di spose e doti, imbastendo, nel rispetto dei divieti del diritto canonico sulla scelta del coniuge (quando appartenente allo stesso lignaggio), veri e propri “sistemi di alleanze” (lo “scambio generalizzato” tra più famiglie) od alleanze
ristrette (“lo scambio ristretto” tra due soltanto, che consente una più rapida restituzione della dote). Per essere più precisi, i matrimoni tra consanguinei, che sono
ancora rari nel Cinque – Seicento, tendono, moltiplicandosi (come accadrà nel regno di Napoli dal secolo XVIII), a “minare fino a distruggere” il sistema di alleanze
basato sulla reciprocità. In essi l’aspetto che prevale è quello patrimoniale: in questo tipo di alleanze ‘contratte’ è il movimento della dote ciò che agli attori più preme all’interno della strategia della parentela, che comunque va sempre connessa, in
diverse proporzioni a seconda dei casi, a quella economica.96
Il matrimonio di Porzia appartiene proprio a questa categoria, ed è indicativo
del tipo di alleanza esistente già dagli anni trenta del Cinquecento97 tra Montalto e
Caracciolo, in cui peraltro si esprime uno squilibrio, per certi versi esemplare, tra due
tipologie di lignaggio molto differenti in termini patrimoniali, demografici e, conseguentemente, di strategia sociale. I Caracciolo, uno tra i lignaggi nobili “più importanti numericamente” per effetto dello sviluppo in più rami ottenuto, durante il Trecento ed il Quattrocento, mediante la divisione dei beni nelle successioni,98 sono,
nella prima fase di acquisizione del sistema primogeniturale, tra fine Cinquecento e
primi del Seicento, disposti a continuare a far sposare le proprie figlie, ma badando a
non sborsare doti esose, tra le principali cause di quell’indebitamento che con la
primogenitura si cerca di combattere.99 Dunque ‘forniscono’ donne ai Montalto. I
quali, dal canto loro, con alle spalle una evoluzione demografica e patrimoniale molto
più modesta, non gliele restituiscono (tranne che per l’eccezionale matrimonio
endogamico di Porzia), perché non sono in grado, economicamente, di affrontare
l’esborso di doti adeguate. Possono però beneficiare di questa alleanza, la quale, come
vedremo, fornirà non poche occasioni di accrescimento del patrimonio.100
Non a caso Massimo, dopo aver acquistato nel 1603 il feudo di Rapinella in
Principato Ultra (ancora una volta in una vendita “ad istanza dei creditori”) acquista
proprio dal cognato Francesco Caracciolo la città di Volturara ed il feudo di Volturino,101
nel 1628. Sul contenuto di quest’ultimo acquisto ci soffermeremo a tempo debito.
95
Ibid., pp. 252 – 253, e l’intero capitolo “I meccanismi dell’alleanza”.
Ibid., p. 52.
97
Col matrimonio di Giovan Massimo, figlio di Ludovico, con Aurelia Caracciolo, figlia del Duca di
Martina.
98
DELILLE, op. cit., pp. 33-45.
99
Ibid., p. 65.
100
Ibid., p. 52.
101
DI GENNARO, op .cit., pp. 117-118.
96
230
Antonio Mele
Stemma dei Montalto di Fragnito (ASNA, A. M., b. 46 A)
Nel frattempo, nel 1612, il Montalto era stato insignito del titolo di Duca di
Fragnito dal re di Spagna Filippo III, e la sua famiglia dunque, come molte altre in
quel periodo, incasellata “entro una gerarchia riconoscibile di onori”, identificata e
collocata “entro un contesto nel quale l’etichetta era forma e sostanza e il trattamento, commisurato al rango, dava immediatamente conto della rilevanza sociale
del soggetto”.102 Abbiamo già accennato ai fini perseguiti dalla monarchia spagnola
mediante tali concessioni onorifiche, e mediante quelle di feudi, su cui i titoli erano
‘poggiati’.
Quando il duca di Fragnito muore, nel 1640, lascia sette figli, generati con
Luisa Caracciolo, per i quali imposta una strategia matrimoniale di espansione delle
alleanze, che testimonia una certa disponibilità patrimoniale. È infatti consentito il
matrimonio non solo al primogenito Fabrizio, come logico, ma anche al secondogenito Ludovico ed alla prima femmina Olimpia.103 Le altre tre femmine sono, come
di consueto, indirizzate alla clausura, mentre il terzo maschio abbraccia la religione
teatina.
Fabrizio, che eredita i feudi paterni, sposa Ippolita di Somma, ma muore già
nel 1647, lasciando i propri cinque figli sotto la tutela della madre e dello zio materno, il principe del Colle.
Ludovico sposa Beatrice Sanseverino, con la quale genera solo tre femmine,
di cui le ultime due sono fatte monache nel Monastero della Trinità di Napoli. Successivamente (il Di Gennaro non ci dice perché,104 ma probabilmente per la morte
di Ludovico), Beatrice si unirà in seconde nozze con Diego Ceva Grimaldi, e combinerà il matrimonio della primogenita del Montalto con Giuseppe Ceva, avuto dal
suo nuovo marito dal proprio precedente matrimonio.
Olimpia viene fatta sposare con Giambattista Filomarino, duca di Perdifumo.
Raggiunta la maggiore età, sicuramente dopo il 1707, anno in cui Ippolita di
102
SPAGNOLETTI, op. cit., p.132.
DI GENNARO, op. cit., pp.121-123.
104
Ibid., p. 123.
103
231
I Montalto di Fragnito a Volturino
Somma appare ancora, nelle nostre fonti, sua “balia e tutrice”105 - ed in cui comincia
il breve periodo del viceregno austriaco nel Regno di Napoli106 - Niccolò Maria,
primogenito di Fabrizio, eredita i feudi del casato ed il titolo di terzo duca di Fragnito.
Per i suoi fratelli, si sceglie di applicare lo schema della primogenitura nella sua
forma più rigorosa, per concentrare maggiormente la ricchezza nella linea principale:107 entrambi i cadetti sono indirizzati alla religione teatina, entrambe le femmine alla clausura.
Il duca di Fragnito può invece celebrare ben due matrimoni. Il primo di essi
con Francesca di Mendoza e Alarcon (figlia del futuro marchese della Valle Siciliana), la quale tuttavia muore, insieme al nascituro, durante il parto. Niccolò Maria
provvederà quindi a risposarsi, questa volta con Faustina Loffredo, figlia del terzo
marchese di Monteforte e primo principe di Cardito.108 Nasceranno, da questo secondo matrimonio, quattro figli: Antonio, Mario, Ippolita e Nicolina.
Il primogenito, che eredita i feudi del casato, sposa Caterina Pinto, dama che
può vantare una parentela con i reali del Portogallo.109 Tuttavia egli muore che la
moglie è ancora incinta di suo figlio: un altro Antonio, che sarà duca di Fragnito al
tempo della scrittura dell’opera del Di Gennaro, che abbiamo utilizzato come fonte
principale. Essa fu pubblicata, come abbiamo già scritto, nel 1735, in occasione
delle nozze di questi con Maddalena, figlia del marchese di Latiano, della nobile
famiglia genovese degli Imperiale.
Sia Antonio, sia lo zio paterno Mario,110 marchese di Motta Montecorvino,111
fanno parte dell’organo attraverso il quale, durante la crisi politica che segna la fase
di transizione tra il viceregno austriaco e l’avvento della dinastia borbonica al governo del regno di Napoli,112 i baroni napoletani riuscirono ad “ottenere la custodia
della capitale” e a diventare “gli interlocutori ufficiali della corte spagnola accampata ad Aversa”, cioè la Deputazione del Buon governo.113 Entrambi Eletti del Seggio di Nido (Antonio nel 1734, Mario in precedenza),114 devono entrambi partecipare attivamente ai lavori di quella Giunta degli Eletti che formalmente è il supremo organo amministrativo della Capitale, ma che, nella sostanza, è il luogo in cui,
soprattutto dal 1642, anno dell’ultima convocazione del Parlamento, i nobili napo-
105
ASNA, A. M., b. 2 A, Genealogica descrizione della Terra di Volturino.
Su tutto il periodo austriaco, cfr. Augusto PLACANICA, Tra spagnoli e austriaci, in GALASSO – ROMEO (a
cura di), op. cit., vol. IV.
107
VISCEGLIA, op. cit., p. 64
108
DI GENNARO, op. cit., p. 124. Faustina alla morte di Niccolò Maria contrae matrimoni col cugino Mario
Loffredo, allora marchese di Monteforte e successivamente principe di Cardito (per questa tipologia matrimoniale, cfr. DELILLE, op. cit., p. 252.)
109
DI GENNARO, op. cit., p.132.
110
Ibid., pp. 137 e 145.
111
ASNA, Onciario di Volturino 1742, lib. 7092.
112
Elvira CHIOSI, Il regno dal 1734 al 1799, in GALASSO – ROMEO (a cura di), op. cit., vol. IV, pp. 374 e segg.
113
Ibid., p. 377.
114
DI GENNARO, op. cit., pp. 137 e 145.
106
232
Antonio Mele
letani dei Sedili di fatto espletano la rappresentanza politica di tutta la nobiltà del
regno, prendendo decisioni con “conseguenze che si facevano sentire in tutte le
provincie”.115
I Montalto fanno dunque parte di quella fetta della nobiltà, tutta radicata, da
tempo differente a seconda delle famiglie, nella città di Napoli, che, dalla metà del
secolo precedente, vede esaltato il proprio potere e che può chiudersi corporativamente sbarrando l’accesso di nuovi soggetti ai Seggi, cui obbligatoriamente bisogna
appartenere per partecipare alla politica non solo cittadina, con ricadute di pesante
“dequalificazione sociale” dei nobili “non di Piazza”.116
Proprio questa oligarchia aristocratica matura, nella fase della transizione,
speranze di rivincita sui togati - i giuristi alla guida dei ministeri, che avevano acquistato un enorme potere in età austriaca -, speranze destinate a restare ben presto
deluse dal nuovo re, per l’indispensabile risorsa di “mediazione politica” e competenza amministrativa rappresentata da questa élite tecnico – culturale.117 Ma gli anni
1734–35 sono ancora quelli della gloriosa accoglienza del sovrano spagnolo da parte della nobiltà napoletana e dello scambio reciproco di onori. In questo contesto al
duca di Fragnito viene, da Carlo di Borbone, ancora residente ad Aversa, conferito
l’ufficio di Corriere Maggiore, sostituito successivamente, con relativo aumento
del “soldo”, con quello più prestigioso di Soprintendente Generale del medesimo
ufficio. L’anno successivo, nel 1735, Antonio Montalto è insignito del titolo di Gentiluomo di Camera d’Entrata.118
Qualche parola va pure spesa sulle due zie paterne del duca di Fragnito, per
mostrare la strategia matrimoniale della famiglia rispetto alla generazione a lui precedente. Ippolita, la primogenita, può contrarre due matrimoni entrambi molto
prestigiosi (soprattutto il secondo), che rendono conto della posizione patrimoniale
e sociale del casato tra XVII e XVIII secolo. Il primo di essi è celebrato con Francesco Filomarino, principe della Rocca dell’Aspro e duca di Perdifumo, il quale tuttavia muore presto, inducendo la Montalto a risposarsi. Il nuovo marito prescelto per
lei sarà Niccolò Michele d’Aragona, principe di Cassano e duca d’Alessano, personaggio che può vantare ‘sangue’ di re nelle proprie vene e che pare inserito nel
circuito delle accademie europee del Settecento; anche a lui viene conferito, come al
duca di Fragnito, il titolo di Gentiluomo di Camera d’Entrata dal novello re di
Napoli Carlo di Borbone.119
La sorella minore di Ippolita, Nicolina, con matrimoni così prestigiosi celebrati dalla primogenita, quindi sicuramente molto onerosi riguardo alla dote, non
può che essere destinata alla clausura, nel monastero di S. Gregorio Armeno.120
115
E. CHIOSI, Il regno dal 1734 al 1799…, cit., p. 378.
Loc. cit.
117
CHIOSI, op. cit., pp. 377 e 379.
118
DI GENNARO, op. cit., p. 146.
119
Ibid., pp. 138 e 142.
120
Ibid., p. 137.
116
233
I Montalto di Fragnito a Volturino
Nella conclusione della sua opera il Di Gennaro121 fa riferimento all’erede di
Antonio Montalto, Gaetano, che noi sappiamo, da altra fonte, pagare l’adoa (tassa
di successione sui beni feudali) per il feudo di Volturino, nel 1765.122
4. Il patrimonio signorile
Per analizzare il patrimonio dei duchi di Fragnito a Volturino avremo come
maggiore punto di riferimento la fonte che, tra quelle a nostra disposizione, lo descrive nel modo più esauriente, cioè il già citato apprezzo del 1698,123 un documento vergato a settant’anni dalla presa di possesso del feudo da parte di Massimo
Montalto, avvenuta nel 1628.
Ma prima di cominciare con la descrizione del patrimonio - si desume dall’apprezzo che nel 1698 esso fa capo alla Duchessa di Fragnito Ippolita di Somma,
tutrice di Niccolò Maria Montalto - va precisato che la proprietà signorile è composta da due tipi di beni, distinti in base alla loro diversa natura giuridica: beni
feudali e beni allodiali.
Non è il caso, qui, di dilungarsi sui due diversi regimi giuridici connessi a
questi beni, diversi anche sul piano della considerazione sociale, e sulle origini storiche della loro differenziazione.124
Va però messo in evidenza un fattore tenuto costantemente in considerazione dai signori nella gestione dei loro patrimoni: la trasmissione di un bene feudale
era regolata da leggi speciali e doveva essere sempre approvata dal re. “Questo voleva dire che, in momenti di crisi, era difficile trasformare il feudo in moneta contante, e a volte i creditori non accettavano feudi come garanzia per il credito […].
La mancanza di flessibilità dei feudi era la principale ragione per la considerevole
diversificazione dei patrimoni aristocratici”.125
Tuttavia, questa mancanza di flessibilità del bene feudale, che si cercava di
compensare con l’acquisto, dentro e fuori dei feudi, di beni allodiali, cioè sottoposti
alle norme del diritto comune, va anche considerata dalla prospettiva opposta: essa
poteva avvantaggiare i signori nei confronti dei loro creditori, quando questi ultimi
avevano come ipoteca beni feudali, dunque molto più difficili da aggredire.126
Possiamo ben portare come esempio di questa considerazione proprio la vi-
121
Ibid., p. 149.
ASNA, A. M., b. 2 A, Genealogica descrizione della Terra di Volturino, repertoriata una fede del fede
del cedolario delle adoe, del 26 Febbraio 1765.
123
ASNA, A. M., b. 3G/4A.
124
Sull’argomento cfr. AGO, op. cit., pp. 21-27.
125
T. ASTARITA, The continuity of feudal power…, cit., p. 41.
126
AGO, op. cit., pp. 8-10. Qui si fa riferimento anche alla tendenza dei feudatari di enfatizzare la natura
privatistica o pubblica del bene feudale, a seconda delle convenienze delle diverse circostanze, nei confronti
del potere sovrano.
122
234
Antonio Mele
cenda del feudo di Volturino, sulla base di una memoria (datata 1701) del curatore
del patrimonio del marchese di Cervinara.127
Come abbiamo detto in precedenza, Massimo Montalto acquistava questo feudo
di Capitanata nel 1628 da Francesco Caracciolo (marchese di Cervinara dopo la vendita di Volturara, su cui in precedenza poggiava il titolo) per 38.819 ducati, dei quali
13.500 (più interessi) tratteneva come dote di Luisa Caracciolo, figlia di Francesco e
sua promessa sposa. La restante parte del prezzo complessivo si impegnava a corrisponderla, con gli interessi, ai creditori del marchese di Cervinara, a cui venivano
offerti, come garanzia, i beni feudali di Volturino, oggetto della transazione. Negli
anni successivi, tuttavia, il duca di Fragnito pare non effettuare i pagamenti promessi.
La nostra fonte ci mostra quanto fosse difficile per i creditori di un patrimonio
feudale recuperare il credito. Gruppi di essi, a partire dalla metà del secolo, intentano
azioni di sequestro delle entrate feudali, che, seppur concesso, si scontra con le difficoltà del potere centrale di controllare la vita dei feudi lontani delle provincie. Ci
viene infatti riferito che in occasione del citato apprezzo del 1698, chiesto da altri
creditori per verificare l’entità delle entrate feudali su cui rivalersi, si scopre che gli
erari (gli amministratori delle rendite di ogni feudo, su cui più avanti ci soffermeremo)
del 1658 e del 1659, Vincenzo Riccio ed Alessandro Ciaffone, stanno continuando a
versare le rendite nelle casse del signore, nonostante l’ordine di sequestro emanato
dal Sacro Regio Consiglio. Il fatto stesso che, a parte queste azioni sui frutti del feudo
degli anni sessanta del Seicento, vengano effettuati, per il saldo di questo credito, un
apprezzo alla fine del secolo ed un altro ancora nel 1723,128 il fatto cioè che si
riproponesse più di una volta il problema di verificare quanto veramente il signore
percepisse come rendita dai beni ipotecati, mostra quali lente procedure, quali difficoltà comportasse una qualsiasi azione dell’ ‘esterno’ sulla vita interna del feudo, di
cui il barone era di gran lunga il maggiore mediatore rispetto al resto della società, e
quanti vantaggi tutto questo potesse comportare a suo favore.
Nel descrivere il patrimonio dei duchi di Fragnito a Volturino, cominceremo
proprio dai beni feudali e, in accordo con l’ordine seguito nell’apprezzo129 del 1698,
partiremo da quello che in modo più appariscente segnala l’appartenenza di un
feudo ad un determinato casato ed esprime un importante valore simbolico oltre
che funzionale: il palazzo signorile.
Il palazzo dei Montalto è collocato accanto alla Chiesa Madre, con cui si
divide gli sguardi della piazza, che è in effetti non più che uno slargo lungo la strada
maestra; sta, quindi, in una posizione di centralità all’interno dell’insediamento.
Tuttavia, circondato e come ‘isolato’ da quattro strade, non è addossato ad alcun
altro edificio ed è, anche in questo, diverso da tutte (o quasi tutte) le costruzioni di
questo paese dall’abitato tipicamente accentrato.130 È possibile da esso, affaccian127
ASNA, A. M., b. 46 A.
ASNA, A. M., b. 2 B, 1723 Notamento ricavato dal processo dell’apprezzo della Terra di Volturino.
129
Per una connotazione approfondita dell’apprezzo come fonte storica, per le cautele da tenere nel suo
utilizzo, cfr. LABROT, op. cit., pp. 3-31.
130
Ibid., pp. 53 e segg.
128
235
I Montalto di Fragnito a Volturino
dosi dal lato di levante, dominare con lo sguardo le campagne del circondario, addirittura vedere il mare.
Nella facciata che dà sulla strada principale è collocato il portone più importante, quello più in vista, dove, a monito dei passanti, è collocato un grosso blasone
di marmo recante le armi dei Montalto. Sicuramente, questo è lo stemma di maggiori dimensioni, ma non è l’unico, anzi se ne trovano parecchi in tutta la dimora:
sopra tutti gli architravi dei camini delle camere e su tutte le colonnine della balaustrata della loggia (soltanto questi ultimi sono ventiquattro).
Dalla nostra fonte conosciamo l’occasione in cui si è addobbato il palazzo
con tale abbondanza di blasoni, cioè l’ampliamento e le migliorie apportate da Massimo Montalto alla dimora, che, all’acquisto, gli sembrava, secondo quanto riferisce all’estensore dell’apprezzo il procuratore della duchessa di Fragnito, “rovinata
e inabitabile”. Il tavolario stima il valore monetario delle migliorie pari alla metà del
valore complessivo del palazzo rinnovato, apprezzato per 1.000 ducati; nel complesso esso è giudicato idoneo all’alloggiamento del padrone, essendo ben fornito
di stanze “principali come di servizio”, e con una struttura costruttiva che appare
per la maggior parte nuova od in buono stato.
L’edificio si sviluppa su due piani (tra essi un piano di raccordo, dedicato
soltanto al cortile coperto): il piano nobile, che ospita le stanze di abitazione, e
quello inferiore, ove sono principalmente stanze di servizio. Dalla strada principale, si entra nel palazzo attraverso il cortile coperto, da cui si accede, salendo piccole
gradinate laterali, alle due ali del piano superiore, ognuna delle quali forma un “quarto”,131 cioè un appartamento nobiliare con una sala come cellula fondamentale intorno alla quale sono disposti ambienti di minore importanza.
Il quarto settentrionale (alla sinistra del tavolario, che entra dal portone principale) è costituito quasi per intero dal nucleo della vecchia casa, il più semplice dal
punto di vista architettonico ed il più malandato, secondo i giudizi del funzionario
regio. La sua sala, con travi di legno per soffitto, è seguita da tre stanze, da una delle
quali si accede, salendo per uno “scalandrone”, a tre locali con tetti di tegole, ad
esse sovrapposti. La disposizione geometrica dei vari ambienti è quella tipica del
castello, di cui il palazzo signorile è l’evoluzione, con la sala (l’ambiente più ‘pubblico’, quello in cui si riceve) che si incontra per prima, e comunica con le due più
importanti delle altre tre camere, per “assicurare il primato all’apparato e alla rappresentazione spingendo indietro le esigenze più propriamente abitative”.132 In questa
zona della casa i soffitti sono “a travi” od “a tetti”, la scalinata che porta ai mezzani
è mezza “diruta”(diroccata), mancano alcune porte e finestre, insomma questa zona
vecchia è quella più spartana. Massimo Montalto, denunciando un atteggiamento
di maggiore interesse per il feudo di Volturino rispetto ai precedenti feudatari, ed
una certa disponibilità finanziaria, decide, non sappiamo dalla fonte in quali anni
del XVII secolo, di dotarsi di un palazzo più comodo e più bello.
131
132
Ibid., pp. 110 e 133.
Ibid., p. 113.
236
Antonio Mele
Fa quindi costruire il cortile coperto, che abbiamo prima menzionato, ma
soprattutto un’ala nuova del piano nobile, quella meridionale (alla destra di chi
entra nel palazzo), introdotta da un’altra sala, questa con volte al soffitto, come le
tre stanze che seguono, lo stato delle quali appare al funzionario ancora del tutto
buono. Dota il palazzo anche di una loggia di mattoni, dalla parte opposta del cortile coperto (occupa la zona centrale del lato di levante dell’edificio), con quattro
archi per lato, volte al soffitto, balaustrata di pietra tra gli archi. In pietra anche le
basi ed i capitelli dei pilastri e le colonnine del parapetto.
Dalla loggia si accede ad altre tre camere, anche queste “a lamia” (cioè con le
volte al soffitto), collegate al nucleo vecchio del piano nobile, prima descritto. Il
palazzo rinnovato ha anche un cortile scoperto, dove si affaccia il lato interno della
loggia, che, posto nel centro dell’edificio, funge pure da pozzo di luce.
Dal cortile scoperto, collocato qualche gradino sotto quello coperto si accede agli ambienti del piano inferiore: da un lato (il destro per chi desse le spalle al
portone principale), due stanze, di cui una, fornita di focolare, è la cucina; di fronte
altre tre stanze, poste sotto la loggia. Dall’altro lato un lungo vano, utilizzato come
maggiore stalla, collegato ad altri tre locali, due dei quali sono utilizzati uno come
cantina e l’altro come seconda stalla.
Figura 1: loggia del palazzo baronale (ASNA, A. M., b. 46 A)
237
I Montalto di Fragnito a Volturino
Dai restanti ambienti, sottostanti all’ala vecchia del palazzo, Massimo Montalto ricava un grande magazzino, diviso da due archi, probabilmente ciò che rimane delle vecchie pareti divisorie. Ad esso è possibile l’accesso solo dall’esterno del
palazzo, attraverso un portone posto nella facciata settentrionale. Fanno parte di
questo piano di servizio altri locali di cui non ci viene riferita una precisa funzione.
Sono locali che i palazzi dei feudi ereditano dai castelli, e sono predisposti ad una
grande “duttilità funzionale”133 per le esigenze della difesa e della giurisdizione:
possono ospitare armi, soldati o prigionieri, per quanto il palazzo di Volturino denoti scarse preoccupazioni di ordine difensivo, privo com’è di bastioni e di torre.
Anzi, benché molto modesto, come molti palazzi della periferia rispetto a quelli
napoletani, mostra la cultura eminentemente urbana dei Montalto, che si esprime
nelle scelte architettoniche per la ristrutturazione e, in particolare, nella costituzione ex novo di una corte all’interno dello stabile di pianta quadrangolare, secondo
un modello che appare a Labrot quello di ascendenza più direttamente cittadina.134
Il funzionario distingue con molta attenzione il nucleo antico della casa da
quello nuovo, poiché solo sul valore del primo, 500 ducati (la metà dei 1.000 di
valore complessivo), i creditori del marchese di Cervinara potranno rivalersi, tanto
è vero che il procuratore della Duchessa di Fragnito cerca di far considerare la ricostruzione come avvenuta dalle fondamenta.
Dal palazzo baronale il signore non ricava alcuna rendita se non simbolica e di
status. La maggior parte degli altri suoi diritti feudali si caratterizzano, invece, per il
fatto di rappresentare voci cospicue delle sue entrate ed anche straordinari strumenti
di potere nei confronti della comunità. I diritti giurisdizionali più importanti, ovvero
la giurisdizione sulle cause civili e criminali, enfatizzano questo secondo aspetto. Ci
sembra, perciò, più opportuno definire la loro portata ed analizzare la loro amministrazione nel capitolo successivo, dedicato alla struttura sociale ed alla distribuzione
dei poteri all’interno del feudo. Accanto ad essi il barone aveva in suo possesso altri
diritti giurisdizionali, che potremmo definire ‘minori’ dal punto di vista politico, ma
che sono notevoli quanto ad entrate in danaro: uno di questi è la bagliva.
La bagliva consisteva, in età spagnola, nella
giurisdizione sui processi civili, in particolare per debiti, con valore non superiore ai tre ducati, su casi di danni inferti in modo non violento e non doloso (la
giurisdizione sui cosiddetti ‘danni dati’) e su furti di valore non superiore ai
quattro ducati. Il baglivo aveva la sua prigione, ma poteva arrestare trasgressori solo se colti in flagrante.135
Le origini di questo istituto erano molto antiche; la sua evoluzione storica, a
133
Ibid., pp. 101- 136.
Ibid., p. 136.
135
ASTARITA, op. cit., p. 39. Per la definizione di questo, come di altri diritti feudali, molto utile Giulio
REZASCO, Dizionario del linguaggio italiano storico e amministrativo, Firenze, Le Monnier, 1881.
134
238
Antonio Mele
cui accenneremo nel prossimo capitolo, è indicativa di un certo tipo di evoluzione
dei rapporti di forza tra signore e comunità di vassalli, fortemente condizionata
dalle scelte del potere centrale.136
Dall’apprezzo del 1698 apprendiamo che la bagliva è data in appalto, mediante contratto triennale, cioè dal 1695, ad Alessio dell’Aquila, esponente di una
famiglia di agricoltori tra i più agiati di Volturino, come appare ancora nel Catasto
Onciario del 1742.137 Il contratto comprende pure altri diritti, che fanno parte del
patrimonio feudale del signore. Essi sono: la mastrodattia, ossia il diritto di produrre tutti gli atti civili, la piazza, cioè il “diritto di esigere un dazio su tutte le mercanzie comprate e vendute dai forestieri nel suo feudo”, l’erbaggio, ovvero il diritto di
riscuotere, da tutti coloro che utilizzano i pascoli feudali per i propri animali, una
tassa chiamata fida.138 Quindi nessuno di questi diritti è gestito in economia.
L’appaltatore di essi (Alessio dell’Aquila) deve sborsare 130 ducati all’anno
alla corte baronale: 20 per piazza e bagliva, 15 per mastrodattia e 95 per gli erbaggi.
Ma a fronte di questa spesa fissa può riscuotere tutti i dazi citati, le multe e le tasse
processuali relative agli istituti in proprio possesso. L’apprezzo ci informa del fatto
che l’università paga al mastrodatti 30 carlini per ogni atto civile prodotto ed essa
ha l’obbligo di avvalersi esclusivamente del suo lavoro. Del resto, considerando gli
altissimi tassi di analfabetismo esistenti nei piccoli centri rurali, anche tra i vassalli
più agiati, davvero in pochi avrebbero potuto svolgere questa mansione.
Un altro diritto giurisdizionale posseduto dai duchi di Fragnito a Volturino
nel 1689 è la portolania. Esso “dava giurisdizione sul mantenimento delle strade; il
portolano prelevava multe da coloro che, con carichi o costruzioni, sporcavano od
ostruivano la strada pubblica”,139 concedeva inoltre licenze per costruire edifici, creare fogne o scavare pozzi. Questo diritto era stato il primo, tra i beni feudali di Volturino,
a passare alla famiglia Montalto, da quando Fabrizio, signore delle vicine Pietra e
Motta Montecorvino, lo aveva comperato nel 1589, quaranta anni prima dell’acquisto dell’intero feudo da parte del suo fratello e successore Massimo. Al tempo della
nostra fonte esso è appaltato all’università in cambio di 30 ducati annui.
Un’altra specie di diritti feudali, mediante i quali il signore influisce fortemente sul tenore economico delle comunità a lui sottoposte, sono i diritti proibitivi, in virtù dei quali il barone ha il potere di imporre il proprio monopolio su alcune
attività produttive. Dal Seicento la maggior parte dei feudatari detiene lo jus
prohibendi sul mulino, sulla taverna, sul forno e sulla gualchiera, una struttura posta al bordo dei fiumi che, mediante lo stesso meccanismo di sfruttamento dell’acqua corrente utilizzato dai mulini ad acqua, provvedeva alla preparazione dei panni
per la loro lavorazione (follatura).140
136
BENAITEAU, op. cit., p. 167 e segg.
ASNA, Onciario Volturino 1742, lib. 7092.
138
ASTARITA, op. cit., pp. 39-40.
139
Ibid.
140
LABROT, op. cit., pp. 208-209.
137
239
I Montalto di Fragnito a Volturino
Il primo elemento che va considerato riguardo ai diritti proibitivi è che essi
spesso sono abusivi, cioè non affatto contemplati tra le prerogative concesse al signore dal sovrano, osservabili negli assensi regi al passaggio di proprietà di un feudo,
nei privilegi di investitura emanati dal re e in documenti come le platee, che descrivono tutto ciò che possiede un signore in una determinata comunità infeudata.
Michèle Benaiteau,141 proprio dal confronto di una platea del 1507, relativa al
feudo di Montemiletto, nella provincia di Principato Ultra, con un registro di entrate signorili prodotto (per la stessa comunità) circa un secolo dopo, si accorge
dell’introduzione abusiva del diritto proibitivo sul mulino, che matura nel clima di
generale inasprimento della giurisdizione baronale sul mondo rurale maturato negli anni ottantta del Cinquecento. La studiosa segnala come queste appropriazioni
indebite da parte dei baroni avvenissero in chiara contravvenzione di uno strumento legislativo del 1536, con cui Carlo V aveva inteso porre dei limiti precisi al loro
potere nei feudi, le prammatiche De Baronibus, le quali vietavano l’introduzione di
qualunque diritto proibitivo non concesso dal sovrano. Questo ed altri divieti, come
ad esempio quello di recintare parti di pascolo demaniale a vantaggio esclusivo del
signore, furono spesso trasgrediti, come la Benaiteau può constatare dalle molte
denunce sporte dalle comunità studiate presso il Sacro Regio Consiglio riguardo ai
cosiddetti aggravij delle pretese baronali. I diritti contestati, a Montemiletto come
in molti altri feudi, sia che fossero successivamente accordati al feudatario dal re, o
che semplicemente continuassero ad essere esercitati abusivamente, fecero per secoli sentire i loro effetti sulle concrete condizioni di vita dei vassalli.
In relazione a queste ultime, è giusto differenziare l’impatto di ciascun tipo
di monopolio del signore sulla base delle effettive possibilità che avrebbero avuto i
suoi vassalli di fargli concorrenza. Sotto questo profilo, di certo il diritto proibitivo
più svantaggioso per i contadini è quello sulla vendita del vino a minuto, cioè sulla
taverna. Se infatti questi non potevano disporre del danaro necessario per la costruzione e l’inevitabile manutenzione di attrezzature quali mulini, frantoi o gualchiere,
sarebbero stati senza dubbio in grado di far fruttare le eccedenze di vino che producevano mediante la vendita a minuto, molto più remunerativa di quella all’ingrosso,
che a volte praticavano proprio a favore della taverna del signore.142
Apprendiamo dall’apprezzo del 1698 che il barone possiede un diritto proibitivo sul forno: tutti devono cuocere il pane in quello baronale, che si trova accanto alla porta orientale del paese, quella in direzione della città di Lucera. La posizione del forno all’interno del tessuto urbano riflette la sua importanza di edificio
pubblico:143 esso è facilmente raggiungibile percorrendo la strada maestra dall’interno dell’abitato ed è, con la sua vicinanza alla porta, posto in posizione privilegiata per i collegamenti con l’esterno. Del primo vantaggio possono fruire le donne del
paese, che sono solite andare anche ad impastare, su di un grande tavolo messo a
141
BENAITEAU, op. cit., pp. 149-157; 183-185; 201-216.
Ibid., p. 182.
143
LABROT, op.cit., p. 53 e segg.
142
240
Antonio Mele
loro disposizione dal fornaio,144 nello “stanzone” del forno, portando con sé farina
e lievito. Il fornaio può, a sua volta, giovarsi della vicinanza dell’edificio alla porta
verso Lucera, che rende agevole il trasporto dalla campagna di legna da bruciare o
quello del pane da vendere altrove.
Il fornaio per ogni venti forme di pane, di misura fissa e prestabilita, che
vengono cotte, ne percepisce una come prezzo. Il contratto di affitto del forno
prevede la concessione del diritto proibitivo, ma anche del diritto di tagliare la legna, necessaria per la cottura, nelle “difese” della corte baronale, cioè in quei terreni
boschivi recintati dal barone per sfruttarne in modo esclusivo le risorse di pascolo e
di legna (vedremo in seguito come l’introduzione di queste recinzioni fosse tra i
principali motivi di scontro tra signore e vassalli). Nel 1698 il forno è affittato a
Domenico Pacolo (ma il cognome è molto poco leggibile), con contratto triennale
stipulato nel 1695, per 36 ducati all’anno, 16 per la legna e 20 per l’esercizio dell’attività.
144
ASNA, A. M., b. 3G/4A, Apprezzo di Volturino 1698.
Figura 2: pianta e prospetto principale della taverna “del Cavallaro”(ASNA, A. M., b. 46 A)
241
I Montalto di Fragnito a Volturino
Anche dalla taverna il barone ricava annualmente delle entrate in danaro.
Quella descritta nell’apprezzo si trova sul Regio Tratturo Lucera – Castel di
Sangro, cioè è posta su di uno tra i “percorsi principali”145 del bestiame transumante
proveniente dall’Abruzzo.
Ogni anno, ci segnala John Marino,146 il trasferimento degli animali era scandito da un calendario che prevedeva tra la metà di settembre ed i primi di novembre
il raggiungimento dei pascoli invernali della Capitanata, e tra la fine di aprile ed i
primi di maggio, il viaggio di ritorno di greggi ed armenti verso i pascoli estivi delle
montagne abruzzesi. Gli affari della taverna del Tratturo, non a caso chiamata anche taverna del Cavallaro, dal nome degli armati a cavallo che scortavano il doganiere nei suoi spostamenti lungo le tratte della transumanza,147 sono molto avvantaggiati dal fatto di trovarsi su questa strada. L’apprezzo ci riferisce, infatti, che
alcuni ufficiali della Regia Dogana soggiornano nella taverna nei mesi di settembre,
ottobre, novembre, ed ancora in quelli di aprile e maggio, dovendo effettuare la
“esazione dei locati”, ossia dovendo riscuotere la fida dai pastori assegnatari di poste all’interno delle locazioni148 della zona, tra i quali, c’è la Difesa di Selvapiana, il
bosco di quasi 2.800 ettari,149 in passato condiviso dall’università di Volturino con
quelle di Motta e Pietra, ed ora di proprietà della Regia Corte.
L’edificio si trova a due miglia dall’abitato e possiede una torre, cioè è dotato,
a differenza del palazzo baronale, di una struttura difensiva, che mette in luce i
rischi degli spostamenti di lunga distanza del bestiame, dovuti alle imprese di ladri
o banditi, baronali o meno.150 Gli ambienti abitativi della taverna si sviluppano su
due piani, uno inferiore in cui è situata una lunga stanza, riservata per metà alla
dispensa e per metà al focolare, ed uno superiore, dove, evidentemente, è possibile
dormire. La vicinanza della fiumara del Porcile rende agevole l’approvvigionamento d’acqua da parte dell’oste e l’abbeveraggio degli animali dei pastori e dei cavalli
degli ufficiali della dogana.
Gli ufficiali, per ascoltare messa nei giorni festivi in cui dimoravano nella
locanda, avevano (l’apprezzo non ci dice quando) patrocinato la costruzione di una
cappella accanto ad essa: un esempio dello zelo religioso degli uomini del passato,
della molteplicità di punti di vista da cui si può guardare al fenomeno, a prima vista
esclusivamente economico, della transumanza.151
145
J. MARINO, L’economia pastorale nel Regno di Napoli…, cit., p. 87. A questo volume si rinvia per le
questioni riguardanti il complesso sistema economico e sociale connesso alla pratica del pascolo transumante
tra Abruzzo e Puglia, e la sua regolazione politico–amministrativa operata dalla Regia Dogana delle Pecore di
Puglia (il cui quartier generale era sito nella città di Foggia) tra il 1447 ed il 1806.
146
Ibid., p. 86.
147
John MARINO, I meccanismi della crisi nella Dogana di Foggia nel XVII secolo, in Angelo MASSAFRA,
Problemi di storia delle campagne meridionali in età moderna e contemporanea, Bari, Dedalo, 1981, p. 319.
148
MARINO, L’economia pastorale…, cit., p. 87.
149
SAVASTIO, op. cit., p. 116.
150
MARINO, op. cit., pp. 38-58.
151
Ibid., pp. 90-91.
242
Antonio Mele
Il prezzo pattuito per i funzionari doganali era di 15 ducati per la permanenza primaverile di aprile e maggio e 10 ducati per quella autunnale di settembre,
ottobre e novembre.
Dal 1695, con contratto triennale, la taverna appare data in affitto a Carminio
Pepe, che corrisponde alla corte baronale 43 ducati annui, 30 per la taverna e 13 per
il terreno, tra le otto e le dieci versure, ad essa annesso, di cui la maggior parte sono
di seminativo ed il resto boscate.
Dall’apprezzo apprendiamo che c’è un’altra entrata feudale di 30 ducati, sulla cui origine le testimonianze raccolte dal tavolario sono piuttosto discordanti.
Alla fine egli riesce a stabilire che si tratta del censo annuo per alcuni terreni concessi dalla corte baronale all’università.
Tutti i beni che abbiamo descritto finora sono caratterizzati dal fatto di fornire al barone rendite in danaro. Accanto ad esse, una cospicua parte della rendita
feudale complessiva era rappresentata da entrate in natura.
Esse provenivano dal diritto del signore di riscuotere una quota del raccolto
di coloro che coltivavano parti del demanio feudale.152 Come vedremo tra poco, la
tradizione fissava l’ammontare di questa alla frazione di un decimo del raccolto
(diritto di decima). Cioè poneva il guadagno del signore in relazione alla maggiore
o minore bontà dell’anno agricolo, facendogli condividere una parte del rischio
sopportato dai contadini.
Dall’apprezzo del 1698 apprendiamo che, alla fine del Seicento, questo sistema di gestione del demanio feudale, a Volturino, non è più in vigore. Il barone ha
diritto di esigere due tomoli di cereali per ogni versura coltivata in tutti i terreni
della comunità infeudata “così di particolari, propri, demaniali, baronali, non essendone esenti nemmeno li territori de’ preti e delle Chiese”.
Da altre fonti siamo in grado di datare questo passaggio dal nuovo al vecchio
sistema di esazione. Nel 1586 nell’assenso conferito dal sovrano all’acquisto, da
parte di Bartolomeo Caracciolo, del feudo di Volturino si contempla ancora un
diritto alla “deecima de’ terraggi”.153 Meno di quaranta anni dopo, una convenzione del 1621 tra Giovan Battista Caracciolo e Matteo Conte, procuratore dell’università, avrebbe sancito il dovere di tutti i vassalli che coltivassero terreni non appartenenti al demanio di Volturino, di corrispondere due tomoli a versura del loro
raccolto così come già si faceva per le terre appartenenti al demanio.154 Dunque
l’introduzione del nuovo sistema sarebbe anteriore al 1621 per quanto riguarda
l’interno dei confini del feudo e, da questa data, estesa anche alla coltivazione dell’esterno, come un gravame sul lavoro contadino in generale, sganciato dal fatto che
la coltivazione avvenisse sul territorio del signore. Per la verità questa seconda notizia riportata dalle fonti ci lascia perplessi, anche perché l’apprezzo del 1698 fa
152
BENAITEAU, op. cit., p. 159 e segg.; ASTARITA, op. cit., p. 40. In generale sullo schema ‘classico’ del sistema
agrario feudale in età moderna, cfr. AGO, op. cit., pp. 43-70.
153
ASNA, A. M., b. 100 A, f. 100(1), Notizie sul feudo di Volturino.
154
ASNA, A. M., b. 2 A, Genealogica descrizione della terra di Volturino.
243
I Montalto di Fragnito a Volturino
riferimento al diritto di terraggio od azione esclusivamente riguardo ai territori
coltivati all’interno del demanio feudale. In ogni caso, ciò che conta è che, con l’acquisto di Volturino del 1628, i Montalto ereditano dai signori precedenti questo
nuovo sistema di gestione del patrimonio terriero feudale, e mai, nonostante il conflitto con l’università che esso comporta, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, mostreranno di volerlo mutare. Possiamo dire che essi scelgano, in questa
circostanza, di accentuare lo sfruttamento economico anche a spese del mantenimento degli equilibri e dell’ ‘armonia’ sociale in qualche modo garantita dalle antiche consuetudini.
Non tutte le famiglie feudali del Regno di Napoli si comportano nello stesso
modo, non tutte acuiscono il drenaggio di denaro e prodotti agricoli dai propri
feudi approfittando della congiuntura dei decenni dalla seconda metà del Cinquecento fino agli anni venti del Seicento; congiuntura i cui effetti erano stati aumento
del prezzo del grano e forte bisogno di terra da parte dei contadini. Apprendiamo,
per esempio, dallo studio di Tommaso Astarita sui Caracciolo di Brienza, che questi non abbandonarono mai i metodi di gestione tradizionali, per ragioni che vanno
dalla condivisione paternalistica di fondo del tradizionalismo della società rurale, al
tentativo di garantirsi prima di tutto pacifiche relazioni con le comunità, viste come
assicurazioni sulla stabilità delle entrate.155
Viceversa, per un’altra famiglia, quella dei Tocco di Montemiletto, Michèle
Benaiteau156 parla di una vera e propria “offensiva signorile”, realizzatasi nel quarantennio a cavallo tra XVI e XVII secolo, a spese della tradizione, i cui capisaldi sono
individuati nel passaggio dal ‘mite’ sistema del terraggio a contratti di fitto di terre scritti, con possibilità di rapido imprigionamento dei debitori insolventi mediante i poteri
giurisdizionali e nella tacita ipoteca dei beni dell’esattore delle entrate feudali: l’erario.
Questi era un vassallo, scelto ogni anno tra i più agiati della comunità, il quale
doveva operare del tutto gratuitamente, in quanto il diritto di erariato faceva parte del
patrimonio feudale del signore. L’autrice mette in luce, in particolare, come il motivo
dello straordinario attaccamento del signore a quest’ultimo diritto, come dimostra la
disponibilità a sopportare lunghe liti con l’università di Montemiletto per mantenerlo, non potesse essere semplicemente quello di risparmiare manodopera per l’amministrazione delle entrate feudali (si sarebbe trattato di poche decine di ducati annui
contro le migliaia di introito), ma rispondeva ad una strategia complessiva di pressione politica, tesa, con l’ausilio dei poteri giurisdizionali, a “mantenere i rapporti specifici tra vassalli e signore riguardo alle terre e agli altri diritti del feudo”.
In più l’erario “scelto obbligatoriamente tra i membri dell’università, era responsabile dell’esazione per tutti, e ciò finiva per scaricare le tensioni sulla sua persona”.157
155
ASTARITA, op. cit., pp. 70-95.
BENAITEAU, op. cit., p. 199 e segg.
157
Ibid., p. 206.
156
244
Antonio Mele
Per quanto riguarda la gestione di Volturino la pretesa dell’erariato non pare
di vitale importanza né per i Caracciolo (i precedenti feudatari), né per i Montalto.
I primi, come si desume dall’estratto dell’atto di vendita del feudo al duca di Fragnito,
cedono, probabilmente alla fine del Cinquecento, alla richiesta da parte dell’università di sostituire questo dovere con un pagamento annuo di 80 ducati;158 per quanto
riguarda i secondi, non abbiamo trovato alcuna traccia di tentativi di mutare i termini di questo accordo. Rimandando le considerazioni sul ruolo che, in tale esito,
può aver avuto la capacità politica dell’università, rileviamo come, da parte dei signori, si sia ritenuto più conveniente accettare la monetizzazione, peraltro molto
vantaggiosa, di un diritto,159 piuttosto che produrre tensione sociale per perpetuare
un particolare tipo di rapporti con i vassalli, che, evidentemente, non era sentito
come indispensabile al proficuo sfruttamento economico del feudo.
a) I beni allodiali
Il patrimonio allodiale (di proprietà comune, non feudale) del duca di Fragnito,
in Volturino, è molto composito quanto a tipologia dei beni posseduti.
Il primo cespite menzionato dall’estensore dell’apprezzo del 1698 consiste
nella rendita di 239,2 ducati “de’ fiscali” dovuti dalla comunità al signore. I fiscali
erano pagamenti annui, di natura fiscale, come suggerisce il nome stesso, dovuti
dalle università al governo centrale. Questo, in età spagnola, aveva venduto la maggior parte di essi ai propri creditori, i cosiddetti fiscalari. “In molti casi gli stessi
baroni avevano comperato i fiscali relativi ai loro feudi, al fine di rafforzare il potere sui propri vassalli”.160 Si era così aggiunto ai patrimoni signorili un bene che
avvantaggiava il feudatario dal punto di vista non soltanto economico, fornendogli
anche un ulteriore strumento di pressione politica nei confronti dell’università, di
cui è ogni anno creditore per una cospicua somma in danaro.
Come bene allodiale del signore di Volturino è pure registrata una struttura
industriale molto importante per la vita della comunità: il mulino. Tale servizio
molto spesso fa parte, invece, del patrimonio feudale dei baroni ed è protetto, come
abbiamo visto, da diritto proibitivo. Nell’Assenso Regio all’acquisto del feudo da
parte dei Montalto questo diritto non compare, poiché non era evidentemente posseduto dai Caracciolo, né emerge dalle fonti posteriori che abbiamo analizzato.
Nel 1698 constatiamo, comunque, che quello baronale è l’unico mulino presente sul territorio, pur essendovene, in un passato forse remoto, un altro, quello di
Antonio Quito, che il tavolario definisce “al presente diruto”, ma che ancora, a fine
Seicento, dà il nome ad una località del contado.
158
ASNA, A.M., b. 2 A, Genealogica descrizione della terra di Volturino.
Il valore della rendita annua di 80 ducati al posto dell’erario è valutata pari a 1200 ducati, 200 ducati in
più, come vedremo, del valore assegnato al mulino.
160
ASTARITA, op. cit., p. 115.
159
245
I Montalto di Fragnito a Volturino
Il mulino funzionante si trova ad un miglio di distanza dal centro abitato ed
è collocato oltre il corso d’acqua denominato la fiumara del Porcile, che divide a
nord il territorio di Volturino da quello di Motta Montecorvino, dunque in una
posizione molto comoda per il suo utilizzo da parte degli abitanti di entrambe le
comunità. È naturalmente un mulino ad acqua, come la maggior parte dei mulini
del regno di Napoli161 per l’alto grado di aleatorietà dell’energia eolica, ed è costituito da una stanza unica con soffitto di tetti, la metà della quale, con relativi ingranaggi, è posta sottoterra. Ciò consente il deflusso dell’acqua necessaria per muovere la ruota in una struttura a forma di torre costruita, in mattoni, sopra la macina,
ottenuta componendo più pezzi, presumibilmente di legno o mattoni, tenuti insieme da un cilindro di ferro.
L’acqua, secondo una modalità molto comune, arriva in questa struttura attraverso un canale sotterraneo che parte dalla fiumara, di cui non ci è detto il materiale di costruzione. Apprendiamo, tuttavia, da Gerard Labrot,162 che i materiali
utilizzati per i canali erano generalmente legno, mattoni o terra, tutti molto fragili e
bisognosi di frequenti riparazioni, soprattutto in presenza di un regime delle acque
torrenziale come quello proprio del Subappennino dauno (che peraltro favorisce,
con la sua abbondanza di corsi d’acqua, l’impianto di tali attrezzature). Non a caso
la giornata di lavoro gratuito per la riparazione della diga del mulino, compare, nei
feudi dei Tocco di Montemiletto, tra i lavori imposti ai vassalli.163
Sempre in questo complesso feudale studiato da Michèle Benaiteau, troviamo la differenziazione della tariffa per la molitura tra abitanti dei feudi e forestieri,164 considerata come una sorta di conseguenza vantaggiosa, per le comunità, del
fatto che il mulino fosse bene signorile e protetto da diritto proibitivo. Questa disparità di trattamento non avviene a Volturino, dove sia i primi utenti, che gli altri,
devono pagare 5 grani per ogni tomolo di cereali fatto macinare.
Non è illogico immaginare, da parte dei Montalto, di fronte ad una situazione di monopolio naturale evidentemente creata dall’assoluta mancanza di possibili
concorrenti nella zona, la scelta di fare a meno dello jus prohibendi, il quale, se
sancisce a livello istituzionale il monopolio di alcune attività, comporta spesso, poiché feudale, la pretesa, da parte dei vassalli, di atteggiamenti paternalistici, come,
appunto, il migliore trattamento tariffario. Se così fosse i duchi di Fragnito apparirebbero, ancora una volta, nei confronti di Volturino, ultimo feudo acquistato,165
ben attenti alla reale efficacia economica della loro gestione, capaci di capire quan-
161
LABROT, op. cit., pp. 204 – 206.
Loc. cit.
163
BENAITEAU, op. cit., p.155. Per quanto riguarda Volturino questo diritto è inconcepibile essendo considerato il mulino un bene burgensatico.
164
Ibid., p. 182.
165
Sulla differenziazione, a livello successorio, tra feudi antichi e feudi nuovi, cfr. VISCEGLIA, op.cit. Essa
era collegata alla generale attribuzione di maggiore importanza, per il lustro del casato, dei feudi acquisiti in
precedenza, i quali connotavano, con le prerogative che attribuivano al feudatario, la potenza che si voleva più
antica possibile, del proprio lignaggio.
162
246
Antonio Mele
do fosse realmente necessario, per ottenerla, utilizzare le possibilità offerte (dentro
e fuori dal feudo) dal proprio potere di feudatari, e quando il metodo dell’imposizione potesse essere superfluo o addirittura svantaggioso.
Connesso al mulino va considerato un appezzamento di 5 versure di terreno,
quattro delle quali sono chiamate la vigna, e nel 1698 in parte invase dalla boscaglia.
Sono tuttavia mantenute due tomolate per un vigneto, che un tempo doveva essere
molto più esteso, con vicino degli olivi, un noce, un gelso, due cipressi, molti fichi ed
altri alberi da frutta. Una costruzione diroccata “che serviva per comodità di detta
vigna”, mostra quanto in passato essa dovesse essere più curata. Per il trionfo della
coltura promiscua, la versura rimanente dell’appezzamento è costituita da seminativo.
Il procuratore della duchessa di Fragnito dichiara all’estensore dell’apprezzo
che il mulino è dato in affitto a partire dal settembre del 1697, con contratto triennale,
a Matteo dello Colle,166 per 31 ducati annui, insieme alla vigna ed a 10-15 versure di
terreno seminativo. Ma il tavolario non dà credito a questa dichiarazione e, come
abbiamo visto, attribuisce al mulino una sola versura di terreno seminativo. Probabilmente in questo caso il procuratore della duchessa di Fragnito tentava di far
considerare allodiali terreni che invece erano di natura feudale.
Il valore del mulino è valutato per 1.000 ducati.
Per completare il quadro del patrimonio allodiale del signore di Volturino in
questo feudo non ci resta che analizzare la sua proprietà terriera.
La prima proprietà descritta dal tavolario è una tenuta di più di 200 versure, di
cui solo una ventina sono seminabili, mentre il resto è tutto bosco di querce, olmi e
carpini, nota come il Marano, termine con cui si indicano, nell’idioma locale, gli
impaludamenti, uno dei quali, in passato, doveva occupare parte della zona. Questo
territorio, di cui la maggior parte è in leggera pendenza, si trova a sud – est del centro
abitato ed è, come logico, destinato al pascolo. Le poche versure seminabili sono
giudicate come molto poco produttive. Infatti in molte annate parte di esse, o tutte,
sono lasciate incolte. Non deve incoraggiare la semina di queste terre neanche il canone d’affitto - 4 tomoli a versura - chiesto dalla corte baronale, che probabilmente può
trarre, anche in assenza di coltivatori, un grosso margine di guadagno dallo sfruttamento pastorale dell’intero possedimento. Soltanto in una situazione di grande fame
di terra coltivabile i contadini si sarebbero impegnati a pagare tanto, ma questa non
era certo la congiuntura della fine del Seicento, come dimostra il fatto che nel 1698 il
seminativo non è coltivato da nessuno. L’ultimo affitto dichiarato dalla duchessa di
Fragnito per esso risale al 1691, e riporta un compenso di 50 tomoli di grano, da
pagare all’erario baronale. Il valore complessivo della tenuta è valutato per 1.150 ducati.
Vedremo in seguito che il possesso del Marano è al centro di una delle più
aspre controversie tra università e duca di Fragnito.
La parte restante del possesso agrario allodiale del duca di Fragnito a Volturino
166
Cercheremo nel capitolo successivo di connotare socialmente questo e gli altri affittuari di beni feudali
di cui conosciamo il nome.
247
I Montalto di Fragnito a Volturino
consisterebbe, secondo le informazioni raccolte dal tavolario regio a fine Seicento,
in 45,5 versure di terra, frazionate in appezzamenti che vanno da un massimo di
otto versure ad un minimo di due. La maggior parte dei terreni descritti possiede
una parte boscosa od incolta, che si spiega con la scarsa pressione demografica che
caratterizza la comunità alla fine del secolo XVII, come vedremo meglio più avanti.
Siamo in grado di localizzare una parte della proprietà riportata.
I due nuclei terrieri più consistenti, rispettivamente di 14,5 e 15 versure, si
trovano nelle due località di Vadocarro e Orticelle (o Grotticelle). La prima si trova
al confine sud – orientale del territorio di Volturino,167 nella sua parte più pianeggiante e quindi più adatta alla coltivazione di grano ed orzo. Sullo stesso versante,
ma più a nord (confinante con l’immenso bosco di Selvapiana, che divide in due
parti, una settentrionale, l’altra meridionale, il territorio di Volturino) si trova la
seconda località, anch’essa tra le migliori per la coltivazione.
Ancora confinanti con il margine meridionale di Selvapiana sono le otto
versure in località piano di Lalla od Ischie di Giuliano, che hanno il vantaggio di
confinare pure con il Regio Tratturo. Più a sud, ma sempre nella pianura fertile, si
trovano le tre versure della Madonna di Serritella.
Soltanto le tre versure di Piano di Gallo e le altre tre di S.Chirico stanno nella
parte occidentale del territorio, quella meno vantaggiosa perché più alta e con maggiori pendenze, anche se le prime sono comunque di terreno pianeggiante.
Riteniamo tuttavia che nell’apprezzo del 1698 non sia descritto l’intero patrimonio allodiale del signore di Volturino. Infatti nella Genealogica descrizione
della terra di Volturino,168 si riportano tutti gli acquisti di terra burgensatica effettuati da Massimo Montalto nel 1629, un anno dopo la compera del feudo. Le versure
acquistate, secondo questa fonte, sono ben 137, di cui i tre nuclei principali, che
insieme raggiungono quasi la metà del totale, sono localizzati nelle tre contrade
pianeggianti (quindi più produttive) di Vadocarro, Orticelle e Piano di Gallo. È
difficile pensare che alla fine del Seicento il patrimonio terriero del signore di Fragnito
fosse diminuito di quasi 100 versure di terreno rispetto a settant’anni prima, tanto
più che nel catasto onciario del 1742169 egli denuncia più di 200 versure di terra
allodiale. Anche alla metà del Settecento, si può rilevare che due dei quattro nuclei
di terra più consistenti si trovano nella zona fertile e pianeggiante ad est del territorio (27 versure in località Masseria Santacroce e 14 in località Valle Jovara)170 ma,
probabilmente, per la maggiore pressione demografica del XVIII secolo troviamo
un blocco di 32 versure di seminativo nella zona più scoscesa, e dunque meno adatta alla cerealicoltura, di Monte di Milo, a sud del centro abitato.171 Alle terre che
167
La località Vadocarro è riportata nelle carte contemporanee, cfr. I.G.M. F° 163, Tavole: III N.E. – IV
S.E. – I S.O. – II N.O.
168
ASNA, A.M., b. 2 A.
169
ASNA, Onciario di Volturino 1742, lib. 7092.
170
I.G.M. F° 163, tavole: III N.E. – IV S.E. – I S.O. – II N.O.
171
ASFG, la citazione esatta della carta Rizzi – Zannoni del 1806.
248
Antonio Mele
abbiamo riportato, sia per il 1629, sia per il 1742, vanno aggiunte le più di 200
versure del Marano, proprietà sempre considerata in maniera separata dalle fonti.
Per quanto attiene al motivo per cui nell’apprezzo del 1698 non compare una
grossa fetta di patrimonio terriero del signore, possiamo solo ipotizzare che, in
quella fase di forte abbandono della terra e di grande diffusione dell’incolto per la
scarsità della pressione demografica, il tavolario fosse portato a limitare la descrizione alle sole terre da cui si ricavasse una qualche rendita.
5. La comunità locale: poteri, società, rapporti col signore
Protagonista di quest’ultimo capitolo sarà la comunità locale di Volturino.
Cercheremo di connotare la sua società tra XVII e XVIII secolo e di definire meglio i suoi rapporti con il potere dei duchi di Fragnito, di cui descriveremo le prerogative più importanti dal punto di vista politico, ossia l’amministrazione della giustizia civile e criminale.
Prima di affrontare questi argomenti riteniamo tuttavia opportuno riportare
qualche passaggio della storia di Volturino antecedente al suo acquisto da parte dei
Montalto. Com’è stato infatti notato da Tommaso Astarita nel suo studio relativo
ai feudi dei Caracciolo di Brienza, le vicende di un’università precedenti alla sua
presa di possesso da parte di una determinata famiglia possono avere una certa influenza sulla sua maggiore o minore remissività nei confronti dei nuovi feudatari.172
Alcuni elementi di quelli che, secondo lo studioso, vanno tenuti in particolare considerazione sono la maggiore o minore antichità dello status feudale di una
determinata comunità, che influisce sul tipo di radicamento delle clientele legate
alla corte baronale; la presenza di una élite locale capace di coordinare iniziative di
opposizione della popolazione nei confronti del barone e la frequenza con cui l’Università riesce a gestire diritti giurisdizionali e terre, togliendoli, anche solo mediante un appalto, al controllo dell’amministrazione feudale.173
Questi ed altri elementi cercheremo di evidenziare nell’excursus che ci accingiamo a fare sulle vicende di Volturino prima del 1628 (data di acquisto da parte di
Massimo Montalto), in cui renderemo conto di alcuni passaggi di proprietà del
feudo e della sua breve esperienza come università demaniale.
Il dato più antico a nostra disposizione riguardo al governo di questa comunità risale al 1447. A quella data, durante il regno di Alfonso d’Aragona,174 essa
risulta essere feudo di Garzia Cavaniglia, conte di Troia, il quale possiede anche
quelli di Pietra e Motta Montecorvino, Volturara ed Orsara.175
172
ASTARITA, op. cit., p. 113.
Loc. cit.
174
Per l’inquadramento del periodo, cfr. M. DEL TREPPO, Il regno aragonese…, cit.
175
Museo del Territorio di Foggia, carta feudale del 1447. Fonte: Giovanna DA MOLIN, La popolazione del
Regno di Napoli a metà Quattrocento (studio di un focolario aragonese), Bari, Adriatica, 1979.
173
249
I Montalto di Fragnito a Volturino
La successiva intestazione di Volturino di cui abbiamo notizia risale al regno
di Ferdinando d’Aragona. Baordo Carafa compera la comunità dauna dalla Regia
Corte176 nel 1478, dando così inizio al governo più che secolare di questo casato. Il
feudo tuttavia non sarà trasmesso ai discendenti di Baordo, poiché questi lo vende
a suo fratello Alberico solo un anno dopo, nel 1479.177
Nel 1507, a quattro anni dalla conquista militare del Regno di Napoli da
parte della Spagna,178 ad Alberico succede Sigismondo,179 il quale governerà Volturino
per un ventennio.
Nel 1527 la comunità passerà nelle mani di suo figlio Giovan Francesco,180
proprio nell’anno in cui il potere spagnolo nel Regno è insidiato dall’invasione,
fallita,181 di truppe francesi comandate dal signore di Lautrec.
L’erede di Giovan Francesco, Giovan Battista, e l’omonimo nipote sono gli
ultimi due feudatari di Volturino appartenenti al casato dei Carafa. Il primo eredita
il feudo nel 1555, il secondo ne entra in possesso sette anni dopo, per effetto di una
donazione da parte del padre, nel 1562.182 Il suo governo durerà fino al 1582, anno
in cui i creditori di Giovan Battista Carafa, conte di Montecalvo, pretendono ed
ottengono dal Sacro Regio Consiglio la vendita forzosa del feudo di Volturino, che
viene aggiudicato mediante asta ad un fiduciario di Fabio Carafa (fratello di Giovan
Battista), Girolamo de Turris.183 Nella stessa occasione è venduto pure il feudo di
Motta Montecorvino, acquistato anch’esso dal de Turris e subito rivenduto a Virgilio Montalto, il quale aveva nel 1580 già acquistato da Giovan Battista Carafa la
comunità di Pietra Montecorvino.
Come possiamo notare sulla scorta di un saggio di Giuseppe Galasso,184 le
vicende dei conti di Montecalvo nella fase finale del Cinquecento sono comuni ad
alcune altre grandi famiglie feudali del Regno di Napoli. Il forte indebitamento,
dovuto alla grande “competizione del lusso”185 ed al trasferimento nella capitale,
provoca la crisi finanziaria di un certo numero di antichi casati, od almeno di alcuni
rami di essi, inducendoli a disfarsi di parti spesso considerevoli dei loro patrimoni
feudali. In questo modo nuove famiglie, di mercanti forestieri od appartenenti al
ceto togato arricchitesi durante l’espansione economica della metà del XVI secolo,
hanno la possibilità, in un periodo in cui la commercializzazione dei feudi è del
tutto ammessa dal potere sovrano, di diventare anch’esse famiglie feudali. È da sot-
176
ASNA, A.M., b. 100 A, f. 100 (1), Notizie sul feudo di Volturino.
Ibid.
178
Per un inquadramento del viceregno spagnolo nel Regno di Napoli, cfr. MUSI, op. cit..
179
ASNA, A.M., b. 100 A, f. 100 (1), Notizie sul feudo di Volturino.
180
Ibid.
181
MUSI, op. cit., p. 218.
182
ASNA, A.M., b. 100 A, f. 100 (1), Notizie sul feudo di Volturino.
183
Ibid. e ASNA, A.M., b. 2 A, Genealogica descrizione della Terra di Volturino.
184
GALASSO, op. cit., pp. 250-257.
185
Ibid., p. 255.
177
250
Antonio Mele
tolineare, ancora con Giuseppe Galasso, che questi processi non vanno affatto visti
come una dissoluzione della feudalità tradizionale. Spesso infatti sono altre famiglie antiche ad accaparrarsi i feudi messi in vendita da quelle in crisi.
Addirittura nel caso del conte di Montecalvo a ricomperare i due feudi messi
in vendita “ad istanza dei creditori” è il fratello stesso, Fabio Carafa. Come abbiamo anticipato, questi rivende il feudo di Motta Montecorvino subito dopo il suo
acquisto. Per quanto riguarda Volturino, invece, l’aspirante feudatario deve fare i
conti con un’iniziativa dell’università che denota chiaramente la sua totale
indisponibilità a farsi governare ancora da un Carafa.
Questa infatti “proclama al demanio”,186 cioè fa richiesta alla Regia Camera
della Sommaria di poter ricomprare tutti i diritti feudali concessi sulle sue terre e la
sua giurisdizione, rimborsando Fabio Carafa dei 27.300 ducati spesi per il loro acquisto. L’università era disposta, per fare ciò, ad indebitarsi fortemente con
Bartolomeo Caracciolo.
L’operazione doveva essere tanto rischiosa per le finanze della comunità locale che questa ottiene l’ammissione al demanio regio, nel dicembre del 1582, solo
alla condizione di impegnarsi a rivendere nel giro di tre anni
a particolare in feudum e precedente Regio Assenso tutti li beni ed introiti
baronali, ed il prezzo da quelli proveniendo impiegarlo in ricompensa dei debiti contratti per ottenere il detto Demanio.187
In effetti nel 1585 l’università mette all’asta il diritto di forno, la decima dei
terraggi, la taverna all’interno dell’abitato, i censi perpetui, la bagliva e la mastrodattia:
il vincitore di essa è lo stesso creditore della comunità, don Bartolomeo Caracciolo.
Come segnala Giovanni Muto, molte università tra la fine del Cinquecento
ed i primi decenni del Seicento cercano di diventare demaniali, spesso dipingendo,
nelle loro suppliche, tremendamente oppressivo il regime instaurato dai loro
feudatari.188 Questo deve essere stato anche il caso dell’università di Volturino, che
era peraltro consapevole già dal momento della proclamazione al demanio che nel
breve volgere di tre anni avrebbe dovuto nuovamente alienare gran parte dei diritti
feudali ad un altro soggetto. Il senso della sua iniziativa appare soprattutto quello
di liberarsi ad ogni costo dal governo centenario del casato dei Carafa. Ciò implica
che soprattutto nell’ultima parte del XVI secolo il clima sociale a Volturino, per
quanto attiene ai rapporti tra barone e vassalli, doveva essere stato all’insegna del
conflitto. Sulla base delle nostre fonti bibliografiche possiamo riportare alcuni degli obblighi introdotti nell’ultimo periodo del governo dei Carafa.
186
ASNA, A.M., b.2 A, Genealogica descrizione della Terra di Volturino.
Ibid.
188
Giovanni MUTO, Istituzioni dell’universitas e ceti dirigenti locali, in GALASSO-ROMEO (a cura di), op.
cit., vol. IX, p. 54. Non mancano peraltro esempi di università che chiedono di ritornare sotto il governo dei
loro signori tradizionali, ritenendolo migliore di quello instaurato dalle élite locali.
187
251
I Montalto di Fragnito a Volturino
La corte baronale aveva cominciato ad esigere nuovi obblighi per i vassalli,
sia di tipo più che altro simbolico, come quello del regalo di Natale al signore da
parte di ogni capofamiglia, sia di impatto più effettivo sull’economia contadina,
come i prelievi che colpivano i coltivatori di lino e l’appropriazione di parti degli
animali cacciati dai contadini.189 Questi esempi di nuove pretese della corte baronale,
a cui si aggiungeranno altre innovazioni a tutto svantaggio dei vassalli - come quella
di esigere il terraggio sulla base della superficie coltivata e non del raccolto ottenuto, introdotta a Volturino tra il 1586 ed il 1621190 - sono emblematici di un inasprimento generalizzato del potere signorile sulle campagne del Regno di Napoli. Esso,
come è noto, comincia verificarsi proprio negli anni ottanta del Cinquecento, per
maturare appieno durante la prima metà del secolo XVII .191
Nella fase iniziale di questa congiuntura politico-sociale l’università di
Volturino si dimostra capace, come abbiamo visto, di iniziative di resistenza contro
il potere baronale. Domandando e riuscendo ad ottenere lo status di università di
demanio regio, essa acquisisce la gestione diretta dell’intero corpus dei diritti sugli
uomini e sulle terre posseduti in precedenza dal feudatario. La maggior parte di
questi diritti è però costretta a rivenderli già dopo tre anni.
Va rilevato che, con la prima vendita del 1585, l’università non cede tutti i diritti
giurisdizionali principali, ma solo mastrodattia e bagliva. Questa, come abbiamo visto
in precedenza, consisteva, in età spagnola, nella giurisdizione su controversie di natura
civile in cui i valori monetari in gioco non fossero superiori ai tre, quattro ducati.
Tuttavia la condizione finanziaria dell’università di Volturino doveva essere
troppo precaria per mantenere a lungo i diritti ancora in suo possesso. Le fonti
riportano infatti che nel 1589 la portolania viene acquistata da don Fabrizio
Montalto,192 signore di Pietra e Motta Montecorvino. Nel 1603 l’università è costretta a vendere l’ultimo diritto rimastole, probabilmente quello che maggiormente aveva cercato di mantenere in proprio possesso proprio perché il più importante
dal punto di vista politico. Facciamo riferimento, ovviamente, al diritto di giurisdizione civile e criminale, venduto in quell’anno a Giovan Battista Caracciolo marchese di Volturara.193 Possiamo dire che con quest’ultima vendita l’università di
Volturino può tornare ad essere definita una terra feudale a tutti gli effetti, dopo un
quarantennio in cui aveva goduto della status di università di demanio regio.
Nel corso del XVII secolo il potere giurisdizionale del signore di Volturino
crebbe ancora.
Infatti, se nel 1628 Giovan Battista Caracciolo può, vendendo il feudo di
189
SAVASTIO, op. cit., p. 40.
Ibid., pp. 53-54
191
MUTO, Istituzioni dell’universitas…, cit., p. 54. Sull’inasprimento del potere signorile cfr. Rosario VILLARI,
La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari, Laterza, 1973; cfr. anche La feudalità e lo stato
napoletano nel secolo XVII, in FASANO GUARINI, op. cit. e BENAITEAU, op. cit., p. 208 e segg.
192
ASNA, A.M., b.2A, Genealogica descrizione della terra di Volturino.
193
ASNA, A.M., b.100 A, f. 100(1), Notizie sul feudo di Volturino.
190
252
Antonio Mele
Volturino al genero Massimo Montalto, cedergli soltanto la “giurisdizione e la cognizione delle prime cause civili, criminali e miste”, nel 1698, la corte baronale della terra
di Volturino possiede “vassallaggio e giurisdizione di esso, cognizione delle cause
civili, criminali e miste in prima e seconda istanza, mero et mixto imperio et gladi
potestate”.194 Come è evidente, nei primi settanta anni del loro governo i Montalto
avevano acquistato anche le cosiddette “seconde cause”,195 in pratica la giurisdizione
del primo grado di appello, il che raddoppiava il loro potere giudiziario e politico.
Dobbiamo infatti considerare che sulla base del riconoscimento ad ogni feudo
abitato di una propria giurisdizione, effettuato da Alfonso d’Aragona196 (re di Napoli dal 1442 al 1458), si era creato “un sistema di appelli gerarchicamente disposti
dall’istanza delle prime cause civili e criminali all’istanza superiore della Vicaria e
dei regi consigli, tenendo conto delle varie eccezioni di foro, e delle beghe con le
regie udienze il cui ruolo di fronte alle corti dei feudi fu lungo a stabilirsi”.197 Ciò in
concreto, nel nostro caso, significava che, in qualsiasi controversia legale, il primo
grado di giudizio non controllato dal potere baronale cui potevano adire i vassalli
di Volturino, era in effetti il terzo, rappresentato dalla Regia Udienza di Lucera.198
Una notevole distanza dunque tra i cittadini e le istituzioni regie che, considerando
anche il peso delle spese legali per ogni grado di giudizio, esemplifica bene l’enorme
grado di potere dei baroni rispetto ai loro vassalli.
Vediamo ora come questo potere, secondo quanto riportato nell’apprezzo
del 1698, era concretamente gestito dal signore di Volturino.
Questi, signore anche di Pietra e Motta Montecorvino, aveva il diritto di
nominare un governatore,199 il quale risiedeva a Pietra Montecorvino e svolgeva la
funzione di magistrato nelle cause di sua competenza (in età spagnola quelle civili
di valore superiore ai tre – quattro ducati e quelle criminali) per l’intero stato feudale di Capitanata dei duchi di Fragnito. Il governatore - il capitano, laddove la corte
baronale possedeva solo la giurisdizione delle prime cause doveva essere addottorato in legge, oppure avere un consulente dottore. […]
Ricordiamo che egli era il naturale organo di trasmissione degli ordini del potere regio (ordini del Sacro Regio Consiglio o della Camera della Sommaria) ed
anche il naturale rappresentante dell’autorità regia che presiedeva alle convocazioni dei parlamenti dei cittadini ecc.[…], nel rendere giustizia si doveva unicamente riferire al diritto del Regno e delle prammatiche regie.200
194
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
BENAITEAU, op. cit., p. 151, n. 6
196
DEL TREPPO, op. cit.
197
BENAITEAU, op. cit., p. 151.
198
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
199
Angelantonio SPAGNOLETTI, Giudici e governatori regi nelle università meridionali (XVIII secolo), in
«ASPN», CV (1987), pp. 415-454.
200
BENAITEAU, op. cit., p. 151.
195
253
I Montalto di Fragnito a Volturino
L’apprezzo del 1698 ci informa anche del fatto che il governatore aveva a
Volturino (e probabilmente nelle altre comunità dello stato feudale) un suo sottoposto, un suo “luogotenente”,201 il quale generalmente era uno dei governanti eletti
dal parlamento dell’università: il “camerlengo”.
Ogni anno infatti, l’8 di Maggio, il parlamento dell’università, composto,
come in tutti i piccoli centri abitati quasi esclusivamente da contadini,202 da tutti i
capofamiglia della comunità, eleggeva i propri governanti, ossia un “sindaco”, due
“eletti”, un “camerlengo” ed un “giurato”.203
La natura e l’effettiva funzione di queste cariche elettive alla fine del Seicento
rappresenta l’esito della lunga storia delle istituzioni dell’universitas nel Regno di
Napoli204 , e soprattutto di quelle rurali, come Volturino .205 All’interno di queste, il
ruolo del sindaco era venuto a consistere, sin dal Quattrocento, nella gestione dell’apparato finanziario, in particolare per ciò che atteneva alla distribuzione dei carichi fiscali tra i cittadini dell’università, i quali dovevano pagare sia le tasse imposte
dal governo centrale, sia quelle imposte dalle autorità comunitative locali.206
La funzione del giurato era invece quella di “citare gli imputati davanti alla
Corte[…]. Si trattava quindi della figura del mastrogiurato che Carlo I d’Angiò
aveva proclamato elettiva nei feudi, riservando all’autorità regia la ratifica della nomina.”207
Per camerlengo si intende, nel linguaggio amministrativo antico, soprattutto
dell’Italia centro - settentrionale delle città - stato, un “custode della Camera o del
danaro del Comune”.208 Ma in molte fonti feudali, come riporta Michèle Benaiteau,
si utilizza questo termine con il significato di giudice eletto.209
Nel feudo di Volturino, questa figura svolgeva la funzione del capitano feudale, come giudice delle prime cause, ma solo in rappresentanza del governatore.210
Probabilmente questo era tutto quello che rimaneva delle autonomie giurisdizionali
201
Angelantonio SPAGNOLETTI, Il governo del feudo. Aspetti della giurisdizione baronale nelle università
meridionali nel XVIII secolo, in «Società e Storia», 1992, 55, pp. 61 – 79.
202
Ibid., p. 168.
203
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
204
Per seguire lo sviluppo delle istituzioni dell’universitas sin dal periodo della monarchia normanno –
sveva, cfr. MUTO, op. cit..
205
BENAITEAU, op. cit.. In questo saggio si segue soprattutto la vicenda dei rapporti tra signori feudali ed
università rurali del Regno di Napoli nel lungo periodo e con particolare riferimento allo stato feudale più
direttamente studiato dall’Autrice, ossia quello dei Tocco di Montemiletto.
206
MUTO, op. cit., p. 50.
207
BENAITEAU, op. cit., p. 156.
208
Giulio REZASCO, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Bologna, Forni, 1881, p.
127. Ma, come riporta BENAITEAU, op. cit., p. 233 e segg., con questo nome era chiamato a Montefalcione un
guardiano campestre con l’obbligo di denunciare alla corte eventuali reati.
209
BENAITEAU, op. cit., p. 97.
210
Ibid., p. 151, n. 6: “quando poi il feudatario acquistò le cosiddette seconde cause (primo grado d’appello) egli nominò un governatore, affiancato da un secondo giudice. Quest’ultimo non era sempre dottore ed
era chiamato luogotenente. Questi magistrati erano affiancati dal Coadiutore della Corte che svolgeva la parte
di accusatore pubblico”.
254
Antonio Mele
concesse alle università dalla monarchia angioina e successivamente del tutto subordinate, nella sostanza, alla giurisdizione signorile.211 Per adempiere ai suoi compiti il
camerlengo poteva sicuramente avvalersi dei pochi uomini della comunità autorizzati a portare determinate armi,212 i quali svolgevano mansioni di polizia o di carcerieri.
Il fatto che egli fosse un funzionario eletto dalla comunità, ma alle ‘dipendenze’ della corte baronale rende particolarmente evidente quanto le istituzioni
dell’universitas di Volturino, come quelle di tanti altri feudi rurali, potessero essere
controllate dagli uomini dal feudatario. Del resto anche tutte gli altri amministratori sopra citati necessitavano, dopo l’elezione del parlamento e la nomina da parte di
quelli uscenti, della “confirma”213 da parte del barone, il quale, ovviamente, avrebbe
fatto tutto il possibile per ratificare la nomina di persone a sé gradite.
Per completare il quadro del potere giurisdizionale della corte baronale di
Volturino alla fine del Seicento non va tralasciato il fatto che essa gestiva direttamente anche il corpo della bagliva, concedendola in appalto.214 Un tale tipo di gestione rendeva ancora più immediata l’influenza del signore sul tenore della giurisdizione: l’affittuario di un bene lucroso tende a non inimicarsi chi glielo concede
in affitto.
Quanto abbiamo detto fino a questo momento rende conto delle possibilità
che avesse il signore per radicare il proprio potere nel feudo mediante la creazione
di salde clientele. Può essere a questo punto utile, per quanto ci è consentito dalle
nostre fonti, cercare di connotare socialmente alcuni degli affittuari dei corpi feudali, che possiamo presumibilmente considerare ‘uomini del barone’. Ma per fare
ciò più proficuamente è necessario fornire qualche informazione sulla società di
Volturino in generale nei due momenti della sua storia su cui possediamo informazioni: la fine del Seicento e la metà del XVIII secolo.
L’uomini di detta Terra stanno tutti peritati alla coltura de’territori così propri,
come d’altri, o demaniali, e le donne stanno applicate a filare, far calzette, e
tessere e s’impiegano similmente alla coltura de’territori, vestono così l’uni come
l’altre comodamente dei panni, vanno tutti calzati con calzette e scarpe, dormono sopra matarazzi di lana, abitano in case coperte a tetti la maggior parte
con solari de’ mattoni e perché ognuno sta impiegato alla fatica, in detta terra
non vi è miseria, ne vi sono pezzenti. Ogni casa si alleva uno, due, o tre porci
per uso proprio secondo la famiglia, che è la maggior parte dei cittadini tengone
uno, o due somari per uno et alcuni il cavallo, o mulo, con li quali portano a
vendere la legna in Lucera, e se ne servono per altri servizi propri. In detta
Terra non vi è notare, ne medico et in caso di occorrenza lo fanno venire dalle
Terre convicine, il barbiere che similmente fa il chirurgo l’Università lo tiene
assoldato per un tanto l’anno, che se li da in grano, con che è in obbligo far la
211
MUTO, op. cit., pp. 29, 31, 42, 44, 45 e BENAITEAU, op. cit., pp. 87-97; 150-157; 166-177.
ASTARITA, op. cit., p. 123.
213
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
214
Ibid..
212
255
I Montalto di Fragnito a Volturino
barba a tutti gli huomini e remedi nell’infermità, e rispetto ad altre arti, come
scarpari, mastri d’ascia, cocitori, terrari, ed altri dicono non esservene, ma provvedersi nelle occorrenze dalle terre e luoghi convicini.
In questo modo il redattore dell’apprezzo del 1698215 descrive sinteticamente
la società di Volturino, secondo ciò che vede e sente dire in loco durante la sua
ispezione.216
La sua impressione generale è che all’interno della comunità non ci sia miseria, poiché tutti hanno la possibilità di lavorare la terra. Del resto siamo alla fine del
Seicento. La peste degli anni cinquanta del secolo ha decimato la popolazione, come
ancora dimostrano le numerose case abbandonate e diroccate (dirute) che il funzionario incontra all’interno dell’abitato. Tuttavia ora il rapporto tra popolazione e
risorse è senza dubbio buono.
Le abitazioni dei contadini sono a tetto, locuzione con cui si intendono in genere
coperture di tegole o travi di legno.217 Qui prevale la prima soluzione, pur essendovi
nella zona, e soprattutto in questo periodo, una grande abbondanza di boschi.
Le famiglie di Volturino possiedono pure qualche animale domestico. Secondo quanto riporta il funzionario tutte possiedono uno o due maiali, la maggior parte
possiede un asino, ma solo alcune un mulo od un cavallo, per le spese di mantenimento molto più elevate che richiedono questi animali. Per i contadini, asini e cavalli sono
importanti per raggiungere i campi, i quali possono distare anche qualche chilometro
dall’abitato.218 Ma sono importanti anche perché consentono di andare a vendere a
Lucera una delle materie prime più abbondanti della zona, cioè la legna. Grazie a
questo commercio i contadini abbastanza agiati da poter mantenere animali adatti al
trasporto, hanno l’occasione di rimpinguare ulteriormente il loro reddito.
Il quadro generale è quindi quello di una comunità non povera, che tuttavia
appare quasi totalmente indifferenziata dal punto di vista professionale. A Volturino
infatti, come in molte altri borghi rurali della fine del Seicento, non solo mancano
professionisti come il notaio ed il medico, ma anche una serie di artigiani, come il
calzolaio o il carpentiere, che si è costretti a far venire dai paesi vicini.
Un’immagine della società del feudo, posteriore di oltre quarant’anni può
essere può essere raccolta dai dati forniti dal catasto onciario del 1742.219
Per quanto riguarda l’articolazione socio-professionale, si può riscontrare
che la maggioranza della popolazione resta costituita da “bracciali”,220 contadini
con scarso possesso di terra, che sono 89, seguiti dai 49 “massari di campo”, ovvero
“contadini proprietari benestanti”,221 il cui possesso tuttavia non era, in assoluto,
ragguardevole. Erano infatti, secondo i calcoli effettuati da Giacomo Santacroce,222
215
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
Per un’analisi dei pregi e dei difetti dell’apprezzo come fonte storica, cfr. LABROT, op. cit., pp. 3-28.
217
Ibid., p. 193.
218
Ibid., pp. 56-74.
219
ASNA, Catasti onciari, lib. 7092, Onciario di Volturino 1742.
220
Rosario VILLARI, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Bari, Laterza, 1961, p. 75-76.
216
256
Antonio Mele
soltanto poco più di dieci i massari che coltivavano tra le cinque e le dieci versure.
Solo Matteo Lepore, il “massaro di campo” con più terra, ne possedeva 27 versure.223
Undici cittadini di Volturino svolgono attività di tipo artigianale: abbiamo
infatti 3 “mastri muratori”, un “mastro sartore”, che probabilmente è il datore di
lavoro dei due “sartori lavoranti”, due “mastri falegnami”, ed un “mastro embricciaro”, il quale si occupa degli embrici utilizzati per i solai degli edifici. Un vassallo
è classificato con la dicitura generica di “botegaro”. Può essere inserito in questo
sottogruppo anche il barbiere di Volturino, Gaetano Milillo proveniente da Fragnito, il feudo sul quale il signore di Volturino poggia il proprio titolo di duca. Questi
vive nella taverna baronale posta all’interno dell’abitato, dove probabilmente esercita anche la propria attività.
Quattro sono invece i vassalli censiti come allevatori: troviamo infatti tre
“pecorari”, un “vaccaro” ed un “gualano”.224 A Volturino è presente anche un “mortamiero”, Girolamo Canfora di S. Marco in Lamis, ma non siamo in grado di definire la sua attività.
Per quanto riguarda l’élite socio-professionale (che non in tutti i casi coincide con quella economica) della comunità, sulla base del catasto del 1742, possiamo
dire che essa è costituita da soli tre cittadini.
Essi sono Antonio Creta, “Dottore di Medicina”, Gabriele Patuto, “Dottore
di Legge”, e Donato de Ritis, che esibisce il titolo di “Magnifico” e dichiara di
“vivere del suo”.
I primi due fanno parte di quel ceto di professionisti delle comunità rurali
che traggono la loro preminenza sociale dall’autonomia finanziaria e dall’esercizio
di funzioni specifiche all’interno della vita del villaggio. Gli appartenenti a questo
ceto possiedono un titolo di studio presumibilmente conseguito a Napoli, ed in
generale una cultura di tipo più ‘cittadino’ del resto della popolazione.
Pressappoco della stessa categoria cetuale, quella dei cosiddetti ‘civili’, fa parte nel 1742 anche Donato de Ritis, solo che nel suo caso è accentuata la connotazione
“nobilesca” della preminenza sociale. Il fatto di fregiarsi del titolo di “Magnifico”,
di non legare il proprio status ad alcuna attività produttiva, ancorché intellettuale,
indica che questa figura si poneva all’interno della società locale come quella che
maggiormente poteva emulare - naturalmente su scala infima - atteggiamenti propri del signore. Si pensi soltanto al fatto che la casa di Donato de Ritis, come riporta
l’onciario, è composta da “tredici membri” (nel senso di vani), contro, per esempio,
i tre vani della casa del medico. Essa doveva certamente appartenere alla categoria
delle “case palazziate”, edifici su più piani di qualità molto varia, ma che aspirano
tutti a somigliare a quelli abitati dai patrizi delle città.225 C’è da aggiungere che dal
221
Ibid., p. 77.
Giacomo SANTACROCE, Volturino al tempo dei Borboni (1734- 1860), Lucera, 1997, p. 43.
223
Loc. cit.
224
Francesco DELLA MARTORA, La Capitanata e le sue industrie, Napoli, Minerva Sebezia, 1846.
225
Ibid., pp. 175-180.
222
257
I Montalto di Fragnito a Volturino
punto di vista giuridico il Magnifico de Ritis è considerato, nella redazione del catasto, alla stregua di tutti gli altri vassalli di Volturino per quanto riguarda il testatico,
da cui, in molti altri feudi, sono esentati i cosiddetti “nobili civili”. È però, come
questi, esentato dalla tassa sul lavoro (industria) in quanto, come abbiamo visto,
dichiara di vivere di rendita.226
La ricchezza e la posizione sociale degli esponenti di questo ceto sono per lo
più dovute, nei feudi rurali del Regno di Napoli, alle possibilità di arricchimento
connesse alla gestione dell’apparato feudale. Questi vassalli “amministrano la giustizia, sorvegliano lo svolgimento della vita socio- economica, assicurano la riscossione dei diritti signorili”.227
Cercheremo più avanti di dimostrare come quest’assunto generale possa essere confermato rispetto al feudo di Volturino. Ma prima è il caso di svolgere alcune
considerazioni sull’evoluzione complessiva della sua comunità locale tra XVII e
XVIII secolo.
A questo riguardo non possiamo fare a meno di notare, confrontando l’apprezzo del 1698 con l’onciario del 1742, che, nel quarantennio che separa la redazione delle due fonti, la società locale è diventata relativamente più complessa, come
mostra soprattutto l’aumento del numero degli artigiani. Tuttavia accanto a questa
maggiore articolazione socio-professionale a livello medio-basso dobbiamo rilevare che, alla metà del Settecento, i ‘civili’ di Volturino sono ancora pochissimi: ad
esempio c’è un solo dottore e soprattutto manca un notaio. Quest’ultimo dato, in
particolare, non è di poco conto.
Come nota Tommaso Astarita, infatti, il numero di notai in una comunità
può essere indicativa del livello in essa presente di attività economica legata alla
stipulazione di negozi giuridici.228 Il notaio è inoltre una delle figure più tipiche di
quel notabilato locale, cui abbiamo fatto riferimento più sopra, che in molti feudi
del Regno cresce in numero e ricchezza sfruttando la favorevole congiuntura economica della prima metà del XVIII secolo.
Noi sappiamo che la congiuntura economica di Volturino in questo periodo
non è difforme da quella generale.229 Riteniamo quindi che la ragione dell’assenza di
un notaio vada ricercata nel fatto che è nella vicina Pietra Montecorvino che sono
concentrate la maggior parte delle funzioni giurisdizionali ed amministrative dello
stato feudale di Capitanata dei duchi di Fragnito, limitando probabilmente la crescita di alcune figure professionali negli altri centri. È a Pietra infatti che risiede il
governatore-forestiero nella maggior parte dei casi230 - con la propria corte, ed an-
226
MUTO, op. cit., p. 59 circa l’importanza che queste esenzioni fiscali e dunque il processo di formazione
dei catasti onciari ebbero, nel Regno di Napoli in generale, per il riconoscimento della posizione giuridica
della “nobiltà civile”.
227
Ibid., p. 184.
228
ASTARITA, op. cit., p. 143.
229
Ibid., cap. III, p. 73 e segg.
230
BENAITEAU, op. cit., p. 154.
258
Antonio Mele
che l’agente dei feudi di Capitanata,231 ossia quell’amministratore generale che compare in molti stati feudali soprattutto a partire dal Settecento.232
Tra i cittadini di Volturino doveva invece essere scelto preferibilmente l’erario,
il quale era in questo feudo, sin dalla fine del Cinquecento, un semplice stipendiato
della corte baronale.233 Affermiamo questo considerando il tipo di mansioni a lui
affidate: ad un soggetto radicato nella realtà agricola locale, sarebbe stato più difficile, per i vassalli, occultare parti di raccolto.234
Purtroppo possediamo soltanto due nomi di erari, entrambi risalenti agli anni
cinquanta del Seicento: quelli di Pietro Conti, erario per l’annata 1652-53235 e Vincenzo Riccio, che desumiamo da un conto del 1657.236 Nell’onciario del 1742 non
c’è traccia di alcun Conti, il che può voler dire che l’erario fosse in quel caso forestiero, o che i Conti si fossero successivamente estinti o fossero emigrati. Compaiono invece due Riccio come capifuoco, entrambi “massari di campo”.
Salvatore Savastio fornisce un elenco dei “Governanti” dell’università di
Volturino relativamente a molte annate del Settecento.237 Tra di essi i Riccio non
compaiono mai.
Possiamo invece riscontrare una massiccia presenza di altri cognomi che si
incontrano anche nei registri di affitto dei diritti baronali.238 È il caso ad esempio dei
Lepore, famiglia massicciamente presente nei governi dell’università. Nel 1795 gli
eredi di Oraziantonio Lepore sono gli appaltatori del forno baronale.239 Ricordiamo anche che, secondo l’onciario del 1742, Matteo Lepore è l’agricoltore di Volturino
che possiede più terreno seminativo.240
Un’altra famiglia i cui membri sono ben presenti nelle istituzioni universitarie, soprattutto dagli anni ottanta del Settecento, è quella dei de Mutiis. Un suo
esponente, Ignazio de Mutiis, è affittuario, in società con Simone Daniele e Nicolò
Caruso, dei diritti di bagliva, mastrodattia e piazza nel 1717.241
Da un bilancio dell’annata 1714-1715 apprendiamo invece che Giovanni
231
ASNA, A.M., b. 131, Memorie degli agenti delle terre di Pietra, Motta e Volturino.
BENAITEAU, op. cit., p. 226 e segg.
233
Per quanto riguarda l’ammontare del suo stipendio possediamo un solo dato da una fonte del 1796
(ASNA, A.M., b. 9 A, 1796 Rivela dei corpi feudali delle terre di Pietra, Motta e Volturino), quando, secondo
quanto dichiarato dalla corte baronale, si retribuiva l’erario con 60 ducati annui, pagati mese per mese.
234
Naturalmente a patto che l’erario fosse fedele al signore. E crediamo che la corte baronale avesse molti
mezzi per farsi rispettare, con le buone o con le cattive.
235
ASNA, A. M., b. 6 A, Conti di Pietro Conti dell’entrate di Voltorino dal primo di Settembre 1652 a
tutto Agosto 1653.
236
ASNA, A.M., b. 6 A, Conti di Vincenzo Riccio esattore delle entrate e altro di Volturino dell’anno 1657.
237
SAVASTIO, op. cit., pp. 111-113. Le annate sono: 1705, 1713, 1742, 1749, 1774, 1778, 1800.
238
Purtroppo la serie di fonti di questo tipo a nostra disposizione è troppo esigua per verificare se si creino
in alcuni periodi delle vere e proprie dinastie di appaltatori di questo o quel bene baronale.
239
ASNA, A.M., b. 9 A, 1796, Rivela dei corpi feudali delle terre di Pietra, Motta e Volturino.
240
Cfr. p. 11.
241
ASNA, A.M., b. 6 A, 1717 e 1718. Bilancio delle rendite della Terra di Volturino affittata da me Carlo
de Castellis.
232
259
I Montalto di Fragnito a Volturino
Jaturella è l’appaltatore del corpo feudale della bagliva. È interessante notare che egli
è il “Capogoverno” dell’università di Volturino nel 1713. Nell’elenco dei governanti
fornito dal Savastio mancano quelli del 1714. Data la durata pluriennale di simili concessioni non è escluso che già nel 1713 egli fosse in affari con la corte baronale, esercitando contemporaneamente una carica nelle istituzioni comunitarie. Ciò che avviene
di certo, nel 1742, per Alessandro dell’Aquila. Questi è, in quell’anno, “Capogoverno”
e concessionario di un diritto molto remunerativo come quello di fida del bosco del
Marano, territorio, come vedremo tra breve, al centro di una delle più accese controversie tra duchi di Fragnito ed università. Peraltro la famiglia dell’Aquila è quella che
in assoluto sembra la più presente lungo tutto il XVIII secolo all’interno delle istituzioni comunali. Anche il suo rapporto con la corte baronale deve essere ben radicato
se già nel 1698 un Alessio dell’Aquila è l’appaltatore di diritti feudali importanti come
la bagliva, la fida, la mastrodattia, la piazza.242
Crediamo che attraverso questa breve indagine di tipo nominativo, effettuata per lo più lungo il Settecento, possano essere colte bene le grandi possibilità di
intreccio tra potere baronale ed alcune famiglie di Volturino, che appaiono tra le
più agiate e le più presenti, nel lungo periodo, nei governi annuali dell’università.
Questa élite locale è composta, dal punto di vista sociale, da famiglie di ‘civili’ - in
possesso anche di terra ed animali - e di agricoltori agiati, le quali, come logico,
tendono a stringere tra di loro legami matrimoniali. Dall’onciario del 1742 è infatti
possibile constatare che la moglie dell’unico medico (Antonio Creta) è una Lepore,
che il “Magnifico” Donato de Ritis è sposato con una dell’Aquila, che la consorte
dell’unico “dottore di Legge” Gabriele Patuto è una Jaturella, tutte famiglie che
abbiamo poc’anzi connotato.
Il trait d’union tra esse e la corte baronale, per quanto riguarda la gestione del
potere locale, è spesso fornito dagli appalti dei diritti feudali. Inoltre non deve mai
essere trascurato il grande peso che aveva il barone nell’attribuzione delle cariche
all’interno delle istituzioni universitarie, con il suo diritto di “confirmare” gli “Eletti”.243 Tutti questi elementi fanno capire come fosse facile per il signore creare intorno a sé saldi legami clientelari (anche secolari, come con i dell’Aquila) che gli assicuravano una gestione vantaggiosa della vita del feudo, ed al contempo assicuravano ad alcuni gruppi locali una crescita economica e di status.
a) I rapporti tra signore e vassalli
Le considerazioni svolte finora sulla creazione ed il consolidamento di alleanze tra la corte baronale e gruppi di benestanti locali, in particolar modo nel Sette-
242
ASNA, A.M., b. 3G/4 A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
Loc.cit. Cfr. Luca COVINO, Funzioni feudali e governo del territorio nella seconda metà del Settecento:
Salvatore Pignatelli di Strongoli (1730 – 1792), in «Società e Storia», 1998, 81, pp. 511 – 545; MASSAFRA, op. cit.,
p. 213 e segg.
243
260
Antonio Mele
cento,244 possono essere, a nostro avviso, proficuamente connesse ad un discorso di
più lungo periodo sull’evoluzione del ruolo politico delle istituzioni universitarie
nei confronti del potere signorile, in particolare nelle situazioni di conflitto, argomento che ha interessato non poco la storiografia sul Regno di Napoli.
Rosario Villari, nel suo lavoro sui feudi dei Caracciolo di Brienza,245 afferma che
nel XVIII secolo si frantumò quel “fronte antibaronale”, che era stato compatto sino e
durante la rivoluzione di Masaniello. Secondo l’Autore, infatti, si creò nel Settecento
una frattura tra gli “schemi rivendicativi” dei contadini, molto più legati alla protesta di
tipo “arcaico” contro il singolo abuso giurisdizionale da parte del barone, e quelli degli
agricoltori più agiati, molto più focalizzati su problemi relativi alla proprietà fondiaria.
Guardando allo sviluppo secolare di questo processo, Villari afferma che
prima di giungere al definitivo approfondimento di questa divergenza (che si
manifesterà in tutta la sua evidenza verso la fine del secolo quando il processo
di privatizzazione della terra assumerà un ritmo rapido a vantaggio di gruppi
di borghesia locale ed in coincidenza con una fase acuta di crisi della piccola
proprietà contadina) la lotta per la terra è condotta in nome del rispetto degli
usi civici tradizionali e della difesa del demanio.246
Questa interpretazione è nel suo impianto generale accettata, a distanza di
quasi trent’anni, da Tommaso Astarita nel suo lavoro sugli stessi feudi, il quale
tuttavia enfatizza, molto più di quanto non faccia Villari, il ruolo dello stato, a suo
avviso nel Settecento molto più portato a favorire gli interessi delle università, nella
modificazione del tono dei conflitti e delle relazioni signore-vassalli in generale.247
Ruolo importante dello stato messo in evidenza, rispetto a questa questione, anche
da Michèle Benaiteau nel suo lavoro sui feudi dei Tocco, in Principato Ultra. Secondo l’Autrice sin dalla fine del Seicento la monarchia aveva infatti, con la sua
politica di rigore contro “illegalità ed abusi feudali”, indotto i signori di Montemiletto
ad adottare uno stile di amministrazione “legalista, rigido e pignolo, unito all’occorrenza ad un po’ di caritatevole paternalismo”.248 Ciò aveva l’effetto di mutare
il clima delle relazioni tra la Casa e i vassalli […]: meno prepotenza in generale,
niente più complicità mafiosa con delinquenti, al feudatario bastava l’alleanza
difensiva con alcuni benestanti della zona in un intreccio di aiuti legali e sorveglianza sociale.249
Tenendo ben presente che ogni realtà locale mantiene alcune sue irriducibili
244
BENAITEAU, op. cit., p. 227 e segg.
R. VILLARI, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna…, cit., pp. 61-163.
246
Ibid., pp. 143-144 e 156.
247
ASTARITA, op. cit., p. 146 e segg.
248
BENAITEAU, op. cit., p. 226.
249
Ibid., p. 228.
245
261
I Montalto di Fragnito a Volturino
specificità, tuttavia le questioni sollevate dagli autori citati possono essere utili punti
di riferimento per un’analisi delle controversie tra i signori di Volturino e l’università.
Come abbiamo visto nelle pagine iniziali di questo capitolo un momento di forte
iniziativa antibaronale da parte di questa si realizza negli anni ottanta del Cinquecento,
con la dura opposizione nei confronti degli ultimi feudatari di casa Carafa, che culmina
nell’ottenimento dello status di università di demanio regio. Sappiamo che questa condizione è destinata a durare solo fino al 1603, quando, per evidenti problemi finanziari,
essa è costretta a vendere a Giovan Battista Caracciolo il mero e misto imperio.
Tuttavia permane ancora, almeno nei primi due decenni del Seicento, un certo
‘protagonismo’ delle istituzioni comunali, che si evidenzia nel tentativo di mantenere
nelle proprie mani la gestione di diritti quali quello di bagliva, di piazza, di taverna,
come avviene sicuramente sino al passaggio del feudo nelle mani dei Montalto.
Ma proprio questo sforzo finanziario, effettuato in coincidenza dello svilupparsi di una crisi economica che percorrerà tutto il Regno e di un forte inasprimento
della pressione fiscale attuato dal governo spagnolo,250 peggiorerà l’indebitamento
dell’università, costringendola a vendere nuovi beni e diritti demaniali. Ad esempio
nel 1621 essa cede alla corte baronale, in cambio di un prestito di 5.200 ducati, il bosco
del Marano e la taverna posta sul tratturo.251 Nel 1660 l’università, non potendo pagare 537 ducati di “fiscali” dovuti alla duchessa di Fragnito, Ippolita di Somma, è costretta a cederle il diritto di fida di due terzi dei pascoli demaniali.252 Nulla sappiamo
sugli effetti nel feudo di Volturino della rivolta antispagnola del 1647-1648.253
Sappiamo però che dalla metà del Seicento254 l’università di Volturino intenta, dinanzi alla Regia Camera della Sommaria, una causa contro la corte baronale,
riguardo all’esazione del terraggio. Come abbiamo scritto in precedenza già prima
del 1621 si era passati dal sistema di esazione tradizionale della “decima” (prelievo
di un decimo o dodicesimo del raccolto), ad un nuovo sistema basato sulla quantità
di superficie coltivata (due tomoli a versura) e molto più svantaggioso per i contadini. Si comprende bene come questa innovazione potesse diventare davvero catastrofica per questi, in un periodo di crisi economica come la metà del Seicento. Da
qui lo stimolo ad intraprendere un’azione giudiziaria che, come dimostra una scrittura non datata, ma prodotta certamente intorno al 1804, viene portata avanti dall’università per tutto il Settecento.255
Nel XVIII secolo la situazione finanziaria dell’università di Volturino, come
quella di molte altre università del Regno, migliora decisamente rispetto al secolo
precedente. Ne è testimonianza il fatto che nel 1723 essa gestisce in appalto l’inte-
250
MUSI, op. cit., p. 218.
ASNA, A.M., b.100 A, f. 100(1), Notizie sul feudo di Volturino.
252
ASNA, A.M., b. 2 A, Genealogica descrizione della terra di Volturino.
253
Sull’argomento, cfr. R. VILLARI, La rivolta antispagnola a Napoli…, cit..
254
SAVASTIO, op. cit., p. 130.
255
ASNA, A.M., b. 100 (A), Memoria per l’Illustre Duca di Fragnito contro l’università della Terra di
Volturino.
251
262
Antonio Mele
ro corpus dei diritti feudali, esclusi quelli sulle terre.256 La stessa pressione fiscale
del governo centrale, almeno per quanto riguarda la quota di tasse appaltata al
signore, pare diminuita rispetto al Seicento: i ducati pagati annualmente al signore “per fiscali”, che sono 586 nel 1650,257 dal 1705 almeno si stabilizzano sulla
cifra di 239 circa.258 L’onciario del 1742 riporta un pagamento del medesimo ammontare.
Un contesto di maggiore forza delle istituzioni comunali può sicuramente
rendere consigliabile al signore di rafforzare quelle che, come abbiamo visto, Michèle
Benaiteau chiama la “alleanza difensiva con alcuni benestanti della zona”; e la nostra precedente indagine nominativa sulla enorme contiguità, e spesso coincidenza
proprio nella prima metà del Settecento, tra gestori dei beni signorili e gestori dell’università, mostra come anche per Volturino sarebbe sensato pensare ad un fenomeno di questo genere, che esprime pure il sempre maggiore peso del ceto proprietario nell’indirizzo dell’azione delle istituzioni comunali.
Probabilmente è da mettere in relazione con l’emergere di questo ceto anche
il fatto che le due nuove cause intentate dall’università di Volturino alla corte baronale
riguardano questioni di proprietà fondiaria, secondo un’evoluzione che pare coincidere con quella indicata dal Villari.259
La prima di esse, che inizia intorno al 1703,260 concerne la proprietà del
Marano, il bosco di 200 versure ceduto, come abbiamo visto poc’anzi, a Giovan
Battista Caracciolo. Emerge dalla memoria che ci informa sulla controversia,261 che
l’università è molto interessata a questo bosco come fonte di legname: la vendita del
legname a Lucera era in effetti un’attività praticata da molti volturinesi in grado di
permettersi animali per trasportarla.262 Infatti, una volta persa la causa sul diritto di
proprietà, l’università tenta di sottrarre al barone almeno quello del taglio di legna
destinata al commercio, concedendogli invece di tagliare quella per uso di carbone.263
L’altra causa, molto probabilmente ancora successiva, riguarda i cosiddetti
parcozzi.
Essi sono delle recinzioni effettuate da alcuni allevatori (siamo in una zona di
spiccata vocazione pastorale) per tenere custoditi i propri bovini. I proprietari di
queste recinzioni tentavano anche di sottrarsi alla misurazione della loro superficie
da parte della corte baronale ed alla corresponsione del terraggio, pur essendo i
256
ASNA, A.M., b. 2 B, Notamento ricavato dal processo dell’apprezzo della Terra di Volturino.
ASNA, A.M., b. 18 A, Inventario in copia informa dei beni così feudali come burghensatici del fu duca
di Fragnito Don Fabrizio Montalto.
258
ASNA, A.M., b. 2 A, Genealogica descrizione della terra di Volturino.
259
VILLARI, op. cit., pp. 143-144.
260
SAVASTIO, op. cit., p. 128.
261
ASNA, A.M., b. 100 (A): Memoria per l’Ill. Duca di Fragnito contro l’università della Terra di Volturino.
262
ASNA, A.M., b. 3G/4A, Apprezzo della Terra di Volturino 1698.
263
ASNA, A.M., b. 100 (A), Memoria per l’Ill. Duca di Fragnito contro l’università della Terra di Volturino.
257
263
I Montalto di Fragnito a Volturino
parcozzi effettuati su territorio feudale. Ovviamente il duca di Fragnito ricorre alla
Regia Camera della Sommaria chiedendo l’apertura di queste recinzioni o per lo
meno la misurazione della superficie di quelle già esistenti ed il divieto di crearne
delle nuove.264
Va sottolineato il fatto che le istanze dei proprietari dei parcozzi andavano a
tutto svantaggio dei contadini meno agiati, quelli cioè per la cui economia era ancora importante l’esercizio degli usi civici (diritto di pascolo, di legna, jus serendi)265
possibili nei campi aperti del demanio feudale. E ciò parrebbe confermare, per quanto
riguarda Volturino, l’ambivalenza riscontrata da Rosario Villari nell’azione politica
settecentesca delle università da lui studiate. Questa, a volte diretta dal ceto proprietario, assume un indirizzo decisamente “anticontadino”,266 altre volte, come nel
caso della battaglia per il terraggio di Volturino, portata avanti per tutto il XVIII
secolo, sono ancora lo strumento di rivendicazioni di tipo tradizionale, connesse
agli interessi dei contadini poveri, legati ancora a quell’ “ordinamento comunitario
dell’economia rurale”267 destinato ben presto a scomparire definitivamente.
264
Loc. cit.
ASTARITA, op. cit., p. 82.
266
VILLARI, op. cit., p. 153.
267
Ibid., p. 143.
265
264
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