Sebastiano Vassalli, Memoria e scrittura
[Da Il Grillo (26/1/1999, puntata registrata con gli studenti del Liceo Classico "Socrate" di Roma http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=316]
VASSALLI: Mi chiamo Sebastiano Vassalli e svolgo un mestiere abbastanza anomalo, ossia quello dello
scrittore. Quando avevo la vostra età e come molti giovani simili a voi frequentavo il Liceo Classico, credevo
fermamente che quello dello scrittore fosse il mestiere più bello del mondo. Sempre legata a questa mia
convinzione di allora è rimasta in me, immutata per tutto questo tempo, un’altra credenza: o si crede in
una vita dopo la morte -e per molti versi già la fede rappresenta una forma di sopravvivenza - oppure
l'unica forma tangibile di sopravvivenza alla morte data agli uomini sono le loro storie. Da ciò segue che chi
racconta le storie degli uomini dovrà necessariamente avere a che fare con ciò che verrà dopo di loro, e
quindi, in un certo senso, con l'eternità stessa dell'uomo. Per introdurre dunque il tema di questa puntata,
"memoria e scrittura", propongo di esaminare la scheda introduttiva preparata dalla regia del programma.
Zerbino è un villaggio della Bassa Novarese, i cui abitanti vivono dei proventi della coltivazione del riso. O per meglio
dire: era un villaggio, perché poco meno di quattro secoli fa una piena del Sesia l'ha spazzato via e nessuno l'ha più
ricostruito. Quello di Zerbino non è certo l'episodio più significativo del Seicento, ma si è guadagnato una certa
notorietà perché la storia di questo villaggio ha fornito lo spunto di un romanzo di Sebastiano Vassalli: La chimera.
Così, se pochissimi sanno cosa accadde in quegli stessi anni nella vicina Torino, città che per la storia del nostro paese è
assai più importante, un congruo numero di persone è a conoscenza della vita di questo piccolo paese, le sue risaie, il
mulino, il clima insopportabilmente umido, il lavoro negli acquitrini, gli editti assurdi emessi dai plenipotenziari del
Re di Spagna, dettagli grazie ai quali è possibile farsi un'idea di cosa fosse la vita nel Seicento nel nostro paese. È
completamente vera la storia di Zerbino? Più o meno. Lo è nei suoi tratti generali, non certo nei singoli particolari. È
vera la storia della piena, non quella di Antonia Spagnolini, la protagonista del romanzo, che invece è inventata di sana
pianta, così come ne I Promessi Sposi è vera la storia di Milano, ma non quella di Renzo Tramaglino. Il romanzo e il
saggio di storia, in fondo, possono assomigliarsi molto: lo scrittore e lo storico usano le stesse fonti: archivi, documenti,
memoria orale. La differenza è nel rapporto con gli spazi vuoti che i documenti storici non sono in grado di colmare.
Di fronte a questi vuoti lo storico si ferma, mentre lo scrittore continua, usando la fantasia, completando il quadro e
raccontandoci una bella storia che ci può aiutare, grazie a fatti e persone non veri, ma verosimili, a comprendere, in
modo più approfondito, la storia umana.
STUDENTESSA: Qual è, secondo Lei, l'importanza della verità storica nella riproduzione letteraria della
realtà? Questa verità possiede una funzione fondamentale oppure, come potrebbe suggerire anche la
scheda, svolge un ruolo di "sottofondo", a partire dal quale lo scrittore può astrarre dei contenuti per
creare la propria finzione letteraria?
VASSALLI: Voi frequentate un Liceo Classico e, probabilmente, nell'ultimo anno di Liceo siete arrivati a
studiare in modo approfondito Alessandro Manzoni. Dovreste quindi sapere quanto egli fosse convinto che,
prima o poi, l'arte e il romanzo sarebbero scomparsi, perché la scienza, in questo caso la scienza storica, un
giorno avrebbe illuminato tutto lo scibile umano con la propria luce. In realtà è avvenuto esattamente il
contrario. Dei due termini della proposizione manzoniana, ossia la storia e il romanzo, quello che Manzoni
credeva fosse il più forte, ossia il "vero storico", è risultato essere l'elemento più debole, mentre quello che
considerava l'elemento più debole, cioè il romanzo, ha finito per emergere come l'elemento descrittivo più
forte. In realtà tutto ciò che è accaduto da allora, dai tempi di Manzoni a oggi, ci dimostra che la storia si
può vivere a patto che qualcuno la sappia raccontare, ovvero se e solo se qualcuno in grado di trasformarla
in un bel racconto. A questo punto del nostro dibattito proporrei di visionare una seconda scheda, il cui
contenuto verte sull'opinione di uno storico di professione, che è anche un grande scrittore, Georges Duby.
Con altre parole Duby Vi riassumerà un punto di vista molto simile al mio.
GEORGES DUBY: La storia è, tra le scienze umane, quella che ha costituito l'armatura del proprio metodo di analisi
molto prima delle altre, nel secolo XVIIo, quando si scoprì la necessità di trattare in un certo determinato modo le
fonti documentarie, ossia raccogliendo tutte quelle disponibili senza modificare le loro rispettive posizioni,
criticandole una per una e sottoponendole a verifica, per tentare di liberare l'indizio, ovvero la singola testimonianza,
da tutte le scorie che avrebbero potuto ricoprirla, mascherandola. Una volta svolto questo processo di revisione critica,
diviene indispensabile utilizzare le testimonianze raccolte allo scopo di ricostruire un racconto, perché, a questo
proposito, i filosofi, in particolare il grande filosofo francese Paul Ricoeur, hanno stabilito che ogni discorso storico è
fondato su una struttura narrativa, su un racconto, su un intreccio, e che anche quando si tratta di descrivere
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l'evoluzione dei prezzi durante il XIXo secolo, o la natura delle pratiche religiose in un certo momento della storia, i
prezzi o la devozione possono agire come veri e propri personaggi in un racconto romanzesco.
STUDENTESSA: A proposito del suo romanzo La chimera (Premio Strega 1990 N.d.R), vorrei chiederLe se, in
qualche modo, Lei abbia colto, durante la stesura del Suo romanzo, qualche spunto di ispirazione dall'opera
La strega di Jules Michelet. Inoltre: Lei pensa che un prodotto letterario molto bello possa essere il frutto
del lavoro di uno storico che si accinga a scrivere un romanzo - così come di uno scrittore professionista
sensibile ai richiami storici della trama delle sue narrazioni - oppure un prodotto letterario potrebbe
risultare molto più convincente e non artificioso accantonando ogni riferimento alla realtà e, in particolare,
ogni relazione a categorie storiche come i parametri di spazio, di luogo e di tempo; decostruendo, quindi, la
struttura della realtà storica stessa?
VASSALLI: Partirei dall'inizio della Sua domanda. Quel romanzo di Jules Michelet l'ho letto quand'ero
giovane. Sicuramente, quando decido di raccontare una storia, non lo faccio perché quella storia me ne
ricorda un'altra riecheggiandone qualche particolare. Tutte le vicende umane, in qualche modo, sono
collegate fra loro. Io decido di narrare una storia semplicemente perché essa mi sembra una bella storia. In
cosa consiste una bella storia? Per partire dalle prime intuizioni che ho in mente essa potrebbe consistere
in una storia che sia in grado di spiegare qualcosa di nuovo, lasciando al suo primo lettore, ossia l'autore,
qualcosa in più rispetto alla semplice e immediata comprensione della realtà che l'autore aveva prima di
conoscerla o di crearla dal nulla. Essa, nel mio caso, potrebbe essere una storia che mi possa aiutare a
capire qualcosa di più di un determinato periodo della storia umana. Mi chiedo, in quel caso: potrebbe
aiutarmi a capire qualcosa in più - solo per fare un esempio - del Seicento? Potrebbe aiutarmi come
potrebbe non essermi di alcun ausilio, perché il semplice fatto che quella storia si sia svolta nel Seicento,
per me scrittore, potrebbe solo significare lo spunto per un bel viaggio dell'immaginazione, un grande
viaggio che mi permetta di scoprire paesaggi sconosciuti, ambienti nuovi. Se io andassi in un'agenzia di
viaggi organizzatissima e chiedessi : "Mi prepari un biglietto aereo per il giro del mondo in dieci giorni",
probabilmente, una volta in viaggio, non potrei vedere nulla di particolarmente nuovo o di interessante nei
luoghi visitati. Al contrario, viaggiare nel passato, a volte, può offrire delle occasioni straordinarie. Nel caso
de La chimera non ho certamente scelto come spunto del mio romanzo proprio quella trama
semplicemente perché fosse ambientata in quel determinato periodo storico e in quella regione del
Piemonte. Come vicenda l'ho trovata bella in sé stessa, così l'ho raccontata e mi è sembrata in grado di
spiegare qualcosa del nostro presente. Un presente - come ho scritto nella prima pagina del romanzo - che
da sé stesso non può spiegare quasi nulla, essendo ormai ridotto al puro rumore. Il presente, se ci fate
attenzione, potrebbe essere tratteggiato come questo frastuono che sentiamo attorno alle nostre vite.
Allora, facendo un passo indietro nel passato storico, si può arrivare a scoprire dei percorsi esistenziali e
individuare dei meccanismi, che, in realtà, sono gli stessi meccanismi causali e storici del nostro presente,
scoprendo qualcosa in più "su ciò che siamo, da dove veniamo e dove andiamo", per usare una celebre
espressione.
STUDENTESSA: Secondo Lei, per poter tramandare un fatto storico, ovvero qualcosa accaduto nel passato, il
romanzo potrebbe svolgere una funzione preminente? Le chiedo questo partendo dal presupposto che il
romanzo, anche quando prenda spunto da basi storiche, potrebbe sempre tendere a conservare almeno un
settanta per cento di divagazioni, mentre è possibile vedere come la Storia scritta e riportata si attenga
sempre a quello che è stato documentato nella ricerca degli storici.
VASSALLI: Vorrei subito chiarire una cosa prima che si continui a parlare di questo argomento seguendo
questo binario. Voi parlate della "Storia", dando per scontato che esista un'entità, una realtà oggettiva,
chiamata "La Storia". Questa entità, che in realtà non è mai esistita, porta il nome di una disciplina
scientifica, chiamata appunto Storia, che ha cominciato a esistere nel XVIIIo secolo - possiede, dunque,
grosso modo, circa duecento anni di età. Prima della nascita di questa disciplina, gli uomini delle società
occidentali vivevano "senza storia" o, per lo meno, raccontavano la propria storia narrandosela in un altro
modo. Stiamo parlando di un concetto che può rischiare di sfumare nell'astrazione. Voi lo date per
acquisito, come se fosse assolutamente scontato, poiché fa parte dei Vostri programmi di studio nelle
scuole superiori. Provate, di contro, a immaginare le vicende umane come se fossero realmente un
percorso. Uno scrittore che non ha mai avuto nulla a che vedere con il tramandare la memoria, Giorgio
Manganelli, amava molto scherzare su questa mania che ha l'umanità intera di rappresentare sé stessa
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come un esercito che avanza. Di fronte a questa rappresentazione - tutta da dimostrare e molto
probabilmente indimostrabile - dell'umanità vista come un esercito che avanza - la Storia del nostro
immaginario comune, con la "s" maiuscola - potremmo dire: "Noi, genere umano, proveniamo da questa
direzione . Essa è ancora abbastanza avvolta nel mistero, ma conosciamo la direzione con cui questo
cammino è proseguito nel tempo e in questo momento ci troviamo nel punto X, ossia il nostro anno, che
corrisponde al mondo dove viviamo". Questa è, a mio parere, una rappresentazione un po' sciocca del
divenire storico! Partiamo, al contrario, dal presupposto che "La Storia", quella dei Vostri libri di testo, in sé
e per sé, volendo essere rigorosi, non esista. Essa può esistere come semplificazione strumentale, come
una cronologia. Può essere utile, nonché importante e necessario, sapere che Alessandro Magno sia venuto
al mondo prima di Napoleone. Mi capite? È utile, è necessario, è importante, sapere che un certo tipo di
architettura, come il gotico o il romanico, abbia preceduto di alcuni secoli un altro tipo di architettura,
come il barocco. Per tracciare queste distinzioni, nel mondo temporale, sono necessarie delle
approssimazioni tra epoca ed epoca. Se uscissimo fuori da quella dimensione approssimata, da quel
mondo, "La Storia" non esisterebbe più. Resteremmo di fronte alle "storie", con la "s" minuscola, le infinite
storie degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto.
STUDENTESSA: Mi sono spiegata male: io volevo riferirmi alla storia intesa come raccolta ragionata e come
insieme strutturato di testi scritti e di testimonianze scritte e documentate, non tanto alla "Storia" riferita in
senso ideologico. È alla storia intesa come struttura di fonti originali o secondarie che ho puntato
l'attenzione nel formularLe la mia domanda. La storia come raccolta di testi scritti, a mio parere, può
sempre essere più utile del romanzo per tramandare ciò che è veramente accaduto, perché il rischio della
divagazione è assai ridotto!
VASSALLI: Ma anche la "storia oggettiva", quando fuoriesce dalla tabellina, dallo schema di comparazione,
dalla cronologia, può correre il rischio di divagare! Prima abbiamo ascoltato colui che è, forse, il maggior
storico vivente dire chiaramente che la storia è un récit, un racconto. Questa affermazione sembra ricalcare
un confronto tra la realtà e la fotografia. Lei, persona in carne ed ossa, non è e non può essere la Sua
fotografia. Non potrebbe esserlo mai, pur avendo, l'arte fotografica, una forte pretesa di oggettività, che,
ad esempio, non può avere la pittura. A seconda del fotografo che La ritrarrà Lei potrà trasformarsi in
cinque, dieci, cento persone diverse, diventando bellissima o bruttissima, caso per caso. Anche la scienza
della storia - che, come tutte le scienze, aspira all'oggettività - quando si scosta dal dato puro e semplice,
dalla cronologia, dal reperto archeologico, da tutto ciò che può avere una propria materialità diretta, può
diventare una fotografia, un récit, venendo mediata da una mera interpretazione dei fatti.
STUDENTESSA: Ma quando la storia cercherà di non scostarsi dalla realtà degli oggetti e dei fatti
documentati potrà servire moltissimo a tramandare la realtà dei fatti accaduti, mentre il racconto si sposta
automaticamente al di là di quel livello di analisi!
VASSALLI: Il racconto, in realtà, tramanda molto di più di una descrizione storica, perché il dato puro e
semplice, in realtà, non può tramandare alcuna cosa. Anzi: in realtà non tramanda nulla. Si pensi alla
vicenda storica più conosciuta e più nota della nostra "parte di mondo", quella fetta di pianeta che noi
chiamiamo "occidentale". Qual è questa vicenda? È quella di un certo uomo, che visse in Palestina duemila
anni fa, che venne crocifisso. È la storia di Gesù Cristo, dalla quale sono nati i Vangeli, per non parlare di
tutta la letteratura posteriore fiorita sulle interpretazioni di questa vicenda. Da un punto di vista
strettamente storiografico siamo di fronte a nulla di oggettivo. Sapete cosa c'è di "oggettivo" in tutto quel
racconto, su cui si basa tanta storia e tanta cultura del nostro mondo? Un pezzo di lapide, trovato qualche
decennio fa, sul quale è scritto il nome di Ponzio Pilato, che, secondo i Vangeli, era il governatore romano
della Palestina, essendo un alto ufficiale e un alto funzionario dell'Impero, ai tempi della presunta vicenda
storica di Gesù. Di tutto il resto non esiste nessuna prova: quel pezzo di lapide è l'unico riferimento
oggettivo concreto e inoppugnabile pervenutoci dell'intera vicenda.
STUDENTESSA: Io credo che le testimonianze, sia scritte che oggettive, costituiscano qualcosa che è un dato
di fatto. Che poi esistano delle interpretazioni storiografiche differenti degli stessi fatti questa è un'altra
faccenda.
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VASSALLI: Se ne accorgerà anche Lei di quello che Le sto dicendo: adesso è giovane e ha giustamente diritto
di avere delle certezze, delle idee molto forti. Vivendo e riflettendo su questi problemi si accorgerà che i
cosiddetti "fatti" e le "verità oggettive" è come se non esistessero.
STUDENTE: Lei prima ha parlato dell'inesistenza della Storia, con la "s" maiuscola, sottolineando il fatto che,
spesso, per "Storia" si intende una sorta di processo che coinvolge una umanità in marcia -anche se,
sinceramente, va detto che questa non è l'unica interpretazione della Storia. Io credo che, in realtà, la
Storia stessa non possa essere vista in maniera del tutto univoca, proprio perché in realtà non esiste una
sorta di fenomeno chiamato "Storia" in quanto tale. Esso potrebbe essere visto come continuo progresso,
tesi che prese piede soprattutto nell'Ottocento attraverso un'interpretazione finalistica e positivista del
divenire umano, visto come un continuo progredire, prospettiva che già fu propria di alcuni Illuministi.
Come sappiamo essa può essere vista anche in altre maniere: avremo, così, una storia sottoposta alle leggi
della dialettica in Karl Marx. Quindi, riguardo a questa presunta univocità nell'analizzare la storia in modo
assolutamente oggettivo, proprio degli storici, avrei qualche dubbio. Un altro dubbio che mi era venuto in
mente era questo: io riconosco moltissimo l'importanza del romanzo storico nella ricostruzione degli eventi
in esso rappresentati, ma credo anche che gran parte del ritorno alla moda del romanzo storico, negli ultimi
tempi - il che è un dato oggettivo - sia un fenomeno valutabile positivamente e che esso possa, a sua volta,
portare come proprio frutto la possibilità di analizzare concretamente la psicologia dei personaggi che
hanno vissuto e fatto la Storia. D'altra parte, la rinascita del romanzo storico sembrerebbe essere anche il
frutto di una tendenza, molto diffusa nella nostra società, al voler disporre di un prodotto il più possibile
semplificato, da un punto di vista delle descrizioni e delle analisi; la cosiddetta "pappa pronta e scodellata",
necessità che spesso può essere espressa dall'uomo consumatore, contrapposto invece all'uomo pensante.
VASSALLI: Sulla questione della "pappa pronta", ci torneremo dopo. Lei mi ha detto: ci sono molti modi di
considerare la storia. No; secondo me va detto e sottolineato che, generalmente, ce n'è uno solo. È quello
di cui Vi parlavo prima. Potrebbe essere parafrasato da quella celebre proposizione che dice "noi veniamo
da lontano e andiamo lontano". Questo, nell'immaginario comune a tante persone è il cammino della
storia. In base a questa prospettiva esiste come un piccolo punto che si sposta da dove siamo noi in avanti,
lungo il tempo.
STUDENTE: Non per tutti i pensatori attuali o del passato essa è un cammino lineare.
VASSALLI: Lei ha citato Marx e l'Illuminismo, ma non ha citato niente di più che la fede in questo tipo di
storia. Cos'è stato il marxismo? È stato il sogno di un futuro che si potesse costruire partendo dalla
conoscenza del passato. Una visione della storia paragonabile a quella che l'architetto o l'ingegnere che
progettano una casa potrebbero avere dei loro disegni. Una casa deve essere costruita razionalmente,
mattone su mattone, sulla base di un determinato progetto, senza lasciare nulla al caso. I marxisti
pensavano allo stesso modo nei riguardi della storia, come se il futuro dell'uomo e la storia stessa,
eliminata ogni sorgente di casualità, tutte le cose che possano portare disordine - come guerre, carestie,
uomini che mangiano due polli accanto ad altri che non hanno nemmeno un pezzo di pane - si potessero
razionalizzare e costruire, partendo da un progetto razionale. Questa è una fede assoluta nella "Storia" che
non è una interpretazione diversa rispetto a quella della storia come progresso; anzi, per molti versi ne
costituisce l'esaltazione massima. Quindi ciò che si riflette nella parola "Storia", scritta con la "s" maiuscola,
stante queste precisazioni, è un solo concetto. Non possono esserci altre interpretazioni possibili, finché si
parla della Storia. Esso è un concetto, tra l'altro, molto legato all'idea stessa di progresso, quindi di
modernità, a qualcosa che è culturalmente e ideologicamente franato proprio negli ultimi anni del nostro
secolo. Giustamente avrete sentito parlare, anche troppo spesso, del fatto che ormai viviamo in un'epoca
post-moderna. Cosa significa questa espressione? Partiamo da una considerazione inoppugnabile: la "fine
del moderno", che si sia verificata o no, non può non essere stata anche la fine di questa fede nel
progresso, in questo "esercito dell'umanità che avanza" - e quindi, purtroppo, se essa si è verificata è stata
la fine di un bellissimo sogno, quello di poter costruire il futuro partendo da un progetto concreto,
eliminando tutta l'irrazionalità residua, tutta la casualità umana, tutte queste cose a causa delle quali le
vicende umane non hanno fatto altro che grondare lacrime e sangue. I seguaci di ogni forma di modernità,
in ogni epoca, non hanno fatto altro che dire: mettiamole via, costruiamo una bella realtà razionale.
Purtroppo non solo non era possibile farlo, ma non era vero neppure l'esito di quel tipo di analisi. Veniamo
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alla questione della "pappa pronta". Innanzi tutto non mi piace sentir parlare ancora di qualcosa come il
"romanzo storico". Il romanzo storico è stato un genere letterario dell'Ottocento. È stato un genere
praticato da scrittori che credevano fermamente nella "Storia", possedendo quella fede nella leggi storiche
di cui Vi ho parlato prima. Chi, come me, racconta le storie umane di oggi, non può che farlo partendo quasi
dal punto di vista opposto. Allo scrittore come me non interessa "La Storia", essendo consapevole che essa,
addirittura, non esiste. All'autore come me interessano le storie umane, le vicende umane, la Sua storia, ad
esempio, come le concrete storie di ognuno di noi che è qui, ora. Come vicende potrebbero essere molto
poco interessanti. In genere le storie umane non sono molto interessanti. Prima Vi dicevo che le belle storie
sono rare, ma quando si incontra una bella storia, quando si ha a che fare con una vicenda umana che è in
grado di trasmetterci qualcosa di più, di nuovo, qualcosa che noi non avevamo compreso fino a quel
momento, perché non conoscevamo certe sfaccettature proprie di quella determinata vicenda, che solo
essa può farmi conoscere; ebbene allora io, scrittore, la vado a prendere là dov'è collocata temporalmente,
e ne traggo un libro. Se è collocata duemila anni fa la vado a prendere lì, dicendo a me stesso: "chi se ne
importa". Se è posta trent'anni fa, la prenderò lì. Allora nell'espressione "Romanzo storico" questo
aggettivo "storico" cosa può riguardare? Ieri, oggi, le otto di stamattina, è già "storia", è già "passato".
Tutto ciò che è passato è, in qualche modo, di stretta pertinenza dello storico. Ma non è questo il punto
della questione. Non è la "Storia" l'oggetto del nostro contendere, bensì sono le storie umane. Il fatto che
oggi il romanzo torni a riflettere sulle nostre storie e, quindi, sul nostro passato, mi sembra qualcosa di
molto importante rispetto al vuoto formalismo del passato in cui la letteratura si è dibattuta per interi
decenni. Sembrava che non ci fosse più niente da raccontare e che l'unico problema fosse quello di poter
riuscire a raccontare il niente. La letteratura, per decenni, ha sguazzato nella brodaglia di questi falsi
problemi. Oggi, direi, siamo ritornati al punto di partenza: le storie umane. Perché che altro potrebbero o
dovrebbero raccontare e ascoltare gli uomini, se non le loro storie e le storie del loro mondo?
STUDENTESSA: A me veniva in mente, per esempio, una definizione dell'arte che diede il pittore britannico
pre - raffaelita Edward Coley Burne-Jones. Per Burne-Jones l'arte dovrebbe sempre riguardare qualcosa che
non esiste, che gli uomini possano innanzitutto immaginare, come una terra bellissima e irraggiungibile, che
gli esseri umani possano soltanto desiderare, ma nessuno di loro ha mai né visto né potrà mai vedere o
conoscere. Questa definizione mi fa pensare anche a tanta produzione tipica della letteratura moderna e
contemporanea, che si è spesso richiamata a soggetti di storie fantastiche, non solo fantascientifiche, ma
anche, per esempio, basate sulla creazione di interi cicli "neo - mitologici" che si rifanno al Medioevo o
,addirittura, all'antico Egitto, ambientando storie fantastiche o comunque abbastanza romanzate su questi
sfondi storici molto poco reali. Lei pensa che questo tipo di letteratura non possa avere nessuna utilità per il
lettore moderno?
VASSALLI: La letteratura può andare dove vuole. Il problema è proprio questo: in letteratura si può fare di
tutto. Il problema consiste, poi, nel chiedersi: funzionerà? È difficilissimo che tutto, in campo letterario,
possa sempre funzionare. Per quanto riguarda il resto, nel campo dell'ispirazione, tutto è permesso.
Pensiamo soltanto a Ludovico Ariosto che fa andare Astolfo sulla luna a ritrovare il senno di Orlando. La
questione critica del "romanzo storico" mi ha sempre talmente infastidito, che qualche anno fa scrissi: "La
prossima storia, il prossimo romanzo o racconto storico lo ambienterò nel futuro". Infatti scrissi, poi, un
racconto, intitolato 3012. Anche quella, in fondo, è una forma di Storia. Così come il filosofo Marx pensava
di poter progettare razionalmente il futuro dell'uomo, anche uno scrittore può cercare di arrivare a
indovinare, basandosi sulle tracce lasciate dagli eventi a noi attuali, ovvero il nostro presente, ciò che sarà il
nostro avvenire. Quelli che difendono la storicità della forma romanzo sono argomenti demagogici. Ogni
tanto, su qualche giornale, leggerete l'opinione di qualcuno che dice: "La letteratura dovrebbe raccontare il
presente". Cos'è il presente? Il presente è l'attimo tra il passato e il futuro. Esso è così difficile da afferrare,
di per sé, ed è un attimo pieno di "rumori". Il presente è la manopola della televisione. Chi, dotato di un
intelletto maturo e normale, potrebbe mai pensare di poter competere con la televisione, i giornali, la radio
e gli altri media, affermando di essere, da solo, migliore di ognuno di essi? Potrei mai io, da solo, raccontare
il presente? È una cosa da megalomani. Una volta nei manicomi venivano ricoverati coloro che si credevano
Napoleone; adesso dovrebbero ricoverarci questi megalomani della letteratura. Questa "storia del
presente" è un argomento assurdo e demagogico, che potremmo riassumere in questo slogan: la
letteratura dovrebbero raccontare il presente. In realtà la letteratura - almeno per quanto mi riguarda - non
fa altro che cercare di muoversi attorno al nostro tempo, al nostro presente, ai nostri problemi. Nel caso
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del mio romanzo La chimera non sono certamente andato con la mia immaginazione nel Seicento perché
interessato ad affrontare i problemi di quel secolo. Sono "andato" nel Seicento - e ho cercato di "andarci"
bene - come uno scrupoloso viaggiatore, perché mi interessavano i percorsi che dal passato possono
ricondurci a oggi. Nello stesso modo si può andare nel futuro; la letteratura offre anche la concreta
possibilità di andare nell'altrove. Si pensi alla creazione letteraria di "dimensioni" e di "mondi" paralleli.
Tutto è permesso in letteratura, purché funzioni. Lo scoglio reale, contro cui ci si può infrangere nell'atto
della scrittura è lì: quello è l'aspetto difficile dell'intera questione. Non dovreste mai pensare che un'opera
letteraria possa risultare squalificata a causa del proprio soggetto. Essa può poter parlare di qualunque
cosa. È squalificabile, e risulta in quei casi, troppo spesso squalificata, se essa non è riuscita a parlare bene
del proprio soggetto, se alla fine non risulta interessante.
STUDENTE: Lei ha detto, proprio adesso, che anche quando la letteratura "viaggia" grazie alla fantasia
dell'autore, nel passato, o nel futuro, è sempre e comunque finalizzata ad affrontare - ed eventualmente
risolvere - dei problemi che appartengono al tempo "presente". Anticamente questa "funzione" era svolta
dal mito. Vorrei chiederLe: potrebbe esserci qualcosa in comune fra, per esempio, i suoi romanzi e la
dimensione del mito? Tra l'altro, è proprio nel mito che troviamo una delle pochissime concezioni della
storia che non vede in essa un incessante e inarrestabile progresso, quanto un vero e proprio regresso!
VASSALLI: Il mito! Lo scrittore dovrebbe essere un vero e proprio costruttore di miti. Si pensi ad Ottaviano
Augusto che, pur essendo un uomo abbastanza rozzo, fu comunque abbastanza intelligente da capire che
creare il mito di Roma, ossia il mito per cui le legioni di Roma erano riuscite a conquistare l'intero mondo
allora conosciuto, era l'unico modo per conquistare realmente il mondo. Fu così che Augusto chiamò alla
propria corte il poeta Virgilio che scrisse l'Eneide. In questo episodio storico troviamo uno dei tanti noccioli
del pretesto storico della letteratura stessa. Lo scrittore dovrebbe essere un costruttore di miti, ma il
problema reale è che la dimensione del mito è posta in una dimensione appunto "mitica", ultramondana,
celeste, mentre noi esseri umani, poveri mortali, siamo qui, in questo mondo reale. Nemmeno Virgilio, nel
momento stesso in cui si accinse a scrivere l'Eneide, poteva essere sicuro, pur avendo dietro di sé
l'appoggio di tutto il mondo politico di allora, caso che non si verifica praticamente mai, che in quel
momento stava costruendo un mito. È come se il mito si costruisse da solo usandoci. Dovrebbe essere
pacifico che ogni scrittore che abbia un'idea abbastanza chiara della sua professione, del proprio mestiere,
non potrà mai che tendere a quell'obiettivo. Un tempo i veri scrittori, ovvero gli autentici costruttori di miti
non potevano essere che uno, due, al massimo cinque. Oggi tutti aspirano a diventare costruttori di miti.
Viviamo all'interno di questo frastuono informe in cui è difficile poter prevedere quello che potrà essere un
qualunque significato della parola "mito" nel futuro. Se la nostra cultura sopravviverà, chi verrà dopo di noi
si accorgerà che anche noi abbiamo contribuito all'elaborazione e, se posso usare questo termine, alla
"manutenzione" del mito. Questo è il nostro mestiere di scrittori.
STUDENTESSA: Lei ha portato degli oggetti in studio. Vorrei chiederLe il significato e l'attinenza con il tema
di questa puntata.
VASSALLI: Ho portato degli oggetti di riferimento che potrebbero riguardare delle storie da me narrate. Le
mie storie, i miei romanzi, i miei racconti sono tutti récits come diceva Georges Duby. Quello tra i miei
romanzi che più di tutti potrebbe meritare, in qualche modo, l'aggettivo "storico", che a me non piace, è un
romanzo intitolato Il cigno (Il cigno, Torino, Einaudi, 1993) che racconta una storia vera, una storia siciliana,
situata tra Ottocento e Novecento, una storia che ho trovato un po' per caso, una vicenda sicuramente non
piccola e tanto meno nascosta. Essa riempì di sé i giornali dell'epoca. Noi spesso sentiamo oggi parlare di
mafia, di questa triste componente della nostra cultura. Io mi sono imbattuto in questa vicenda, che è la
storia dell'assassinio di un notabile di cento anni fa. Questo personaggio si chiamava Emanuele
Notarbartolo, era stato Sindaco di Palermo, nonché Direttore del "Banco di Sicilia". Venne ammazzato su un
treno con un numero incredibile di pugnalate - diciassette o ventidue. Fu il primo memorabile "delitto di
mafia", nonché il primo caso nei cui atti giudiziari, redatti in un tribunale italiano, comparve la parola
"mafia". Questa vicenda fu clamorosissima, in quell'epoca, portando alla ribalta tutta una serie di luoghi
comuni sulla Sicilia: ecco perché ho portato questi oggetti: i fichi d'India, la coppola e il fucile a canne
mozze, che peraltro, allora, non veniva ancora usato così tagliato sulle canne. I mafiosi dell'ottocento
usavano soprattutto i coltelli oppure dei normali fucili ad avancarica a due canne. Quella vicenda infiammò
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l'intera opinione pubblica italiana, innescando dei processi di competizione all'interno del paese stesso, tra
le procure delle varie regioni, regioni che allora non esistevano ancora. Con il risultato che la Sicilia intera,
compresi tutti i Siciliani emigrati in America o in Australia, formarono comitati, difendendo, in pratica, un
assassino, solo perché si sentirono messi sotto accusa dal resto d'Italia, perché questo processo venne
celebrato dapprima a Milano, poi a Bologna, poi a Firenze. Alla fine, dopo undici anni - i tempi giudiziari
allora erano quelli - tutto finì con un "nulla di fatto", un'assoluzione, una grande festa seguita dalla messa in
disparte di colui che era stato difeso dall'accusa terribile di aver commesso quel delitto. Si trattava, infatti,
di un uomo politico che era stato, addirittura, fiduciario di Francesco Crispi, nel momento in cui Crispi era
divenuto primo ministro. In seguito Crispi, che non era affatto uno stupido - anzi era un buon politico decise di metterlo da parte, perché ormai non gli serviva più. Anche quella parte dell'opinione pubblica
nazionale che si era schierata con lui per difendere, in realtà, un malinteso senso di campanilismo, di
regionalismo, ottenuto questo risultato, lo dimenticò completamente. Una storia di cento anni fa che ci
parla dell'Italia di oggi, dicendoci tutto, assolutamente tutto quello che c'è ancora da sapere su certe
determinate realtà. Qualcuno lo avrebbe dovuto dire a quei poveri uomini di Falcone e Borsellino - che
prima d'essere giudici erano soprattutto uomini di quella terra - che nel memoriale redatto dallo stesso
figlio di Notarbartolo, un memoriale rimasto per troppo tempo inedito - è stato pubblicato, due o tre anni
fa, da una piccola Casa Editrice palermitana - veniva descritta la mafia, compresa la sua intera struttura, la
"cupola", compresi i punti di riferimento politici. Tutto era già stato scritto, cento anni fa, tutto quello che
quei due magistrati coraggiosi hanno dovuto scoprire faticosamente, pagando con la propria vita. Quindi ho
deciso di raccontare questa storia, credendo di rendere, come dire, un servizio al mio paese. Mi sono
purtroppo accorto che quando ci si allontana dallo schema del récit, sempre per usare il termine di Duby, si
rischia di raccontare una storia "meno interessante", per il grande pubblico, il tutto proprio per seguire
quello che Lei prima chiamava "il dato storico".
STUDENTESSA: Nei Suoi racconti, oltre alle innumerevoli storie di cui ha parlato, è possibile ritrovare, in
qualche modo, le Sue memorie, i Suoi ricordi? Penso in particolare al Suo libro: L'oro del mondo (Torino,
Einaudi, 1997). Ho pensato, durante la lettura, che all'interno di quel romanzo venisse descritta una parte
di Lei, visto e considerato che il nome di battesimo del protagonista è proprio il Suo stesso nome.
VASSALLI: La storia narrativa funziona bene quando è soprattutto finzione. La storia è sempre finzione. Il
romanzo èsempre finzione. È récit. Ma anche la Storia narrata dagli storici, in gran parte, è finzione. È una
finzione che mira, però, a fornire un'idea ancor più complessiva e migliore di ogni altro racconto degli
eventi umani di una o più epoche. Nel primo tipo di finzione, quella del romanziere, usare la propria
maschera, o il proprio nome, potrebbe divenire la più impegnativa delle scelte, proprio perché il proprio
nome, per chi scrive, è la più impegnativa di tutte le maschere. Non sono certamente io il protagonista de
L'oro del mondo. Un buon scrittore non racconta mai sé stesso, nemmeno quando crede di raccontarlo.
STUDENTESSA: Dunque, non c'è nessuna allusione a lei medesimo in quel romanzo?
VASSALLI: In quel caso specifico io non pensavo neppure all'ipotesi di raccontare qualcosa di me. Giocavo
con la mia maschera, con la mia finzione, che è un'altra cosa rispetto al raccontarsi, e giocavo con il mio
passato - non con il mio passato personale, ma con il passato anagrafico di una persona come me, nata al
tempo della Seconda Guerra Mondiale, cresciuta e vissuta negli anni Quaranta e Cinquanta. Una persona
che ha visto la rovina di questo paese e il suo lento risorgere.
STUDENTE: Vorrei svolgere una riflessione su quello che aveva detto riguardo al suo racconto ambientato in
Sicilia, Il cigno. Lei ha detto di avere scritto un racconto che è stato, forse, il "più storico" di tutti, per la cui
stesura si è servito di reperti storici, giornali d'epoca, parti d'archivio, concludendo che proprio per questo
motivo è risultato non interessante per il pubblico. Non pensa che oggi da parte del pubblico della narrativa
si tenda sempre più a preferire un forma di racconto molto simile al Tv - movie, al film per la televisione; un
tipo di racconto e di romanzo più facile, meno analitico delle forme tradizionali nei confronti della realtà e
quindi più superficiale nei confronti della storia reale?
VASSALLI; La letteratura, se intesa nel senso giusto, è l'antitelevisione per eccellenza, perché va proprio
nella direzione opposta al media televisivo.
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STUDENTE: Purtroppo, attualmente, esiste una tendenza propria di buona parte della letteratura
contemporanea all'omologazione a certi schemi comunicativi tipici dei mass media, in particolare modo
della televisione.
VASSALLI: Lei, forse, si riferisce ai giovani scrittori dell'ultima generazione, i cosiddetti "cannibali"?
personalmente mi sentirei di difenderli, perché solo apparentemente sembrerebbe che seguano certe
mode, mentre in realtà fanno tutto ciò che un giovane scrittore dovrebbe fare nei confronti del "presente".
Il massimo che si può fare, secondo me, nei confronti del presente è fargli il verso, farne una parodia,
perché questo presente è talmente una parodia di sé stesso che la tentazione di fare tutto quello che ho
indicato è davvero fortissima per tutti! Io mi sento in dovere di difenderli, anche se, personalmente, nella
mia produzione mi occupo di tutt'altro.
STUDENTE; No; in realtà la mia critica non era diretta nei confronti dei giovani "cannibali" che, forse,
costituiscono soprattutto una tendenza. Innanzitutto esiste una generalizzata propensione, da parte del
pubblico più giovane, a non leggere, e questo è un dato di fatto. Se il pubblico ama leggere, preferisce
leggere delle produzioni narrative che analizzino la realtà in maniera molto superficiale, tentando di
puntare molto sulla scorrevolezza del testo e su un modello molto simile a quello televisivo, sfruttando un
tipo di racconto che coinvolga sempre più in prima persona l'interesse del lettore, ma che analizzi sempre
meno profondamente ciò che è rappresentato nelle vicende narrate.
VASSALLI: Ciò di cui lei sta parlando è un fenomeno che si è sempre verificato. La letteratura ha sempre
avuto al proprio interno una regione in cui le storie e le vicende narrate potevano subire dei profondi
processi di scavo, andando a individuare in profondità i percorsi umani dei protagonisti delle storie narrate.
Accanto a questa "zona di scavo" c'è sempre stata una regione "pacificata", superficiale, che ha sempre
svolto una funzione precisa nella storia della letteratura. Mi viene in mente una frase del Duca d'Este
all'Ariosto: "Perché scrivete queste corbellerie, invece di creare dei bei sonetti petrarchisti". Le cosiddette
"corbellerie" ci sono sempre state così come c'è sempre stato, in letteratura, tutto ciò che potesse
rispecchiare il gusto e le mode di un'epoca andando incontro alle preferenze immediate dei
contemporanei. Questo fenomeno si è sempre verificato nei secoli passati, così come oggi. Non c'è nulla di
cui preoccuparsi.
STUDENTE: Traendo spunto dalla visione di un sito web che ho trovato su Internet, dove si parla
dell'ipertesto, vorrei sapere cosa ne pensa Lei di questo nuovo modo di raccontare basato sull'idea di un
testo con il quale sia possibile interagire. Secondo Lei, il metodo ipertestuale potrà mai sostituirsi del tutto
al metodo tradizionale di narrare ancora in vigore attualmente, ossia quello del libro?
VASSALLI: Tutto è possibile. È possibile pure che la struttura ipertestuale, in cui varie componenti di testo
vengono a convergere all'interno di una grande rete di storie, possa giungere, in avvenire, a spodestare le
strutture narrative tradizionali. Io credo, però, che l'uomo sentirà sempre dentro di sé il bisogno di storie
piccole, singole, individuali, scollegate tra loro, non interagenti, che possano rivelargli un determinato
percorso. Questo è il genere di storie che l'uomo non troverà mai su Internet e questa è la mia impressione
personale. Quando si parla di memoria, il discorso può rimanere sempre fin troppo "aperto". La nostra
discussione si potrebbe chiudere con quello che affermai all'inizio. Raccontare le storie degli uomini
significa avere a che fare con l'unica forma tangibile di eternità che è realmente consentita a noi esseri
umani. Non vorrei dire l'unica forma possibile, perché rispetto chi crede in altri tipi di eternità, ma,
sicuramente la narrazione è l'unica eternità tangibile che ci è permessa, in quanto esseri umani e che può
riguardare proprio, qualche volta in modo assai ravvicinato, le nostre storie. Chi ha letto La chimera saprà
che nell'ultima pagina del mio romanzo cito quel passo di Luis de Gòngora y Argote, poeta barocco
spagnolo, il quale nei suoi Sonetti Funebri si chiese:
Di un uomo cosa resta?
Terra, polvere, fumo, ombra, nulla.
Questi versi rappresentano il massimo del pessimismo. Io, che mi considero un ottimista, vorrei aggiungere
a queste cinque cose una sesta: "Qualche volta di un uomo rimane anche la sua storia".
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1 Sebastiano Vassalli, Memoria e scrittura VASSALLI: Mi chiamo