Il presente documento è la versione integrale del testo redatto per la conferenza tenutasi il 10 aprile 2015 presso il Centro Studi storico-militari “gen. G.Bernardini” di Bologna. Nel corso della conferenza, per ragioni di tempo, sono state omesse alcune parti del testo. Il cortometraggio cui si fa cenno nel testo, è stato realizzato dalla sede RAI di Trieste nel 2012 in occasione del centenario della pubblicazione de “Il mio Carso”. Non viene allegato perché soggetto a copyright. STORIA DI UNA FAMIGLIA, STORIA DI UNA CITTA’ La rievocazione di ricordi familiari così strettamente legati ai due principali eventi che hanno caratterizzato il XX secolo, cioè le due guerre mondiali, non ha molto senso – a mio avviso – se, uscendo dalla ristretta cerchia familiare, non si comprende la realtà di una città come Trieste che è il contesto sociale e culturale in cui vissero le persone che ricorderemo questa sera. Storia di una famiglia, quindi, ma soprattutto storia di una città. Quest’anno si celebra il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nella Prima Guerra mondiale. A Trieste, le commemorazioni sono iniziate, viceversa, lo scorso anno poiché, per i triestini, l’inizio delle ostilità coincide con l’aggressione della Serbia da parte dell’Austria, la notte tra il 28 e il 29 luglio 1914. Trieste contemporaneamente cosmopolita e nazionalista, danubiana e provinciale, piena di traffici, di ricchezze, di miserie ma anche d’idealità di progresso, entra nel clima di guerra senza quelle manifestazioni di giubilo – quasi si trattasse di un’allegra scampagnata di qualche mese – che accompagnano la mobilitazione a Vienna e a Berlino.1 Il motivo non viene da una maggior consapevolezza delle conseguenze che avrebbe portato la guerra ma dal fatto, ben più banale, che a Trieste, a differenza del restante Impero, l’obbligo della leva era stata introdotto da qualche decennio e la novità non era ancora ben digerita. A Trieste, dunque, la mobilitazione scatta un anno prima che in Italia e la popolazione maschile, arruolata nell’esercito della Duplice Monarchia, viene inviata prima in Serbia e nel Montenegro e, poi, nei Carpazi e in Galizia.2 Già questa sfasatura cronologica segna la diversità di Trieste dall’Italia, dal Regno, com’era chiamata l’Italia dai triestini. E, tornando all’ambito strettamente familiare, è emblematico il fatto che, nell’estate del 1914, Gastone, fratello maggiore di Scipio e Guido, proprio mentre questi ultimi abbracciavano la causa dell’interventismo contro l’Austria, venisse richiamato dall’esercito austriaco e inviato sul fronte serbo.(fig. 1) Trieste contribuirà alla guerra con oltre 30.000 uomini nell’esercito austro-ungarico e poco più di 1.000 “irredenti” che, sfidando la forca, si arruolano volontari nelle fila dell’esercito italiano. Le due cifre non possono, naturalmente, esser messe a confronto perché una cosa è assolvere l’obbligo della leva, altra cosa è disertare a rischio della vita. Tuttavia, resta il fatto che – contrariamente alla retorica nazionalista – la diffusione dell’irredentismo a Trieste fu un atteggiamento ristretto ad un’esigua minoranza del ceto medio, con qualche ramificazione nel ceto popolare d’orientamento mazziniano o anarchico.3 Storia di una famiglia – dicevo – e anche storia di una città, ma non nel senso di identificazione dell’una nell’altra, bensì nel senso che le due storie sono così strettamente intrecciate che non è possibile comprendere l’una senza conoscere l’altra. 1 “Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi” è il saluto di Guglielmo II di Prussia alle truppe che partivano per il fronte. 2 Solo un battaglione del 97° reggimento fanteria rimane nelle retrovie del Carso, poiché l’alto comando austro-ungarico non confidava molto sulla fedeltà di truppe costituite da coscritti provenienti dalle regioni di confine. 3 Mario Alberti, uno dei più attendibili storici nazionalisti, parla di un’adesione pari a circa il 3% della popolazione presente a Trieste, nell’ambito del quale la presenza attiva poteva esser valutata a non più del 10% di quanti professavano ideali irredentistici. Cfr. M. Alberti: Irredentismo senza romanticismi Ist. Tip. Cavalleri, Como 1938. 2 La singolare parabola di Trieste, dedita agli Asburgo dal 1382, “città immediata dell’Impero”4 per augusta concessione dell’Imperatore e, come ha scritto Aldo Cazzullo in un recente articolo sul Corriere della Sera, “inventata dagli austriaci, e dimenticata dagli italiani”5, si sviluppa tra i tipici contrasti delle terre di confine dove la propria identità dev’esser conquistata giorno per giorno in un continuo confronto con l’altro, con il diverso da sé. Il richiamo alle origini romane di Trieste, su cui tanto ha insistito certa propaganda prima, durante e dopo il ventennio, è uno dei tentativi di costruzione di un mito non corrispondente alla realtà poiché, agli inizi del ‘700, Trieste era un misero borgo medievale di poco più di tremila anime, governato da alcune famiglie “patrizie” le cui origini, come del resto quelle dei restanti abitanti, poco avevano a che vedere con le famiglie dei legionari romani, insediate nel castrum tergestinum, il primo e secondo secolo dopo Cristo. Il borgo viveva del commercio del sale ricavato dalle saline fuori porta e del commercio dell’olio e del vino prodotti nell’agro circostante (fig. 2). La vita era quanto mai stentata e la lontana protezione asburgica difendeva a malapena il borgo dalle mire della Serenissima, determinata a sottomettere ogni potenziale concorrente nell’Alto Adriatico. Neppure l’istituzione del porto franco da parte di Carlo VI, nel 1719, vale a sollevare l’economia triestina dalle sue misere condizioni: ci vuole ben altro per inserirsi nei traffici commerciali dell’Adriatico, soggetti al controllo veneziano. Il propellente che determina il decollo economico e demografico di Trieste viene probabilmente, per singolare che possa apparire l’affermazione, da alcuni provvedimenti in tema di libertà religiose assunti dalla cattolicissima e lungimirante Maria Teresa d’Austria e da suo figlio Giuseppe II. Tra il 1754 e il 1782 viene concessa, infatti, libertà di culto alle principali religioni dell’area mediterranea6 e, a differenza dalla Serenissima, alle libertà di culto vengono associati tutti i diritti civili che consentono alle diverse comunità religiose di esercitare qualsiasi attività economica, di esprimersi liberamente nella propria lingua e di aprire proprie scuole. La conseguenza è che Trieste comincia ad attrarre da tutto il Mediterraneo comunità turche, ebraiche sefardite e aschenazite, serbo-ortodosse, greco-ortodosse, armene, protestanti e islamiche tanto di origine balcanica che nordafricana. Agli inizi dell’800, si contano in città ben 12 “chiese” a rappresentare altrettante comunità nazionalreligiose, ciascuna delle quali – al proprio interno – coltiva le proprie tradizioni e la propria cultura. Solamente nella vita pubblica e nell’esercizio delle attività commerciali si ricorre a una lingua franca che non è più l’originaria parlata vetero-romanza – il così detto “tergestino” – ma è la lingua franca parlata e compresa in tutto il bacino mediterraneo. Il borgo, chiuso nella cadente cerchia muraria medievale, si trasforma progressivamente in una città emporiale, cosmopolita, che si espande fisicamente ed economicamente con l’affluire di capitali e di risorse umane. (fig. 3) 4 La definizione “città immediata dell’Impero”, riconosciuta nel 1850, traduce il termine giuridico tedesco Keisersummittelbar Stadt che significa dipendente direttamente dall’Imperatore senza alcuna autorità intermedia. 5 A. Cazzullo Diventò italiana e iniziò la sua crisi – Trieste, la città che non vediamo Corriere della Sera, 5 aprile 2015, pag.25 6 Nel 1754, viene concessa libertà di culto alla comunità greco-ortodossa; nel 1760, ai sudditi della Sublime Porta; nel 1762, alla comunità ebraica; nel 1771, alla comunità serbo-ortodossa; nel 1775, alla comunità armena; tra il 1779 e il 1782, alle due principali comunità protestanti, quella di rito augustano e quella di rito elvetico. Alla libertà di culto è associata la libertà di commercio, di possesso immobiliare, il diritto di cittadinanza, di erigere propri edifici di culto, aprire proprie scuole ed erigere propri cimiteri. 3 La dinamica demografica, rappresentata nella scheda (fig. 4) attesta un incremento di oltre 200.000 abitanti, tra il 1812 e il 1914. Ma altri e ben più significativi traguardi rendono conto dello sviluppo della città. Trieste, verso la fine dell’800, è la terza città dell’Impero austriaco per numero di abitanti (dopo Vienna e Praga). Il tonnellaggio movimentato dal porto è dell’ordine di grandezza di quello movimentato dai porti anseatici di Amburgo o di Brema. Il traffico portuale, agli albori del ‘900, è il secondo del Mediterraneo, dopo Marsiglia, e il settimo del mondo.7 Il flusso monetario che transita per le banche triestine è – in ordine di grandezza – il secondo dell’Impero. Con il taglio dell’istmo di Suez, la città emporio si trasforma ben presto in uno dei principali porti di transito europei. Vi s’insediano attività industriali di rilievo, collegate al traffico marittimo. Iniziano la loro attività alcune delle più importanti compagnie d’assicurazione europee (Assicurazioni Generali, Riunione Adriatica di Sicurtà). Lo sviluppo economico incentiva l’afflusso in città di popolazioni di diversa composizione etnica mentre il cosmopolitismo che caratterizzava la cittàemporio, con la progressiva trasformazione strutturale in porto di transito, va polarizzandosi progressivamente su tre macro comunità linguistiche: quella italiana, quella slava e quella, largamente minoritaria, austro-tedesca. (fig. 4) Il processo d’assimilazione fa confluire, in definitiva, le 12 “nazioni” originarie in tre gruppi linguistici principali, nel cui ambito la religione perde parte del suo potere aggregante, sostituito da quello dell’identità linguistica, cioè da una scelta di natura volontaristica, operata generalmente a livello di gruppo familiare e collegata alla collocazione sociale della famiglia medesima. Se concentriamo, poi, l’attenzione sul processo d’assimilazione dell’aggregato etnico slavo (sloveno, croato e serbo), esso presenta un vertice attorno alla metà dell’800, dopo di che s’attenua per la progressiva presa di coscienza della propria identità culturale ed etnica e la nascita di un ceto medio slavo che si contrappone a quello di lingua italiana. Il radicamento urbano del gruppo etnico slavo si consolida con la fondazione di proprie istituzioni culturali. Risale, ad esempio, al 1861 l’apertura della prima Čitalnica slovena8 in prossimità di Piazza Grande, cioè nel cuore della vita civile e amministrativa della città. Fa seguito l’apertura di circoli ricreativi, la creazione di cooperative di consumo, di banche e l’organizzazione delle prime scuole private slovene. La formazione di una borghesia slava, nettamente distinta e antagonista della borghesia di lingua italiana, fa sorgere il problema che si porrà alla base della convivenza dei due gruppi etnici, cioè la così detta “questione nazionale”. Ed è proprio l’inasprirsi della “questione nazionale” che fornisce alla borghesia dominante di lingua italiana, rappresentata dal partito liberal-nazionale, l’alibi per occultare il problema di fondo dello sviluppo dell’economia triestina, cioè la “questione sociale”. In altre parole, le due borghesie che vivono di vite parallele, curando ciascuna il proprio particolare, coltivando attività sociali, sportive e culturali sostanzialmente simili, sembrano unite dallo stesso proposito di ostacolare la diffusione dei principi di solidarietà sociale proprio in quei ceti cui tali principi fanno riferimento, agitando e amplificando la gravità della “questione nazionale” quasi che, per tacito accordo, nessuna delle due borghesie voglia rinunciare alla leadership all’interno del proprio gruppo etnico-linguistico. Ma è il partito liberal-nazionale italiano che, avvantaggiato da un sistema elettorale fortemente censitario, riesce a sfruttare la situazione a proprio favore, alimentando con un irredentismo di 7 G. Arneri Trieste,breve storia della città, Lint, Trieste 2013, pag.76. Le Čitalnice erano sale di lettura attorno alle quali ruotava la vita culturale della comunità slovena, articolata su di una pluralità di attività di tipo corale, musicale, teatrale, sportivo e più in generale ludicodopolavoristico. 8 4 maniera il mito del pericolo slavo, il quale, favorito dall’amministrazione asburgica – nella narrazione di parte liberal-nazionale – s’appresterebbe a travolgere le deboli difese oppostegli dalla comunità di lingua italiana. Si tratta, anche in questo caso, della creazione di uno stereotipo che Slataper attribuirà all’irredentismo fighi e zibibe9, cioè a quell’atteggiamento strumentale, diffuso nel ceto mercantile di più basso livello, ben lontano dalle tradizioni mazziniane e libertarie dell’irredentismo risorgimentale. Quell’irredentismo che, senza badare alle intrinseche contraddizioni, denuncia il pericolo slavo proprio nel momento in cui sostiene l’assoluta marginalità numerica della componente slovena, costituita – a suo dire – da un’esiguissima minoranza di contadini, abitanti nel suburbio10. Irredentismo da sfoderare ogni qual volta si tratti di contrastare le montanti richieste di maggior equità sociale da parte delle classi subalterne, ma da riporre accuratamente nel cassetto quando si tratti di ottenere dal governo centrale di Vienna vantaggi economici per i propri interessi. Eppure, nonostante la miopia del partito liberal-nazionale e l’ondivago procedere della politica asburgica nell’ultima metà dell’80011, l’economia triestina vive il momento di maggior sviluppo – mai eguagliato da allora – e la città è un esempio di operosità diffusa che neppure la questione nazionale e quella sociale sembrano ostacolare. In questo contesto nasce e si forma Scipio Slataper. (DVD) 12 Il cortometraggio cui abbiamo assistito costituisce la cornice, lo scenario entro cui calare la figura di Slataper. Ma, in questa mia testimonianza intendo analizzare, in particolar modo, il suo pensiero politico che è l’aspetto meno conosciuto della sua intensa produzione letteraria. Dunque, Slataper è l’autore de Il mio Carso, opera che inaugura – per così dire – la stagione della letteratura triestina ma, soprattutto, è il promotore di un progetto politico-culturale nonché leader di un gruppo di giovani intellettuali giuliani, figli di una società – per molti versi – più evoluta e moderna della provinciale società italiana di allora. Intellettuali che troveranno a Firenze e nell’ambiente vociano il polo d’attrazione culturale perché vi era in atto uno dei più importanti tentativi di modernizzazione della cultura italiana. Torniamo alla famiglia Slataper. Abbiamo appreso dal documentario che la famiglia arriva a Trieste verso la fine del ‘700, proveniente dall’alta valle dell’Isonzo. Agli inizi del XIX secolo, la famiglia ha già completato il processo d’assimilazione e si esprime correntemente in italiano mentre non è dato sapere se conservi qualche ricordo della lingua slovena, parlata in quel di Tolmino, suo probabile luogo d’origine. Nonostante la provenienza da una valle nota per la sua povertà, la famiglia deve aver “fatto fortuna” arrivando in città, tant’è vero che fino al tracollo economico del padre di Scipio, avvenuto nei primi anni del ‘900, la famiglia abita in villa, come ricordato nel documentario. (fig. 5) 9 I commercianti di fighi e zibibe rappresentavano, nel settore, la componente culturalmente e professionalmente meno qualificata. La definizione appare la prima volta in un articolo de Il Piccolo del 6 maggio 1909. 10 I dati desunti dal censimento effettuato nel 1910, l’ultimo in ordine di tempo sotto l’amministrazione austroungarica, attestano una consistenza del gruppo etnico sloveno del 26,81% (59.308) dell’intera popolazione, contro un 66,62% (147.372) di italiani. Probabilmente la consistenza slovena effettiva era superiore al 30% e la differenza è da imputare ai criteri seguiti nel rilevamento demografico, basati sulla “lingua d’uso”. 11 Basti ricordare che, nel medesimo periodo in cui si stava procedendo al taglio dell’istmo di Suez, il governo centrale di Vienna aderiva allo Zollverein, al trattato che privilegiava le linee di traffico con i porti anseatici a detrimento dei due principali porti dell’Adriatico: Trieste e Fiume. 12 Il cortometraggio, realizzato dalla RAI per la regia di Mario Rizzarelli, narra brevemente la vita di Scipio Slataper, con molte riprese dei più significativi “luoghi slataperiani”, tanto cittadini che carsici. 5 Le vicissitudini economiche del padre, i problemi giovanili di crescita, i due successivi periodi di prolungata assenza da scuola e il soggiorno in Carso, sono snodi importanti nello sviluppo fisico e mentale del giovane Slataper, ansioso di inserirsi nella realtà che lo circonda. Giani Stuparich ce lo rappresenta in questa maniera: Lo scolaro di liceo e il giovane scrittore Publio Scipioni sono ancora completamente inquadrati dall’ambiente. Pure già si distingue lo scolaro per lo sprezzo di seguire la via che gli altri seguono sia per dovere che non si discute sia per abitudine che sarebbe scomodo e inutile cambiare. Tutti gli scolari, giunti alla seconda o terza liceo, sono ormai avviati, come si dice. Codesta scuola classica comunale, da cui sono usciti i migliori cittadini senza dubbio, gli avvocati, i professori, i medici, gli impiegati superiori che “hanno tenuto in alto l’italianità” di Trieste, s’incarica di stampare in tutti i suoi scolari un’uguale mentalità: quella di dominio e di tradizione liberal-nazionale. […] Ora Scipio Slataper è già in contrasto con questa mentalità. L’ha subita nelle prime classi, come mito,[…]; ma poi, quando il mito comincia ad esser disgregato dalla ragione, la sua ragione gli fece sentire i vuoti ed il falso di quella mentalità, ed egli le si pose in contrasto. Era segnato a dito il biondo scolarone della “settima” che osava professare idee socialiste e leggere il Lavoratore, e che era pronto anche a dare qualche scapaccione potente a quei compagni che gli avessero voluto insegnare “il patriottismo”.13 E poco oltre, sempre lo Stuparich, aggiunge: Non fu socialista Scipio Slataper, […] ma in quell’epoca […] aveva incontrato un uomo, anzi uno spirito solitario e nuovo, il quale lo aveva avvicinato alle teorie socialiste, gli aveva fatto pubblicare nel Lavoratore un articolo “Sulla tirannia delle norme scolastiche”, lo aveva messo in contatto con il Circolo di studi sociali e spinto a fare anche il critico teatrale […].14 Siamo tra il 1905 ed il 1906 e Slataper pubblica con uno pseudonimo, Publio Scipioni appunto, qualche articolo sul Lavoratore, portavoce della sezione triestina del partito socialista austroungarico; alcuni racconti e qualche poesia su Il Palvese, foglio locale dalla vita brevissima ma che ebbe il merito di riunire le migliori firme del giornalismo triestino; altri racconti, alcune poesie e un breve dramma appaiono su La vita Trentina. Si tratta d’esordi giovanili che cito per dovere di cronaca, non per il loro valore letterario, mentre è il caso di tornare, invece, sull’incontro cui accenna Stuparich con Angelo Vivante, per lunghi anni redattore de Il Piccolo e successivamente direttore del Lavoratore. Vivante è una delle più interessanti espressioni della cultura cosmopolita triestina. Figlio di un’agiata famiglia ebrea, si laurea in giurisprudenza a Bologna, si dedica al giornalismo e ben presto si fa notare per le sue acute analisi di politica estera. Dopo una breve militanza nelle fila liberali, aderisce agli ideali della II Internazionale, attratto dalle posizioni dell’austro-marxismo sul rapporto tra la questione sociale e le aspirazioni nazionali. Ed è proprio nel 1912, anno in cui esce Il mio Carso di Slataper, che le edizioni de “La Voce” pubblicano anche l’Irredentismo adriatico di Vivante: l’analisi socio-economica più approfondita e, per certi versi, precognitrice del “problema Trieste” mai scritta sull’argomento fino a quel momento. Angelo Vivante ha quasi vent’anni più di Scipio ma, come scrive Stuparich, intuisce “nella pronta giovinezza di Scipio Slataper una promessa sicura e [la incoraggia] con il suo aiuto e la sua amicizia. Lo Slataper ebbe occasione d’imparare a conoscere, rarissimo tra i giovani della 13 14 G. Stuparich Scipio Slataper A. Mondadori Ed., Milano 1950, pag. 34 G. Stuparich op. cit., pag. 35 6 borghesia triestina che non andavano più a sinistra del mazzinismo, anche l’altra metà, il mondo dei reprobi, dei senza patria, e, confrontando, di mettersi sui propri piedi e di guardar con i propri occhi. ”15 Slataper, in totale autonomia e sostanziale contrapposizione con il proprio ambiente sociale e familiare, inizia la faticosa esplorazione della complessa realtà triestina.16 Terminato il liceo, accede all’Istituto di Studi Superiori di Firenze grazie a una borsa di studio senza la quale non avrebbe potuto frequentare l’università per le difficili condizioni economiche in cui versava la famiglia. Appena giunto a Firenze, ha occasione di leggere il primo numero della rivista letteraria “La Voce”, diretta da Giuseppe Prezzolini. La scoperta è folgorante e Slataper si mette immediatamente in contatto con Prezzolini. Prezzolini non ha esitazioni e, per le corrispondenze dalle terre irredente, punta immediatamente sul giovane Slataper, preferendolo al ben più attempato candidato raccomandatogli niente meno che da Benedetto Croce. Tra febbraio e aprile del 1909, “La Voce” pubblica le “Lettere triestine” con le quali Slataper esordisce, non ancora ventenne, sulla scena del giornalismo politico nazionale. Le “Lettere Triestine” nascono dal desiderio dell’Autore di far conoscere al pubblico italiano alcuni aspetti della realtà triestina senza infingimenti e senza mascheramenti strumentali. L’analisi si concentra sulle principali istituzioni culturali di Trieste poiché, come chiarisce Slataper in uno scritto rimasto inedito sino a qualche anno fa: L’irredentismo a Trieste è soprattutto un fenomeno di coltura. E vien propagandato in Italia… appunto dall’informazione della gente colta. […] Ora, per l’opera di codeste informazioni, […] , s’è venuta formando nella mente dei regnicoli una Trieste fantastica […] una Trieste insomma creata dall’esagerazione di quella parte della realtà che era vista dalla coltura letteraria. L’ideale dei letterati triestini diventava fatto concreto tra l’ignoranza dell’Italia.17 Sin dal titolo della prima lettera dell’11 febbraio 1909, si possono comprendere i motivi di scontro tra il benestante “ceto mercantile” triestino e il giovane diciannovenne che ne è suo figlio. Trieste non ha tradizioni di cultura, titola la prima lettera. Trieste, sono parole di Slataper “S’è risvegliata un giorno tra una cassa d’agrumi ed un sacco di caffè, pensando che avrebbe dovuto […] accordare la sua vita ad un altro ritmo […] e allietarla non solo con la melodia dell’argento nelle tasche del larghissimo panciotto. […] Fortunatamente: perché quasi soltanto la resistenza intellettuale è capace di ottundere la gran virtù penetrativa, entusiastica, degli slavi."18 15 G. Stuparich op. cit., pag. 36 Va ricordato che una delle figure di spicco del partito liberal-nazionale, per molti anni Podestà di Trieste, Scipione de’ Sandrinelli, era un parente acquisito degli Slataper, tanto che il secondogenito di Luigi Slataper viene chiamato Scipio in suo onore. Luigi Slataper stesso era stato eletto per più mandati alla Dieta Municipale nelle liste liberal-nazionali. Quindi, fino alla generazione precedente a quella di Scipio, l’orientamento familiare si collocava nell’alveo delle idee praticate dalla borghesia “irredentista”, quelle stesse idee che saranno uno dei principali obiettivi degli strali del giovane Slataper. 17 S. Slataper Lettere triestine, perché le scrivo. Testo pubblicato postumo in “Lettere Triestine” Dedolibri Trieste 1988, pag. 55. 18 S. Slataper, Trieste non ha tradizioni di cultura, La Voce, 11 febbraio 1909 16 7 Si delineano sin dall’inizio due dei temi affrontati nelle “Lettere”: le radici squisitamente mercantili della società triestina e l’esigenza di contrapporre all’entusiasmo e alla vitalità dei giovani popoli slavi la forza di una più sviluppata cultura. La reazione della Trieste benpensante, cui il messaggio è rivolto, non si fa attendere e si estrinseca in una serie d’ingiurie nei confronti dell’Autore, senza sfiorare minimamente il merito dei problemi sollevati. Ecco cosa aggiunge Slataper nella prima lettera. Affronta il problema della composizione etnica di Trieste, rilevando che l’eccezionale incremento demografico non può esser spiegato che dai flussi migratori instauratisi con lo sviluppo economico della città: Dunque aumento di 187.000 in un secolo. E solo l’immigrazione può spiegare questo fatto. Ma – da notarsi – Trieste non s’aumentò d’italiani – […], ma assorbì gente accorsa da tutto il mondo, sedotta dalla facilità di guadagno e da ogni sorta di privilegi e garanzie […] che Carlo VI – sapiente uccellatore – aveva emanate.”19 E, poco dopo “[…] le molte decine di migliaia di immigrati stranieri […] non erano certo elementi di coltura per la città […] come si può pensare a formazione di intellettualità cittadina quando buona parte delle famiglie non sono triestine, né italiane? E i nostri nomi (il mio: slavo puro) lo dimostrano.20 Sorvolo sulle molte altre questioni sollevate nella lettera, per citarne la lapidaria chiusura che è una pietra tombale sulle velleità culturali della società triestina del tempo: “qui, se un fiore fosse nato ne avrebbero fatto bottega”21 Naturalmente, la lettera provoca le proteste indignate della borghesia triestina che, invece d’interrogarsi sulla fondatezza o meno delle analisi cui è stata fatta oggetto, accusa l’Autore di lesa maestà ed esercita pressioni sulle autorità austriache per far sequestrare le copie de “La Voce” dalle librerie di Trieste. Malgrado i clamori suscitati a Trieste e alcuni sordi brontolii provenienti dai circoli nazionalisti del Regno, la seconda “Lettera” esce puntualmente il 25 febbraio e tratta dei “Mezzi di Coltura”, fornendo un’immagine minuziosa e impietosa, non priva di humor, dello stato delle principali istituzioni culturali della città. Istituzioni culturali che sono oggetto pure della terza lettera dell’11 marzo, nella quale viene dato largo spazio al Circolo studi sociali, nato in ambito socialista grazie all’impegno di un modesto tipografo e al finanziamento iniziale di un paio di soci. Slataper così ne parla: E’ un’istituzione che gli italiani, senza distinzioni di partiti, dovrebbero studiare. […] Noi dobbiamo ai socialisti d’aver conosciuto Lombroso, Ferrero, Salvemini, Labriola, Zerboglio, Sergi, Battelli […]; l’aver sentito parlare, per la prima volta di Mazzini e di Garibaldi da Salvemini e Ferri. E come! Perché è un fatto interessante: dopo il 1902 il circolo socialista fa propaganda di coltura, di coscienza, di spirito italiano. E dunque anche del socialismo italiano: ma “anche” e “italiano”.22 La polemica a Trieste infuria e viene vietata la diffusione de “La Voce”. Slataper, nonostante abbia approfondito con coerenza le caratteristiche della società triestina e delle sue istituzioni culturali, cozza contro l’inerzia dei propri concittadini e fallisce il proposito di provocare una reazione che li costringa ad uscire dalle finzioni, da una rappresentazione della 19 La cifra riportata si riferisce all’intervallo 1800-1900. Si superano le 200.000 unità se ci si riferisce all’intervallo 1812-14. 20 S. Slataper, Scritti politici, A. Stock Editore, Roma 1925, pagg. 4-5 21 S. Slataper, Scritti Politici, op. cit. pag.6 22 S. Slataper, op. cit., pag. 18-19 8 realtà che è pura immaginazione e ad affrontare il nodo gordiano delle “due anime” di Trieste: quella commerciale e quella culturale. Le Lettere sono, insomma, una sorta d’esortazione che non solo rimarrà inascoltata dalla borghesia triestina ma provocherà il totale ostracismo nei confronti dell’Autore. Stuparich testimonia in proposito: I triestini gridarono allo scandalo. Come mai uno sbarbatello appena uscito dalla casa paterna si permetteva di sciorinare in piazza i panni sporchi? Parlar male del pane che vi aveva mangiato?! Mettersi a giudicare Tizio e Caio con tanto di barba, di senno e di parrucca?! Fosse stato anche vero, bisognava tacerne per amor d’italianità. I panni sporchi si lavano in casa. Qui si apriva l’abisso. Era questione ormai di due educazioni diverse. Lo Slataper vociano non poteva più ammettere che la ragione sentimentale facesse tacere la ragione logica. I triestini nazionali invece pretendevano in chiesa il “credo” e lasciavano peccare a casa.23 Le discussioni tra “vociani” e nazionalisti sulla questione di Trieste si protraggono per tutta l’estate 1909 e a Slataper fruttano la perdita della borsa di studio presso l’Istituto Superiore ad opera di certo prof. Ramorino il quale, non gradendo l’atteggiamento tenuto da “La Voce” nei confronti del mondo accademico fiorentino, accusato di conservatorismo e di scarsa capacità di aprirsi alla cultura europea, nel valutare l’esito di una prova d’esame di Slataper, gli attribuisce deliberatamente una votazione inferiore di un punto alla votazione necessaria per la riconferma della borsa di studio, con il commento “Imparerà a studiare, altro che scrivere su una rivista scomunicata come La Voce”.24 La perdita d’autonomia economica costringe Slataper a trovare altre fonti di sostentamento per mantenersi agli studi, dedicando le proprie energie in attività di traduzione, di saggistica e di novellistica che hanno certamente importanza nel percorso intellettuale dell’Autore, ma che lo tengono lontano da quelli che sono i suoi interessi e le sue attitudini più specifiche. Nell’autunno del 1909, tra l’affannarsi dietro ai problemi redazionali de “La Voce” e la necessità di rispettare i numerosi impegni editoriali, la vita di Slataper si arricchisce di un’affettuosa amicizia con tre giovani triestine, tra loro amiche d’infanzia e di scuola. Non è possibile approfondire, qui, il rapporto che s’instaura tra Slataper e “le tre amiche” per la complessità dei risvolti psicologici, affettivi e fattuali che legano indissolubilmente i loro destini. Basterà ricordare che una delle tre amiche, Anna Pullitzer, fu il primo, vero, grande e tragico amore di Slataper; la seconda, Elody Oblath, fu forse l’amica che più profondamente penetrò nel suo animo, amandolo segretamente senza far mai pesare i propri sentimenti; la terza, Luisa Carniel, divenne sua moglie. (figg. 6-7-8) Ed è proprio l’amore per Anna-Gioietta Pullitzer, che si toglie la vita con un colpo di rivoltella il 2 maggio 1910, di ritorno da un viaggio in Toscana durante il quale, nonostante l’esplicito divieto della famiglia, s’era incontrata con Slataper, a ispirargli Il mio Carso, il romanzo autobiografico che, due anni dopo, sarebbe diventato l’unico libro pubblicato vivente l’Autore. Come è stato già ricordato dal documentario, Gioietta, prima di suicidarsi, lascia a Scipio un toccante messaggio nel quale lo invita a ultimare l’opera di cui avevano così fervidamente discusso nei brevi mesi del loro amore: 23 24 G. Stuparich, Scipio Slataper op. cit. pag. 239-240 G. Stuparich, Scipio Slataper op. cit. pag. 78 9 Scipio ti bacio in eterno. Questo sarà per la tua opera. Io l’aspetto. Tu non esser mai disperato, sono sicura che m’ami e che sentirai quanto sono ferma. Ti do il mio cuore e tutta me. […] Sii sempre Scipio. Arrivederci. Vengo da te per sempre.25 Per Slataper è un momento drammatico, come testimonia Elody Oblath nelle sue bellissime Confessioni: Ciò che ci unì maggiormente, quando già la nostra amicizia durava da un pezzo, fu il suicidio di Anna, […] . Non posso ricordare quei giorni disperati di maggio senza un brivido d’orrore. Vedo l’alta figura di Scipio piegarsi su se stessa, risento la sua voce spezzata, che da sonora s’era fatta atona, rivedo i suoi cari occhi senza più cordialità, annegati quasi nella disperazione. La pena che vivemmo in quei giorni di morte fu infinita: ci reggemmo l’un all’altro come naufrago a naufrago.26 Passati alcuni mesi di smarrimento, Slataper reagisce al dolore gettandosi a capofitto nell’attività letteraria, ma i suoi interessi lo portano inevitabilmente a tornare sulla “questione di Trieste”, affrontando il cuore del problema e cioè l’irredentismo adriatico che analizza in due numeri monografici de “La Voce”, l’8 e il 13 dicembre 1910. Si tratta di un complesso d’interventi dovuti ad alcuni dei più noti intellettuali dell’epoca tra cui Prezzolini, Salvemini, Borgese, Vivante, Amendola, Timeus e lo stesso Mussolini, collegati tra loro da due editoriali di fondo di Slataper. La trattazione abbraccia questa volta la “questione nazionale” nella sua globalità e non più la sola “questione triestina”: Slataper spiega perché l’adesione alla Triplice Alleanza fu ed è un duro imperativo di necessità, 27 in un contesto in cui l’Italia, ultima venuta, aveva il bisogno di allearsi agli stati dominanti per perseguire una sua politica mediterranea. Ma non sottovaluta l’esistenza in Italia di una forte tradizione anti-austriaca di derivazione risorgimentale, diffusa in ampi strati della popolazione e sostiene che, dopo l’annessione di fatto della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Impero asburgico, senza le contropartite previste dal trattato costitutivo della Triplice Alleanza28, si sono svelate le vere intenzioni della Duplice Monarchia, dietro al quale preme la Prussia, per cui l’Italia non può che prepararsi all’eventualità di un conflitto con l’Austria. Nella situazione venutasi a creare a seguito della progressiva balcanizzazione dell’Impero asburgico e del suo modificato atteggiamento nei confronti delle popolazioni slave (affiora qui il timore per la linea trialistica, che aveva nell’Arciduca Francesco Ferdinando uno dei principali sostenitori), Slataper individua condizioni favorevolissime all’opera d’un partito irredentista che sappia senza ondeggiamenti la propria volontà, qualunque essa sia.29 Ma, a fronte di codeste condizioni favorevolissime, Slataper non trova che frasi che, se non fossero frasi sarebbero contraddittorie reciprocamente […] tentennii tra realtà e desideri che non sanno affrontarla.30 25 L’originale del messaggio è conservato nella raccolta dei manoscritti slataperiani presso l’Archivio di Stato di Trieste. 26 E. Oblath Stuparich, Confessioni. Lettere a Scipio op. cit. pagg. 23-24 27 S. Slataper, Scritti Politici op.cit. pag.62 28 Il Trattato, di carattere esclusivamente difensivo, prevedeva che in caso d’intenzioni aggressive da parte di una delle nazioni contraenti, questa dovesse informare preventivamente le altre nazioni contraenti e che in caso di acquisizioni territoriali, qualsiasi ne fosse la natura, da parte di una delle nazioni contraenti, le altre avrebbero avuto diritto ad adeguate compensazioni. Condizioni che non furono rispettate né in occasione dell’annessione di Bosnia-Erzegovina all’Austria né in occasione dell’aggressione alla Serbia. 29 S. Slataper, Oggi articolo apparso su La Voce del 15 dicembre 1910 30 S. Slataper, Oggi vedi nota precedente 10 Le varie forme assunte dall’irredentismo (repubblicano, massonico, imperialista) non sono esenti da critiche, fatto salvo il così detto irredentismo colturale, l’unico che Slataper sente di poter condividere poiché è l’irredentismo triestino, e quello che i socialisti affermarono per la prima volta, negando l’importanza dei confini politici. Ed è l’irredentismo della Voce.31 Qui l’entusiasmo di Slataper forza il dato storico quando sostiene essere l’irredentismo “colturale”, irredentismo triestino mentre, in realtà, è condiviso da un’esigua minoranza a Trieste. Inoltre, si fa una certa fatica a riconoscere nelle tesi del socialismo triestino affinità con l’irredentismo culturale: quella particolare forma d’irredentismo che era più che altro un’affermazione di valori morali e non un progetto politico concreto fondato su di un’analisi strutturale della società del tempo. Resta il fatto, su cui Slataper insiste con vigore, che è necessario esser preparati tanto sul piano morale che su quello militare, cosa che non accade sia per l’azione poco efficace dell’irredentismo che per l’allarmante arretratezza dell’apparato militare. Di fronte ad un’Austria che ha una meravigliosa tradizione di governo,32 che dispone d’una burocrazia capace d’amalgamare le forze più utili delle varie nazionalità: ammiragli istriani o dalmati, impiegati di polizia trentini, professori d’università czechi,33 di fronte a questi inoppugnabili dati di fatto, la politica italiana dimostra tutta la sua pochezza e la sua contraddittorietà: […] si vuole e si proclama in tutti i toni la guerra all’Austria e […] si finisce col dire che bisogna rimanere “dignitosamente” nella Triplice. Si vuole la lotta contro il pangermanesimo e si dà addosso agli slavi […] si propugna il liberismo e s’inveisce contro il capitale tedesco importato in Italia.34 E, passando in rassegna ai possibili alleati dell’Italia, Slataper avanza un’ipotesi assolutamente rivoluzionaria per l’epoca,35 auspicando un’alleanza con i popoli slavi: dai cechi alle popolazioni slave del sud. Ma per ottenere quest’alleanza è necessario che l’Italia rinunzi assolutamente a Trieste, all’Istria, ai desideri balcanici. La sua forza sarebbe di suscitare e aiutare la coscienza slava. Arginare con stati nazionali indipendenti l’avanzata orientale dell’Austria. E annettersi il Trentino, e il Friuli fino all’Isonzo. Lavorando in questo senso potrebbe avere in tutti i casi le simpatie di quell’Austria slava che fra non molto reggerà l’Impero. 36 L’affermazione potrebbe sembrare eretica in bocca a un triestino ma, se ci si pone in una logica idealista, poteva anche ammettersi il fatto che una Trieste di cultura italiana si sviluppasse, come sino ad allora s’era sviluppata, in un contesto economico e politico non italiano, purché non se ne conculcasse l’identità etnica. La portata “eversiva” delle affermazioni di Slataper trova conferma nella breve ma illuminante “Nota statistica”, composta a commento di una mappa della regione mistilingue giuliana e istriana, in cui è rappresentata la distribuzione linguistica, sulla base dei dati del censimento austriaco del 1900 (fig.9). La mappa e la “Nota” rappresentano, ancor oggi, la più clamorosa smentita delle tesi nazionaliste circa l’assoluta preponderanza etnica italiana nella regione che aveva fatto esclamare a Slataper, in altra occasione: 31 S. Slataper, Oggi “ “ “ S. Slataper, Oggi “ “ “ 33 S. Slataper ,Oggi “ “ “ 34 S. Slataper, Oggi articolo citato in precedenza 35 E’ stato osservato come questa affermazione avvicini Slataper al Tommaseo, come del resto sembrerebbe potersi desumere dalle successive citazioni. L’osservazione meriterebbe un approfondimento ma i tempi del Tommaseo son ben diversi dagli anni immediatamente precedenti alla Grande Guerra! 36 S. Slataper, Oggi articolo citato in precedenza 32 11 […] a “Trieste c’è una forza numerica slava […]”: e son più di 40.000 slavi a Trieste. E altro che forza numerica! forza economica e perfino intellettuale, oggi. “[…] E nell’Istria è slava una parte della popolazione”: altro che parte!: due terzi, due terzi!”37 In altre parole, la posizione di Slataper fino al 1912 è nettamente critica nei confronti dell’irredentismo italiano; tant’è vero che nei due ultimi suoi articoli apparsi su “La Voce” non ha difficoltà a riconoscere: Io non sono dunque irredentista. Ma se voi siete sul serio irredentisti dovete volere con me, per noi, una vita più dura, più eroica, più disinteressata […] Meno servilità, a costo di pagarla con qualche danno, più onestà e più sincerità […] E i nostri figli sieno educati al sacrificio, e non al tornaconto […] Ma anch’io col Vivante, anzi col Valussi, col Tommaseo, vedo chiaramente che il compito storico di Trieste è di esser crogiolo e propagatore di civiltà, di tre civiltà.38 Con la fine del 1912, si chiude per Slataper la parentesi vociana. Qualche incomprensione con Prezzolini, alcune aspettative disattese, un nuovo indirizzo imboccato dalla rivista contribuiscono ad allontanarlo progressivamente dal nucleo originario dei fondatori de “La Voce”. Ciò nonostante, il 1912 è per Slataper un periodo d’intenso lavorio interiore; di raccoglimento per completare Il mio Carso; di studio per laurearsi, come in effetti si laurea con una tesi sul drammaturgo norvegese Henrik Ibsen. Ultimati gli studi, viene assunto quale lettore d’italiano al Kolonial-Institut di Amburgo, dove prende servizio nell’estate del 1913, sospendendo ogni collaborazione con la stampa italiana. Nell’autunno sposa Luisa Carniel, Gigetta, una delle “tre amiche” conosciute quattro anni prima, che lo raggiunge ad Amburgo.(fig. 10) Qui ha modo di approfondire la conoscenza delle letterature nordiche, approfittando anche della ricchissima biblioteca del Kolonial-Institut e di rivedere la sua tesi di laurea su Ibsen che verrà pubblicata postuma, nell’immediato dopoguerra, con prefazione e note di Arturo Farinelli.39 Ma, ad Amburgo, Slataper entra in contatto diretto con la realtà germanica, con la realtà di un Impero che ha raggiunto ormai una posizione d’assoluto predominio economico, militare e tecnico nel continente europeo, e intende sfruttarne i vantaggi, trascinandosi dietro una ormai spossata dinastia asburgica. Slataper intuisce che l’annessione della Bosnia da parte dall’Austria rientra in un disegno di progressiva espansione germanica nel continente, che avrebbe condotto al definitivo collasso dell’Impero asburgico. Il 28 giugno 1914, Francesco Ferdinando, erede del trono d’Austria, viene assassinato a Sarajevo e Slataper, presentendo il prossimo inizio di una guerra, rientra precipitosamente in Italia dove inizia la collaborazione con “Il Resto del Carlino”, schierandosi decisamente su posizioni interventiste. Gli articoli sul “Resto del Carlino” e ancor più la messe di appunti e di schede bibliografiche conservate nell’archivio dei manoscritti slataperiani testimoniano dell’impegno di Slataper 37 S. Slataper, Da un commento apparso su “La Voce” del 9 settembre 1909 a seguito della polemica con il Direttore de “Il Piccolo” sorta dopo la pubblicazione delle “Lettere triestine”. 38 S. Slataper, L’avvenire nazionale e politico di Trieste. Saggio apparso su “La Voce” nei numeri del 30 maggio e 6 giugno 1912. 39 Personaggio di spicco del mondo accademico italiano, promosse gli studi di germanistica e di letterature nordiche. Docente di lingue neolatine all’Università di Innsbruck, dall’istituzione del primo corso fino alla sua definitiva soppressione a seguito delle manifestazioni per un’Università italiana a Trieste (1894-1904), fu ordinario di letteratura tedesca all’Università di Torino dal 1907 al 1937. 12 nell’affrontare il problema dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa e il suo sforzo per render chiare le ragioni di una svolta così radicale rispetto alle posizioni da lui stesso sostenute non più di due anni prima. In questo senso sono illuminanti alcune sue note di diario dell’agosto 1914, poco prima di lasciare la Germania. Qual è il senso di questo conflitto europeo? […] il conflitto austro-serbo non è che la conseguenza diretta della guerra balcanica […]. La Russia non poteva ammettere una posizione preponderante austriaca nei Balcani. […] Una fondamentale ragione politica dunque obbligò la Russia ad intervenire in un conflitto ch’essa può inoltre affermare lotta tra slavismo e germanesimo. […] Per far star zitta la Russia la Germania alzò la voce come nel 1908. […] Tentò di riaffermare la sua supremazia europea senza spendere né un soldo né un soldato. Invece si trovò di fronte tutta l’Europa. Fino a un certo punto, la Germania contò che l’Inghilterra non si sarebbe mossa […]. Per far colpo fece parlare l’esercito e star zitta la diplomazia. L’unica enorme fiducia e amore del tedesco è l’esercito […]. L’esercito è la loro vera espressione politica collettiva. E quando sentì la guerra non seppe altro ed esclusivamente che l’esercito. Lussemburgo ed il Belgio sono due parole di tecnica strategica che non si possono tradurre in lingua politica. O si chiamano appunto follia strategica di cui la Germania patirà molto in questa guerra. Per assicurarsi l’entrata in Francia s’assicurò l’entrata in campo dell’Inghilterra.40 Sono appunti che sintetizzano le ragioni che inducono Slataper a farsi attivo sostenitore di un intervento contro gli Imperi Centrali. Non sono tanto considerazioni d’egemonia territoriale proprie del nazionalismo imperialista, quanto è la più complessa percezione del pericolo costituito dal militarismo prussiano, destinato a minare la coesistenza dei popoli per oltre un trentennio a venire. Di fronte a questo pericolo, la principale difesa – per Slataper – è quella di disporre di un confine sicuro e, per lo stato dell’arte militare del tempo, il confine sicuro coincide, grosso modo, con lo spartiacque alpino. (fig. 11) Non rientra nell’ambito della mia testimonianza approfondire il tema complesso dell’interventismo, pertanto mi limito a richiamare alcuni concetti base. L’interventismo in Italia è un movimento che interessa e coinvolge un ristretto gruppo sociale, costituito per lo più da intellettuali. Sotto le sue insegne, per una breve stagione, militano personaggi della più varia estrazione ideologica, spinti da motivazioni o pulsioni spesso difficilmente conciliabili sul piano razionale: dal decadentismo edonistico di D’Annunzio, alle provocazioni futuriste di Marinetti, ai disegni più o meno federalisti dell’interventismo democratico, alle speranze di una profonda rivoluzione sociale di Togliatti e di Gramsci, al sindacalismo rivoluzionario di De Ambris e Corridoni, all’ardore da neofita di Mussolini, appena convertitosi all’interventismo dopo il neutralismo del periodo socialista. In così articolata compagine d’assertori della necessità di uscire da un’inerzia ambigua, molto simile a quella del giocatore d’azzardo che attende sino all’ultimo istante l’offerta a lui più vantaggiosa, Slataper si colloca su posizioni vicine a quelle di Amendola e di Salvemini. Tre sono i temi che ricorrono nei suoi articoli: l’espansione dell’imperialismo prussiano; il peso degli slavi sul futuro assetto degli Imperi Centrali, data per scontata la dissoluzione dell’Impero asburgico; la sicurezza dei confini nazionali. Mi soffermerò unicamente sul problema dei confini poiché segna il più evidente cambiamento di rotta dalle posizioni del 1912. 40 S. Slataper, Appunti e note di diario Mondadori, Milano 1953, p.249 13 Slataper, in singolare sintonia di pensiero con Cesare Battisti, indica, in uno studio intitolato I confini orientali41, quelli che ritiene essere i confini in grado di garantire una protezione del territorio nazionale. La linea da lui proposta non differisce, nella sostanza, dai confini che verranno sanciti nel dopoguerra dal Trattato di Rapallo e che approssimano la linea dello spartiacque. Ma la definizione di confini sicuri è accompagnata da una grande attenzione per quello che sarebbe dovuto essere il comportamento dello Stato italiano, a guerra felicemente conclusa, nei confronti dei gruppi etnici minoritari, inevitabilmente presenti nei territori acquisiti. (fig. 12) In tutti i casi però se noi desideriamo che l’assimilazione avvenga e s’estenda il più possibile noi non dobbiamo far niente di artificiale per promuoverla. La volontà di snazionalizzazione è tanto bestiale e assurda che non solo non è riuscita mai in nessun posto, almeno nei tempi moderni, ma ha risvegliato di colpo e armato violentemente la necessità dell’irredentismo […]. E allora come bisognerà procedere? (Bisognerà) Rispettare profondamente la loro nazione […]. Lasciare intatte le scuole nazionali, anche magari dov’esse sono anche oggi un non senso […]. La scuola è sacra: e perciò è anche l’arma politica più tremenda.42 E’ esattamente quello che non è avvenuto dopo la Grande guerra e che ha prodotto così durature ripercussioni al confine orientale, fino ai giorni nostri. Ma torniamo alla primavera del 1915 e leggiamo la testimonianza di Elody Oblath, moglie di Giani Stuparich, figlia di una famiglia ebrea ungherese, stabilitasi da una generazione a Trieste. Credevamo di sapere gli orrori della guerra per esserceli raffigurati col cervello e col cuore, e in realtà non sapevamo che la nostra esaltazione. Sapevamo però con conscia certezza che qualsiasi fossero stati questi orrori, nessuno di noi sarebbe indietreggiato. […] Per essa, ne sono certa, ognuna di noi sarebbe andata coscientemente al patibolo, così come coscientemente istigammo e aiutammo tutti i nostri amici (la parte migliore di noi stesse) ad andare a morire. Giorni d’illusioni folli, fede in un’umanità migliore, che ci faceva esultare e chiedere la morte di milioni di uomini !43 Parole di una tragicità terrificante che fanno riflettere e denunciano tutta l’incoscienza di una società che imbocca la strada della guerra, senza avere la minima percezione delle devastazioni fisiche e morali che avrebbe causato. Non senza difficoltà, vuoi per le norme del codice militare sabaudo, vuoi per il clima di sospetto nei confronti degli irredenti – erano pur sempre dei sudditi austriaci – Slataper, assieme ai fratelli Stuparich, si arruola volontario e il 2 giugno 1915 parte da Roma, assegnato al 1° reggimento Granatieri. Lo segue di qualche settimana il fratello Guido, classe ’97, che per arruolarsi falsifica la propria data di nascita. Dopo alcuni giorni, Slataper è già in prima linea e, il 10 giugno, nel tentativo di soccorrere il proprio maggiore, morente sotto le trincee austriache, viene ferito presso la Rocca di Monfalcone. A metà settembre torna al fronte e viene assegnato al 1° rgt. della Brigata Re, a riposo nei pressi di Sacile, dove frequenta con altri “irredenti” di origine giuliana e trentina un corso accelerato per allievi ufficiali. 41 S. Slataper, Confini Orientali Edizioni Dedolibri, Trieste 1986 S. Slataper, op. cit. pag. 31 43 E. Oblath Stuparich, Confessioni op. cit. pag. 32 42 14 Il 18 ottobre inizia la 3a offensiva dell’Isonzo che investe il settore SABOTINO-PODGORA.44 Così ce ne parla uno dei maggiori storici della Grande Guerra, Piero Pieri: Nel settore Sabotino-Podgora, […] contro sette chilometri di trincee difese da circa 25.000 austriaci la II armata impiega quasi centomila uomini. Il Sabotino subisce tredici assalti e due irruzioni, ma ogni volta i contrattacchi delle truppe polacche e dalmate che lo difendono riescono a ristabilire la situazione di partenza. Contro il settore Podgora-PeumaOslavia, gli attacchi sono trentanove, ma la situazione rimane invariata fino al 4 novembre, giorno in cui cessano le ostilità.45 La 3a offensiva si conclude con 56.000 perdite da parte italiana. Il 3 novembre, un giorno prima della cessazione dell’offensiva, la compagnia di cui fa parte Slataper viene schierata sul Podgora. Il 10 novembre inizia la 4a offensiva dell’Isonzo che interessa questa volta i settori OSLAVIAPODGORA-SEI BUSI-SAN MICHELE. La battaglia dura alcuni giorni senza alcun esito per la magistrale sistemazione difensiva degli austriaci, in particolare quella del Podgora, che viene descritta in questi termini dal tenente d’artiglieria austriaco Fritz Weber che ci ha lasciato alcune delle più intense testimonianze della guerra, vista dall’altra parte: […] autentico “capolavoro in materia di fortificazioni”, un complesso difensivo munito di trincee, camminamenti, nidi di mitragliatrice blindati, posti di vedetta accuratamente mimetizzati, un sistema difensivo labirintico di cui era impossibile che gli italiani potessero farsi un’idea.46 La 4a offensiva si conclude con 49.500 perdite da parte italiana. La Compagnia di Slataper, nel frattempo, viene arretrata in seconda linea per il consueto avvicendamento e il 23 novembre Slataper può scrivere alla moglie: […] arrivammo sballottati per il fango alto mezzo metro, sotto una pioggia spaventevole, senza saper né dove né come. La prima gioventù è finita col Carso, la gioventù buona, raccolta è finita all’ospedale di Modena, ora mi sento uomo. Non ho più l’imprudenza pronta e gli scatti dei 20 anni. Mi sento più ponderato, più prudente.47 All’attività intellettuale astratta si è sostituita la realtà della trincea; la vita in comune con un popolo che a malapena comprende gli ordini che gli vengono impartiti; gente umile che non ha voluto la guerra e che ora viene mandata a conquistar trincee difese da svariati ordini di fili spinati e da micidiali nidi di mitragliatrici. Lo scenario è totalmente mutato: non più dibattiti tra intellettuali ma lotta per sopravvivere con dignità nel fango, nella sporcizia, nell’orrore delle inutili stragi. Slataper, come la maggior parte dei volontari giuliani, si sente responsabile della sorte che condivide con l’inconsapevole popolo italiano e sente il dovere di partecipare anche alle azioni più pericolose, come tutti i suoi commilitoni. 44 Si utilizza qui la denominazione errata del Monte Calvario, adottata di norma dalla storiografia italiana. L’errore deriva dall’aver scambiato la denominazione della frazione di Gorizia posta alle pendici del Calvario, appunto Pod=sotto, Gora=il monte per la denominazione del monte. 45 P. Pieri, L’Italia nella prima guerra mondiale Einaudi, Torino 1965, pag. 72 Val la pena segnalare che non risulta la presenza di contingenti polacchi e dalmati nel settore mentre erano largamente rappresentati contingenti ungheresi e bosniaci. 46 F. Weber, Dal Monte Nero a Caporetto. Le dodici battaglie dell’Isonzo (1915-1917) Mursia, Milano 1994, pag. 85 47 S. Slataper, Lettere Fratelli Buratti Editori, Torino 1931 pag. 228 15 Il 1° dicembre, dopo un brevissimo periodo di riposo, giunge un nuovo ordine di partire per le trincee del Podgora, a dare il cambio alla brigata Puglie. Slataper così commenta il nuovo avvicendamento: Par che questa sarà l’ultima nostra prova, che poi finalm[ente] il reggimento avrà il suo riposo.48 Due giorni dopo, il 3 dicembre 1915, Scipio Slataper, colpito alla gola, muore all’età di 27 anni. Prima di partire per l’azione sotto il “Fortino” del Podgora lascia un breve messaggio alla moglie: Ci offriamo volontari con Guido e Martelli. Guido è già in trincea. Sono sicuro che tutto andrà bene. Un bacio a Scipio Secondo.49 Seguiamolo nelle ultime ore della sua esistenza con le parole di Giani Stuparich: Scipio Slataper, quando saliva quell’ultimo tratto del Podgora che gli costò la vita, rappresentava nella sua coscienza il sacrificio necessario di tutti quei figlioli italiani che venivano mandati a morire sotto il reticolato dei nemici. Egli non approvava che si perdessero tante vite per mancata preveggenza o per insufficienza di mezzi, ma se per cementare la storia avvenire della patria c’era bisogno anche di quel sangue così dolorosamente versato, egli non poteva preservare il suo, con la scusa che i generali italiani fossero tanti ignobili carnefici; egli doveva anzi esser pronto a versarlo con coscienza come poi fece. Era giunto il momento in cui nel termine di italiano ubbidiente “alle sante leggi della patria” gli si risolvevano i due termini di uomo e di poeta […]. C’è di più. Anche un altro termine era compreso nell’italiano ubbidiente alla patria, quello del triestino, senza il quale come non si capirebbe la vita, così meno perfettamente si capirebbe la morte di Scipio Slataper.50 Cinque anni prima, Slataper annotava: Un giorno, ancora giovane, camminando nel Carso, quando i sassi ed i fiori mi diranno le cose che ho già dette, allora uno slavo mi scaglierà addosso un sasso corroso e forte e pieno di spigoli. E io cadrò giù, sul Carso. Non nel letto, non lacrime e puzza e bisbigli e passi cauti nella stanza. Voglio morire alla sommità della mia vita, non giù. Sarà l’ultima Calata portato a spalla.51 La notizia della morte di Slataper si diffonde rapidamente. Tra le molte testimonianze, cito quella di Gabriele Foschiatti, personaggio poco noto fuori Trieste, ma emblematico dell’irredentismo democratico giuliano. Foschiatti era un irredentista mazziniano, accorso in Albania e poi in Grecia già nel 1911 nelle fila di Ricciotti Garibaldi. Si arruola volontario nell’esercito italiano sin dal maggio 1915. Sopravvissuto alla guerra, prende parte alla spedizione fiumana nel manipolo dei legionari mazziniani. Durante il ventennio assume posizioni di netta opposizione al fascismo e rappresenta il Partito d’Azione nel primo comitato clandestino del CLN di Trieste. Muore a Dachau, nel 1944, a seguito di una delazione. […] hai letto Bruno? Ancora un altro che se ne va: Scipio Slataper. Io piansi quando nel Corriere lessi la notizia; pensai al povero fratello suo che lo idolatrava; pensai alla madre 48 S. Slataper, Lettera del 1 dicembre 1915 alla moglie. La lettera non è inserita nella raccolta curata da G. Stuparich. L’originale si trova nella raccolta dei manoscritti slataperiani custodita dall’Archivio di Stato di Trieste. 49 S. Slataper, Lettere op. cit. pag. 235 50 G. Stuparich, Scipio Slataper, op. cit., pagg. 234-5 51 G. Stuparich, op. cit. pag. 236 16 sua che forse ha un altro figlio morto in Serbia […]. Mi parlava spesso a Udine, il giovane Slataper, di quest’altro fratello suo che partito, ufficiale austriaco per la Serbia, da parecchi mesi non dava più sue notizie. Trieste nostra perde chi domani avrebbe dovuto essere una delle sue guide intellettuali, spirituali […].52 Per l’azione sul Podgora a Scipio e Guido Slataper vennero tributate due M.d’A. Scipio Slataper da allora riposa in un piccolo fazzoletto di terra, poco distante dal luogo dov’era stato colpito. (fig. 12) Sull’attuale pietra tombale, per desiderio di sua moglie Gigetta, oltre al nome del nonno vi è il nome di mio padre Scipio Secondo che, nato tre settimane dopo la morte di suo padre, riposa in Russia accanto ai suoi alpini. (fig. 13) Nell’azione del 3 dicembre 1915, Scipio Slataper si offriva volontario assieme al fratello Guido, di nove anni più giovane di lui. Guido è l’ultimo dei fratelli Slataper e viene colto dall’inizio della guerra che ancora faceva i conti con l’ultimo anno delle scuole superiori. Per dir meglio, lui i conti li aveva già chiusi e aveva raggiunto Amburgo, all’insaputa dei genitori, ospite di mia nonna Gigetta e di suo fratello Scipio. Quando Scipio abbandona precipitosamente Amburgo per tornare in Italia, Guido lo segue e tenta di arruolarsi volontario, come il fratello, sennonché alle difficoltà che si opponevano all’arruolamento degli irredenti giuliani s’aggiungeva l’insormontabile problema dell’età, non essendo Guido ancora maggiorenne. Trovata la scorciatoia, Guido si arruola alcune settimane dopo il fratello e giunge al fronte quando suo fratello, dopo esser stato ferito a Monfalcone, era già stato tradotto all’ospedale di Modena. Scipio e Guido si ritrovano al fronte verso la fine di settembre, entrambi fanti della Brigata Re. (fig.14) Nell’azione del 3 dicembre in cui Scipio viene colpito a morte, Guido rimane ferito al ginocchio e segue la stessa trafila del fratello: ospedale militare, convalescenza, successivo ritorno al fronte. Tornato al fronte, Guido Slataper si distingue nei combattimenti per la conquista del Sabotino, ma il suo nome resta legato all’effimera conquista del Monte Santo, avvenuta il 14 maggio 1917 e durata meno di 24 ore a causa del mancato invio dei rincalzi per il consolidamento delle posizioni conquistate. (fig. 15 - 16) La mancata conquista del Monte Santo rappresenta uno degli esempi dell’inadeguatezza dei comandi italiani nella conduzione di una guerra offensiva. L’attacco alla dorsale Monte Santo, Sella di Dol e Veliki Hrib (q. 528 del San Gabriele) è affidato al VI C.d.A., comandato dal gen. Gatti e, in particolare, l’assalto al Monte Santo è affidato alla brigata Campobasso, comandata dal gen. Battaglia il quale, nei giorni precedenti l’offensiva, aveva proposto sia a Gatti che a Capello, comandante della II Armata, una geniale azione di sorpresa, condotta lungo il fianco scosceso del monte che costituisce la sponda sinistra dell’Isonzo. La proposta nasceva dal fatto che accurate osservazioni avevano rilevato una notevole debolezza dell’apparato difensivo austriaco sul versante dell’Isonzo, dovuta probabilmente all’erronea convinzione che un attacco italiano non sarebbe mai potuto venire da un’erta così acclive e con un così rilevante dislivello (600 m) tra le trincee austriache e le sottostanti linee italiane. 52 G. Fogar, Gabriele Foschiatti Del Bianco Editore, Udine 1966, pag. 41. Il destinatario della lettera è Bruno Tommasini, figura di spicco del combattentismo triestino, co-fondatore con Guido Slataper dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra 17 L’idea del gen. Battaglia aveva però il difetto di divergere dai piani del gen. Capello che prevedevano la caduta del Monte Santo per aggiramento da Nord, dalla dorsale Monte Cucco e Monte Vodice e sfondamento a Sud, attraverso la sella di Dol, ragion per cui veniva bocciata e veniva autorizzato l’utilizzo di un solo battaglione, mentre il grosso della brigata avrebbe dovuto forzare la sella di Dol. Tra le tante, mi avvalgo della descrizione dell’azione fornitaci dallo storico Orio di Brazzano che coincide sostanzialmente con quella appresa dalla viva voce di mio zio: Nel tardo pomeriggio del 14, il III battaglione del 230° fanteria usciva dalle trincee di quota 59, a Nord-Est di Salcano e, seguendo il fondovalle […] si portava sotto il versante occidentale del Monte Santo e ne iniziava l’ascesa lungo la mulattiera proveniente da Zagora. Verso le 18 veniva raggiunta la mulattiera più alta che attraversa il fianco del monte. […] Di lì il battaglione si lanciava all’assalto delle trincee di cresta e raggiungeva le rovine del santuario sulla vetta. Alle 19 il Monte Santo era conquistato ed il presidio, ancora in gran parte ricoverato nelle caverne, era fatto prigioniero.53 Sin dalle prime fasi dell’azione, al comando del battaglione era rimasto un unico ufficiale, il giovane tenente Guido Slataper. Più di cinquant’anni dopo, di ritorno dal Podgora dove ogni anno il 3 dicembre portavamo dei garofani rossi sulla tomba di mio nonno, zio Guido ricordava ancora la fatica di risalire a balzi le ultime centinaia di metri prima delle trincee austriache, tra il grandinare dell’artiglieria amica. Mi raccontava della cattura degli Honved ungheresi, che uscivano dai propri ricoveri, inebetiti dalle esplosioni, chiedendo solamente un po’ d’acqua e di pane dopo tre giorni in cui nulla era potuto arrivare in vetta a causa dell’intensità dei bombardamenti italiani. Ricordo ancora quando, guardando verso il Monte Santo, su cui sventolava ormai da anni la bandiera jugoslava, con quei suoi occhi grigio-azzurri che, dicono, fossero molto simili agli occhi di mio nonno Scipio, sovrappensiero quasi volesse concludere un lungo racconto, mormorò lentamente con la sua voce profonda “…cosa abbiam fatto a far la guerra all’Austria!” Alcune ore dopo, i conquistatori del Monte Santo venivano, a loro volta, travolti e fatti prigionieri dal contrattacco portato prontamente dagli austriaci – altro che la lentezza dei rincalzi italiani! – e Guido Slataper, fortunatamente senza esser riconosciuto quale irredento, veniva avviato al campo di prigionia di Mauthausen dal quale riusciva a fuggire verso la fine di ottobre 1918, approfittando dello sbandamento dell’apparato statale austriaco nei giorni precedenti la resa. Per l’azione sul Monte Santo, a zio Guido venne tributata la M.d’O. Tornato a Trieste, in una città divenuta ben presto un laboratorio di “apprendisti stregoni”, in cui si sperimentano tutte le principali miscele che avrebbero condotto, nel giro di qualche anno, all’avvento del fascismo, Guido Slataper cerca di riannodare i legami tra il movimento irredentista di stampo repubblicano e coloro che erano sopravvissuti alla guerra. Il combattentismo e una sua particolare espressione costituita dall’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra rappresentano per Guido Slataper il tentativo, destinato a fallire, di dare continuità al mazzinianesimo d’anteguerra, incanalando le energie di quanti avevano trovato nella comune esperienza di trincea l’occasione per conoscersi e stimarsi. Ma significa anche, terminata la belligeranza, riconoscere la dignità e le sofferenze patite dai giuliani che avevano militato sotto le insegne dell’Impero austro-ungarico. E’ un argomento che il nuovo irredentismo, quello che aveva combattuto lontano dal fronte, dai tavoli dell’Aragno54, non intende affrontare e per questo motivo, per paradossale che possa essere, ancor oggi non è disponibile l’elenco dei caduti giuliani dell’esercito austriaco. 53 O. di Brazzano, La Grande Guerra sulla Fronte Giulia (1915-17) Edizioni Panorama, Trento 2002, pag.204 Gli irredentisti del bar Aragno di Roma, oggetto del sarcasmo degli irredentisti che combattevano al fronte, sono ricordati sia da Foschiatti che da Stuparich. Tra di essi vanno annoverati alcuni dei più importanti 54 18 Con un gruppo dei mutilati di guerra irredenti fonda il giornale “La Frontiera” che per alcuni anni cerca di contrastare l’affermazione dello squadrismo fascista guidato dall’avv. Giunta, resosi famoso per l’assalto e l’incendio al Narodni Dom, il 14 luglio 1920.55 Ma il movimento fascista coglie ben presto l’insidia rappresentata dal gruppo costituitosi attorno alla Compagnia Volontari Giuliano Dalmati e all’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra, che vede appunto tra i fondatori Guido Slataper, ed esercita una progressiva e determinante azione per sgretolarne la compattezza. Si giunge così, attorno al 1925, alla scissione della Compagnia in due tronconi, l’uno d’orientamento filo fascista, l’altro fedele all’impostazione originaria. La pressione esercitata dal partito fascista determina dapprima la cessazione delle pubblicazioni de “La Frontiera” e successivamente l’adesione, più o meno forzata, al fascismo di tutti i componenti del direttivo della Compagnia Volontari. La politica di repressione dei diritti civili, condotta in maniera quanto mai radicale contro le così dette popolazioni “allogene”, cioè contro il gruppo etnico sloveno, produce però danni irreparabili alla convivenza tra italiani e sloveni in Venezia Giulia, inducendo, nel maggio del 1931, i dirigenti della Compagnia Volontari a far giungere allo stesso capo del governo, Mussolini, un memoriale dai toni estremamente cauti ma nel quale si chiedeva di mutare radicalmente la politica nei confronti degli “allogeni”.56 Nonostante che il documento sottintendesse, più di quanto esplicitamente denunciasse, indicava il fallimento di 12 anni di politica fascista verso la minoranza slovena e fu considerato “sacrilego” da parte del regime che provvide ad azzerare la sezione triestina della Compagnia e a espellere dal PNF tutti i firmatari dell’appello. L’espulsione dal partito poteva significare anche perdita del posto di lavoro e Guido Slataper si trasferirì a Roma per trovare un’adeguata occupazione. Quando inizia l’avventura etiope, si offre volontario e durante la campagna viene nuovamente promosso per meriti di guerra al grado di Tenente Colonnello, ottenendo una sorta di riabilitazione sul piano della vita civile. Sicché, alla conclusione delle ostilità, torna alla propria originaria attività sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Richiamato alle armi con il grado di Colonnello, partecipa alla campagna d’Albania, dove guadagna una seconda Medaglia d’Argento, venendo definitivamente congedato, nel 1941, per raggiunti limiti d’età. Sono anni di grande travaglio per Trieste e la Venezia Giulia in cui la parabola dell’alleato tedesco, sino ad allora vittorioso su tutti i fronti teatro di guerra, inizia a declinare anche per la follia politicostrategica dell’attacco alla Russia. Trieste assiste con preoccupata attesa all’occupazione della Jugoslavia poiché è ancor viva l’idea che l’area balcanica possa alimentare sconvolgimenti dagli esiti imprevedibili; inoltre, si ha ragione di ritenere che la rottura dell’accordo Molotov-von Ribbentrop possa indurre i movimenti resistenziali jugoslavi a dare inizio alla lotta di liberazione dall’occupazione nazifascista. L’ 8 settembre 1943 segna, nelle regioni di confine e nei territori conquistati poco più di due anni prima, la tragica dissoluzione di ogni forma d’amministrazione italiana e rappresenta l’inizio di uno esponenti del fascismo quali lo storico Attilio Tamaro, autore de La Storia di Trieste, il più noto saggio della storiografia nazionalista su Trieste. 55 Tra i fondatori del giornale va annoverato anche quel Bruno Tommasini, cui si rivolgeva G. Foschiatti nella lettera citata alla nota 50. 56 Per maggiori dettagli sull’appello a Mussolini vedi A. Apollonio Venezia Giulia e Fascismo 1922–1935 L.E.G., Gorizia 2004 pagg. 329-330 19 sbandamento generale, di un vergognoso “si salvi chi può”, durante il quale, tranne pochissime eccezioni, i rappresentanti apicali dello stato, sia civili che militari, e gli esponenti di spicco del fascismo ricorrono ad ogni mezzo per mettersi in salvo, abbandonando, senza alcuna direttiva, i propri uffici e, quel che è peggio, intere formazioni perfettamente inquadrate, armate e in grado di opporre una resistenza efficace se adeguatamente comandate. Di fronte a quello che può definirsi un vero e proprio tradimento dello Stato, la Trieste borghese accoglie le truppe naziste e l’oliato apparato amministrativo germanico quasi con sollievo e il tedesco occupante sfrutta abilmente il ricordo della vecchia amministrazione asburgica. Con abili provvedimenti cerca d’ingraziarsi pure la componente etnica slovena57. Le due comunità egemoni sono divise tra un atteggiamento di rifiuto dell’occupante e un’apertura collaborazionista. In particolare, la borghesia italofona vede nell’appoggio all’occupante tedesco l’unica difesa dal pericolo slavo, inteso come portatore dell’ideologia comunista oltre che rappresentante di un’etnia concorrente. La tragicità del momento storico divide la comunità triestina di lingua e sentimenti italiani in una gamma d’atteggiamenti individuali che, quando non sono frutto di un deliberato calcolo, discendono da fattori psicologici, cerchie di conoscenze, da orientamenti politici e propensioni della più varia natura. Guido Slataper, sollecitato ad assumere un ruolo guida di una comunità disorientata dal precipitare degli eventi, declina ogni offerta quasi ad evitare di farsi coinvolgere in una lotta che avrebbe creato nuove fratture nella società già profondamente provata dai trascorsi del ventennio e dalle vicende belliche in corso. Al di là dei propri specifici orientamenti politici, il suo sforzo era stato sempre – sin dai tempi dell’associazionismo combattentistico degli anni Venti – quello di unire più che dividere58, per cui non ritenne di scendere nuovamente in campo, come oggi si suole dire, dopo le tante battaglie condotte da giovane. Non fu però un commiato dalla vita pubblica triestina perché negli anni più bui del secondo dopoguerra, quando le sorti della Venezia Giulia erano appese agli esiti della lotta tra Oriente e Occidente, Guido Slataper svolse un’importante funzione di raccordo con gli organi dello Stato italiano sia a livello politico, come figura preminente attorno cui aggregare la comunità italiana, sia come ascoltato conoscitore delle vicende cittadine59, capace di serbare la necessaria equidistanza e l’equilibrio di giudizio richiesto dalla delicata situazione di Trieste negli anni della guerra fredda. Avrei voluto concludere qui il mio racconto, sembrandomi che nel centenario della Grande guerra fosse giusto ricordare solamente i “padri”, ma per la ferma e affettuosa insistenza del Presidente del Vostro sodalizio, aggiungo qualche parola sui “figli”, per i quali l’andare in guerra non fu il coronamento di un impegno ideale e politico ma, unicamente, il desiderio di compiere il proprio dovere, per “non esser diversi dagli altri”. Mi sembra, a questo proposito, significativo citare un passo della lettera scritta da mio padre, Scipio Secondo Slataper, a Gianni Stuparich, il 26 maggio 1941: […] tra me e me ho pensato a quello che era stato per voi andare al fronte e ciò che ora proviamo noi, […] gli ideali con i quali voi avete fatto la vostra guerra, vi sono sgusciati di mano e vi siete trovati con le mani vuote in un mondo che, malgrado il vostro sacrificio, non segue più la vostra legge. Noi vogliamo ora andare al fronte senza il senso di saper bene il perché, credo senza nessuna illusione, senza nessun ideale, […] per sentirci tra i nostri 57 Tra gli altri si cita la riapertura di scuole in lingua slovena Va ricordata la campagna condotta per il riconoscimento dei giuliani che avevano combattuto sotto le insegne dell’Impero Austro-Ungarico 59 Anche se oggi la testimonianza potrebbe venir fraintesa, sul finire degli anni ’50 ho assistito ad un interessante colloquio (avvenuto a margine di pranzo organizzato presso il Jolly Hotel di Trieste) tra l’on.Andreotti e zio Guido, durante il quale l’esponente democristiano, particolarmente ben informato dei problemi triestini, chiedeva il parere su alcuni aspetti dell’economia locale. La familiarità usata nel colloquio mi fece pensare ad una certa consuetudine tra i due personaggi. 58 20 compagni […]. Cosa ci resta da fare? Andare contro corrente non ci siamo riusciti gli anni passati, tanto meno ci riuscirebbe ora. Tirarsi da parte, isolarsi? E’ quanto abbiamo fatto in fondo fino ad ora. Ma ormai non è più possibile stare al bando, stare soli. Resta solo mettersi nella corrente […] e cercare di non perdere la propria dignità.60 Non sono parole di un letterato ma, rivolgendosi a colui che era stato suo professore di liceo, compagno di suo padre e amico di famiglia, rivelano con estrema semplicità il sentimento con cui la generazione dei “figli” prese parte alla Seconda Guerra mondiale. Nel dedicare qualche accenno anche ai “figli”, non mi limiterò, però, a ricordare i tre cugini Slataper, ma accennerò a un gruppo di amici che condivisero con loro studi, sport, interessi e scelte di vita, quasi a voler dimostrare che l’esortazione di Slataper padre E i nostri figli sieno educati al sacrificio, e non al tornaconto non era una pura espressione letteraria. Desidero accomunare nel ricordo: Scipio Secondo Slataper, Sergio Forti, Falco Marin, Franco Slataper, Fulvio Ziliotto, Giuliano Slataper. (fig. 17 - 18) Stessa provenienza sociale, stesse scuole, stesse passioni sportive: la vela e l’alpinismo (la doppia anima di Trieste sportiva); scelte di studi universitari per lo più analoghe. Di loro sei, uno solo è sopravvissuto alla guerra. Giuliano Slataper, il più giovane del gruppo è anche il primo a cadere ad Arnautovo, in Russia, durante le fasi di sfondamento della sacca del Don. E’ ricordato nelle pagine di Nuto Revelli e di Mario Rigoni Stern, suoi compagni d’arma. Alla sua memoria è stata tributata la M.d’O. Scipio Secondo Slataper, catturato durante le fasi di ripiegamento dal Don, muore in campo di concentramento. E’ ricordato nelle pagine di Giulio Bedeschi e di Aldo Rasero. Alla sua memoria è stata tributata la M.d’O. Falco Marin, cade a Trebnje (Slovenia), in un’imboscata di partigiani. Alla sua memoria è stata tributata la M.d’A. Sergio Forti, cade sull’Appennino umbro dopo essere stato catturato e atrocemente seviziato dai nazisti. Alla sua memoria è stata tributata la M.d’O. Fulvio Ziliotto, cade in Lombardia durante un’azione delle brigate Giustizia e Libertà. Franco Slataper, è l’unico sopravvissuto dei sei grazie alla “fortuna” di esser stato fatto prigioniero ad El-Alamein. Alpino, paracadutista passato alla “Folgore” in vista dell’attacco all’isola di Malta, finisce a combattere tra le dune desertiche egiziane. Gli è stata tributata la M.d’A. Come loro, molti altri “figli” di Trieste, cresciuti con lo stesso senso del dovere e con la stessa concezione della dignità dell’uomo, sono deceduti a seguito delle vicende belliche che hanno coinvolto l’Italia e il confine orientale in particolare. Di loro, oggi, a differenza dei “padri”, il ricordo va perdendosi, eppure anche loro, come e quanto i loro “padri”, compiendo il proprio dovere, contribuirono ad onorare la dignità della nostra Patria. 60 Lettera autografa conservata nell’archivio Scipio Secondo Slataper 21 Fig. 1 Gli Slataper. Da sinistra in piedi: Gastone, Nerina, Guido, Scipio, Wanda. Sedute le giovani mogli di Gastone e di Scipio. 22 Fig. 2 Mappa di Trieste del 1698, raffigurante l’antico borgo medievale, il vecchio mandracchio, le saline e le coltivazioni di viti e olivi negli immediati dintorni. 23 Fig. 3 Mappa di Trieste del 1849, raffigurante lo sviluppo della “Città Nuova”, l’odierno Borgo Teresiano, i principali insediamenti di Borgo Chiozza, l’inizio delle lottizzazioni dei Borghi Franceschino e Giuseppino e l’ubicazione del Lazzaretto Nuovo. 24 SVILUPPO DEMOGRAFICO DEL COMUNE DI TRIESTE ANNO ABITANTI FONTE 1735 3.865 M 1758 10.835 L+M 1775 15.784 L+M 1802 27.576 M 1812 24.633 M 1821 45.390 M 1846 79.362 L 1857 104.707 CG 1869 123.098 CG 1880 141.740 CG 1890 155.471 CG 1900 176.383 CG 1910 226.412 CG 1913 247.099 G CG = Censimento Generale rale Comune ComunedidiTrieste Trieste G = Godoli Trieste. Laterza Bari 1984 L = Luzzatto Fegiz La popolazione di Trieste (1875-1928) Ed. Lib. Trieste 1929 M = Montanelli Il movimento storico della popolazione di Trieste Trieste 1905 Fig. 4 Scheda relativa ai dati demografici della città di Trieste. 25 Fig. 5 Lasciapassare rilasciato dalla Magistratura Civica della “fedelissima città e porto franco di Trieste” al fonditore Lodovico Smolars, nativo della Moravia ma immigrato a Trieste per prestare la propria opera presso le Officine Meccaniche Strudthoff, denominazione originaria della futura Fabbrica Macchine. 26 Fig. 6 Facciata principale di villa Slataper, chiamata anche Borahall dal suo precedente proprietario, George Moore, console degli Stati Uniti a Trieste. 27 Fig. 7 Ritratto di Anna Gioietta Pulitzer, carboncino eseguito da Luisa Carniel 28 Fig. 8 Ritratto di Elody Oblath, pastello eseguito da Luisa Carniel 29 Fig. 9 Autoritratto di Luisa Gigetta Carniel, carboncino 30 Fig. 10 Mappa etnografica, pubblicata sul numero de “La Voce” del 18 dicembre 1910. Le aree a tratteggio corrispondono alle zone a maggioranza italofona sulla base del censimento austriaco del 1900. 31 Fig. 11 Luisa Gigetta Carniel e Scipio Slataper nel settembre 1913 32 Fig. 12 Mappa raffigurante le varie linee di confine in vigore (o proposte) dal 1866 al 1947. La linea di confine del 1939 corrisponde, salvo minimi dettagli, allo spartiacque alpino (da D. de Castro La Questione di Trieste, Lint, Trieste 1981) 33 Fig. 13 Carta geografica del Friuli Venezia Giulia concepita nel 1913 da Cesare Battisti, ma pubblicata nel 1919, nella quale è indicato un “confine naturale” che comprende anche territori esterni alla linea dello spartiacque propriamente detto (Monte Bitorai e vallone di Cerknica) 34 Fig. 14 Tomba di Scipio Slataper sul Calvario negli anni Trenta. E’ ancora chiaramente visibile il camminamento che portava in prima linea, sotto il “Fortino”. 35 Fig. 15 Aspetto attuale della tomba di Scipio Slataper. Ai piedi della croce è fissata la lapide dettata da G. Foschiatti nel 1916. 36 Fig. 16 Scipio e Guido Slataper a Sacile nel settembre del 1915 37 Fig. 17 Mappa topografica dell’area a Nord di Gorizia nella situazione attuale. Sulla sinistra orografica dell’Isonzo è visibile la dorsale Monte Cucco, Vodice, Monte Santo. Di fronte, la cresta del Sabotino e, in basso a destra, il M. Calvario (Podgora). 38 Fig. 18 Il Monte Santo dal Sabotino con, a destra, la Sella di Dol e, sullo sfondo la cresta del Monte San Gabriele. 39 Fig. 19 Falzarego 1938. I “figli” e i loro amici. In piedi da sinistra: Sergio (Gigi) Forti, Scipio Secondo Slataper, Fulvio Ziliotto, Franco Slataper. 40 Fig. 20 I “figli” sul ghiacciaio della Marmolada. In piedi da sinistra: Sergio (Gigi) Forti, Franco Slataper, Fulvio Ziliotto; accosciata: Julia Marini. 41