Il presente documento è la versione integrale del testo redatto per la conferenza tenutasi il 10 aprile 2015 presso il
Centro Studi storico-militari “gen. G.Bernardini” di Bologna. Nel corso della conferenza, per ragioni di tempo, sono state
omesse alcune parti del testo. Il cortometraggio cui si fa cenno nel testo, è stato realizzato dalla sede RAI di Trieste nel
2012 in occasione del centenario della pubblicazione de “Il mio Carso”. Non viene allegato perché soggetto a copyright.
STORIA DI UNA FAMIGLIA, STORIA DI UNA CITTA’
La rievocazione di ricordi familiari così strettamente legati ai due principali eventi che hanno
caratterizzato il XX secolo, cioè le due guerre mondiali, non ha molto senso – a mio avviso – se,
uscendo dalla ristretta cerchia familiare, non si comprende la realtà di una città come Trieste che è
il contesto sociale e culturale in cui vissero le persone che ricorderemo questa sera.
Storia di una famiglia, quindi, ma soprattutto storia di una città.
Quest’anno si celebra il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nella Prima Guerra mondiale.
A Trieste, le commemorazioni sono iniziate, viceversa, lo scorso anno poiché, per i triestini, l’inizio
delle ostilità coincide con l’aggressione della Serbia da parte dell’Austria, la notte tra il 28 e il 29
luglio 1914.
Trieste contemporaneamente cosmopolita e nazionalista, danubiana e provinciale, piena di traffici,
di ricchezze, di miserie ma anche d’idealità di progresso, entra nel clima di guerra senza quelle
manifestazioni di giubilo – quasi si trattasse di un’allegra scampagnata di qualche mese – che
accompagnano la mobilitazione a Vienna e a Berlino.1 Il motivo non viene da una maggior
consapevolezza delle conseguenze che avrebbe portato la guerra ma dal fatto, ben più banale,
che a Trieste, a differenza del restante Impero, l’obbligo della leva era stata introdotto da qualche
decennio e la novità non era ancora ben digerita.
A Trieste, dunque, la mobilitazione scatta un anno prima che in Italia e la popolazione maschile,
arruolata nell’esercito della Duplice Monarchia, viene inviata prima in Serbia e nel Montenegro e,
poi, nei Carpazi e in Galizia.2
Già questa sfasatura cronologica segna la diversità di Trieste dall’Italia, dal Regno, com’era
chiamata l’Italia dai triestini. E, tornando all’ambito strettamente familiare, è emblematico il fatto
che, nell’estate del 1914, Gastone, fratello maggiore di Scipio e Guido, proprio mentre questi ultimi
abbracciavano la causa dell’interventismo contro l’Austria, venisse richiamato dall’esercito
austriaco e inviato sul fronte serbo.(fig. 1)
Trieste contribuirà alla guerra con oltre 30.000 uomini nell’esercito austro-ungarico e poco più di
1.000 “irredenti” che, sfidando la forca, si arruolano volontari nelle fila dell’esercito italiano.
Le due cifre non possono, naturalmente, esser messe a confronto perché una cosa è assolvere
l’obbligo della leva, altra cosa è disertare a rischio della vita. Tuttavia, resta il fatto che –
contrariamente alla retorica nazionalista – la diffusione dell’irredentismo a Trieste fu un
atteggiamento ristretto ad un’esigua minoranza del ceto medio, con qualche ramificazione nel ceto
popolare d’orientamento mazziniano o anarchico.3
Storia di una famiglia – dicevo – e anche storia di una città, ma non nel senso di identificazione
dell’una nell’altra, bensì nel senso che le due storie sono così strettamente intrecciate che non è
possibile comprendere l’una senza conoscere l’altra.
1
“Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi” è il saluto di Guglielmo II di
Prussia alle truppe che partivano per il fronte.
2
Solo un battaglione del 97° reggimento fanteria rimane nelle retrovie del Carso, poiché l’alto comando
austro-ungarico non confidava molto sulla fedeltà di truppe costituite da coscritti provenienti dalle regioni di
confine.
3
Mario Alberti, uno dei più attendibili storici nazionalisti, parla di un’adesione pari a circa il 3% della
popolazione presente a Trieste, nell’ambito del quale la presenza attiva poteva esser valutata a non più del
10% di quanti professavano ideali irredentistici. Cfr. M. Alberti: Irredentismo senza romanticismi Ist. Tip.
Cavalleri, Como 1938.
2
La singolare parabola di Trieste, dedita agli Asburgo dal 1382, “città immediata dell’Impero”4 per
augusta concessione dell’Imperatore e, come ha scritto Aldo Cazzullo in un recente articolo sul
Corriere della Sera, “inventata dagli austriaci, e dimenticata dagli italiani”5, si sviluppa tra i
tipici contrasti delle terre di confine dove la propria identità dev’esser conquistata giorno per giorno
in un continuo confronto con l’altro, con il diverso da sé.
Il richiamo alle origini romane di Trieste, su cui tanto ha insistito certa propaganda prima, durante e
dopo il ventennio, è uno dei tentativi di costruzione di un mito non corrispondente alla realtà
poiché, agli inizi del ‘700, Trieste era un misero borgo medievale di poco più di tremila anime,
governato da alcune famiglie “patrizie” le cui origini, come del resto quelle dei restanti abitanti,
poco avevano a che vedere con le famiglie dei legionari romani, insediate nel castrum tergestinum,
il primo e secondo secolo dopo Cristo.
Il borgo viveva del commercio del sale ricavato dalle saline fuori porta e del commercio dell’olio e
del vino prodotti nell’agro circostante (fig. 2).
La vita era quanto mai stentata e la lontana protezione asburgica difendeva a malapena il borgo
dalle mire della Serenissima, determinata a sottomettere ogni potenziale concorrente nell’Alto
Adriatico.
Neppure l’istituzione del porto franco da parte di Carlo VI, nel 1719, vale a sollevare l’economia
triestina dalle sue misere condizioni: ci vuole ben altro per inserirsi nei traffici commerciali
dell’Adriatico, soggetti al controllo veneziano.
Il propellente che determina il decollo economico e demografico di Trieste viene probabilmente,
per singolare che possa apparire l’affermazione, da alcuni provvedimenti in tema di libertà religiose
assunti dalla cattolicissima e lungimirante Maria Teresa d’Austria e da suo figlio Giuseppe II.
Tra il 1754 e il 1782 viene concessa, infatti, libertà di culto alle principali religioni dell’area
mediterranea6 e, a differenza dalla Serenissima, alle libertà di culto vengono associati tutti i diritti
civili che consentono alle diverse comunità religiose di esercitare qualsiasi attività economica, di
esprimersi liberamente nella propria lingua e di aprire proprie scuole. La conseguenza è che
Trieste comincia ad attrarre da tutto il Mediterraneo comunità turche, ebraiche sefardite e
aschenazite, serbo-ortodosse, greco-ortodosse, armene, protestanti e islamiche tanto di origine
balcanica che nordafricana.
Agli inizi dell’800, si contano in città ben 12 “chiese” a rappresentare altrettante comunità nazionalreligiose, ciascuna delle quali – al proprio interno – coltiva le proprie tradizioni e la propria cultura.
Solamente nella vita pubblica e nell’esercizio delle attività commerciali si ricorre a una lingua
franca che non è più l’originaria parlata vetero-romanza – il così detto “tergestino” – ma è la lingua
franca parlata e compresa in tutto il bacino mediterraneo.
Il borgo, chiuso nella cadente cerchia muraria medievale, si trasforma progressivamente in una
città emporiale, cosmopolita, che si espande fisicamente ed economicamente con l’affluire di
capitali e di risorse umane. (fig. 3)
4
La definizione “città immediata dell’Impero”, riconosciuta nel 1850, traduce il termine giuridico tedesco
Keisersummittelbar Stadt che significa dipendente direttamente dall’Imperatore senza alcuna autorità
intermedia.
5
A. Cazzullo Diventò italiana e iniziò la sua crisi – Trieste, la città che non vediamo Corriere della Sera, 5
aprile 2015, pag.25
6
Nel 1754, viene concessa libertà di culto alla comunità greco-ortodossa; nel 1760, ai sudditi della Sublime
Porta; nel 1762, alla comunità ebraica; nel 1771, alla comunità serbo-ortodossa; nel 1775, alla comunità
armena; tra il 1779 e il 1782, alle due principali comunità protestanti, quella di rito augustano e quella di rito
elvetico. Alla libertà di culto è associata la libertà di commercio, di possesso immobiliare, il diritto di
cittadinanza, di erigere propri edifici di culto, aprire proprie scuole ed erigere propri cimiteri.
3
La dinamica demografica, rappresentata nella scheda (fig. 4) attesta un incremento di oltre
200.000 abitanti, tra il 1812 e il 1914. Ma altri e ben più significativi traguardi rendono conto dello
sviluppo della città. Trieste, verso la fine dell’800, è la terza città dell’Impero austriaco per numero
di abitanti (dopo Vienna e Praga). Il tonnellaggio movimentato dal porto è dell’ordine di grandezza
di quello movimentato dai porti anseatici di Amburgo o di Brema. Il traffico portuale, agli albori del
‘900, è il secondo del Mediterraneo, dopo Marsiglia, e il settimo del mondo.7 Il flusso monetario
che transita per le banche triestine è – in ordine di grandezza – il secondo dell’Impero.
Con il taglio dell’istmo di Suez, la città emporio si trasforma ben presto in uno dei principali porti di
transito europei. Vi s’insediano attività industriali di rilievo, collegate al traffico marittimo. Iniziano la
loro attività alcune delle più importanti compagnie d’assicurazione europee (Assicurazioni
Generali, Riunione Adriatica di Sicurtà). Lo sviluppo economico incentiva l’afflusso in città di
popolazioni di diversa composizione etnica mentre il cosmopolitismo che caratterizzava la cittàemporio, con la progressiva trasformazione strutturale in porto di transito, va polarizzandosi
progressivamente su tre macro comunità linguistiche: quella italiana, quella slava e quella,
largamente minoritaria, austro-tedesca. (fig. 4)
Il processo d’assimilazione fa confluire, in definitiva, le 12 “nazioni” originarie in tre gruppi linguistici
principali, nel cui ambito la religione perde parte del suo potere aggregante, sostituito da quello
dell’identità linguistica, cioè da una scelta di natura volontaristica, operata generalmente a livello di
gruppo familiare e collegata alla collocazione sociale della famiglia medesima.
Se concentriamo, poi, l’attenzione sul processo d’assimilazione dell’aggregato etnico slavo
(sloveno, croato e serbo), esso presenta un vertice attorno alla metà dell’800, dopo di che
s’attenua per la progressiva presa di coscienza della propria identità culturale ed etnica e la
nascita di un ceto medio slavo che si contrappone a quello di lingua italiana.
Il radicamento urbano del gruppo etnico slavo si consolida con la fondazione di proprie istituzioni
culturali. Risale, ad esempio, al 1861 l’apertura della prima Čitalnica slovena8 in prossimità di
Piazza Grande, cioè nel cuore della vita civile e amministrativa della città. Fa seguito l’apertura di
circoli ricreativi, la creazione di cooperative di consumo, di banche e l’organizzazione delle prime
scuole private slovene.
La formazione di una borghesia slava, nettamente distinta e antagonista della borghesia di lingua
italiana, fa sorgere il problema che si porrà alla base della convivenza dei due gruppi etnici, cioè la
così detta “questione nazionale”.
Ed è proprio l’inasprirsi della “questione nazionale” che fornisce alla borghesia dominante di lingua
italiana, rappresentata dal partito liberal-nazionale, l’alibi per occultare il problema di fondo dello
sviluppo dell’economia triestina, cioè la “questione sociale”.
In altre parole, le due borghesie che vivono di vite parallele, curando ciascuna il proprio particolare,
coltivando attività sociali, sportive e culturali sostanzialmente simili, sembrano unite dallo stesso
proposito di ostacolare la diffusione dei principi di solidarietà sociale proprio in quei ceti cui tali
principi fanno riferimento, agitando e amplificando la gravità della “questione nazionale” quasi che,
per tacito accordo, nessuna delle due borghesie voglia rinunciare alla leadership all’interno del
proprio gruppo etnico-linguistico.
Ma è il partito liberal-nazionale italiano che, avvantaggiato da un sistema elettorale fortemente
censitario, riesce a sfruttare la situazione a proprio favore, alimentando con un irredentismo di
7
G. Arneri Trieste,breve storia della città, Lint, Trieste 2013, pag.76.
Le Čitalnice erano sale di lettura attorno alle quali ruotava la vita culturale della comunità slovena, articolata
su di una pluralità di attività di tipo corale, musicale, teatrale, sportivo e più in generale ludicodopolavoristico.
8
4
maniera il mito del pericolo slavo, il quale, favorito dall’amministrazione asburgica – nella
narrazione di parte liberal-nazionale – s’appresterebbe a travolgere le deboli difese oppostegli
dalla comunità di lingua italiana.
Si tratta, anche in questo caso, della creazione di uno stereotipo che Slataper attribuirà
all’irredentismo fighi e zibibe9, cioè a quell’atteggiamento strumentale, diffuso nel ceto mercantile
di più basso livello, ben lontano dalle tradizioni mazziniane e libertarie dell’irredentismo
risorgimentale. Quell’irredentismo che, senza badare alle intrinseche contraddizioni, denuncia il
pericolo slavo proprio nel momento in cui sostiene l’assoluta marginalità numerica della
componente slovena, costituita – a suo dire – da un’esiguissima minoranza di contadini, abitanti
nel suburbio10. Irredentismo da sfoderare ogni qual volta si tratti di contrastare le montanti richieste
di maggior equità sociale da parte delle classi subalterne, ma da riporre accuratamente nel
cassetto quando si tratti di ottenere dal governo centrale di Vienna vantaggi economici per i propri
interessi.
Eppure, nonostante la miopia del partito liberal-nazionale e l’ondivago procedere della politica
asburgica nell’ultima metà dell’80011, l’economia triestina vive il momento di maggior sviluppo –
mai eguagliato da allora – e la città è un esempio di operosità diffusa che neppure la questione
nazionale e quella sociale sembrano ostacolare.
In questo contesto nasce e si forma Scipio Slataper. (DVD) 12
Il cortometraggio cui abbiamo assistito costituisce la cornice, lo scenario entro cui calare la figura
di Slataper. Ma, in questa mia testimonianza intendo analizzare, in particolar modo, il suo pensiero
politico che è l’aspetto meno conosciuto della sua intensa produzione letteraria.
Dunque, Slataper è l’autore de Il mio Carso, opera che inaugura – per così dire – la stagione della
letteratura triestina ma, soprattutto, è il promotore di un progetto politico-culturale nonché leader di
un gruppo di giovani intellettuali giuliani, figli di una società – per molti versi – più evoluta e
moderna della provinciale società italiana di allora. Intellettuali che troveranno a Firenze e
nell’ambiente vociano il polo d’attrazione culturale perché vi era in atto uno dei più importanti
tentativi di modernizzazione della cultura italiana.
Torniamo alla famiglia Slataper. Abbiamo appreso dal documentario che la famiglia arriva a Trieste
verso la fine del ‘700, proveniente dall’alta valle dell’Isonzo. Agli inizi del XIX secolo, la famiglia ha
già completato il processo d’assimilazione e si esprime correntemente in italiano mentre non è
dato sapere se conservi qualche ricordo della lingua slovena, parlata in quel di Tolmino, suo
probabile luogo d’origine.
Nonostante la provenienza da una valle nota per la sua povertà, la famiglia deve aver “fatto
fortuna” arrivando in città, tant’è vero che fino al tracollo economico del padre di Scipio, avvenuto
nei primi anni del ‘900, la famiglia abita in villa, come ricordato nel documentario. (fig. 5)
9
I commercianti di fighi e zibibe rappresentavano, nel settore, la componente culturalmente e
professionalmente meno qualificata. La definizione appare la prima volta in un articolo de Il Piccolo del 6
maggio 1909.
10
I dati desunti dal censimento effettuato nel 1910, l’ultimo in ordine di tempo sotto l’amministrazione austroungarica, attestano una consistenza del gruppo etnico sloveno del 26,81% (59.308) dell’intera popolazione,
contro un 66,62% (147.372) di italiani. Probabilmente la consistenza slovena effettiva era superiore al 30% e
la differenza è da imputare ai criteri seguiti nel rilevamento demografico, basati sulla “lingua d’uso”.
11
Basti ricordare che, nel medesimo periodo in cui si stava procedendo al taglio dell’istmo di Suez, il
governo centrale di Vienna aderiva allo Zollverein, al trattato che privilegiava le linee di traffico con i porti
anseatici a detrimento dei due principali porti dell’Adriatico: Trieste e Fiume.
12
Il cortometraggio, realizzato dalla RAI per la regia di Mario Rizzarelli, narra brevemente la vita di Scipio
Slataper, con molte riprese dei più significativi “luoghi slataperiani”, tanto cittadini che carsici.
5
Le vicissitudini economiche del padre, i problemi giovanili di crescita, i due successivi periodi di
prolungata assenza da scuola e il soggiorno in Carso, sono snodi importanti nello sviluppo fisico e
mentale del giovane Slataper, ansioso di inserirsi nella realtà che lo circonda.
Giani Stuparich ce lo rappresenta in questa maniera:
Lo scolaro di liceo e il giovane scrittore Publio Scipioni sono ancora completamente
inquadrati dall’ambiente. Pure già si distingue lo scolaro per lo sprezzo di seguire la via che
gli altri seguono sia per dovere che non si discute sia per abitudine che sarebbe scomodo e
inutile cambiare.
Tutti gli scolari, giunti alla seconda o terza liceo, sono ormai avviati, come si dice. Codesta
scuola classica comunale, da cui sono usciti i migliori cittadini senza dubbio, gli avvocati, i
professori, i medici, gli impiegati superiori che “hanno tenuto in alto l’italianità” di Trieste,
s’incarica di stampare in tutti i suoi scolari un’uguale mentalità: quella di dominio e di
tradizione liberal-nazionale. […]
Ora Scipio Slataper è già in contrasto con questa mentalità. L’ha subita nelle prime classi,
come mito,[…]; ma poi, quando il mito comincia ad esser disgregato dalla ragione, la sua
ragione gli fece sentire i vuoti ed il falso di quella mentalità, ed egli le si pose in contrasto.
Era segnato a dito il biondo scolarone della “settima” che osava professare idee socialiste
e leggere il Lavoratore, e che era pronto anche a dare qualche scapaccione potente a quei
compagni che gli avessero voluto insegnare “il patriottismo”.13
E poco oltre, sempre lo Stuparich, aggiunge:
Non fu socialista Scipio Slataper, […] ma in quell’epoca […] aveva incontrato un uomo, anzi
uno spirito solitario e nuovo, il quale lo aveva avvicinato alle teorie socialiste, gli aveva
fatto pubblicare nel Lavoratore un articolo “Sulla tirannia delle norme scolastiche”, lo aveva
messo in contatto con il Circolo di studi sociali e spinto a fare anche il critico teatrale […].14
Siamo tra il 1905 ed il 1906 e Slataper pubblica con uno pseudonimo, Publio Scipioni appunto,
qualche articolo sul Lavoratore, portavoce della sezione triestina del partito socialista austroungarico; alcuni racconti e qualche poesia su Il Palvese, foglio locale dalla vita brevissima ma che
ebbe il merito di riunire le migliori firme del giornalismo triestino; altri racconti, alcune poesie e un
breve dramma appaiono su La vita Trentina.
Si tratta d’esordi giovanili che cito per dovere di cronaca, non per il loro valore letterario, mentre è il
caso di tornare, invece, sull’incontro cui accenna Stuparich con Angelo Vivante, per lunghi anni
redattore de Il Piccolo e successivamente direttore del Lavoratore.
Vivante è una delle più interessanti espressioni della cultura cosmopolita triestina. Figlio di
un’agiata famiglia ebrea, si laurea in giurisprudenza a Bologna, si dedica al giornalismo e ben
presto si fa notare per le sue acute analisi di politica estera. Dopo una breve militanza nelle fila
liberali, aderisce agli ideali della II Internazionale, attratto dalle posizioni dell’austro-marxismo sul
rapporto tra la questione sociale e le aspirazioni nazionali.
Ed è proprio nel 1912, anno in cui esce Il mio Carso di Slataper, che le edizioni de “La Voce”
pubblicano anche l’Irredentismo adriatico di Vivante: l’analisi socio-economica più approfondita
e, per certi versi, precognitrice del “problema Trieste” mai scritta sull’argomento fino a quel
momento.
Angelo Vivante ha quasi vent’anni più di Scipio ma, come scrive Stuparich, intuisce “nella pronta
giovinezza di Scipio Slataper una promessa sicura e [la incoraggia] con il suo aiuto e la sua
amicizia. Lo Slataper ebbe occasione d’imparare a conoscere, rarissimo tra i giovani della
13
14
G. Stuparich Scipio Slataper A. Mondadori Ed., Milano 1950, pag. 34
G. Stuparich op. cit., pag. 35
6
borghesia triestina che non andavano più a sinistra del mazzinismo, anche l’altra metà, il
mondo dei reprobi, dei senza patria, e, confrontando, di mettersi sui propri piedi e di
guardar con i propri occhi. ”15
Slataper, in totale autonomia e sostanziale contrapposizione con il proprio ambiente sociale e
familiare, inizia la faticosa esplorazione della complessa realtà triestina.16
Terminato il liceo, accede all’Istituto di Studi Superiori di Firenze grazie a una borsa di studio
senza la quale non avrebbe potuto frequentare l’università per le difficili condizioni economiche in
cui versava la famiglia.
Appena giunto a Firenze, ha occasione di leggere il primo numero della rivista letteraria “La Voce”,
diretta da Giuseppe Prezzolini. La scoperta è folgorante e Slataper si mette immediatamente in
contatto con Prezzolini.
Prezzolini non ha esitazioni e, per le corrispondenze dalle terre irredente, punta immediatamente
sul giovane Slataper, preferendolo al ben più attempato candidato raccomandatogli niente meno
che da Benedetto Croce.
Tra febbraio e aprile del 1909, “La Voce” pubblica le “Lettere triestine” con le quali Slataper
esordisce, non ancora ventenne, sulla scena del giornalismo politico nazionale.
Le “Lettere Triestine” nascono dal desiderio dell’Autore di far conoscere al pubblico italiano alcuni
aspetti della realtà triestina senza infingimenti e senza mascheramenti strumentali. L’analisi si
concentra sulle principali istituzioni culturali di Trieste poiché, come chiarisce Slataper in uno
scritto rimasto inedito sino a qualche anno fa:
L’irredentismo a Trieste è soprattutto un fenomeno di coltura. E vien propagandato in
Italia… appunto dall’informazione della gente colta. […] Ora, per l’opera di codeste
informazioni, […] , s’è venuta formando nella mente dei regnicoli una Trieste fantastica […]
una Trieste insomma creata dall’esagerazione di quella parte della realtà che era vista dalla
coltura letteraria. L’ideale dei letterati triestini diventava fatto concreto tra l’ignoranza
dell’Italia.17
Sin dal titolo della prima lettera dell’11 febbraio 1909, si possono comprendere i motivi di scontro
tra il benestante “ceto mercantile” triestino e il giovane diciannovenne che ne è suo figlio.
Trieste non ha tradizioni di cultura, titola la prima lettera.
Trieste, sono parole di Slataper “S’è risvegliata un giorno tra una cassa d’agrumi ed un sacco
di caffè, pensando che avrebbe dovuto […] accordare la sua vita ad un altro ritmo […] e
allietarla non solo con la melodia dell’argento nelle tasche del larghissimo panciotto. […]
Fortunatamente: perché quasi soltanto la resistenza intellettuale è capace di ottundere la
gran virtù penetrativa, entusiastica, degli slavi."18
15
G. Stuparich op. cit., pag. 36
Va ricordato che una delle figure di spicco del partito liberal-nazionale, per molti anni Podestà di Trieste,
Scipione de’ Sandrinelli, era un parente acquisito degli Slataper, tanto che il secondogenito di Luigi Slataper
viene chiamato Scipio in suo onore. Luigi Slataper stesso era stato eletto per più mandati alla Dieta
Municipale nelle liste liberal-nazionali. Quindi, fino alla generazione precedente a quella di Scipio,
l’orientamento familiare si collocava nell’alveo delle idee praticate dalla borghesia “irredentista”, quelle
stesse idee che saranno uno dei principali obiettivi degli strali del giovane Slataper.
17
S. Slataper Lettere triestine, perché le scrivo. Testo pubblicato postumo in “Lettere Triestine” Dedolibri
Trieste 1988, pag. 55.
18
S. Slataper, Trieste non ha tradizioni di cultura, La Voce, 11 febbraio 1909
16
7
Si delineano sin dall’inizio due dei temi affrontati nelle “Lettere”: le radici squisitamente mercantili
della società triestina e l’esigenza di contrapporre all’entusiasmo e alla vitalità dei giovani popoli
slavi la forza di una più sviluppata cultura. La reazione della Trieste benpensante, cui il messaggio
è rivolto, non si fa attendere e si estrinseca in una serie d’ingiurie nei confronti dell’Autore, senza
sfiorare minimamente il merito dei problemi sollevati.
Ecco cosa aggiunge Slataper nella prima lettera. Affronta il problema della composizione etnica di
Trieste, rilevando che l’eccezionale incremento demografico non può esser spiegato che dai flussi
migratori instauratisi con lo sviluppo economico della città: Dunque aumento di 187.000 in un
secolo. E solo l’immigrazione può spiegare questo fatto. Ma – da notarsi – Trieste non
s’aumentò d’italiani – […], ma assorbì gente accorsa da tutto il mondo, sedotta dalla facilità
di guadagno e da ogni sorta di privilegi e garanzie […] che Carlo VI – sapiente uccellatore –
aveva emanate.”19
E, poco dopo “[…] le molte decine di migliaia di immigrati stranieri […] non erano certo
elementi di coltura per la città […] come si può pensare a formazione di intellettualità
cittadina quando buona parte delle famiglie non sono triestine, né italiane? E i nostri nomi
(il mio: slavo puro) lo dimostrano.20
Sorvolo sulle molte altre questioni sollevate nella lettera, per citarne la lapidaria chiusura che è una
pietra tombale sulle velleità culturali della società triestina del tempo:
“qui, se un fiore fosse nato ne avrebbero fatto bottega”21
Naturalmente, la lettera provoca le proteste indignate della borghesia triestina che, invece
d’interrogarsi sulla fondatezza o meno delle analisi cui è stata fatta oggetto, accusa l’Autore di lesa
maestà ed esercita pressioni sulle autorità austriache per far sequestrare le copie de “La Voce”
dalle librerie di Trieste.
Malgrado i clamori suscitati a Trieste e alcuni sordi brontolii provenienti dai circoli nazionalisti del
Regno, la seconda “Lettera” esce puntualmente il 25 febbraio e tratta dei “Mezzi di Coltura”,
fornendo un’immagine minuziosa e impietosa, non priva di humor, dello stato delle principali
istituzioni culturali della città.
Istituzioni culturali che sono oggetto pure della terza lettera dell’11 marzo, nella quale viene dato
largo spazio al Circolo studi sociali, nato in ambito socialista grazie all’impegno di un modesto
tipografo e al finanziamento iniziale di un paio di soci. Slataper così ne parla:
E’ un’istituzione che gli italiani, senza distinzioni di partiti, dovrebbero studiare. […] Noi
dobbiamo ai socialisti d’aver conosciuto Lombroso, Ferrero, Salvemini, Labriola, Zerboglio,
Sergi, Battelli […]; l’aver sentito parlare, per la prima volta di Mazzini e di Garibaldi da
Salvemini e Ferri. E come! Perché è un fatto interessante: dopo il 1902 il circolo socialista fa
propaganda di coltura, di coscienza, di spirito italiano. E dunque anche del socialismo
italiano: ma “anche” e “italiano”.22
La polemica a Trieste infuria e viene vietata la diffusione de “La Voce”.
Slataper, nonostante abbia approfondito con coerenza le caratteristiche della società triestina e
delle sue istituzioni culturali, cozza contro l’inerzia dei propri concittadini e fallisce il proposito di
provocare una reazione che li costringa ad uscire dalle finzioni, da una rappresentazione della
19
La cifra riportata si riferisce all’intervallo 1800-1900. Si superano le 200.000 unità se ci si riferisce
all’intervallo 1812-14.
20
S. Slataper, Scritti politici, A. Stock Editore, Roma 1925, pagg. 4-5
21
S. Slataper, Scritti Politici, op. cit. pag.6
22
S. Slataper, op. cit., pag. 18-19
8
realtà che è pura immaginazione e ad affrontare il nodo gordiano delle “due anime” di Trieste:
quella commerciale e quella culturale.
Le Lettere sono, insomma, una sorta d’esortazione che non solo rimarrà inascoltata dalla
borghesia triestina ma provocherà il totale ostracismo nei confronti dell’Autore.
Stuparich testimonia in proposito:
I triestini gridarono allo scandalo. Come mai uno sbarbatello appena uscito dalla casa
paterna si permetteva di sciorinare in piazza i panni sporchi? Parlar male del pane che vi
aveva mangiato?! Mettersi a giudicare Tizio e Caio con tanto di barba, di senno e di
parrucca?! Fosse stato anche vero, bisognava tacerne per amor d’italianità. I panni sporchi
si lavano in casa.
Qui si apriva l’abisso. Era questione ormai di due educazioni diverse. Lo Slataper vociano
non poteva più ammettere che la ragione sentimentale facesse tacere la ragione logica. I
triestini nazionali invece pretendevano in chiesa il “credo” e lasciavano peccare a casa.23
Le discussioni tra “vociani” e nazionalisti sulla questione di Trieste si protraggono per tutta l’estate
1909 e a Slataper fruttano la perdita della borsa di studio presso l’Istituto Superiore ad opera di
certo prof. Ramorino il quale, non gradendo l’atteggiamento tenuto da “La Voce” nei confronti del
mondo accademico fiorentino, accusato di conservatorismo e di scarsa capacità di aprirsi alla
cultura europea, nel valutare l’esito di una prova d’esame di Slataper, gli attribuisce
deliberatamente una votazione inferiore di un punto alla votazione necessaria per la riconferma
della borsa di studio, con il commento “Imparerà a studiare, altro che scrivere su una rivista
scomunicata come La Voce”.24
La perdita d’autonomia economica costringe Slataper a trovare altre fonti di sostentamento per
mantenersi agli studi, dedicando le proprie energie in attività di traduzione, di saggistica e di
novellistica che hanno certamente importanza nel percorso intellettuale dell’Autore, ma che lo
tengono lontano da quelli che sono i suoi interessi e le sue attitudini più specifiche.
Nell’autunno del 1909, tra l’affannarsi dietro ai problemi redazionali de “La Voce” e la necessità di
rispettare i numerosi impegni editoriali, la vita di Slataper si arricchisce di un’affettuosa amicizia
con tre giovani triestine, tra loro amiche d’infanzia e di scuola.
Non è possibile approfondire, qui, il rapporto che s’instaura tra Slataper e “le tre amiche” per la
complessità dei risvolti psicologici, affettivi e fattuali che legano indissolubilmente i loro destini.
Basterà ricordare che una delle tre amiche, Anna Pullitzer, fu il primo, vero, grande e tragico
amore di Slataper; la seconda, Elody Oblath, fu forse l’amica che più profondamente penetrò nel
suo animo, amandolo segretamente senza far mai pesare i propri sentimenti; la terza, Luisa
Carniel, divenne sua moglie. (figg. 6-7-8)
Ed è proprio l’amore per Anna-Gioietta Pullitzer, che si toglie la vita con un colpo di rivoltella il 2
maggio 1910, di ritorno da un viaggio in Toscana durante il quale, nonostante l’esplicito divieto
della famiglia, s’era incontrata con Slataper, a ispirargli Il mio Carso, il romanzo autobiografico
che, due anni dopo, sarebbe diventato l’unico libro pubblicato vivente l’Autore.
Come è stato già ricordato dal documentario, Gioietta, prima di suicidarsi, lascia a Scipio un
toccante messaggio nel quale lo invita a ultimare l’opera di cui avevano così fervidamente
discusso nei brevi mesi del loro amore:
23
24
G. Stuparich, Scipio Slataper op. cit. pag. 239-240
G. Stuparich, Scipio Slataper op. cit. pag. 78
9
Scipio ti bacio in eterno. Questo sarà per la tua opera. Io l’aspetto. Tu non esser mai
disperato, sono sicura che m’ami e che sentirai quanto sono ferma. Ti do il mio cuore e
tutta me. […] Sii sempre Scipio. Arrivederci. Vengo da te per sempre.25
Per Slataper è un momento drammatico, come testimonia Elody Oblath nelle sue bellissime
Confessioni:
Ciò che ci unì maggiormente, quando già la nostra amicizia durava da un pezzo, fu il
suicidio di Anna, […] . Non posso ricordare quei giorni disperati di maggio senza un brivido
d’orrore. Vedo l’alta figura di Scipio piegarsi su se stessa, risento la sua voce spezzata, che
da sonora s’era fatta atona, rivedo i suoi cari occhi senza più cordialità, annegati quasi nella
disperazione. La pena che vivemmo in quei giorni di morte fu infinita: ci reggemmo l’un
all’altro come naufrago a naufrago.26
Passati alcuni mesi di smarrimento, Slataper reagisce al dolore gettandosi a capofitto nell’attività
letteraria, ma i suoi interessi lo portano inevitabilmente a tornare sulla “questione di Trieste”,
affrontando il cuore del problema e cioè l’irredentismo adriatico che analizza in due numeri
monografici de “La Voce”, l’8 e il 13 dicembre 1910.
Si tratta di un complesso d’interventi dovuti ad alcuni dei più noti intellettuali dell’epoca tra cui
Prezzolini, Salvemini, Borgese, Vivante, Amendola, Timeus e lo stesso Mussolini, collegati tra loro
da due editoriali di fondo di Slataper.
La trattazione abbraccia questa volta la “questione nazionale” nella sua globalità e non più la sola
“questione triestina”: Slataper spiega perché l’adesione alla Triplice Alleanza fu ed è un duro
imperativo di necessità, 27 in un contesto in cui l’Italia, ultima venuta, aveva il bisogno di allearsi
agli stati dominanti per perseguire una sua politica mediterranea.
Ma non sottovaluta l’esistenza in Italia di una forte tradizione anti-austriaca di derivazione
risorgimentale, diffusa in ampi strati della popolazione e sostiene che, dopo l’annessione di fatto
della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Impero asburgico, senza le contropartite previste dal trattato
costitutivo della Triplice Alleanza28, si sono svelate le vere intenzioni della Duplice Monarchia,
dietro al quale preme la Prussia, per cui l’Italia non può che prepararsi all’eventualità di un conflitto
con l’Austria.
Nella situazione venutasi a creare a seguito della progressiva balcanizzazione dell’Impero
asburgico e del suo modificato atteggiamento nei confronti delle popolazioni slave (affiora qui il
timore per la linea trialistica, che aveva nell’Arciduca Francesco Ferdinando uno dei principali
sostenitori), Slataper individua condizioni favorevolissime all’opera d’un partito irredentista
che sappia senza ondeggiamenti la propria volontà, qualunque essa sia.29
Ma, a fronte di codeste condizioni favorevolissime, Slataper non trova che frasi che, se non
fossero frasi sarebbero contraddittorie reciprocamente […] tentennii tra realtà e desideri
che non sanno affrontarla.30
25
L’originale del messaggio è conservato nella raccolta dei manoscritti slataperiani presso l’Archivio di Stato
di Trieste.
26
E. Oblath Stuparich, Confessioni. Lettere a Scipio op. cit. pagg. 23-24
27
S. Slataper, Scritti Politici op.cit. pag.62
28
Il Trattato, di carattere esclusivamente difensivo, prevedeva che in caso d’intenzioni aggressive da parte di
una delle nazioni contraenti, questa dovesse informare preventivamente le altre nazioni contraenti e che in
caso di acquisizioni territoriali, qualsiasi ne fosse la natura, da parte di una delle nazioni contraenti, le altre
avrebbero avuto diritto ad adeguate compensazioni. Condizioni che non furono rispettate né in occasione
dell’annessione di Bosnia-Erzegovina all’Austria né in occasione dell’aggressione alla Serbia.
29
S. Slataper, Oggi articolo apparso su La Voce del 15 dicembre 1910
30
S. Slataper, Oggi vedi nota precedente
10
Le varie forme assunte dall’irredentismo (repubblicano, massonico, imperialista) non sono esenti
da critiche, fatto salvo il così detto irredentismo colturale, l’unico che Slataper sente di poter
condividere poiché è l’irredentismo triestino, e quello che i socialisti affermarono per la prima
volta, negando l’importanza dei confini politici. Ed è l’irredentismo della Voce.31 Qui
l’entusiasmo di Slataper forza il dato storico quando sostiene essere l’irredentismo “colturale”,
irredentismo triestino mentre, in realtà, è condiviso da un’esigua minoranza a Trieste. Inoltre, si fa
una certa fatica a riconoscere nelle tesi del socialismo triestino affinità con l’irredentismo culturale:
quella particolare forma d’irredentismo che era più che altro un’affermazione di valori morali e non
un progetto politico concreto fondato su di un’analisi strutturale della società del tempo.
Resta il fatto, su cui Slataper insiste con vigore, che è necessario esser preparati tanto sul piano
morale che su quello militare, cosa che non accade sia per l’azione poco efficace dell’irredentismo
che per l’allarmante arretratezza dell’apparato militare. Di fronte ad un’Austria che ha una
meravigliosa tradizione di governo,32 che dispone d’una burocrazia capace d’amalgamare le
forze più utili delle varie nazionalità: ammiragli istriani o dalmati, impiegati di polizia
trentini, professori d’università czechi,33 di fronte a questi inoppugnabili dati di fatto, la politica
italiana dimostra tutta la sua pochezza e la sua contraddittorietà: […] si vuole e si proclama in
tutti i toni la guerra all’Austria e […] si finisce col dire che bisogna rimanere
“dignitosamente” nella Triplice. Si vuole la lotta contro il pangermanesimo e si dà addosso
agli slavi […] si propugna il liberismo e s’inveisce contro il capitale tedesco importato in
Italia.34
E, passando in rassegna ai possibili alleati dell’Italia, Slataper avanza un’ipotesi assolutamente
rivoluzionaria per l’epoca,35 auspicando un’alleanza con i popoli slavi: dai cechi alle popolazioni
slave del sud.
Ma per ottenere quest’alleanza è necessario che l’Italia rinunzi assolutamente a Trieste,
all’Istria, ai desideri balcanici. La sua forza sarebbe di suscitare e aiutare la coscienza slava.
Arginare con stati nazionali indipendenti l’avanzata orientale dell’Austria. E annettersi il
Trentino, e il Friuli fino all’Isonzo. Lavorando in questo senso potrebbe avere in tutti i casi
le simpatie di quell’Austria slava che fra non molto reggerà l’Impero. 36
L’affermazione potrebbe sembrare eretica in bocca a un triestino ma, se ci si pone in una logica
idealista, poteva anche ammettersi il fatto che una Trieste di cultura italiana si sviluppasse, come
sino ad allora s’era sviluppata, in un contesto economico e politico non italiano, purché non se ne
conculcasse l’identità etnica.
La portata “eversiva” delle affermazioni di Slataper trova conferma nella breve ma illuminante
“Nota statistica”, composta a commento di una mappa della regione mistilingue giuliana e
istriana, in cui è rappresentata la distribuzione linguistica, sulla base dei dati del censimento
austriaco del 1900 (fig.9).
La mappa e la “Nota” rappresentano, ancor oggi, la più clamorosa smentita delle tesi nazionaliste
circa l’assoluta preponderanza etnica italiana nella regione che aveva fatto esclamare a Slataper,
in altra occasione:
31
S. Slataper, Oggi
“
“
“
S. Slataper, Oggi
“
“
“
33
S. Slataper ,Oggi
“
“
“
34
S. Slataper, Oggi articolo citato in precedenza
35
E’ stato osservato come questa affermazione avvicini Slataper al Tommaseo, come del resto sembrerebbe
potersi desumere dalle successive citazioni. L’osservazione meriterebbe un approfondimento ma i tempi del
Tommaseo son ben diversi dagli anni immediatamente precedenti alla Grande Guerra!
36
S. Slataper, Oggi articolo citato in precedenza
32
11
[…] a “Trieste c’è una forza numerica slava […]”: e son più di 40.000 slavi a Trieste. E altro
che forza numerica! forza economica e perfino intellettuale, oggi. “[…] E nell’Istria è slava
una parte della popolazione”: altro che parte!: due terzi, due terzi!”37
In altre parole, la posizione di Slataper fino al 1912 è nettamente critica nei confronti
dell’irredentismo italiano; tant’è vero che nei due ultimi suoi articoli apparsi su “La Voce” non ha
difficoltà a riconoscere:
Io non sono dunque irredentista. Ma se voi siete sul serio irredentisti dovete volere con me,
per noi, una vita più dura, più eroica, più disinteressata […] Meno servilità, a costo di
pagarla con qualche danno, più onestà e più sincerità […] E i nostri figli sieno educati al
sacrificio, e non al tornaconto […] Ma anch’io col Vivante, anzi col Valussi, col Tommaseo,
vedo chiaramente che il compito storico di Trieste è di esser crogiolo e propagatore di
civiltà, di tre civiltà.38
Con la fine del 1912, si chiude per Slataper la parentesi vociana. Qualche incomprensione con
Prezzolini, alcune aspettative disattese, un nuovo indirizzo imboccato dalla rivista contribuiscono
ad allontanarlo progressivamente dal nucleo originario dei fondatori de “La Voce”.
Ciò nonostante, il 1912 è per Slataper un periodo d’intenso lavorio interiore; di raccoglimento per
completare Il mio Carso; di studio per laurearsi, come in effetti si laurea con una tesi sul
drammaturgo norvegese Henrik Ibsen.
Ultimati gli studi, viene assunto quale lettore d’italiano al Kolonial-Institut di Amburgo, dove prende
servizio nell’estate del 1913, sospendendo ogni collaborazione con la stampa italiana.
Nell’autunno sposa Luisa Carniel, Gigetta, una delle “tre amiche” conosciute quattro anni prima,
che lo raggiunge ad Amburgo.(fig. 10) Qui ha modo di approfondire la conoscenza delle letterature
nordiche, approfittando anche della ricchissima biblioteca del Kolonial-Institut e di rivedere la sua
tesi di laurea su Ibsen che verrà pubblicata postuma, nell’immediato dopoguerra, con prefazione e
note di Arturo Farinelli.39
Ma, ad Amburgo, Slataper entra in contatto diretto con la realtà germanica, con la realtà di un
Impero che ha raggiunto ormai una posizione d’assoluto predominio economico, militare e tecnico
nel continente europeo, e intende sfruttarne i vantaggi, trascinandosi dietro una ormai spossata
dinastia asburgica.
Slataper intuisce che l’annessione della Bosnia da parte dall’Austria rientra in un disegno di
progressiva espansione germanica nel continente, che avrebbe condotto al definitivo collasso
dell’Impero asburgico.
Il 28 giugno 1914, Francesco Ferdinando, erede del trono d’Austria, viene assassinato a Sarajevo
e Slataper, presentendo il prossimo inizio di una guerra, rientra precipitosamente in Italia dove
inizia la collaborazione con “Il Resto del Carlino”, schierandosi decisamente su posizioni
interventiste.
Gli articoli sul “Resto del Carlino” e ancor più la messe di appunti e di schede bibliografiche
conservate nell’archivio dei manoscritti slataperiani testimoniano dell’impegno di Slataper
37
S. Slataper, Da un commento apparso su “La Voce” del 9 settembre 1909 a seguito della polemica con il
Direttore de “Il Piccolo” sorta dopo la pubblicazione delle “Lettere triestine”.
38
S. Slataper, L’avvenire nazionale e politico di Trieste. Saggio apparso su “La Voce” nei numeri del 30
maggio e 6 giugno 1912.
39
Personaggio di spicco del mondo accademico italiano, promosse gli studi di germanistica e di letterature
nordiche. Docente di lingue neolatine all’Università di Innsbruck, dall’istituzione del primo corso fino alla sua
definitiva soppressione a seguito delle manifestazioni per un’Università italiana a Trieste (1894-1904), fu
ordinario di letteratura tedesca all’Università di Torino dal 1907 al 1937.
12
nell’affrontare il problema dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa e il suo sforzo per
render chiare le ragioni di una svolta così radicale rispetto alle posizioni da lui stesso sostenute
non più di due anni prima.
In questo senso sono illuminanti alcune sue note di diario dell’agosto 1914, poco prima di lasciare
la Germania.
Qual è il senso di questo conflitto europeo? […] il conflitto austro-serbo non è che la
conseguenza diretta della guerra balcanica […]. La Russia non poteva ammettere una
posizione preponderante austriaca nei Balcani. […] Una fondamentale ragione politica
dunque obbligò la Russia ad intervenire in un conflitto ch’essa può inoltre affermare lotta
tra slavismo e germanesimo. […] Per far star zitta la Russia la Germania alzò la voce come
nel 1908. […] Tentò di riaffermare la sua supremazia europea senza spendere né un soldo
né un soldato. Invece si trovò di fronte tutta l’Europa. Fino a un certo punto, la Germania
contò che l’Inghilterra non si sarebbe mossa […]. Per far colpo fece parlare l’esercito e star
zitta la diplomazia. L’unica enorme fiducia e amore del tedesco è l’esercito […]. L’esercito è
la loro vera espressione politica collettiva. E quando sentì la guerra non seppe altro ed
esclusivamente che l’esercito. Lussemburgo ed il Belgio sono due parole di tecnica
strategica che non si possono tradurre in lingua politica. O si chiamano appunto follia
strategica di cui la Germania patirà molto in questa guerra. Per assicurarsi l’entrata in
Francia s’assicurò l’entrata in campo dell’Inghilterra.40
Sono appunti che sintetizzano le ragioni che inducono Slataper a farsi attivo sostenitore di un
intervento contro gli Imperi Centrali. Non sono tanto considerazioni d’egemonia territoriale proprie
del nazionalismo imperialista, quanto è la più complessa percezione del pericolo costituito dal
militarismo prussiano, destinato a minare la coesistenza dei popoli per oltre un trentennio a venire.
Di fronte a questo pericolo, la principale difesa – per Slataper – è quella di disporre di un confine
sicuro e, per lo stato dell’arte militare del tempo, il confine sicuro coincide, grosso modo, con lo
spartiacque alpino. (fig. 11)
Non rientra nell’ambito della mia testimonianza approfondire il tema complesso dell’interventismo,
pertanto mi limito a richiamare alcuni concetti base.
L’interventismo in Italia è un movimento che interessa e coinvolge un ristretto gruppo sociale,
costituito per lo più da intellettuali.
Sotto le sue insegne, per una breve stagione, militano personaggi della più varia estrazione
ideologica, spinti da motivazioni o pulsioni spesso difficilmente conciliabili sul piano razionale: dal
decadentismo edonistico di D’Annunzio, alle provocazioni futuriste di Marinetti, ai disegni più o
meno federalisti dell’interventismo democratico, alle speranze di una profonda rivoluzione sociale
di Togliatti e di Gramsci, al sindacalismo rivoluzionario di De Ambris e Corridoni, all’ardore da
neofita di Mussolini, appena convertitosi all’interventismo dopo il neutralismo del periodo socialista.
In così articolata compagine d’assertori della necessità di uscire da un’inerzia ambigua, molto
simile a quella del giocatore d’azzardo che attende sino all’ultimo istante l’offerta a lui più
vantaggiosa, Slataper si colloca su posizioni vicine a quelle di Amendola e di Salvemini. Tre sono i
temi che ricorrono nei suoi articoli: l’espansione dell’imperialismo prussiano; il peso degli slavi sul
futuro assetto degli Imperi Centrali, data per scontata la dissoluzione dell’Impero asburgico; la
sicurezza dei confini nazionali.
Mi soffermerò unicamente sul problema dei confini poiché segna il più evidente cambiamento di
rotta dalle posizioni del 1912.
40
S. Slataper, Appunti e note di diario Mondadori, Milano 1953, p.249
13
Slataper, in singolare sintonia di pensiero con Cesare Battisti, indica, in uno studio intitolato I
confini orientali41, quelli che ritiene essere i confini in grado di garantire una protezione del
territorio nazionale. La linea da lui proposta non differisce, nella sostanza, dai confini che verranno
sanciti nel dopoguerra dal Trattato di Rapallo e che approssimano la linea dello spartiacque. Ma la
definizione di confini sicuri è accompagnata da una grande attenzione per quello che sarebbe
dovuto essere il comportamento dello Stato italiano, a guerra felicemente conclusa, nei confronti
dei gruppi etnici minoritari, inevitabilmente presenti nei territori acquisiti. (fig. 12)
In tutti i casi però se noi desideriamo che l’assimilazione avvenga e s’estenda il più
possibile noi non dobbiamo far niente di artificiale per promuoverla. La volontà di
snazionalizzazione è tanto bestiale e assurda che non solo non è riuscita mai in nessun
posto, almeno nei tempi moderni, ma ha risvegliato di colpo e armato violentemente la
necessità dell’irredentismo […]. E allora come bisognerà procedere? (Bisognerà) Rispettare
profondamente la loro nazione […]. Lasciare intatte le scuole nazionali, anche magari
dov’esse sono anche oggi un non senso […]. La scuola è sacra: e perciò è anche l’arma
politica più tremenda.42
E’ esattamente quello che non è avvenuto dopo la Grande guerra e che ha prodotto così durature
ripercussioni al confine orientale, fino ai giorni nostri.
Ma torniamo alla primavera del 1915 e leggiamo la testimonianza di Elody Oblath, moglie di Giani
Stuparich, figlia di una famiglia ebrea ungherese, stabilitasi da una generazione a Trieste.
Credevamo di sapere gli orrori della guerra per esserceli raffigurati col cervello e col cuore,
e in realtà non sapevamo che la nostra esaltazione. Sapevamo però con conscia certezza
che qualsiasi fossero stati questi orrori, nessuno di noi sarebbe indietreggiato. […] Per
essa, ne sono certa, ognuna di noi sarebbe andata coscientemente al patibolo, così come
coscientemente istigammo e aiutammo tutti i nostri amici (la parte migliore di noi stesse) ad
andare a morire. Giorni d’illusioni folli, fede in un’umanità migliore, che ci faceva esultare e
chiedere la morte di milioni di uomini !43
Parole di una tragicità terrificante che fanno riflettere e denunciano tutta l’incoscienza di una
società che imbocca la strada della guerra, senza avere la minima percezione delle devastazioni
fisiche e morali che avrebbe causato.
Non senza difficoltà, vuoi per le norme del codice militare sabaudo, vuoi per il clima di sospetto nei
confronti degli irredenti – erano pur sempre dei sudditi austriaci – Slataper, assieme ai fratelli
Stuparich, si arruola volontario e il 2 giugno 1915 parte da Roma, assegnato al 1° reggimento
Granatieri. Lo segue di qualche settimana il fratello Guido, classe ’97, che per arruolarsi falsifica la
propria data di nascita.
Dopo alcuni giorni, Slataper è già in prima linea e, il 10 giugno, nel tentativo di soccorrere il proprio
maggiore, morente sotto le trincee austriache, viene ferito presso la Rocca di Monfalcone.
A metà settembre torna al fronte e viene assegnato al 1° rgt. della Brigata Re, a riposo nei pressi
di Sacile, dove frequenta con altri “irredenti” di origine giuliana e trentina un corso accelerato per
allievi ufficiali.
41
S. Slataper, Confini Orientali Edizioni Dedolibri, Trieste 1986
S. Slataper, op. cit. pag. 31
43
E. Oblath Stuparich, Confessioni op. cit. pag. 32
42
14
Il 18 ottobre inizia la 3a offensiva dell’Isonzo che investe il settore SABOTINO-PODGORA.44
Così ce ne parla uno dei maggiori storici della Grande Guerra, Piero Pieri:
Nel settore Sabotino-Podgora, […] contro sette chilometri di trincee difese da circa 25.000
austriaci la II armata impiega quasi centomila uomini. Il Sabotino subisce tredici assalti e
due irruzioni, ma ogni volta i contrattacchi delle truppe polacche e dalmate che lo
difendono riescono a ristabilire la situazione di partenza. Contro il settore Podgora-PeumaOslavia, gli attacchi sono trentanove, ma la situazione rimane invariata fino al 4 novembre,
giorno in cui cessano le ostilità.45
La 3a offensiva si conclude con 56.000 perdite da parte italiana.
Il 3 novembre, un giorno prima della cessazione dell’offensiva, la compagnia di cui fa parte
Slataper viene schierata sul Podgora.
Il 10 novembre inizia la 4a offensiva dell’Isonzo che interessa questa volta i settori OSLAVIAPODGORA-SEI BUSI-SAN MICHELE.
La battaglia dura alcuni giorni senza alcun esito per la magistrale sistemazione difensiva degli
austriaci, in particolare quella del Podgora, che viene descritta in questi termini dal tenente
d’artiglieria austriaco Fritz Weber che ci ha lasciato alcune delle più intense testimonianze della
guerra, vista dall’altra parte:
[…] autentico “capolavoro in materia di fortificazioni”, un complesso difensivo munito di
trincee, camminamenti, nidi di mitragliatrice blindati, posti di vedetta accuratamente
mimetizzati, un sistema difensivo labirintico di cui era impossibile che gli italiani potessero
farsi un’idea.46
La 4a offensiva si conclude con 49.500 perdite da parte italiana.
La Compagnia di Slataper, nel frattempo, viene arretrata in seconda linea per il consueto
avvicendamento e il 23 novembre Slataper può scrivere alla moglie:
[…] arrivammo sballottati per il fango alto mezzo metro, sotto una pioggia spaventevole,
senza saper né dove né come. La prima gioventù è finita col Carso, la gioventù buona,
raccolta è finita all’ospedale di Modena, ora mi sento uomo. Non ho più l’imprudenza pronta
e gli scatti dei 20 anni. Mi sento più ponderato, più prudente.47
All’attività intellettuale astratta si è sostituita la realtà della trincea; la vita in comune con un popolo
che a malapena comprende gli ordini che gli vengono impartiti; gente umile che non ha voluto la
guerra e che ora viene mandata a conquistar trincee difese da svariati ordini di fili spinati e da
micidiali nidi di mitragliatrici. Lo scenario è totalmente mutato: non più dibattiti tra intellettuali ma
lotta per sopravvivere con dignità nel fango, nella sporcizia, nell’orrore delle inutili stragi.
Slataper, come la maggior parte dei volontari giuliani, si sente responsabile della sorte che
condivide con l’inconsapevole popolo italiano e sente il dovere di partecipare anche alle azioni più
pericolose, come tutti i suoi commilitoni.
44
Si utilizza qui la denominazione errata del Monte Calvario, adottata di norma dalla storiografia italiana.
L’errore deriva dall’aver scambiato la denominazione della frazione di Gorizia posta alle pendici del Calvario,
appunto Pod=sotto, Gora=il monte per la denominazione del monte.
45
P. Pieri, L’Italia nella prima guerra mondiale Einaudi, Torino 1965, pag. 72 Val la pena segnalare che non
risulta la presenza di contingenti polacchi e dalmati nel settore mentre erano largamente rappresentati
contingenti ungheresi e bosniaci.
46
F. Weber, Dal Monte Nero a Caporetto. Le dodici battaglie dell’Isonzo (1915-1917) Mursia, Milano 1994,
pag. 85
47
S. Slataper, Lettere Fratelli Buratti Editori, Torino 1931 pag. 228
15
Il 1° dicembre, dopo un brevissimo periodo di riposo, giunge un nuovo ordine di partire per le
trincee del Podgora, a dare il cambio alla brigata Puglie. Slataper così commenta il nuovo
avvicendamento:
Par che questa sarà l’ultima nostra prova, che poi finalm[ente] il reggimento avrà il suo
riposo.48
Due giorni dopo, il 3 dicembre 1915, Scipio Slataper, colpito alla gola, muore all’età di 27 anni.
Prima di partire per l’azione sotto il “Fortino” del Podgora lascia un breve messaggio alla moglie:
Ci offriamo volontari con Guido e Martelli. Guido è già in trincea. Sono sicuro che tutto
andrà bene. Un bacio a Scipio Secondo.49
Seguiamolo nelle ultime ore della sua esistenza con le parole di Giani Stuparich:
Scipio Slataper, quando saliva quell’ultimo tratto del Podgora che gli costò la vita,
rappresentava nella sua coscienza il sacrificio necessario di tutti quei figlioli italiani che
venivano mandati a morire sotto il reticolato dei nemici. Egli non approvava che si
perdessero tante vite per mancata preveggenza o per insufficienza di mezzi, ma se per
cementare la storia avvenire della patria c’era bisogno anche di quel sangue così
dolorosamente versato, egli non poteva preservare il suo, con la scusa che i generali
italiani fossero tanti ignobili carnefici; egli doveva anzi esser pronto a versarlo con
coscienza come poi fece. Era giunto il momento in cui nel termine di italiano ubbidiente
“alle sante leggi della patria” gli si risolvevano i due termini di uomo e di poeta […]. C’è di
più. Anche un altro termine era compreso nell’italiano ubbidiente alla patria, quello del
triestino, senza il quale come non si capirebbe la vita, così meno perfettamente si capirebbe
la morte di Scipio Slataper.50
Cinque anni prima, Slataper annotava:
Un giorno, ancora giovane, camminando nel Carso, quando i sassi ed i fiori mi diranno le
cose che ho già dette, allora uno slavo mi scaglierà addosso un sasso corroso e forte e
pieno di spigoli. E io cadrò giù, sul Carso. Non nel letto, non lacrime e puzza e bisbigli e
passi cauti nella stanza. Voglio morire alla sommità della mia vita, non giù. Sarà l’ultima
Calata portato a spalla.51
La notizia della morte di Slataper si diffonde rapidamente. Tra le molte testimonianze, cito quella di
Gabriele Foschiatti, personaggio poco noto fuori Trieste, ma emblematico dell’irredentismo
democratico giuliano. Foschiatti era un irredentista mazziniano, accorso in Albania e poi in Grecia
già nel 1911 nelle fila di Ricciotti Garibaldi. Si arruola volontario nell’esercito italiano sin dal maggio
1915. Sopravvissuto alla guerra, prende parte alla spedizione fiumana nel manipolo dei legionari
mazziniani. Durante il ventennio assume posizioni di netta opposizione al fascismo e rappresenta il
Partito d’Azione nel primo comitato clandestino del CLN di Trieste. Muore a Dachau, nel 1944, a
seguito di una delazione.
[…] hai letto Bruno? Ancora un altro che se ne va: Scipio Slataper. Io piansi quando nel
Corriere lessi la notizia; pensai al povero fratello suo che lo idolatrava; pensai alla madre
48
S. Slataper, Lettera del 1 dicembre 1915 alla moglie. La lettera non è inserita nella raccolta curata da G.
Stuparich. L’originale si trova nella raccolta dei manoscritti slataperiani custodita dall’Archivio di Stato di
Trieste.
49
S. Slataper, Lettere op. cit. pag. 235
50
G. Stuparich, Scipio Slataper, op. cit., pagg. 234-5
51
G. Stuparich, op. cit. pag. 236
16
sua che forse ha un altro figlio morto in Serbia […]. Mi parlava spesso a Udine, il giovane
Slataper, di quest’altro fratello suo che partito, ufficiale austriaco per la Serbia, da parecchi
mesi non dava più sue notizie. Trieste nostra perde chi domani avrebbe dovuto essere una
delle sue guide intellettuali, spirituali […].52
Per l’azione sul Podgora a Scipio e Guido Slataper vennero tributate due M.d’A.
Scipio Slataper da allora riposa in un piccolo fazzoletto di terra, poco distante dal luogo dov’era
stato colpito. (fig. 12)
Sull’attuale pietra tombale, per desiderio di sua moglie Gigetta, oltre al nome del nonno vi è il
nome di mio padre Scipio Secondo che, nato tre settimane dopo la morte di suo padre, riposa in
Russia accanto ai suoi alpini. (fig. 13)
Nell’azione del 3 dicembre 1915, Scipio Slataper si offriva volontario assieme al fratello Guido, di
nove anni più giovane di lui. Guido è l’ultimo dei fratelli Slataper e viene colto dall’inizio della
guerra che ancora faceva i conti con l’ultimo anno delle scuole superiori. Per dir meglio, lui i conti li
aveva già chiusi e aveva raggiunto Amburgo, all’insaputa dei genitori, ospite di mia nonna Gigetta
e di suo fratello Scipio.
Quando Scipio abbandona precipitosamente Amburgo per tornare in Italia, Guido lo segue e tenta
di arruolarsi volontario, come il fratello, sennonché alle difficoltà che si opponevano
all’arruolamento degli irredenti giuliani s’aggiungeva l’insormontabile problema dell’età, non
essendo Guido ancora maggiorenne.
Trovata la scorciatoia, Guido si arruola alcune settimane dopo il fratello e giunge al fronte quando
suo fratello, dopo esser stato ferito a Monfalcone, era già stato tradotto all’ospedale di Modena.
Scipio e Guido si ritrovano al fronte verso la fine di settembre, entrambi fanti della Brigata Re.
(fig.14)
Nell’azione del 3 dicembre in cui Scipio viene colpito a morte, Guido rimane ferito al ginocchio e
segue la stessa trafila del fratello: ospedale militare, convalescenza, successivo ritorno al fronte.
Tornato al fronte, Guido Slataper si distingue nei combattimenti per la conquista del Sabotino, ma il
suo nome resta legato all’effimera conquista del Monte Santo, avvenuta il 14 maggio 1917 e
durata meno di 24 ore a causa del mancato invio dei rincalzi per il consolidamento delle posizioni
conquistate. (fig. 15 - 16)
La mancata conquista del Monte Santo rappresenta uno degli esempi dell’inadeguatezza dei
comandi italiani nella conduzione di una guerra offensiva. L’attacco alla dorsale Monte Santo, Sella
di Dol e Veliki Hrib (q. 528 del San Gabriele) è affidato al VI C.d.A., comandato dal gen. Gatti e, in
particolare, l’assalto al Monte Santo è affidato alla brigata Campobasso, comandata dal gen.
Battaglia il quale, nei giorni precedenti l’offensiva, aveva proposto sia a Gatti che a Capello,
comandante della II Armata, una geniale azione di sorpresa, condotta lungo il fianco scosceso del
monte che costituisce la sponda sinistra dell’Isonzo. La proposta nasceva dal fatto che accurate
osservazioni avevano rilevato una notevole debolezza dell’apparato difensivo austriaco sul
versante dell’Isonzo, dovuta probabilmente all’erronea convinzione che un attacco italiano non
sarebbe mai potuto venire da un’erta così acclive e con un così rilevante dislivello (600 m) tra le
trincee austriache e le sottostanti linee italiane.
52
G. Fogar, Gabriele Foschiatti Del Bianco Editore, Udine 1966, pag. 41. Il destinatario della lettera è Bruno
Tommasini, figura di spicco del combattentismo triestino, co-fondatore con Guido Slataper dell’Associazione
Mutilati e Invalidi di Guerra
17
L’idea del gen. Battaglia aveva però il difetto di divergere dai piani del gen. Capello che
prevedevano la caduta del Monte Santo per aggiramento da Nord, dalla dorsale Monte Cucco e
Monte Vodice e sfondamento a Sud, attraverso la sella di Dol, ragion per cui veniva bocciata e
veniva autorizzato l’utilizzo di un solo battaglione, mentre il grosso della brigata avrebbe dovuto
forzare la sella di Dol.
Tra le tante, mi avvalgo della descrizione dell’azione fornitaci dallo storico Orio di Brazzano che
coincide sostanzialmente con quella appresa dalla viva voce di mio zio:
Nel tardo pomeriggio del 14, il III battaglione del 230° fanteria usciva dalle trincee di quota
59, a Nord-Est di Salcano e, seguendo il fondovalle […] si portava sotto il versante
occidentale del Monte Santo e ne iniziava l’ascesa lungo la mulattiera proveniente da
Zagora. Verso le 18 veniva raggiunta la mulattiera più alta che attraversa il fianco del monte.
[…] Di lì il battaglione si lanciava all’assalto delle trincee di cresta e raggiungeva le rovine
del santuario sulla vetta. Alle 19 il Monte Santo era conquistato ed il presidio, ancora in
gran parte ricoverato nelle caverne, era fatto prigioniero.53
Sin dalle prime fasi dell’azione, al comando del battaglione era rimasto un unico ufficiale, il giovane
tenente Guido Slataper.
Più di cinquant’anni dopo, di ritorno dal Podgora dove ogni anno il 3 dicembre portavamo dei
garofani rossi sulla tomba di mio nonno, zio Guido ricordava ancora la fatica di risalire a balzi le
ultime centinaia di metri prima delle trincee austriache, tra il grandinare dell’artiglieria amica. Mi
raccontava della cattura degli Honved ungheresi, che uscivano dai propri ricoveri, inebetiti dalle
esplosioni, chiedendo solamente un po’ d’acqua e di pane dopo tre giorni in cui nulla era potuto
arrivare in vetta a causa dell’intensità dei bombardamenti italiani.
Ricordo ancora quando, guardando verso il Monte Santo, su cui sventolava ormai da anni la
bandiera jugoslava, con quei suoi occhi grigio-azzurri che, dicono, fossero molto simili agli occhi di
mio nonno Scipio, sovrappensiero quasi volesse concludere un lungo racconto, mormorò
lentamente con la sua voce profonda “…cosa abbiam fatto a far la guerra all’Austria!”
Alcune ore dopo, i conquistatori del Monte Santo venivano, a loro volta, travolti e fatti prigionieri dal
contrattacco portato prontamente dagli austriaci – altro che la lentezza dei rincalzi italiani! – e
Guido Slataper, fortunatamente senza esser riconosciuto quale irredento, veniva avviato al campo
di prigionia di Mauthausen dal quale riusciva a fuggire verso la fine di ottobre 1918, approfittando
dello sbandamento dell’apparato statale austriaco nei giorni precedenti la resa.
Per l’azione sul Monte Santo, a zio Guido venne tributata la M.d’O.
Tornato a Trieste, in una città divenuta ben presto un laboratorio di “apprendisti stregoni”, in cui si
sperimentano tutte le principali miscele che avrebbero condotto, nel giro di qualche anno,
all’avvento del fascismo, Guido Slataper cerca di riannodare i legami tra il movimento irredentista
di stampo repubblicano e coloro che erano sopravvissuti alla guerra. Il combattentismo e una sua
particolare espressione costituita dall’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra rappresentano per
Guido Slataper il tentativo, destinato a fallire, di dare continuità al mazzinianesimo d’anteguerra,
incanalando le energie di quanti avevano trovato nella comune esperienza di trincea l’occasione
per conoscersi e stimarsi. Ma significa anche, terminata la belligeranza, riconoscere la dignità e le
sofferenze patite dai giuliani che avevano militato sotto le insegne dell’Impero austro-ungarico. E’
un argomento che il nuovo irredentismo, quello che aveva combattuto lontano dal fronte, dai tavoli
dell’Aragno54, non intende affrontare e per questo motivo, per paradossale che possa essere,
ancor oggi non è disponibile l’elenco dei caduti giuliani dell’esercito austriaco.
53
O. di Brazzano, La Grande Guerra sulla Fronte Giulia (1915-17) Edizioni Panorama, Trento 2002, pag.204
Gli irredentisti del bar Aragno di Roma, oggetto del sarcasmo degli irredentisti che combattevano al fronte,
sono ricordati sia da Foschiatti che da Stuparich. Tra di essi vanno annoverati alcuni dei più importanti
54
18
Con un gruppo dei mutilati di guerra irredenti fonda il giornale “La Frontiera” che per alcuni anni
cerca di contrastare l’affermazione dello squadrismo fascista guidato dall’avv. Giunta, resosi
famoso per l’assalto e l’incendio al Narodni Dom, il 14 luglio 1920.55
Ma il movimento fascista coglie ben presto l’insidia rappresentata dal gruppo costituitosi attorno
alla Compagnia Volontari Giuliano Dalmati e all’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra, che vede
appunto tra i fondatori Guido Slataper, ed esercita una progressiva e determinante azione per
sgretolarne la compattezza. Si giunge così, attorno al 1925, alla scissione della Compagnia in due
tronconi, l’uno d’orientamento filo fascista, l’altro fedele all’impostazione originaria. La pressione
esercitata dal partito fascista determina dapprima la cessazione delle pubblicazioni de “La
Frontiera” e successivamente l’adesione, più o meno forzata, al fascismo di tutti i componenti del
direttivo della Compagnia Volontari.
La politica di repressione dei diritti civili, condotta in maniera quanto mai radicale contro le così
dette popolazioni “allogene”, cioè contro il gruppo etnico sloveno, produce però danni irreparabili
alla convivenza tra italiani e sloveni in Venezia Giulia, inducendo, nel maggio del 1931, i dirigenti
della Compagnia Volontari a far giungere allo stesso capo del governo, Mussolini, un memoriale
dai toni estremamente cauti ma nel quale si chiedeva di mutare radicalmente la politica nei
confronti degli “allogeni”.56
Nonostante che il documento sottintendesse, più di quanto esplicitamente denunciasse, indicava il
fallimento di 12 anni di politica fascista verso la minoranza slovena e fu considerato “sacrilego” da
parte del regime che provvide ad azzerare la sezione triestina della Compagnia e a espellere dal
PNF tutti i firmatari dell’appello.
L’espulsione dal partito poteva significare anche perdita del posto di lavoro e Guido Slataper si
trasferirì a Roma per trovare un’adeguata occupazione.
Quando inizia l’avventura etiope, si offre volontario e durante la campagna viene nuovamente
promosso per meriti di guerra al grado di Tenente Colonnello, ottenendo una sorta di riabilitazione
sul piano della vita civile.
Sicché, alla conclusione delle ostilità, torna alla propria originaria attività sino allo scoppio del
secondo conflitto mondiale. Richiamato alle armi con il grado di Colonnello, partecipa alla
campagna d’Albania, dove guadagna una seconda Medaglia d’Argento, venendo definitivamente
congedato, nel 1941, per raggiunti limiti d’età.
Sono anni di grande travaglio per Trieste e la Venezia Giulia in cui la parabola dell’alleato tedesco,
sino ad allora vittorioso su tutti i fronti teatro di guerra, inizia a declinare anche per la follia politicostrategica dell’attacco alla Russia.
Trieste assiste con preoccupata attesa all’occupazione della Jugoslavia poiché è ancor viva l’idea
che l’area balcanica possa alimentare sconvolgimenti dagli esiti imprevedibili; inoltre, si ha ragione
di ritenere che la rottura dell’accordo Molotov-von Ribbentrop possa indurre i movimenti
resistenziali jugoslavi a dare inizio alla lotta di liberazione dall’occupazione nazifascista.
L’ 8 settembre 1943 segna, nelle regioni di confine e nei territori conquistati poco più di due anni
prima, la tragica dissoluzione di ogni forma d’amministrazione italiana e rappresenta l’inizio di uno
esponenti del fascismo quali lo storico Attilio Tamaro, autore de La Storia di Trieste, il più noto saggio della
storiografia nazionalista su Trieste.
55
Tra i fondatori del giornale va annoverato anche quel Bruno Tommasini, cui si rivolgeva G. Foschiatti nella
lettera citata alla nota 50.
56
Per maggiori dettagli sull’appello a Mussolini vedi A. Apollonio Venezia Giulia e Fascismo 1922–1935
L.E.G., Gorizia 2004 pagg. 329-330
19
sbandamento generale, di un vergognoso “si salvi chi può”, durante il quale, tranne pochissime
eccezioni, i rappresentanti apicali dello stato, sia civili che militari, e gli esponenti di spicco del
fascismo ricorrono ad ogni mezzo per mettersi in salvo, abbandonando, senza alcuna direttiva, i
propri uffici e, quel che è peggio, intere formazioni perfettamente inquadrate, armate e in grado di
opporre una resistenza efficace se adeguatamente comandate.
Di fronte a quello che può definirsi un vero e proprio tradimento dello Stato, la Trieste borghese
accoglie le truppe naziste e l’oliato apparato amministrativo germanico quasi con sollievo e il
tedesco occupante sfrutta abilmente il ricordo della vecchia amministrazione asburgica. Con abili
provvedimenti cerca d’ingraziarsi pure la componente etnica slovena57. Le due comunità egemoni
sono divise tra un atteggiamento di rifiuto dell’occupante e un’apertura collaborazionista. In
particolare, la borghesia italofona vede nell’appoggio all’occupante tedesco l’unica difesa dal
pericolo slavo, inteso come portatore dell’ideologia comunista oltre che rappresentante di un’etnia
concorrente.
La tragicità del momento storico divide la comunità triestina di lingua e sentimenti italiani in una
gamma d’atteggiamenti individuali che, quando non sono frutto di un deliberato calcolo,
discendono da fattori psicologici, cerchie di conoscenze, da orientamenti politici e propensioni della
più varia natura. Guido Slataper, sollecitato ad assumere un ruolo guida di una comunità
disorientata dal precipitare degli eventi, declina ogni offerta quasi ad evitare di farsi coinvolgere in
una lotta che avrebbe creato nuove fratture nella società già profondamente provata dai trascorsi
del ventennio e dalle vicende belliche in corso. Al di là dei propri specifici orientamenti politici, il
suo sforzo era stato sempre – sin dai tempi dell’associazionismo combattentistico degli anni Venti
– quello di unire più che dividere58, per cui non ritenne di scendere nuovamente in campo, come
oggi si suole dire, dopo le tante battaglie condotte da giovane.
Non fu però un commiato dalla vita pubblica triestina perché negli anni più bui del secondo
dopoguerra, quando le sorti della Venezia Giulia erano appese agli esiti della lotta tra Oriente e
Occidente, Guido Slataper svolse un’importante funzione di raccordo con gli organi dello Stato
italiano sia a livello politico, come figura preminente attorno cui aggregare la comunità italiana, sia
come ascoltato conoscitore delle vicende cittadine59, capace di serbare la necessaria equidistanza
e l’equilibrio di giudizio richiesto dalla delicata situazione di Trieste negli anni della guerra fredda.
Avrei voluto concludere qui il mio racconto, sembrandomi che nel centenario della Grande guerra
fosse giusto ricordare solamente i “padri”, ma per la ferma e affettuosa insistenza del Presidente
del Vostro sodalizio, aggiungo qualche parola sui “figli”, per i quali l’andare in guerra non fu il
coronamento di un impegno ideale e politico ma, unicamente, il desiderio di compiere il proprio
dovere, per “non esser diversi dagli altri”.
Mi sembra, a questo proposito, significativo citare un passo della lettera scritta da mio padre,
Scipio Secondo Slataper, a Gianni Stuparich, il 26 maggio 1941:
[…] tra me e me ho pensato a quello che era stato per voi andare al fronte e ciò che ora
proviamo noi, […] gli ideali con i quali voi avete fatto la vostra guerra, vi sono sgusciati di
mano e vi siete trovati con le mani vuote in un mondo che, malgrado il vostro sacrificio, non
segue più la vostra legge. Noi vogliamo ora andare al fronte senza il senso di saper bene il
perché, credo senza nessuna illusione, senza nessun ideale, […] per sentirci tra i nostri
57
Tra gli altri si cita la riapertura di scuole in lingua slovena
Va ricordata la campagna condotta per il riconoscimento dei giuliani che avevano combattuto sotto le
insegne dell’Impero Austro-Ungarico
59
Anche se oggi la testimonianza potrebbe venir fraintesa, sul finire degli anni ’50 ho assistito ad un
interessante colloquio (avvenuto a margine di pranzo organizzato presso il Jolly Hotel di Trieste) tra
l’on.Andreotti e zio Guido, durante il quale l’esponente democristiano, particolarmente ben informato dei
problemi triestini, chiedeva il parere su alcuni aspetti dell’economia locale. La familiarità usata nel colloquio
mi fece pensare ad una certa consuetudine tra i due personaggi.
58
20
compagni […]. Cosa ci resta da fare? Andare contro corrente non ci siamo riusciti gli anni
passati, tanto meno ci riuscirebbe ora. Tirarsi da parte, isolarsi? E’ quanto abbiamo fatto in
fondo fino ad ora. Ma ormai non è più possibile stare al bando, stare soli. Resta solo
mettersi nella corrente […] e cercare di non perdere la propria dignità.60
Non sono parole di un letterato ma, rivolgendosi a colui che era stato suo professore di liceo,
compagno di suo padre e amico di famiglia, rivelano con estrema semplicità il sentimento con cui
la generazione dei “figli” prese parte alla Seconda Guerra mondiale.
Nel dedicare qualche accenno anche ai “figli”, non mi limiterò, però, a ricordare i tre cugini
Slataper, ma accennerò a un gruppo di amici che condivisero con loro studi, sport, interessi e
scelte di vita, quasi a voler dimostrare che l’esortazione di Slataper padre E i nostri figli sieno
educati al sacrificio, e non al tornaconto non era una pura espressione letteraria.
Desidero accomunare nel ricordo: Scipio Secondo Slataper, Sergio Forti, Falco Marin, Franco
Slataper, Fulvio Ziliotto, Giuliano Slataper. (fig. 17 - 18)
Stessa provenienza sociale, stesse scuole, stesse passioni sportive: la vela e l’alpinismo (la
doppia anima di Trieste sportiva); scelte di studi universitari per lo più analoghe.
Di loro sei, uno solo è sopravvissuto alla guerra.
Giuliano Slataper, il più giovane del gruppo è anche il primo a cadere ad Arnautovo, in Russia,
durante le fasi di sfondamento della sacca del Don. E’ ricordato nelle pagine di Nuto Revelli e di
Mario Rigoni Stern, suoi compagni d’arma. Alla sua memoria è stata tributata la M.d’O.
Scipio Secondo Slataper, catturato durante le fasi di ripiegamento dal Don, muore in campo di
concentramento. E’ ricordato nelle pagine di Giulio Bedeschi e di Aldo Rasero. Alla sua memoria è
stata tributata la M.d’O.
Falco Marin, cade a Trebnje (Slovenia), in un’imboscata di partigiani. Alla sua memoria è stata
tributata la M.d’A.
Sergio Forti, cade sull’Appennino umbro dopo essere stato catturato e atrocemente seviziato dai
nazisti. Alla sua memoria è stata tributata la M.d’O.
Fulvio Ziliotto, cade in Lombardia durante un’azione delle brigate Giustizia e Libertà.
Franco Slataper, è l’unico sopravvissuto dei sei grazie alla “fortuna” di esser stato fatto prigioniero
ad El-Alamein. Alpino, paracadutista passato alla “Folgore” in vista dell’attacco all’isola di Malta,
finisce a combattere tra le dune desertiche egiziane. Gli è stata tributata la M.d’A.
Come loro, molti altri “figli” di Trieste, cresciuti con lo stesso senso del dovere e con la stessa
concezione della dignità dell’uomo, sono deceduti a seguito delle vicende belliche che hanno
coinvolto l’Italia e il confine orientale in particolare.
Di loro, oggi, a differenza dei “padri”, il ricordo va perdendosi, eppure anche loro, come e quanto i
loro “padri”, compiendo il proprio dovere, contribuirono ad onorare la dignità della nostra Patria.
60
Lettera autografa conservata nell’archivio Scipio Secondo Slataper
21
Fig. 1
Gli Slataper. Da sinistra in piedi: Gastone, Nerina, Guido, Scipio, Wanda. Sedute le
giovani mogli di Gastone e di Scipio.
22
Fig. 2
Mappa di Trieste del 1698, raffigurante l’antico borgo medievale, il vecchio mandracchio,
le saline e le coltivazioni di viti e olivi negli immediati dintorni.
23
Fig. 3
Mappa di Trieste del 1849, raffigurante lo sviluppo della “Città Nuova”, l’odierno Borgo
Teresiano, i principali insediamenti di Borgo Chiozza, l’inizio delle lottizzazioni dei Borghi
Franceschino e Giuseppino e l’ubicazione del Lazzaretto Nuovo.
24
SVILUPPO DEMOGRAFICO DEL COMUNE DI TRIESTE
ANNO
ABITANTI
FONTE
1735
3.865
M
1758
10.835
L+M
1775
15.784
L+M
1802
27.576
M
1812
24.633
M
1821
45.390
M
1846
79.362
L
1857
104.707
CG
1869
123.098
CG
1880
141.740
CG
1890
155.471
CG
1900
176.383
CG
1910
226.412
CG
1913
247.099
G
CG = Censimento Generale
rale Comune
ComunedidiTrieste
Trieste
G
= Godoli Trieste. Laterza Bari 1984
L
= Luzzatto Fegiz La popolazione di Trieste (1875-1928) Ed. Lib. Trieste 1929
M = Montanelli Il movimento storico della popolazione di Trieste Trieste 1905
Fig. 4
Scheda relativa ai dati demografici della città di Trieste.
25
Fig. 5
Lasciapassare rilasciato dalla Magistratura Civica della “fedelissima città e porto franco di
Trieste” al fonditore Lodovico Smolars, nativo della Moravia ma immigrato a Trieste per
prestare la propria opera presso le Officine Meccaniche Strudthoff, denominazione
originaria della futura Fabbrica Macchine.
26
Fig. 6
Facciata principale di villa Slataper, chiamata anche Borahall dal suo precedente
proprietario, George Moore, console degli Stati Uniti a Trieste.
27
Fig. 7
Ritratto di Anna Gioietta Pulitzer, carboncino eseguito da Luisa Carniel
28
Fig. 8
Ritratto di Elody Oblath, pastello eseguito da Luisa Carniel
29
Fig. 9
Autoritratto di Luisa Gigetta Carniel, carboncino
30
Fig. 10
Mappa etnografica, pubblicata sul numero de “La Voce” del 18 dicembre 1910. Le aree a
tratteggio corrispondono alle zone a maggioranza italofona sulla base del censimento
austriaco del 1900.
31
Fig. 11
Luisa Gigetta Carniel e Scipio Slataper nel settembre 1913
32
Fig. 12
Mappa raffigurante le varie linee di confine in vigore (o proposte) dal 1866 al 1947. La
linea di confine del 1939 corrisponde, salvo minimi dettagli, allo spartiacque alpino (da D.
de Castro La Questione di Trieste, Lint, Trieste 1981)
33
Fig. 13
Carta geografica del Friuli Venezia Giulia concepita nel 1913 da Cesare Battisti, ma
pubblicata nel 1919, nella quale è indicato un “confine naturale” che comprende anche
territori esterni alla linea dello spartiacque propriamente detto (Monte Bitorai e vallone di
Cerknica)
34
Fig. 14
Tomba di Scipio Slataper sul Calvario negli anni Trenta. E’ ancora chiaramente visibile il
camminamento che portava in prima linea, sotto il “Fortino”.
35
Fig. 15
Aspetto attuale della tomba di Scipio Slataper. Ai piedi della croce è fissata la lapide
dettata da G. Foschiatti nel 1916.
36
Fig. 16
Scipio e Guido Slataper a Sacile nel settembre del 1915
37
Fig. 17
Mappa topografica dell’area a Nord di Gorizia nella situazione attuale. Sulla sinistra
orografica dell’Isonzo è visibile la dorsale Monte Cucco, Vodice, Monte Santo. Di fronte, la
cresta del Sabotino e, in basso a destra, il M. Calvario (Podgora).
38
Fig. 18
Il Monte Santo dal Sabotino con, a destra, la Sella di Dol e, sullo sfondo la cresta del
Monte San Gabriele.
39
Fig. 19
Falzarego 1938. I “figli” e i loro amici. In piedi da sinistra: Sergio (Gigi) Forti, Scipio
Secondo Slataper, Fulvio Ziliotto, Franco Slataper.
40
Fig. 20
I “figli” sul ghiacciaio della Marmolada. In piedi da sinistra: Sergio (Gigi) Forti, Franco
Slataper, Fulvio Ziliotto; accosciata: Julia Marini.
41
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