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SaTuRa
Trimestrale
di arte letteratura e spettacolo
Redazione
Giorgio Bárberi Squarotti,
Milena Buzzoni, Giuseppe Conte,
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di Genova n° 8/2008
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sommario
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Scrivere? Anche no
Giuliana Rovetta
TRE POESIE
Vida es sueño
2 Novembre
Paesaggio contro
Liana De Luca
65
74
15
Verismo siciliano
Milena Buzzoni
76
22
TRE POESIE
Dal treno / Nga treni
La vita affievolita / Jeta e mpakur
Ultimo atto / Akti i fundit
Guido Zavanone
Traduzione in albanese di Darim Taci
78
80
82
28
RELIGIOSI POETI
Rosa Elisa Giangoia
43
UNA POESIA
Desiderio, rapporto, lingua
Uwe Kolbe
44
Un esordio musicale:
una litania d’immagini
per Genova e Giorgio Caproni
Rosanna Pozzi
47
DUE POESIE
Messaggero
Evasione
Rosamaria Nicassio
49
Le incisioni rupestri
della Val Camonica
Patrizia Loria
51
Rileggere Le città invisibili
di Italo Calvino
Rosa Elisa Giangoia
54
PROSPEZIONI
CONSIDERAZIONI SUL TEMPO
Giuliana Rovetta
IL TRAMONTO DI IDA
Giuliana Rovetta
UNA VOCAZIONE LETTERARIA
TRA IRAN E OLANDA
Giuliana Rovetta
UN UOMO E UN ARTISTA
Domenico Defelice
PIERO CAMPOMENOSI
PROSATORE E POETA
di Milena Buzzoni
UNA STORIA D’AMORE
Rosa Elisa Giangoia
LA VITA IMPREVEDIBILE
Rosa Elisa Giangoia
IL PIANISTA INVESTIGATORE
Rosa Elisa Giangoia
ALLEGGERIRE IL PESO DELLA
VITA PER TRASFERIRLO IN CIELO
Nazario Pardini
CRITICA
GUIDO ALIMENTO
UNA VITA CON LA FOTOGRAFIA
Mario Napoli
VETRINA
FRANCESCA COSTA
CREATURES
Elena Colombo
SIBILLA FANCIULLI
CITTÀ NELL’OBIETTIVO
Andrea Rossetti
SIMONA MILANI
IL CORPO A NUDO
Andrea Rossetti
MARIO TONINO
OPERA D’ARTE TOTALE
Elena Colombo
CALLIGRAFIA: “ART” O “CRAFT”?
Luisa Urgias
84
PROFILI D’ARTISTA
PERCORSI
D’ARTE CONTEMPORANEA
Mario Napoli
88
LE INIZIATIVE
DEDICATE AGLI ARTISTI
91
IV PREMIO DI POESIA
E NARRATIVA INEDITA
“SATURA CITTÀ DI GENOVA”
92
ANDANDO PER MOSTRE
Wanda Castelnuovo
94
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
Elena Colombo
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SCRIVERE? ANCHE NO
di Giuliana Rovetta
“Preferisco vivere, respirare che lavorare.
La mia arte è vivere e ogni attimo vissuto
per me è un’opera d’arte”.
Marcel Duchamp
Nella vasta opera di Melville, un’originale ricognizione dei miti fondanti
dell’ideologia americana e delle sue incongruenze, qual è il rapporto fra il capitano Achab ossessionato dalla ricerca della balena bianca e Bartleby, il timido ma
cocciuto impiegato di un oscuro studio notarile newyorkese?1 Il dato biografico
illustra come Melville abbia di fatto riassunto la sua esistenza entro i poli estremi di queste due alternative esistenziali: prima agente della New York State Bank,
poi imbarcato da Nantucket su una baleniera, più tardi in viaggio verso le Galapagos e infine, per quasi vent’anni, diligente ispettore di dogana a Manhattan.
Autore abbastanza prolifico (tra il 1846 e il 1857
pubblica nove romanzi e un libro di racconti) con
altalenanti fasi di successo2, Melville affronta la
scrittura mettendo in campo materiali eterogenei
e complessi che spiazzano i suoi contemporanei
ma sapranno invece affascinare le generazioni passate attraverso la conoscenza e la lettura e la conoscenza di Joyce e Beckett.
Bartleby lo scrivano 3, con la sua storia di
garbata ma tenace negazione di ogni attività esecutiva, è solo un frammento nella storia letteraria melvilliana, ma un frammento che si è conficcato con prepotenza nelle menti producendo
alcuni effetti. Il primo è la curiosità: perché questo giovane definibile come un
impiegato medio se non mediocre, docile e rispettoso, improvvisamente sceglie di adottare una formula - I would prefer not to, diventata celebre nella storia della letteratura- per sottrarsi a qualunque azione gli sia richiesta, anche
se ragionevolmente consona alle sue mansioni? A commento delle svariate edizioni di quest’opera breve (una sessantina di pagine nella versione originale)
alcuni suoi interpreti tendono a considerare comico l’atteggiamento di rifiuto, anche in ragione del suo ostinato reiterarsi, altri lo ritengono più propriamente tragico per via delle fatali conseguenze (l’isolamento, il carcere, la morte) che il protagonista dovrà patire: comunque sia, anche dopo aver attentaJack B. Moore, Achab and Bartleby: Energy and Indolence, in Studies in Short Fiction, I, 1964.
È interessante, ad esempio, nella ricerca di un linguaggio sacro contemporaneo, la valorizzazione fatta
oggi di Clarel (Poema e pellegrinaggio in Terrasanta), Einaudi, Milano 1999, traduzione di Ruggero Bianchi, clamoroso insuccesso che Melville pubblicò a proprie spese nel 1876.
3
Bartleby the scrivener, in Putnam’s Magazine, novembre1853; Bartleby lo scrivano. Una storia di Wall Street, Feltrinelli, Milano 1992, traduzione di Gianni Celati.
1
2
Giuliana Rovetta Scrivere? Anche no
SCRIVERE? ANCHE NO
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Giuliana Rovetta Scrivere? Anche no
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SCRIVERE? ANCHE NO
mente sezionato e soppesato le varie fasi del singolare comportamento, la spiegazione del movente resta per tutti indecifrabile. Che Bartleby non sia soltanto uno stipendiato parzialmente inadempiente in un operoso studio legale in
piena Wall Street, ma piuttosto l’espressione di un disagio di vivere profondo
e della volontà di sottrarsi alle regole convenzionali, è abbastanza chiaro fin
dalle prime pagine. La sua presenza, diventata minimamente utile ai bisogni
dell’ufficio, e tuttavia così assidua da rendersi ingombrante, è al tempo stesso anche un’assenza, data l’inconsistenza del suo agire e l’irragionevole pretesa di autosufficienza che lo vede relegato in un “eremo” (il suo studiolo angusto, con vista su un simbolico muro di mattoni) davanti alla cui soglia s’infrange ogni tentativo d’incontro e di relazione.
Altro effetto indotto dal personaggio Bartleby è quello di generare una
lecita irritazione nel suo entourage4 per le conseguenze negative dello sconcertante atteggiamento: il flemmatico impiegatuccio, con la sua ferma dichiarazione di una non-volontà che sospende l’azione trattenendola nella sfera dell’indeterminatezza (una sorta di non-sapere socratico?5) rappresenta per il filosofo Deleuze6 il fatale granello di sabbia capace, pur nella sua piccolezza, di
“inceppare il meccanismo” creando un blocco repentino nel convulso movimento della metropoli americana in divenire. Fra i tanti che si affannano nell’iperattività avendo di mira il guadagno e la carriera, l’indolente e sussiegoso Bartleby fa la figura di un anoressico in un mondo di bulimici. Nel cuore di questa contrapposizione affiora un altro elemento, un senso d’inquietudine che
coinvolge il lettore a cui preme sapere se l’improvviso venir meno in Bartleby
di ogni interesse all’azione riveste un carattere di eccezionalità oppure è condiviso da altri soggetti, così da configurare una sindrome ben definita, magari più diffusa di quel che si creda e da cui lo stesso Melville risulterebbe non
essere stato immune. Intorno a noi, ma ancor più dentro di noi, forse alligna
in forma più o meno evidente, più o meno insopprimibile, un’intenzione recondita di personalizzare i modi e gli strumenti della nostra espressività fino al
limite estremo dell’afasia o meglio, essendo il tema quello della scrittura (Bartelby the Scrivener era copista di professione) dell’agrafia.
A partire dalla frase centrale del libro, I would prefer not to, che suona
in inglese come un’espressione ricercata, non certo tipica del linguaggio parlato (e che in italiano è stata resa con la formula dubitativa “Avrei preferenza
di no”7) si possono trarre spunti e deduzioni, ma anche instaurare legami fra
personaggi disparati: creatori che hanno scelto di non creare, aspiranti autori privi di talento, intellettuali riluttanti che temono la mediocrità della loro eventuale produzione, menti geniali e sdegnose già appagate dal successo, impareggiabili snob contemplativi che si riconoscono nelle parole di Oscar Wilde:
“Il non fare assolutamente nulla è la cosa più difficile al mondo. E la più intellettuale”.
Eccettuato il comprensivo capoufficio, nella veste di narratore.
Andrea Tagliapietra, L’ultimo gesto di Socrate, in Spazio filosofico, rivista trimestrale online, maggio 2012.
6
Gilles Deleuze, Bartleby ou la formule, postfazione in Hermann Melville, Bartleby, Flammarion, Parigi 1989.
7
Non è così ovvio rendere la connotazione sospensiva della formula inglese che suona letteralmente avrei
preferenza di non fare…. In francese è stata resa con je préfererais ne pas o j’aimerais mieux pas.
4
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SCRIVERE? ANCHE NO
È evidente che l’area entro cui si perpetua e si rinnova la letteratura è continuamente soggetta a influssi e tensioni che, una volta metabolizzati, verranno gradualmente integrati in un discorso a grandi linee unitario. Chi decide di
non sintonizzarsi con la tendenza portante di questo meccanismo -casi emblematici e rappresentativi sono fra tanti quelli ben noti del giovane Rimbaud e
di Kafka- si trova relegato in un margine: da questa posizione dislocata e silente l’artista minaccia la solidità dell’insieme, poiché invece di concorrere alla
realizzazione di un progetto comune pretende di esprimersi secondo la propria incondizionata soggettività. In quest’ottica Bartleby si porrebbe come il
nume tutelare di quegli artisti e scrittori detti “del rifiuto” che, pur essendo perfettamente attrezzati per l’uso del linguaggio e ben forniti di materiali cui ispirarsi, si astengono dal produrre per non doversi adeguare passivamente a una
scrittura inadatta, secondo loro, a rappresentare la vita vera. In base alla valutazione di questi “scrittori in negativo”11 ottemperando agli obblighi impoEnrique Vila Matas, Bartleby e Compagnia, Feltrinelli, Milano 2002, traduzione di Danilo Manera.
Manuela La Ferla, Avrei preferenza di no. Fuga dalla scrittura e dalla vita, in Diario, La Repubblica, 14
giugno 2002.
10
Jean-Yves Jouannais, Artistes sans œuvres, Gallimard, Parigi 2009.
11
Patrick Tillard, De Bartleby aux écrivains négatifs, Le Quartanier, Montréal 2011.
8
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Giuliana Rovetta Scrivere? Anche no
Un viaggio erudito nei meandri di svariate culture letterarie compie lo scrittore catalano Enrique Vila-Matas8, portando avanti un’indagine sulle singole motivazioni personali dei vari scrittori, con riferimento a stagioni ora vicine ora lontane, sempre felicemente in bilico fra verità e invenzione. Il suo gioco, arbitrariamente integrando i protagonisti delle opere da lui rivisitate con la presupposta vita reale degli autori, è quello di sovrapporre, a beneficio di una costruttiva confusione, i casi opposti di chi è affetto da oggettiva incapacità di scrivere
e chi invece si astiene dall’adempiere al “mandato letterario”9 per un eccesso di
consapevolezza. L’interrogativo di fondo che anima l’irriverente testo di Vila-Matas, diario di un personaggio fittizio che esorcizza la propria mancanza d’ispirazione parlando del silenzio altrui, può dunque ribaltarsi dal più ovvio “perché
uno scrittore sceglie di non scrivere più?” alla smisurata domanda sul perché scrittori e, più in generale, artisti, imboccano la via della comunicazione producendo opere più o meno riuscite. Per conseguenza anche il celebre enunciato flaubertiano “L’autore nella sua opera deve essere sempre presente ma mai visibile” potrebbe essere letto al contrario, ipotizzando che sia invece l’opera a poter
essere presente ovunque come un’aura attorno alla figura del suo creatore ma
senza l’obbligo di palesarsi concretamente nelle forme a cui siamo abituati. A questa posizione di rinuncia alla scrittura e di preferenza per l’anonimato fanno capo
un certo numero di artisti e narratori che Jean-Yves Jouannais analizza in un singolare libro dedicato appunto agli Artistes sans œuvres10: l’astinenza si porrebbe come una consapevole scelta d’autore di chi non vuole rientrare nel catalogo ragionato della letteratura convenzionalmente intesa. Gide mirava a un’opera che durasse nel tempo (“Faire œuvre durable, voilà mon ambition”) ma dove
è detto che un così nobile intento possa essere realizzato solo trasmettendo ai
posteri del materiale tangibile su cui elucubrare (eventualmente dividendosi sul
suo reale valore) piuttosto che lasciando una testimonianza di vita o una pura
eredità concettuale?
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SCRIVERE? ANCHE NO
sti dalle consuetudini e dal mercato, il valore etico della creazione letteraria,
andrebbe perduto, sopraffatto dalla pura e semplice comunicazione di facciata che trasforma l’autore, essere per sua natura indipendente, in quello che Robert Walser, altro scrittore a lungo silenzioso, indica come esempio di soggezione servile alle logiche commerciali.
Il carattere astruso e misterioso delle parole che Melville mette in bocca al suo scrivano – quella frase che Deleuze chiama appunto con precisa terminologia “la formule” – non deriva per il filosofo francese dalla volontà di trasgredire alle regole o di contrastare, con un atteggiamento ambiguo e sfuggente, l’ordinato sviluppo sociale, ma si configura come un problema attinente specificamente al valore intrinseco della parola. Dall’oggettivo limite che la possibilità di esprimersi incontra quando utilizza il linguaggio non può che derivare, nella logica esigente di un perfezionismo estremo, la scelta del narratore di preferire il silenzio a una scrittura mediocre o approssimativa.
Se tanto Kafka che Walser sono figure in cui l’instabilità del temperamento e le difficoltà di relazione hanno pesato nel dare, a un certo punto della loro
vita, la preferenza all’astensione, non è automatico che alla base del rifiuto o
dell’autosospensione di un autore debba esserci per forza un senso di rigetto
verso la società e i suoi valori. Il malessere che qui interessa è infatti quello pertinente allo specifico campo letterario e per conseguenza è valida l’interpretazione che del fenomeno suggerisce Vila-Matas: “Esistono tanti modi di abbandonare la letteratura quanti sono gli scrittori”. A diciannove anni Rimbaud, esempio di genio precoce e fulmineo, in pratica aveva già scritto tutto. Con il suo
Adieu nella Saison en Enfer, congedo giovanile ma dall’intonazione già matura, sceglie di abbandonare la scrittura così come l’aveva fino a quel punto praticata e di rinnegare per sempre quegli ideali perseguiti nell’ambizioso tentativo di changer la vie. Così l’homme aux semelles de vent sempre pronto a cambiare orizzonte, opta per una fuga in avanti che lo sottrae all’impegno, divenuto per lui insopportabile, di decifrare e catalogare le allucinazioni che lo assillano. Da allora si dedicherà ad affari complicati e avventurosi, al commercio di armi, pelli, avorio, spezie in luoghi selvaggi e remoti, senza scrivere altro che fogli contabili, resoconti di viaggio, documenti tecnici, brevi lettere. Quanto a Walser, svizzero d’area linguistica franco-tedesca, comincia a scrivere molto giovane senza particolare successo. Tra l’uno e l’altro dei suoi momenti lavorativi (commesso di libreria, contabile in banca, operaio, segretario in uno
studio legale, infine maggiordomo in una casa nobiliare) si ritira dal mondo per
svolgere opera di scrittura e riscrittura, in particolare di poemi e prose in sütterlin, uno stile gotico-corsivo dai caratteri molto minuscoli. La definitiva rinuncia interviene col ricovero forzato in una clinica di Herisau, nel suo cantone d’origine, dove resterà, senza più dar segno di sé, fino alla morte. E tuttavia il silenzio walseriano non è del tutto muto, dato che esprime una volontà,
quella di non farsi notare, di non essere ricordato: “Riesco a respirare solo nelle regioni inferiori”. Con questa affermazione Walser suggella la sua totale mancanza di ambizione, motivo principale della sua rinuncia12. Come altri scrittori che non hanno conosciuto la fama in vita anche Kafka si adegua ad occupa-
12
Robert Walser, Jakob von Gunten, Adelphi, Milano 1970, traduzione di Emilio Castellani.
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Roland Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Ed. du Seuil, Parigi 1953.
Hugo von Hofmannsthal, Ein Brief, in Der Tag, 18 ottobre 1902; La lettera di Lord Chandos, Mimesis,
Milano 2008, a cura di Giancarlo Lacchin.
15
Claudio Magris, Introduzione a Hugo von Hoffmansthal, Lettera di Lord Chandos, Rizzoli, Milano 1974,
traduzione a cura di Marga Vidusso Feriani.
13
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zioni ed impieghi subalterni, in disarmonia col mondo che lo circonda e soffrendo delle relazioni forzate imposte dalla vita ordinaria. Scrive molto, guidato da una vocazione profonda che è anche esigenza esistenziale, ma il suo
sistema nervoso non regge al conflitto fra arte e quotidianità. Il suo modo di
estraniarsi dall’attività letteraria consiste nel prodigarsi affinché gli scritti a cui
tanto ha sacrificato vengano distrutti alla sua morte. Incarico che l’amico Max
Brod, suo esecutore testamentario, si guarderà bene dall’assolvere.
La letteratura del rifiuto (o letteratura del no, per Tabucchi) si consolida con
la crisi di fiducia nelle possibilità dell’espressione letteraria e della comunicazione che tocca il suo apogeo dopo il trauma della seconda guerra mondiale: sarà allora la volta di un più preciso riconoscimento del primato estetico (esempio classico in Francia è quello del Nouveau Roman) o di un orientamento verso modalità di scrittura frammentarie, a riprova dell’impossibilità di dare una rappresentazione univoca della multiforme e incerta modernità. Per questa via la letteratura cessa di veicolare un pensiero unitario per privilegiare categorie prima tenute
in disparte. Attraverso le modalità ambivalenti del non risolto e dell’indefinito, si
perviene all’estetica individuata da Barthes, vale a dire il grado minimo della scrittura corrispondente a una scrittura neutra13.
Tuttavia un esempio di come fossero percepiti i limiti del linguaggio anche in una fase storica risalente è offerto dalla famosa lettera che Hugo von
Hofmannsthal immagina scritta da Lord Chandos, figura di giovane aspirante
scrittore d’epoca elisabettiana, al suo maestro Francis Bacon per metterlo a parte della crisi linguistica e creativa che lo travaglia14. L’angoscia che colpisce il
promettente allievo viene descritta come un malessere progressivo che riguarda inizialmente il suo rapporto intellettuale con i concetti astratti; in seguito
contagia anche la relazione della sua mente con parole di uso corrente. Infine, a turbare il suo animo sconvolto, è anche il semplice contatto con la natura: ogni presenza assume per la sua sensibilità esasperata, connotati di eccezionalità tali da impedirgli di coglierla “nello sguardo semplificato dell’abitudine”. I brevi sprazzi di esperienze trascendentali che gli è dato di sperimentare, subito trascolorano in una dimensione irriproducibile. Da dove potrebbe trarre spunto e alimento per scrivere il giovane Chandos in questa situazione di “deliquio della parola” e di “naufragio dell’io”15, mentre la vita attorno a
lui trascorre senza lasciarsi afferrare, né decifrare, e tanto meno rappresentare? Alla disperante immagine di un mondo che resta in silenzio e non offre stimoli per nessuna conoscenza né emozione si contrappone qui l’eccesso di voci
che simultaneamente si accalcano e impediscono alla penna dello scrittore di
registrare la mutevole realtà: ecco fra le righe chiarirsi il dramma che nasce da
una sensibilizzazione estrema e che anticipa esemplarmente la condizione di
un’angoscia tipica dell’artista novecentesco. In realtà il rifiuto della scrittura
evocato da Lord Chandos prelude per il suo autore Hofmannsthal, voce fra le
più alte del decadentismo austriaco fin de siècle, ad una fase di passaggio verso una diversa maturità del sentire e dell’uso del linguaggio.
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SCRIVERE? ANCHE NO
La crisi dell’autore al cospetto della pagina bianca è la spia di un’insoddisfazione che implica in modo
globale o alternativo tanto l’elaborazione delle idee che
l’uso delle parole. È il processo di creazione in sé che con
questa sospensione della volontà di esprimersi viene messo in discussione, mostrando come sia da ricomprendere nel campo d’azione della creatività anche l’opzione negativa del fenomeno, quasi ne fosse il volto oscuro e inseparabile. Scrivere, secondo l’orientamento di molti autori (a partire da Proust per arrivare fino all’ungherese
Màrai) è comunque un modo di scendere a patti con il
non-senso dell’esistenza e in quest’ottica anche la rinuncia ad esprimersi vale come scelta in positivo, se inquadrata nell’ambito di una letteratura che si fa testimonianza consapevole di idee e valori anche allo stato potenziale. Marcel Bénabou, nel suo libro Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres 16
si accosta al tema di una produzione letteraria che rimane allo stato virtuale
e tuttavia agisce, da un’angolazione particolare, sulla letteratura universale.
È d’obbligo il riferimento al laboratorio
di scrittura noto come Oulipo, officina di sperimentazione linguistica attiva già negli anni
Sessanta, i cui aderenti (da Queneau a Calvino, da Duchamp a Pérec) hanno applicato il
loro ingegno all’analisi di una letteratura invisibile, vuoi perché ancora da decifrare nel
corpus di opere già scritte (il famoso ambizioso progetto di “migliorare i testi classici
imperfetti”) vuoi perché ancora da inventare
sulla base di procedure linguistiche (le c.d.
contraintes) rigidamente stabilite. In continuità con gli esercizi oulipiani, Pierre Bayard
esprime in un testo dal provocatorio titolo
“Come parlare di un libro che non abbiamo letto” la teoria che il patrimonio
letterario dalle molteplici provenienze, accumulato sotto forma di frammenti rielaborati dalla nostra immaginazione, costituisce un livre intérieur dal quale attingere intuitivamente preziosi elementi di giudizio17. Sempre al confine
fra immaginazione e tentazione del paradosso, si situa la poetica di Pessoa assecondata dall’invenzione degli eteronimi: “…ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, nei movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che
erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari
abusivamente, la vita reale...”18.
Marcel Bénabou, Pourquoi je n’ai écrit aucun de mes livres, Hachette, Parigi 1986.
Pierre Bayard, Comment parler des livres que l’on a pas lu?, Editions de Minuit, Parigi 2007; Come parlare di un libro che non abbiamo letto, Excelsior 1881, Parigi 2007.
18
Lettera a Adolfo Casais Monteiro del 13 gennaio 1935 sulla genesi degli eteronimi, personaggi fittizi creati dalla fantasia di Pessoa e da lui usati talvolta come nom de plume.
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SCRIVERE? ANCHE NO
Margaret Salinger, Dream Catcher, Washington Press, New York 2000; L’acchiappasogni, Bompiani, Milano 2000, traduzione di Olimpia Gargano.
Angelo Aquaro, La Repubblica 16 marzo 2010.
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Su questa falsariga si colloca appunto il libro ispirato alla “letteratura del
no” di Enrique Vila-Matas: non un saggio né un romanzo ma un testo presentato come un susseguirsi di note a pié di pagina poste a commento di un libro
che non c’è. Inutile sarebbe il tentativo di rintracciare in quest’opera una trama o un intrigo in senso classico, visto che la storia consiste nella ricerca stessa, in altre parole nell’accumulo di materiali che fanno capo all’idea di rinuncia che ha incuriosito e poi ispirato l’autore: in disparte dagli eventi reali, autoescluso da un progetto concreto, egli finisce per essere il migliore esempio
di scrittura non letteraria ovvero di letteratura inesistente. E tuttavia, lungi dal
prefigurare uno scenario in cui l’ultimo degli scrittori metterà la parola fine alla
storia della letteratura, il metodo di Vila-Matas si fa garante della continuità
della scrittura nel tempo proprio perché consente di riscattare dall’oblio frammenti di una realtà ingiustamente trascurata.
Nel novero degli scrittori “rinunciatari”, a colpire l’immaginazione
sono soprattutto i casi di autori di successo che si isolano dalla vita pubblica
e si sottraggono al processo di mediatizzazione che accompagna il cammino
delle loro opere. Emblematico è in questo senso l’atteggiamento di Jerome D.
Salinger refrattario al contatto col pubblico e alla presenza su stampa e televisione. Dopo aver pubblicato libri di notevole impatto sulla giovane società
americana come Il giovane Holden, I nove racconti, Franny and Zooey, Salinger scompare dalla scena continuando a scrivere soltanto per sé, almeno secondo la testimonianza della figlia Margaret19. In occasione dell’esposizione alla
Morgan Library di New York di una corrispondenza inedita recuperata dopo
la sua morte (2010), è diventato tangibile il disagio di questo geniale scrittore
per il successo da cui era circondato e addirittura il suo “odio per il mondo”20.
Il silenzio di Salinger (nessuna nuova opera dopo il 1965) appare come una necessità vitale e indispensabile all’attività creativa: “Non pubblicare mi dà una
straordinaria tranquillità” confida in una lettera all’amico Michael Mitchell, autocollocandosi così nella linea dei vari Bartleby fautori del non produrre nulla all’esterno per difendere il proprio equilibrio interiore. Emulo di Salinger, col
quale è stato a volte erroneamente identificato, Thomas Pynchon, autore di opere acclamate dalla critica come V., L’arcobaleno della gravità e L’incanto del lotto 49, mantiene vivo il mistero sulla sua persona: evitando partecipazioni televisive, interviste e fotografie attua una strategia che da un lato gli permette
di parlare ai lettori solo attraverso i suoi scritti e d’altro canto tiene alta l’attenzione verso il personaggio che ha scelto di incarnare, ben consigliato dalla moglie, noto agente letterario. Pynchon annuncia a breve l’uscita di un nuovo libro: la sua assenza dalla ribalta non coinvolge per nulla la sua volontà né
di scrivere né di divulgare la sua opera.
In un clima completamente diverso, ancora non del tutto inquinato da
esigenze mercantili, in Francia il primo dopoguerra aveva conosciuto il diffondersi, in un certo milieu intellettuale, di un sentimento di aspettative deluse
e di incapacità a reintegrarsi nel quadro esistenziale postbellico. Personaggi
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SCRIVERE? ANCHE NO
come Jacques Vaché, dandy anticonformista, ispiratore di Breton e del movimento surrealista, Arthur Cravan, poeta e pugile, Jacques Rigaut, esteta innamorato della propria immagine concentrato nel puro gesto di sopravvivere fino
al giorno scelto per il proprio suicidio, sono scrittori estremamente parchi a
cui l’eccesso nella vita e nella morte sembra in sé l’opera a cui dedicare le residue forze, in una sorta di polemica rincorsa a deludersi a vicenda, sostenendo ora che “L’arte è una sciocchezza: inutile cantarne le lodi” (Vaché), ora che
nulla della (scarsa) produzione letteraria deve sfuggire al previsto rogo distruttore (Rigaut). Diligentemente catalogati da Jouannais tra gli écrivains sans œuvres 21, questi autori hanno lasciato opere brevi, abbozzi, lettere a volte molto
intense come quelle inviate dal fronte ad Aragon da Vaché, qualche disegno.
Ma ad integrare gli scarni scritti interviene la vita vissuta per costruire un’immagine di sé da lasciare ai posteri.
Come Jacques Rigaut che, a dispetto della stringatissima produzione, è
comunque compreso di diritto nell’universo letterario, provvisto com’è dello
statuto di personaggio (nel romanzo Le feu follet di Drieu La Rochelle22), così
avviene anche per il triestino Roberto Bazlen, grande intellettuale e animatore di cultura senza alcuna aspirazione a pubblicare i suoi pochi scritti (usciti
postumi23). A differenza di altri scrittori reticenti ma tuttavia presenti nei compendi di storia letteraria, Bobi Bazlen non è mai citato come autore bensì o come
protagonista della storia che Daniele Del Giudice ha imbastito intorno alla sua
misteriosa persona in forma d’inchiesta24 o nella veste di raffinatissimo consulente di molte case editrici (Einaudi e Adelphi, le Nuove Edizioni di Olivetti, Astrolabio, ecc.) che sono state arricchite dalla sua preziosa collaborazione, basata su di una visione acuta e originale intrisa di spirito mitteleuropeo.
Bazlen ha lasciato soltanto appunti, schede editoriali e pareri di lettura, oltre
ad alcune lettere indirizzate a due interlocutori privilegiati, Luciano Foà e l’agente letterario Erich Linder. La sua scelta è condensata in una frase: “Credo che
non si possa più scrivere libri. Io scrivo solo note a piè di pagina”. Incarnazione di un Bartleby colto e aperto al mondo, Bazlen testimonia che la modalità
di non creare è una scelta espressiva dell’artista, persino più incisiva della creazione stessa25. Del resto ecco le parole che Valéry aveva messo in bocca all’ascetico Monsieur Teste: “Quanto più si scrive tanto meno si pensa”26.
Tra paradossi e contraddizioni, intorno al racconto di Melville che introduce in letteratura il misterioso meccanismo del “preferirei di no”, tra gli anni
Settanta e la fine degli Ottanta si addensano come api sul miele molte interpretazioni filosofiche. Addirittura Jean-Luc Nancy, il filosofo teorizzatore della coesistenza fra singolare e plurale, si sofferma sulla storia di Bartleby per
portarla ad esempio di libro “scritto apposta per essere commentato”. Si discute di un effetto Bartleby per cui le diverse interpretazioni del personaggio potrebbero essere la personificazione di altrettanti concetti filosofici27. Se per BlanJean-Yves Jouannais, op.cit., pagg. 41-56.
Pierre Drieu La Rochelle, Le feu follet, NRF, Parigi 1931.
23
Valeria Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, Collana Intangibili, Fondazione Adriano Olivetti, Ivrea
2013 (consultabile sul sito della Fondazione stessa).
24
Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, Einaudi, Torino 1983.
25
Clément Rosset, Le choix des mots, Éditions de Minuit, Parigi 1995.
26
Paul Valéry, Monsieur Teste, Gallimard, Parigi, 1926.
27
Jean-Luc Nancy, Le Bartleby de J-L Nancy, riprodotto in Gisèle Berkam, L’effet Bartleby, Hermann, Parigi 2011.
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SCRIVERE? ANCHE NO
François Laroque, Bartleby, l’ideée fixe, in Delta, rivista dell’Università Paul Valéry di Montpellier, novembre 1978.
29
Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993
30
George Steiner, I libri che non ho scritto, Garzanti, Milano 2008, traduzione di Fiorenza Conte.
28
Giuliana Rovetta Scrivere? Anche no
chot il motivo centrale è soprattutto la passività dell’enigmatico scrivano, esempio di una figura posta a metà strada fra positivo e negativo, cioè in una posizione neutra (vincente) atta a disinnescare il meccanismo dialettico, Derrida
per definirlo ricorre all’immagine dell’istrice che si ripiega in se stesso lasciando gli aculei all’esterno: lo scrittore, emulando l’ostinazione di Bartleby può scegliere di non disperdere il suo pensiero in una sterile esteriorità28.
Parabola del destino dell’artista nella società moderna, entro il quadro
di riferimento del capitalismo americano, la frase che costerà a Bartleby il prezzo dell’isolamento prima e poi della vita stessa, ha suscitato l’interesse congiunto di Agamben e Deleuze: nel libro Bartleby, la formula della creazione29
i due filosofi, si misurano con l’enigma della frase preferita di Bartleby. Mentre Deleuze ne dà una lettura politica, scoprendo nel personaggio melvilliano
il paradigma di una natura primigenia e, insieme, il rappresentante del “popolo a venire”, Giorgio Agamben legge nel “preferirei di no” dello scrivano la formula della potenza pura, l’algoritmo di un esperimento in cui il Possibile si emancipa da ogni ragione Anche George Steiner30, in I libri che non ho scritto, si occupa della letteratura inapparente e riferisce di sue opere (mai pubblicate) dai
contenuti idonei a sfidare convenzioni e tabù (alcuni temi: l’invidia per il genio altrui, il rapporto tra intellettuali e ideologia, la Shoa) ma soprattutto spiega come un libro mai scritto sia qualcosa di più di una semplice assenza, di
un intervallo vuoto. È invece qualcosa che accompagna l’opera mostrata all’esterno come un’ombra “ironica e dolente”, testimonianza e traccia di una vita che
non è stato possibile vivere.
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Liana De Luca Vida es sueño
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TRE POESIE
TRE POESIE
di Liana De Luca
Vida es sueño
Nel labirinto
Colombina finge di perdersi
dietro i pitosfori.
Arlecchino l’aspetta tranquillo
allo sbocco di tutti i meandri.
Mentre Isabella danza sulle punte
un minuetto di Boccherini
Pierrot lacrimoso controlla
se ghe xe schei nella scarsella.
Ragonda s’aggiusta la cuffia
e si rassetta il grembiule.
Gianduia compone per lei
una ghirlanda d’alloro.
Flaminia occhieggia dal bosso
il suo Brighella esitante
sicura di conquistarlo
con l’elegante bellezza.
Giochi di siepe
giochi di mano
nel labirinto d’amore
giochi di chi non sa di giocare
giochi di chi spera di dimenticare
giochi nel gioco della vita
giochi di favola infinita
giochi per l’oggi giochi per domani
giochi nel sogno di chi vuol sognare.
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TRE POESIE
Portare fiori al cimitero
è una consolazione per chi resta
con la coscienza tranquilla
e torna presto al ritmo consueto
dove non c’è dimora per gli assenti.
Ma questi forse sarebbero lieti
di più frequenti anche brevi ricordi
come flash riproposti all’improvviso
da una foto, da un’onda, da una musica,
da una picola cocarèta de café.
Cadono petali dai gambi recisi
se non sono di plastica,
scende la polvere sui marmi venati
se non passa lo straccio,
scolora nella cornice il ritratto
se la maiolica è antica.
Netto è il confine fra lo spazio e il tempo
quando nell’animo non si decanta
la purità degli affetti.
Ma un giorno presto saremo riuniti
accolti da comprensive dimensioni.
Liana De Luca 2 Novembre
2 Novembre
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Liana De Luca Paesaggio contro
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TRE POESIE
Paesaggio contro
Sul prato falciato
gli alberi mutilati
levano al cielo braccia scheletriche.
Non il cantare d’una capinera
ma il cinguettare dei passeri
cerca la protezione delle foglie
contro il calore radente del sole.
Invano. L’unico riparo
sono i tetti spioventi delle case
e l’attenzione al lancio dei sassi
dei ragazzotti in calzoncini corti.
Scivola controluce la lucertola
retaggio d’una antica civiltà
inseguita dal gatto randagio
mimetizzato da tigre.
Indifferente la ragazza passa
protesa al prossimo incontro
nell’angolo furtivo di un portone.
E nell’attesa del nuovo rigoglio
sospesa è la natura indifferente.
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VERISMO SICILIANO
di Milena Buzzoni
Ecco, è deciso. È stato approvato, organizzato, prenotato. Finalmente domani si parte. Aspetto questo viaggio con l’acquolina in bocca e l’aspettativa è
amplificata dal condividerlo con un marito che non ci ha mai messo piede e non
ha idea di ciò che troverà; la Sicilia infatti, per quanti siti si consultino e pubblicazioni si leggano, non rende l’idea di ciò che è e di ciò che ancora conserva.
Se Goethe nel 1787 visitandola affermava che “l’Italia senza la Sicilia non
lascia immagine nello spirito, qui è la chiave di tutto” e se, a distanza di secoli, Edmonda Charles Roux, vincitrice del Goncourt con il romanzo significativamente intitolato “ Oublier Palerme”, ha detto che “Nel bene e nel male è l’Italia al superlativo”, vuol dire che devono essere davvero imprescindibili le ragioni per le quali quest’isola esercita un fascino così potente su tutti!
“Haio visto el mappamondo
et la charta da navigare:
ma Sicilia ben me pare
più bel isola del mondo”
recita un canto marinaresco del ‘400!
“Lo Sbarcadero” di Siracusa che ci accoglie verso mezzanotte, dopo l’atterraggio a Catania, è un albergo lungo e basso di colore celeste con due grandi giare di fichi d’india viola a presidiare l’ingresso. Davanti, porticciolo e
mare ne fanno un’oasi un po’ decentrata e tranquilla. È un vecchio edificio
ristrutturato che forse aveva avuto a che fare con il porto. I soffitti sono a
travi dipinte di bianco e nella nostra camera fa da testata una vecchia porta mentre sul soppalco si nasconde un letto supplementare e l’accesso a un
terrazzo con vista sul Porto Piccolo. Ci accoglie Simone, figlio del nostro amico Alberto, che sia qui a Siracusa che a Scicli a Villa Ghimette, gestirà il nostro soggiorno con squisita ospitalità. Dopo una colazione con fragranti brioches alla crema e alla marmellata, ci muoviamo alla scoperta di Ortigia. Il
nostro gruppo è composto da nove amici dalla comprovata convivenza, verso i quali a qualche occasionale punta d’insofferenza, subentra subito una
reciproca tenerezza. Ortigia, nucleo originario di Siracusa, è la prima tappa del nostro tour nella Sicilia sud-orientale. La pulcherrima città di Cicerone rimanda immediatamente a echi letterari rievocando i versi di Virgilio
e Ovidio, di Pascoli, Carducci e D’Annunzio, ma anche pagine più vicine a
noi, come quelle de “ Il tulipano rosso” di Vittorini dove si ritrovano strade e piazze ( la via Minerva con le corse dei ragazzi, la parasanghea ) i cortili, i vecchi palazzi, ma soprattutto la luminosità unica al mondo del suo
cielo azzurro, la vivacità cromatica del mare, la visione vigorosa del Lungomare di Levante dove si affacciano le finestre della casa senza porte della
mastrarua, la casa del nonno Sgandurra.
Milena Buzzoni Verismo siciliano
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Milena Buzzoni Verismo siciliano
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Attraversato il Ponte Nuovo che,
scavalcando la darsena, mette in comunicazione il Porto Piccolo a nord con il
Porto Grande a sud e unisce la terraferma all’isola, arriviamo in piazza Pancali
dove possiamo affacciarci alle rovine del
tempio di Apollo o di Artemide, il più antico dei templi dorici della Sicilia, costruito attorno al VI secolo a.C. Turisti e scolaresche circondano il recinto dove sopravvivono al tempio originario, il basamento, due colonne con la trabeazione e
il muro della cella. Attorno, i melograni
fioriti e i caffè rendono allegra l’atmosfera. Proseguiamo, attraverso corso Matteotti con bei negozi, fino alla fontana di
Artemide, raffigurante il momento in cui
la ninfa Aretusa è trasformata in sorgente. La guardano le bifore e le trifore dei
palazzi trecenteschi che la circondano in
un contrasto di epoche e di stili che non
stona, anzi sottolinea la bellezza di questa piazza. Percorriamo la via Minerva
dove il bianco della fiancata del duomo è ottenuto chiudendo gli spazi fra le imponenti colonne doriche dell’antico tempio di Athena. Come sempre, il barocco sovrapposto alla sobrietà delle colonne romane è un tradimento e una stonatura: si passa dalla linearità della fiancata all’enfasi della facciata e dispiace
un po’, nonostante l’incontestabile bellezza, essersi persi il tempio. Siamo nella suggestiva apertura della piazza amplificata dal chiarore dei marmi e chiusa dalla chiesa di Santa Lucia alla Badia la cui facciata, come spesso avviene qui,
è attraversata da una balconata barocca in ferro battuto. Sul lato opposto una
sequenza di palazzi secenteschi fa da quinta a questo palcoscenico.
Percorriamo una stretta strada che fiancheggia la chiesa e ci porta fuori dalla piazza. Uno squarcio di mare si apre all’improvviso: la luce si distende sulla superficie dell’acqua, il paesaggio di colpo si dilata. Pochi passi e arriviamo all’oasi della fonte Aretusa con i ciuffi diafani dei papiri che si moltiplicano nella sorgente e i giganteschi alberi attorno. Secondo il mito, la ninfa
Aretusa per sfuggire al fiume Alfeo si gettò in mare dalle coste dell’Elide e ricomparve qui, sotto forma di fonte; ma Alfeo correndo sotto il mare, la raggiunse e mescolò le proprie acque con le sue. Una polla d’acqua dolce, detta
l’occhio della Zillica, , zampillante a breve distanza nel porto, sarebbe appunto Alfeo. Torniamo indietro per il quartiere ebraico dalle strette viuzze dove
i locali a piano terra sono abitazioni simili ai “bassi” napoletani. Finiamo in un
animato mercato le cui tinte ricordano certi quadri di Migneco, di Fiume o di
Guttuso. È un trionfo di colori, odori, suoni, un invito a mettersi a tavola per
provare tutto quello che offrono le bancarelle. I nostri palati abituati alla un
po’ sbiadita cucina ligure, subiscono un piacevole shock : assaggiamo mozzarelle, ricotte, tricotte, crostini con la capponata, olive, pomodori secchi. Il tonno fresco costa dieci euro al chilo e dodici i gamberi rossi grandi come arago-
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ste! L’ala femminile del gruppo è sopraffatta da un irresistibile impulso all’acquisto: lasciamo perdere i pesci in favore di origano, fave secche e pani di pasta di mandorle. Facciamo uno spuntino sul terrazzo della nostra camera con
le cose appena comprate ma pioviggina e ci organizziamo per il pomeriggio da
passare al Parco Archeologico della Neapoli. Anche questa zona di Siracusa è
stata amatissima da Vittorini che definì le Latomie dei Cappuccini “il giardino
sotterraneo di Siracusa”. Latomie, cioè vaste e profonde cave da dove si estraeva la pietra per le costruzioni, che colpirono anche il viaggiatore scozzese Brydone che le ricordò come “un elegante giardino sprofondato sotto la superficie del terreno e senza dubbio uno dei luoghi più belli e romantici che abbia
mai veduto”. Accanto alle Latomie dei Cappuccini quelle del Paradiso svelano
ai nostri piedi il Teatro Greco, pronto per l’allestimento del prossimo spettacolo, l’Orecchio di Dionigi che deve il nome al Caravaggio, la grotta dei Cordari, l’Ara di Gelone. Suggestioni, quelle suscitate da questi luoghi, a cui non potè
sottrarsi neppure Ungaretti che nel coro 25 del “Taccuino del vecchio” scrive:
“Calava a Siracusa senza luna/ la notte e l’acqua plumbea/ e ferma nel
suo fosso appariva./ Soli andavamo dentro la rovina./ Un cordaro si mosse dal
remoto”.
A fine giornata siamo stanchi e affamati e non potremmo trovare migliore asilo della Taverna di Enrico dove, raccomandati da Simone, mangiamo ottimo pesce!
Il mattino dopo il cielo è completamente azzurro, un po’ più blu del solito nordico blu. La strada verso la necropoli Pantalica si inerpica tra rilievi ondulati. Man mano che si sale, si passa dai bananeti e le limonaie alle più elevate pinete. La strada è stretta e limitata da muretti di pietra. Si arriva alla Necropoli dall’alto: davanti a noi pareti rocciose bucate da circa cinquemila grotte create tra il XIII e l’VIII secolo a.C. come celle funerarie a grotta naturale o
a inumazione multipla, e sotto i nostri piedi il canion dell’Anapo, il fiume che
si sente scorrere e si intravede appena tra la vegetazione rigogliosa e l’alto ripido argine. L’acqua è limpidissima e muove lieve il silenzio della vallata. Il sentiero sassoso scende per arrivare proprio davanti ai “buchi” aperti nella montagna. Non lo percorriamo interamente perché il luogo si rivela di una vastità
imprevedibile. Ci accontentiamo di aggirare l’orrido e scrutare dal basso la necropoli che si inerpica verso la sommità dei rilievi rocciosi.
Dopo una sosta a Palazzolo Acreide a settecento metri sui monti Iblei,
dove un gruppo di chiese costruite su differenti livelli e poste su alte gradinate crea un’insolita scenografia, la sorpresa della giornata è la scoperta di Noto,
un gioiello del barocco, che non ci saremmo aspettati così in ordine e ricostruita dopo l’ultimo terremoto. Parcheggiamo il nostro pulmino sulla discesa che
porta alla piazza dove giganteggiano la chiesa, il duomo e il municipio. Il sole
riempie la spianata : è una luce amplificata dalle sfumature dell’ambra, il colore della pietra calcarea con cui sono costruiti i principali edifici. A sinistra,
sul lato corto di un grande terrazzo affacciato su un vivace corso Vittorio Emanuele pieno di negozi e caffè, chiude la piazza la chiesa di San Salvatore. A destra, sul lato lungo, il duomo è fronteggiato da un’ampia scalinata e fiancheggiato dal Palazzo Vescovile. Entrambe le chiese risultano imponenti per le colonne settecentesche su diversi ordini che caratterizzano la facciata. Di fronte, il palazzo Ducezio, sede del municipio, è una costruzione lunga e curvilinea, mossa da un loggiato anteriore. È un contesto spettacolare con una pro-
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fusione di linee ondulate: dalle panciute balaustre dei balconi, alla sagoma delle finestre, alle volute dei fregi. In una delle strade perpendicolari al corso Vittorio Emanuele, visitiamo palazzo Nicolaci con un cortile rettangolare in discesa, dal quale, attraverso una rampa esterna, le carrozze salivano all’ultimo piano. Nel 1860 fu costruita la scala interna che ci porta all’appartamento. Arredato con mobili ottocenteschi, lampadari in vetro di Murano e lucide piastrelle di maiolica dai disegni geometrici che trasformano il pavimento di ogni stanza in un tappeto, si affaccia sulla strada con quattro balconi, ognuno dei quali è sostenuto da una sequenza di diverse figure: putti, leoni, chimere che guardano chi passa con verismo inquietante. Lasciamo a malincuore questo concentrato di bellezza, questa luce dorata che ricopre ogni superficie. Avola non
è altrettanto bella; la prossimità di palazzi moderni agli antichi interrompe la
suggestione, anche se non mancano chiese altrettanto imponenti.
Sulla strada del rientro passiamo a dare un’occhiata alla spiaggia delle
Fontane Bianche, una profusione di trasparenze turchesi ai piedi di rocce alte
e candide.
Torniamo a cena da Enrico che ci prepara deliziose polpette di “neonati” (così chiamano qui i bianchetti) e indimenticabili gamberoni alla griglia.
La mattina seguente lasciamo Siracusa per Ragusa. Ci fermiamo a Modica che conoscevo solamente per la scuola di scherma che spesso mia figlia
incontrava durante le gare: era una squadra temibile, quasi sempre vincente.
Una palestra troneggia infatti in centro città e mi ricorda quel periodo della nostra vita familiare. Non a caso, l’antiquario sul corso ha tre bellissime stampe
a colori, appartenenti a un vecchio libro, che rappresentano incontri di scherma con tiratori dalle sgargianti divise ritratti in diverse posizioni. L’antiquario mi spiega che in Sicilia la scherma ha antichissime origini e che si sono fuse
qui le esperienze di spadaccini spagnoli, francesi e arabi creando una tradizione che dura tuttora. Ma quella che io pensavo fosse solo una formidabile scuola di fioretto, è in realtà una colata di barocco che scende lungo i pendii della
montagna per fermarsi nella parte più bassa occupata dal corso brulicante di
negozi e locali. Guardando in su Modica è una città di scale che collegano fra
loro i dislivelli della città. Colonne, portali, balaustre, maschere, reggi-balconi
sono un ininterrotto ricamo che connota ogni chiesa, ogni palazzo, ogni semplice casa, porticato o portone. Il corso principale occupa un fondovalle che
ci si aspetterebbe occupato da un fiume. Qua e là qualche balcone diroccato,
qualche finestra socchiusa, qualche pilastrino divelto denunciano una precarietà non ancora sconfitta. Ma molti restauri sono stati fatti e del resto l’imperfezione in un tale contesto di profusione di bellezza ha un suo fascino, lascia posto all’immaginazione. Lasciando Modica mi vengono in mente i versi
di Quasimodo per la sua città natale: il ricordo della sua terra diventa “l’assurdo contrappunto di dolcezza e di furore, un lamento d’amore senza amore”.
Raggiungiamo Ragusa in serata e andiamo subito in cerca di Ibla, il suo
centro storico, dove tutto è valorizzato con gusto sicuro. Distribuita su una docile salita, scopre una chiesa ad ogni angolo e le facciate settecentesche con
le loro balaustre a volute contestualizzate in un borgo di case coeve, crea un
insieme perfettamente armonico. A parità di bellezza, Ibla è più curata, Modica più caratteristica con i suoi dislivelli e un’urbanistica un po’ sconnessa. Ceniamo sulla strada principale e ci spostiamo a Villa Ghimette, il Bed and Breckfast di Simone a Scicli per gli ultimi giorni di vacanza. Dopo una notte di son-
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no cullati dal ritmo delle onde, unici ospiti della struttura, facciamo colazione sotto due frondosi ficus che ombreggiano il giardino affacciato alla spiaggia. Li separa un enorme cactus a tanti bracci; attorno giare con gerani fioriti,
bordi di sassifraghe, agavi e fichi d’india tra i quali si frantuma un mare tirato e spumeggiante. Partenza per Caltagirone con sosta a Scoglitti, un borgo di
pescatori, e deviazione verso il castello di Donnafugata, a una ventina di chilometri da Ragusa, spinti dalla curiosità per certi luoghi storici e letterari. Il nome
del noto palazzo deriva dall’arabo ayn as jafat ossia “fonte della salute”, da cui
il termine dialettale “ronnafugata” poi tradotto in “donnafugata” . In effetti, fin
da tempi antichissimi esiste una sorgente che sgorga nei pressi. Ma non abbiamo calcolato che è lunedì e, oltre ai musei, molti siti sono chiusi. Troviamo un
bar aperto sulla sonnolenta strada che conduce a questo magnifico palazzo,
purtroppo chiuso anche in altri giorni della settimana. Ci dobbiamo accontentare delle notizie della guida e del ricordo del film di Visconti che girò qui “Il
Gattopardo” o delle inquadrature che nelle puntate di Montalbano riprendono la villa di Sinagra, il vecchio capo mafia. La villa costruita attorno a una preesistente torre di avvistamento arabo-normanna, risale alla fine dell’800 quando il barone Corrado Arezzo de Spuches ne definì l’impianto che consta di 122
stanze ed è caratterizzato da un’ elegante loggia gotico-veneziana primi ‘900.
L’imponenza solitaria della struttura avvolta nel silenzio di un’atmosfera smagliante evoca le sensazioni di don Fabrizio Salina che non soltanto amava moltissimo la casa e la gente ma anche “il senso di possesso feudale che in essa
era sopravissuto”. Ce la lasciamo alle spalle e ci avviamo verso Caltagirone. Il
paesaggio, man mano che si procede verso nord, è caratterizzato da colline curvilinee e verdeggianti con qualche sparso albero. Somiglia a una veduta toscana quando i cipressi segnano un crinale o precedono una masseria.
Per Caltagirone attraversiamo a piedi un ponte i cui muri sono rivestiti
da piccole piastrelle di ceramica. Passiamo davanti al massiccio edificio delle
carceri borboniche per raggiungere il centro. I negozi di ceramiche si susseguono per tutto il percorso finché, in cima alla strada, vediamo la famosa scala inerpicarsi fra case secentesche. Ogni alzata di gradino è rivestita da una fila di piastrelle differenti creando un ricamo verticale. Chiese barocche spuntano alte
su un terrazzamento o nascoste in fondo a una piccola piazza. Attraversiamo
il parco della cosiddetta “villa” creata a fine ‘800, un’oasi di verde, silenzio e
ombra con un bel padiglione centrale per la musica e una balaustra liberty in
terracotta.
Siamo impazienti di arrivare a Piazza Armerina e scoprire i mosaici della villa del Casale dove, sotto una complessa struttura in legno, vetro e acciaio è conservata una sequenza di pavimenti che, con minuscole tessere, creano indimenticabili disegni. Fatta costruire tra il III e IV secolo d. C. dall’imperatore Massimiano, membro con Diocleziano della tetrarchia, nasce come villa di campagna e fu abitata fino al periodo bizantino e musulmano. Subì le invasioni di Vandali e Goti per risorgere nel medioevo come fulcro originale della “Piazza”. I primi scavi risalgono al 1881 e nell’arco del ‘900, poco alla volta, cominciarono ad apparire tutti i pavimenti della villa: ognuno è diverso dagli altri e si passa dalle ginnaste in bikini, alle scene di caccia, a quelle di pesca, alle fatiche di Ercole, alla sala dei mosaici geometrici e floreali, a quella delle danze, a quella delle stagioni: è qui rappresentato un verismo umano, animale e vegetale tra i più vari e raffinati. Ho ancora negli occhi il pavimento del-
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la basilica di Aquileia limitato alla superficie della chiesa: qui è un’intera villa
ad essere ricoperta di mosaici e, in parte, di affreschi murali. Si prova persino
gratitudine per chi ci ha lasciato tanta bellezza! I 20 euro meglio spesi di tutto il viaggio!
Torniamo a villa Ghimette con un certo appetito anche perché sappiamo che Francesca ed Eloisa, responsabili del Bed and Breckfast, stasera ci hanno preparato una cena siciliana: bruschette fantasia, pasta alla norma, parmigiana di melanzane e dolci di ogni tipo, dalla cassata ai cannoli, dal gelo alla
pasta di mandorle il tutto rallegrato dalla sorpresa di un coro di canterini in
rigoroso costume locale che suonano e cantano le arie più famose della tradizione siciliana!
Partiamo alle otto per Agrigento dove prevediamo di arrivare verso mezzogiorno: qui infatti non ci sono autostrade e dobbiamo percorrere provinciali e attraversare zone abitate. Poi, dal basso, cominciano ad apparire le sagome dei primi templi, arroccati su un crinale davanti alla città. Lasciamo il Transit al parcheggio e decidiamo di farci portare dal taxi nel punto più alto del sito
per percorrerlo in discesa. Alzando gli occhi, dopo la biglietteria, vediamo il
primo dei cinque templi rimasti: è il tempio di Giunone, solitario e imponente, che, con il suo massiccio colonnato dorico, si staglia contro lo sfondo del
cielo e quello del mare spianato dal vento che spinge verso riva onde orlate di
schiuma. Nessun miglior contesto potrebbe accogliere queste che sarebbe riduttivo chiamare “rovine”. Il V secolo d.C. ha depositato qui i suoi edifici più
belli e ha permesso che sopravvivessero: come dinosauri fuori dal tempo e dallo spazio se ne stanno spaesati perché nulla attorno gli somiglia, ma anche a
proprio agio su questa collina staccata dalla città e occupata solo da loro, padroni assoluti di questa porzione di mondo.
Prima del rientro a Genova, vogliamo dedicare una giornata a Scicli di cui
conosciamo solamente Baia d’Ispica dove è situata Villa Ghimette.
“Scicli è la più bella città del mondo” dice Vittorini : adagiata in una conca, circondata da colline rocciose, aperta da un lato verso il mare e dall’altro verso l’interno della Sicilia. Arrivando da Modica e Ragusa si resta colpiti dalla distesa di tetti chiari interrotti qua e là dalle alte sagome dei campanili, dai conventi, dalle facciate barocche. Come altri centri della provincia di Ragusa, Scicli
fu ricostruita dopo il terremoto del 1693. La città fu “dell’intutto spianata” secondo il racconto di un antico cronista, ma grazie all’apporto di alcuni dei migliori artisti dell’epoca, i ricchi edifici settecenteschi e il palazzo Beneventano rappresentano un capolavoro del genio creativo tardo-barocco. Quest’ultimo in particolare, visto la sera, con le luci che illuminano dal basso le due facciate fastosamente scolpite, lascia a bocca aperta per la spettrale plasticità delle teste che
ne caratterizzano la superficie. Altrettanto indimenticabile, nella poco lontana
chiesa di San Giovanni Evangelista, una tela rappresentante una croce con un Cristo coperto da una gonna bianca, unico esempio, pare, nella storia dell’arte. Guardando il quadro alla rovescia o, più facilmente, capovolgendone la foto, l’immagine risulta quella di un bianco calice sostenuto dai bracci della croce: si tratta
del Cristo di Burgos cosiddetto per l’attribuzione a un pittore spagnolo del XVII
secolo. A pochi metri dalla chiesa, ci affacciamo all’atrio del Municipio trasformato nel commissariato di Vigata del serial televisivo di Montalbano.
Anche Scicli, in definitiva, come quasi tutto quello che abbiamo visto qui
in Sicilia, da sola, merita il viaggio!
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VERISMO SICILIANO
Milena Buzzoni Verismo siciliano
È arrivato il giorno della partenza. Abbiamo il volo da Catania e approfittiamo della mattinata libera per dare un’occhiata anche a questa città che si
presenta subito, non solo con il fascino decadente della Sicilia ma con la monumentalità dei grandi centri. Anch’essa ricostruita dopo il terremoto del 1693,
conserva intatti i palazzi settecenteschi attorno alla piazza del Duomo, al centro della quale zampilla la fontana dell’Elefante sormontato da un obelisco. Una
balaustra limita il giardino sul fianco della chiesa creando un’oasi di verde. Approfittiamo del bus turistico che parte proprio da qui per un giro della città:
passiamo davanti al poderoso Castello Ursino con le sue torri, fatto costruire
da Federico II di Svevia, percorriamo il lungomare, poi penetriamo dentro una
città piena di chiese e palazzi barocchi: anche qui una bellezza che deve fare
i conti con traffico, zone degradate, spazi ancora da recuperare.
Per riprendere il nostro pulmino sistemato in un silos, attraversiamo un
animato mercato dove facciamo gli ultimi acquisti di “tricotta”, la ricotta locale cucinata al forno, e dolci di pasta di mandorle. Percorriamo la via Etnea,
con eleganti negozi e caffè, dove passeggiano i catanesi. La strada sale rettilinea in lieve pendio verso l’Etna che appare sullo sfondo. Oltrepassiamo l’anfiteatro romano e, a monte di questo, la chiesa del Santo Carcere incorporata
nei resti di un baluardo spagnolo e sorta sul carcere romano dove fu rinchiusa Sant’Agata. Mangiamo qualcosa al volo all’ombra delle araucarie di Villa Bellini e riprendiamo il pulmino verso l’aeroporto.
Accanto a me un signore con i capelli folti dello stesso colore del pomo
d’argento del suo bastone, mi guarda come se sapesse tutto di me. Gli sorrido e aspetto.
-Viaggio di lavoro o di piacere?- mi domanda schiacciando in bocca la c
e la e.
-Di piacere, di piacere- rispondo -anzi di grande piacere! visto che è un
posto che ho nel cuore da quando ci sono stata la prima volta-.
Si vede che è compiaciuto. Si presenta come un insegnante di lettere in
pensione del liceo classico di Catania; mi racconta della sua casa sotto Taormina, della sua vedovanza, della figlia che lo aspetta a San Remo con i “picciriddi” (è l’unica parola che pronuncia in dialetto come se l’affetto gli avesse fatto perdere per un attimo il controllo del linguaggio). Emana una signorilità arcaica e sembra parlare della Sicilia con nostalgia. Gli chiedo perché:
-Eh, noi siciliani siamo orgogliosi e anche intelligenti e sospettosi, come
dice Cicerone e pure se stiamo in tutto il mondo, non ci piace allontanarci dalla nostra terra. Io posso resistere quindici, venti giorni al massimo, ma poi devo
tornare a casa perché la luce, il mare, proprio quel mare che luccica sotto il mio
pergolato e la terra, anche la terra secca e dura che zappava mio nonno e i fichi d’India con le spine e l’odore di certi cespugli, certi profumi che mi porto
sempre dietro, sono come il richiamo delle sirene per Ulisse. A un certo punto devo tornare. Non posso resistere. Lo sa cosa dice Piero Chiara? Lo conosce
Piero Chiara no? Be’ lui era nato a Luino ma da genitore siciliano che in gioventù era risalito al nord “come un’anguilla”, dice proprio così, “come un’anguilla” in quel romanzo che si chiama “Con la faccia per terra”. Dice, che me
lo sono imparato a memoria:” È col ritorno che si pone per sempre una pietra
sugli anni che non ci somigliano più”.
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Guido Zavanone Dal treno
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TRE POESIE
TRE POESIE
di Guido Zavanone
tradotte in albanese da Darim Taci
Dal treno
“Siediti
nella direzione del treno” s’affannava
mia madre, alla stazione, al fragile ragazzo
affacciato al finestrino colloquiale.
Così feci per anni. Era bello incontrare
il mondo, le sue immagini in corsa,
il presente e il futuro
avvinti in vorticosa danza.
Più tardi
fu diverso. Mi struggeva
questo lasciarci repentino all’atto
d’incontrarci, l’afferrare a pena
qualche lembo stracciato delle cose, mai
veramente conoscerle.
Così
ho pensato di sedermi contro
la direzione del treno, volte le spalle
a ciò che senza tregua
turbina e incalza.
Ora sono io che mi vado allontanando,
le cose
stranamente mi seguono, mi guardano,
lasciano che a mia volta le contempli in ogni
più insignificante significante particolare
monti fiumi alberi uomini
e io in mezzo a loro, amici cari,
anche scomparso, continuano a salutare.
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TRE POESIE
‘Ulu
Në drejtim tëtrenit’ i gulçonte
nëna ime në stacion djalit të hajthëm
varur në dritaren ku bisedohej.
Kështu bëra vite me radhë. Bukur të takoje
botën, imazhet e saj në lëvizje,
të tashmen e të ardhmen
të shkrira në atë valle të vrullshme.
Më vonë
ishte ndryshe. Tretesha
nga rënia e behtë në atë çastin
e takimit. Mezi kapja
ndonjë leskër të shqyer të gjërave, pa
i njohur kurrë ato.
Kështu
mendova të ulem kundër
drejtimit të trenit, me shpinë
ndaj asaj që pa pushim
shtillet e vrapon.
Tani jam unë ai që u largohem
gjërave
që për habi më ndjekin, më vështrjnë,
lënë që t’i kundroj unë në çdo
vogëlsi kalimtare domethënëse,
male, lumenj, pemë e njerëz
e unë në mes tyre, miq të dashur që,
edhe kur nuk duken më
vijojnë të përshëndesin me dorë.
Guido Zavanone Nga treni
Nga treni
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Guido Zavanone La vita affievolita
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TRE POESIE
La vita affievolita
Viene il tempo della vecchiaia.
Non la folgore che schianta,
ma una timida sera
striscia
di cosa in cosa, s’insinua
tra le crepe dell’esistere e gli alveoli
lamentosi dell’anima. Si scusa. Umilmente
occupa il mondo.
Tu contempli in silenzio, come odiare
questa miseria d’ombra che ti stringe
materna fra le braccia, t’assopisce
in una infanzia nuova senza sogni.
E ti vieta anche questo, di soffrire
per te, per lei, se ogni ora che resta
scolorando consola di morire.
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TRE POESIE
Vjen koha e pleqërisë.
Jo rrufeja që djeg,
por një mbrëmje e ndrojtur
tek zvarritet
aty këtu mbi sendet, futet
nëpër të carat e qenies dhe hojëzat
e përvajsheme të shpirtit. Kërkon ndjesë. Përulësisht
pushton botën.
Ti kundron në heshtje, si ta urresh
këtë hije mjerane që të shtrëngon
si nënë ndër krahë, të vë në gjumë
në një fëmijëri të re pa ëndrra.
Dhe të ndalon një gjë, të vuash
për ty, për atë, çdo orë që mbetet
në zvetënim këshillon vdekjen.
..
Guido Zavanone Jeta e mpakur
Jeta e mpakur
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Guido Zavanone Ultimo atto
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TRE POESIE
Ultimo atto
Noi, i sopravvissuti, noi i morti
rannicchiati come feti dentro
non so quale memoria.
Un cielo
sereno e vuoto in cui svapora il mondo.
Ancora
la voce dell’Uomo risuona:
“Libera le ceneri, Signore, dentro l’urne
per l’ultimo vento.”
Impossibile
incidere con la parola
il ghiaccio del Tuo silenzio.
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TRE POESIE
Ne të mbijetuarit, ne të vdekurit
Kruspull se fetuse brenda
Një kujtese çfarëdo.
Një qiell
i kthjellët e bosh ku bota avullon.
Ende
zëri i Njeriut kumbon:
‘Lëshoje hirin tone, O zot, nga arkivolet
mbi të fundmen erë’
E pamundur
që me fjalë të shkrijë
akulli I heshtjes Tënde.
Darim TACI (pseudonimo TACE) è editorialista culturale per i giornali albanesi “Republika”, “Koha Jone” e “Tirana”. È traduttore in albanese dalle lingue inglese, francese e italiana per conto di diverse case editrici. Tra le sue traduzioni italo-albanesi si ricordano particolarmente quelle di importanti autori, quali Alberto Bevilacqua,
Italo Svevo, Alberto Moravia (ed. Toena, Tirana). Ha al suo attivo numerosi romanzi e ha curato per l’editore Zanichelli un dizionario illustrato italiano-albanese.
Guido Zavanone Akti i fundit
Akti i fundit
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Rosa Elisa Giangoia Religiosi poeti
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RELIGIOSI POETI
RELIGIOSI POETI
di Rosa Elisa Giangoia
Nella tradizione cristiana numerosi sono i religiosi che hanno espresso
convinzioni teologiche in poesia e hanno utilizzato questo strumento espressivo per difendere e diffondere la fede. Pensiamo a sant’Efrem di Siria e a Romano il Melode nella cristianità orientale, ma anche ad autori dell’Occidente,
come Commodiano e sant’Ambrogio, i cui inni sono ancora oggi parte della liturgia cattolica e toccano il cuore per la loro intensa spiritualità; o a un pensatore di altissimo vigore intellettuale, come san Tommaso, che ci ha donato
gli inni della festa del Corpus Domini; tutti poi ricordiamo San Francesco d’Assisi, che all’inizio della nostra storia letteraria ha detto le più alte parole di lode
al Signore creatore, ma non possiamo dimenticare san Giovanni della Croce e
tanti altri più vicini a noi nel tempo, come Clemente Rebora e David Maria Turoldo, fino alla profonda ed intensa produzione poetica di Karol Wojtiła, prima di diventare Giovanni Paolo II, criticamente ben analizzata da Antonio Spadaro1, sia dal punto di vista letterario che teologico.
La fede è amore e perciò crea, questo creare trova la sua espressione nella poesia e nella musica. Ma soprattutto la fede è gioia, perciò crea bellezza.
Umanità palpitante, ardore di fede, profonda umiltà pervadono i canti
della tradizione cristiana. Tutto il tesoro della cultura cristiana, nata dalla fede,
nata dal cuore, trova il suo fulcro creativo nell’incontro con Cristo, il Figlio di
Dio.
Molti consacrati oggi avvertono che questo contatto del cuore con la Verità, che è Amore, continua ad essere elemento vivificante della cultura cristiana. Per questo ci sono molti, in Italia e nel mondo, che rispondono all’imperativo che si ripete sempre nuovo nei Salmi: «Cantate al Signore un canto nuovo».
Per chi scrive spinto dalla fede la creatività e l’innovazione si innestano
nell’eredità culturale della tradizione, formando un’unica realtà, contraddistinta dalla presenza della bellezza di Dio e della gioia di essere figli suoi.
Tra i molti consacrati che in Italia si dedicano alla poesia, al momento,
ne prendiamo in considerazione solo tre (Carmelo Mezzasalma, Daniele Donegà e Mariangela De Togni), per un’analisi che potrà comunque continuare ed
estendersi ad altre figure.
Carmelo Mezzasalma è senz’altro una figura di intellettuale cattolico a
tutto tondo, molto impegnato nell’elaborazione di una linea di pensiero, strettamente in sintonia con i documenti del Concilio Vaticano II, che sappia rispondere agli interrogativi che la cultura contemporanea pone al cattolicesimo. La
1
Nella melodia della terra. La poesia di Karol Wojtyla, Jaca Book, Milano 2007.
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S E Z I O N E R I V I S TA
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Una memoria di vocazione, San Leolino 25 marzo 2011. Dopo la laurea in Filosofia a Firenze e studi musicali con perfezionamento a Parigi, Carmelo Mezzasalma ha svolto un’intensa attività di saggista, critico letterario e musicologo, fino a giungere, solo recentemente, all’ordinazione sacerdotale, dopo aver già
frequentato il seminario nell’adolescenza ed aver vissuto un’esperienza religiosa tra i Passionisti. Centrale nella sua attività è stata la fondazione, nel 1986 a Firenze, della Comunità di San Leolino, definita Comunità tra esodo ed avvento, trasferitasi poi nel 1997 nella Pieve di San Leolino a Panzano in Chianti, nell’ameno paesaggio della Diocesi di Fiesole. È una comunità composta da sacerdoti e laici, che vivono nella fraternità per una nuova evangelizzazione della cultura, appunto tramite la cultura stessa. Per questo,
oltre che alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio, si dedicano allo studio, all’insegnamento e «alla
promozione di iniziative in cui la ricerca della bellezza e della sapienza conducano a un vero e rispettoso incontro tra la presenza di Dio e le attese spirituali degli uomini» e si impegnano «nella ricerca del vero
e del bello attraverso la musica e l’arte, nella dedizione a comprendere e affrontare i problemi culturali
decisivi del nostro tempo, per essere vicini a chi cerca un senso alto alla propria vita». Per attuare questo particolare carisma strumento importante è l’attività editoriale attraverso l’ormai ultraventennale pubblicazione della rivista “Feeria. Rivista per un dialogo tra esodo e avvento” e la produzione della casa Editrice Edizioni Comunità di San Leolino. La rivista «Feeria» ora si presenta nell’elegante veste grafica della nuova serie, sempre sotto la direzione di Carmelo Mezzasalma, che apre ogni numero con un editoriale, in cui evidenzia questioni che di volta in volta sono emerse nel dibattito culturale e con puntualità ed
efficacia cerca di dare risposte e soluzioni, sempre alla luce del magistero della Chiesa nella linea di una
costante ripresa ed attuazione dei documenti del Concilio Vaticano II. Molti di questi articoli sono stati
ripubblicati in due volumi ( La parola alta della vita. Cultura, anima, fede nel postmoderno, Edizioni Feeria, Panzano in Chianti (Firenze) 2007 e Tenete ciò che è buono. Per un discernimento della cultura contemporanea, Edizioni Feeria, Panzano in Chianti (Firenze) 2012).
3
Edizioni Messaggero Padova, Padova 1998.
4
Edizioni Feeria, Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti (Fi) 2011.
5
Edizioni Forum / Quinta generazione, Forlì 1976.
Rosa Elisa Giangoia Religiosi poeti
sua vita si può considerare, come egli stesso la definisce nella Lettera fraterna alla Comunità in occasione della sua ordinazione presbiteriale, avvenuta a
Fiesole il 20 aprile del 2011, un «lungo e travagliato cammino»2.
Gli interessi letterari ed artistici, soprattutto musicali, sono sempre stati centrali nella sua vita, ma la sua ordinazione sacerdotale si lega strettamente alla poesia. Infatti nella già citata Lettera fraterna alla Comunità inserisce
anche una missiva indirizzata alla Priora del Carmelo di Lisieux, a cui allega
una poesia per Santa Teresa (Offerta per Teresa a Lisieux), che chiede sia deposta accanto all’urna della Santa, ma la cosa più interessante è che aggiunge
«Teresa ed io condividiamo l’amore per la poesia così come la sentiva soprattutto il nostro santo Padre Giovanni della Croce. Né Lei né io, probabilmente,
possiamo dirci poeti come Lui, ma sappiamo, nella semplicità del cuore bambino, che, oltre alla spiritualità e alla teologia, la poesia è il modo più spirituale e più profondo di parlare con Dio e anche di Dio. Teresa chiamava la poesia il “gioco del cuore”: il gioco di chi, sempre bambino fino all’ultimo, balbetta quella parola dell’anima, quella sua verità senza veli e difese, che il Padre
sa capire come pochi poiché Lui solo sa cos’è l’Amore che ha riversato nei nostri cuori in Gesù».
Possiamo qui individuare il nucleo generatore della poetica di don Mezzasalma, che realizza questo intento «di parlare con Dio e anche di Dio» con
la traduzione delle Poesie di San Giovanni della Croce3 e raccogliendo, in occasione della sua ordinazione sacerdotale, le sue poesie dal 2006 al 2011 nel
volumetto Diario di preghiere. Poesie4, che segue a lunga distanza il suo primo libro Le isole vaganti5.
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Carmelo Mezzasalma misura e forgia la sua parola poetica nel confronto
con l’altissima poesia di San Giovanni della Croce, il grande poeta e mistico spagnolo del XVI secolo, «non scrittore o poeta di professione, bensì uomo di Dio
per scelta e vocazione», il quale, sebbene abbia composto solo tre brevi componimenti poetici (Cantico spirituale, Notte oscura e Fiamma viva d’amore) per un
totale di 264 versi, ha raggiunto una fama altissima nel tempo fino ai nostri giorni, per la profonda ispirazione, l’intima adesione ai temi trattati e l’alta realizzazione espressiva. È una poesia che discende direttamente dalla sua mistica, che
gli consente una visione chiara e piena dei misteri divini da cui gli derivano le
parole per renderli comprensibili anche agli altri uomini, ai quali appunto il Santo vuole donare la Fede. Secondo don Mezzasalma, questa poesia di San Giovanni nasce dall’«ammirazione» che il poeta prova di fronte al divino, come poi la
sua traduzione nasce dall’ammirazione nei confronti del poeta stesso. Per questo si impegna con la massima tensione intellettuale ed espressiva a non «tradire la purezza della lingua originale del mistico-poeta». Il suo intento è quello
di rendere questa poesia «tutta costruita su di un complesso sistema di raffigurazioni analogiche nonché su un uso molto sottile dell’endiadi», restando «fedele ai valori timbrici e melodici della sua poesia, ma senza pedanteria o senza astruse combinazioni che avrebbero allontanato il lettore dal gustare le ricchezze di
questi testi». Leggendo, sempre con grande coinvolgimento emotivo e spirituale, i versi di San Giovanni nella traduzione di don Mezzasalma, dobbiamo dire
che il suo intento è pienamente riuscito. Le liriche del mistico spagnolo ci vengono presentate in italiano in una lingua moderna, scorrevole e musicalmente
armoniosa, molto efficace per esprimere e comunicare i concetti così profondi
che il Santo elabora nel suo fervore mistico. Una lingua poetica che indubbiamente è costata molto impegno, nonché profonda ed intensa ricerca, di cui sovente
il poeta traduttore ci dà conto nelle note.
Questa traduzione occupa una posizione mediana tra la prima e la seconda raccolta di don Mezzasalma, la prima pubblicata da laico, la seconda in occasione della sua ordinazione sacerdotale. Lo stesso autore in Una nota dell’Autore, posta in conclusione a Diario di preghiere. Poesie con il titolo di Asterischi
del silenzio e della memoria cerca di dare una giustificazione del suo quasi trentennale silenzio poetico. Ricorda come la pubblicazione della sua prima silloge
Le isole vaganti, con prefazione di Mario Luzi, sia stata «un’esperienza entusiasmante e al contempo quasi frustante». Ad entusiasmarlo fu il fatto che a lui «così
giovane e sconosciuto» giunsero riconoscimenti da parte di scrittori importanti come Carlo Betocchi, Vittorio Sereni, Alessandro Parronchi, Vasco Pratolini, Pier
Francesco Listri, Giuseppe Zagarrio e Dante Maffia. Si chiede poi se il lungo silenzio sia stato imposto o voluto, se sia stato dovuto ad «un arresto della fiducia nella poesia» e a distanza di anni si trova ad ammettere che allora non aveva fiducia in se stesso o, perlomeno, lottava per conquistarla. Questo suo stato
d’animo, a suo giudizio, non era semplicemente una sua condizione personale,
ma una sensazione assai diffusa per quanti della sua generazione si sono trovati a vivere «un passaggio epocale […] tra una letteratura come esperienza di
vita e una letteratura di mercato, votata unicamente al successo, alla notorietà,
alle cordate di schieramento fra Nord e Sud e di poetiche regionaliste». La ragione del «tramonto» della poesia, sentita come «la parte più emblematica e quasi
più alta del fare letterario», è da individuare, a suo giudizio, «nell’irrompere improvviso (e sostenuto dalla grande editoria) di quelle nuove avanguardie - pen-
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RELIGIOSI POETI
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Adelphi aveva pubblicato da poco il Saggio su Pan (Milano 1977).
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so al Gruppo ’63 – che volevano rinnovare lo statuto della poesia, mentre, di fatto, la riducevano a poco più che un semplice divertimento linguistico ed espressivo con le loro acrobazie di linguaggio e i loro impossibili contenuti». Dobbiamo certo riconoscere che di fatto il Gruppo ’63 assunse un ruolo intimidatorio
nei confronti della produzione poetica che non si riconoscesse nella sua linea,
innalzando nello stesso tempo steccati di inaccessibilità al suo interno, decretando in certo qual modo un isolamento della poesia, anche per la difficile accessibilità di lettura da parte del vasto pubblico.
Quella delle Isole vaganti era una poesia soggettiva che nasceva «da una
forte crisi di smarrimento» per Carmelo Mezzasalma, allora studente di pianoforte a Parigi, che avvertiva l’inconsistenza del suo futuro di pianista e che, per
ritrovare se stesso, ritorna al mondo della sua infanzia e prima adolescenza, in
un ambiente fortemente contrassegnato dalle sue radici greche. Soprattutto avvertì chiaramente «che l’essere umano è essere poetico, nel senso greco del termine, ossia un essere che agisce creativamente nel mondo». Del libro la critica
colse la profonda dimensione religiosa (Emanuele Schembari) ed il conflitto metafisico di una memoria sospesa tra passato e presente, tra il rimando alla classicità e la condizione contemporanea (Giovanni Occhipinti), ma ne venne fatta
anche una lettura riduttiva «sul piano prettamente esistenziale, e cioè di confessione dell’io, hic et nunc», mentre l’intento dell’autore era quello «più profondo
di una creatività che voleva vivere per donarsi agli altri in un impegno che avrebbe potuto trasformare in bene le lacerazioni in atto nel farraginoso e inquieto
“presente”». Per Carmelo Mezzasalma, infatti, la poesia era «impegno verso il mondo e aspirazione a migliorare la vita degli uomini».
Dopo la pubblicazione di questa prima silloge poetica gli interessi di Carmelo Mezzasalma si polarizzarono sulla Grecia e sul mito, come dimostra l’attività della rivista «Hellas. Rivista di Letteratura e mito», che esce dal 1978 al 1986,
nata sull’onda della scoperta della psicologia del profondo di James Hillman6, nell’intento di «ritrovare la vita dell’anima che premeva di uscire dalle strettoie di soffocanti ideologie» con la consapevolezza e la speranza che proprio il recupero del
mito potesse indurre la mentalità moderna a non tagliare del tutto quelle sue radici in cui anche il cristianesimo aveva una parte determinante.
Di qui nasce per Carmelo Mezzasalma l’accettazione definitiva della sua
fede cristiana come elemento determinante anche per la sua produzione letteraria in cui fosse lievito di autenticità umana aperta alla trascendenza, senza lasciarsi trascinare da ciò che stava diventando la postmodernità, nella chiara consapevolezza che «Il Dio cristiano e la poesia dovevano camminare insieme, mai l’uno senza l’altro». Tutto questo gli costò diffidenze ed antipatie, più
o meno esplicite e fu in qualche misura anche la ragione del suo lungo silenzio poetico, «Per timore, vigliaccheria, paura», come egli stesso afferma. Alla
rivista si affiancò una collana di poesia, I Quaderni di Hellas, che gli permise
di lavorare intorno a tanti poeti anche con interventi critici.
Da questo tormentato itinerario nascono le poesie di Diario di preghiere.
In questa silloge centrale appare la lirica La voce sul lago, in cui il poeta rievoca l’emozionante momento della certa consapevolezza della sua vocazione sacerdotale sulle sponde del lago di Genezareth, quando «la “voce” di
Lui / sull’acqua di ricordi abbandonati / svegliò l’anima al tepore / dell’alito
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di Dio sulle ferite: / “Non temete, sono io”!». Ad essa si collega Offerta per Teresa a Lisieux, scritta proprio in occasione dell’ordinazione, in cui il poeta dice:
«Un nuovo rito di offerta / scrivo con te oggi per il tuo e mio Signore». Di qui
prendono senso e luce tutte le altre liriche, ad iniziare dal superamento del dubbio di «questo materialismo / della mente in lotta con la luce» (Luce d’autunno), che sa dare speranze al dissolvimento della storia nella fuga del tempo,
in quanto «una notte più calda avanza per chi conosce / il melograno dell’amore di Cristo» (Ostia antica). La certezza della fede permette un dialogo sicuro
e costruttivo nel presente «dove cammina il tempo / in cerca d’infinito» (Tiranni). Il desiderio e l’intento del poeta sono quelli di poter dare agli uomini
del suo tempo una “parola” che sappia essere efficace e consolatoria (Trittico
– Di là dal mare il deserto), una parola che può derivare solo da dei «ritorni»,
in cui s’incontrino ed intreccino la sapienza biblica (Sui fiumi di Babilonia) con
quella classica (Mattino per Nausicaa). Questo nel dubbio di un drammatico interrogativo: È tramontata un’epoca? Secondo il poeta «è tramontata un’epoca»,
«È finita un’epoca», per cui «Ogni uomo è solo a decifrare / le tracce dell’ultima e straniera cometa». Non gli resta che innalzare una preghiera: «Mio Signore, sii tu la guida / delle prossime stagioni», nella speranza che «ci sia futuro
/ in questi fiori smarriti / tra le pietre d’una notte senza fulgore», in cui indubbiamente intende portare la voce della Verità con la sua poesia: «eccomi, Signore dei misteri, sono / la palma aperta agli occhi del tuo sole» (Se la rosa del deserto). Per portare la Parola e la Voce agli uomini occorre il sostegno di figure con cui dialogare e da cui trarre ispirazione, per questo il poeta si sofferma su La casa di Maria a Efeso nella memoria della visita di Benedetto XVI: «ah,
com’è calda quella luce austera / della stanza ove il candore di Benedetto / discende fino in fondo al tuo mistero». Ma anche la semplicità della «Bambina
di Dio», ovvero Santa Maria Goretti, può aiutarlo a capire «quanto è angusta /
la nostra terra per il futuro della vita» (Nettuno), come pure la statua di San
Francesco delle Vigne «luce ferma / sulle stagioni del mondo». Anche i luoghi
favoriscono gli intenti del poeta, così il Camposanto a Panzano, dove «le voci
dei fiori / cantano anch’esse dietro il velo / del mistero», ma è soprattutto Lourdes il luogo in cui «cercare / Dio», perché lì c’è «il verde della speranza, la voce
della preghiera / del mondo», ma soprattutto c’è la Madre che porterà i voti e
le preghiere a Suo Figlio.
Questo itinerario di un’anima verso Dio è portato avanti con costanza,
determinazione ed impegno, mentre il poeta trova le parole letterariamente più
efficaci per far uscire la voce dalla sua anima e comunicare, non tanto le difficoltà dell’itinerario, ma le certezze raggiunte agli altri per rispondere ai dubbiosi interrogativi ed allontanare dagli errori.
Anche il percorso di Daniele Donegà7 si snoda tra fede ed arte, in questo caso, la pittura con particolare attenzione nei confronti di due pittori, Cima
da Conegliano e Giorgio Morandi, lontani nel tempo, ma entrambi occasione
di ispirazione per il poeta.
Daniele Donegà nasce a Canda (Rovigo) nel 1960. Si laurea in Filosofia a Bologna nel 1986, con una
tesi in Semiotica sulla poetica di Camillo Sbarbaro, ed è ordinato sacerdote nel 1992. Nel 2007 consegue la licenza in teologia all’Istituto Giovanni Paolo II e nel 2010, il Dottorato in Teologia presso lo stesso istituto per studi su Matrimonio e Famiglia con una tesi su L’intenzionalità erotica e
l’azione del corpo in Maurice Merleau-Ponty (Cantagalli, Siena 2011). Attualmente è arciprete di Me7
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RELIGIOSI POETI
lara e consulente etico al consultorio familiare diocesano. Nel 2007 dà alle stampe la raccolta di poesie È di Pasqua e altri versi (Gibin, Adria), nel 2010 pubblica la plaquette Di luce (Parva, Melara), che
comprende anche la precedente raccolta. Nello stesso anno stampa pe Natale una piccola raccolta
di 12 intonazioni, Germogli d’albe (Europrint, Rovigo). Per la Pasqua del 2011 prepara, per una limitata cerchia di amici, la raccolta poetica È nella luce oltre il canto. Nel novembre del 2011 pubblica l’elegante opera sinestetica poetica, Poesie per “CIMA” (Il Vicolo, Cesena) e, in occasione del
Natale, stampa Poesie e preghiere in Terra Santa (FM, Bergantino). Per la Pasqua del 2012 pubblica
Nel silenzio della luce (FM, Bergantino), in aprile Senza parole da dire (MB, Rovigo) e in ottobre, Cime
e onde di Toscana e Liguria (FM, Bergantino). Nel dicembre del 2012 esce la sua seconda opera sinestetica poetica, GLI SPAZI DEL SILENZIO E DELLA LUCE – Poesie per Giorgio Morandi (Il Vicolo,
Cesena).
Rosa Elisa Giangoia Religiosi poeti
Daniele Donegà scrive versi sin dalla prima giovinezza, ma il suo procedere nella produzione poetica non è stato sempre regolare, in quanto a momenti di intensa attività ne sono seguiti altri di pausa e spesso la prima circolazione dei suoi testi è avvenuta in un limitato numero di copie da distribuire agli
amici, che lo sollecitavano desiderosi di leggere le sue novità. Un interessante nucleo di liriche è rappresentato da quelle composte nel febbraio del 2007
a Roma, dove l’autore si trovava per studiare Teologia. La città costituisce uno
sfondo appena accennato e l’ispirazione è di pienezza umana, con uno sguardo ad ampio raggio, che solo nelle ultime liriche si fà preghiera (Accoglimi Signore) e riflessione sulla vita eterna (Quando prenderò congedo e Quando tutto è compiuto). In tutti questi testi, però, possiamo dire che l’orizzonte del poeta è più umano che divino, dominante è l’attenzione gioiosamente partecipe
per «il giorno della festa» che attende «la luce delle finestre / aperte nell’aria
che di lontano / porta meraviglia di spighe feconde / grondanti di violini e di
viole». Sono immagini di serenità familiare, di condivisione esistenziale nella
semplicità domestica di ogni domenica, guardata con l’animo di chi sa cogliere la positività del vivere, contrariamente al Leopardi: «come una bella tovaglia di lino bianco / stesa sulla tavola della festa / nella casa di campagna / pronta per il pranzo / di pane, fiori ed acque / nel primo giorno della settimana».
È anche un sentimento di condivisione e di spartizione fraterna quello che anima il poeta (Dopo tutto), un senso di pienezza umana che lo porta alla donazione di sé (Sono tuo), all’abbandono (Accoglimi Signore) e soprattutto lo induce a proiettare un sentimento di fraternità e condivisione sul momento del
suo raggiungere l’aldilà: «Quando prenderò congedo / […] / così anch’io mi unirò / agli applausi che rivolgerò / a chi mi è stato accanto / a tutti quelli che
mi avranno / aiutato a dire la mia parte / Volendomi bene per davvero / o per
avermi fatto piangere / ed io povero e riconoscente / del bene ricevuto e del
male sacrificato / dirò: “Statemi vicino / come sempre voi lo siete in me». Questo sentimento di positività nei confronti della vita, che si proietta anche nella sua dimensione ultraterrena, sembra trovare una sintesi ed una motivazione nella lirica È di Pasqua, in cui gli elementi della «luce», della «meraviglia»
e dell’«armonia» riverberano sulla realtà quei caratteri di positività nella «speranza» che derivano appunto dall’essere stata creata e redenta dalla Resurrezione pasquale: «È di Pasqua / il girotondo di luce / sui monti di croci / di questi secoli / passati e presenti / in un grido di suoni».
La luce che sgorga dal mistero pasquale della Resurrezione sembra irradiarsi sul mondo nelle poesie precedenti, a partire dal 1998, e contemporanee, raccolte nelle altre sezioni della silloge Di luce, ciascuna delle quali ha il
termine «luce» nel titolo (Di luce in luce, Silenzi di luce, Incanti di luce). La luce
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è l’elemento che unisce la terra al cielo, che inonda di celestialità il mondo terrestre, il quale solo nella luce trova la sua epifania, per cui, seguendo la luce,
ci si apre con gli occhi e con la mente al cielo, come dimostra la sezione successiva alle tre citate (E guardo il cielo). Che per il poeta la luce sia la manifestazione-materializzazione del divino lo avvertiamo fin dalla prima lirica, in
cui invoca: «Signore, vieni con la tua luce, / vieni a rischiarare dall’alto dei cieli / nell’intimo dei nostri giorni». Questi testi, che l’autore stesso definisce «immediati», vivono di intima luminosità, in un rincorrersi di immagini e situazioni legate alla luce, una luce che si può «raccogliere» (Raccogliere luci) per trasformare il mondo, che diventa «ostia della creazione / alta davanti a noi» (Vicina è la luna stasera). Sono poesie brevi e rapide, che registrano sensazioni
ed emozioni, appunto immediate, non sono poesie specificamente di argomento religioso, ma si sente che a guardare questo mondo di «bambini in gioco»,
di «orti / bagnati di fresco», di «cicale / negli orti», «di zolle solcate / d’aratri ai buoi legati», di «foglie secche / distese a terra», delle «prime luci / d’ammasso della città» di «Alberi come cirri / contro la luce / del cielo» è un animo che crede nella creazione e ha fiducia nella salvezza di tutto, anche «di quel
tanto che celeste non è» (E guardo, guardo il cielo). Questa fede ha radici antiche e profonde, nel luogo dove il poeta è nato, nella sua famiglia, che l’ha educato alla fede e alla speranza dell’eternità e a cui esprime la sua gratitudine (Penso di aver capito).
La poesia di Daniele Donegà si affina nel confronto, che si fa dialogo e
thélos, con la pittura di due artisti, pur diversi e lontani cronologicamente, come
Cima da Conegliano e Giorgio Morandi, entrambi pittori della luce, quella luce
che, come afferma il poeta stesso, è «elemento centrale» nelle sue composizioni poetiche. In rapporto a Cima, Donegà compone tredici poesie ispirate ad altrettante opere dell’artista veneto, ammirate in occasione della mostra Cima
da Conegliano Poeta del paesaggio 8. Sono quadri tutti di soggetto religioso, per
lo più raffiguranti la Madonna col Bambino, tramite i quali, però, il poeta trova anche un suggestivo legame affettivo con i luoghi della sua infanzia, quell’età e quell’ambiente in cui si radica la sua fede religiosa. Legame reso più stretto e vero per il fatto che Cima abbandona le raffigurazioni fantastiche, protrattesi fino agli ultimi pittori trado-gotici, del paesaggio per una raffigurazione
reale della sua terra del Polesine con il poggio di Conegliano, il castello, le mura
e il ponte sul Monticano. Le opere di Cima attraggono il poeta nella dimensione dell’altrove («mi sembrava un altro luogo / non il paese di casa», (1)), ma
nello stesso tempo lo riportano alla realtà della sua infanzia, come radice della sua fede («… con bambini / che a maggio andavano al rosario / all’oratorio
delle “Quore” / con la corona nelle mani / e la bocca piena di saliva / per tutto il bene / che c’era da dire / e poi da mangiare», (1)), tempo guardato con meraviglia, ma anche con il realismo della consapevolezza della difficile situazione socio-economica del tempo. Quelle di Cima sono immagini in cui il paesaggio è «sublimato», ma proprio per questo più coinvolgente, tanto che il poeta
può dire: «La Madonna con i santi / ti chiama dentro la scena / mentre il tuo
sguardo / cade al di fuori / addosso al tuo corpo» (2). È una sensazione di attrazione, che eleva e nello stesso tempo impone di guardare dall’alto la real-
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Canda, Palazzo Sarcinelli, maggio 2010.
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Catalogo generale Electa di Lamberto Vitali.
Marilena Pasquali, Morandi, Giunti, Firenze 1990.
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L’autore precisa che alcuni quadri sono stati «visti dal vivo in mostra al Museo Morandi di Bologna il 13 aprile 2011 ed altri il 22 aprile 2012», mentre altri testi sono stati scritti ispirandosi alle
opere riprodotte nel libro di saggi di Marilena Pasquali, Giorgio Morandi. Saggi e ricerche 1990-2007,
Noèdizioni, Firenze 2007.
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tà della condizione umana. Infatti le Madonne di Cima «sono intessute di realtà» (3) e per questo coinvolgono l’osservatore «dentro il paesaggio / […] / in
una sintesi di minuziosi sguardi» (3). Alla Madonna, «regina e fanciulla nello
stesso / momento» (9), il poeta può dire: «Sei viva per come guardi / pur non
vedendoci / e tutto di te vive ancora» (6). Ma a dominare e a dare senso a tutto è la luce, «quella luce che è Parola benedicente » (5), per cui le rocce ed i corpi «ricevono quella luce / toccati e toccanti nel tutto / che cambia diventando
uno» (4) e la luce «infiammerà tutti i cieli / di serenità rapita» (7), assumendo
il valore di simbolo della sicura realizzazione della promessa di eterna felicità. Quello di Cima è per il poeta il mondo «tra il qui e l’oltre / tra l’invisibile
che si vede / e il visibile che non si vede» (5), due mondi che la Madonna congiunge tramite il Bambino Gesù tra le Sue braccia, un mondo in cui «Il tempo
si dilata ad abbracciare / ciò che viene dopo e nell’equilibrio / dello spazio e
del tempo / tutto suona di bellezza» (10).
Sono queste di don Donegà poesie di intensa suggestione che penetrano con significati teologici e spunti di meditazione spirituale i quadri di Cima,
ma sono anche poesie di fede profonda, di cui diventa simbolo la Croce che
Sant’Elena innalza nel dipinto a lei dedicato: «è la croce gemmata / di piaghe
e di dolori / di Colui che su di essa è stato innalzato / ed ora di luce illumina
/ sia chi da dentro / sia chi da fuori la porta / nell’andare avanti ogni ora / nella propria contrada» (12).
Le poesie che Daniele Donegà dedica a Giorgio Morandi, ispirandosi a molte delle sue opere e dialogando direttamente con il pittore, risultano per il lettore di minore efficacia comunicativa per il fatto che la pur elegante plaquette,
a parte l’immagine di copertina, non riporta le opere di Morandi a cui le liriche
si ispirano e le indicazioni fornite non sono di grande aiuto, in quanto fanno riferimento ad un catalogo9 e ad un libro10 di non immediata reperibilità. Il poeta
si ispira a quadri visti dal vivo in occasione di mostre e ad altri ammirati in riproduzione su cataloghi e riviste11. Il volumetto è diviso in due sezioni, nella prima «si trovano i testi che esprimono semplicemente le suggestioni che hanno provocato» nel poeta le opere di Morandi, mentre nella seconda sono compresi i testi, che, come dice l’autore, «a composizione avvenuta, mi sono accorto sono rivolti ad un tu cioè all’autore del quadro, a Morandi stesso».
Don Donegà dice di essersi perso nella «contemplazione» dei quadri di
Morandi ed evidentemente di aver scoperto una singolare comunanza di spirito con il pittore, tanto da eleggerlo ad interlocutore privilegiato per le sue riflessioni, espresse in «versi tesi e vibranti quanto attentamente calibrati nel tono
e nella scrittura, versi capaci di affiancare le immagini come discreti compagni di strada che chiedono soltanto di poter procedere insieme, per un tratto»
(Marilena Pasquali). Non è certo difficile per il lettore immaginare i quadri intitolati, Fiori, Natura morta o Paesaggio di Morandi per la fedeltà del pittore
ai suoi soggetti, ma è difficile cogliere le anche minime differenze, soprattutto nel tempo, che hanno ispirato al poeta liriche diverse.
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Anche nei quadri di Morandi Daniele Donegà ha colto soprattutto l’elemento della luce, capace di dire «la verità / di un mondo ancora da vedere /
nell’ordine misurato della creazione». È una luce che sovrasta i colori, sfumandoli in «una sinfonia», quei «tenui colori / di grigio e di rosa / che di levità si
colmano», appunto la leggerezza cromatica della tavolozza del pittore, oltre
al «silenzio a cui non mancano parole», quel «raggio di meraviglia» che dà vita
particolare a tutti i semplici oggetti raffigurati con ripetitività da Morandi, capace di infondere ogni volta nella rappresentazione un tocco di novità, che dal
contingente li proietta in una dimensione di assolutezza. Carattere questo della pittura di Morandi che Don Donegà coglie in profondità e sa esprimere con
parole di rara efficacia: «Esce dal tempo e dallo spazio / in un barbaglio pacificante / e tanto estraniante la figura / come volesse soltanto / quello che non
si può dire / con tutta la forza del silenzio / in un rapimento / che continuamente restituisce / anche se appare irreversibile». Così gli oggetti tipici di Morandi, il vasetto di fiori (sempre lo stesso e di fiori «di raso») e le bottiglie vengono colti dal poeta in tutta la loro forza ed intensità espressiva, oltre la semplicità della parvenza, in tutta la carica emblematica della penetrazione nella
loro essenza che il pittore ha saputo loro conferire: «i fiori nel vaso di biacca»
sono «come un canto che all’alba si alza»; «Si scompongono in un brivido / vibrante di solida intensità / i colori delle bottiglie / epifanie dei giorni fuggenti». Sono bottiglie che «parlano / con i silenzi delle forme», sono paesaggi senza luogo e senza tempo, senza presenze di vita, ma che aprono orizzonti infiniti: «Corre in un incanto mai raggiunto / la strada sulla collina / incontra il
bagliore di una casa / nella solitudine che assorda / e un’ombra poi ti sfiora
/ lasciandoti almeno / il respiro dell’infinito».
Del mondo di Morandi Daniele Donegà coglie soprattutto la luce che viene dall’alto, il silenzio che crea disponibilità interiore all’ascolto e l’apertura
all’infinito. In questo modo la sua lettura poeticamente interpretativa della pittura del grande artista bolognese assume un carattere teologico dando alla realtà rappresentata dal pittore un’apertura metafisica. Per il poeta (e coglie certo nel segno!) la pittura di Morandi sa portarci oltre la realtà, nel profondo e
nell’alto: «Distilli forme e spazi / che si riempiono / di luci e di ombre / superando la materia / che gravida gravita / restando sospesa / come la polvere posata / di irraggiungibile bellezza».
Il filo conduttore delle altre sillogi di Daniele Donegà può essere individuato ancora nel motivo della luce, che compare anche nel titolo della piccola raccolta Nel silenzio della luce realizzata in numero limitato di copie per la
Pasqua 2012. La luce, attraverso le parole del poeta, illuminando il mondo, lo
rivela e lo pone in una dimensione di trascendenza. In essa il poeta si sente coinvolto, quasi attratto in una diversa dimensione e prospettiva d’osservazione
della realtà: «E io raccolgo / perle di luce come / il funambolo incanta / chi dal
basso guarda / chi cammina sulla corda». La luce disegna un percorso di ascesa, un percorso che porta verso la piena comprensione dell’esistenza, che si
incentra nell’amore di Dio, manifestatosi nella creazione dell’uomo e della realtà tutta, in cui il poeta percepisce la circolarità della forza dell’amore. La luce,
attraverso le liriche di Daniele Donegà, sembra essere il soffio, l’ebraico ruah,
della creazione che imprime su tutto l’impronta di Dio, destando nell’uomo la
più stupita meraviglia, tanto da lasciarlo Senza parole da dire, come appunto
si intitola una successiva raccolta, in cui, attraverso un dialogo continuo con
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il Creatore, il poeta parla della sua vita («Io ti racconto tutto quello / che tu hai
sognato della mia vita»), canta «con le mani stanche e lucenti / in danze di carezze». Soprattutto Don Donegà esprime la percezione dell’Assoluto, dell’Immenso e dell’Infinito «nel vibrare della foglia / e nell’infrangersi dell’onda», percepisce la luce che esce «dal canto del fringuello» e si lascia «trasportare / su
ali di petali e di pruni» per incontraLo «in un ignoto di luce». A sostenerlo è
«un desiderio inesplorato / ma che riempie lo spirito di pace». Lo stupore e la
meraviglia sono così grandi che non ha parole, ma si sente innalzato «oltre le
trasparenze / che opache sfuggono». A dare il tocco di meraviglia a tutto ciò
che cade sotto i nostri occhi è, per il poeta, la creazione che «nuova diventa /
[…] / in bagliori / che dischiudono bontà». Tutto questo viene, però, vissuto
nella consapevolezza della precarietà: l’uomo non smette di correre «aspettando l’ora di partire / che non si può programmare» verso una meta, che il poeta non sa illustrare a parole, ma solo indicare con la mano verso «un incontro
che abbacina».
Questi testi rappresentano un itinerario dell’uomo di fede verso il possesso intimo ed intellettuale di Dio, lungo un cammino che viene guidato appunto dalla luce e dalle epifanie di meraviglia nel creato, durante il quale le esperienze collettive sono inesprimibili a parole, secondo la più antica e consolidata tradizione della mistica: «Quasi mi perdo in tutta questa luce / che mi riempie e mi lascia / stupito di inesprimibili pensieri». Nonostante questa sensazione di afasia, dobbiamo però constatare che le parole del poeta sono così suggestive in quella loro intensità che rivela le profondità spirituali da cui nascono, per cui «accendono il cuore di desideri» e coinvolgono il lettore comunicandogli una misteriosa sensazione di felicità per averlo «conosciuto tra mille incontri», perché la voce poetica di Daniele Donegà coinvolge e non si dimentica, perché sa comunicare la certezza che «ci sono angeli / e doni di Dio che
appaiono / come lampi nel cielo».
A sollecitare la fantasia creativa di Daniele Donegà sono anche i luoghi,
come testimoniano le due sillogi Poesie e preghiere in Terra Santa e Cime e onde
di Toscana e di Liguria. Il primo itinerario raccoglie le emozioni e le suggestioni attraverso i luoghi (Monte Cramelo, lago di Tiberiade, monte Tabor, Cana,
Nazareth, Gerico, Valle del Giordano, Gerusalemme, Betlemme) che più parlano al cuore di chi ha fede, contemplati in un clima di pace, silenzio, meraviglia e coinvolgimento, «in una sintonia spirituale». È un percorso che, passando dal semplice racconto dei momenti vissuti a rapidi riferimenti ed efficaci
allusioni a testi testamentari, in filigrana attraverso le parole della poesia, conduce a momenti di riflessione teologica e all’esposizione delle emozioni provate, fino ad un atteggiamento orante, al dialogo con il divino, ad una preghiera del cuore che, nell’estatica contemplazione, trova le sue espressioni più efficaci, in un dialogo che, azzerando il tempo, pone l’autore di fronte alle più
emozionanti tracce del divino nella realtà della storia.
L’altra silloge presenta testi composti durante una vacanza in Toscana
e in Liguria, accompagnati anche da foto dei luoghi che hanno ispirato il poeta, il quale nell’Introduzione dice: «È stato un viaggio che mi ha portato sulle
tracce di alcuni poeti, di uno scrittore, di un musicista e di una santa: Giovanni Pascoli; Giosuè Carducci; Carlo Betocchi, che ha terminato la sua vita a Bordighera; lo scrittore Francesco Biamonti di San Biagio della Cima, paese tra Bordighera e Perinaldo; l’amatissimo Camillo Sbarbaro che ha vissuto molta par-
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te della sua vita e dove è anche morto, a Spotorno; Giacomo Puccini e santa Gemma Galgani, entrambi di Lucca». È quindi un viaggio degli occhi, ma anche del
cuore, della memoria, della cultura e della fede, vissuta tramite rapporti personali, che portano, ad esempio, a Lucca a ricercare le tracce di Gemma Galgani piuttosto che di santa Zita, mentre ai personaggi citati va aggiunto Claude Monet. In questi testi il paesaggio si arricchisce delle suggestioni letterarie
che emergono alla mente del poeta e che lo caricano di più intense emozioni.
Così il duomo di Barga, correlato ai rintocchi delle campane evocate dal Pascoli, piazza Cittadella a Lucca che lo riporta alle note di Puccini, il santuario di
santa Gemma Galgani che gli offre una più profonda e chiara comprensione
dell’amore, Bolgheri che gli apre orizzonti storici, letterari e figurativi, dagli etruschi al Carducci a Rosso Fiorentino, fino all’omaggio a Sbarbaro a Spotorno. Ma
sono anche versi di riflessione sulla vita e sulla storia, di introspezione e preghiera, di meravigliata contemplazione della natura, che sa dare serenità allo
spirito ed elevarlo: «Vorrei entrare nell’amplesso dell’universo / sentire e godere i piaceri di tutti gli amori / e far brillare ognuno con una luce diversa /
quanti sono i raggi delle stelle».
Anche le grandi festività della liturgia cattolica sono occasione di ispirazione poetica per Daniele Donegà, che per il Natale del 2012 raccoglie alcune sue poesie in un foglio (Come luce di neve) per gli amici, a cui ne offre altre per la Pasqua del 2013 nell’elegante pieghevole Occhi pieni di luce.
Da questi testi appare la tensione del poeta che raccoglie gli elementi del
paesaggio e del vissuto che abitualmente connotano queste ricorrenze per penetrare con gli occhi della fede nell’autenticità del loro significato. Emblematico diventa quindi, ancora una volta, il tema della luce, che compare in entrambi i titoli. Ma sono, di solito, in questi testi anche altri elementi del paesaggio
a caricarsi di valenze simboliche («gli alberi sono protesi / gli uni verso l’orizzonte / gli altri verso il cielo / dove gli estremi / solo all’infinito si congiungono»), anche attraverso immagini quanto mai originali ed ardite («e luce di neve
sorge / sul mondo che dismesso / borbotta come una caffettiera / che soffia
l’aroma di un caffè / in vecchie locande linde di calore»), che soprattutto nell’intreccio delle sinestesie sprigionano tutta la loro efficacia espressiva. La tensione del poeta è finalizzata a comunicare l’“oltre”, al di là della «magia dei presepi a Natale», per arrivare «al bambino / che a braccia aperte / mi guarda negli occhi / e mi parla al cuore senza parole»: anche la parola poetica appare
come pesantezza che vada oltrepassata per arrivare «dove lo sguardo si perde / e non si smarrisce». La Pasqua porta alla meraviglia e allo stupore della
Resurrezione, a cui si accompagna il risvegliarsi della natura, colto con immagini di rara delicatezza «Sospeso tra cielo e terra / nella frescura lieta e lieve
/ della sera in un sole che accende / il ciliegio fiorito di profumi intensi / sopra leggeri fili d’erba». Tutto contribuisce alla certezza della rinascita e la avvalora («il Risorto ascende al cielo / e ci porta tutti con sé / almeno chi vuole
andarci». È un mondo illuminato dalla luce di una novità che lo trapassa e lo
rende autentico, un mondo sospeso tra terra e cielo, che prende forma attraverso quelle parole del poeta che svelano il suo coinvolgimento nella meraviglia di avvenimenti consueti, ma sempre nuovi («la pioggia / trasfigura ogni goccia») nel mistero della creazione e della redenzione.
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Nata a Savona, vive ora a Piacenza. Dal 1989 ad oggi ha pubblicato dodici raccolte di versi: Non
seppellite le mie lacrime (Seledizione, 1989), Nostalgia (Seledizione, 1991), Una voce è il mio silenzio (Ibiskos Editrice, 1995), Chiostro dei nostri sospiri (Ibiskos Editrice, 1997), Profumo di cedri (Ibiskos Editrice, 1998), Un saio lungo di sospiri (Ibiskos Editrice, 2000), Flauto di canna (Ibiskos Editrice, 2004), Nel sussurro del vento (Guido Miano Editore, 2005), Nel silenzio della memoria (Helicon Editrice, 2008), Cristalli di mare (Ibiskos Editrice, 2010), Fiori di magnolia (Edizioni Helicon, 2011),
Frammenti di sale (Fara Editore, 2013).
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Mariangela De Togni, suora orsolina di Maria Immacolata, è autrice ormai
di numerose raccolte di liriche12. La produzione poetica si intreccia alla sua attività professionale di musicista, studiosa di musica antica ed insegnante, in un proficuo rapporto che connota la sua lirica di costante musicalità. Il suo itinerario creativo si snoda lungo un’ampia produzione che si arricchisce progressivamente soprattutto dal punto di vista formale. Costante rimane il suo esclusivo interesse
religioso, cardine della sua ispirazione, che la porta ad ancorare il suo dire poetico alla sua fede, vissuta con entusiasmo intellettuale e pratica quotidiana nella
fedeltà alla sua ormai cinquantennale professione religiosa.
Nelle prime raccolte, su una linea poetica che possiamo definire modellata espressivamente sul primo Ungaretti, per l’essenzialità, in quanto Mariangela De Togni privilegia e valorizza la parola, a cui sovente circoscrive il verso in un frammentarsi ritmico che proprio nella rapida spezzatura stabilisce
un continuo musicale, che trova uno snodo particolarmente significativo in Profumo di cedri, poema che nasce dalla profonda intima urgenza di parlare di
Maria: «Panaghìa / io non posso / no, Madre, non parlare / di Te». Più che un
parlare della Madonna è un parlare alla Madonna, un dialogare con Lei per superare con la fiducia nei confronti della divina maternità la solitudine della creatura che si sente persa nella consapevolezza della propria umana limitatezza.
La successione dei componimenti diventa così riflessione, preghiera e progressiva ascesa, in un crescendo mistico, verso una dimensione di superamento del
sé. «Facci / liberi oltre / la vita/ e intensi» è l’invocazione che sale con fiducia alla Madonna, invocata prevalentemente come «Madre», per sottolineare il
legame affettivo verso Colei cui la poetessa chiede: «Raccoglici / sotto il Tuo
manto / perché vinciamo / la tristezza / dentro gli occhi / perduti».
Il ritmo fortemente ascensionale permane anche nella successiva raccolta Un saio lungo di sospiri, in cui le liriche, caratterizzate da una versificazione sovente più distesa, riprendono spesso il colloquio con la «Panaghìa», soprattutto in spirito di gratitudine e riconoscenza per aver accettato di diventare strumento di salvezza per gli uomini tutti, ma spaziano anche alla riflessione sull’infinito nella consapevolezza di poter raggiungere Dio nella Sua immensità solo attraverso lo stupore e l’ammirazione per quelle Sue opera della creazione che in qualche modo partecipano di questa infinita dimensione,
come il mare, il cielo, la luce, il vento e il silenzio. Elementi di fronte ai quali
la poetessa sente nascere dal profondo del suo cuore il desiderio di inginocchiarsi («un pallido / fiore / cresciuto nella notte / del sospiro») per proclamare la sua incondizionata professione di Fede: «Il mio sì / alla Tua Voce / al
Tuo Silenzio! // Il mio sì / è in una ciotola / di cielo // in fondo al cuore».
La poesia di Mariangela De Togni nel suo progressivo sviluppo si caratterizza sempre più come una voce che vuole cogliere Dio nella sua grandezza e potenza nella Natura, per cui la poetessa con le sue parole deside-
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ra coinvolgere tutti gli uomini in un canto di gioia e di riconoscenza: «Magnificate / Dio con me perché / il Suo Amore / è grande e colma / l’universo». Il suo stato d’animo, accanto a quello della meraviglia e dello stupore
per la percezione del mistero del divino, è anche di Attesa («Ti aspetto! / Verrai?») per una rivelazione personale nei cui confronti ha piena fiducia e che
riempie con il suo Pregare, anche se ha «l’anima pallida / di solitudine / Dio!».
La fiducia è incrollabile, perché Dio è «Tutto» e la vita, a Lui affidandosi, non
si perde, anche se «Mistero / è l’oceano / di pazienza / che ci domandi / nella vita» (Mistero).
La raccolta successiva Flauto di canna segna il superamento della frammentazione del verso in parole solitariamente incisive verso testi con versi di
più ampia ed articolata tessitura lirica. L’atteggiamento della poetessa continua ad essere quello di cercare, invocando, chi possa dare risposte soddisfacenti agli interrogativi perenni dell’uomo, consolandone nello stesso tempo le
sofferenze. L’intonazione prevalente è, quindi, quella del dialogo con l’Assoluto, verso cui l’autrice dimostra la sua fede, che è fatta di fiducia e di speranza. È un dialogare ed invocare che sovente ha, anche qui, come interlocutore
privilegiato la Madonna («Donna, / dal sapore d’alba»). Ma il dialogo avviene
attraverso il mondo in cui la poetessa si trova a vivere, un mondo che percepisce come creato e amato e che, proprio per questo, rinsalda la su fede. Questo fa sì che nel procedere di dialogo e di riflessione si inseriscano aperture
descrittive sul mondo, in particolare quello marino, che diventa correlativo oggettivo dell’Infinito e dell’Immenso («C’è un filo di luna / nel cielo. Un tremore d’alba. / Un profumo celeste d’infanzia / nell’ora mattutina. / E il mare è un
nastro / di seta, un sentiero liquido / sul sospiro del cuore.» Ora mattutina).
Lo stato d’animo di Mariangela De Togni in questa silloge è prevalentemente
quello della solitudine, una solitudine, però, che si riempie al di là dell’umano («Panaghìa, / quanto d’azzurri silenzi / è colmo il cuore»), che si colma di
infinito, nell’abbandonarsi all’Eterno. A consolare è «Un suono come di vento
/ dimentico […] sulla scogliera» o «Una brezza sottile / friabile di luna»: sono
realtà prive di consistenza, ma vere per la loro forza di suggestione e per la
loro capacità di legare il mondo terreno con l’Oltre.
Le ultime tre sillogi poetiche di Mariangela De Togni (Cristalli di mare,
Fiori di magnolia e Frammenti di sale) costituiscono un trittico che trova il suo
punto di unità nella costante percezione del divino nelle manifestazioni della natura. Sono poesie caratterizzate da un cristallino nitore espressivo innervato da un sicuro lirismo che porta il dire dell’autrice ad oltrepassare la dimensione fenomenica in una prospettiva trascendentale. Il mondo è osservato nella sua fenomenologia in una proiezione prospettica verso l’infinito, l’assoluto e l’eterno. Il linguaggio è «aperto alla visione epifanica, reso sereno dalla
totale disponibilità al potere comunicativo della parola, terragno e insieme metafisico»13. Terragno nel senso che la poesia di Mariangela De Togni, armoniosamente musicale, caratterizzata da intensa meditazione e forte spiritualità,
nasce dalla meraviglia di fronte al mondo nei cui vari aspetti (mare, terra, cielo, fiori e piante) coglie l’impronta creatrice di Dio.
13
Rodolfo Tommasi, Tra sipario e frontiera, in Solchi di scritture, Edizioni Helicon, Arezzo 2006,
p. 432.
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Queste tre raccolte, che possono considerarsi un’incessante salmodia (vocabolo che è anche il titolo di una lirica), hanno una profonda valenza teologica, in quanto la sensibilità dell’autrice penetra nell’intimo della natura, pur
nelle diversità di mare, terra, aria, flora e fauna, per vivere la meraviglia («Rimasi come sospeso / nello stupore della meraviglia», Ho inciampato nel giorno) della manifestazione del divino ed esprimerla con efficacia, per cui si può
parlare di una penetrazione nel divino attraverso la natura. L’atteggiamento della poetessa è quello di sfondare il muro del naturalismo per penetrare nell’Oltre, secondo una concezione cristianamente creazionista, senza concessioni di
tipo panteista, in cui, attraverso l’armonia del creato, è colta la nota unificante che riporta al divino. Nel mondo si ritrova l’impronta della creazione che si
rivela e manifesta nella bellezza, con un recupero, non intellettualistico e culturale, ma è immediato e spontaneo da parte dell’autrice, di quella linea platonica della bellezza terrena che è di per sé immagine di bontà, capace di elevare l’animo e di orientarlo al bene.
Il mondo che si delinea in queste liriche è un mondo tutto all’insegna della natura, quindi un mondo colto essenzialmente nella sua dimensione di creazione divina, quasi non toccato, non modificato dalla mano dell’uomo, un mondo inalterato nella sua originalità primigenia, in cui la presenza dell’uomo è irrilevante, perché a dominare è il silenzio che permette il dialogo con quel «Tu» che
sa dare risposte a tutte le domande che il cuore ansioso dell’uomo Gli rivolge.
Questa penetrazione della natura in tutta la sfaccettatura delle sue manifestazioni fa sì che nel dire poetico si verifichino incontri ed intrecci di aspetti diversi che espressivamente si traducono in un variegato ed abile gioco di
sinestesie, in cui si combinano soprattutto i piani percettivi, con particolare attenzione ai nessi dei cromatismi, con i piani fonici, in cui la valenza sonora del
lessico sa creare effetti di sempre nuova musicalità.
In questa consonante penetrazione delle realtà naturali l’animo dell’autrice trova risonanze e corrispondenze che i versi delle liriche sanno trasmettere al lettore in una concentrica dilatazione di immagini e di sensazioni che
permettono di attingere progressivamente alla percezione dell’infinito, percezione che attrae in una dimensione di acquisizione del divino, capace di donare sensazioni di pace e di beatitudine, che nascono proprio dal possesso di
un senso di sicurezza nei confronti del trascendente e dell’eterno.
L’unitarietà dell’ispirazione di queste liriche comunica una visione della realtà naturale, percorsa ed animata da una rete di sottili fili d’infinito e d’eterno, che riescono ad attrarre e coinvolgere il lettore.
In definitiva la poesia di Mariangela De Togni diventa espressione teologica dei caratteri di Dio in una riflessione dal tempo all’eterno, dal mondo
creato all’infinito.
A legare la sfera terrestre a quella celeste è soprattutto il fatto che la natura, epifania divina della sfera celeste, è pervasa dalla bellezza. La bellezza,
d’altra parte, è il mistero che platonicamente eleva dal piano terreno al mondo celeste («nello stupore / della bellezza / d’una goccia di rugiada»), anche
tramite le realtà apparentemente più piccole ed insignificanti. Ma la bellezza
non è che un aspetto del più ampio manifestarsi del mistero, o meglio dei misteri, che pervadono e si nascondono nella natura e che solo lo sguardo vigile, attento ed indagatore del poeta sa percepire, anche se non risolvere (Dove
nascono gli angeli), per il fatto che la realtà naturale attende il suo teleologi-
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Rosa Elisa Giangoia Religiosi poeti
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RELIGIOSI POETI
co compimento, per cui «Non è silenzio d’assenza / quello che scorre / fra le
mura del chiostro».
Il perno della poesia di Mariangela De Togni è la Fede a cui dedica anche una lirica, elemento che dà saldezza ed unità al suo dire poetico, attraverso il quale può offrire agli altri conforto e sicurezza, proprio perché personalmente è ispirata dalla fede, dono divino, ma anche accettazione continua, ricerca perpetua, adesione costante. È questo, indubbiamente, l’elemento che rende diversa, diciamo pure molto particolare, soprattutto per la marcata valenza teologica, la poesia di Mariangela De Togni, che sa realizzare il contatto dello spirito con la realtà in sé ineffabile e con la sua fonte, che è Dio nel moto
d’amore che lo porta a creare immagini della sua bellezza. Ciò che un animo
sensibile e creativo, come quello della poetessa, concepisce nei misteriosi recessi dell’essere viene espresso con sapiente e sapienziale illogicità, che non
è non-senso, ma sovrabbondanza di senso, espressione di Verità.
Questo diffuso dedicarsi, da parte di religiosi, regolari e secolari, alla poesia è un segno dei tempi? È un cogliere i nodi del rapporto tra l’umano e il divino, cercando di esprimere e comunicare al meglio le difficoltà dell’uomo, ma anche la sovrabbondanza di ricchezze che da Dio può venire? Forse. Sembrerebbe,
però, anche un ripiegamento intimistico della vita religiosa, un’esperienza di solitudine che cerca nell’ampia diffusione del messaggio quella comunicazione profonda che con sempre maggiore difficoltà si vive nella Chiesa, anche nelle comunità, ma potrebbe anche far pensare ad una religiosità vissuta più nella sfera emotiva e sentimentale, quindi personale, con minore vivacità di elaborazione concettuale in dialogo efficace con la cultura del mondo attuale.
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UNA POESIA
di Uwe Kolbe
Desiderio, rapporto, lingua
Curriculum vitae per Marion Wartumjan
Tormento di fronte alla gioia
disse la tredicesima fata
e si sedette sulla mia testa.
Azzurro radioso! esultava
dalle pompeiane rovine
che guardavo turbato, ma fiducioso.
La barca avanzava, il panno
sventolava sull’asta di ferro
il ferro urlava dal legno.
Chi domandò ottenne risposta, non io che ascoltavo
gl’impulsi del corpo.
A chi chiese parlarono le rive.
Io boccheggiavo, aspiravo acidi,
il ragazzetto fu portato all’ospedale.
Ora la barca è venduta,
trascinato via per la schiena, trapassati i talloni,
ridotto a pendolo, penzolavo, la fata sotto,
solcando la terra, fiutando
la stagione dei funghi.
Il bambino si è perso,
ho imparato a leggere le scritte
sui muri di Pompei,
niente dura, eccolo, visto
attraverso l’intimo della fata,
lente d’ingrandimento, restava
e suppurava, la tomba dell’anima
in spastico-fantastico nesso.
All’inizio di tutto, il desiderio smodato,
il motivo di fondo nel mio amato tedesco.
Libera traduzione di Guido Zavanone
Uwe Kolbe Desiderio, rapporto, lingua
UNA POESIA
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Rosanna Pozzi Un esordio musicale: una litania d’immagini per Genova e Giorgio Caproni
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UN ESORDIO MUSICALE : UNA LITANIA D ’ IMMAGINI PER GENOVA E GIORGIO CAPRONI
UN ESORDIO MUSICALE:
UNA LITANIA D’IMMAGINI
PER GENOVA E GIORGIO CAPRONI
di Rosanna Pozzi
Genova e poesia un doppio legame nella biografia di Giorgio Caproni: nato
a Livorno il 7 gennaio 1912, morto a Roma il 22 gennaio 1990, visse a Genova dal
‘24 al ‘39, in quella che lui stesso definì la città più sua -“Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita” - e dalla quale non per niente fu insignito nel 1958 con la Cittadinanza Onoraria.
Caproni e musica, altro stretto legame: violinista oltre che poeta, nelle sue
liriche seppe infatti fondere ritmi e silenzi, musicalità e secchezze e ciò gli riuscì
in modo sorprendente nella poesia Litania, a Genova appunto dedicata, i cui versi
si stagliano sulla pagina bianca come note di una partitura musicale. Leggendola si
viene colti, per riportare le parole del poeta Giuseppe Conte, da un «senso di vertigine musicale», da uno «spaesamento ritmico», che ha spinto l’italianista Luigi Surdich, in collaborazione con la fotografa Giovanna Traverso, a realizzare, per Genova e per Caproni, un vero e proprio atto d’amore, intitolato: Genova che è tutto direImmagini per la Litania di Giorgio Caproni 1. Significativa la scelta di affidare l’introduzione al poeta Giuseppe Conte, per il duplice nesso che lo congiunge a Genova e alla musica: è infatti autore di opere teatrali per musica come Boine, due atti
per musica di Gianni Possio; Veglia, oratorio per soli, sestetto vocale e orchestra; L’Iliade e il jazz; Nausicaa e ha una concezione della poesia foscolianamente intesa come
canto eternatore, come celebrazione di luoghi, di miti e di luoghi-mito.
E così Genova, il luogo-mito di Caproni, che mai nessuno ha cantato come
ha saputo farlo lui, nel libro di Luigi Surdich diventa un percorso dello sguardo svolto a ritmo di versi attraverso gli scatti fotografici di una città in bianco e nero, che
si colora solo qualora le rime del poeta lo richiedano: Genova grigia e celeste, Genova verticale, / vertigine, aria scale, Genova di limone / Di specchio. Di / cannone , Genova da intravedere, / mattoni, ghiaia, / scogliere.2
Se Patrizia Traverso ha saputo realizzare una galleria d’immagini che rendono omaggio al fascino e ai contrasti della Genova cantata dal poeta, Luigi Surdich ha scavato ogni distico per collegarlo ad altre raccolte di Caproni ambientate nel capoluogo ligure o in altri luoghi di Liguria - Ballo a Fontanigorda(1935-1937),
Stanze della funicolare (1943-1955), Il passaggio d’Enea (1943-1955), Il muro della Terra (1964-1975) – o a interviste, articoli e altre rare testimonianze; ha saputo
chiarire ed approfondire versi di per sé già semplici e chiari per mostrarcene l’intensità e la fitta trama di ricordi autobiografici ed affetti familiari, i cui nomi Silvana, Attilio e Rina vengono scanditi e sillabati nei settenari e negli ottonari insieme a quelli più noti dei poeti Campana, Montale e Sbarbaro e a quello più amato
– Genova - novanta volte invocato, leit-motiv e nota dominante dell’intera lirica.
Accade, infatti, a volte che si stabilisca tra poesia e musica, tra letteratura e
musica un rapporto di iterazione tale per cui sembra che il testo poetico “suoni”,
così come un brano musicale “parli”. Con Litania si evidenzia un esordio poetico
1
2
Il Canneto Editore, Genova 2011, pp. 226, €15,00 di Luigi Surdich e Patrizia Traverso.
Giorgio Caproni, da Litania, in Poesie (1932-1986), Garzanti, Milano 1983.
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UN ESORDIO MUSICALE : UNA LITANIA D ’ IMMAGINI PER GENOVA E GIORGIO CAPRONI
G. Caproni, in La poesia, l’unica parola..., a cura di Luigi Amendola, in «lengua », 12, settembre 1992.
G. Caproni, in Il mestiere di poeta, Lerici editori, Milano 1965, p.127; poi in Giorgio Caproni, fascicolo speciale di «Galleria», XXX, 2, maggio-agosto 1990, a cura di Antonio Barbuto, p. 282.
5
G.Caproni, La precisione dei vocaboli ossia la Babele, «La Fiera Letteraria», 22 maggio 1947; poi
pubblicato in Giorgio Caproni, La scatola nera, Garzanti, Milano 1996, pp.21-23.
6
Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Storia di una poesia tra musica e retorica, Garzanti, Milano 1997, p. 71.
3
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Rosanna Pozzi Un esordio musicale: una litania d’immagini per Genova e Giorgio Caproni
musicale che si manifesterà come linea costante nell’intera produzione lirica di Caproni; se già con Il muro della terra (1964-1975) la contaminazione e il contributo proveniente dal mondo della musica si era fatto determinante, ne Il franco cacciatore (1973-1982)e ne Il conte di Kevenhüller (1979-1985), appartenenti all’ultima fase poetica del poeta, i riferimenti musicali s’infittiscono e si strutturano secondo le fattezze di opere in musica. Non a caso negli anni di pubblicazione delle due raccolte, gli anni ’80, Caproni affermava: «Per quel che mi riguarda, mi considero più un musicista che un poeta.
E’ naturale che scrivendo abbia sempre cercato la musicalità, il passaggio
dalla melodia all’armonia.»3
Ciò che a lui importava della musica, ciò che lo incuriosiva era l’aspetto di
strumento comunicativo asemantico, di “pensiero puro”, privo delle parole, della
loro “corruzione”: «Io ho studiato composizione, amo molto la musica. A tutto preferisco il Quartetto il la minore opera 132 di Beethoven: quello è pensiero puro senza la parola, ed è proprio quel che vorrei raggiungere io. Non vedo perché non si
dovrebbe pensare in musica.»4
Un pensiero musicale quello di Litania, appunto, che non rifugge ancora dalla fisicità della parola, dal momento che il nome proprio ‘Genova’ viene insistentemente ripetuto, con ritmo litanico e tono vocativo, associato a luoghi concreti,
oggetti, immagini e ricordi della città cantata; è con il passare del tempo, con le raccolte successive che cresce l’insofferenza nei confronti del peso della parola ed aumenta il ricorso alla forza espressiva della musica per rispondere ad un’urgente
volontà di contrastare l’inadeguatezza del linguaggio logico.
Lo aveva già affermato nel ’47 in un saggio nel quale Caproni aveva mostrato i limiti del linguaggio logico, condannandone «la pretesa di definire (di limitare nel significato esatto di un vocabolo) la realtà»5, contrariamente a quanto avviene in musica, nella quale il pensiero puro arriva in modo diretto all’orecchio dell’ascoltatore senza pericolo di riduzioni o mancanze.
Mentre in Litania vive ancora forte il legame con la realtà, con i luoghi, i nomi,
le persone care, nel progredire del suo itinerario poetico, quanto più s’allenta il legame con la realtà, quanto più si sposta la ricerca verso il limite, la frontiera, l’invalicabile muro di montaliana memoria, quanto più si attua nei suoi versi una conversione alla forza espressiva della musica.
Non a caso per la prima volta nel Muro della terra Caproni utilizza per i titoli di sezione o di componimento un lessico ricavato dalla terminologia tecnica
della musica (Tre vocalizzi prima di cominciare, Due divertimenti, Cantabile (ma
stonato), Su un’eco stravolta della Traviata, Arpeggio, Andantino, etc.). Già Leonelli aveva notato che «nel paratesto caproniano questa insistenza rappresenta una
novità»6 e sempre lui aveva messo in relazione tale esibita e predominante valenza musicale con il tema del viaggio, introdotto per la prima volta nel Muro della
terra, un viaggio che allontana dal reale, dal nome delle cose, dal significato delle
parole e delle cose in una direzione di insignificanza, di inconsistenza, di contraddittorietà nel quale il significante delle parole prende il posto del significato.
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Rosanna Pozzi Un esordio musicale: una litania d’immagini per Genova e Giorgio Caproni
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UN ESORDIO MUSICALE : UNA LITANIA D ’ IMMAGINI PER GENOVA E GIORGIO CAPRONI
In sincronia con il venir meno della possibilità di attribuire un significato al
mondo e alle cose, vien meno il referente e il suo senso, il significante, al contrario, con operazione metalinguistica vien posto al centro della ricerca poetica ed ha
il sopravvento: Le parole. Già. / Dissolvono l’oggetto. // Come la nebbia gli alberi,
/ il fiume: il traghetto.7
È come se la musica assumesse un ruolo di compensazione, tentasse di sopperire all’impossibilità di nominare la cosa, poiché dalle riflessioni sul linguaggio
che Caproni stava svolgendo parallelamente si evince che era giunto ad aderire e
ad affermare il nominalismo. A tal proposito affermava in un altro breve saggio
del ’47: «La parola crea la realtà e voler usare una parola per conoscere una cosa
è come voler usare una cosa per conoscerne un’altra. [...] una vera e propria altra
relatà che pur essendo indotta da quella originale[...] è destinata a rimanere parallela ad essa – a non collimare mai, nemmeno un punto del linguaggio una parola,
con un solo punto della natura (una cosa)».8
In Litania, inoltre, si possono individuare altri due elementi ricorrenti nella
successiva poesia caproniana: il ricorso all’uso della rima e la tendenza alla ripetizione con variazione nella tensione a creare «poesie di una parola sola».
In controtendenza con il suo secolo ed i suoi coevi colleghi, Caproni infatti usa sistematicamente la rima, per dirla con parole più autorevoli, «fino a farne
un caposaldo della sua poetica; perfettamente in linea con l’aspirazione musicale
di essa, non manca mai di valorizzare questo istituto stilistico, nel suo qualificarsi come fenomeno non semplicemente sonoro, ma semantico, che di per sé significa, tramite l’accostamento – facendole consonare o dissonare – di due idee»9 . Con
vezzo anacronistico Caproni gioca ad utilizzare, come avveniva già in Litania, un
ampio e variegato campionario di rime, tra le quali spiccano le rime facili, nei libretti d’opera, ma anche le filastrocche e il nonsense.
Anche la tendenza alla ripetizione con variazione per mezzo di rime, assonanze, allitterazioni, elemento strutturale della partitura poetico-musicale di Litania si ritrova e ricorre in tutto il Caproni successivo, nei cui versi si attua una sorta di “variazione sul tema” di evidente derivazione musicale. Per sua stessa ammissione tale sistema di composizione è voluto e ricercato sistematicamente: «Non vedo
perché non si dovrebbe pensare in musica. Splendido è il “molto adagio” di quel
quartetto. E’ un esempio di “sistema della variazione continua”: su un tema si varia come timbro, ritmo, tempo. E io in questo libro ho cercato, come in un’opera
musicale, di alternare l’allegro al grave, lo scherzo al solenne. Si arriva persino alla
barzelletta...»10
Il divertito succedersi di settenari, ritmati e brevi, come è tipico della versificazione librettistica, con l’accenno ad un tema continuamente ripetuto e variato, Genova , 90 volte invocato, è di sicura derivazione musicale ed è già evidente
in Litania, che sembra aver realizzato una nota affermazione del poeta livornese:
«In fondo penso che tutti i miei libri non siano altro che un tema con variazioni,
in fondo è sempre la stessa poesia, sempre lo stesso tema variato di continuo.»11
G. Caproni, Le parole (1977), da Il franco Cacciatore, Poesie (1932-1986), Garzanti, Milano 1991.
G. Caproni, Il quadrato della verità, «La Fiera Letteraria», 27 febbraio 1947.
9
Giorgio Caproni, intervista rilasciata a Laura Lilli, Chi è la Bestia?, «La Repubblica», 3 agosto 1986.
10
Anna Paolo D’Amato, La parola retrocede: il silenzio e la musica nell’ultimo Caproni, in «Avanguardia. Rivista di letteratura contemporanea», N° 25 , Anno 9°, 2004.
11
Giorgio Caproni, nell’intervista radiofonica Antologia, 1998; poi in Apparato critico a cura di Luca
Zuliani, in Giorgio Caproni. L’opera in versi, introduzione a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano 1998, p. 1558.
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DUE POESIE
di Rosamaria Nicassio
Messaggero
Non agiti passi, né voci; sospiri
come chi corre e non fiata.
La fredda stagione si scalda
del tuo pieno silenzio,
il fervido ventre partorisce
il segreto. Sei il rifugio dell’alba.
I viali sassosi si cospargono
del tuo gemito, le lacrime sono
semi di primavera. Sei prodigio
per la terra sterile. Nella bruma,
tra le pareti del villaggio, i tuoi occhi
sapranno la via. Sei sentiero e colore.
Il passaggio esaudisce il destarsi
del cielo, padre del tuo ardire,
alleato amante di turgida radice.
Sei vena e sorgente, stagione matura
che non decompone. Tepore
e poesia, abbraccio nella tregua.
Rosamaria Nicassio Messaggero
DUE POESIE
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Rosamaria Nicassio Evasione
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DUE POESIE
Evasione
Respiro aria pallida nella camera solitaria,
al mattino la fredda finestra si schiude quieta
nel fascio di un sole diafano. Il bianco bagliore
desta il volto, una gelida voce accompagna il risveglio.
È stanca l’alba dopo la pioggia notturna.
Il vetro racconta il sapore dei vecchi tetti
che hanno pianto lacrime confuse, all’ombra
del mio stanco sguardo d’azzurro.
Fisserò le pareti per tingerle cerulee
saprò abitare l’abbandono e ascoltare i passi
immobili nella fuga, rombanti sono i silenti ansiti.
Tesserò filari di cielo sui candidi fianchi mortali.
Son fatta di sangue e di pene feroci
ho il respiro sofferto di un germoglio reciso
e la speranza taciuta tra sogni sciancati. Conservo
le doglie di un ventre fecondo, patite in dimore remote.
Invoco soltanto i colori. Il mare dipingerà il mio volto
di latte versato, il sanguinoso pianto degli occhi
sarà linfa vitale per radici di gemme purpuree.
Il biondo sole d’estate schiarirà il sorriso giovane di bambina.
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L E I N C I S I O N I R U P E S T R I D E L L A VA L C A M O N I C A
di Patrizia Loria
Entrando nel parco di Capo di Ponte ho l’impressione di tornare all’infanzia, in uno di quei luoghi protetti dalle auto, dove si decide di girovagare
alla ricerca di un po’ di quiete con un cagnolino da sguinzagliare con avvedutezza, adocchiando una panchina all’ombra di larghe fronde.
Un acciottolato un po’ infido per i miei tacchi solca praticelli erbosi dove
si intravedono già i fiori di campo dell’imminente estate. Ma, se giro lo sguardo alla mia destra sul versante opposto della valle, avverto l’incombere di un
ripido massiccio alpino, dalle alte guglie che si stagliano in cielo, lisce e ieratiche, due lame protese in alto da invisibili guardiani della montagna.
Addentrandomi attraverso alcune balze mi imbatto in lastre di pietra chiare e lisce come lavagne, sulla cui superficie occorre, con evidenza, osservare
qualcosa di importante; infatti scorgo alcuni ponticelli in legno, che le attraversano, sui quali i visitatori si accalcano con attenta curiosità, sostano, procedono, per poi indietreggiare, magari attratti da un particolare in precedenza trascurato.
Inizialmente mi pare di scorgere solo qualche venatura della roccia, qualche ruga biancastra senza significato, ma avanzando, una particolare incidenza della luce mi svela una trama fitta di linee incise, inequivocabili figure familiari, stilizzate, essenziali.
Sembra il ripetersi delle vicende di un uomo, raffigurato solo con gambe e braccia filiformi, riconoscibile protagonista di battute di caccia, domatore di animali dalle larghe corna ramificate, ammaestratore di cagnolini dalla
coda riccia; poi scorgo la squadratura accurata di un telaio, palette, arnesi da
caccia, punteruoli, pugnali sparsi qua e là in un avvicendarsi di svariate immagini, di diversi stili, come un film ad episodi girato in più tempi da numerosi
registi.
Perché, mi chiedo, qualcuno ha desiderato, chissà se consapevolmente,
spedire nel futuro questi lapidari messaggi? Che cosa vuole dirmi l’omino stilizzato immortalato sulle pietre della Val Camonica catturando la mia attenzione a distanza di millenni?
Anche noi, gente di oggi, abbiamo spedito nei cieli qualcosa di analogo
alla ricerca di un interlocutore sconosciuto. Ma cosa possiamo sperare che comprenda del nostro mondo un essere vivente lontano nello spazio e nel tempo?
Chi ha forgiato quelle immagini, affidando alla roccia missive indelebili, sapeva che noi avremmo inteso? Che avremmo apprezzato? Che avremmo
onorato, studiato, amato tutti quegli uomini sconosciuti, quelle vicende remote, che la pietra arenaria ci rende dopo averli custoditi nel tempo ancora così
vividi?
Patrizia Loria Le incisioni rupestri della Val Camonica
LE INCISIONI RUPESTRI
DELLA VAL CAMONICA
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Patrizia Loria Le incisioni rupestri della Val Camonica
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L E I N C I S I O N I R U P E S T R I D E L L A VA L C A M O N I C A
Qualcuno snocciola una serie di
dotte supposizioni: forse gli artefici erano
sacerdoti del dio Sole e i graffiti erano il
risultato di riti religiosi; forse quegli uomini primitivi ritenevano il luogo sacro, perché la montagna li soggiogava con i fulmini e i tuoni che parevano originarsi dalle
sue vette, forse battendo sulla roccia speravano di propiziarsi la buona sorte nella
caccia…
E noi, uomini del Duemila, sappiamo
bene che il sole è una stella e non un dio,
che i fulmini sono fenomeni elettrici, che
battendo un sasso sulla roccia non potremo propiziarci la buona sorte, ma…
Ma noi, oggi, siamo davvero tanto diversi? Non abbiamo forse anche noi
la sconsiderata tendenza a credere per troppa superficialità e a non credere
per troppa presunzione? Che sappiamo noi dei tanti mondi sparsi per l’universo? Cosa sappiamo di sicuro della nostra esistenza? Possediamo solo quel frammento di consapevolezza in più rispetto agli uomini dei graffiti dovuto a qualche telescopio, a qualche calcolo matematico, a qualche intuizione sorta dall’attività di neuroni certo non molto dissimili dai loro.
Quando ci rivolgiamo al cielo nei momenti difficili, quando ci sentiamo
spaventati dalle vicende di domani, quando speriamo di non essere soli nell’universo, quando non ci diamo ragione che ogni vita abbia un termine, quando ci auguriamo di trapassare dopo la morte in qualche altra dimensione spazio temporale, di cui ora non possiamo avere conoscenza, ci ritroviamo come
loro, fratelli dei piccoli uomini incisi sulla roccia; perché siamo segnati ancora, esattamente come loro, dal nostro inquietante destino umano, intessuto di
domande senza risposta e colmo solo di fragili speranze.
Uscendo dal parco ho la sensazione di avere imparato qualcosa che può
addolcirmi il vivere quotidiano; avverto la confortante impressione di aver ottenuto una conferma: la creatività è un’esigenza innata nell’uomo da sempre
e gli consente di esprimere i suoi momenti più alti.
Quei lontani progenitori già lo avevano intuito tracciando per sé, ma anche per noi, innumerevoli piccoli capolavori della più remota, autentica e feconda arte figurativa.
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R I L E G G E R E L E C I T T À I N V I S I B I L I D I I TA L O C A LV I N O
di Rosa Elisa Giangoia
La mostra “CITTÁ INVISIBILI Dodici artisti per Italo Calvino”, promossa
dalla Fondazione Novaro e dal Museo Civico Borea d’Olmo di Sanremo e curata da Walter Di Giusto, ci induce a rileggere, a quarant’anni dalla pubblicazione ed in occasione dei novant’anni dalla nascita dell’autore, Le città invisibili1
di Italo Calvino, un romanzo tutto realizzato grazie ad una fervida e robusta
fantasia creativa, capace di stimolare la fantasia immaginativa di qualunque lettore, attivando quella facoltà che può diventare creativa, come nel caso dei dodici artisti o gruppi liguri, che hanno partecipato a questa mostra, e come già
è avvenuto in passato con mostre2 e con esperienze anche molto particolari,
come quella dell’albergo di Minorca i cui interni sono realizzati in base alle descrizioni delle città di questo romanzo.
Le città invisibili, romanzo che nasce in un momento in cui nel dibattito letterario era molto vivo lo sperimentalismo nella narrativa, nel tentativo di
creare nuove forme anche organizzative per il raccontare, è una sorta di riscrittura del Milione di Marco Polo in cui lo stesso mercante veneziano descrive ad
un inquieto e malinconico Kublai Khan le città del suo impero. Queste città, però,
non esistono tranne che nell’immaginazione di Marco Polo e quindi vivono solo
nell’ambito delle sue parole: sono le parole a creare la realtà nell’illusione di
descriverla, per cui si determina un gioco di riflessi speculari tra realtà, immaginazione e descrizione.
Evidente è l’influsso delle linee di pensiero dominanti in quel momento, la semiotica e lo strutturalismo. Le città invisibili, infatti, è composto da nove
capitoli, ognuno all’interno di una cornice in corsivo, nella quale avviene il dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari, che interroga l’esploratore sulle città del suo immenso impero. Marco Polo descrive città reali, immaginarie,
frutto della sua fantasia, che colpiscono sempre di più il Gran Khan. Il libro è
costituito da nove capitoli, ma c’è un’ulteriore divisione interna: le città sono
55, numero che rappresenta la somma dei primi 10 numeri naturali positivi.
Hanno tutte un nome di donna di derivazione classicheggiante e sono raggruppate in categorie, 11 in totale, dalle “città e la memoria” alle “città nascoste”.
Einaudi, Torino 1972.
Triennale di Milano del 2002, in occasione del trentennale del romanzo, con un convegno ed il contributo di undici artisti e progettisti sul tema delle città utopiche
http://www.triennale.it/it/mostre/passate/297-le-citta-invisibili; Città invisibili tra sogno e realtà, Castiglione a Casauria, 13-20 giugno 2009 (cittainvisibili.com); Le città invisibili di Italo Calvino opere di Matteo Menotto, Pordenone 14 /1 /2012 - 28/2/2012
http://www.comune.pordenone.it/it/comune/in-comune/strutture/biblioteca/eventi/mostra-le-citta-invisibili-di-italo-calvino; Mostra di Patchwork Le città invisibili Fiera di Vicenza 17-20 ott. 2013 http://www.abilmente.org/nqcontent.cfm?a_id=2734 .
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Rosa Elisa Giangoia Rileggere Le città invisibili di Italo Calvino
RILEGGERE LE CITTÁ INVISIBILI
DI ITALO CALVINO
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Rosa Elisa Giangoia Rileggere Le città invisibili di Italo Calvino
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Il lettore ha quindi la possibilità di “giocare” con la struttura dell’opera, scegliendo di seguire un raggruppamento o un altro, la divisione in capitoli o in
categorie, o semplicemente andando dalla descrizione di una città ad un’altra.
Calvino stesso ha affermato, in una conferenza del 1983 alla Columbia University di New York, che non c’è una sola fine delle Città invisibili perché “questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte
lungo tutti i suoi spigoli.
Questa complessa costruzione architettonica è finalizzata a far riflettere il lettore sulle modalità compositive dell’opera: per questo Le città invisibili può definirsi un romanzo fortemente metatestuale, in quanto induce a produrre riflessioni su sé stesso e sul funzionamento della narrativa in generale.
In questo modo il ruolo del lettore diventa centrale, in quanto questi si trova
a “giocare” con l’autore nella ricerca dei meccanismi combinatori disseminati e nascosti nella vicenda e nel linguaggio.
Nello stesso tempo le città descritte da Marco Polo diventano simbolo
della complessità e del disordine della realtà, e le parole dell’esploratore appaiono, quindi, come il tentativo di dare un ordine a questo caos, anche se quanto mai aleatoria appare la conoscibilità del reale e persino la consistenza stessa della realtà. Solo il linguaggio sa trovare quei “segni” che possono, in qualche modo, dire la realtà e quindi, nello stesso tempo, crearla, in base alla lezione, allora imperante, della semiologia.
Ciò che Calvino vuole mostrare, come si legge alla fine del libro, è «l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme», rispetto al quale
vorrebbe indicare i due modi per non soffrirne: «Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ma queste città sono anche sogni, come dice Marco Polo: «tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono
costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro
regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra».
In questo modo la realtà perde la sua concretezza e diventa fluida e puramente mentale, si realizza nella fantasia, pur nell’insufficienza stessa del linguaggio.
I temi affrontati sono diversi e vari: dal tema del ricordo e della memoria a quello del tempo, da quello del desiderio a quello della morte. Il ruolo e
la sfida del lettore è riuscire a cogliere il “discorso segreto”, le “regole assurde” e le “prospettive ingannevoli” di queste storie. Egli deve cercare un suo ordine personale nella vasta materia dell’opera. Per Calvino è infatti il libro in cui
ritiene di aver detto più cose, perché, come afferma nel capitolo sull’Esattezza nelle Lezioni americane, è riuscito a concentrare in un solo simbolo tutte
le sue riflessioni, esperienze e congetture, costruendo «una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino ad altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate.
Nelle Città invisibili ogni concetto e valore si rivela duplice: anche l’esattezza»3.
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Lezioni americane, Mondadori, Milano 2010, pp. 80-81.
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R I L E G G E R E L E C I T T À I N V I S I B I L I D I I TA L O C A LV I N O
Rosa Elisa Giangoia Rileggere Le città invisibili di Italo Calvino
Quello che Calvino vuole dimostrare è che la narrazione può creare dei
mondi, ma non può distruggere “l’inferno dei viventi” che sta intorno a noi, per
combattere il quale, non si può far altro se non valorizzare quello che inferno
non è, come Marco Polo afferma nella conclusione del romanzo: «Per questi porti» dice, parlando delle «terre promesse», «non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel
bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì
metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati
col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi
li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa
smettere di cercarla». È una prospettiva utopica mutuata da Voltaire, che avvicina questa conclusione a quella del Candide. Rileggerle oggi ci fa pensare che
sono state di poco aiuto alla costruzione di una società migliore.
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Giuliana Rovetta Considerazioni sul tempo
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PROSPEZIONI
PROSPEZIONI
Letture di Milena Buzzoni, Domenico Defelice, Rosa Elisa Giangoia, Nazario Pardini,
Giuliana Rovetta
CONSIDERAZIONI SUL TEMPO
di Giuliana Rovetta
L’idea del curatore Stéphane Chomienne
di riunire in un agile libretto tre racconti sul tempo, brevi testi di uno scrittore
francese, uno americano e uno italiano,
mira ad aprire un discorso più ampio sulla percezione filosofica e fantastica di questo elemento, integrando il tema con
un’analisi di Pierre-Olivier Douphis sulla
famosa opera di Cézanne Pendolo nero.
Il racconto di Dino Buzzati Cacciatori di
vecchi, scritto nel 1962, profetizza la futura guerra fra le generazioni che animerà i due decenni successivi. La percezione del tempo in questo caso fa riferimento all’età, che può essere interpretata più
o meno soggettivamente. Per i giovani,
adulati e viziati nell’euforica stagione del
boom economico, i quarant’anni sono un
limite oltre il quale s’instaura una “decrepitezza” che attenua addirittura il diritto di vivere. Di qui la caccia, in una dimensione fantastica che si sviluppa dall’intuizione di Buzzati riguardo al rovesciamento dei valori in atto nella società, contro il vecchio, appena quarantenne, protagonista che preso di mira da una
banda di ragazzi e ragazze si nasconde,
li affronta, non si rassegna alla sorte che
vogliono imporgli. E che diventerà la loro
quando, con l’età, da cacciatori si trasformeranno in preda.
Marcel Aymé con La carte (in italiano La
tessera), racconto scritto nel 1942, fa riferimento al meccanismo del razionamento, ipotizzando che come esiste
una tessera per ottenere una quota di alimenti primari, così può venir contabilizzato il tempo a cui hanno diritto i cittadini, in base alla loro utilità e redditività. Nel racconto le restrizioni previste
danno subito vita ad un mercato nero del
tempo, di cui si avvantaggiano i ricchi che
lo possono acquistare a scapito dei poveri: “Per me eravamo al 35 di giugno. Per
altri ieri era il 32 o il 43. Al ristorante
c’era un uomo che, fatta abbondante
provvista di tessere, era vissuto fino al
66 di giugno”. Per Aymé, famoso commediografo lasciato in ombra dopo la guerra per presunte simpatie verso personaggi compromessi come Céline e Brasillach,
il tempo è dunque una merce come le altre: può essere scambiata, tesaurizzata,
e adoperata per rendere più facile (e in
questo caso più lunga) la vita di chi ha
mezzi sufficienti a procurarsene abbondanti quantitativi.
Ancor più decisamente proiettata in
una dimensione di pura fantascienza è
la breve vicenda raccontata da Ray Bradbury, originario dell’Illinois ma vissuto
a lungo a Los Angeles, in A Sound of
Thunder (in italiano Rumore di tuono).
Scritto nel 1952 ma ambientato nel
2055, il racconto è imperniato sulla figura di un cacciatore, Eckels, che sceglie di
viaggiare indietro nel tempo di 60 milioni di anni servendosi di un’agenzia per
la caccia al Tirannosauro. Ai tre partecipanti all’esperimento vengono impartite dalla guida che li accompagnerà regole rigidissime: disinfettati e protetti per
non contaminare con microbi moderni
l’ambiente del passato, dovranno camminare su una passerella evitando ogni
contatto con animali, vegetali e con il terreno. Infatti ogni mutamento o sollecitazione che dovessero imprimere a quel
mondo si ripercuoterebbe con effetti incalcolabili sull’evoluzione naturale e
sullo sviluppo della civiltà. Accade che
per una distrazione che sembra di poco
conto il protagonista nel posare il piede
a terra per un attimo colpisce, distruggendolo, un elemento d’importanza primaria per il futuro del mondo: una piccola farfalla. L’avventura si conclude dunque con la constatazione che il mondo
a cui i cacciatori fanno ritorno non è più
come l’avevano lasciato: sono percepibili inspiegabili cambiamenti nelle persone e negli oggetti intorno. Partito per la
caccia mentre le elezioni presidenziali
avevano decretato la vittoria del candi-
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PROSPEZIONI
Marcel Aymé, Ray Bradbury, Dino Buzzati, Trois nouvelles sur le temps, a cura
di Stéphane Chomienne, Gallimard, Parigi 2013, pp. 144, € 8,50
IL TRAMONTO DI IDA
di Giuliana Rovetta
La scrittura di Irène Némirovsky, esprime il mondo interiore e la posizione esistenziale dell’autrice, ucraina di nascita
ma di cultura francese, attraverso una serie di racconti o romanzi che scelgono di
mettere al centro della scena un personaggio che si staglia nitidamente su uno
sfondo sociale opaco, pur senza essere
del tutto amorale. Da David Golder a Jezabel, dalla madre insensibile de Il ballo allo sconsiderato arrivista di La preda, ogni figura viene accuratamente indagata da Némirovsky con una particolare sensibilità per le debolezze che
trascolorano spesso in azioni di umana
meschinità: questi singoli caratteri, ciascuno con il suo modo di pensare e d’agire, potrebbero comporre un affresco in
cui ad ognuno spetta di rappresentare
una parte e ricoprire un ruolo, ognuno
contribuisce a rappresentare le sfaccettature quasi infinite che l’animo umano riveste a contatto con la vita nella sua
cruda realtà.
Con Ida si assiste al progressivo disfacimento di una donna, un tempo brillante e adorata vedette sulle scene di un
noto cabaret parigino, che resiste con tutte le sue forze, grazie ai ritrovati della cosmetica e della chirurgia plastica, all’inevitabile messa a riposo in favore di
qualche giovane e svelta collega dotata
dei suoi stessi atouts: spregiudicatezza,
fascino, fisico adatto alla danza e alla
sfacciata esibizione in pubblico. Proprio
quel pubblico che Ida ha saputo conquistare a prezzo del sacrificio di una parte di sé, e neanche da subito, ma solo
dopo molti anni di attività indefessa e di
una sorta di religiosa disciplina applicata al suo lavoro, sta per esserle portato
via, se l’impresario deciderà che il richiamo della sua presenza in scena, ammantata di orpelli e strategicamente ingioiellata, non è più interessante per l’incasso al botteghino.
Come in altri suoi scritti Némirovsky sceglie per entrare nella psicologia del personaggio, la via di un intimismo variegato e composito che non istituisce mai un
cliché, ma piuttosto esprime l’aspirazione di ciascuno a prendere atto della propria condizione per poter in qualche
modo sottrarsi ai condizionamenti ambientali e caratteriali che tentano di
vincolarlo. Anche Ida, nel malinconico declinare della sua voglia di protagonismo
(l’odore del palcoscenico, le vezzose
acconciature, lo sfarzo degli abiti di scena, il calore degli spettatori ammirati
sono i riferimenti di cui non saprebbe
fare a meno) e nello struggente ricordo
di amori e drammi lontani, dai quali ha
dovuto prescindere per non pregiudicare la sua carriera, vorrebbe diventare altro da sé, ma è come presa in un vortice che la costringe a lottare per la sopravvivenza del suo personaggio e ad accettare la sfida, impari, con una vedette
emergente dalla giovanile energia e dai
“brillanti denti aguzzi” che nella risata
“scintillano come quelli di un pescecane”.
Ma non sarà soltanto l’impietoso confronto a far crollare l’impavida resistenza della diva ormai al tramonto, bensì un ricordo che l’assalirà proprio nel momento in
cui si appresta a scendere le scale di scena come ha fatto mille altre volte: il ricordo di un’altra età, di altre scale. Una Ida
poco più che bambina è accolta da un lancio di pietre da parte delle sue compagne
che le rinfacciano una madre dalla condotta immorale: questa reminiscenza accantonata e poi svelatasi con un guizzo
della memoria è il colpo di grazia che mina
la sua capacità di resistere.
In questo racconto apparso per la prima
volta sulla rivista Marianne nel maggio
Giuliana Rovetta Il tramonto di Ida
dato Keith contro il fascista Deutcher, Eckels apprende ora che l’esito della consultazione elettorale è stato invece completamente rovesciato. Il rumore di tuono è presumibilmente uno sparo con cui
la guida suggella il fallo di cui il cliente
si è reso responsabile: a partire dalla soppressione della farfalla, una reazione a
catena ha attraversato milioni di anni
sconvolgendo le sorti dell’umanità.
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Giuliana Rovetta Una vocazione letteraria tra Iran e Olanda
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PROSPEZIONI
1934, Némirovsky, esprime il concetto,
non nuovo in altri suoi scritti (Suite Francese è l’opera che le ha dato il successo,
sia pure postumo) che la memoria “ritrovata” sia spesso il catalizzatore di una
palingenesi personale. Nell’offuscarsi
della brillante personalità di Ida, residuo
fragile di un mondo che celebrò la sua
follìa negli anni del primo dopoguerra,
si possono leggere anche le avvisaglie di
un’età più cupa che non tarderà di lì a
poco a imporre le sue dure condizioni.
Irène Némirovsky, Ida, Roma, elliot,
Roma 2013, traduzione di Monica Capuani, pp. 61, € 7,50.
UNA VOCAZIONE LETTERARIA
TRA IRAN E OLANDA
Giuliana Rovetta
Testimone di un mondo, prima ancora
che di una cultura, di cui conosciamo ancora molto poco Kader Abdolah, pseudonimo di Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, autore di numerosi libri sia
in persiano che in olandese, s’impegna
con la sua scrittura antiretorica e sinuosa, a tracciare una rotta che parte dalla
regione persiana di stretta osservanza
islamista in cui è cresciuto per arrivare
alla modernità variegata e movimentata
di Amsterdam. Lo fa con un testo di rara
nitidezza che è stato richiesto a lui, di lingua nativa non neerlandese, nel quadro
della Settimana del libro che tradizionalmente celebra in Olanda un autorevole
scrittore nazionale. Abdolah dopo l’esordio con due raccolte di racconti scritti nella lingua materna, dovendo lasciare Teheran a causa delle sue posizioni politiche contrarie al regime dello Scià prima
e degli ayatollah poi, si rifugia nei Paesi
Bassi e con metodo da autodidatta impara la lingua che gli permetterà di inserirsi nel mondo culturale occidentale.
Al centro della storia di Il Corvo, ampiamente autobiografica, campeggia la figura di Refid Foaq, rifugiato iraniano partito dalla Persia, “paese degli antichi re,
dell’oro, dei tappeti volanti, delle donne
bellissime e di Zarathustra”, dove aspirava a diventare scrittore, per cercare la
salvezza in Olanda: abbandonati momen-
taneamente i sogni, qui si guadagnerà da
vivere facendo il sensale di caffè. Ma la
magia della città che ha lasciato non allenterà mai la presa sul suo cuore. Neppure quando era partito per il Kurdistan
come inviato di un giornale clandestino
per riferire di una guerra che ufficialmente non esisteva, si era sottratto a questo
fascino. Sempre all’opposizione del regime, il giovane protagonista viene salvato da una violenta carica di seguaci di
Khomeini da una ragazza di Teheran con
cui si legherà per la vita, ma che potrà
raggiungerlo in Olanda solo dopo alcuni anni.
Il libro Il corvo rappresenta una lettura
particolare, innervato com’è dalla concezione che dall’avvicinamento di due
culture nasca l’ulteriore dimensione di
un atteggiamento mentale terzo, in cui
le due matrici, quella originaria e quella acquisita, risultano incrementate, essendo passate attraverso il filtro di una
esperienza di vita per certi versi dotata
del crisma dell’eccezionalità. Di questa
dimensione fanno parte non solo la costruttiva contrapposizione fra due ipotesi attuali e presenti, ma anche il corredo delle rispettive memorie e radici. In
questo amalgama dinamico, frutto di un
movimento dal passato all’oggi e da un
luogo fisico all’altro, il corvo, animale
simbolo della tradizione persiana, svolge il ruolo di messaggero e ha effetto di
collegamento fra le opzioni diverse che
si propongono.
Fra le molte pagine in cui vengono descritte le difficoltà e raccontati gli incontri che hanno infine portato Refid all’approdo in terra olandese, alcune rappresentano molto efficacemente il senso di
impotenza e di insicurezza che s’impadronisce dei fuggitivi: “Cercavo di stare
sveglio per paura di morire soffocato nel
sonno. […] Mi trascinai faticosamente tra
i pallet fino al portellone. Avvicinai la bocca alla fessura e feci dei respiri profondi. ‘Venite vicino al portellone o morirete’, mormorai agli altri in inglese. Sulle
prime nessuno reagì, poi li sentii avanzare tra i pallet”.
Per poi, una volta buttati fuori dal camion
e sollecitati a sparpagliarsi, compiere i
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PROSPEZIONI
Kader Abdolah, Il corvo, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea, Milano 2013, pp. 128, € 9,50.
UN UOMO E UN ARTISTA
di Domenico Defelice
Uomo e artista estroso e quasi futurista,
questo Ubaldo Riva della scrittrice Liana De Luca. Futurista è il suo metodo di
lavoro di composizione da lui stesso descritto: «In testa ho l’indistinto e il fine
del lavoro. Poi comincio magari dalla
coda: o dal centro: faccio copiare, taglio,
incollo: la coda diventa capo: mosaico,
aggiungo, tiro di pomice: e vien fatto».
Quasi futurista, perché, nella realtà –
come afferma la De Luca - «Riva non poteva intrupparsi in nessun limitante indirizzo».
Il bel saggio – agile per il dettato assolutamente privo di nebbie, completo da
dare concretamente, in pienezza, il ritratto dell’artista – è suddiviso in tre parti:
L’alpino, Il poeta (e lo scrittore), L’avvocato.
Un alpino, anche qui, per certi aspetti,
fuori dagli schemi usuali, se è vero che,
prima del servizio militare, egli era solito affrontare la montagna vestito «come
in città». Ma la montagna amò veramente e senza sconti, al par della donna e con
sentimenti che, in genere, si riservano alla
divinità. Ecco una delle sue tante definizioni: «Le montagne sono cose / di gravità e paura. // Pésano come un cipiglio
/ sul volto alla natura».
Liana De Luca ha il dono del riporto, quello che tanto piaceva al nostro maestro
Francesco Pedrina. Così, fin dall’inizio,
possiamo partecipare direttamente con il
poeta e lo scrittore alla Prima Guerra Mondiale, ai combattimenti, alle lunghe veglie
e alle attese sotto il ghiaccio e temperature a - 30°, alle ferite, alla convalescenza, al ritorno in trincea e, infine, al congedo, che non ha avuto mai il significato
di distacco dal corpo degli alpini, al quale Riva fu fedele fino alla morte, partecipando sempre alle adunate e alle diverse cerimonie in ogni parte d’Italia, prendendo all’occorrenza la parola che, in lui,
è sempre stata alata, per i saluti e gli sproni. Egli considerava quel corpo «una cara
famiglia», nella quale si trovava benissimo, anche se – confessa – veramente a suo
agio si sentiva solo allorché aveva la possibilità di «guardare in aria e fare […] il
poeta». Essere alpino vuol dire anche amare profondamente la Natura. Ecco una delle tante note dedicatele: «La rugiada sull’erba / al sole della mattina / è tutta una
trina / tra d’oro e d’argento. // Odòrano
i prati / le foglie degli àlberi / e gli aghi
dei pini / d’odore di terra e di selva».
La De Luca dimostra come tra l’alpino e
il poeta Riva non ci sia stata, poi, tanta
differenza. Ci sono in «Scarponate, poesie rievocanti la guerra e inneggianti le
riunioni alpine; Bambinate, esprimenti
quello che di fanciullesco resta nell’animo di tutti; De la musique… transfert di
brani musicali; Interni, sentimenti e stati d’animo; Esterni, descrizioni di paesaggi e di luoghi con particolare attenzione
alla sua Bergamo; Intimismi, sulle più sofferte meditazioni…».
Riva ci dà, in Bergamascherie prime e seconde, forse senza intenzione, una lezione di critica onesta: «Non essere scortichini e stroncatori feroci: pensare quanto sangue e sudore di sangue costi
l’opera: non essere venduti per adulazionismo conformismo di scoletta o di interesse (oggi a te domani a me): ma franchi e leali: sempre però con carità: con
amore»… Lui si riferiva all’arte, ma anche la critica, in qualche modo, se fatta
onestamente, senza saccenteria o invidia,
se fatta «con amore», è arte.
Senza enfasi e volontà di dar lezione, lo
scrittore sa essere lieve e aspro, gentile
e duro, all’apparenza superficiale o profondo, svagato e sentimentale: è se stes-
Domenico Defelice Un uomo e un artista
primi passi in una campagna sconosciuta, forse ostile, tra canali e fattorie,
senza montagne o colline: solo un campanile in lontananza. “Nel paese dove arrivai all’alba forse non avevano mai visto uno straniero. La gente mi guardava
stupefatta. Ero quasi arrivato al campanile quando un’auto della polizia si fermò accanto a me. Alzai le braccia: Asilo! …quella parola ce l’aveva sussurrata
all’orecchio uno degli autisti del camion.”
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Milena Buzzoni Prosatore e poeta
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PROSPEZIONI
so senza forzature, cioè, senza il troppo
belletto dell’aggiustamento, che uccide
la spontaneità; usare la pomice è d’obbligo, ma con parsimonia, se non si vuole cadere in ciò che lui stesso definisce
il «chimismo aritmetico».
Il suo modo di scrivere lo sintetizza in Bergamascherie prime e seconde: «Si tratta di
una velocissima sintesi: ma sotto c’è – oltre la predisposizione – lo studio la meditazione il patimento di decenni e soprattutto una meditazione subcosciente». È, il
suo, un «parlar quotidiano» (Ettore Cozzani). A volte ci sembra di leggere i versi
del futurista e nostro grande amico Geppo Tedeschi, il quale, con Marinetti, fu anche estensore di manifesti, come quello,
per esempio, sulla poesia sottomarina. Riva
scrive: «Suonava – diceva del nonno – con
un sentimento che accorava: rosignolava».
Riva è stato, non di professione, anche lui,
come i suoi antenati, un vero musicista.
«Nelle raccolte poetiche di Ubaldo Riva il
‘musicismo’ è una componente non occasionale, e neppure esornativa», afferma
Gianandrea Gavazzeni. Molto di più, insomma, di un musicofilo.
Poeta e scrittore ironico, inoltre, Ubaldo
Riva.
Quello che ci colpisce di più in lui, anche
come avvocato, è l’aspetto sociale. Eccone un tocco nell’accostamento tra l’innocenza e la sacralità della natura e la calcolata violenza dell’uomo: gli agnelli che
felici saltellano e «bevono la vita» «come
il latte sincero / dalle materne mammelle» e «l’uomo nero / che aguzza i coltelli». Egli guarda con amore la povera gente, vittima e colpevole, a volte, della necessità. Come avvocato deve difendere
l’assistito, ma non può fare a meno di
stendere il suo occhio pietoso su tutta
quella autentica “Corte dei Miracoli”
che è la Pretura in occasione dei processi, «… poveraglia mascolina e femminina. La malattia, la bassezza, la deformità, i parassiti…: facce gonfie, vinose,
stampelle, fetore, cenci, toppe, alcool, malattia: e se non piangi…». A questa pletora di bisognosi, Riva il più delle volte
non chiedeva parcella. Colpevoli o non
colpevoli, erano per lui tutti meritevoli
di pietà e della sua solidarietà. E la giu-
stizia, ieri come oggi, spesso ha il volto
e la sostanza della ingiustizia.
Ubaldo Riva aveva sofferto per tutta la
vita della perdita prematura della madre.
Il giorno prima della morte, a causa di un
incidente, scrive una poesia a lei dedicata in cui parla di esilio. Sicuramente è stata lei a chiamarlo. Anime così legate da
tanto amore non potevano stare ancora
a lungo separate.
Liana De Luca, Ubaldo Riva alpino poeta avvocato, Genesi Editrice, Torino
2013, pp. 158, E 16,00.
PIERO CAMPOMENOSI
PROSATORE E POETA
di Milena Buzzoni
Affacciatosi al panorama letterario nel
1985 con L’avventura di una foglia (Lanterna, Genova), una “favola” sotto la quale si celava l’itinerario di una crescita, nel
1996 Piero Campomenosi conferma le
sue doti di narratore con La bugia (Marco Sabatelli, Savona), ispirata ancora
alla formazione, sia religiosa che umana, di un giovane alle prese con una realtà non sempre in sintonia con le proprie aspirazioni. L’argomento viene ripreso, amplificato e rielaborato nel romanzo del 2010 L’anabasi di Aristodemo, che,
secondo le parole del protagonista è «un
viaggio all’insù, fino a perdermi negli spazi celesti, come un aquilone». Si tratta del
racconto di sessant’anni della vita di Aristodemo (che mantiene dei tratti comuni con il protagonista de La bugia), nato
in una famiglia contadina della Val
Trebbia, custode di una cultura legata alla
terra alla quale fatalmente tornerà negli
ultimi anni della vita, come sempre in cerca di autenticità e adesione.
Nel frattempo, nel 2003, avviene l’esordio
poetico di Campomenosi, anticipato dalla pubblicazione di diversi componimenti su riviste letterarie. La fascina si presenta subito come un’opera organica, strutturata in sezioni cronologicamente suddivise che raccolgono la sua produzione dal
1988 al 2003. Lo sfondo sul quale si inquadra la maggior parte delle liriche è una
Val d’Aveto (oggetto, tra l’altro, di ricerche
e pubblicazioni storiche e linguistiche da
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PROSPEZIONI
Piero Campomenosi, La fascina, Marco
Sabatelli, Savona 2003, pp. 95, € 14,00.
Piero Campomenosi, L’abbecedario di un
poeta minore, Marco Sabatelli, Savona
2012, pp. 93, s.p.
UNA STORIA D’AMORE
di Rosa Elisa Giangoia
Stelle a Merzò è la quarta raccolta poetica di Adele Desideri, in cui sono comprese anche le liriche che noi avevamo
già apprezzato, in quanto al Concorso
“SATURA Città di Genova” del 2011 avevano ottenuto il 1° premio dalla giuria
composta dalla nostra redazione. Ora anche le tre liriche allora premiate entrano a far parte di questa nuova silloge della poetessa milanese che scrive quella che
si può considerare una moderna rivisitazione dei canzonieri d’amore della nostra tradizione, in quanto, come dice l’autrice stessa, «Questo lavoro è la trascrizione in prosa poetica di una storia
d’amore che mi è stata raccontata – non
senza lacrime e sospiri – dalla viva voce
della protagonista».
Noi, leggendo le liriche, pervase da una
forte tensione emotiva, fatta di passione amorosa e di disillusione sentimentale, siamo progressivamente portati a
supporre che la «viva voce della protagonista» sia quella dell’autrice stessa che
avrebbe tentato ancora una volta di utilizzare l’espediente dell’alterità individuale per oggettivare in una migliore possibilità di analisi una personale storia
d’amore.
È una vicenda che supera la breve stagione estiva del suo sviluppo temporale, ben
segnato nei titoli-datazione delle liriche
(28 luglio – 31 ottobre 2009), per diventare paradigma del rapido incendiarsi e
del facile spegnersi di un fuoco d’amore, che non si radica e non fiorisce, e più
oltre ancora della vita.
La geografia di questa storia è circolare,
da Merzò, in val di Vara, luogo emblematico, in cui le stelle «sono incollate al cielo», finché si crede nell’amore, mentre poi
«se ne vanno […] risucchiate / in un gorgo di oblio», si snoda per altre località vicine e della Riviera Ligure, per poi allontanarsi a Milano, fino a ritornare appunto a Merzò, dove «il gelo ammanterà il
borgo» e «la perduta fiducia […] / segnerà la strada che porta alla follia».
Questa storia noi la vediamo, nel suo nascere, vivere per lo più di momentanea
magia, spegnersi e trascinarsi in un’illu-
Rosa Elisa Giangoia Una storia d’amore
parte dell’autore) che è nello stesso tempo cifra geografica e paesaggio dell’anima:
Rezzoaglio, Taglieto, Bussego, Ventarola,
Orezzoli sono microluoghi del cuore, soste di una toponomastica affettiva. Attorno ad essi «i miei monti/ colossi di bronzo» e un cielo visto come «carta pergamena» o come «una parete di cristallo». Paesaggi spesso intinti in una nostalgia composta, in una lontananza incontaminata,
antagonista di una realtà corrotta da televisione e da spaesanti ritmi di vita. Ecco allora il poeta diventare testimone di una civiltà rurale in estinzione, di un mondo perduto per sempre. Ma in questo percorso
poetico si incontrano altri motivi, come gli
affetti familiari e l’eco dell’esperienza religiosa che si alterna a quella didattica giocate sul filo di una memoria spesso temperata dall’ironia. Non a caso l’ultima sezione di questa prima raccolta di poesie è
intitolata Caproniane, svelando un’affinità fatta più di ammirazione che di effettiva adesione. Certo l’ironia, una contiguità
geografica, la Val d’Aveto per l’uno, la Val
Trebbia per l’altro, e l’essere entrambi insegnanti, crea un tessuto comune sul
quale tuttavia Campomenosi si muove con
autonomia. Cosa che avviene anche nei confronti di Montale, citato in più di una lirica, quale modello poetico. «Ero partito/ con
Montale e Caproni/ sottobraccio» esordisce in una lirica della seconda raccolta di
poesie che esce nel 2012 con il titolo L’abbecedario di un poeta minore, dove troviamo, articolati anche qui in diverse sezioni cronologicamente scandite, i medesimi
motivi della silloge precedente: dagli echi
religiosi, al contrasto tra mondo contadino e mondo cittadino, all’amore per la natura. Lo sfondo si sposta da una Val
d’Aveto arcaica e rurale a una Liguria ben
identificata: Genova, Pieve, le Cinque Terre, che, in un linguaggio sempre piano e colloquiale, non scevro da espressioni classicheggianti, a volte piacevolmente obsolete, accoglie l’ispirazione del poeta.
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Rosa Elisa Giangoia La vita imprevedibile
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PROSPEZIONI
sione di speranza, attraverso le maglie
di una rete di parole e di torsioni sintattiche, che ci fa scorgere solo frammenti, particolari, elementi secondari ed accessori, ma non ci dà la possibilità di partecipare alla visione piena, alla fruizione dei quadri d’insieme. Le liriche infatti sono intessute di una tramatura lessicale in cui parole di quotidianità domestica si intrecciano in un ordito di letterarietà e di personale invenzione, quasi
a significare il piano della riflessione e
dell’espressione poetica come rete a
maglie strette gettata sul vissuto di cui
lascia intravvedere alcuni particolari,
mentre altre zone restano occultate e presentate al lettore solo attraverso la rielaborazione poetica del vissuto stesso.
Di qui nasce una poesia elaborata, in cui
la spontaneità espressiva è frenata dalla soggettività della percezione e dalla sapienza dell’espressione. È una poesia di
guizzi di luce e di opacità di riflessione,
una poesia che presenta la vicenda
d’amore in tutta la sua tensione nella curva parabolica di un’esperienza sentimentale sempre percepita e vissuta in tutta
la sua fragilità, segnata dagli agguati della precarietà, dovuti in larga misura
alla fragilità ed inadeguatezza del personaggio maschile, amato dalla protagonista fin dall’inizio pur in una luce di accentuata illusione.
Proprio per questo la vicenda d’amore
vive di momenti di disperazione, tra turbamenti erotici e lacerazioni dolorose
(«Una lunga pausa d’attesa, / per illudermi di poter ancora intonare / - all’unisono – il gloria dei nostri corpi»), in un crescendo che raggiunge il desiderio di morte e prelude all’amara conclusione della fine, percepita come una catastrofe in
cui tutto verrà annullato. A sopravvivere sarà solo un sentimento di nostalgia da parte della protagonista che si trasformerà in attesa («Ti aspetterò qui, sul
colle di Merzò, / quando il sole all’imbrunire / colora i prati, l’erba selvatica, / le
panchine divelte»), anche se in una realtà segnata dallo stravolgimento. In questo modo la vicenda, temporanea e personale, diventa una storia di dolore, metafora del mistero doloroso del vivere,
confortato da una promessa («Quattro
assi di legno, / promessa di una Salvezza / che vincerà l’ignoranza»), a conclusione della quale anche l’accettazione del
sacro, della tensione divina dell’esistenza umana, si fa più difficile, in quanto «il
gallo non canta più» e «i crocefissi non
hanno sangue / per i sacrifici».
È una storia d’amore che si fa scontro nella contrapposizione delle personalità, una
storia di cui la protagonista femminile cerca di tenere in mano le fila e di attuare
strategie per renderla duratura e soddisfacente: tutto è inutile. A lei non resta
che trovare le parole poetiche più efficaci per farla balenare in immagini suggestive di fronte agli occhi dei lettori.
Adele Desideri, Stelle a Merzò, Moretti &
Vitali, Bergamo 2013, pp. 72, € 12,00.
LA VITA IMPREVEDIBILE
di Rosa Elisa Giangoia
Luciana Chiesi De Fornari ama Genova,
la sua città, di cui, in tanti romanzi, ha
dimostrato di saper descrivere con maestria scorgi paesaggistici, ambienti urbani e caratteri dei personaggi.
In questo suo ultimo recente lavoro ritorna al quartiere della Foce, che già aveva fatto da sfondo alle vicende di Pannolenci, ma sposta la vicenda un po’ più
avanti nel tempo, all’inizio degli anni Sessanta, per la precisione tra l’autunno del
’63 e quello successivo, in quel periodo
in cui l’Italia stava ritrovando una nuova tranquillità di vita, grazie al rapido miglioramento delle condizioni economiche,
dopo gli anni drammatici della guerra e
quelli difficili della ricostruzione. Di
questa situazione di cambiamento il
quartiere genovese della Foce è indubbiamente un esempio significativo per le rapide ed importanti trasformazioni urbanistiche che proprio in quegli ha vissuto con il definitivo passaggio da quartiere periferico di pescatori e poi industriale a zona residenziale di insediamento
borghese.
Questi cambiamenti ebbero di conseguenza molta incidenza sulle dinamiche
della popolazione, che in quegli anni
crebbe fortemente e si differenziò social-
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PROSPEZIONI
del romanzo, la prima piuttosto defilata nella sua casa alla periferia della città, la seconda, attiva nella sua tintoria di
Sampierdarena, da dove, ormai al limite della quarantina, intreccia una per lei
entusiasmante, ma non sempre facile,
storia d’amore con un insegnante di Lettere che all’inizio la inganna sul suo stato civile.
Ed ecco che all’improvviso, in una sera piovosa, nell’ombra frondosa di via Casaregis l’evento temuto dal ragionier Ottonello, non esorcizzato dalla procura, si verifica: è un investimento automobilistico
che lo lascia gravemente ferito, in un trascinarsi di inutili cure che scandiscono la
sua lenta, ma inesorabile agonia.
A questo punto la vita della giovane moglie si sdoppia, sospesa tra il comportamento di sposa affettuosa e premurosa
che assiste con dedizione il marito in
ospedale e l’intrecciarsi di una nuova
amicizia che diventa presto una relazione amorosa. Intanto vanno avanti le indagini della polizia in un incalzare di
eventi inaspettati che colorano sempre
più di giallo quello che all’inizio era apparso come un semplice investimento,
fino a giungere ad un epilogo che chiarisce la dinamica di tutta la vicenda, ma
svela a Tea aspetti della vita di suo marito che la lasciano profondamente delusa. Rimasta vedova, decide di dare una
svolta alla sua esistenza, partendo per
l’Argentina per ritrovare suo padre, con
cui nel frattempo ha riallacciato rapporti epistolari.
È un racconto, questo di Luciana Chiesi
De Fornari, condotto con molta abilità per
quanto riguarda l’intreccio, capace di tenere desta l’attenzione del lettore fino all’ultima pagina, quando trova la spiegazione di tanti piccoli indizi fino ad allora rimasti ingiustificati, come molto
ben riuscita è la raffigurazione dei personaggi, alcuni tratteggiati a tutto tondo, altri delineati solo per gli aspetti funzionali alla narrazione. Sono personaggi, che messi alla prova dai fatti della vita,
crescono ed acquisiscono consapevolezza di sé e sicurezza, per cui questo romanzo può essere considerato anche un
romanzo di formazione, oltre che di co-
Rosa Elisa Giangoia La vita imprevedibile
mente, anche per il non raro crearsi di
rapidi arricchimenti. Proprio questa è la
situazione di partenza del protagonista
del romanzo, Bruno Ottonello, un ragioniere quarantenne, che ha messo insieme, non si sa bene come, una discreta
fortuna, soprattutto in proprietà immobiliari: è un tipico uomo del momento,
che è riuscito con la sua personale abilità a migliorare notevolmente la posizione economica di origine della sua famiglia, con una discreta condizione professionale e che si può vantare di quel titolo di ragioniere, allora sostenuto da
una buona considerazione sociale, che
quasi lo avvicinava ad un laureato…
È un uomo molto sensibile al fascino femminile, sempre in cerca di avventure più
o meno facili, finché un giorno si innamora di una ragazza di quasi vent’anni
più giovane. E anche lei, Tea Arvigo, incarna un cliché femminile del tempo: fa
la manicure da un barbiere per uomini,
per cui non è più una donna di casa, ma
una ragazza giovane e graziosa che lavora fuori, in ambiente maschile, in cui
viene osservata e desiderata, anche se
vuol rimanere «una ragazza per bene»,
tanto che il ragionier Ottonello, per
averla, deve sposarla. Per lei scatta così
quel salto sociale, allora agognato da molte ragazze, che costituisce una promozione capace di farle accantonare le
ombre del passato della sua famiglia, con
un padre che aveva abbandonato tutti per
trasferirsi in Argentina, dove si era fatto una nuova vita. Ma questa sua ascesa sociale fa riemergere dal passato un
fratello dal comportamento non sempre
specchiato, che lei cerca con fatica, ma
con forza, di tenere lontano da suo marito. I rapporti tra i due sposi non sono,
però, felici, caratterizzati da incomprensioni reciproche e soprattutto contrassegnato da una profonda diffidenza
da parte di Bruno nei confronti della giovane moglie, che lo porta appunto a recarsi a Roma per redigere e depositare
presso un notaio amico una procura a favore della madre e della sorella onde possano disporre dei suoi beni nel caso a lui
capitasse qualcosa. E così entrano in scena anche queste due donne nella trama
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Rosa Elisa Giangoia Il pianista investigatore
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PROSPEZIONI
stume, psicologico, sentimentale e giallo, in definitiva un’opera narrativa ricca
di varie sfaccettature.
Luciana Chiesi De Fornari, La procura Ottonello, Melangolo, Genova 2013, pp. 235,
€ 15,00.
IL PIANISTA INVESTIGATORE
di Rosa Elisa Giangoia
Questo romanzo, Février e l’enigma degli
uccelli, rappresenta la seconda indagine del
pianista investigatore francese Audemars
Février, già protagonista del precedente Ritorno a Blessy. Qui ricompaiono alcuni personaggi, presenti anche nel primo della serie: oltre al protagonista, i lettori ritroveranno il suo assistente ed uomo di fiducia, Pierre Carboni, il commissario Leduc
e la governante del Maestro, madame Berger. Di conseguenza, questi romanzi non
sono mai completamente slegati l’uno dall’altro, in quanto, oltre al pianista investigatore, ritornano altri personaggi le cui vicende si intrecciano in vari modi con quelle del protagonista. Tema conduttore è,
però, sempre la musica, soprattutto per il
fatto che il Maestro Février è un celebre pianista, che si esibisce in teatri di tutto il
mondo, per cui, spostandosi da un luogo
all’altro, ha occasione di trovarsi coinvolto, insieme a chi lo segue, in sempre nuove vicende di delitti e di misteri.
In questo modo l’autrice soddisfa il desiderio, suo e dei lettori, di veder continuare la vita dei personaggi, a cui si è affezionata, in luoghi e situazioni diverse.
In questo nuovo romanzo la vicenda si
svolge a Parigi nel 1924, il che vuol dire
sullo sfondo di una città che ha visto tramontare i suoi fasti della Belle Èpoque
con la Prima Guerra Mondiale, ma che
cerca faticosamente di recuperare quel
mondo di eleganza, grandiosità e divertimenti mondani, anche se la situazione
ormai è molto diversa. Ad animare la brillante vita parigina sono ora anche gli esuli russi, nobili profughi che hanno dovuto abbandonare la patria in seguito alla
rivoluzione bolscevica. Anche strascichi
della guerra si fanno ancora sentire, soprattutto per le conseguenze di situazioni di spionaggio e controspionaggio che
si erano verificate durante il conflitto.
Su questo scenario si stagliano le figure del pianista Audemars Février e della violinista russa, Martina Viesky, che
stanno mettendo a punto la loro preparazione per eseguire la Sonata a Kreutzer di Beethoven, in una serata di beneficenza a favore degli esuli russi, all’Opera, patrocinata da un’affascinante contessa, Lara Fjodorova. In filigrana alla vicenda si possono, quindi, intravvedere
rimandi culturali importanti che riportano, oltre che all’opera musicale Beethoven, al romanzo omonimo di Lev Tolstoj,
tutti convergenti sul tema della fascinosa intesa che si viene a creare tra i due
esecutori strumentali di questo difficilissimo brano musicale.
Ma tra il Maestro Février e la violinista
non pare, però, scattare nessuna scintilla amorosa, anche perché Martina sembra felicemente sposata con un uomo
che, a mano a mano che la vicenda si snoda, assume contorni sempre più dubbi
ed inquietanti.
Ma, ad animare la situazione sono due
delitti che avvengono nel giro di pochi
giorni, uno a Madrid e l’altro a Parigi, che,
però, hanno in comune la modalità di
esecuzione: una trafittura con qualcosa
di appuntito avvelenato col curaro piantato nel collo. La cosa comincia ad insospettire, ma la vicenda si aggroviglia,
quando la sera stessa dell’esecuzione, viene trovato ucciso allo stesso modo anche il marito di Martina, nel camerino della violinista.
Così la narratrice, attraverso fatti apparentemente lontani e senza relazione, ha
portato abilmente la vicenda alla sua
spannung, per cui ora, con altrettanta abilità, riuscirà a dipanare i fili di quest’intrigo internazionale, sbrogliandone con
acutezza i nodi, fino a giungere alla soluzione finale risolutiva di tutti i delitti
e quanto mai imprevedibile.
È un romanzo giallo, ben costruito, senza incongruenze e senza soluzioni troppo fantasiose, condotto con giusto equilibrio tra caratterizzazioni psicologiche
dei personaggi, ricostruzioni di ambienti, descrizioni di situazioni e felice realizzazione dei dialoghi.
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PROSPEZIONI
ALLEGGERIRE IL PESO DELLA
VITA PER TRASFERIRLO IN CIELO
di Nazario Pardini
Un lavoro di diacronica complessità
poetica, di rielaborazione intimistica, e
di grande impegno strutturale, questo di
Gianni Rescigno. Diversi rivoli confluiscono in un unico fiume che, scorrevole, armonico e cristallino, ben protetto da argini solidi, sfocia in un mare d’amore e
di speranza. Un’antologia poetica che rivela, in una successione di momenti
espressivi, continuità d’intenti, di esperienze umane e di tecniche prosodiche.
Un’antologia che unisce pièces tratte da
cinque sillogi che sanno trovare la loro
unicità, la loro voce unisona, monocorde sia per tecnica che per ricerca poetica. È proprio la forza lirica di Rescigno,
il suo stilema a mantenere il poièin su livelli di alto spessore etimo-fonico, linguistico-figurativo. E non di rado sia il verbo che la sintassi subiscono dilatazioni,
e originali violenze creative per accompagnare quantità emotive che sgomitano per uscire: «Ci consegniamo muti / al
cammino dei sogni», «La luce odorava
d’umidore», «Gonfio di spine / ingrosso
mare nello sguardo», «e una mano amica che ti poggia / sull’omero parole
d’amore non dette», «Sono filo d’erba /
sulla bocca del vento».
Ad arricchire l’opera, a renderla più preziosa, a livello filologico e linguistico, la
traduzione in francese, testo a fronte, per
mano di due autorevoli scrittori, quali Paul
Courget e Jean Sarroméa. Traduzione che
denota uno sforzo non indifferente. E rendere in altra lingua l’originalità dello stile di Rescigno non è certamente cosa semplice. Comunque, considerando che la lingua d’oltralpe contiene già innate, nel suo
substrato, grazia e armonia, e che tali peculiarità non sono secondarie nella cifra
espressiva del Nostro, credo che questa
lingua aiuti, non poco, il compito del traduttore. Ma si devono pur mettere in evidenza, obiettivamente parlando, le difficoltà verso cui si va incontro, dovendo ren-
dere a livello etimo-fonico, tecnico-metrico, e più ancora emotivo-creativo, il messaggio originale. Visto che, non di rado,
l’autore ricorre a forzature sintattiche volte ad assecondare le richieste del sentire.
E che non sempre è facile reperire parole e sintagmi che accostino tanto patrimonio umano.
E tanti sarebbero gli esempi cui ricorrere, e su cui riflettere per evidenziare l’importanza della disputa critico-letteraria
sulla resa delle traduzioni. Cosa che si
accentua, naturalmente, trattandosi di
poesia. Dovendo questa dire dell’autore
con un linguaggio più conciso, più immediato e più folto di pointes allusivo-creative. In questo caso, non si vuole sminuire affatto il lavoro del traduttore, che riconosciamo il più possibilmente vicino
agli intenti contenutistico-formali del Nostro. Ma non mi voglio dilungare oltre,
scendendo nei particolari.
Ma, per tornare al nocciolo della questione Rescigno, sono molteplici le occasioni poetiche di questa antologia; e la scelta è oculata, quasi tematica, direi, e basata sui principi estetici e vicissitudinali di un modo di pensare, e di sentire, che
spesso è turbato dalla coscienza di una
fine. Tutto ritorna al poeta, al suo pensiero. Niente è solo descrittivo. Tutto contribuisce ad esaltare la sua intimità. Ed
il linguaggio si fa di un allegorismo pronto ad ampliare il messaggio. Si spazia dal
realismo quotidiano, alla malia del sogno;
dalla caducità dell’esistere, a un memoriale di grande intensità emotiva; da questioni prettamente terrene, ad altre di valore escatologico; dal patema di essere
mortali, alla fuga da tale ristrettezza: E
non di rado il poeta fa sentire il bisogno
di una spiritualità che vada oltre il contingente: «Dacci oggi la speranza / come
ce l’hai data ieri / (…) / fino all’ultima
sera / quando te la rimetteremo / per
sempre nelle mani» (p.15).
A dominare su tutto, alfine, è questo motivo che fa da cucitura all’intera opera.
E spicca un credo consapevole e determinato a produrre speranze pronte a vincere dolorose sottrazioni. Un credo che
porta l’autore a staccarsi dalle cose, o meglio, a trasferirsi, zeppo di questioni esi-
Nazario Pardini Alleggerire il peso della vita per trasferirlo in cielo
Simonetta Ronco, Février e l’enigma degli uccelli, Liberodiscrivere, Genova
2013, pp. 147, € 12,00.
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Nazario Pardini Alleggerire il peso della vita per trasferirlo in cielo
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PROSPEZIONI
stenziali, oltre le questioni stesse. Pur carico di voci di mare, di estensioni di terra, di vini e di pozzi, di autunni morenti, di strade di sole, o di colline dormienti, il Nostro riesce a far leggero questo
peso, volando verso cieli che sanno tanto di fede e di azzurro: «Dell’angelo ognuno sentiva / l’orma della mano sulla spalla. / L’aria di scirocco si calmava. / Diventava respiro di silenzio» (p. 13), «Sei
punto d’arrivo, o Luce. / Felicità e infinito. / Silenzio e Dio» (p. 131).
Ma è nella terra che Rescigno zuppa la
sua essenza vitale. È nel miracolo dei suoi
colori, delle sue forme, dei suoi profumi,
che si sperde e si annulla con un processo di metamorfosi spirituale di grande
impatto panico-lirico. Persino l’idea di
morte, che tanto l’assilla, si azzera al primo palpito del giorno: «La prima parola del giorno il vento. / E se ne vanno i
morti dal pensiero» (p. 129), «Non hanno casa i poeti. / Vegliano il sonno del
sole, / seduti sotto il cielo» (p. 119).
È in questi giochi naturalistici che riesce
a trovare l’alimento indispensabile per
dare vigoria visiva alla sua anima. Perché:
«Siamo mare aria terra / viaggi di pensiero / cuori delusi affacciati / alla finestra della notte. / Per prendere forza dalla vita / le rubiamo gli occhi» (p. 45).
E il memoriale ha doppia faccia; assume
un significato di dicotomico aspetto: da
un lato di sofferenza per assenze e sottrazioni, dall’altro di conforto, di riavvicinamento a persone care, a momenti gioiosi, a episodi basilari del vivere e dell’esserci. D’altronde il Nostro sa che la vita
è fuggevole, che l’attimo è fugace, e che
siamo fili d’erba in preda alle intemperie, in uno spazio di luci ed ombre di effimera durata: «… ed è mio l’esilio d’un
grillo / confinato dall’estate / su un ramo
sfrondato / a cantare l’ultimo dolore
d’autunno. // Entro senza accorgermene straniero / nel silenzio di un’altra stagione» (p. 11), «mi manca il tepore delle tue ginocchia / la terra sterminata dalla speranza / su cui lasciavi andare a larga / mano il magico seme della vita» (p.
75), «Mi pare d’annusare il tuo profumo
/ nel ricordo. Dove si nascondeva / la cicala lo raccoglievano / passando i tuoi
panni» (p. 93).
Escono con fluidità ed energia sonora
quei grovigli interiori decantati nel tempo. Vogliosi di rivivere. Di riprendere i
loro corpi negli orizzonti marini, nelle distese dei campi, o nel solatìo delle vigne;
coscienti, anche, che nei cieli, solo nell’immensità dei cieli ci sono: «supermercati di fiori / e tutti i giorni le anime / se
ne inghirlandano il capo. / Si festeggia
il compleanno / di ogni profumo» (p. 81).
Sì!, questo è Rescigno, questo è il suo
mondo e questa è la sua poesia. Una versificazione che abbraccia ogni ambito dell’animo umano. E anche se il discorso appare spesso terreno, troppo terreno e anche se si aggrappa con slanci spirituali
all’oltre, pur tuttavia, è il profondo senso della sacralità della vita a fare della
sua arte un poema edificante. Tanto è
vero che sente questo bisogno continuo
di ripescare il passato, di riattualizzarlo, quasi per annullarsi, e riprendere fiato dopo una corsa senza respiro; sì!, per
annullarsi in stormi di primavere: «Quando sei arrivato al traguardo / e t’accorgi che la vita / è stata una corsa senza
respiro / vorresti che ti ripassassero sul
capo / tutti gli stormi delle primavere /
per poterne ascoltare le voci / e vederne i lanci in picchiata».
Gianni Rescigno, Sulla bocca del vento,
Il Convivio, Castiglione di Sicilia 2013, pp.
136, € 14,00.
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CRITICA
di Mario Napoli
I primi incontri di Guido Alimento con l’arte risalgono all’infanzia, quando la mamma gli fece ascoltare Beethoven e lo accompagnò a Brera,
dove fu colpito dalle luci alpestri di Segantini.
Nato a Macerata nel 1950, ha compiuto l’intero corso degli studi a Genova, laureandosi in filosofia. Non ha seguito la strada dell’insegnamento in quanto sentiva l’esistenzialismo di Heidegger come una sollecitazione alla concretezza ed entrò in banca.
Accantonò la filosofia ma non l’arte trascorrendo molti week-end tra
mostre e musei; ancora oggi sfoglia il catalogo della rassegna su Chagall a Palazzo Pitti, tenutasi nel 1978.
Nonostante l’Italia si stesse liberando da un certo provincialismo, la
mentalità dominante stentava a riconoscere valore artistico alla fotografia, di cui Alimento era già appassionato.
Guizzare di pesci, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Epson Enhanced matte
poster board, 60x90
Guido Alimento
GUIDO ALIMENTO
UNA VITA CON LA FOTOGRAFIA
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CRITICA
Guido Alimento
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Misticismo tra i carrugi, 2012, foto con elaborazione digitale su carta Epson Luster, 75x50
Il senso del barocco, 2012, foto con elaborazione
digitale su carta Epson Luster, 75x50
Fortunatamente il lavoro l’aveva portato
vicino a Venezia dove, a palazzo Fortuny,
era stato appena inaugurato uno spazio
esclusivamente fotografico.
In quegli anni frequentava anche la dimora di Peggy Guggenheim, collezionista e mecenate di pittori contemporanei,
che il sabato pomeriggio apriva gratuitamente la sua casa-museo.
Proprio a Venezia si tenne nel 1979 la prima rassegna italiana dedicata esclusivamente alla fotografia. Dominava il bianco
e nero in quanto la tecnologia di allora non
offriva alternative di qualità. Per di più il
colore veniva esternalizzato nei laboratori, ragion per cui molti fotografi preferivano stampare da sé in bianco e nero.
Alimento ricorda: “Ho sentito mia la scelta di Ansel Adams di vivere a Yosemite
come guardaparco; in effetti i suoi scatti hanno trasfigurato quelle vallate pur
non straordinarie paesaggisticamente. Ho
subito intuito la piena artisticità di quei
documenti”.
Nel 1990 fu trasferito a Milano dove prese a frequentare la libreria Hoepli. Allora
esistevano libri tematici illustrati piuttosto che lavori sulla fotografia, quindi
preferiva spulciare testi critici di pittura
e di poesia; un personale “cammino verso il linguaggio” sulle orme di Heidegger.
Nello stesso periodo fece amicizia con un
fotografo “vero” che gli insegnò a inquadrare, trasmettendogli il rigore di una
professione e convincendolo che la qualità del mezzo, per quanto importante,
non sempre comporta il salto di qualità
desiderato; infatti uno scatto è frutto anche dell’istinto, di un pizzico di cultura
e della ... fortuna: la tecnologia aiuta fino
a un certo punto e gli automatismi possono trasformarsi in boomerang.
Compì diversi viaggi durante i quali riprendeva preferibilmente le persone.
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CRITICA
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Guido Alimento
Sculture di ghiaccio - anatre minacciate dai fucili, 2011, foto con elaborazione digitale su carta Epson
Luster, 50x75
Comprese quanto la fotografia fosse considerata fuori dall’Italia. Negli Stati Uniti, per esempio, diversi musei ne esibiscono le collezioni accanto ai capolavori di pittura.
Si innamorò dell’Estremo Oriente: “Durante la crociera lungo il fiume Li pioveva di continuo. Ma questo evento, di norma considerato una iattura, si trovava in
quieta sintonia con la corrente e dava lucentezza alla vegetazione e alle rocce.
Volli tornare il giorno dopo col bel tempo, per rendermi conto che in definitiva
il sole pieno banalizza”.
Così gli venne incontro il Tao, una saggezza opposta agli stereotipi occidentali, secondo la quale l’uomo non è al di sopra
degli altri elementi della natura. Conseguentemente il suo agire deve conformarsi ad essa mantenendosi umile cioè tendendo al basso; allo stesso modo dell’acqua, sempre diretta a valle in quanto igno-
ra di essere l’essenza della vita. Il Tao argomenta che, per contenerla, qualsiasi recipiente non può che essere vuoto.
Sospinto da quell’esperienza, Alimento ha compiuto una decina di viaggi tra
Cina e Giappone, soffermandosi sugli
spazi vuoti che enfatizzano il soggetto di dipinti e stampe come sulle scenografie del teatro Noh.
Dopo il pensionamento, avvenuto nel
2007, egli è ritornato a Genova e ha acquistato una macchina digitale, iniziando a fotografare a tempo pieno.
Senza mancare di rispetto verso quei colleghi che per anni hanno lavorato con l’analogico, pensa che il sistema digitale abbia
messo i fotografi sullo stesso piano, con particolare riguardo a elaborazione e stampa:
tutti hanno dovuto ripartire da zero.
Così prosegue: “Il digitale facilita la ripresa offrendo possibilità di controllo prima impensabili, come l’impostazione di
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Guido Alimento
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CRITICA
luci e ombre e il bilanciamento del bianco, cioè l’essenza della fotografia. I programmi di elaborazione aprono un mondo alla creatività del fotografo, permettendogli di gestire l’intero processo fino
alla stampa o di decidere se un’immagine chieda il bianco e nero o il colore, entrambi di qualità inimmaginabile prima.”
Senza trascurare servizi di altro genere,
attualmente segue soprattutto l’arte
della natura, il suo creare casuale e
spontaneo capace di dispensare con indifferenza vita o morte, armonia geometrica o contrasto insanabile; follia di colori o assenza di tavolozza. Sente con forza l’aspetto sacrale di questa sovranità:
“Lascio che sia lei a dipingere o a scolpire e, dinanzi alla sua assoluta impre-
di poesia tuttora viva in Giappone che non
descrive gli eventi naturali i quali, al contrario, compaiono grazie a flash fugaci,
suoni improvvisi, odori inaspettati.
Alimento è convinto che la fotografia si
trovi in sintonia con la letteratura, con
l’ermetismo soprattutto, e per questo motivo è attento al titolo dei suoi lavori, dando spesso ad essi un senso simbolico.
Fotografa ovunque anche se la montagna
ha dato inizio alla sua ricerca.
Spiega: “Non una cima da conquistare ma
un ambiente che restituisce luci ineguagliabili, soprattutto quando si riflettono
sulla neve.
Qualche anno fa, durante un pomeriggio
luminoso di fine inverno, stavo steso su un
sentiero innevato a riprendere alcune fo-
Scultura di mare, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag 308 (digigraphie), 40x60
vedibilità, mi sembra opportuna la rinuncia a uno stile personale.”
Nel saggio “La camera chiara” Roland Barthes paragona un click agli haiku, forma
glie morte quando una camminatrice si è
fermata domandando se mi sentissi bene…
Ritornato in città ho saputo di un concorso indetto da Satura, in seguito al quale una
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CRITICA
gistrata. D’altra parte la post produzione (sviluppo e stampa) è nata con la fotografia, ben prima del digitale.
Stavo riprendendo, al tramonto, un
lago bordato da un canneto. Luci e om-
Concerto di mare, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle Barita, 40x60
gari frammenti di cose visti sotto nuova luce. Si è soffermato sulle concrezioni di ghiaccio e sulla spuma delle onde
cogliendovi effimere sculture, non di rado
visibili solo attraverso il teleobiettivo. Ne
ha rispettato la magia, ritoccando appena il file originale, nonostante la flessibilità del sistema digitale consenta interventi ben più invasivi.
Dice a questo proposito: “Non è necessaria una scelta a priori fra le due alternative. Alcune foto esprimono compiutamente il sentire dell’autore, quindi non
necessitano di particolari ritocchi.
Talvolta al contrario sento che la natura mi sospinge a celebrarne la creatività senza limiti, al di là dell’immagine re-
bre erano perfettamente equilibrate, ma
un lieve gorgoglio proveniente dal fondale ha segnalato la presenza invisibile di alcuni pesci. Così grazie al colore
di Photoshop ho dipinto la loro sagoma,
facendoli affiorare non solo visivamente ma anche dal punto di vista uditivo
e musicale.
In sostanza tendo a creare immagini di
per sé polisensoriali, alla ricerca di una
strada parallela alla multivisione la quale propone proiezioni di fotogrammi contemporaneamente all’ascolto di poesia e
musica”.
è convinto che, per restare se stessa, la
fotografia debba rimanere fedele all’impronta registrata dal sensore e non oltre-
Guido Alimento
foglia si è trovata esposta presso la Galleria omonima. Per me, una svolta”.
Lui gioca sull’estrema flessibilità della fotografia che può esaltare sia eventi o personaggi di rilievo sia scene minimali, ma-
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CRITICA
Guido Alimento
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Tra bianco e nero e colore, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag 308
(digigraphie), 30x45
Tra bianco e nero e colore, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag 308
(digigraphie), 30x45
Storia di un amore - primo incontro, 2013, foto con
elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo
rag 308, 30x45
Storia di un amore - epilogo, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag
308, 30x45
passare la soglia della comprensione immediata della realtà. Ciononostante essa
è chiamata a giocare al confine tra icona, sogno e astrazione. Un po’ sulla scia
di Nolde il quale tuttavia dovette usare
magistralmente il pennello, mentre la
macchina fotografica sembra fatta per lavorare su quel crinale.
In parallelo al culto della natura, Alimento si è impegnato in un progetto nel centro storico genovese, in omaggio alla sua
città dopo decenni di assenza: le edicole affacciate agli angoli dei carrugi, in particolare quelle sbrecciate e spesso svuotate della statua a causa di furti e vandalismi. Un modo, anche, di evocare l’uomo e la città.
Riascoltando il Tao, egli ha intravisto nel loro
vuoto non tanto il venir meno del simbo-
lo cristiano quanto l’apertura a un senso religioso universale e tollerante che non
esclude altre religioni quali Buddhismo o
Islam. Oggi in particolare, dato che nel centro storico i musulmani sono la maggioranza. Gran parte di quei tabernacoli ricalcano i retabli barocchi che testimoniano
la presenza di Dio sulla terra.
Dice: “Nonostante le ridotte dimensioni
e il degrado, molte edicole hanno conservato la sacralità originaria come opere
d’arte globale di architettura, scultura e,
talvolta, pittura. Dinanzi ad esse ho
sentito la fotografia in grado di affrontare non soltanto temi naturalistici, ma
anche religiosi o esistenziali”.
Nei ricci scolpiti sulle cornici di molti tabernacoli egli ha rivisto quei cavalloni avvolti su se stessi che aveva seguito dal-
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CRITICA
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Guido Alimento
Declinazioni di rosa, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag 308, 30x45
le scogliere. E mentre sentiva l’odore di
salmastro e le sirene delle navi in partenza dal Porto Antico, gli è sembrato che
quei bassorilievi classicheggianti riprendessero le movenze scultoree del ghiaccio e del mare.
In effetti Alimento è attratto dall’aspetto naturalistico del Barocco, ispirandosi non di rado al fondo scuro delle nature morte fiamminghe.
Prosegue: “Finora il tema dell’uomo l’ho
affrontato indirettamente, come in quel
porticciolo che riflette le sue case e le sue
barche. Medium perfetto tra realtà e
astrazione, l’acqua ha creato tavolozze
espressioniste e atmosfere oniriche, rispecchiando tensioni, ansie e preoccupazioni
universali, non solo di chi vive e lavora in
quell’ambiente. La superficie liquida appa-
riva satura di blu, quindi rombo di motori, frullio di eliche, sciacquio di remi e voci
umane si sono sciolti in un blues.”
Dunque un fotografo deve essere attivo
e passivo insieme; fulmineo dinanzi
agli stimoli ma lasciando anche che lo
scatto avvenga da sè; spesso è un click
felice ad avviare un progetto.
è un artigiano che utilizza macchinari e
programmi. Al tempo stesso fa filosofia
essendo chiamato ad armonizzare spazio (inquadratura e profondità di campo) e tempo di scatto.
Conclude: “Quale creatore di immagini,
sono convinto di dover dialogare con le
altre arti. Senza complessi di inferiorità,
ma consapevole di tenere in mano uno
strumento culturalmente giovane mentre pittura, musica e poesia sono radica-
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CRITICA
Guido Alimento
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Il ciclo della vita 1, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag 308, 30x45
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CRITICA
l’arte contemporanea, che spesso sottolinea le trasformazioni anziché la staticità dell’opus. A tale proposito gli schermi multimediali ad elevata risoluzione,
recentemente apparsi sul mercato, sono
in grado di accogliere fotogrammi singoli o multipli; si tratterebbe di una scelta
che evita le criticità di dialogo tra programmi informatici e stampa cartacea.
Tuttavia mentre attendo con trepidazione che la stampante la rilasci, sento la carta come qualcosa di irrinunciabile; e spesso la palpo prima della verifica. Soprattutto, sono convinto che la scelta di un
supporto appropriato arricchisca l’immagine con una patina di unicità”.
Nella pagina a fianco:
Sagome di pesci, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Epson Enhanced matte poster board, 60x90
Il ciclo della vita 2, 2013, foto con elaborazione digitale su carta Hahnemuhle photo rag 308, 30x45
Guido Alimento
te nell’uomo fin dai primordi. Così è possibile affrontare una criticità che ancora oggi persiste: il collezionismo appare focalizzato sull’antiquariato e sui
maestri, mentre l’attualità è spesso ignorata. Infatti la fotografia viene percepita come un documento troppo facilmente riproducibile anche se, come molti colleghi, tendo a limitare al massimo se non
a eliminare del tutto le duplicazioni.
Nonostante diverse tipologie di supporto digitale (in particolare se stampate in bianco e nero) possano raggiungere il secolo di vita, in genere una foto da
l’idea di qualcosa di fragile ed evanescente. In questo essa si trova in sintonia con
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Francesca Costa
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VETRINA
FRANCESCA COSTA
CREATURES
di Elena Colombo
Francesca Costa sfrutta la rapidità del tratto per percorrere il sentiero
precario dell’allegoria. I protagonisti di queste illustrazioni sono omini
ripetuti, con i lineamenti irregolari di una serie di pietre antropomorfe.
Le “Nuove Creature” ricalcano quelle di Jim Morrison perché si emancipano dalla “tristezza animale” e rinascono sotto forma d’insetti o
come saggi rettili “figli del silenzio” che fagocitano continuamente se
stessi. Nel processo che degrada la mitopoiesi al livello di routine, non
ci sono appigli fissi e il frantumarsi dei singoli elementi sembra rispecchiare l’assurdità del presente. I corpi si modificano, si allungano,
annullano ogni riferimento alle proporzioni accademiche per sfiorare
la metamorfosi d’ispirazione kafkiana. Certo, non c’è l’immediata ur-
Errori, china su carta
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VETRINA
Francesca Costa
genza delle vignette del palestinese Naji
al-Ali, perché l’assenza di parole lascia
l’interpretazione al campo del simbolismo puro, ma è evidente l’importanza
del linguaggio che smaschera i meccanismi del sistema dominante e ferisce con
la potenza di un’arma. A ben guardare,
quindi, la satira può diventare politica,
ma la prima impressione rievoca il nonsense di Lewis Carroll, come se i gemelli
del Wonderland si fossero fusi con Bill,
il servitore sul quale ricadono gli aspetti
umoristici del fraintendimento lessicale.
Come nei post-it disegnati da John
Kenn, “i mostri sono una finestra su un
altro mondo” che si trasforma in caricatura del nostro. La semplicità della linea
in bianco e nero sposa le inquietanti mascotte di Gary Baseman all’eleganza
retrò di Edward Gorey, capace di passare dal gotico cupo alla stranezza dei
poemetti felini di T. S. Eliot. Il protagonista è la persona comune – a metà tra
il banale e il freak – mediatore fra il trascendente e l’infimo, figlio di Andy
Capp filtrato da un immaginario dark di
tipo scenografico. Nelle fiabe è tutto
In fieri, china su carta
Sick, china su carta
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possibile e così l’individuo crea una sequenza aleatoria basandosi su un’esperienza soggettiva che determina anche
la discriminate della comunicazione visiva. Il pubblico entra all’interno di una
gerarchia fluida ma riconoscibilissima,
in cui ogni oggetto si rompe con violenza, trovando una collocazione e un
significato inedito.
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Sibilla Fanciulli
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VETRINA
SIBILLA FANCIULLI
CITTÀ NELL’OBIETTIVO
di Andrea Rossetti
Sibilla Fanciulli possiede una concreta abilità nel costruire un linguaggio metaforico ricorrendo a pochi elementi oggettivi. Riversata nello
scatto fotografico tale prassi comporta la forte concettualizzazione
del reale, selettivamente scremato dall’artista per estrarne una comunicazione efficace e immediatamente comprensibile.
Dato per indiscusso un procedimento di elaborazione fotografica che
acquisisce porzioni di realtà per farne un proprio oggetto speculativo, va altresì sottolineato come questo stesso procedimento introduca prepotentemente i prodromi di una passione estetica calibrata sul
rapporto immagine/contenuto. Questi traspaiono in modo ottimale dalla struttura ripetitiva - forse infinita - di catene, mezzi di costrizione
dal grande potere simbolico; ma anche oggetti/soggetti di una scissione su più livelli dell’indagine stilistico-estetica inerente l’istantanea,
Dark town, 2012, fotografia digitale su tela, 40x40
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VETRINA
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Sibilla Fanciulli
Beautiful Venezia, 2013, fotografia digitale b/n, 50x70
che ha inizio dall’azione percettiva delle proporzioni e degli spessori formali,
passa per l’intreccio verticalità/orizzontalità e termina in una riflessione basilare circa i valori cromatici, plastici, luministici annessi alle forme.
Sui medesimi valori la Fanciulli si concentra per “scolpire” la sua Genova, città sintetizzata nella singolarità di un caruggio
caratteristico e desertico, luogo occludente ideale per accompagnare il fluire solitario di presenze singolarmente intese.
Benché aperto, lo spazio urbano si riduce ad una scatola di mattoni e intonaco
oscurata dalla sua stessa ombra, un
tunnel ormai arcaico che nonostante tutto resiste al tempo e alla soggettività di
chi si trova a percorrerlo. Tesa è l’enfasi conferita alla dipendenza/contrasto tra
buio occludente e luce (di fatto) liberatoria, che porta la Fanciulli verso uno
scatto privo di addolcimenti di sorta, convincente nella brutalità autentica della
sua riproposizione.
Brevissimo e totalmente naturale il passaggio dall’uomo-presenza unica, stret-
Questa è Zena…, 2012, fotografia digitale su tela,
40x40
to nei vicoli della propria città, all’anonimia sfacciata di quello nascosto dietro
l’atomica fragilità del vetro acidato, proscenio di una trappola soffocante e
spersonalizzante, dove nulla ha più valore narrativo di una sinestesia applicata al ricordo formale (umano).
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Simona Milani
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VETRINA
SIMONA MILANI
IL CORPO A NUDO
di Andrea Rossetti
Produrre fotografia che non sia destinata ad essere operazione puro-visiva, o puro-estetica solo nei casi migliori, vuol dire guardare alla fotografia riconsiderandola a partire da una solida relazione tra immagine
e significato dell’immagine. Questo porta direttamente a riflettere sull’uso binato - artistico (l’immagine in sé) e meta-artistico (tutti i suoi con-
Kneel, 2013, fotografia digitale
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VETRINA
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Simona Milani
Kontakt, 2013, fotografia digitale
tenuti extra-forma) - tipico di Simona Milani e del suo modo di concepire il rapporto col mezzo fotografico; che nella
pratica equivale ad osservare il corpo
umano senz’altro quale formula estetica,
ma anche in quanto forma partecipe e
consapevole dei propri movimenti, icona
della sessualità e corrispettivo di un piacere fisico entrato a far parte anch’esso
della sua rappresentazione oggettiva.
Esplicitamente fuori da qualunque controllo autocensorio poiché integralmente
immersa nella glorificazione del corpo e
della persona, Simona Milani è l’anticonvenzionale ancella di un erotismo passionale, eccitante e morboso come un
chiodo fisso. è lei che partecipa ed è sempre lei a disporre un gioco di ruoli ben
definiti, dove lo spettatore è sempre il voyeur cui s’impone come unica regola la
rinuncia nei confronti del formalismo affettato, del perbenismo endemico assimi-
lato come sentimento comune da una mirabolante società di uomini e donne abituati a ritrovarsi nelle immagini, ma
spesso (ipocritamente) a non riconoscersi
nelle stesse.
Dal nudo artistico, pressoché “confezionato”, la Milani ha ricavato la versione di un nudo post-aulico non
edulcorato, grezzo nella bella mostra
di sé e delle proprie pulsioni. Tanto naturalmente sovversivo da trovare il suo
punto di fusione col più sovversivo
degli artisti - Caravaggio - in un primo
piano che fa propria la spiccata laicità
della Crocifissione di San Pietro per esibire sfacciatamente un corpo umano
nella sintesi di fondoschiena e piedi,
sfoggiando tutta la straordinaria bellezza carnosa di uno studio attento all’epidermica azione chiaroscurale, in
perfetta sintonia coi principi operativi
del maestro lombardo.
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Mario Tonino
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VETRINA
MARIO TONINO
OPERA D’ARTE TOTALE
di Elena Colombo
I lavori di Mario Tonino sono poliedrici perché si svolgono a tuttotondo, attraverso la compenetrazione di diversi piani che trascendono l’idea
di spazio per balzar fuori con la potenza della materia. Dalla pittura
alla scultura fino alle installazioni, il colore assume un carattere fisico che, richiamando le concezioni cromatiche e geometriche di Klee
e di Mondrian, scopre nuove possibilità, linee curve e angolazioni inedite. Qui l’arte racconta, rappresenta, sintetizza, plasmando le suddivisioni di Picasso e rendendole più oniriche. In ogni possibile aspet-
Ritratto di Italo Guerino Peretto, 2009, olio su plastica, 90x70
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VETRINA
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Mario Tonino
L’acquario, 2012, pigmenti (ossidi) ad olio di lino crudo su legno, 50x100
to creativo emerge l’interattività della
produzione/fruizione dell’opera. Mentre
l’artista si sporca le mani per generare
le figure della propria immaginazione, lo
spettatore è invitato a percepire la consistenza degli elementi, entrando in
contatto diretto con una serie di metafore integrate in una realtà da decostruire. La chiave per completare il rompicapo dell’oggettività sfuggente delle forme
è nella poesia che, elaborando un linguaggio visivo oltre che semantico, consente una profonda consapevolezza del
presente. L’attualità tocca la memoria sociale. Si tratta di un procedimento cognitivo che trova due ipotetiche corrispondenze: da una parte i brasiliani membri
del cosiddetto Gruppo del Novecento, che
accostavano la tridimensionalità alle
parole per comunicare significati impen-
sati; dall’altra, un autore tedesco come
Wolf Vostell, ispiratore del movimento
Fluxus. I poliuretani e le tinte – accese e
sognanti oppure minimali – sono l’evoluzione logica del concetto wagneriano
di “opera d’arte totale”, in cui convergono tutte le declinazioni di rappresentazione. Seguendo questo filone sino a impiegarlo nell’ambito della critica, se il teatro e il circo non sono finzioni ma
esemplificazioni della vita, l’artificio
dell’invenzione plastica si spiega con un
accostamento di frammenti che danno
origine a un insieme unico, fatto tanto di
divergenze quanto d’intersezioni. Ciascuna composizione sfrutta il quotidiano in
maniera metafisica, diventando specchio
dell’esperienza dell’Uomo, essere dalla
natura imperfetta, che si realizza solo in
un infinito esercizio di moltiplicazione.
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Luisa Urgias
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VETRINA
CALLIGRAFIA:
“ART” O “CRAFT”?
di Luisa Urgias
Non meno di quindici anni fa pensavo che la calligrafia fosse una pratica estremamente noiosa e probabilmente inutile: stare lì per ore a
scrivere asticelle o parti di lettere o lettere intere e parole al solo scopo di scriverle “bene”con pennini che volevano simulare gli antichi pennini usati centinaia di anni fa ... inutile perdita di tempo, ci sono i computer che possono farlo per noi molto velocemente!
Poi un giorno ho visto dei lavori di embossing (a rilievo) su carta, di
lettere in corsivo inglese, esposti a Staranzano (GO) ed è scattato il classico colpo di fulmine: erano meravigliosi, attiravano lo sguardo e sembravano estremamente difficili da realizzare, fatti alla perfezione, incredibili!
Dovevo sapere come si facevano!
In realtà sarebbe bastata, forse, qualche lezione di embossing, ma mi
dissero che dovevo fare calligrafia prima (per poter scrivere quelle lettere), e così ho partecipato al mio primo corso con Kathy Frate, a Staranzano. è stato l’inizio di un lungo percorso.
Artist-book2 (libro d'artista in copia unica),
inchiostro sumi giapponese e mallo di noce su carta Arches Velin
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VETRINA
Molti studenti di calligrafia sono frustrati dal fatto che il loro progredire è molto più lento di quanto si aspettassero. Ma
questo è così per ogni mestiere che valga la pena di essere padroneggiato. E la
calligrafia non è da meno: richiede molta, molta concentrazione e altrettanta pazienza.
E così quel corso da principiante è stato
solo l’inizio di una lunga serie di studi, sia
delle antiche forme delle lettere, sia della storia della scrittura, e sia in Italia che
all’estero. La materia mi appassionava (a
me, laureata in matematica...che lavoro in
un centro di calcolo...) e ho proseguito,
compresi due anni di lavoro continuo con
una insegnante inglese (Gaynor Goffe),
conseguendo due diplomi, foundation e
intermediate, in Inghilterra, e lavorando
contemporaneamente su materie artistiche come acquerello, composizione, collage, studio di autori moderni e contemporanei, doratura, pittura materica, pittu-
Luisa Urgias
Water, collage, aero-color, foglia d'argento, calligrafia
americana su tela, cm 30x30
ra astratta, ecc.: mi serviva, io non ho un
background di scuola d’arte. Dopo aver
raggiunto una buona conoscenza degli
antichi stili calligrafici, mi sono orientata verso la calligrafia moderna: oggi la calligrafia non è più soltanto studio delle
forme antiche, ma anche un percorso per
trovare nuove differenti forme e nuove
scritture.
Ma alla fine neanche questo è sufficiente: perché bisogna scrivere seguendo regole dettate da altri secondo le loro scritture? O secondo le regole dettate dal passato, e quindi utilizzando solo linee “calligrafiche”? Perché non utilizzare la
propria scrittura e provare ad esprimerla imprimendovi energia e forza nostre,
e non secondo le regole di altri? O
esplorare altri diversi tipi di scrittura,
come quelle orientali (arabe giapponesi,
indiane)? Facendo ovviamente attenzione agli spazi, alla composizione, a ... tutto ciò a cui fa abitualmente attenzione
un pittore quando dipinge.
E alla fine, non ci stiamo forse orientando verso un’arte calligrafica? Ossia una forma d’artein cui compaiono delle scritture, antiche, moderne, astratte. Arte calligrafica: parole grosse per l’occidente,
abituato a vedere da sempre la calligrafia
solo come forma di artigianato, ma non per
l’oriente, se pensiamo che lì la calligrafia
“è” prima di tutto arte! In oriente la calligrafia è il fondamento della pittura: un pittore lì deve prima essere un bravo calligrafo! E questo da migliaia di anni! Non è forse così strano, quindi, se finalmente, anche in occidente la calligrafia inizia ad essere considerata una forma di arte (anche
se ancora da pochi) e non solo come una
mera forma di artigianato (craft) legata alla
realizzazione di partecipazioni di matrimonio o diplomi. Come la pittura la calligrafia richede la padronanza del tratto,
l’immediatezza del gesto, la continuità del
ritmo, il controllo dela pressione sul pennino/pennello, e in più è estremamente difficile fare ritocchi o correzioni.
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Profili d’artista - percorsi d’arte contemporanea
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P R O F I L I D ’ A R T I S TA
PROFILI D’ARTISTA
PERCORSI D’ARTE CONTEMPORANEA
a cura di Mario Napoli
testi critici di Elena Colombo e Andrea Rossetti
Satura Editore, 416 pp.
Numerose sono le pubblicazioni interessate ad approfondire il sempre vivo campo dell’arte contemporanea, anche perché tanti sono gli
artisti che operano oggi sul territorio italiano. Tra queste s’inserisce
Profili d’artista - percorsi d’arte contemporanea, e lo fa nel segno delle differenze sostanziali, puntando sulle peculiarità contenutistico-formali di un volume nato in congiunzione con il lavoro e l’esperienza
ventennale di SATURA art gallery nel settore della proposta artistica
a livello nazionale.
è dal 1994 infatti che SATURA art gallery dedica il proprio interesse alla
produzione artistica contemporanea, presentandola al pubblico tramite numerose e sempre
nuove iniziative. E oggi,
attraverso questo volume, percorre con convinzione la realistica
possibilità di portare
in evidenza i tratti salienti che configurano
una ricognizione di ampio respiro, progettata
tenendo fisso in mente
che qualsiasi rapporto
di reciprocità col proprio territorio d’appartenenza - di fatto un legame ineludibile, specialmente per una galleria d’arte - non dovrebbe mai presentarsi
o ricadere in forma di
ottusa sopraffazione
campanilistica.
Quanto fin qui affermato consente di poter
comprendere al meglio
lo scopo fondante e
fondamentale con cui
Profili d’artista è stato
concepito, che è nello
specifico quello di
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P R O F I L I D ’ A R T I S TA
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Profili d’artista - percorsi d’arte contemporanea
esporre parte del vasto panorama nazionale, vagliato e selezionato tra quelle personalità che per lo staff critico di SATURA art gallery rappresentano nel migliore dei modi il mondo dell’arte, soprattutto quando tra le mura di Palazzo Stella si
cita la parola “contemporaneo”. Un panorama in costante evoluzione, per natura
dichiaratosi libero da svilenti mode passeggere e concentrato sui contenuti, sul-
la possibilità quindi di contenere al proprio interno una potente coralità di singolari azioni artistiche, a volte univoche,
altre volte palesemente impostate a partire da un substrato collettivo, formulate ogni volta in maniera creativa e autonoma. Un panorama che pertanto va
pensato come complesso unico e al suo
interno debitamente multiplo, che dimostra tutta la sua preminente vastità solo
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P R O F I L I D ’ A R T I S TA
Profili d’artista - percorsi d’arte contemporanea
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nel momento in cui ci si sofferma ad analizzarne le sostanziali differenze di valori tematici ed estetici, spesso così intrigantemente distanti tra loro. Siamo di fronte ad un autentico patrimonio da preservare per dare spazio alla sua valorizzazione
attiva, ma che non meno dev’essere massicciamente incentivato perché alla produzione di contenuti validi possa di pari passo seguire una giusta e adeguata promozione degli stessi. E anche a questo si vuole
puntare con il progetto Profili d’artista.
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P R O F I L I D ’ A R T I S TA
Mario Napoli vive e lavora tra Genova e Milano. Ha frequentato il liceo scientifico e la facoltà di medicina e chirurgia. Opera nel campo dell’arte dal 1975; è pittore, direttore artistico e critico d’arte. Partecipa a numerose
mostre personali e collettive ricevendo importanti riconoscimenti e premi. Nel 1994 fonda a Genova SATURA,
centro per la promozione e la diffusione delle arti, della quale è Presidente. In vent’anni di attività per l’Associazione, cura una serie di mostre seguendone i progetti dal punto di vista critico e organizzativo. Crea legami e collaborazioni con critici, galleristi e promotori culturali nazionali e internazionali. Spazia dalla critica alla
filosofia, dalla letteratura alla musica, dal marketing alla
psicologia della comunicazione. Tra le collaborazioni figurano nomi di spicco come Achille Bonito Oliva, Gillo
Dorfles, Gabriele Perretta, Vincenzo Accame, Rossana
Bossaglia, Gio Ferri, Enrico Baj, Aldo Giorgio Gargani, Giulio Giorello, Franco Loi, Edoardo Sanguineti, Gina Lagorio, Giuseppe Conte, Bàrberi Squarotti e tanti altri ancora. è curatore del Concorso Nazionale SaturArte, della Biennale GenovArte e del Premio SaturaPrize dedicato ai giovani under 40. è fondatore e direttore della rivista SATURA, trimestrale di arte letteratura e spettacolo nonché ideatore del premio di poesia e narrativa
inedita “Città di Genova” e del Festival della Letteratura del Crimine. Sotto la sua guida l’Associazione Culturale SATURA raggiunge grandi traguardi imponendosi
come una delle realtà più rappresentative della Regione Liguria, con oltre 1.800 iscritti, 520.000 visitatori, 620
mostre d’arte visiva (pittura, fotografia, disegno, installazioni, video), 135 concerti musicali, 416 presentazioni di libri, 105 conferenze e 90 recital. Tutto ciò senza
dimenticare le attività sociali rivolte all’esterno dell’Associazione a favore di Anlaids e dell’Istituto Giannina
Gaslini. Nel 2008 organizza Genova Meets Easton,
American Art Festival, rassegna ospitata nei locali di Palazzo Stella, presentando oltre 80 artisti selezionati insieme a Karl Stirner. Nel 2009 organizza The Wall, mostra internazionale itinerante in occasione del ventennale della caduta del Muro toccando molte città dell’est
europeo: Polonia, Estonia, Lituania, San Pietroburgo e Berlino. Nel 2010 fa parte del comitato selezionatore dell’VIII Festival Internazionale d’Arte Sperimentale svoltosi nel prestigioso centro fieristico dello spazio Manege di San Pietroburgo. Dal 2011 fa parte della commissione organizzatrice del Present Art Festival di Shanghai
e di numerosi altri comitati artistici; promuove e seleziona artisti per diverse fiere mercato dell’arte contemporanea: ArteGenova, ArtePadova, Affordable Art Fair,
Photissima Art Fair, Parigi e Shanghai. Nel 2012 e 2013
riceve la Medaglia del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano per la realizzazione del premio nazionale d’arte contemporanea SaturArte. Nel 2014 inizia una stretta collaborazione come art director del nuovo spazio milanese Milan Art&Event.
Profili d’artista - percorsi d’arte contemporanea
IL CURATORE
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Fiera Mercato ArteGenova
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S AT U R A A R T G A L L E R Y
-
I N I Z I AT I V E P E R G L I A R T I S T I
LE INIZIATIVE
DEDICATE AGLI ARTISTI
SATURA art gallery è lieta di presentare le iniziative di prossima programmazione a cui sono invitati a partecipare gli artisti e gli appassionati d’arte. Per aderire agli eventi che stiamo organizzando o
ricevere maggiori informazioni, contattare il presidente Mario Napoli
che curerà personalmente i progetti espositivi.
FIERA MERCATO ARTEGENOVA
14 – 17 febbraio 2014
Fiera di Genova – Padiglione Blu
La fiera mercato ARTEGENOVA 2014 si svolgerà a Genova – Italia, dal
14 al 17 febbraio ed è indirizzata ad ARTISTI interessati a promuovere la propria immagine in una prospettiva di crescita professionale
e di mercato.
Genova, dal 14 al 17 febbraio 2014, ospita la X edizione di ARTEGENOVA 2014 - Mostra Mercato dedicata all’Arte Moderna e Contemporanea. Con questo importante evento ormai consolidato, la città ha
dimostrato di essere in grado di mantenere nel tempo il ruolo conquistato nel 2004 quando venne proclamata Capitale Europea della Cultura, completando degnamente un calendario che si ripete ogni anno
ricco di grandi mostre d’arte figurativa, di spettacoli teatrali e musicali, di importanti convegni scientifici internazionali. Tutto nella cornice suggestiva di una città sospesa tra i monti e spinta ad occupare
lo spazio del mare, crocevia di merci e di incontri da 2600 anni, scenario dinamico di fermenti sociali e culturali in una cornice di splendidi palazzi pubblici e nobiliari che si affacciano sul Porto Antico.
Genova si è sempre dimostrata molto sensibile all’arte contemporanea, come testimoniano la riuscita delle iniziative ad essa dedicate, la
presenza di numerose gallerie d’arte e le iniziative pubbliche sempre
più frequenti.
ARTEGENOVA è l’unica mostra mercato d’arte moderna e contemporanea del Nordovest, risultando il punto di riferimento per il settore artistico dell’intera area geografica d’azione. Nel 2013 più di 32.000 tra
collezionisti, appassionati e operatori del settore, hanno visitato la fiera,
un trend costantemente crescente rispetto agli anni precedenti.
Deadline per la partecipazione ad ARTEGENOVA
Padiglione Centrale (dedicato alle gallerie) 30 dicembre 2013
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S AT U R A A R T G A L L E R Y
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I N I Z I AT I V E P E R G L I A R T I S T I
6 – 9 marzo 2014
Superstudio Più - Milano
Dopo il successo della scorsa edizione, SATURA art gallery ritorna a
Milano per partecipare alla IV edizione della Fiera di Arte Contemporanea Affordable Art Fair, che si svolgerà nella prestigiosa location di
Superstudio Più, in via Tortona – Milano da mercoledì 5 marzo (inaugurazione) a domenica 9 marzo 2014.
Affordable Art Fair celebra il suo quarto anno a Milano con una nuova
ed entusiasmante edizione: una selezione di gallerie provenienti da
ogni parte del mondo e un coinvolgente programma di eventi correlati. La formula di Affordable Art Fair è semplice e unica: un ambiente
rilassato e non convenzionale e molta arte contemporanea di qualità.
I prezzi contenuti, l’ampia e variegata scelta di opere d’arte, da
stampe di noti artisti, a sculture di giovani emergenti fino a pitture
di affermati professionisti, fanno di Affordable Art Fair una fiera dove
chiunque può trovare qualcosa che rispecchia i propri gusti, indipendentemente dalle proprie conoscenze artistiche.
SATURA art gallery, per rendere riconoscibile il proprio marchio e
distinguersi dalla vastità di proposte in mostra, presenterà in questa
occasione SATURA Collection. L’idea consiste nel presentare una visione unica di tutti le opere in promozione, una sorta di “camera delle
meraviglie” dove il visitatore potrà di fatto trovare l’opera giusta per
arricchire la sua collezione. Per la partecipazione sei invitato a realizzare un numero minimo di 4 opere. Le opere dovranno essere realizzate su una tela rigorosamente del formato 24x24 cm e dello
spessore di 2 cm. Tema e tecnica sono liberi. Ogni singola opera sarà
montata, a cura della galleria, su un supporto ligneo bianco di 40x40
cm, in modo da uniformare le opere e allo stesso tempo mettere in
rilievo ogni singolo pezzo. Potranno essere prese in considerazione
ipotesi di partecipazione personalizzate.
Deadline per la partecipazione Affordable Art Fair
15 gennaio 2014
Lo stand di Satura presso ArteGenova
Lo stand di Satura presso Affordable Art Fair
Affordable Art Fair
AFFORDABLE ART FAIR
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Present Art Festival
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S AT U R A A R T G A L L E R Y
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I N I Z I AT I V E P E R G L I A R T I S T I
PRESENT ART FESTIVAL
luglio 2014
Biblioteca Nazionale di Pudong – Shanghai
La VI edizione di PRESENT ART FESTIVAL SHANGHAI 2014, fiera
d’arte mercato contemporanea che rientra tra le più importanti nel
panorama artistico internazionale, si svolgerà in Cina a partire dal
mese di luglio 2014.
La fiera è indirizzata ad ARTISTI interessati a promuovere la propria
immagine in una prospettiva di crescita professionale e di mercato.
PRESENT ART FESTIVAL, luglio 2014, Shanghai – Cina, è molto di più
di un evento artistico, il Present Art Festival non coinvolge soltanto
gli attori del mondo dell’arte, ma offre anche la possibilità a imprese
ed aziende di affacciarsi sul mercato cinese. Privilegiando una filosofia di apertura reciproca alla comunicazione e agli scambi culturali
ed economici, il Present Art Festival ha tra i suoi principali obiettivi
quello di promuovere l’arte, la cultura e le eccellenze dei singoli Paesi,
ponendo le basi fondamentali per un dialogo costruttivo tra Oriente
e Occidente. Attraverso la progettazione di mostre, eventi promozionali, forum e conferenze, il Present Art Festival è un momento d’aggiornamento sullo stato dell’arte contemporanea e un’importante
occasione di contatto con il pubblico cinese e con le opportunità che
la Cina odierna offre.
Deadline per la partecipazione Present Art Festival
15 gennaio 2014
Per informazioni ed iscrizioni:
SATURA art gallery - direttore artistico MARIO NAPOLI
Piazza Stella 5, 16123 Genova - 010 246 82 84 / 338 291 62 43
www.satura.it - [email protected]
SATURA UNO GENOVA
https://www.facebook.com/satura.genova
SATURA SATURA DUE
http://www.facebook.com/satura.saturadue
SATURA pagina fan
http://www.facebook.com/pages/Satura/141976902504385
23-2013 colore_Layout 1 12/12/13 17:36 Pagina 91
I V P R E M I O D I P O E S I A E N A R R AT I VA I N E D I TA
“ S AT U R A -
C I T T À D I G E N O VA ”
IV PREMIO DI POESIA E NARRATIVA INEDITA
“SATURA - CITTà DI GENOVA”
Deadline 30 gennaio 2014
La rivista “SATURA arte letteratura spettacolo” è lieta di annunciare la quarta edizione del Premio letterario “Satura – Città di Genova”. Un concorso a tema libero e aperto a tutti, finalizzato a dare visibilità all’attività creativa perché riteniamo che la Parola scritta (e letta) sia un mezzo importante per trovare nuove strade, crescere e confrontarsi con la realtà. Per la prima volta, il Premio “Satura – Città di Genova” si apre anche alla narrativa, affiancando la consueta sezione dedicata alla poesia.
è possibile concorrere al Premio “Satura – Città di Genova” con tre poesie inedite, composte in lingua italiana, ciascuna di lunghezza non superiore ai quaranta
versi o con un racconto inedito in lingua italiana, della lunghezza massima di 10.000
battute (spazi inclusi). Gli elaborati dovranno essere spediti o consegnati presso
l’Associazione Culturale Satura (Piazza Stella 5/1 - 16123 Genova, entro e non oltre il 30 gennaio 2014 in dieci copie di cui solo una corredata di nome, cognome,
indirizzo, numero telefonico, recapito e-mail e una breve biografia (massimo 1.000
battute) che verrà utilizzata in caso di pubblicazione.
Per l’ammissione al concorso è richiesto un contributo di euro 20,00 per le spese di segreteria ed organizzazione, da versare:
• in contanti direttamente in sede
• con bonifico bancario intestato a: Associazione Culturale Satura, Banca Intesa, Viale Causa 2 - Genova (IBAN IT36 P030 6901 4041 0000 0019 187)
• con vaglia postale intestato a: Associazione Culturale Satura, Piazza Stella 5/1 16123 Genova
• con assegno circolare non trasferibile intestato all’Associazione
In caso di mancata selezione, il contributo non sarà restituito.
La Giuria, presieduta da Giorgio Bárberi Squarotti e composta da Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone, designerà a suo insindacabile
giudizio le composizioni.
I testi dei primi 10 classificati di ciascuna sezione saranno pubblicati sulla rivista “SATURA arte letteratura spettacolo” e divulgati attraverso i canali informativi di SATURA. Oltre ai 20 vincitori, verranno individuati 30 autori segnalati in
occasione della cerimonia di premiazione. Sarà facoltà dell’organizzazione valutare la possibilità di una pubblicazione, indipendente alla rivista.
La partecipazione al concorso costituisce espressa autorizzazione alla pubblicazione, senza scopo di lucro, dei testi premiati o segnalati e all’uso dei dati
anagrafici esclusivamente ai fine delle comunicazioni inerenti al Premio, nel
rispetto del d.lgs. 196/2003 circa la tutela dei dati personali. Le composizioni inviate non verranno restituite.
IV Premio di poesia e narrativa inedita - “Satura - Città di Genova”
SATURA - RIVISTA TRIMESTRALE
DI ARTE LETTERATURA SPETTACOLO
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Andando per mostre
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ANDANDO PER MOSTRE
ANDANDO PER MOSTRE
JOSEF ALBERS SuBLimE OPticS
Un’affascinante mostra articolata in due
sedi - promossa dalla Josef & Anni Albers
Foundation e dalla Fondazione Stelline celebra a Milano Josef Albers (Bottrop 1888
Josef Albers, Park
– New Haven/USA 1976), artista tedesco
esponente del modernismo e del Bauhaus
(che nel 1933 è costretto a chiudere per la
repressione nazista).
Presso le Stelline la prima monografica a lui
dedicata da Milano - dopo circa 80 anni da
quel 1935 in cui Kandinskij, amico e
collega del Bauhaus, gli organizza nella
città meneghina un’esposizione di stampe
presso la galleria Il Milione - analizza
l’aspetto spirituale della sua arte
derivatogli dal cattolicesimo di cui ha
assimilato il linguaggio figurativo
considerando colore e tratto momenti
spirituali, quasi mistici.
78 opere - dal primissimo schizzo fino
all’ultimo Omaggio al Quadrato - con rari
disegni giovanili, vetri sabbiati, colorati e
dipinti astratti, connotati da un pensiero
puro e onesto e dalla certezza di potere
di Wanda Castelnuovo
modificare il quotidiano in modo
miracoloso, raccontano il suo iter spirituale
e artistico esaminando le raffinate
sperimentazioni con la luce attraverso
l’utilizzo di colore, linee e forme con il
risultato di inventare nuovi meravigliosi,
sublimi e geniali misteri.
Splendido il gioco cromatico di Parco (Park)
dai vetri policromi organizzati con rigore
compositivo e insieme sentimento del
colore.
Non un percorso cronologico, ma
un’articolazione basata sui tre strumenti
primari (linea, forma e colore) della pratica
artistica per identificare secondo Albers il
sublime: le diverse serie sono perciò
decontestualizzate allo scopo di accostate
le opere in modo omogeneo.
La seconda esposizione presso l’Accademia
di Brera illustra gli innovativi metodi di un
insegnamento fatto con entusiasmo,
passione e creatività come dimostrano 100
tra documenti, libri, materiale didattico e
foto che raccontano di un geniale Maestro
di geometrie, colore, forma, linee e senso
dell’equilibrio e che ha “insegnato a vedere”
con consapevolezza colori e luce.
↪ JOSEF ALBERS Sublime Optics
Milano: Fondazione Stelline, Corso Magenta 61
10.00 – 20.00 da martedì a domenica
lunedì chiuso
Fino al 6 gennaio 2014
Biglietto mostra: intero € 8.00, ridotto €
6.00, ridotto scuole € 3.00
Informazioni: 02 45462411, www.stelline.it
↪ imPARARE A VEDERE. Josef Albers
professore, dal Bauhaus a Yale
Milano, Accademia di Brera (Sala
Napoleonica), Via Brera 28
9.00 – 18.30 da lunedì a venerdì
9.00 – 14.00 sabato
Info: www.accademiadibrera.milano.it
Fino al 1 dicembre 2013
Cataloghi: Edizioni Josef & Anni Albers
Foundation
cittÀ iNViSiBiLi
DODici ARtiSti PER itALO cALViNO
In occasione dei 90 anni dalla nascita di
Italo Calvino (Santiago de Las Vegas/Cuba
1923 – Siena 1985) - ligure per l’origine
della famiglia paterna e per crescita
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ANDANDO PER MOSTRE
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Andando per mostre
Plinio Mesciulam, Senza pietre non c'è arco
essendo vissuto dall’età di 3 anni a
Sanremo - uno dei maggiori intellettuali del
secolo scorso, la Fondazione Mario Novaro
(con sede a Genova) lo celebra con
un’intrigante mostra (arricchita da incontri
mirati) curata da Walter Di Giusto e
realizzata in collaborazione con
l’Accademia Ligustica di Belle Arti nella cui
sede è ospitata.
Dodici tra artisti e gruppi contemporanei di
varie tendenze si sono ispirati alle città
invisibili, uno dei capolavori di Calvino,
distanti nel tempo e nello spazio, anzi che
esistono in virtù del racconto per parole e
per immagini.
L’esposizione - insignita della ‘medaglia del
Presidente della Repubblica’ e patrocinata
da Comune di Genova, Regione Liguria e
Università di Genova - vede opere di Maria
Rebecca Ballestra, Piergiorgio Colombara,
Walter Di Giusto, Mario Dondero, Luca
Forno, Raffaele Maurici, Giuliano Menegon,
Plinio Mesciulam, Raimondo Sirotti, Luiso
Sturla, Lara Stuttgard e Gruppo Wabi che
hanno interpretato in modo originale
attraverso diverse tipologie di media
(pittura, fotografia, architettura,
installazione, video e flash sulla moda,
aspetto complementare alla città) le
calviniane città reali smembrate e riviste in
chiave onirica e città surreali e simboliche.
Rappresentazioni tutte degne di menzione
come quella di Mesciulam che ben esprime
la duplicità, aspetto costitutivo delle città
di Calvino e dell’idea di esattezza: l’opera
in legno e pietra con le arcate alternanti
pieni e vuoti diventa il‘ ponte delle energieforze impegnate.
In luogo del catalogo, un numero del
quaderno de La Riviera Ligure quadrimestrale della ‘Fondazione Mario
Novaro’ che ha ripreso nel 1990 la
tradizione letteraria di Mario Novaro di
inizio ‘900 - è dedicato all’opera e alla
figura di Calvino analizzato da saggi critici
e da approfondimenti sugli artisti che
hanno partecipato alla mostra.
↪ cittÀ iNViSiBiLi
Dodici artisti per italo calvino
Genova: Accademia Ligustica di Belle Arti,
Largo Alessandro Pertini 4
(Piazza De Ferrari)
14.30 – 18.30 da martedì a sabato
domenica e lunedì chiuso
Fino al 23 novembre 2013
Biglietto mostra + Museo: € 3.00
Informazioni: Fondazione 010 5530319,
[email protected]
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I libri di Elena Colombo
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
I LIBRI
di Elena Colombo
BARBABLÙ
Amélie Nothomb
Voland, 103 pp., 14 €
Forse “Barbablù” potrebbe
essere il seguito o il
completamento ideale di
“Diario di Rondine”, dove un
pony express si trasforma in
serial killer e s’innamora di
una delle sue vittime. Il nuovo
libro di Amélie Nothomb è la
modernizzazione dell’antica
leggenda di Gilles de Rais, il
nobile che uccideva le sue
mogli. Qui comunque più che
gli elementi di una discutibile
fiaba dell’orrore, si ritrovano
le caratteristiche del
personaggio del film si
Georges Meliès con un
pizzico del gusto linguistico
di Raymond Queneau (la
traduzione di Monica Capuani
è sempre eccellente). Si
sbaglia chi vede superficialità
nella brevità del romanzo: in
poche pagine l’autrice belga
concentra le sue riflessioni
sull’amore, sull’arte e persino
sulla fede / fiducia. Se “Né di
Adamo né di Eva” ci aveva
abituati al tratteggio di un
ritratto di coppia quanto
meno sbilanciato, questo
testo sembra voler
estremizzare lo scompenso
portandolo alle sue
conseguenze ultime,
lasciando cioè che il binomio
passione e fotografia coincida
con quello più universale vita
e morte. Recentemente la
scrittrice ha lasciato il
microcosmo squisitamente
personale per gettare uno
sguardo all’esterno attraverso
una libera reinterpretazione
dei dilemmi classici della
psicologia. Si parte dalla
dimensione più privata
dell’individuo, la camera
oscura, la “stanza tutta per
sé” inviolabile di cui parlava
già Virginia Woolf con il suo
proto femminismo e si arriva
a un discorso di ampiezza
generale incentrato sul
fascino del segreto. Ecco
allora il piacere della
citazione colta e l’attenta
descrizione del dettaglio
cromatico sono al totale
servizio del racconto e il
richiamo al simbolismo di
Khnopff pare riprendere il
filo della storia interrotta con
“L’Entrata di Cristo a
Bruxelles”, ispirata da un
noto quadro di James Ensor.
BELKA
Hideo Furukawa
Sellerio, 442 pp., 16 €
Apprezzato in patria come
uno degli autori più
innovativi del panorama
letterario contemporaneo e
vincitore di numerosi premi,
Hideo Furukawa sbarca anche
in Italia con un romanzo
originale e ambizioso che
rilegge in maniera inedita
cinquant’anni di storia
globale. Il XX secolo, il secolo
della guerra è anche l’era dei
cani e, partendo da questa
prospettiva animale, l’autore
compone un complesso
puzzle che tocca diversi punti
sul mappamondo. Lo stile
essenziale, ironico e nervoso
che richiama le migliori
pagine di London, spiega i
grandi sconvolgimenti bellici
e le tensioni mondiali che
hanno strutturato le
comunità come noi le
conosciamo. Non esiste solo
l’Uomo, anzi i veri
protagonisti delle vicende che
hanno modificato gli assetti
geo-politici del Novecento
sono i cani. Unità speciali
negli eserciti, esemplari scelti
dalla malavita, mute da slitta:
i giapponesi hanno sempre
avuto un amore particolare
per i loro amici a quattro
zampe, fino a celebrarne il
valore riconoscendogli doti
morali imprescindibili – basta
pensare alla statua di Hachiko
all’uscita della stazione di
Shibuya o i monumenti che li
trasformano in veri eroi
nazionali al pari dei kamikaze
della Seconda Guerra
Mondiale. Dal punto di vista
narrativo, si tratta di un
espediente simile a quello
usato dal fumettista Jirô
Taniguchi che raccontava
l’emozione primordiale di
Blanca che – trasformata in
un essere a metà tra il mostro
e la divinità – è capace di
trascendere gli artefici
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I LIBRI DI ELENA COLOMBO
DUE IN UNO
Sayed Kashua
Neri Pozza, 350 pp., 19 €
“L’uomo si dimostra
intelligente solo quando riesce
a disfarsi di ogni identità”,
non ci si può basare solo sui
nomi, che non sempre
consentono di distinguere la
comunità d’appartenenza. Il
pensiero illuminato prescinde
dalle tradizioni, specie in una
società complessa come
quella d’Israele. è un territorio
difficile, dilaniato e conteso,
dove – più che in ogni altro
luogo al mondo – si
materializza la semplicistica
teoria dello “Scontro di civiltà”
profetizzato da Huntington.
Due mondi che cercano di
trovare degli spazi di dialogo
o almeno di convivenza, due
realtà apparentemente
separate, ma avvicinate da
una moltitudine di sfumature
che rendono labili i confini.
Quando un avvocato scopre
un biglietto scritto dalla
moglie a un altro uomo, tutte
le sue convinzioni
progressiste si sgretolano
nell’ossessione che lo riporta
alle radici campagnole, di cui
si vergogna davanti agli amici.
Parallelamente, un giovane
assistente sociale arabo entra
nell’universo di Yonatan, il
ragazzo ebreo di cui si prende
cura dopo “l’incidente” che
l’ha costretto a letto –
inespressivo ma forse
consapevole. Sempre più
affascinato dalle possibilità di
un ambiente distante,
occidentalizzato, artistico
comincia a sfogliare i libri del
suo paziente, ad ascoltare i
dischi, a osservare gli oggetti
della villetta in cui alloggia.
Inizia così a leggere ciò che lo
circonda attraverso la
macchina fotografica del
giovane, rivelando i segreti
delle persone che ritrae e
contemporaneamente
confondendo ulteriormente la
propria autorappresentazione,
immedesimandosi totalmente
nell’Altro, modificando il
proprio percorso fino a
scomparire, sentendosi uno
straniero ai suoi stessi occhi.
In “Due in uno”, i personaggi
vivono le loro lotte interiori
come pallidi echi del dramma
nazionale, come se questo
fosse lontano o estraneo agli
individui, e contassero solo le
piccole cose quotidiane dalle
quali ogni volta riparte la
costruzione perfetta dei
tasselli narrativi. Sayed
Kashua racconta il bisogno
d’integrazione con una forza
espressiva corale, a volte
ironica, differente dallo stile
asciutto, tragico e quasi
teatrale di “E fu mattina”: in
questa nuova prova d’autore
si apre su un palcoscenico più
ampio che, frazionato al suo
interno, vorrebbe guardare al
panorama globale.
IL GIARDINO DELLE NEBBIE
NOTTURNE
Tan Twan Eng
Elliot, 375 pp, 18,50 €
“Un giardino prende in
prestito dalla terra, dal cielo,
da tutto ciò che c’è intorno,
noi invece prendiamo in
prestito dal tempo”. Lo
shakkei è l’arte di riprodurre
scenari e paesaggi nel
microcosmo del giardino ma
anche gli esseri umani
seguono lo stesso principio
mimetico, costruendo la
propria personalità su una
serie d’impressioni basate
sulla percezione soggettiva
del mondo esterno. Tuttavia
tale rappresentazione può
essere ingannevole e sfuggire
alle classificazioni. Questi
sono gli insegnamenti che
Nakamura Aritomo – ex
giardiniere dell’Imperatore,
maestro delle xilografie e dei
tatuaggi tradizionali – lascia
alla sua apprendista, il giudice
in pensione Teoh Yun Ling
che, abbandonando la frenesia
di Kuala Lumpur per tornare
alle piantagioni di tè della sua
giovinezza, decide di
riallacciare i fili della memoria
I libri di Elena Colombo
dell’addestramento. Anche in
Belka troviamo un doppio
canale di mitopoiesi: da un
lato le persone cercano nelle
bestie il simbolo dell’ideale
nazionale; dall’altro si
riafferma la supremazia di un
sentimento senza nome, più
forte di qualsiasi coercizione.
Venendo meno la supremazia
indiscussa della razza umana,
gli individui si rispecchiano
nell’Altro – totalmente
diverso eppure affine – si
fondono con ciò che è
differente alla ricerca della
chiave per azzerare il tempo
ed entrare in un’era zero. Non
si tratta della fondazione di
un’utopia: il nuovo mondo,
come il vecchio, è spesso
crudele e non ammette
debolezze ma Thomas
Hobbes insegna che, in
mancanza di un contratto
sociale, prevale l’istinto, il
brutale bisogno di
sopravvivere che pone tutti i
viventi di fronte alla sfida con
la Natura.
95
23-2013 colore_Layout 1 12/12/13 17:36 Pagina 96
I LIBRI DI ELENA COLOMBO
visione esotica che ci hanno
regalato le avventure di
Salgari. Alla fine, nella
struttura narrativa rimangono
degli interrogativi perché nel
romanzo, come in altre forme
di creazione, dev’esserci uno
spazio vuoto a dimostrare che
l’opera non è mai del tutto
compiuta.
I libri di Elena Colombo
96
per contrastare la minaccia di
un’afasia degenerativa che
cancellerà progressivamente il
significato delle parole.
L’inchiostro fa fluire i suoi
pensieri e, attraverso le pagine
del racconto, i frammenti del
passato si rincorrono in un
gioco di specchi in cui i
protagonisti cambiano, così
come mutano le lingue e le
ideologie ma, trascendendo i
pregiudizi, la forza dei
sentimenti e l’orrore della
guerra restano invariati. Il
meccanismo di ponti sospesi
è simile a quello impiegato da
Todd Shimoda nel suo “Il
Calligrafo” ma, in questo caso
il puro segno linguistico si
trasforma in modo visibile e
concreto, raggiungendo la
perfezione della casualità
ricercata. Lo scrittore Tan
Twan Eng – vincitore del Man
Asian Literary Prize 2012 –
compone un mosaico
ricchissimo, con la poesia di
descrizioni naturalistiche che
rivaleggerebbero con
l’eleganza dei film del regista
vietnamita Tran Anh Hung.
Man mano che la storia
procede, si scoprono le
tessere di un puzzle
affascinante, che rimanda il
lettore alla complessità di una
realtà altra, una realtà storica
e sociale che va ben oltre la
IL SIGNORE DEGLI ORFANI
Adam Johnson
Marsiglio, 554 pp., 19 €
“Nella Corea del Nord ciò che
conta non è l’uomo ma la sua
storia”. Questa è la questione
centrale in un libro
affascinate, che getta luce su
una delle realtà socio-politiche
più allucinanti e sconosciute
del mondo. Dopo un lavoro di
ricerca giornalistica durato
ben sette anni, Adam Johnson
dà voce ai cittadini di un
Paese dalla “guerra sospesa”
dove, tra il gigantismo
paranoide e il culto della
personalità esasperato, si
percepiscono i segni lasciati
da quel confine tracciato
arbitrariamente, una ferita che
– come ha mostrato il regista
sudcoreano Kim Ki-Duk – è
rimasta aperta dalla fine
formale del conflitto. Le
frontiere determinano i ruoli e
i nomi dei protagonisti sono
geniali e simbolici: l’attrice
Sun Moon, simbolo nazionale
del regime, nell’arte e nella
vita non può scegliere i
copioni mentre Jun Do è un
individuo senza identità che
tenta di trovare i suoi
fantasmi per poterseli
scrollare di dosso. A questo
scopo – per costruire il suo
sogno futuro – impara a
muoversi nel buio dei tunnel
sotto la zona smilitarizzata e
a destreggiarsi con il cuore
oscuro del mondo. Leggendo
le avventure delle squadre in
missione nei cunicoli o le
tragedie dei campi di lavoro, è
inevitabile pensare agli
Invisibili descritti in maniera
allegorica nel romanzo “La
Fine del Mondo e il Paese delle
Meraviglie” del giapponese
Haruki Murakami – che
facevano sparire i malcapitati
che si perdevano nel labirinto
della metro abbandonata – o
addirittura agli inquietanti
Ciechi di Ernesto Sábato,
perché “la brutalità serve, ma
solo se usata in senso tattico,
nel corso di un rapporto
prolungato con il soggetto”.
L’ex rapitore professionista,
l’ex spia-marinaio diventa il
Comandante Ga e assume una
nuova posizione soltanto
indossando una divisa, come
una figura tragica. è qui che la
finzione e la verità – tanto
difficili da raccontare quanto
da ascoltare - si toccano,
deformandosi nella
propaganda, nel ricordo o
nella biografia raccolta da un
anonimo “addetto agli
interrogatori”, che compila
libri per una biblioteca
perduta. Il Signore degli
Orfani è un meritatissimo
premio Pulitzer, in bilico tra il
reportage e una narrativa
piena d’immagini forti dallo
sconvolgente impatto visivo.
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