DULCES MUSAE Collana diretta da Marco Ariani e Ornella Moroni 6 Direttore Marco A Università degli Studi Roma Tre Comitato scientifico Lucia B R Università di Pisa Francesco B Università della Calabria Mario C Università degli Studi di Torino Simona C Università degli Studi Roma Tre Anna D Università degli Studi di Firenze Alfredo P Université de Franche–Comté SIMONE TARUD BETTINI LUCE, AMORE, VISIONE L’ottica nella lirica italiana del Duecento Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–5987–6 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: aprile 2013 . . . ante nos plurimi tractaverunt huius scientiae negotium, perspectivorum nomine. . . Witelo, Perspectiva Amor è un desio che ven da core per abundanza de gran plazimento, e gl’ ogli en prima genera l’amore e lo core li dà nutrigamento. . . Giacomo da Lentini, Amor è un desio . . . sicut radius qui audet solem post se relinquere. . . Anonimo, De educatione Veggio negli occhi de la donna mia un lume pien di spiriti d’amore, che porta uno piacer novo nel core. . . Guido Cavalcanti, Veggio negli occhi INDICE Prefazione 9 Introduzione 13 i. La Scuola Siciliana 17 ii. I Toscano–Siculi 53 2.1. Guittone, 58 – 2.2. Bonagiunta, 71 – 2.3. Chiaro, 80 – 2.4. Monte Andrea, 98 – 2.5. Maestro Rinuccino e Maestro Francesco, 121 – 2.6. Conclusioni, 139. iii. Gli Stilnovisti 141 3.1. Guinizzelli, 153 – 3.2. Cavalcanti, 186 – 3.2.1. Suggestioni luministiche, 197 – 3.2.2. L’interiorità dell’amante, 219 – 3.2.3. Donna me prega, 239 – 3.2.4. L’assenza di mercede. Conclusioni, 264 – 3.3. Lapo Gianni, 270 – 3.4. Cino, 279 – 3.5. Conclusioni, 296. Appendice 301 Bibliografia 303 Testi antichi e medievali, 303 – Contributi critici, 306. Indice dei nomi 315 7 Questo libro vuole essere la rielaborazione e correzione di una buona parte della tesi di dottorato pensata, scritta e discussa al dipartimento di Italianistica di Bologna tra gennaio 2007 e giugno 2010. Al termine di questo lavoro, desidero ringraziare di cuore chi mi ha accompagnato fin qui, sia durante i tre anni del dottorato (che è stato per me, sotto tanti aspetti, un percorso di crescita), sia durante la messa a punto di queste pagine, incoraggiandomi a terminarle e a chiamarle davvero “libro”. Il primo ringraziamento è per la mia famiglia, che mi ha sostenuto con il suo affetto sempre, soprattutto nei momenti di maggiore fatica e difficoltà. Il secondo è per Giuseppe Ledda, che ha letto con grande attenzione e pazienza queste pagine, correggendole e suggerendone la messa a punto, incoraggiando il lavoro; e per Emilio Pasquini, che ha fatto altrettanto, apprezzandole. Ringrazio poi Zyg Baranski, Carlo Delcorno e Ambrogio Camozzi per l’invito a continuare. Il terzo ringraziamento va ai colleghi ed amici del dipartimento di Italianistica di Bologna, specialmente Anna, Elisa, Nicolò, Katia, Rossana, per le discussioni (letterarie e non) e il reciproco sostegno; grazie a Francesco Ferretti e Stefano Cremonini per l’attenzione che mi hanno prestato su un sonetto di Monte particolarmente difficile. Il quarto ringraziamento (ma solo nell’ordine di questo elenco) è per tutti gli amici della Croce del Biacco. Un ringraziamento speciale va al gruppo animatori, che ha reso bellissime e intense le ER 2008–2010, che mi ha fatto sentire importante, e che ho l’onore di veder crescere e appassionarsi a un progetto comune. Prefazione Tra i filoni di ricerca più interessanti di questi ultimi anni, nell’àmbito dantesco, va annoverato lo studio delle tematiche visive e luministiche, specie all’interno della Commedia. Simon A. Gilson e Patrick Boyde hanno indagato le possibili fonti, quanto alla perspectiva, presenti al poeta, riprendendo osservazioni formulate a suo tempo da Alessandro Parronchi e studiando i diversi luoghi del poema che possono rientrare nel campo dell’ottica. A loro volta, Marco Ariani e Diego Sbacchi hanno sottolineato lo stretto legame fra le metafore luministiche o dello specchio (asse portante del Paradiso) e l’opera di Dionigi Areopagita e di altri autori del neoplatonismo cristiano, riconducibili alla cosiddetta metafisica della luce. (E qui entra in gioco anche il De luce di Bartolomeo da Bologna, nel solco dei sondaggi di Maria Corti). Entrambe le direzioni d’indagine conducono alla medesima conclusione: fondamentale risulta, nell’opera di Dante, la presenza dell’ottica, scienza della visione e della luce, che assume nel medioevo latino il ruolo di paradigma della conoscenza, con una precisa valenza metafisica. Una disciplina, insomma, in grado di rivolgersi tanto alle realtà immutabili (Dio–luce, gli angeli, l’azione dei cieli) quanto alle realtà mutevoli, oggetto di studio della fisica sublunare. Da Avicenna ad Alhazen, da Roberto Grossatesta a Ruggero Bacone, le conoscenze della perspectiva giungono fino a Dante, il quale se ne serve sia come repertorio di immagini, sia come strumento descrittivo per il racconto dell’aldilà, sia come cardine del poema stesso. Tuttavia Dante non è l’unico, fra i poeti del suo tempo, a subire la fascinazione dell’ottica o dei temi della luce, con l’annesso repertorio di immagini. Se è infatti legittimo concentrare l’attenzione sull’opera del poeta più celebre fra quelli nati nel XIII secolo, altrettanto giu9 simone tarud bettini – luce, amore, visione sto è fissare lo sguardo su chi l’ha preceduto, per sottrarlo all’ombra spesso ingombrante dell’illustre successore, mostrando cioè che anche quest’ultimo deve qualcosa a chi è venuto prima di lui: in altre parole, Dante si inserisce in una tradizione compatta e articolata. A questa, dunque, mira principalmente la monografia di Simone Tarud Bettini, che, muovendosi all’interno della lirica duecentesca, ne analizza da vicino i rapporti di feconda collaborazione con la perspectiva, mostrandone il valore e l’originalità dispiegati in quest’àmbito. Di fatto, i risultati di tale indagine si rivelano di estremo interesse, pur nella rinuncia a osservazioni su quei testi e quei duecentisti che, per economia di spazio, Tarud Bettini ha dovuto necessariamente relegare ai margini dell’analisi: non senza adombrare il progetto di un ideale completamento del percorso qui tracciato proprio con l’indagine dell’opera dell’Alighieri ante 1300, quello delle cosiddette rime giovanili e della Vita Nova, vertice e summa dello stilnovismo dantesco. Nel primo capitolo dello studio di Tarud Bettini è confermato anzitutto il primato “scientifico” della Scuola Siciliana, e in particolare del suo più celebre esponente, Giacomo da Lentini, capace di trarre dall’ottica, pionieristicamente, autentici motivi di poesia e di farne lo strumento di indagine scientifica dell’amore, specialmente per il fenomeno dell’innamoramento: davvero esemplari le pagine di Tarud Bettini dedicate al Notaro. Per il resto, era già stata rilevata da altri studiosi la capacità, propria della corte fridericiana, di avvalersi delle più aggiornate nozioni scientifiche e di fare della scienza stessa un fattore lirico indispensabile, superando in questo il pur fondamentale modello occitanico. L’analisi dei testi dei maggiori poeti Siculo–toscani lascia emergere il tentativo, da parte di costoro, di affrancarsi dai modelli siciliani, unitamente alla volontà di innovarli o di trasformarli adattandoli alle mutate condizioni in cui si scrive. Nel passaggio da una realtà di corte a una realtà urbana, ora, con Guittone, si irride e si mette in discussione, ora, con Bonagiunta, sembra accettarsi il codice lirico che la Scuola Siciliana aveva costruito. In questo quadro, la scomparsa dai testi dei Siculo–toscani di molti riferimenti scientifici presenti in Giacomo e negli altri Siciliani andrà vista come una conseguenza, oltre che della dissoluzione delle fonti (di facile consultazione alla corte di Federico, meno disponibili nella Toscana comunale della metà del secolo) e del multiculturalismo della Sicilia nel primo Duecento, anche delle precise 10 Prefazione scelte compiute dai singoli rimatori. Ci si accorge in effetti che all’interno del corpus di ogni poeta l’ottica riveste un ruolo preciso, più o meno marginale o rilevante, a seconda degli orientamenti individuali, con il risultato che, nei Siculo–toscani, contano maggiormente le distinte personalità rispetto al carattere della rispettiva generazione nel suo complesso. All’interno di quest’ultima, si delineano così, nella conclusione del secondo capitolo, tre linee fondamentali di riutilizzo dell’ottica: una prima che vede in essa, ancora, un possibile veicolo di espressione dell’amore, considerato come forza positiva; una seconda che se ne serve in antitesi all’amore stesso, ritenuto un fenomeno negativo; una terza, infine, che riutilizza apertamente le nozioni della perspectiva in maniera nuova rispetto ai Siciliani, cercando di approfondire ulteriormente il dibattito sulla natura di Amore. Rilievi non meno interessanti emergono infine (e siamo al terzo capitolo), anche dalle osservazioni sulla fruizione dell’ottica nei testi dei poeti dello Stilnovo. La perspectiva consente in effetti di sottolineare, come avveniva già per i Siculo–toscani, la personalità e le scelte dei singoli poeti, specie dei maggiori; di cogliere i differenti indirizzi per ciascuno di essi, eredi in questo campo, di volta in volta, delle tre linee già individuate per gli immediati predecessori. In aggiunta alle nuove informazioni cronologiche sulla sua biografia, lo studio dell’ottica nelle sue poesie consente di confermare la poderosa novità apportata alla lirica duecentesca da Guido Guinizzelli, imitato e seguito dagli ammiratori toscani più tardi (Cavalcanti, Dante, Cino), ma già dai Siculo–toscani della generazione successiva alla prima (di Guittone e Bonagiunta), profondamente colpiti dalla poetica del Guido bolognese, nella quale è parte essenziale l’impiego dei temi luministici e visivi. Lo studio dell’ottica consente poi, analizzando il ripresentarsi di tali temi di poeta in poeta, di intravedere l’influsso (magari a posteriori negato e disprezzato dagli stessi protagonisti), proprio dei Siculo–toscani di seconda generazione (Chiaro, Monte, Maestro Rinuccino) sui fiorentini maggiori, e di osservare come Firenze divenga, nel corso del Duecento, un centro focale di propulsione lirica. Particolarmente minuziosa l’indagine condotta sulla poesia di Cavalcanti, di cui Tarud Bettini ipotizza una cronologia, o quanto meno una possibile successione interna dei diversi componimenti. Risultano in ogni caso, dallo studio dei testi del Guido fiorentino e della presenza dell’ottica al loro interno, sia il ruolo importante della perspectiva stessa come mezzo di elaborazione 11 simone tarud bettini – luce, amore, visione teorica e di espressione lirica dell’amore, sia la smentita della tesi che la produzione Cavalcantiana vada monoliticamente ricondotta alla filosofia di Averroè, sia infine il riconoscimento, nelle sue liriche, dei diversi momenti dell’elaborazione filosofica sul concetto di amore. È così confermato il ruolo fondamentale di Cavalcanti come innovatore della lirica del periodo: egli diviene, anche grazie al proprio uso dell’ottica, un importante punto di riferimento per i poeti contemporanei e immediatamente successivi (tra i quali è da ascrivere naturalmente anche Dante), in quanto esponente principale, dopo Giacomo da Lentini, del trapianto di questa scienza nella nostra lirica. Nel quadro di differenze più o meno marcate da autore ad autore, la scienza della visione e della luce si configura dunque come un altro dei possibili caratteri comuni al gruppo degli stilnovisti, da considerare insomma in sede di dibattito letterario e storiografico sulla definizione effettiva di Stilnovo: ora semplice repertorio di immagini a cui attingere, ora strumento primario di espressione di poetica e teoria amorosa, la perspectiva, particolarmente in riferimento ai temi luministici, risulta un tratto fondamentale della poesia toscana nello scorcio finale del XIII secolo. Lo studio dell’ottica, volto a saggiare le immagini luministiche e visive, si configura così come un modo per riesaminare da un privilegiato punto di vista il canone della lirica duecentesca e per ridiscutere i rapporti e le influenze (trasversali e verticali) fra i diversi poeti. Ci si apre così la possibilità di tratteggiare una sorta di “stemma” della trasmissione di questi temi all’interno della nostra lirica. Merito precipuo dello studio di Tarud Bettini, oltre queste brillanti prospettive “ecdotiche”, è tuttavia quello di dare risalto alle personalità dei singoli poeti, mettendone in evidenza le scelte e sondando possibili linee cronologiche o di pensiero all’interno di ogni singolo corpus. Il che equivale a valutare l’opera degli autori del Duecento indipendentemente dalle scelte di Dante, riformulando con nuove ragioni storiche il canone di quella poesia. Emilio Pasquini 12 Introduzione La lirica italiana, come è noto, nasce nella prima metà del XIII secolo alla corte di Federico II su impulso dello stesso sovrano, che vede nella poesia uno strumento per accrescere il proprio prestigio: ha inizio così la vicenda letteraria della nostra lirica d’amore, tenuta a battesimo da un gruppo di poeti colti, giudici e notai al servizio dello stesso Federico. La Scuola Siciliana, a cui si deve l’invenzione di un modello poetico dotato di precise caratteristiche, sarà apprezzata e imitata dai poeti di tutta Italia, in particolare da quelli di area toscana, che ne recepiranno il codice lirico facendolo proprio: dapprima riproponendolo nei suoi tratti essenziali, poi riadattandolo al contesto urbano e comunale della seconda metà del secolo, infine rinnovandolo, con lo stil novo, costruendo un linguaggio lirico e un modello poetico prima inediti. Dalle prime prove dei Siciliani, fino a Cavalcanti e Dante, il Duecento è per la lirica italiana un secolo di continua sperimentazione e trasformazione. Negli stessi anni in cui nasce la poesia amorosa in volgare, sempre presso la corte di Federico II e ancora in funzione di prestigio culturale, si coltiva lo studio approfondito delle scienze: l’Imperatore stesso è appassionato di matematica e astronomia, e ama intrattenersi coi dotti ed essere da loro erudito. Tra le scienze coltivate alla corte di Sicilia vi è anche l’ottica, scienza della visione e della luce, che affascina moltissimo i sapienti del XIII secolo, le cui origini si trovano già presso i Greci, prima di Platone e Aristotele. Molto amata dagli Arabi, che ad essa danno grande impulso nel secolo XII (e l’arabo è probabilmente una delle lingue parlate alla corte di Federico, assieme al greco), l’ottica è ben presto studiata anche al di fuori del mondo arabo, conoscendo una rapida diffusione nel mondo latino, che la 13 simone tarud bettini – luce, amore, visione rende, nel corso del Duecento, il paradigma ideale per il processo della conoscenza. Caduta la corte imperiale, sarà quella pontificia di Viterbo, nella seconda metà del secolo (fra Clemente IV e Giovanni XXI), a dare impulso agli studi di tale disciplina, promuovendo la composizione di diverse opere in materia. Lirica d’amore e scienza ottica si intrecciano alla corte di Sicilia fin da subito, grazie al fatto che i poeti Siciliani sono uomini di corte, istruiti in quelle stesse scienze che Federico promuove. L’ottica diviene, nella loro poesia, una delle caratteristiche atte a spiegare con esattezza la fenomenologia amorosa, in particolare per merito di Giacomo da Lentini. Il modello poetico Siciliano, diffondendosi in Toscana, esporterà fra le sue caratteristiche anche l’ottica, che sarà così più o meno riutilizzata nel corso del Duecento come parte del codice lirico, fino a divenire vero e proprio paradigma dell’amore. Scopo di questo studio è ricostruire tale uso presso i poeti del Duecento, osservando le modalità in cui si dispiega l’intreccio fra ottica e lirica d’amore, ovvero in quale modo i lirici si servano della scienza per dare corpo alle proprie concezioni amorose, come essa cioè si pieghi alle esigenze poetiche; e come divenga, dai Siciliani agli stilnovisti, paradigma dell’amore. Data la vastità del tema, sia per la grande quantità di fonti ottiche potenzialmente disponibili nel corso del secolo (dal Timeo di Platone, tradotto in latino da Calcidio, alla Perspectiva di Witelo, probabilmente conclusa nel 1270), sia per la grande quantità di testi lirici scritti nel Duecento, si è dovuto necessariamente porre delle limitazioni al campo di indagine, procedendo anzitutto alla suddivisione dei lirici attivi in tre grandi gruppi, Siciliani, Toscano– Siculi, stilnovisti, e limitando lo studio (soprattutto per il secondo e il terzo gruppo) ai poeti maggiori del periodo: di questi si è cercato di comprendere il valore che l’ottica assume all’interno dei rispettivi corpus poetici e nel quadro della personale concezione amorosa. Tale scelta ha comportato l’esclusione dal panorama poetico di testi non appartenenti al genere della lirica amorosa (ad esempio la poesia religiosa, o la poesia didattica di Brunetto Latini), e l’esclusione dalla trattazione di certi testi lirici (quali, ad esempio, il Mare amoroso o il corpus del cosiddetto Amico di Dante) per motivi di spazio. Tali lacune, se hanno reso questo studio forse incompleto, hanno tuttavia permesso, come si vedrà, di ricostruire precisamente distinte linee di utilizzo dell’ottica all’interno della lirica duecentesca. Data l’originalità e la vastità della sua opera, si è poi scelto 14 Introduzione di escludere dall’orizzonte di questo studio Dante per poter dedicare maggiore spazio ai duecentisti a lui precedenti e contemporanei, specie Guinizzelli e Cavalcanti, grandi innovatori della lirica dell’epoca (nella speranza di poter colmare tale lacuna dedicando presto uno studio specifico alla Vita nova, summa, in un certo senso, della tradizione lirica precedente e portatrice di usi particolari della scienza della visione). Per quanto riguarda l’ottica, infine, ci si è concentrati prevalentemente su certe fonti piuttosto che su altre, allo scopo di fornire un quadro generale delle nozioni di tale scienza nel Duecento: più che la ricerca della fonte esatta di un dato passo lirico, interessava infatti ricostruire l’intreccio fra poesia e perspectiva, osservare quali apporti la seconda possa fornire alla prima, soprattutto in materia di teoria amorosa, e ridiscutere alla luce dell’uso dell’ottica il canone letterario del XIII secolo. 15 i La Scuola Siciliana L’ottica in Giacomo da Lentini Che il legame strettissimo fra la vista e l’amore sia un topos della letteratura occidentale (e, forse, mondiale) di origine antichissima, appare un dato ovvio e pressoché incontrovertibile. Casi di amanti accesi dal fuoco dell’amore a prima vista si possono rintracciare in diversi testi della letteratura antica; volendo scegliere un esempio nella letteratura classica potremmo citare il caso di Tereo, sposo di Progne, che alla vista della sorella di lei, Filomela, si accende di una passione amorosa fin da subito incontrollabile, preludio ai tragici fatti che seguiranno: ecce venit magno dives Philomela paratu, divitior forma, quales audire solemus Naidas et Dryadas mediis incedere silvis, si modo des illis cultus similesque paratus. Non secus exarsit conspecta virgine Tereus [. . . ] Spectat eam Tereus praecontrectatque videndo, osculaque et collo circumdata bracchia cernens omnia pro stimulis facibusque ciboque furoris accipit (Ovidio, Met. vi, 451–455; 478–481)1 . Il topos compare anche nella Bibbia; dalla vista di Betsabea nasce, ad esempio, l’innamoramento di Davide: 1. Caso di innamoramento femminile dovuto alla vista è invece quello di Salmace accesa d’amore per Ermafrodito: « cum puerum vidit visumque optavit habere » (Met. iv, 316). 17 simone tarud bettini – luce, amore, visione accidit ut surgeret David de stratu suo post meridiem et deambularet in solario domus regiae. Viditque mulierem se lavantem ex adverso super solarium suum: erat autem mulier pulchra valde. Misit ergo rex et requisivit quae esset mulier, nuntiatumque ei est quod ipsa esset Bethsabee filia Heliam, uxor Uriae Hetthei. Missis itaque David nuntiis, tulit eam, quae cum ingressa esset ad illum dormivit cum ea (2 Sam. 11, 2–4)2 . Il topos della vista capace di generare l’amore è dunque ben documentato, e di antica data. Non è qui nostra intenzione ricercarne l’origine esatta, né ricostruire l’identità di chi per primo ne fece uso; il nostro intento, in questa sede, sarà invece quello di studiarne la presenza all’interno della poesia italiana nel corso del Duecento. Se l’origine di tale topos si può collocare molto indietro nel tempo, quasi alle origini della letteratura, è tuttavia il Medioevo romanzo a farne un cardine della propria produzione lirica, un vero e proprio tema chiave ripetuto infinite volte. Come è noto, in Italia la prima produzione poetica nasce nel XIII sec., grazie alla formazione della cosiddetta Scuola Siciliana3 : gravitante intorno alla Magna Curia di Federico II, essa costituisce la prima esperienza lirica di rilievo della nostra letteratura4 . Nata su iniziativa 2. Caso biblico al femminile è quello della moglie di Putifarre, che tenta di sedurre Giuseppe: « Erat autem Ioseph pulchra facie et decorus aspectu. Post multos itaque dies, iecit domina oculos suos in Ioseph et ait: “Dormi mecum!” » (Gen. 39, 6–7). Nei Vangeli si può forse rintracciare la presenza di questo topos a proposito di Dio in maniera implicita: alla vista di Gesù, indicato da Giovanni il Battista come « agnello di Dio che toglie i peccati del mondo », i discepoli subito lo seguono e si intrattengono con Lui lungamente, fatto che sottintende la nascita di un affetto (cfr. Io. 1, 35–42). Importante risulta sottolineare come il legame vista–amore sia però indicato da Paolo (in 1Cor. 13, 12–13, al termine dell’inno alla Carità) e da Giovanni (1Io. 4, 12–14). 3. Prima produzione poetica, intendiamo, in un volgare italiano, di cui sono autori poeti nati in Italia; precedente alla Scuola Siciliana è infatti il celebre discordo plurilingue del provenzale Raimbaut de Vaqueiras, contenente una strofa in italiano. Quasi contemporaneamente alla Scuola Siciliana, nel Nord Italia si afferma, come spiega V. Formentin, « un impegnativo lavoro di raccolta e vaglio della tradizione manoscritta provenzale confluito in una sistemazione libraria nuova e monumentale dell’eredità occitanica [. . . ] arricchita da un originale tentativo d’inquadramento biografico ed eziologico [. . . ] di quei poeti e di quella poesia (vidas e razos) riconducibile per gran parte all’iniziativa del trovatore Uc de Saint Circ, presente a Treviso dal 1220 circa; a tale sforzo di ricostruzione filologica si affianca nell’Italia settentrionale, dal Monferrato al Veneto, un’ampia e variegata produzione poetica in lingua d’oc, cui collaborano in prima persona trovatori italiani » (Poesia italiana delle origini. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci, 2007, p. 179). 4. L’esperienza lirica della Scuola è databile sicuramente dal 1233 in poi (cfr. V. Formentin, Poesia italiana cit., pp. 183–185), quindi dal terzo decennio del ’200 (cfr. R. Coluccia, Introduzione al vol. 3 de I Poeti della Scuola Siciliana, ed. critica con commento a c. di R. 18 i. la scuola siciliana dell’Imperatore in persona, autore egli stesso di alcuni componimenti poetici, la Scuola Siciliana si costituisce e si afferma con precise intenzioni di politica culturale. Federico vuole dare prestigio al proprio regno tramite una poesia che non utilizzi la lingua della Chiesa, contro la quale egli si scontra a più riprese, ma un volgare atto a nobilitare l’azione della Curia imperiale; come riassume Vittorio Formentin, Ad una naturale acclimatazione della poesia trobadorica nelle Corti del Nord [. . . ], si contrappone la fondazione di una poesia cortese autoctona in un volgare d’Italia, certo funzionale a un ben determinato progetto d’identità e autonomia politica del Regnum Siciliae, disegno concepito dall’imperatore in una prospettiva naturalmente sopraregionale e antifeudale, [. . . ] ad un alto livello di cultura laica, contrapposto alla cultura della Chiesa [. . . ]. E allora, proprio nella scelta di un volgare vergine d’uso letterario ma profondamente radicato nella realtà del nuovo Stato federiciano si deve riconoscere « il vero significato “politico” dell’esperienza siciliana ».5 Da tutto ciò consegue, all’interno delle poesie della Scuola Siciliana, la scelta dell’amore come esclusivo oggetto del canto: non è infatti possibile parlare di politica in un contesto culturale in cui l’Imperatore è, se non l’iniziatore, il committente della poesia stessa6 . La poesia Antonelli, C. Di Girolamo, R. Coluccia et al., 3 voll., Milano, A. Mondadori, 2008, p. xviii). Come scrive R. Arqués nella Presentazione degli Atti del convegno tenutosi all’Università Autonoma di Barcellona, 16–18 e 23–24 ottobre 1997 (La poesia di Giacomo da Lentini. Scienza e filosofia nel XIII secolo in Sicilia e nel Mediterraneo occidentale, a c. di R. Arqués, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 2000), in verità le origini della nostra letteratura « sono tuttora di per sé un problema aperto » (ivi, p. 5); ancora abbastanza recente è il ritrovamento avvenuto a Ravenna di alcuni versi d’amore in volgare precedenti le prime poesie dei Siciliani (cfr. A. Stussi, Versi d’amore in volgare tra la fine del XII e l’inizio del XIII, in « Cultura neolatina » lxiv, 1999, pp. 1–69), e il ritrovamento di un altro frammento lirico a Piacenza (cfr. C. Vela, Nuovi versi d’amore delle Origini con notazione musicale in un frammento piacentino, in Tracce di una tradizione sommersa. I primi testi lirici italiani tra poesia e musica, Atti del seminario di studi Cremona 19–20 febbraio 2004, a c. di M. S. Lannutti e M. Locanto, Firenze, Ed. del Galluzzo, 2005, pp. 3–29); cfr. poi G. Brunetti, Il frammento inedito « Resplendiente stella de albur » di Giacomino Pugliese e la poesia italiana delle origini, Tübingen, Niemeyer, 2000. 5. Cfr. Poesia italiana cit., pp. 179–185; si cita dalle pp. 180–181 (Formentin cita da F. Brugnolo, La Scuola poetica siciliana, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, Roma, Salerno ed., 1995, vol. 1, pp. 265–337, a p. 278). Sul carattere politico della fondazione della Scuola, cfr. anche L. Sciascia, Lentini e i Lentini dai Normanni al Vespro, e R. Antonelli, Problematiche di una genesi letteraria: le “origini” della Scuola Siciliana e Giacomo da Lentini (entrambi i contributi in La poesia di Giacomo da Lentini cit., rispettivamente alle pp. 9–33 e 45–57). Cfr. inoltre K. Mallette, The Kingdom of Sicily, 1100–1250. A literary History, Filadelfia, Univ. of Pennsylvania Press, 2005, p. 11. 6. Si è infatti discusso a lungo sulla precedenza cronologica di Federico II e di Giacomo da Lentini, il più celebre dei Siciliani, reputato senz’altro il caposcuola quanto ad abilità 19