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L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI
NUOVI FALLIMENTI
(Prof. Sido Bonfatti)
Parte Prima
1.
Premessa. Effetti diretti ed indiretti della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare sul soddisfacimento dei creditori del fallito e sulle soluzioni
delle crisi d’impresa.
Gli articoli da 64 a 71 della legge fallimentare disciplinano una serie
di fattispecie, intervenendo le quali determinati atti posti in essere
dal fallito (o anche da terzi, ma con effetti sul patrimonio del fallito) possono essere dichiarati, o resi, inefficaci nei confronti della generalità dei creditori concorrenti nel fallimento, con la duplice conseguenza di porre nel nulla l’attribuzione patrimoniale conseguita
dal soggetto convenuto in revocatoria; e di produrre per questa via
una serie di corrispondenti “implementazioni” del patrimonio del
fallito, e per esso della percentuale di recuperabilità dei crediti ammessi al passivo.
Queste fattispecie non hanno identica natura, e tanto meno identica disciplina: ma sono riassunte (con particolare riguardo a quelle,
largamente più importanti, previste dagli articoli da 64 a 67, alle
quali si applica anche l’art. 71) nella espressione sintetica azione revocatoria fallimentare. E di tale convenzione terminologica sarà opportuno prendere atto, considerata la unanimità dei consensi che tale
semplificazione espressiva riceve.
E’ importante considerare sin d’ora come la disciplina della “azione revocatoria fallimentare” rivesta carattere centrale non solamente per la rilevanza degli interessi economici che possono investire
le fattispecie dalle quali può derivare, a determinate condizioni, la
ricordata inefficacia di atti di disposizione del fallito (o su beni rientranti nel patrimonio del fallito). Essa ha carattere centrale anche
indirettamente, per come la sua considerazione è in grado di condizionare i comportamenti dei soggetti (le banche; i fornitori; i clienti; i potenziali partners industriali o finanziari), con i quali
l’imprenditore allaccia quotidianamente rapporti inerenti l’esercizio
dell’impresa. Una disciplina più o meno severa dell’azione revocatoria fallimentare condiziona fortemente la propensione degli interlocutori
dell’imprenditore ad intraprendere, o mantenere, rapporti commerciali con lo
stesso, ed a sostenere oppure a prendere le distanze dalle iniziative rivolte a su-
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perare od a comporre le situazioni di “crisi” nelle quali l’imprenditore si trovi
a versare.
Il “condizionamento” al quale alludiamo può manifestarsi in una
pluralità di situazioni e determinare risultati pratici che possono ricevere valutazioni positive o negative, in base alla importanza attribuita ai diversi e divergenti interessi in gioco.
Così, se prendiamo in esame l’ipotesi nella quale l’imprenditore in
stato di insolvenza proponga ai creditori una procedura di concordato preventivo con cessione dei beni (art. 160 l.f.), anche la valutazione più pessimistica sugli effettivi risultati della liquidazione
potrà indurre determinati creditori (per esempio, e principalmente:
le banche) a preferire questa pur deludente soluzione, che esclude comunque il pericolo di potere subire azioni revocatorie fallimentari (giacchè le
stesse non sono proponibili se non nell’ambito del fallimento);
piuttosto che rischiare la dichiarazione di fallimento, che a prescindere da ogni altro profilo apre la via alle “azioni di recupero” del curatore
fallimentare sorrette dall’esercitabilità dell’azione revocatoria fallimentare. E
ben si comprende: a) come tale propensione a sostenere la prima
soluzione sia tanto più elevata, quanto più ampia sia la portata delle
azioni revocatorie fallimentari che risulterebbero proponibili
nell’ambito del fallimento; b) come lo “spauracchio” delle azioni
revocatorie fallimentari possa essere agitato con eguale efficacia
(come è quotidianamente nelle situazioni di “crisi d’impresa”) anche al fine di imporre ai creditori delle soluzioni concordatizie stragiudiziali, che per quanto poco brillanti evidenziano tuttavia il pregio di
evitare (o di ritardare) il fallimento, in tal modo escludendo (o limitando) i costi aggiuntivi che potrebbero derivare ai creditori interessati dalla dichiarazione di inefficacia revocatoria di atti posti in
essere precedentemente con l’imprenditore “in crisi”.
Nello stesso modo, anche l’imprenditore che affermi di versare in
una situazione di difficoltà di adempiere soltanto “temporanea”,
avrà buon gioco a proporre ai creditori una procedura di amministrazione controllata (art. 187 l.f.), che per quanto illusoria possa
essere, comunque non consente (per intanto) l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari nei confronti degli atti compiuti in precedenza: perchè ciò che i singoli creditori possono rischiare di dovere restituire all’eventuale fallimento a seguito di azioni revocatorie fallimentari, può largamente superare l’entità dei crediti attualmente vantati nei confronti dell’imprenditore, la rinuncia (formale
o sostanziale) ai quali può rivelarsi come il minore dei possibili mali.
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A tale proposito si deve anche considerare come il “condizionamento” di cui abbiamo discorso può produrre effetti “perversi” –
e pure tale fenomeno è largamente ricorrente - anche in direzione
opposta, e cioè in senso sfavorevole per l’imprenditore: ed è questa
la manifestazione del fenomeno sulla quale è necessario soffermare maggiormente l’attenzione.
A maggiore severità ed a maggiore ambito di applicazione
dell’azione revocatoria fallimentare corrisponde un proporzionale
maggior timore della sopravvenienza del fallimento del proprio interlocutore. Bene si comprende, pertanto, come nelle situazioni di
“crisi”, anche apparentemente soltanto contingenti, superabili, reversibili, un formidabile deterrente a sostenere i progetti di ripresa
dell’impresa possa essere costituito, per i terzi interessati, dalla gravosità delle
conseguenze revocatorie di un eventuale fallimento sugli atti posti in essere
dall’imprenditore e con l’imprenditore nel perseguire tale tentativo.
L’importanza dell’istituto spiega la grande quantità e l’elevato livello degli studi ad esso dedicati nel corso del tempo; la vivacità del
dibattito che ancora oggi anima le sedi scientifiche nelle quali si discute di problemi attuali della legge fallimentare; l’interesse con il
quale sono stati seguiti i Progetti di riforma, che si sono succeduti
l’uno all’altro, con specifico riguardo agli interventi sulle disposizioni concernenti l’azione revocatoria fallimentare; e, infine, la circostanza che l’unica significativa riforma del diritto fallimentare
positivo (d.-l. n. 35/2005, convertito nella legge n. 80/2005) riguardi per larga parte proprio il ridimensionamento, quantitativo e
qualitativo, della portata dell’azione revocatoria fallimentare – come vedremo in dettaglio -.
Gli studiosi hanno proposto una certa varietà di teorie generali, tese
ad individuare la ratio, la “filosofia” della disciplina dell’azione revocatoria contenuta nella legge fallimentare del 1942, al fine sia di
offrire i criteri interpretativi atti ad individuare le corrette soluzioni
alle questioni che non trovino nel diritto positivo una immediata
risposta; sia al fine di comprendere se la “filosofia” dell’istituto
fosse ancora attuale, così da fare meritare alla sua disciplina una sostanziale conferma; oppure se sessant’anni di evoluzione della società e dell’economia del nostro Paese avessero reso inattuale quel
modo di regolare i rapporti tra l’imprenditore ed i suoi principali
interlocutori, nell’occasione della “crisi” dell’impresa, ed imponessero conseguentemente l’introduzione di nuove “regole del gioco”
- sotto il profilo della possibile soggezione o meno degli atti posti
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in essere da o con un imprenditore alla “rivisitazione” dell’azione
revocatoria fallimentare, che elimina, per così dire, gli effetti giuridici che quegli atti si erano ripromessi di produrre -.
De jure condendo, un approccio all’istituto che privilegi la considerazione di quale debba essere la funzione dell’azione revocatoria fallimentare, e da ciò prenda le mosse per costruirne la disciplina di diritto positivo, sarebbe stato, ed è tuttora, certamente corretto.
De jure condito, prendere le mosse dalla affermazione della funzione
dell’azione revocatoria fallimentare avrebbe il significato, qui più
che in altri luoghi, di una petizione di principio, tante e tanto autorevoli essendo le ricostruzioni che la dottrina ha proposto
dell’istituto.
Per tale ragione, pare preferibile privilegiare la considerazione dei
risultati ricavabili, anzitutto, da un esame per quanto possibile oggettivo e “logico” delle determinazioni di diritto positivo: valutando solo successivamente se e quali indicazioni sistematiche esse
consentano di proporre.
In questa prospettiva, le mosse devono essere prese dalla considerazione della disciplina di diritto positivo riservata all’azione revocatoria ordinaria: sia perché secondo autorevoli opinioni l’azione revocatoria fallimentare e l’azione revocatoria ordinaria avrebbero essenzialmente una identica natura; sia perché l’azione revocatoria ordinaria è ricompresa nella disciplina riassuntivamente denominata della
revocatoria fallimentare, laddove si afferma (art 66) che “il curatore
può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti in pregiudizio
dei creditori, secondo le norme del codice civile” (relative all’azione revocatoria ordinaria); sia, infine, perché a sua volta la disciplina
dell’azione revocatoria ordinaria fa salve (art 2904 c.c.) “le disposizioni sull’azione revocatoria in materia fallimentare”, creando un indiscutibile collegamento tra i due istituti.
Ciò che vale per la individuazione della ratio della disciplina
dell’azione revocatoria secondo le norme previgenti, vale anche per
la soluzione del corrispondente problema interpretativo sulla “natura” dell’azione revocatoria come ricavabile dalle disposizioni introdotte dalla “Riforma” di cui al d.-l. n. 35/2005. Né si tratta solamente di un problema di metodo, quanto piuttosto anche del
prodotto della constatazione che - come vedremo – la nuova disciplina non detta principi generali capaci di gettare luce di per sé
sulla funzione che essa intenda attribuire alla “nuova” revocatoria
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2. Segue. Il ruolo della disciplina dell’azione revocatoria alla luce della riforma conseguente all’approvazione del decreto-legge 15 marzo 2005, n. 35.
Il d.-l. 15 marzo 2005, n. 35 – poi convertito nella legge n. 80/2005
– ha mirato principalmente a dettare una nuova disciplina
dell’azione revocatoria fallimentare, sia incidendo profondamente
sulla portata del mezzo, quando venga rivolgo nei confronti degli
atti a titolo oneroso (“anomali” oppure normali) posti in essere dal
debitore (o sul suo patrimonio); sia introducendo nuove ed importantissime fattispecie di “esenzione” dall’applicabilità dell’azione
revocatoria.
Si è peraltro già ricordato come la legge di riforma non autorizzi a
sovvertire l’importanza tradizionalmente riservata allo studio
dell’istituto, per due principali ragioni:
a) la nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare non
è applicabile né alle cause in corso; nè alle cause che saranno radicate anche nel futuro, ma nell’ambito di procedure concorsuali “iniziate” prima dell’entrata in vigore del
decreto-legge poi convertito (quindi prima del 17 marzo
2005) – supra, Introduzione -;
b) la nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare non
altera la struttura della disciplina originaria, dal momento
che: i) lascia totalmente immutati gli artt. 64, 65 e 66 l.f.; ii)
lascia sostanzialmente immutata anche l’impostazione ed il
contenuto dell’art. 67 l.f., salvo il dimezzamento dei “periodi sospetti” variamente previsti per le tipologie di atti
presi in considerazione – ed una precisazione in materia di
revocatoria delle garanzie sulle quali si avrà modo di ritornare -; iii) introduce soltanto – in aggiunta al ricordato dimezzamento dei “periodi sospetti” – nuove fattispecie di
“esenzione” dalla revocatoria, legate o alla volontà di ridimensionarne la portata assunta in taluni orientamenti giurisprudenziali; o alla volontà di favorire l’accesso e la esecuzione delle procedure di composizione negoziale delle
“crisi” d’impresa; o alla volontà di riservare un trattamento
di favore a talune categorie di creditori considerate particolarmente meritevoli di tutela (i dipendenti; i “collaboratori”
dell’imprenditore; gli acquirenti di immobili ad uso abitativo da destinarsi ad abitazione principale propria o di stretti
parenti).
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Il “ridimensionamento” dell’istituto dell’azione revocatoria, che
viene naturale ricavare dalle ricordate caratteristiche delle nuove
disposizioni in materia, potrà non presentare, di fatto, le dimensioni economiche e per così dire giudiziarie che si potrebbe essere portati
ad attendersi, alla luce delle considerazioni che:
a) l’impatto del dimezzamento dei “periodi sospetti” potrà in
parte essere ridotto da una accelerazione delle istruttorie prefallimentari: in tal modo infatti un certo numero di atti che hanno prodotto effetti pregiudizievoli sul patrimonio del debitore potrà comunque rimanere soggetto all’azione revocatoria;
b) la disciplina delle nuove fattispecie di “esenzione” risulta a
tal punto costellata di imprecisioni, lacune, contraddizioni,
da fare ipotizzare un inevitabile incremento, piuttosto che
un ridimensionamento, del “contenzioso” giudiziale in materia.
3. Segue. Prescrizione e decadenza dalla proposizione dell’azione revocatoria
(ordinaria e fallimentare) nelle prospettive di riforma.
Come si è detto, per gli atti posti in essere anteriormente al sorgere
del credito che ne risulterà pregiudicato, la prescrizione dell’azione
revocatoria ordinaria inizia a decorrere – essendo ancorata al compimento dell’atto revocando - addirittura prima che venga ad esistenza colui (il futuro creditore) che può (rectius: potrà) esercitare il
diritto soggetto a prescrizione – in quanto l’atto di disposizione
fosse preordinato a pregiudicarne le ragioni recuperatorie originate
dalla successiva concessione di credito al debitore -. In qualche
modo, la prescrizione comincia a decorrere quando l’azione revocatoria, sul cui esercizio è destinata ad incidere, non è ancora nata.
Un fenomeno non dissimile è destinato a prodursi con la prevedibile riforma dei presupposti di esercitabilità dell’azione revocatoria
fallimentare.
Lo “Schema di decreto legislativo recante “la riforma organica della disciplina
delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”,
approvato dal Governo in esecuzione della delega allo stesso conferita dal Parlamento con la legge 14 maggio 2005, n. 80, nel testo
trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari – per il rilascio del previsto “parere” - nel mese di ottobre 2005, registra
l’introduzione [art. 55 dello schema di decreto legislativo] di un
nuovo articolo 69-bis della (nuova) legge fallimentare, la cui Ru-
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brica è intitolata “ Decadenza dall’azione”, e secondo il quale “Le
azioni revocatorie disciplinate nella presente Sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi
cinque anni dal compimento dell’atto”.
La nuova disposizione apporterebbe pertanto alla disciplina
dell’azione revocatoria fallimentare le seguenti modificazioni:
a) il termine di proponibilità sarebbe espressamente qualificato come termie di decadenza, quindi insuscettibile di qualsivoglia interruzione o sospensione;
b) il termine decadenziale avrebbe durata triennale rispetto alla data del fallimento – dunque rispetto alla data di esercitabilità dell’azione da parte del curatore fallimentare - ;
c) il termine decadenziale avrebbe (per di più) durata quinquennale rispetto alla data di compimento dell’atto revocando – dunque rispetto ad una data alla quale l’azione revocatoria fallimentare “non è ancora nata”, non essendo
ancora intervenuto l’indispensabile presupposto del fallimento dell’autore dell’atto di disposizione (o del titolare del
patrimonio interessato dall’atto di disposizione) 1.
Stante la dizione della (ipotizzata) disposizione, che allude alle azioni revocatorie “disciplinate nella presente Sezione”, la nuova disciplina non sarebbe applicabile all’azione revocatoria ordinaria (esercitata fuori dal fallimento): il chè non potrà non alimentare le discussioni sulla individuazione della effettiva natura del regime dettato dall’art. 2903 cod. civ, per la proponibilità di tale azione, che
pur facendo esplicito riferimento alla prescrizione di essa, sarebbe
già a sua volta espressivo – piuttosto - di un regime di decadenza 2
4. La revocatoria fallimentare degli atti a titolo gratuito alla luce della riforma
della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005). La revocatoria degli atti costitutivi
di garanzia.
1 Per una prima critica a tale prospettiva v. M. MONTANARI, La riduzione del
termine di decadenza per l’esercizio della revocatoria, in Fallimento, 2005, 1029
2 V. in argomento C. CONSOLO – M. MONTANARI, La revocatoria ordinaria
nel fallimento e le questioni di prescrizione (recte decadenza), in Corr. giur.,
2005, 404.
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Il decreto legge 15 marzo 2005, n. 35 ha modificato il testo del secondo comma dell’art. 67 l. fall., non solo – come si vedrà – riducendo da un anno a sei mesi il c.d. “periodo sospetto”: ma anche
precisando che la disciplina revocatoria ivi disposta concerne (tra
gli altri) “gli atti .. costitutivi di un diritto di prelazione per debiti,
anche di terzi, contestualmente creati..”: e l’innovazione è rappresentata dalla precisazione – prima assente - che la disposizione si applica anche agli atti costitutivi di diritti di prelazione posti in essere
anche ai fini di garantire l’adempimento di debiti altrui.
Per le azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure concorsuali “iniziate” successivamente al 17 marzo 2005, pertanto, si
dovrà escludere l’assoggettabilità delle garanzie (reali) prestate per
debiti altrui alla disciplina (degli atti a titolo gratuito, ergo) dell’art.
64 l.f.
La nuova norma, come detto, disciplina, insieme agli “atti a
titolo oneroso”, quelli “costitutivi di un diritto di prelazione
per debiti, anche di terzi, contestualmente creati …”.
A rigore, pertanto, la innovazione, che sottrae le garanzie
contestuali alla possibile applicazione dell’art. 64 l.fall. anche se prestate nell’interesse di terzi, concerne le sole garanzie reali (“atti costitutivi di un diritto di prelazione…”): e
non riguarderebbe – invece – le garanzie personali (tipicamente, la fideiussione, nell’ipotesi – dunque – di fallimento del fideiussore).
Tale conclusione è tuttavia del tutto irrazionale, e non merita di essere condivisa. Il nuovo art. 67, co. 2 l.f. deve
considerarsi applicabile, a nostro avviso, a tutti gli atti costitutivi di garanzie, anche non “reali”, ivi comprendendosi
sia le figure di “garanzia” più affini alle garanzie reali (come la cessione del credito, quando posta in essere con funzione di garanzia – e cfr. in argomento, in particolare, la
nuova disciplina delle cc.dd. garanzie finanziarie, che equipara la cessione del credito al pegno di credito); sia le figure di garanzia più strettamente personali, quali la fideiussione.
5. Segue. La revocatoria dei pagamenti di debiti altrui.
Alla stessa stregua di quel che si è già visto per gli atti costitutivi di
garanzia nell’interesse di terzi, anche i pagamenti di debiti altrui
sono normalmente assoggettati a revocatoria biennale ai sensi
dell’art. 64 l.f. Sono questi degli atti che, ancora una volta, se considerati dal punto di vista dello accipiens (di norma, ancora: la banca)
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sono caratterizzati da elementi di onerosità (il pagamento estingue
il credito vantato verso il debitore); mentre se vengono considerati
dal punto di vista del solvens, poi fallito, rappresentano una disposizione patrimoniale senza corrispettivo diretto (giacchè l’effetto positivo connesso all’estinzione dell’obbligazione soddisfatta si riflette sul patrimonio di chi era l’effettivo debitore del debito pagato
dal fallito).
Anche in questa situazione si ripropone la contrapposizione incontrata in materia di prestazione di garanzie per debiti altrui: ed anche
in questa ipotesi sarebbe preferibile considerare il fenomeno dal
punto di vista dell’accipiens, che ricevendo il pagamento di un debito potrà essere assoggettato alla sola disciplina della revocatoria
degli atti estintivi di una obbligazione, come qualsiasi creditore
soddisfatto direttamente dal debitore (se mai venendo in considerazione la possibile proposizione dell’azione revocatoria ex art. 64
l.f. nei confronti del debitore liberato dal pagamento effettuato dal fallito).
Non è peraltro suscettibile di essere ricompreso nella categoria di coloro che pagano “debiti altrui” chi adempia una
obbligazione che è anche propria, come il coobbligato solidale o il
fideiussore. In tal caso il pagamento rimarrà bensì un atto
revocabile, ma sui presupposti ed alle condizioni previsti
dalla disciplina della revocatoria dei pagamenti di debiti
propri (secondo i casi, art. 67, co. 1, n. 2 l.f., oppure art. 67,
co. 2).
La riforma della legge fallimentare di cui al d.l. n. 35/2005 non incide, come detto, sulla disciplina dell’art. 64 l.f.: né introduce disposizioni idonee ad aggiungere elementi di riflessione a proposito
del dibattito sul regime revocatorio da riservarsi al pagamento dei
debiti altrui, che dovrebbe dunque rimanere ancorato agli orientamenti giurisprudenziali già ricordati.
In fatto non sarà agevole spiegare, in ipotesi, perché l’atto costitutivo di garanzia per debiti altrui (contestuale alla concessione del
credito) sia oggi normativamente definito atto a titolo oneroso anche ai fini dell’assoggettamento a revocatoria fallimentare; mentre
il pagamento del debito altrui dovrebbe ancora potere essere qualificabile come atto a titolo gratuito.
6. Segue. La disciplina revocatoria dei pagamenti anticipati alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005).
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La riforma della legge fallimentare di cui al d.l. n. 35/2005
non incide sulla disciplina dettata dall’art. 65 l.f. Essa continuerà pertanto ad essere interessata dal dibattito sviluppatosi a
proposito della disciplina previgente.
Una questione interpretativa di particolare rilievo è quella
costituita dal dubbio se l’art. 65 l.f. si applichi sempre e comunque, quando la scadenza originaria del credito soddisfatto
si sarebbe collocata dopo il fallimento (o avrebbe coinciso
con la data della sentenza dichiarativa), anche se al momento del pagamento il credito era venuto a scadenza per fatto
indipendente dalla volontà del debitore – a causa della decadenza dal beneficio del termine, invocata dal creditore ricorrendo i presupposti previsti dall’art. 1186 c.c.; oppure a
causa della risoluzione del contratto (per esempio, di finanziamento bancario), provocata dal creditore per inadempimento del debitore (per esempio per mancato pagamento
di una o più rate del finanziamento) -; oppure se nelle ipotesi nelle quali il debito, pur originariamente caratterizzato
da una scadenza protratta, sia legittimamente divenuto esigibile prima della scadenza prevista, la disciplina applicabile
al pagamento del debitore debba essere quella prevista per
l’adempimento di obbligazioni liquide ed esigibili (quindi,
secondo il carattere normale o anormale del mezzo di pagamento, l’art. 67, co. 2, l.f., oppure l’art. 67, co. 1, n. 2).
La giurisprudenza mostra di preferire la prima soluzione:
ma un parallelo con la disciplina dell’art. 64 l.f. – giustificato dalla identicità del “regime revocatorio” delle due fattispecie – induce a preferire la seconda. Mentre la condizione di chi benefici, per pura sorte, del pagamento anticipato di un credito che altrimenti lo avrebbe sottoposto al
concorso fallimentare (perché scadente dopo il fallimento o
il giorno del fallimento), può essere assimilata alla condizione di chi benefici di un atto gratuito; la condizione invece del creditore che tutelando legittimamente le sue ragioni
provochi la scadenza del credito e ne consegua il pagamento, dovrebbe essere assimilata a quella di ogni altro creditore soddisfatto di una obbligazione liquida ed esigibile, e
quindi essere interessato, nei termini descritti, dalla disciplina dell’art. 67, co. 2, l.f. oppure a quella dell’art. 67, co. 1,
n. 2, secondo il carattere normale od anormale dei mezzi di
pagamenti utilizzati.
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7. La revocatoria fallimentare degli “atti anormali” alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005).
La nuova legge fallimentare (d.l. n. 35/2005) ha apportato alla disciplina degli atti “anomali” le seguenti modificazioni:
a) il dimezzamento dei “periodi sospetti” (divenuti 12 mesi
per i nn. 1, 2 e 3 dell’art. 67, co. 1; e 6 mesi per il n. 4);
b) la precisazione, a proposito degli “atti sproporzionati”, che
l’atto caratterizzato da una “eccessiva onerosità” a danno
del fallito sarà assoggettabile alla revocatoria prevista dalla
norma in commento in tanto in quanto la sproporzione
denunciata oltrepassi di un quarto ciò che è stato dato o
promesso al fallito stesso.
La norma recepisce, in sostanza, quello che si era andato formando
come un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato in materia di individuazione dei criteri atti a qualificare come “notevole”
la sproporzione dell’atto in danno del fallito.
8. La disciplina dell’azione revocatoria degli atti “normali” alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005).
Per ciò che concerne gli atti che abbiamo definito “normali”, il d.-l.
n. 35/2005 ha apportato alla loro disciplina revocatoria le seguenti
modificazioni (applicabili, come più volte ricordato, alle sole controversie originate da procedure concorsuali “iniziate” dopo il 17
marzo 2005):
a) il dimezzamento del “periodo sospetto” (da un anno a 6
mesi);
b) la sottoposizione alla disciplina della revocatoria degli atti
“normali” anche delle garanzie costituite per debiti di terzi, se contestuali al credito agli stessi concesso (supra, Sezione I, n. 5).
Con tale previsione si conferisce rilievo normativo
all’orientamento giurisprudenziale già favorevole a considerare
applicabile anche all’azione revocatoria fallimentare la corrispondente regola dettata, per l’azione revocatoria ordinaria,
dall’art. 2901, co. 2, c.c. Ciò indurrà a riconsiderare, come detto, anche la sorte che deve attribuirsi ai cc.dd. “pagamenti dei
debiti altrui”, anch’essi suscettibili di essere considerati come
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atti “normali” – e quindi assoggettabili alla sola azione revocatoria di cui all’art. 67, co. 2, l.fall. -, se considerati dal punto di
vista degli effetti sul patrimonio dello accipiens (che si arricchisce del pagamento ricevuto, ma si impoverisce del credito estinto con il pagamento), piuttosto che dal punto di vista degli
effetti sul patrimonio del solvens fallito – per il quale
all’impoverimento provocato dal pagamento non corrisponde,
in linea di principio, alcun arricchimento (che se mai si verifica
nel patrimonio del debitore, in conseguenza dell’estinzione del
credito soddisfatto dal solvens) -.
9. Segue. Revocatoria fallimentare e “patrimoni destinati” nella prospettiva
della riforma della legge fallimentare.
La recente riforma del diritto societario come è noto, ha introdotto
nel nostro ordinamento l’istituto dei “patrimoni destinati”, prevedendo (artt. 2447-bis ss. Cod. civ.) che la società per azioni, con
deliberazione presa (salvo diversa disposizione dello statuto) dal
consiglio di amministrazione o di gestione, possa costituire “uno o
più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico affare”, per un valore complessivamente non superiore al dieci per
cento del patrimonio netto della società.
Tale istituto ha posto sin dalla sua introduzione una serie di interrogativi concernenti la disciplina fallimentare da riservargli, ivi
compresa la stessa configurabilità dell’assoggettabilità a fallimento
del patrimonio destinato (incapiente) in quanto tale, a prescindere
cioè dall’assoggettamento a fallimento della società che l’avesse
costituito3. Per ciò che concerne la disciplina dell’azione revocatoIn argomento v. S. BONFATTI – P.F. CENSONI, Manuale di diritto
fallimentare, II^ ristampa (con Appendice di aggiornamento), Padova, 2005.
Per ciò che concerne questo profilo , lo “Schema di decreto legislativo recante “la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”, approvato dal Governo in esecuzione
della delega allo stesso conferita dal Parlamento con la legge 14 maggio
2005, n. 80, nel testo trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari –
per il rilascio del previsto “parere” - nel mese di ottobre 2005, registra
l’introduzione [artt. 136, 137 e 138 dello schema di decreto legislativo] di
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ria fallimentare, in particolare, si è posto il problema della revocabilità degli atti compiuti nell’esercizio dell’affare per il cui compimento fosse stato costituito un “patrimonio destinato”, e dei presupposti relativi.
Il d-l. di riforma n. 35/2005 nulla dispone in argomento.
Al contrario, lo “Schema di decreto legislativo recante “la riforma organica
della disciplina delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo
1942, n. 267”, approvato dal Governo in esecuzione della delega allo stesso conferita dal Parlamento con la legge 14 maggio 2005, n.
80, nel testo trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari
– per il rilascio del previsto “parere” - nel mese di ottobre 2005,
registra l’introduzione [art. 53 dello schema di decreto legislativo]
di un nuovo articolo 67-bis della (nuova) legge fallimentare, secondo il quale “Gli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall’articolo 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice
civile, sono revocabili quando pregiudicano il patrimonio della società. Il presupposto soggettivo dell’azione è costituito dalla conoscenza dello stato di insolvenza della società”. La bozza di Relazione allo schema di decreto legislativo in commento è meramente descrittiva, e non coglie nepdue nuovi articoli 137 e 138 della (nuova) legge fallimentare, secondo i quali : a) in caso di dichiarazione di fallimento della società, l’amministrazione
del patrimonio destinato è attribuita al curatore fallimentare; b) il curatore
provvede alla liquidazione del patrimonio destinato, ove possibile, nel suo
complesso: in caso contrario provvede alla sua liquidazione secondo le regole
della liquidazione della società, in quanto compatibili; c) il corrispettivo della
cessione del patrimonio destinato (al netto dei debiti dello stessi), oppure il
residuo netto attivo della sua liquidazione, sono acquisiti all’attivo fallimentare; d) se a seguito del fallimento della società o nel corso della gestione il
curatore rileva che il patrimonio destinato è incapiente, provvede alla sua liquidazione secondo le regole della liquidazione della società, in quanto compatibili; e) i creditori particolari del patrimonio destinato possono insinuarsi
al passivo fallimentare della società [solo] nelle ipotesi di responsabilità sussidiaria o illimitata di questa previste dal codice civile; f) se risultano violate
le regole della “separatezza” tra il patrimonio destinato ed il restante patrimonio sociale, la conseguenza è costituita [solo] dalla promuovibilità di azioni di responsabilità da parte del curatore fallimentare nei confronti dei
membri degli organi di amministrazione e controllo della società
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pure i più vistosi effetti che l’introduzione di tale disposizione provocherebbe sul regime dell’azione revocatoria fallimentare nel suo
complesso.
Innanzitutto risulterebbero non assoggettabili ad azione revocatoria fallimentare gli atti posti in essere con la piena consapevolezza della
incapienza del patrimonio destinato – sul quale in prima battuta, e tendenzialmente in via esclusiva, sono destinati ad incidere -, tutte le
volte nelle quali il curatore fallimentare non riuscisse a dimostrare
che il soggetto convenuto in revocatoria fosse a conoscenza dello
stato di insolvenza della società in quanto tale – con la cui restante
attività imprenditoriale il terzo può non avere alcun rapporto -.
In secondo luogo – e soprattutto - risulterebbero non assoggettabili ad azione revocatoria fallimentare gli atti posti in essere con la piena consapevolezza sia della incapienza del patrimonio destinato, sia dello
stato di insolvenza della società in quanto tale, tutte le volte in cui l’atto
di disposizione su beni facenti parte del patrimonio destinato non
avesse pregiudicato il patrimonio della società: con un chiaro “recupero” della concezione indennitaria della funzione dell’azione revocatoria fallimentare, la cui adozione per la sola fattispecie degli
atti compiuti su beni del “patrimonio destinato” risulta di difficile
comprensione.
10. La disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario nella nuova legge fallimentare.
La nuova legge fallimentare incide profondamente sulle conclusioni alle quali aveva portato, in materia di revocatoria delle rimesse
bancarie, l’orientamento affermatosi in giurisprudenza.
Tale conclusione è ricavabile dalla nuova disciplina delle fattispecie
di “esenzione” dall’azione revocatoria: dalla quale si desume – come si vedrà – che in linea di principio le “rimesse” su conto
corrente bancario non sono più revocabili, salvo che esse assumano la connotazione di atti solutori sulla base di criteri che
pure sono precisati nella legge di riforma.
E’ pertanto necessario inquadrare l’esame della nuova disciplina
della revocatoria delle “rimesse” bancarie nell’ambito della valutazione delle innovazioni introdotte in materia di fattispecie di “esenzione” dall’azione stessa..
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
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Parte Seconda
1. Premessa. La convivenza tra la nuova legge fallimentare e le norme previgenti in materia di “esenzione” dalla revocatoria.
Anche in materia di disposizioni che riguardano le fattispecie di “esenzione” dall’applicazione dell’azione revocatoria si pone il problema della convivenza delle norme previgenti, destinate a trovare
applicazione nelle azioni revocatorie già pendenti, nonché in quelle
proposte nell’ambito di procedure concorsuali già iniziate (art. 2,
co. 2, d.-l. n. 35/2005); con le norme introdotte dalla legge di riforma, applicabili alle sole azioni revocatorie “nuove” originate da
procedure concorsuali “nuove” (cioè iniziate dopo il 17 marzo
2005).
Il rapporto tra le due categorie di norme origina peraltro una situazione particolare.
Le nuove norme in primo luogo confermano l’applicabilità delle
disposizioni previgenti in materia di “esenzione”, tanto per quelle
già contemplate nell’art. 67, co. 3, l.f. (Istituto di emissione; credito
su pegno; credito fondiario) – ora riprodotto nell’art. 67, co. 4: infra; quanto per quelle contenute nelle leggi speciali - prima fatte
salve dal terzo comma della norma in esame, e oggi fatte salve dal
quarto comma: infra -.
Le nuove norme, in secondo luogo, introducono diverse ed ulteriori fattispecie di “esenzione”, prima sconosciute.
La nuova disciplina, pertanto, si sovrappone ed assorbe quella
precedente: onde potrebbe essere giustificato un approccio che rispetti l’ordine nel quale le norme sulle “esenzioni” dall’azione revocatoria sono oggi poste dalla legge fallimentare – così anteponendo l’esame delle nuove fattispecie introdotte con il rinnovato
terzo comma dell’art. 67 l.f. a quello delle fattispecie già vigenti,
oggi ridisciplinate nel quarto comma della stessa norma, per poi
concludere con le ulteriori fattispecie innovative introdotte nel rinnovato articolo 70 -.
E’ tuttavia apparso preferibile rispettare la stessa impostazione che
si è ritenuto di adottare per le precedenti Sezioni del presente lavoro, anteponendo in linea di principio l’esposizione della disciplina e
delle problematiche suscitate dalle norme di “esenzione” previgenti
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a quella che riguarda le norme di “esenzione” introdotte dalla “Riforma”.
2. La esenzione da revocatoria dello “Istituto di emissione” (art. 67, co. 3, l.f.
previgente).
La prima fattispecie che viene indicata quale esempio di “ esenzione” dall’azione revocatoria nell’art. 67, co. 3, f.l. previgente è costituita dall’Istituto di emissione: cioè dalla Banca d’Italia.
Nell’attuale contesto normativo, la Banca d’Italia non esercita (più)
attività creditizia nei confronti del pubblico: onde non sono configurabili situazioni nelle quali l’assoggettamento a fallimento di un
imprenditore commerciale (“di diritto comune”) possa costituire
l’occasione di una valutazione di revocabilità in relazione ad operazioni poste in essere dalla Banca d’Italia nell’esercizio della sua propria
attività istituzionale.
Diversamente è a dirsi per i rapporti che la Banca
d’Italia intrattiene con le aziende di credito. Tali rapporti,
infatti, possono avere natura squisitamente creditizia,
ed anzi è individuata come una funzione tipica istituzionale della Banca Centrale quella di esercitare una attività di “credito di ultima istanza” nei confronti delle imprese bancarie, con particolare riguardo alle fattispecie
nelle quali queste versino in situazioni di difficoltà.
Nelle ipotesi descritte, non può escludersi che la banca
in difficoltà venga assoggettata a liquidazione coatta amministrativa, e che a seguito della dichiarazione giudiziale
dello stato di insolvenza anche gli atti posti in essere
dalla banca possano essere assoggettati ad azione revocatoria fallimentare.
In questa prospettiva, la “esenzione” dalla revocatoria
disposta per la Banca d’Italia sembra dovere essere
spiegata con la indicata funzione di “prestatore di ultima istanza” delle banche (in difficoltà) attribuita istituzionalmente alla stessa, ed in ultima analisi come contributo alla salvaguardia del valore della stabilità del sistema creditizio.
3. Segue. La “esenzione” dello “Istituto di emissione” nella nuova legge fallimentare.
L’art. 67, co. 4, l.f., come introdotto dal d.-l. n. 35/2005, ribadisce
che “le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto di emissione
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
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…”. Le parole utilizzate per esprimere il concetto sono identiche
a quelle già contenute nel previgente terzo comma della norma:
onde è facile concludere che “nulla cambia”. Occorre se mai avvertire – ma lo si è già fatto nella sede opportuna – che la lettera
della legge tradisce, all’evidenza, il pensiero del legislatore, il quale
affermando che “questo articolo” (l’art. 67 l.f.) non si applica
all’Istituto di emissione, non vuole certamente intendere – come
pur dice! – di escludere la Banca d’Italia dall’applicabilità delle esenzioni contemplate nel terzo comma della norma in commento (a prescindere
dalla circostanza che la portata generale del principio di esenzione
dettato per l’Istituto di emissione varrebbe comunque a preservarne
l’operato da conseguenze revocatorie).
Se mai si può aggiungere che la conferma del carattere
squisitamente soggettivo della “esenzione” disposta per la
Banca d’Italia – a differenza di quelle originariamente previste per altri soggetti, come gli Istituti di credito fondiario
– accredita l’interpretazione, dalle conseguenze irrazionali,
di una sottrazione dell’Istituto a qualsiasi ipotesi di assoggettabilità all’azione revocatoria, ivi comprese quelle concernenti
atti di gestione non tipicamente inerenti l’esercizio dell’attività di vigilanza sul settore creditizio, ma più genericamente connessi con
la vita dell’Istituto – come sarebbe per es. l’acquisto di un
immobile come sede di una propria Filiale, o la vendita di
un cespite; o ancora la effettuazione di operazioni di investimento/disinvestimento delle disponibilità finanziarie
dell’Istituto -.
Una lettura più corretta della norma di “esenzione” induce
invece a considerare applicabile tale beneficio alle sole operazioni poste in essere dalla Banca d’Italia nell’ambito della
sua attività istituzionale: attività che non prevede più la
possibilità di allacciare rapporti creditizi con imprenditori
privati, ma prevede ancora la possibilità di effettuare interventi di sostegno finanziario in favore delle aziende di credito, particolarmente nelle situazioni di “crisi”. Sono pertanto le operazioni creditizie poste in essere dalla Banca
d’Italia quale “prestatore di ultima istanza” (delle banche) a
potere essere correttamente considerate esonerate dal pericolo di assoggettamento ad azione revocatoria, nell’ambito
dell’eventuale procedura di liquidazione coatta amministrativa disposta nei confronti di una azienda di credito già
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sovvenuta (evidentemente senza successo) dalla Banca
d’Italia.
4. La esenzione da revocatoria degli Istituti autorizzati a compiere operazioni
di credito su pegno.
L'art. 67, u. co., l. f. previgente, afferma che le disposizioni "di questo articolo" non si applicano, tra gli altri, agli Istituti autorizzati a
compiere operazioni di credito su pegno, limitatamente a dette operazioni. Tale norma e' stata intesa, nel passato, da taluni interpreti, come suscettibile di applicazione a qualsiasi Istituto od Azienda
di credito (in quanto abilitati ad esercitare il credito su pegno nell'ambito della generale autorizzazione ad esercitare l’attività creditizia), e per qualsiasi operazione assistita da garanzia pignoratizia, financo
quelle assistite da garanzie soltanto assimilabili al pegno, come la cessione di credito con funzione di garanzia.
Più recentemente, peraltro, si e' affermata la tesi contraria, secondo
la quale la norma di favore in commento si applicherebbe solamente a quegli Istituti od a quelle Aziende di credito, specificamente autorizzati all'esercizio dell’attività di piccolo prestito pignoratizio: e comunque esclusivamente alle operazioni di piccolo prestito
pignoratizio stesse.
Questa seconda tesi e' quella che si fa preferire, per molte ragioni:
quella che pare più convincente e' la ragione fondata sulla considerazione che non si può fare applicazione di una disciplina (come e'
quella della revocatoria fallimentare), che si incentra sulla conoscenza delle caratteristiche soggettive (imprenditore) ed oggettive (situazione di stato di insolvenza) della controparte, ad operazioni caratterizzate invece essenzialmente dall'anonimato del prenditore di credito, come sono le operazioni di piccolo credito pignoratizio
Occorre poi ricordare che le operazioni di credito su pegno sono
oggi disciplinate (per profili diversi dall’esenzione dalla revocatoria)
dall’art. 48 t.u.l.b. Tale norma in origine (d.lgs. n. 385/1993) limitava l’esercizio del credito su pegno (da intendersi come operazioni
di piccolo credito pignoratizio) a quelle sole banche che avessero
ottenuto o che ottenessero uno specifico “nulla osta” della Banca
d’Italia, nonché l’ulteriore “licenza” del Questore. A seguito di una
serie di modificazioni, culminate con quella disposta dall’art. 10,
co. 1, d.lgs. n. 342/1999, l’attuale art. 48 t.u.l.b. prevede ora che
“[tutte] le banche possono intraprendere l’esercizio del credito su pegno … dotandosi delle necessarie strutture e dandone comunicazione [successiva] alla
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
21
Banca d’Italia”, così “liberalizzando” anche questa categoria di operazioni.
5. Segue. La esenzione delle operazioni di credito su pegno nella nuova legge
fallimentare.
L’art. 67, co. 4, l.f. introdotto dal d.-l. n. 35/2005 afferma che: “Le
disposizioni di questo articolo non si applicano … alle operazioni di
credito su pegno”.
La norma previgente che corrisponde a tale previsione escludeva
dall’applicabilità dell’art. 67 l.f. gli “istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno”.
La norma di “esenzione” è quindi passata da un approccio soggettivo (“ gli Istituti autorizzati …”) ad un approccio oggettivo (“le operazioni di credito su pegno ….”): e se la ragione della innovazione è
difficilmente discutibile, gli effetti della modificazione si prestano
invece ad interpretazioni divergenti.
La ragione dell’innovazione sta nelle definitiva “abolizione” della categoria degli “Istituti autorizzati …” ad esercitare il credito pignoratizio: alla fine di un articolato iter (di
cui supra, n. 4) si è giunti all’affermazione del principio che
le banche non possono distinguersi secondo che siano o
non siano autorizzate ad esercitare il credito pignoratizio,
perché tutte lo sono per definizione, in conseguenza
dell’ottenimento dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività
creditizia.
Gli effetti della innovazione si prestano ad interpretazioni divergenti per il carattere ambiguo della espressione
“operazioni di credito su pegno”.
Secondo alcuni dei primi commentatori, la norma sarebbe
tale da autorizzare l’estensione della “esenzione” da revocatoria a qualsiasi operazione di credito su pegno:
dall’anticipazione bancaria (con pegno su merci)
all’apertura di credito in conto corrente garantita da pegno
su titoli.
La conclusione peraltro non è condividibile, perché farebbe
assumere alla norma un carattere del tutto irrazionale, nonchè contrario al principio costituzionale di eguaglianza.
Non sarebbe in alcun modo giustificabile l’attribuzione di
una disciplina di favore per le operazioni di credito su pe-
22
gno in generale, rispetto alle operazioni creditizie assistite da
altro genere di garanzia, od addirittura prive di garanzie.
E’ giustificabile, invece, che siano esonerate dalla disciplina
dell’azione revocatoria le operazioni di piccolo prestito pignoratizio, che hanno natura di vendita del bene (alla banca)
con patto di riacquisto (previa restituzione del prestito), e che
prescindono da una valutazione dell’affidabilità del soggetto “finanziato”- e dunque della sua condizione o meno di
insolvenza -, dal momento che in caso di mancata restituzione del prestito non consentono di richiederne la restituzione al
cliente, ma consentono esclusivamente la vendita del bene
oppegnorato.
6. La esenzione da revocatoria degli Istituti di credito fondiario.
La seconda fattispecie che a mente del previgente art. 67, u. co.,
l.f., è “esonerata” dalla disciplina dell’azione revocatoria fallimentare (secondo “le disposizioni di questo articolo”) è rappresentato
dagli “istituti di credito fondiario”.
La norma non appare oggi espressamente abrogata: ma la sua portata deve essere misurata in base alla considerazione della disciplina
sopravvenuta delle operazioni di credito fondiario (supra, Cap., n. 2),
nell’ambito della quale disposizioni specifiche sono propriamente
dedicate alla “esenzione” dalla azione revocatoria (cfr. art. 39 d.lgs.
1° settembre 1993, n. 385, “Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” – T.U.L.B. -).
E’ pertanto necessario accertare in via preliminare quale sia
l’ambito di applicazione dell’attuale disciplina di “esenzione” da
revocatoria delle operazioni di credito fondiario, per potere poi stabilire se essa debba essere considerata assorbente, oppure solamente integrativa, della pregressa disciplina della “esenzione” degli istituti di credito fondiario.
L’art. 39 T.U.L.B. afferma che le ipoteche a garanzia “dei finanziamenti” non sono assoggettate a revocatoria fallimentare, quando
siano iscritte dieci giorni prima della pubblicazione della sentenza
dichiarativa di fallimento; e che l’art. 67 della legge fallimentare
non si applica ai pagamenti effettuati dal debitore a fronte di “crediti fondiari”.
La disposizione è inequivocabilmente rivolta (e circoscritta) alle operazioni di credito fondiario: la descrizione delle quali è oggi rinvenibile nell’art. 38 T.U.L.B.,
che pone oggi esclusivamente requisiti connessi: 1) alla
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
23
durata delle operazioni ("a medio e lungo termine",
cioe' con durata superiore a 18 mesi); 2) alla presenza
di garanzie ipotecarie su immobili (di determinate caratteristiche rispetto al grado di iscrizione, ed all'ammontare del credito garantito in rapporto al valore dei
beni ipotecati od al costo delle opere da eseguire su di
essi).
Risulta dunque definitivamente ed integralmente abbandonata ogni prospettiva di concepire le operazioni
della specie come mutui di scopo. Ogni accenno alla necessità di rispettare specifiche destinazioni per l'utilizzo
dei finanziamenti della specie e' venuto meno: e nemmeno per il credito rivolto al comparto dell’attività' edilizia si prevede più il necessario collegamento dell'operazione creditizia con iniziative di "costruzione, ricostruzione, riparazione, trasformazione, sopraelevazione
e recupero di immobili", alle quali ancora la legge 6
giugno 1991, n. 175, condizionava invece la effettuabilità di operazioni di credito edilizio.
La mancanza di qualsiasi vincolo di destinazione deve
fare considerare come una conclusione obbligata quella
che porta a definire come operazione di credito fondiario qualsiasi operazione di credito ipotecario oltre il breve termine, purché l'importo del credito concesso e il grado dell'ipoteca iscritta siano rispettosi dei limiti previsti dalle
disposizioni emanate dalla Banca d'Italia.
Secondo la lettera della legge, costituiscono dunque operazioni di
credito fondiario i “finanziamenti” (a medio/lungo termine; con
garanzia ipotecaria di determinate caratteristiche) concessi da banche: ma non è precisato a quali forme tecniche di credito bancario
ci si intenda riferire con il termine generico “finanziamenti”.
Nel passato, tali forme tecniche erano positivamente precisate, salva la difficoltà di individuare i caratteri distintivi delle "anticipazioni" - art. 4, co. 1, lett. b); art. 9, co. 2, l. n. 175/1991 - rispetto ai
"mutui" - art. 4, co. 1, lett. a); art. 9, co. 2, l. n. 175/1991-.
Oggi pare di potere affermare che tali vincoli non sussistono piu': e
che in generale può rientrare nella nozione di "finanziamento" ogni
operazione di credito, concessa da banche, caratterizzata della durata superiore al c.d. "breve termine".
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L’art. 38, co. 2, t.u.l.b. affida alle delibere del C.I.C.R. ed alle disposizioni della Banca d’Italia (diramate in esecuzione delle direttive
stesse) i compiti di
 determinare l’ammontare massimo dei “finanziamenti”, in
rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere
da eseguire sugli stessi
 determinare le ipotesi in cui la presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie non impedisce la concessione dei “finanziamenti”.
La disciplina regolamentare attualmente in vigore (cfr. Banca
d’Italia, Istruzioni di Vigilanza alle banche, Titolo V, Cap. 1, Sez. II –
provvedimento 26 giugno 1995, in G.U., 5 luglio 1995, n. 155, e
successive modificazioni e integrazioni -) delinea:
a)
i "limiti di finanziabilita”;
b)
le "garanzie integrative" per l'innalzamento del limite di finanziabilità;
c)
i "finanziamenti integrativi";
Relativamente ai “limiti di finanziabilità” è fissato un unico limite individuato nella percentuale dell'80% (con
possibilità di elevarlo sino al 100% in presenza di determinate garanzie integrative: profilo sul quale si ritornerà di seguito), rispetto al "valore dei beni immobili
ipotecati", o, in alternativa - e segnatamente per le operazioni di credito fondiario rivolte a finanziare una attività di carattere edilizio - rispetto al "costo delle opere
da eseguire" sugli immobili stessi.
Quanto alle “garanzie integrative”, la delibera del C.I.C.R.
del 22 aprile 1995 prevede che il "limite di finanziabilità" possa essere esteso dall'80% fino al 100%, "qualora
vengano prestate, per l’appunto, “garanzie integrative".
Tali garanzie dovrebbero essere rappresentate da alcune possibili figure, che vengono espressamente menzionate, oppure da "altre idonee garanzie", "secondo i
criteri previsti dalla Banca d'Italia" – che in effetti nelle
“Istruzioni di Vigilanza per le Banche” precisa quali garanzie siano considerate idonee allo scopo, aggiornandone
periodicamente l’elenco -,
Quanto ai “finanziamenti integrativi”, si intendono per tali, secondo quanto prescrive la Banca d'Italia nelle "Istruzioni di Vigilanza", i “finanziamenti con garanzia
ipotecaria su beni gravati da precedenti iscrizioni ipotecarie". Tali "finanziamenti integrativi" non sarebbero
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
25
pertanto rispondenti al requisito di essere assistiti da
una ipoteca di primo grado: e come tali non potrebbero
essere qualificati operazioni di credito fondiario.
La normativa di settore prevede che in presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie il "limite di finanziabilità"
sia determinato sommando all'importo del finanziamento da erogare "il capitale residuo del finanziamento
pregresso" (o dei finanziamenti pregressi, si deve ritenere), a prescindere dalla identità o della alterità delle banche
finanziatrici interessate.
Come già anticipato, l’ambito di applicazione dell’art. 39, co. 4,
T.U.L.B., non coincide con l’ambito di applicazione attribuibile
all’art. 67, co. 3 (previgente), l.f. La prima norma esenta dalla revocatoria fallimentare tutte le banche, ma limitatamente alle “operazioni di credito fondiario”. La seconda norma esenta dalla revocatoria solamente gli “istituti di credito fondiario”, ma relativamente
a tutte le operazioni dagli stessi poste in essere: ed anche a volere circoscrivere la portata della norma, come appare preferibile, alle sole
operazioni di natura creditizia, vi rimarrebbero pur sempre compresi
i finanziamenti assistiti – ad esempio – da pegno; da cessione di credito;
da fideiussione; eccetera.
Ciò tuttavia non può portare a concludere che l’art. 67, co. 3 (previgente), l.f. mantenga un proprio ambito di applicazione, relativamente ai finanziamenti fondiari, sia pure con esclusivo riguardo
agli “istituti di credito fondiario”: giacchè la ormai completata opera di “despecializzazione” istituzionale impedisce di distinguere più
tra “banca” e “banca”; le imprese esercenti l’attività creditizia sono
poste su un identico piano dal punto di vista della “capacità” di
porre in essere questa o quella operazione bancaria; e le uniche distinzioni concepibili sono quelle che, abbandonati criteri di natura
soggettiva, siano basate sull’eventuale difformità oggettiva delle attività
poste in essere.
7. Segue. La esenzione da revocatoria delle operazioni di credito fondiario
nella nuova legge fallimentare.
Anche per ciò che riguarda la fattispecie di “esenzione” concernente il credito fondiario si assiste al passaggio da un approccio
soggettivo (che esonerava dalla revocatoria “gli Istituti”) ad un approccio oggettivo (che esonera da revocatoria “le operazioni ..”).
26
Ciò tuttavia recepisce semplicemente quel che – nella sostanza –
era già stato originato dalla rivisitazione della disciplina delle operazioni di credito fondiario da parte del “Testo Unico” bancario,
che già (ri)disegnava i confini della “esenzione” ritagliandoli sui finanziamenti fondiari, anziché sugli Istituti di tale natura – nel frattempo assorbiti dal generale fenomeno della “despecializzazione
operativa”, che aveva esteso a tutte le aziende di credito la abilitazione a concedere mutui fondiari -.
L’adozione di un approccio di carattere oggettivo, per il riconoscimento della esenzione dall’azione revocatoria per le operazioni
di credito fondiario, anche da parte del nuovo art. 67 l.f., ripropone
il tema del necessario coordinamento tra la norma di esenzione
dettata in sede fallimentare e quella prevista nell’ambito della disciplina del credito fondiario nel “Testo Unico” bancario.
E’ evidente, anzitutto, che le fattispecie interessate dalla “esenzione” prevista dall’art. 39 T.U.L.B. (le ipoteche iscritte
oltre dieci giorni prima del deposito della sentenza di fallimento, e i pagamenti di debiti fondiari) sono ricomprese ed
assorbite dalla più ampia esenzione disposta dal nuovo art.
67, co. 4, l.f., che come tale avrebbe l’attitudine a sottrarre
all’azione revocatoria – ad esempio – anche le ipoteche iscritte
entro il termine di dieci giorni anteriori al fallimento.
Stante il carattere puntuale della nuova norma – che disciplina precisamente (anche) le operazioni di credito fondiario propriamente detto -, è difficile attribuire all’art. 39, co.
4, T.U.L.B. un carattere di specialità tale da sottrarlo alla
conseguenza della abrogazione implicita, per “assorbimento”
in altra disposizione normativa successiva (cfr. art. 15, ultima parte, disp.prel. al codice civile): onde d’ora innanzi la
disposizione del “Testo Unico” bancario dovrà considerarsi come non scritta, e sostituita dal nuovo principio fissato
dall’art. 67, co. 4, l.f.
Oltre a ciò, va anche osservato che la più ampia portata
della “esenzione” sembra oggi investire, con il riferimento
fatto alle “operazioni” di credito fondiario ed alle “disposizioni di questo articolo”:
[a) le ipoteche contestuali iscritte entro il termine dei dieci
giorni anteriori al fallimento;]
b) la costituzione di garanzie in favore della banca concedente il credito fondiario anche diverse dalla ipoteca (e la previsione si rivela particolarmente appropriata con riguardo alla
costituzione di quelle “garanzie integrative” che, come si è
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
27
visto – supra -, possono estendere l’ambito di operatività
dell’istituto);
c) la costituzione di garanzie anche non contestuali – che come
tali sarebbero ricadute sotto la disciplina revocatoria
dell’art. 67, co. 1, n. 3) e n. 4), oggi invece dichiarato inapplicabile -;
d) la riduzione o l’estinzione del finanziamento effettuato
con “mezzi anormali” – che come tali sarebbero ricaduti
sotto la disciplina revocatoria dell’art. 67, co. 1, n. 2 l.f., che
oggi viene invece dichiarato inapplicabile -.
La più ampia portata della nuova fattispecie di “esenzione”
pare destinata ad arricchire di elementi di valutazione lo
spinoso problema costituito dalla sorte revocatoria dei finanziamenti fondiari erogati per la “ristrutturazione”
di esposizioni pregresse. L’operazione in forza della
quale una banca concede credito all’impresa, nella forma
del finanziamento fondiario, perché questa estingua i debiti
già in essere verso la stessa banca (o, più raramente, verso
terzi), è oggi intesa dalla giurisprudenza come il risultato di
una attività complessa, tesa a conseguire la estinzione di
passività pregresse, e come tale – stante il carattere non ricorrente, o comunque non quotidiano, dell’operazione –
suscettibile di essere assoggettata alla disciplina revocatoria
dettata per gli atti di carattere solutorio posti in essere con
mezzi anormali: dunque alla disciplina dettata dall’art. 67,
co. 1, n. 2, l.f., che oggi rappresenta “questo articolo”, alla
cui applicazione le operazioni di credito fondiario sono sottratte.
8. Segue. La esenzione da revocatoria delle operazioni di credito fondiario a
seguito dell’approvazione della disciplina dei “fallimenti immobiliari” (d.lgs. n.
122/2005).
La nuova disciplina dei “fallimenti immobiliari” (d.lgs. n.
122/2005) si propone di apportare una speciale tutela ai crediti che
gli acquirenti degli “immobili da costruire” vantano nei confronti
dei “costruttori”, fino alla esecuzione del contratto definitivo di
vendita.
28
Sono questi, per lo più, i crediti derivanti da anticipazioni sul prezzo
(“acconti”), che l’acquirente eroga al costruttore, e che rappresentano per costui la fonte alternativa di finanziamento rispetto all’accesso al credito bancario.
Tali operazioni devono oggi essere obbligatoriamente accompagnate dalla prestazione di una fideiussione bancaria (o equivalente) in
favore dell’acquirente, a garanzia dell’eventuale obbligo di rimborso degli acconti versati al costruttore (particolarmente nell’ipotesi
di assoggettamento dello stesso al fallimento): e questa nuova forma di coinvolgimento delle imprese bancarie nelle operazioni di
acquisto immobiliare induce a prestare nuova attenzione al tema
della esenzione da revocatoria delle “operazioni di credito fondiario”, alias ai “finanziamenti” fondiari.
E’ evidente che in ipotesi di intervento finanziario diretto della banca
(con la erogazione di un finanziamento al costruttore) sarà naturale
ipotizzare la costituzione in favore dell’istituto di credito di una ipoteca – né è di ostacolo la circostanza che si tratti di “immobili
(ancora) da costruire”, sia per la iscrivibilità dell’ipoteca sul terreno
edificabile, sia per la specifica previsione dell’art. 38, co. 2,
T.U.L.B., che allude espressamente ad “opere (ancora) da eseguire”
-: con la conseguenza che qualora il finanziamento ipotecario sia
rispettoso dei requisiti previsti dalle disposizioni di settore, risulterà
applicabile alla operazione creditizia il beneficio della esenzione
dall’azione revocatoria, come previsto oggi dall’art. 67, co. 4, l.f.
E’ peraltro possibile che la banca ponga in essere un intervento finanziario indiretto, prestando su richiesta del costruttore la fideiussione
bancaria in favore dell’acquirente, che rende possibile
l’ottenimento da parte dell’impresa edile degli acconti destinati a
finanziarne la attività: ed in tal caso non si comprende come la
banca, che avrebbe posto come condizione del finanziamento fondiario diretto la costituzione di una garanzia ipotecaria, possa rinunciare a ciò per la sola circostanza che il suo intervento assume la
forma di un finanziamento indiretto. Non è di ostacolo a soddisfare tale esigenza la costituibilità di una garanzia reale per
l’adempimento di un credito eventuale conseguente alla possibile escussione di una fideiussione prestata in favore di terzi, che è perfettamente concepibile (cfr. art. 2852 c.c.): costituisce (o costituirebbe) un ostacolo, invece, l’esclusione del contratto di fideiussione (bancaria) da quella nozione di “finanziamento” bancario, che sta alla base
della disciplina di favore dettata in materia di esercizio del credito
fondiario. Dalla nuova disciplina dei “fallimenti immobiliari” viene dunque un nuovo stimolo a valutare con favore l’ipotesi di con-
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
29
siderare estendibile la nozione di “finanziamento” (bancario) a
qualsiasi operazione creditizia (bancaria), indipendentemente dalla
forma tecnica adottata nel singolo caso di specie, purchè rispettoso
delle condizioni poste dalla disciplina di settore (prima tra le quali
la previsione di una scadenza eccedente il breve termine).
9. La nuova disciplina delle “esenzioni” dalle azioni revocatorie nella riforma
della legge fallimentare. Uno sguardo d’insieme.
Una volta prese in esame le fattispecie di “esenzione” dall’azione
revocatoria già disciplinate dalle norme previgenti; ed una volta
constatato quali siano le modificazioni che per esse sono state introdotte dalla legge di riforma, è ora necessario affrontare il problema delle nuove fattispecie di esenzione che si aggiungono a quelle già
note.
Come già detto, la riforma della legge fallimentare ha notevolmente ampliato il numero delle fattispecie nelle quali si esclude
l’applicabilità (della disciplina) delle azioni revocatorie fallimentari.
La nuova disciplina dell’istituto della “esenzione” risponde ad una
pluralità di esigenze aventi natura composita, e principalmente riconducibile a:
a) volontà di ridimensionare la portata economica di talune applicazioni della precedente disciplina della revocatoria fallimentare: è il caso della tendenziale sottrazione a revocatoria delle “rimesse” su conto corrente bancario, e degli atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati;
b) volontà di evitare l’isolamento dell’imprenditore economico in difficoltà da parte degli altri operatori, preoccupati della soggezione a revocatoria degli atti compiuti
con lo stesso: è il caso della “esenzione” da revocatoria dei
“pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività
d’impresa nei termini d’uso”;
c) volontà di favorire l’accesso e l’esecuzione delle procedure di “composizione negoziale delle crisi
d’impresa”: è il caso della “esenzione” dei pagamenti dei
servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali
minori; oppure della “esenzione” degli atti di esecuzione
degli accordi o dei “piani” di ristrutturazione o di risanamento
dell’impresa
(oltre
che
di
esecuzione
30
dell’amministrazione controllata e del concordato preventivo);
d) volontà di favorire determinate categorie di creditori in
considerazione di una ritenuta particolare meritevolezza, o
in considerazione della funzione assolta nel mercato (è il
caso della “esenzione” delle “vendite a giusto presso
d’immobili ad uso abitativo”; dei pagamenti per prestazioni
di lavoro effettuate da dipendenti od altri collaboratori del
fallito; dei pagamenti effettuati tramite intermediari specializzati);
e) volontà di mantenere applicabili le disposizioni di “esenzione” dalla revocatoria previste dalle leggi speciali, salva l’introduzione di talune precisazioni a titolo di necessario aggiornamento.
10. Segue. La portata delle norme di esonero dall’azione revocatoria introdotte dalla riforma della legge fallimentare.
L’art. 67, co. 3, l.fall. (nella versione oggi proposta dal d.-l. n.
35/2005) dichiara che “non sono soggetti all’azione revocatoria” una serie
di atti, che elenca dalla lettera a) alla lettera g). Aggiunge poi che
“le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto di emissione, alle
operazioni di credito su pegno e di credito fondiario” (ed aggiunge: “sono
salve le disposizioni delle leggi speciali”).
Per la seconda delle categorie di atti “esentati” la esenzione concerne dunque, in modo esplicito, solamente l’azione revocatoria
(fallimentare) prevista da “questo articolo” (l’art. 67). Per la prima
categoria, invece, la esenzione riguarda “l’azione revocatoria”.
Nonostante l’individuazione della ratio della nuova disposizione
dell’art. 67, co. 3., l. fall. nell’intenzione di sottrarre alla azione revocatoria fallimentare - nella sostanza – (tutti, ma solo) gli atti
“normali” di gestione, da un punto di vista testuale si può avere ragione di ritenere che gli atti contemplati nella norma in esame siano sottratti ad ogni azione revocatoria fallimentare, ivi comprese
quelle previste dall’art. 64 e dall’art. 65 l.fall.; nonché - è da ritenere
– all’azione revocatoria prevista dall’art. 66 l.fall. – azione revocatoria ordinaria proseguita o proposta dal curatore fallimentare -.
Come detto, la conclusione di cui sopra è indotta dalla constatazione che per le fattispecie di “esenzione” successive,
disciplinate cioè dal quarto comma, la legge ne circoscrive
espressamente la rilevanza con riguardo alle sole disposizioni contenute “in questo articolo” (cioè l’articolo 67):
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
31
mentre tale precisazione è assente nella disciplina della “esenzione” delle fattispecie elencate nel comma 3).
Tale considerazione postula peraltro una precisazione ed
una consapevolezza del legislatore, che è da dubitare ne
abbiano davvero caratterizzato l’operato.
Da un canto si consideri come questo stesso legislatore, a
distanza di pochi giorni, abbia disciplinato (d.lgs. n.
122/2005 sugli acquisti di immobili ancora da costruire)
una ulteriore fattispecie di “esenzione” simile in tutto e per
tutto a quella prevista dall’art. 67, co. 3, lett. c) – acquisti di
immobili ad uso abitativo -, e tuttavia sottraendola alla sola
revocatoria “di questo articolo” (l’articolo 67), in palese
contraddizione con la portata (apparentemente) generale
della “esenzione” disposta per tutti gli atti previsti nel terzo
comma dell’articolo 67, comprendenti anche gli acquisti di
immobili ad uso abitativo.
Da un altro canto si consideri come nell’art. 67, co. 4, l.fall.,
il legislatore detti a ben vedere una norma, che se dovesse
essere intesa nella sua portata testuale dovrebbe sottrarre
una serie di fattispecie, tradizionalmente “esentate”, proprio a quelle “esenzioni”oggi introdotte in via generale
(l’art. 67, co. 4, l.fall., infatti, affermando che “quello articolo” non si applica – poniamo – all’Istituto di emissione, da
un punto di vista testuale, esclude l’applicabilità anche del
terzo comma della norma, che oggi contiene tutte le “esenzioni” – che certamente è impensabile non applicare anche
all’Istituto di Emissione, o nelle altre situazioni contemplate dal quarto comma -).
Tutto ciò per porre in guardia l’interprete dall’attribuire
importanza eccessiva al dato testuale delle disposizioni introdotte dalla riforma della legge fallimentare, che presentato così tante e così tanto vistose imperfezioni tecniche, da
imporre, in molti casi, di prescindere da una stretta aderenza al testo normativo, propendendo per l’utilizzo di un criterio logico-sistematico.
Induce a propendere per la tesi secondo la quale alla “esenzione”
dall’azione revocatoria prevista dall’art. 67, co. 3., l.f. deve essere
attribuita portata generale, inoltre, la circostanza che in diverse delle
fattispecie interessate – come vedremo -, la aspirazione a sottrarre
all’azione revocatoria fallimentare determinate categorie di atti ri-
32
guarda anche situazioni nelle quali si presenterebbero – altrimenti
– i presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista
dal primo comma dell’art. 67 l. f. – come sarebbe, per esempio, per le
garanzie costituite in favore di crediti pregressi, che rappresentassero atti
di esecuzione di uno dei piani o degli accordi previsti dall’art. 67.
co.3, lett. d) oppure lett. e) l.f. (infra) -; oppure i presupposti
dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista dall’art. 65 l. f. –
come sarebbe, per esempio, per il rimborso anticipato di debiti aventi
scadenza molto differita nel tempo (potrebbe trattarsi di un prestito obbligazionario particolarmente oneroso), anch’esso in ipotesi
rappresentante un atto di esecuzione di uno dei menzionati piani o
accordi previsti dall’art. 67. co.3, lett. d) oppure lett. e) l.f.
Occorre infine domandarsi se gli atti in questione debbano considerarsi sottratti altresì all’azione revocatoria ordinaria proposta anche al di fuori del fallimento.
Militano in questo senso la considerazione che ove sopravvenisse il
fallimento l’azione revocatoria ordinaria diverrebbe improcedibile,
ove si ritenesse inapplicabile agli atti “esentati” l’art. 66 l.fall.; e la
considerazione che risulterebbe irrazionale una disciplina che assoggettasse gli atti de quibus ad una disciplina più severa al di fuori
del fallimento, che a seguito della pronuncia della sentenza dichiarativa.
11. Segue. La abrogazione della “presunzione muciana” e gli effetti della revocazione.
Il nuovo art. 70 l.fall. non contiene più neppure la traccia della corrispondente norma previgente, che disciplinava gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici aventi ad oggetto i “beni acquistati dal
coniuge del fallito”, e che si incentrava sulla presunzione (un tempo
definita “muciana”) che gli acquisti effettuati dal coniuge del fallito
in epoca (relativamente) prossima al fallimento – il quinquennio
anteriore – fossero stati effettuati con risorse provenienti dal fallito
stesso, e risultassero pertanto meritevoli di essere acquisiti alla
massa attiva fallimentare.
La disciplina in questione, del resto, era divenuta sostanzialmente
inapplicabile, in conseguenza della riforma del regime patrimoniale
dei coniugi, e della giurisprudenza formatasi in materia – infra -.
Per converso il nuovo art. 70 l. fall. ripete due volte – la prima in
termini generali (secondo comma), e la seconda riferita alla fattispecie della revocatoria promossa nei confronti (del “rientro”
complessivamente conseguito attraverso) degli “atti estintivi di
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
33
rapporti continuativi o reiterati” (terzo comma) – che colui che per
effetto della revocatoria fallimentare ha restituito quanto aveva
conseguito dal fallito, è ammesso al passivo per il suo eventuale
credito.
E se si considera che questa regola, che rappresenta l’equivalente
del principio già dettato dall’art. 71 l. fall., continua ad essere enunciata nella previsione legislativa originaria, perché l’art. 71 non è
stato modificato, si deve concludere che l’insinuabilità al passivo
fallimentare della somma restituita al fallimento in conseguenza di
una azione revocatoria fallimentare è oggi disposta tre volte.
Nonostante l’apparente ricchezza di “fonti”, peraltro, continua a
mancare la precisazione della natura del credito reso insinuabile in
conseguenza della revoca dell’atto che ne aveva prodotto, in tutto
od in parte, l’estinzione: ed in particolare manca qualsiasi precisazione sul punto della permanenza o meno a favore del credito “risorto”, delle garanzie – legali e/o convenzionali - che assistevano
la pretesa originaria 4.
12. La esenzione da revocatoria dei “pagamenti di beni e servizi effettuati
nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso” (art. 67, co. 3, lett.
a).
La prima delle nuove fattispecie di esenzione da revocatoria introdotte dalla riforma della legge fallimentare riguarda i “pagamenti di
beni e servizi effettuati nell’esercizio della attività d’impresa nei termini d’uso”.
Sulla portata della norma i primi commentati hanno espresso opinioni in parte convergenti, in parte divergenti.
In linea di principio vi è accordo nell’escludere dalla “esenzione” i
pagamenti estranei all’attività d’impresa (come sarebbero quelli che
l’imprenditore individuale avesse fatto per soddisfare esigenze personali), oppure successivi alla cessazione della stessa (come sarebbero i pagamenti effettuati nel corso della liquidazione volontaria
della società).
Gli interpreti si dividono, invece, sul significato e la portata da attribuire alla espressione “nei termini d’uso”: opinando taluno che
essa abbia riguardo a profili per così dire cronologici (la puntualità
o meno del pagamento), altri invece sostenendo che la norma fac4
Per lo sviluppo del tema v. infra.
34
cia riferimento a profili per così dire operativi (le modalità usuali o
meno dell’estinzione del debito per la prestazione di beni o servizi
conseguita nell’esercizio dell’impresa). La discussione poi si arricchisce di ulteriori “distinguo”, secondo che la “usualità” del pagamento sia riferita all’andamento dei rapporti tra l’imprenditore fallito ed il creditore soddisfatto, oppure al settore commerciale di
appartenenza.
I molti lavori preparatori e i Progetti di riforma che hanno preceduto l’introduzione dell’art. 67, co. 3, lett. a), inducono a ritenere in
realtà che con la non felice formula utilizzata si siano voluti sottrarre a revocatoria gli atti di ordinaria gestione dell’impresa
(ma limitatamente ai “pagamenti”!), allo scopo di scongiurare il pericolo che l’imprenditore, già in condizione di “crisi”, veda ulteriormente aggravata la sua situazione dalla interruzione dei rapporti
commerciali da parte degli abituali fornitori, preoccupati della possibile soggezione a revocatoria dei pagamenti conseguiti. Ciò fa ritenere che non siano effettivamente esonerati da revocatoria i pagamenti di debiti estranei all’esercizio dell’impresa (nell’ipotesi di
fallimento dell’imprenditore individuale); né i pagamenti effettuati
quando l’esercizio dell’impresa è cessato (per esempio in sede di liquidazione volontaria). Per converso, l’espressione ”nei termini
d’uso” dovrebbe alludere al carattere “normale” delle modalità di
effettuazione del pagamento più che alla sua puntualità cronologica.
I dubbi interpretativi di maggior rilievo riguardano peraltro due diversi problemi di carattere generale: a) la estendibilità della “esenzione” dagli atti rappresentati da “pagamenti” agli atti di ordinaria gestione più in generale; b) la ricomprensione nella categoria
“beni e servizi”, i cui pagamenti vengano sottratti all’azione revocatoria fallimentare, dei finanziamenti bancari ed operazioni creditizie
assimilate.
Per ciò che concerne il primo quesito, benchè sembrerebbe
naturale e razionale che, una volta sposata l’idea di favorire
la gestione ordinaria dell’impresa nonostante la sua situazione di “crisi”, l’obiettivo venisse perseguito sottraendo alla “sanzione” della revocatoria tutti gli atti normali di gestione. Tuttavia il tenore letterale della norma sembra consentire esclusivamente una interpretazione restrittiva – limitata cioè alla esenzione dei veri e propri “pagamenti”, e
null’altro -, anche alla luce della considerazione che il legislatore era stato adeguatamente sensibilizzato a propendere
per una soluzione più liberale, dai molti Progetti di riforma
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
35
che per l’appunto prevedevano una esenzione estesa a tutti
gli atti ordinari di gestione.
Per ciò che concerne il secondo quesito, una prima risposta
di carattere positivo può riguardare i pagamenti di canoni
di leasing operativo e di leasing finanziario, in quanto
funzionali a consentire all’imprenditore di continuare ad
avvalersi dei beni acquisiti tramite la stipulazione dei contratti menzionati.
Meno immediata è la risposta che riguarda i pagamenti di
debiti bancari (o finanziari) derivanti da contratti di credito
di diversa natura.
L’argomento addotto da taluni interpreti, i quali sottolineano che anche la concessione del credito è al postutto qualificabile come la prestazione di un “servizio” (creditizio), appare
alquanto debole.
Più convincente è la considerazione incentrata sulla totale
irrazionalità della (pretesa) distinzione tra “pagamenti” (di
forniture di beni e servizi) e “pagamenti” (di debiti creditizi
o finanziari): una volta stabilito che per favorire (o quanto
meno consentire) la continuazione della gestione ordinaria
dell’impresa è opportuno esonerare dalla sanzione (e quindi
dal timore) della revocatoria i pagamenti che essa effettua
per sostenere l’attività corrente, non vi è ragione di distinguere quale sia l’apporto che i terzi abbiano fornito
all’impresa stessa (se costituito da beni, piuttosto che da
servizi, piuttosto che da finanziamenti).
Si rivela del resto coerente con tale impostazione (anche se
prevalentemente rispondente ad una diversa ratio) la recente disposizione dettata in materia di “fallimenti immobiliari”, secondo la quale “non sono … soggetti alla medesima azione
revocatoria i pagamenti dei premi e commissioni relativi ai contratti di
fideiussione e di assicurazione … qualora effettuati nell’esercizio
dell’attività d’impresa nei termini d’uso” (art. 10, co. 2, d.lgs. n.
122/2005).
In questa prospettiva, la condizione posta dalla lettera della
legge, che favorisce i soli pagamenti effettuati “nei termini
d’uso”, potrà considerarsi soddisfatta con riguardo a quei
pagamenti di finanziamenti bancari che siano coerenti con
lo sviluppo fisiologico del rapporto, quali i pagamenti degli
interessi periodicamente contabilizzati; i pagamenti delle ra-
36
te alle rispettive scadenze; finanche i pagamenti estintivi
dell’intero finanziamento, se effettuati al termine della durata contrattualmente prevista.
Non potranno comunque mai considerarsi sottratti alla azione revocatoria, a nostro avviso – ma non mancano le
opinioni in senso contrario -, i pagamenti di debiti bancari
conseguiti a recesso della banca; a risoluzione del contratto di finanziamento; a decadenza dal beneficio del termine provocata dalla
banca. Trattasi infatti di pagamenti che pur essendo giuridicamente ineccepibili, non potrebbero definirsi “usuali”
(nel senso di essere fisiologici nell’ambito del rapporto banca-impresa).
Neppure dovrebbero venire in considerazione, ai fini della
valutazione dell’applicabilità della disposizione di esenzione
prevista dall’art. 67, co. 3, lett. a) l.f., i pagamenti di debiti
bancari che avessero assunto la forma di “rimessa” su conto
corrente bancario, essendo prevista per tale fattispecie la disciplina speciale contenuta nella lettera b) della stessa norma.
13. La esenzione da revocatoria delle rimesse effettuate su un conto corrente
bancario (art. 67, co. 3, lett. b).
Si è già detto ( supra. Parte Prima) che nell’ambito della revocatoria
fallimentare dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili (art. 67, co.
2, l.f.) il tema che ha maggiormente occupato la riflessione della
dottrina e l’attività della giurisprudenza è forse quello rappresentato dall’individuazione delle condizioni e dei limiti di assoggettabilità a revocatoria, con effetti restitutori in favore della procedura fallimentare, delle “rimesse” (cioè accreditamenti) effettuate dal fallito
(o da terzi per lui) sui conti correnti intrattenuti con le banche.
Si è anche già riferito come la giurisprudenza fosse pervenuta ad
esiti ormai consolidati (la esclusione della revocabilità delle rimesse
accreditate su “conto passivo”, e la revocabilità, per contro, di tutte le rimesse accreditate su “conto scoperto”): risultati che pur essendo stati salutati, nel momento della loro prima apparizione 5,
come un “ragionevole compromesso”, avevano in realtà rapidamente
condotto ad applicazioni pratiche tutt’altro che ragionevoli, in
quanto comportanti l’assoggettamento delle imprese bancarie a revocatorie fallimentari del tutto sproporzionate rispetto alle dimen5
Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413, in Fallimento, 1983, 428.
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
37
sioni dei rapporti intrattenuti con l’impresa fallita 6. Tale fenomeno ha prodotto effetti pregiudizievoli in numerose direzioni: da
quella – per la verità considerata meritevole di nessuna attenzione
– di erosione dei profitti delle banche, a quella – valutata invece
con molta maggiore preoccupazione – della forte disincentivazione
a prestare adesione alle richieste di sostegno finanziario da parte
delle imprese in difficoltà economica, per il timore delle azioni revocatorie suscettibili di essere promosse nell’eventuale fallimento
successivo.
Al cospetto di una giurisprudenza sostanzialmente insensibile ai richiami ad una applicazione più equilibrata degli orientamenti interpretativi assunti, in materia, nel corso del tempo; ed in costanza di
una congiuntura economica sfavorevole, che conduceva alla moltiplicazione delle situazioni di “crisi” di impresa, la cui soluzione avrebbe richiesto un atteggiamento di disponibilità del ceto bancario
a (continuare ad) assistere l’impresa piuttosto che prenderne le distanze; praticamente tutti i Progetti di riforma della legge fallimentare che si sono succeduti (per lo meno) nelle ultime due legislature
hanno registrato interventi volti a ridimensionare la portata
dell’azione revocatoria fallimentare, quanto meno per quel che
concerne gli atti posti in essere dall’imprenditore (o con
l’imprenditore) nella gestione ordinaria dell’impresa.
Lo “anticipo di riforma” approvato con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35
(convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80) è fortemente caratterizzato proprio dalla volontà del legislatore di rendere meno incisivi gli effetti dell’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari anche
6 Sono innumerevoli gli esempi nei quali le somme revocate in danno della banca, in quanto costituenti “rimesse” assimilate ai pagamenti di cui all’art. 67, co. 2,
l.fall., superano di decine di volte l’entità del credito mai concesso dalla banca
all’impresa fallita (e che come tale aveva costituito il rischio massimo assunto dalla
prima nei confronti della seconda). Emblematica è anche la fattispecie che ha rappresentato una sorta di “colpo di coda” della vecchia disciplina, rappresentata dalle
azioni revocatorie fallimentari promosse nell’ambito dell’Amministrazione Straordinaria “Parmalat”. Le sole azioni revocatorie fallimentari proposte nei confronti delle
banche che intrattenevano “normali” rapporti creditizi con Parmalat – escludendo
pertanto le cause revocatorie radicate nei confronti delle banche che avevano curato
il collocamento di bond emessi dalle società del “Gruppo”; che avevano svolto attività di advisoring nelle operazioni di acquisizione e di dismissione di società; eccetera –
equivalgono, ad una prima e parziale rilevazione, ad una piccola “legge finanziaria”!
38
e soprattutto nei confronti degli “atti normali” di gestione; per essi
dei pagamenti dei debiti (scaduti) dell’imprenditore; e per questi ultimi delle “rimesse” in conto corrente, mantenute all’interno
dell’ambito di applicazione dell’azione revocatoria fallimentare nei
soli limiti – in sostanza – nei quali risultino ragionevolmente assimilabili
al pagamenti di debiti dell’imprenditore in favore di terzi.
La tecnica con la quale è stato perseguito questo obiettivo è rappresentata – come vedremo – dalla introduzione di due principi: il
primo, specifico della disciplina delle “rimesse”, costituito
dall’affermazione secondo la quale “non sono soggette all’azione revocatoria … le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non abbiano
ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione …” – art. 67, co. 3,
lett. b), l.fall. -; il secondo, di carattere generale, e come tale applicabile – per le ragioni che si specificheranno – anche ai rapporti di
conto corrente bancario, secondo il quale “qualora la revoca abbia ad
oggetto atti estintivi di rapporti continuativi e reiterati, il terzo deve restituire
una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue
pretese … e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso” (art. 70, co. 3 l.fall.) 7.
La nuova disciplina appare semplice, ad una prima impressione,
ma in realtà è destinata ad originare un rilevante numero di problemi interpretativi ed applicativi.
Per apprezzarne la portata pare indispensabile riprendere taluni dei
temi sui quali il dibattito in dottrina ed in giurisprudenza era risultato più vivace, e gli esiti interpretativi più incerti, giacchè la riforma pare dovere molto agli approfondimenti cui gli studiosi ed i
giudici erano pervenuti in tale contesto.
14. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente
in materia di rimesse su “saldo passivo” di conto corrente bancario “congelato”
(o “bloccato”).
La sottrazione al possibile esercizio dell’azione revocatoria fallimentare delle rimesse incidenti su un saldo-debitore ricompreso
nell’ammontare dell’apertura di credito concessa dalla banca al correntista si giustifica dunque, secondo la giurisprudenza, con il carattere “ripristinatorio” della rimessa, nel senso che quanto versato
Secondo taluno – L. . PANZANI – U. DE CRESCIENZO, Il nuovo diritto fallimentare, n. 5.3.4., Milano, Ipsoa (in corso di pubblicazione) - l’affermazione di uno
dei due principi sarebbe stata sufficiente a raggiungere lo scopo.
7
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
39
dal correntista (diminuisce l’utilizzo dell’apertura di credito sino ad
allora registrato, sicchè) può essere immediatamente prelevato, per
pari ammontare, con l’effetto di riportare il saldo-debitore al livello
originario (se non altro). La attitudine potenziale della rimessa a rigenerare disponibilità per il correntista rappresenta pertanto la
condizione necessaria alla sottrazione di essa all’azione revocatoria:
ma non costituisce sempre la ragione anche sufficiente a produrre
tale effetto.
La rimessa dotata di carattere ripristinatorio potrebbe poi, in fatto,
comportare o non comportare un riutilizzo della disponibilità, così
rigenerata, per pari importo o per un importo inferiore: e la circostanza che ciò sia o non sia poi accaduto, nel singolo caso di specie
– perché il fallimento potrebbe essere sopraggiunto prima che il
correntista avesse anche l’opportunità di riutilizzare la “provvista”
generata dalla rimessa -, non dovrebbe mutare la natura (ripristinatoria) della rimessa, e con essa la sua sorte (sottratta a revocatoria).
Non, peraltro, quando l’effetto astrattamente idoneo a ripristinare la provvista
in favore del correntista sia stato escluso per un accordo sopravvenuto tra le
parti (anche tacitamente; ed anche implicitamente) volto a consentire la
movimentazione del conto corrente esclusivamente “a rientro”: cioè mirata ad
ospitare versamenti per ridurre l’esposizione della banca, senza
consentire corrispondenti prelievi a favore del correntista.
In queste ipotesi – nelle quali i pratici parlano di “conto congelato”
(spesso connotato dal ritiro da parte della banca degli assegni ancora in possesso del correntista) – la rimessa formalmente effettuata
su conto “passivo” svolge in concreto una funzione solutoria, come se fosse stata effettuata su un conto “scoperto” – ed infatti tale
è divenuto, nella sostanza, il conto orientato al “rientro” -, con la
conseguenza di divenire soggetta, in presenza dei presupposti di
cui all’art. 67, co. 2, l.fall., ad azione revocatoria.
15. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente
in materia di rimesse originate da “giriconto”.
La giurisprudenza è pervenuta talora a conclusioni contrastanti in
materia di assoggettabilità a revocatoria fallimentare delle rimesse
originate da “giriconto”, ovverosia da accrediti corrispondenti a
contestuali addebiti su altro conto (corrente) bancario (dello stesso
correntista).
40
In linea di principio sono considerati revocabili i “giriconto” conseguiti in contropartita di un addebito effettuato su altro conto
bancario del correntista che presentasse un saldo creditore. Il “giroconto”, infatti, in tal modo, si è tradotto nell’utilizzo di disponibilità
che l’imprenditore deteneva su un rapporto bancario, al fine di decurtare l’esposizione (beninteso, nei limiti in cui essa avesse generato un saldo debitore “scoperto”) formatasi su un altro conto corrente presso la stessa banca.
Più discussa è l’ipotesi nella quale l’accreditamento su un determinato conto costituisca la contropartita di un addebito consentito su
altro conto bancario della stessa banca, a valere su una provvista messa
a disposizione della banca stessa (o in conseguenza dell’utilizzo di un
affidamento concesso a valere sul secondo conto; o in conseguenza dell’autorizzazione di un addebito “allo scoperto”). In tale fattispecie – si fa notare – l’imprenditore non ha utilizzato disponibilità proprie per ridurre (con la rimessa) il saldo-debitore del primo
conto, avendo fatto ricorso – al contrario – a disponibilità fornitagli dalla stessa banca grazie alla facilitazione creditizia concessa con
l’autorizzazione all’effettuazione del corrispondente addebito, in
contropartita della rimessa, su un (secondo) conto privo di sufficiente capienza.
16. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente
in materia di rimesse effettuate da terzi.
In materia di “rimesse” effettuate sul conto corrente bancario
dell’imprenditore, poi fallito, da un soggetto-terzo, si assiste ad un
orientamento giurisprudenziale che appare poco coerente con gli
esiti, sempre giudiziali, della equivalente discussione circa la revocabilità delle garanzie dei terzi.
Mentre per ciò che concerne la revocatoria delle garanzie, la garanzia costituita da un terzo non è revocabile, anche secondo i giudici,
nel fallimento del debitore principale (potrà esserlo, eventualmente, ove fallisca il terzo garante, nell’ambito del fallimento di questi);
per ciò che concerne invece la revocatoria dei pagamenti, è revocabile
anche il pagamento del terzo, secondo la giurisprudenza, con la sola eccezione del pagamento effettuato da un “terzo” che sia anch’esso
debitore del creditore soddisfatto, quindi autore del pagamento di
un debito anche proprio (ipotesi del pagamento da parte del coobbligato solidale e da parte del fideiussore del fallito).
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
41
A tale proposito va osservato, in via preliminare, che il pagamento
“del terzo” non è sempre, in realtà, un pagamento effettuato a scapito di un patrimonio estraneo al concorso fallimentare.
Nel caso, assai frequente, del pagamento ricevuto dalla banca da
un soggetto “terzo”, diverso dal cliente poi fallito, il pagamento
produce in realtà effetti diretti sul patrimonio di quest’ultimo, tutte
le volte nelle quali il solvens fosse suo debitore (ad es., i clienti, debitori dei prezzi degli acquisti effettuati o dei servizi ottenuti).
In tali fattispecie, infatti, il solvens, pagando alla banca (rectius: pagando all’imprenditore presso la banca da questi indicata), estingue
una propria obbligazione, che il curatore fallimentare non avrà più titolo
ad esigere.
Nei limiti in cui il pagamento di questo genere di “terzi” abbia estinto o ridotto un credito della banca verso l’imprenditore poi fallito – come nelle ipotesi nelle quali abbia estinto o ridotto
l’esposizione presentata dal conto corrente del fallito sul quale è
stato accreditato il pagamento del “terzo” -, tale versamento è revocabile alla stregua di quello che fosse stato effettuato direttamente dal correntista con il denaro che gli fosse pervenuto dal solvens.
Ma la giurisprudenza assoggetta a revocatoria fallimentare i pagamenti ricevuti dall’accipiens (di norma, la banca) anche da “terzi”,
quantunque si tratti di esborsi che non hanno in alcun modo inciso
sul patrimonio dell’imprenditore fallito. E’ il caso del terzo, che
avesse indirizzato al fallito un pagamento non dovuto; od ancora del
terzo, che abbia voluto alleggerire l’indebitamento del fallito per
migliorarne la situazione economica (come può accadere a seguito
dello “intervento” di un familiare, o – all’interno dei “gruppi” societari – a seguito dell’intervento della “capogruppo” in favore di
una società controllata).
In questi casi, talora la giurisprudenza subordina la revocabilità del
pagamento del “terzo”, ricevuto dall’accipiens, alla circostanza che il
terzo abbia già recuperato quanto pagato nell’interesse del fallito, a
scapito del patrimonio di questi: ma anche in questa ipotesi la soluzione non è condividibile, perché la revocatoria andrebbe piuttosto orientata nei confronti del solvens, per il rimborso ottenuto dal
fallito.
Infine occorre segnalare quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale non si sarebbe mai in presenza di un pagamento
“del terzo”, in realtà, tutte le volte nelle quali il versamento di questi fosse comunque affluito sul conto corrente bancario del fallito,
42
a titolo (per l’appunto) di “rimessa”. L’accreditamento sul conto,
infatti, si sarebbe comunque tradotto nella entrata delle somme
nelle disponibilità del correntista – quale che ne fosse l’origine -,
con la conseguenza che la sua eventuale incidenza sul conto “scoperto” la renderebbe assoggettabile a revocatoria fallimentare alla
stregua di qualsiasi altra rimessa diretta effettuata dal correntista.
17. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente
in materia di rimesse “bilanciate” da corrispondenti utilizzi del conto corrente
bancario.
Il carattere tecnicamente “solutorio” di una rimessa accreditata su
un conto corrente bancario (in quanto incidente su un saldodebitore registrato su un conto “scoperto”) potrebbe essere messo
in discussione dalla constatazione in fatto, nel singolo caso di specie, che nessuna effettiva riduzione dell’esposizione della banca si è
in realtà prodotta, nonostante l’effetto algebrico.
Sono questi i casi, nei quali la rimessa incide bensì su un saldodebitore “scoperto” – riducendone momentaneamente
l’ammontare, e così l’esposizione della banca -, per poi essere – peraltro – immediatamente seguita da un corrispondente addebitamento, che ripristina il livello originario dell’esposizione, per
l’effettuazione di un pagamento, da parte della banca, in favore di
un terzo (attraverso le varie forme tecniche possibili: “giroconto”
ad altro conto corrente, acceso a nome del terzo, presso la stessa
banca; bonifico indirizzato al conto corrente intrattenuto dal terzo
presso altra banca; addebito sul conto corrente del cliente della
banca di un assegno emesso a favore del terzo, ed originariamente
non addebitato per mancanza di sufficiente provvista; eccetera).
In queste ipotesi, le due operazioni di accredito e di successivo addebito sono collegate tra di loro, e costituiscono l’esecuzione di un
mandato di pagamento – dove il correntista mandante dapprima
fornisce alla banca mandataria la provvista per l’esecuzione
dell’incarico, e poi la banca mandataria vi dà esecuzione utilizzando
la provvista per effettuare il trasferimento di denaro in favore del
terzo -, che i giudici ritengono astraibile, e quindi isolabile, dalla
movimentazione - e quindi dalle sorti - del conto corrente utilizzato per la contabilizzazione dell’operazione.
La stessa cosa accade quando la banca effettua nell’interesse del
correntista un pagamento a favore di un terzo, “allo scoperto” –
cioè senza che il correntista abbia costituito, in una delle forme
possibili, la necessaria provvista sul conto -, ed in un momento
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
43
immediatamente successivo perviene la rimessa che pareggia il
conto: si assisterebbe qui all’esecuzione di un mandato di pagamento, conferito dal correntista alla banca, nel quale il mandatario
ha anticipato le somme necessarie a dare esecuzione al mandato
conferitogli.
In queste fattispecie la giurisprudenza parla di “partite bilanciate”:
e se anche la rimessa accreditata sul conto incide su un saldodebitore “scoperto”, si è inclini a mandarla esente da revocatoria,
considerando l’operazione come intervenuta direttamente tra il correntista ed il
terzo beneficiario finale del pagamento, ed orientando la revocatoria, se
del caso, nei confronti di questi, e non già della banca – considerata qui in semplice intermediario del correntista -, e comunque escludendo il carattere solutorio dell’accreditamento pur incidente
su saldo-debitore “scoperto” 8.
18. Segue. La rilevanza del confronto tra l’entità del “massimo scoperto” registrato dal conto corrente bancario nel c.d. “periodo scoperto” ed il saldo finale
del conto alla data del fallimento del correntista.
Una considerazione di carattere unitario del rapporto di conto corrente bancario aveva indotto taluni tribunali e Corti d’Appello9 , nel
passato, ad adottare un orientamento interpretativo che perveniva
a risultati economicamente equilibrati, ma che è rimasto isolato e
8
In realtà, fermo restando il carattere “bilanciato” delle due operazioni di accredito e di addebito, sta di fatto che nel primo caso il mandato di pagamento conferito
dal correntista potrebbe essere autonomamente assoggettato a revocatoria come “atto a
titolo oneroso”, e con esso la provvista versata alla banca; e nel secondo caso il rimborso di quanto anticipato dalla banca per l’esecuzione del mandato potrebbe essere
autonomamente assoggettato a revocatorio come “pagamento” di un debito scaduto.
9 Trib. Milano, 24 gennaio 1974, fall.to Sircoa c. Banca Popolare di Milano, inedita; Trib. Milano, 8 gennaio 1976, in Banca, borsa e tit. credito, 1976, II, 104; Trib. Milano, 11 settembre 1978, in Giur. Comm., 1979, II, 622; App. Bologna, 10 febbraio
1981, in Giur. Comm., 1981, II, 605; App. Milano, 25 gennaio 1985, in Fallimento,
1985, 572; Trib. Roma, 9 luglio 1982, in Foro it., 1982, I, 2327; e in Fallimento, 1983,
186 ss., con nota di R. SELLI, Revocatoria dei versamenti in conto corrente con apertura di
credito; Trib. Milano,. 6 maggio 1985, in Fallimento, 1985, 888; App. Milano, 21 giugno
1985, in Fallimento, 1985, 1207. In dottrina v. anche V: DOTTI, Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario con saldo debitore, in Giur. Comm., 1975, I, 516 ss.
44
lungamente disatteso dalla giurisprudenza, per poi riemergere solo
di recente, ma ancora con carattere episodico10 .
Tale proposta interpretativa muove dalla considerazione che le rimesse e gli utilizzi del conto corrente bancario (ed in genere le partite contabilizzate in “dare” ed in “avere”) rappresentano momenti
e modalità di esecuzione di un rapporto giuridico unitario,
nell’ambito del quale si producono fenomeni caratterizzati da una
natura lato sensu compensativa. L’afflusso, talora torrentizio, di
“rimesse” in accredito, è controbilanciato da un afflusso, di norma
di corrispondente intensità, di utilizzi in addebito, sicchè ciò che
misura l’effettivo risultato economico dell’operatività del rapporto
è il saldo che esso presenta di volta in volta.
In questo contesto, la giurisprudenza citata considera suscettibile
di essere assoggettate a revocatoria solamente quelle rimesse (rectius: quelle “porzioni” di rimesse) che non siano poi, in fatto, con
un accertamento effettuato a posteriori, risultate utilizzate dal correntista per pagamenti in favore di terzi, bonifici, eccetera: perché in
questa sola misura (la differenza tra tutti gli accrediti conseguiti e tutti
gli addebiti consentiti) le rimesse effettuate sul conto corrente avrebbero prodotto una riduzione definitiva dell’esposizione della banca. La differenza in questione è facilmente determinabile sottraendo all’ammontare della esposizione massima raggiunta dal conto
corrente (c.d. “massimo scoperto”) nel corso del “periodo sospetto”
(riferibile al momento in cui si provi che la banca aveva acquisito
consapevolezza dello stato di insolvenza del correntista, all’interno
del periodo massimo di un anno – per ciò che concerne il passato reso rilevante dall’art. 67, co. 2, l.fall.), l’importo del debito residuo
(eventuale) registrato dal conto corrente alla data del fallimento.
Qualora tale saldo risulti inferiore al “massimo scoperto”, ciò significa che dal momento in cui la banca ha percepito la condizione
di insolvenza del correntista, l’entità complessiva degli utilizzi (in
addebito) è stata inferiore all’entità complessiva delle rimesse (in
accredito), che non sono state utilizzate integralmente: la differenza tra le due somme (che corrisponde alla differenza tra il “massimo scoperto” ed il saldo finale)11 rappresenterebbe la porzione di
10 Trib. Pavia, 13 ottobre 1989, in Foro it., 1990, 407; App. Firenze, 28 gennaio
2004, in Dir. Fall., 2004, II, 469
11 Se si detrae dall’ammontare complessivo dei versamenti (od operazioni equivalenti) l’ammontare complessivo dei prelievi (od operazioni equivalenti) si ottiene
la somma delle porzioni di versamenti di volta in volta non utilizzate per la effettuazione di prelevamenti, e che quindi sono rimaste nella disponibilità della banca: la
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
45
rimesse che ha comportato una riduzione definitiva dell’esposizione
della banca, e che costituirebbe la somma assoggettabile a revocatoria.
Qualora invece risultasse che il saldo-debitore finale del conto è
superiore all’entità del “massimo scoperto”, ciò starebbe a significare che dalla data nella quale si ritiene di dovere fare decorrere il
“periodo sospetto” alla data del fallimento, gli utilizzi consentiti
dalla banca sono stati complessivamente superiori all’entità delle
rimesse affluite sul conto; che nessun “rientro” è stato conseguito
con la prosecuzione del rapporto; che nessuna riduzione definitiva
della esposizione della banca si è effettivamente prodotta; e che –
pertanto – non si registrano somme suscettibili di assoggettamento
a revocatoria.
19. La ratio ispiratrice della nuova disciplina della revocatoria delle rimesse
su conto corrente bancario introdotta dalla riforma della legge fallimentare.
In linea di principio la individuazione della ratio sottesa ad una disciplina legislativa dovrebbe essere ricavata, come conclusione del suo
esame, dalle considerazioni formulabili dopo averne approfondito
gli effettivi contenuti e gli effettivi risultati: non già – invece – come premessa all’esame della disciplina interessata, rispetto alla quale
la (supposta) ratio ispiratrice costituirebbe in realtà una apodittica
chiave di lettura di natura inevitabilmente arbitraria.
Anche a proposito della rinnovata disciplina dell’azione revocatoria
fallimentare, pertanto, sarà consigliabile formulare le conclusioni atte
a fornire una sintetica valutazione del grado di attitudine della riforma a rimuovere gli inconvenienti e le ragioni di insoddisfazione
della disciplina precedente, solo dopo avere esaminato da vicino,
ed approfondito per quanto possibile, le nuove disposizioni in materia.
sottrazione del saldo finale residuo al saldo debitore più elevato registrato nel corso
del “periodo sospetto” dà lo stesso risultato algebrico. Tale risultato potrebbe poi
dovere essere integrato (in danno della banca) aggiungendo ad esso gli eventuali
“prelevamenti” che fossero stati rivolti a soddisfare delle pretese (non di terzi estranei o del correntista personalmente, bensì) della banca stessa, come accade per le
operazioni di addebitamento disposte per il pagamento, in favore dell’azienda di credito, di interessi passivi, di commissioni, eccetera.
46
Nel caso di specie, tuttavia (quella che avrebbe voluta essere) la
ratio ispiratrice della riforma è espressamente stata enunciata, in
modo inusualmente articolato e circostanziato, dallo stesso legislatore, nella Relazione accompagnatrice del provvedimento di riforma: di tal chè pare conveniente darne sia pur sinteticamente atto
già in apertura del commento alla nuova disciplina dell’istituto.
La menzionata Relazione avverte che “l’istituto della revocatoria fallimentare viene rimodulato” attraverso un intervento caratterizzato da due
principali obiettivi: a) la volontà di “precisa(re) meglio i presupposti per
l’esercizio dell’azione (oggi sovente fonte di incertezze applicative e di contrasti
giurisprudenziali)”; b) la volontà di introdurre nell’ordinamento “una
completa disciplina di esenzione dalla revocatoria, al fine di evitare che situazioni che appaiano meritevoli di tutela siano invece travolte dall’esercizio, sovente strumentale, delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza
del destinatario dei pagamenti”.
Ne deriva, conseguentemente, che per la individuazione dei contenuti della riforma, e per la soluzione delle possibili incertezze interpretative sulla loro reale portata, potranno essere considerati
come utili criteri ermeneutici – tra i possibili altri -: a) la dichiarata
aspirazione del legislatore a semplificare “i presupposti per l’esercizio
dell’azione”; b) la dichiarata aspirazione del legislatore a prevenire
“l’esercizio … strumentale delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza” del debitore, nei confronti di atti posti in essere
nell’ambito di “situazioni che appaiono meritevoli di tutela” – e che pure
non abbiano consentito di conseguire la sottrazione dell’impresa
interessata alla sentenza di fallimento -.
20. L’ambito di applicazione della nuova disciplina della revocatoria delle
“rimesse”. La nozione di conto corrente bancario.
Come già ricordato, la nuova disciplina della revocatoria delle rimesse in conto corrente afferma il principio secondo il quale “non
sono soggette all’azione revocatoria … le rimesse effettuate su un conto corrente
bancario …”: ma contemporaneamente precisa “purchè non abbiano
ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito …”.
La nuova disciplina introdotta con l’art. 67, co. 3 l.fall. riguarda
specificamente le “rimesse” effettuate “su un conto corrente
bancario”: ed in via preliminare è necessario intendersi su quale
sia il rapporto giuridico evocato.
Pare indubbio che esso debba essere individuato in quel rapporto
di cui è parte necessaria una impresa bancaria – donde la qualificazione di “contratto bancario” -, nel quale le disponibilità finanzia-
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
47
rie di cui gode la controparte dell’azienda di credito – che possano
derivare o dalla precedente effettuazione di depositi di danaro (art.
1834 c.c.), o dalla precedente concessione di una apertura di credito da parte della banca (art. 1842 c.c.) – sono suscettibili di un utilizzo discrezionale (“in qualsiasi momento” : art. 1852 c..c), e ripetuto
(“in più volte”: art. 1843 c.c.).
Il conto, oltre che “bancario”, deve essere “corrente”: nel senso di
essere interessato da una disciplina contrattuale che consente, e regola, l’effettuazione di operazioni in un numero imprecisato, e di
segno contrapposto.
In tale prospettiva, se non v’è difficoltà a riconoscere ricompreso
nell’ambito di applicazione della norma in commento ogni rapporto bancario che va sotto il nome di “conto corrente ordinario”, come la
prassi lo ha caratterizzato nel corso del tempo (prevedendone
l’utilizzabilità mediante emissione di assegni bancari “tratti” sulla
banca; e/o mediante il conferimento di disposizioni – “incarichi”:
art. 2856 c.c. -): diverso è a dirsi per i rapporti che pur facendo utilizzo della tecnica contabile del “conto” bancario sono disciplinati
da norme (per lo più di carattere contrattuale), e sono diretti a
soddisfare delle esigenze, alle quali il fenomeno del conferimento
alla banca dell’esecuzione di incarichi da parte del correntista o da
parte di “altro cliente” (art. 1856 c.c.), è totalmente estraneo.
Sono questi, ad esempio, i conti bancari su cui sono talora contabilizzate – ciò che dipende dalle procedure informatiche adottate dalla singola banca caso per caso – le operazioni costitutive di “provvista” originata da anticipazioni di crediti (commerciali) verso terzi (i
cosiddetti “castelletti”: per anticipo di fatture; per anticipo di ricevute bancarie; per anticipo su ordini: eccetera), oppure le operazioni con le quali tale “provvista” viene utilizzata. Lo stesso accade per i conti bancari costituiti ai fini di consentire la contabilizzazione della erogazione (“accensione”) di finanziamenti concessi
dalla banca al cliente per un periodo determinato e del loro successivo rimborso alla scadenza pattuita (“estinzione”), talora attuato
tramite il semplice trasferimento del debito (con una operazione di
“giroconto”) sul conto corrente “ordinario”, comunque in funzione della contabilizzazione, sul primo conto, di altra e successiva
erogazione di un eventuale ulteriore finanziamento (come accade
per i cc.dd. “conti anticipi/import” – nei quali la banca contabilizza i finanziamenti erogati al cliente in conseguenza della effettuazione, nel suo interesse, di pagamenti a favore del fornitore stranie-
48
ro di beni o servizi -; e per i cc.dd. “conti anticipi/export” – sui
quali la banca contabilizza i finanziamenti erogati al cliente in conseguenza delle effettuazione, in suo favore, di anticipazioni di crediti derivanti dalla fornitura di beni o servizi all’estero, caratterizzati (di norma) da una durata corrispondente alla dilazione di pagamento consentita all’acquirente straniero, e da una valuta di finanziamento corrispondente a quella nella quale è espresso il credito
anticipato -).
Sono tutti, questi, “conti bancari”, che ovviamente non sono accompagnati dalla consegna di libretti di assegni; non registrano la
contabilizzazione delle operazioni effettuate dalla banca per il conferimento dell’incarico di eseguire “servizi vari” – come il pagamento periodico delle utenze; la riscossione periodica di canoni
d’affitto; eccetera -, e che non devono essere annoverati nella nozione di “conto corrente bancario” alla quale fa riferimento la nuova disposizione di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare, prevista dall’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall.12.
21. La nozione di “rimessa” (su conto corrente bancario).
L’atto interessato dalla ipotesi di “esenzione” di cui all’art. 67, co.
3, lett. b) l.fall. è qualificato dalla norma “rimessa”: e benchè la nozione di essa sia quasi intuibile, non è detto che con riguardo a singoli casi di specie si registri un consenso generale a qualificare come tale - per lo meno agli effetti della disposizione in commento – qualsiasi
annotazione in conto.
Pare fuori di discussione che debba trattarsi, innanzitutto, di annotazioni costituite da accreditamenti, e non da annotazioni rappresentanti degli addebitamenti: e ciò non tanto perché l’atto che si concretizza in una annotazione nella colonna “dare” del conto corrente
bancario non sia suscettibile di per sé di costituire, in singoli casi di
specie, oggetto di una possibile azione revocatoria (chè anzi gli
studi svolti in materia pervengono alla conclusione contraria)13 ;
quanto piuttosto, per un verso in virtù della circostanza che la nozione di “rimessa” è inscindibilmente connessa, nella terminologia
12 Altra e diversa questione è quella rappresentata dalla domanda se i conti bancari in questione possano costituire “rapporti continuativi o reiterati”, ed essere interessati per tal via dalla diversa ipotesi di “esenzione” ora introdotta dal nuovo art. 70, co.
3, l.fall. (infra, Sezione III ).
13 QUATRARO-FUMAGALLI, Revocatoria ordinaria e fallimentare, Milano, 2002, I,
909
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
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delle operazioni bancarie, all’idea dell’accreditamento in conto; e
per un altro verso, in virtù della circostanza che la disposizione in
commento mostra di concepire la “rimessa” come quell’atto suscettibile di attuare una riduzione della “esposizione debitoria” (che se
“consistente e durevole” acquista rilievo revocatorio), che come tale non potrebbe essere rappresentata da una annotazione contabile
a debito del correntista (che la “esposizione debitoria” potrebbe
solamente aggravare, anziché ridurre, o provocare, ove già non
sussistente).
Posto dunque che di “accreditamento” si debba trattare, occorrerà
verificare se rilevi o non rilevi la natura, o l’origine, della operazione annotata a credito del conto corrente, ai fini di vedere confermata, oppure esclusa, la sua attitudine a costituire un atto suscettibile di revocatoria, ogniqualvolta abbia prodotto una riduzione
consistente e durevole della esposizione debitoria (in presenza, beninteso, degli altri presupposti di proponibilità del mezzo).
Mentre per un rilevante numero di fattispecie pare non possa esservi discussione di sorta (così sarà particolarmente per i versamenti
in conto effettuati direttamente dal correntista), per altre, invece, sono destinate a riproporsi le discussioni già sorte a proposito
dell’applicabilità della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare
previgente a certe tipologie di “rimesse” – sempre in presenza dei
presupposti di proponibilità dell’azione, che nel passato erano individuati dalla giurisprudenza, tra l’altro e soprattutto,
nell’incidenza della rimessa sul saldo-debitore di un “conto scoperto” -.
Come si è avuto modo di ricordare, le discussioni investivano la rilevanza revocatoria delle rimesse originate dalla anticipazione, da
parte della banca, di crediti (commerciali) dell’imprenditore verso
terzi, di norma “smobilizzati” nell’ambito di specifici contratti di
finanziamenti denominati “castelletti”; la rilevanza revocatoria delle rimesse prodotte da “giriconto”; e la rilevanza revocatoria delle
rimesse funzionali a consentire l’effettuazione di corrispondenti (e
perciò “bilanciati”) pagamenti in favore di terzi14 .
Con la nuova disciplina dettata dall’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall., tuttavia, pare che il legislatore abbia voluto ricercare un compromesso, che oltre a rendere meno esagerate le possibili conseguenze e-
14
Supra, Sezione I, rispettivamente nei capitoli n. 7 e n. 10).
50
conomiche del fenomeno della revocatoria delle rimesse in conto
corrente, riduca altresì il tasso di litigiosità generato dalla materia, a
costo di qualche approssimazione definitoria che non mancherà di
essere stigmatizzata da questo o quell’interprete.
In linea di principio – e salve le eventuali precisazioni di dettaglio -,
sembra di dovere concludere che qualsiasi annotazione a credito sul
conto corrente abbia l’attitudine ad essere qualificata una “rimessa”
ai sensi e per gli effetti del nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall., e come tale essere soggetta a revocatoria fallimentare, in presenza dei
presupposti specifici (la produzione di una riduzione consistente e
durevole dell’esposizione debitoria) e generali (l’appartenenza al
“periodo sospetto” e la conoscenza dello stato di insolvenza del
correntista da parte della banca)15 che ne condizionano l’esercizio.
22. La rilevanza della esistenza o della mancanza di una apertura di credito
bancario in favore del correntista.
Occorre ora affrontare il problema della perdurante rilevanza della
distinzione tra le fattispecie nelle quali la rimessa abbia inciso sulla
esposizione di un conto corrente bancario solamente “passivo” –
cioè presentante un saldo debitore, ma espressivo dell’utilizzo di
una apertura di credito bancaria concessa dall’azienda di credito al
correntista -; oppure abbia inciso sulla esposizione di un conto
corrente bancario “scoperto” – cioè presentante un saldo debitore
formatosi nonostante la mancata concessione al correntista di una
apertura di credito bancario, oppure oltre i limiti quantitativi
dell’apertura di credito eventualmente concessa -.
Secondo taluno, infatti16 , le “rimesse” dovrebbero considerarsi astrattamente revocabili – in presenza dei presupposti richiesti dal
nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. – solamente in quanto equivalenti, o comunque assimilabili, ai pagamenti: fuori di questa ipotesi, non
potrebbero essere considerate revocabili mai. Conseguentemente
manterrebbe rilievo la distinzione tra rimesse incidenti su conto
“passivo” e rimesse incidenti su conto “scoperto”, perchè solamente a proposito delle seconde sarebbe pertinente l’indagine, in
chiave revocatoria, sui caratteri della “consistenza” e della “dure-
15
Ma su questo profilo v. infra, n. 10
In questo senso, a quel che pare di potere intendere, S. FORTUNATO,
L’incerta riforma della legge fallimentare, in Corriere giuridico, 2005 (5), 97
16
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
51
volezza”, che rappresentano i nuovi presupposti di rilevanza a fini
revocatori.
Tale conclusione non pare peraltro condividibile.
Occorre innanzitutto ricordare che la distinzione tra rimesse incidenti su conto “passivo” e rimesse incidenti su conto “scoperto”
non era il frutto di una opzione legislativa, ma (solamente) il risultato di un orientamento interpretativo; ed a ciò si dovrebbe aggiungere la considerazione che le nuove disposizioni in materia di
revocatoria fallimentare sembrano avere voluto introdurre una disciplina speciale della revocabilità delle “rimesse” che prescinde
dalla indagine sulla assimilabilità a questa od a quest’altra categoria
di atti revocabili, attribuendo piuttosto rilievo esclusivo alla produzione o meno di una riduzione consistente e durevole della “esposizione debitoria” del fallito. Sempre in questa direzione si dovrebbe
richiamare l’attenzione sul carattere volutamente atecnico – a quel
che pare – dell’espressione utilizzata (“esposizione debitoria”, in
luogo, e ad esempio, del più preciso termine “saldo”) per individuare la situazione rilevante ai fini revocatori (espressione compatibile tanto con la situazione di saldo debitore di conto “passivo”,
quanto con la situazione di saldo debitore di conto “scoperto”),
nonché la dichiarata aspirazione del legislatore (espressa nella Relazione accompagnatoria del provvedimento di riforma) a pervenire
ad una semplificazione della disciplina dell’istituto.
Oltre a ciò, peraltro – e soprattutto -, sembra di potere osservare
che la reclamata attualità della distinzione tra rimesse incidenti su
saldo “passivo” e rimesse incidenti su saldo ”scoperto” non conseguirebbe probabilmente lo scopo (o non conseguirebbe comunque
gli effetti) ricollegabile alla opzione interpretativa preferita, alla luce
dei nuovi presupposti di revocabilità delle rimesse.
L’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. attribuisce rilievo revocatoria alle sole
rimesse su conto corrente bancario che ne abbiano ridotto il saldodebitore in maniera (consistente e) “durevole”: cioè, in buona sostanza, che non siano state seguite (in un periodo ragionevole) da
un riutilizzo da parte del correntista. In questa situazione, è dubbio che la eventuale condizione di saldo (solo) “passivo” del conto,
anziché di saldo “scoperto”, avrebbe comunque l’attitudine a sottrarre la rimessa all’azione revocatoria fallimentare: e ciò per la ragione
che verrebbe in discussione il dubbio che la rimessa non sia stata
effettuata su un conto [qualificabile bensì, da un punto di vista
formale, (solo) “passivo”, ma divenuto, da un punto di vista so-
52
stanziale] “congelato”, con ciò che ne potrebbe conseguire in
termini di revocabilità della rimessa stessa (supra, n. 14).
Acquista pertanto credito l’idea che i nuovi criteri di individuazione dei presupposti di revocabilità delle rimesse su conto corrente
bancario prescindano ormai dalla risalente distinzione tra saldo debitore inerente un conto bancario (solo) “passivo” e saldo debitore
inerente un conto bancario “scoperto”.
23. La rilevanza della provenienza della rimessa da un terzo.
Anche a proposito dell’origine della “rimessa” ritornerà di attualità
il problema se rilevi o non rilevi, ed eventualmente quando rilevi –
al fine di escluderne la revocabilià, pur sussistendone i presupposti
in astratto – la circostanza che la rimessa sul conto
dell’imprenditore fallito sia stata effettuata da un terzo.
Le considerazioni già sviluppate a proposito della attualità o meno
della distinzione tra rimesse incidenti su saldo debitore (solo) “passivo” e rimesse incidenti su saldo debitore “scoperto”, inducono a
propendere per la irrilevanza della provenienza (se dallo stesso correntista o da un terzo) della rimessa, e più precisamente per la irrilevanza della effettiva incidenza della rimessa sul patrimonio del
fallito (nel senso della sua attitudine a comportare una effettiva riduzione dell’attivo patrimoniale altrimenti disponibile per il soddisfacimento delle obbligazioni del correntista), piuttosto che della
incidenza della rimessa sul patrimonio del terzo che l’abbia disposta.
A questa stregua, pertanto, assumerebbero rilievo revocatorio, ove
produttive di una riduzione “consistente” e “durevole”
dell’esposizione debitoria, anche le rimesse del terzo; ed a prescindere dalla circostanza se si tratti di un terzo “benefattore” – cioè non
obbligato ad effettuare la rimessa, pur disposta in favore del correntista (ed in ultima analisi della banca) -; oppure di un terzo garante (o coobbligato).
D’altro canto anche questa opzione interpretativa non si discosta
necessariamente, nonostante le apparenze, dall’esito che conseguirebbe a fare applicazione al caso di specie degli orientamenti interpretativi affermatisi, in materia, sotto il vigore della precedente disciplina. Pure riconoscendo, in linea di principio, la non revocabilità del pagamento effettuato dal terzo-garante (o coobbligato),
era peraltro dubbia l’applicabilità di tale principio al versamento
fatto (dal terzo-garante) direttamente sul conto corrente del fallito (garantito) – cioè alla “rimessa” del terzo -, tendendosi a considerare
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
53
questo accreditamento, in quanto confluito nella diretta disponibilità del correntista, alla stregua di qualsiasi altro versamento, revocabile
– in quanto tale – sul solo presupposto della incidenza su un saldo
“scoperto”17 .
La considerazione di quest’ultimo profilo induce se mai a precisare
che anche nella prospettiva di non ritenere più rilevante, in sede di
applicazione del nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall., la provenienza
della “rimessa” da un terzo, piuttosto che dal correntista; né la circostanza che il terzo rappresentasse un “estraneo”, piuttosto che
un garante ( o coobbligato); tuttavia occorrerà pur sempre che si
tratti di rimessa “su conto corrente” bancario, cioè su un conto corrente ancora sussistente come tale – in altri termini: ancora “operativo”,
in quanto espressivo di un rapporto giuridico ancora disciplinato
dalle norme dettate in materia di contratto di conto corrente bancario -. Diversamente sarebbe a dirsi nelle ipotesi di contratto di
conto corrente bancario risolto, o (più prevedibilmente) sciolto per
recesso della banca. In queste situazioni, infatti, il saldo debitore del
(ex) conto corrente bancario costituirebbe ormai solo più un credito
della banca verso il suo (ex) correntista; e la rimessa che ne comportasse la riduzione, o finanche l’estinzione, costituirebbe più
precisamente un pagamento, la cui provenienza da un terzo ne comporterebbe la revocabilità o meno alla stregua della individuazione
dei presupposti di revocabilità dei pagamenti dei terzi in via generale18 .
Per tale ragione la banca dovrà prestare particolarmente attenzione
a formalizzare, in occasione della escussione dei garanti (o dei coobbligati) del fallito, la preventiva estinzione (per risoluzione o per
17
Cass., 16 novembre 1998, n. 11520, in Fallimento, 1999, 650; Trib. Milano, 28
febbraio 2000, in Fallimento, 2000, 812
18 Problema che, come noto, accanto alla soluzione interpretativa unanimemente
condivisa circa la non revocabilità del pagamento effettuato dal terzo garante (o coobbligato), genera, per i pagamenti dei terzi “estranei”, le divergenti opinioni di chi li
considera revocabili sempre; chi li considera revocabili solo nell’ipotesi nella quale il
terzo si sia insinuato al passivo per rivalersi nei confronti del correntista “favorito”; e
chi – infine – considera revocabile solo il pagamento del terzo che abbia già esercitato (fruttuosamente) il conseguente “regresso” in danno dell’imprenditore, poi fallito
– dove non si comprende bene perché l’azione revocatoria fallimentare sia rivolta nei
confronti della banca, piuttosto che nei confronti del terzo soddisfatto -.
54
recesso) del rapporto di conto corrente bancario intrattenuto con
l’imprenditore garantito (o coobbligato).
24. I criteri di determinazione della esistenza e della consistenza della “esposizione debitoria” del correntista.
L’accreditamento di una “rimessa” su un conto corrente bancario
costituisce dunque un atto revocabile – in presenza dei presupposti
di carattere generale – solo qualora comporti la riduzione (consistente e durevole) della “esposizione debitoria” del fallito.
Una volta espressa l’opinione secondo la quale la “esposizione debitoria” rilevante, ai fini revocatori, prescinderà – con
l’applicazione del nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. - dalla considerazione della condizione del conto corrente – se (solo) “passivo,
piuttosto che “scoperto” -, non ogni problema è peraltro risolto ai
fini di pervenire ad una corretta applicazione della norma. Già in
via preliminare occorre stabilire cosa si debba intendere per “esposizione debitoria”: e se trattandosi di conto corrente bancario è naturale fare riferimento al saldo debitore del conto, non altrettanto banale è la risposta alla domanda su quale saldo (debitore) sia necessario prendere in considerazione.
Si ripropongono pertanto le distinzioni che nel passato hanno
condotto ad individuare il c.d. “saldo disponibile” come la rappresentazione più correttamente espressiva della situazione (eventualmente) debitoria del correntista nei confronti della banca 19 : ed è da
ritenere che i risultati interpretativi ai quali sono pervenuti gli approfondimenti effettuati nel vigore della disciplina previgente continuino a dovere essere tenuti presenti ai fini della individuazione
della “esposizione debitoria” rilevante per l’applicazione del nuovo
art. 67, co. 3, lett. b), l.fall.
25. I criteri di determinazione della “consistenza” della riduzione
dell’esposizione debitoria.
Come già segnalato, il nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. afferma la
revocabilità delle rimesse su conto corrente bancario nelle ipotesi
nelle quali esse abbiano comportato una riduzione dell’esposizione
debitoria del fallito (durevole e) “consistente”.
19
Supra, Sezione I, n. 3
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
55
Non sono precisati i criteri in base ai quali verificare il presupposto
dalla “consistenza” della rimessa: ed i primi interpreti si vanno orientando verso la soluzione che attribuisce rilievo al criterio percentuale, piuttosto che a quello attento alla considerazione del valore assoluto della rimessa20 .
In termini concettuali la soluzione interpretativa proposta è corretta: ma nella pratica v’è da dubitare che essa sarà seguita sempre (o
anche soltanto sovente). In via generale, appare poco probabile che
un Tribunale, una volta accertati i restanti presupposti di revocabilità della rimessa, respinga la domanda revocatoria (solo) per il fatto che la riduzione dell’esposizione (effettivamente conseguita dalla
banca) risulti “poco consistente”. In particolare, poi, appare ancora
meno probabile che nella descritta fattispecie il Tribunale respinga
la domanda revocatoria (altrimenti fondata) proposta nei confronti
di una rimessa di valore assoluto ragguardevole, solo perché essa
costituisce una percentuale marginale dell’affidamento, in ipotesi di
entità straordinaria, concesso dalla banca.
E’ allora più probabile che il presupposto della “consistenza” venga in considerazione (solo) nel momento della concessione o della
negazione della autorizzazione al curatore fallimentare alla proposizione dell’azione revocatoria fallimentare nei confronti di una rimessa bancaria, senza poi mettere seriamente in discussione
l’accoglibilità della domanda altrimenti fondata.
26. I criteri di determinazione della “durevolezza” della riduzione
dell’esposizione debitoria.
Quanto al presupposto della “durevolezza” della riduzione
dell’esposizione debitoria del fallito, che pure condiziona la revocabilità della rimessa, pare certa la sussistenza del presupposto ogniqualvolta la riduzione in questione perduri fino alla chiusura del
rapporto (o fino alla dichiarazione di fallimento)21 : e ciò – si deve
precisare - anche se la data di effettuazione della rimessa non risulti
in realtà molto risalente rispetto alla estinzione del rapporto (od alla dichiarazione di fallimento).
20
GIORGIO TARZIA, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare
nella recente riforma, in Fallimento, 2005, 835, ss. spec. 841; A. SILVESTRINI, La nuova
disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario, ibidem, 844 ss., spec. 847.
21 In questo senso GIORGIO TARZIA, op.loc.ultt.citt.
56
Non può neppure essere escluso, peraltro, che sia giudicabile (od
in concreto giudicata) “durevole” la riduzione dell’operazione debitoria prodotta da una rimessa, che dopo qualche tempo sia seguita
da un nuovo prelievo (od in generale da un nuovo utilizzo della
“provvista” generata dalla rimessa). In termini generali, l’effetto
solutorio di un atto (e la conseguente rilevanza revocatoria) non è
escluso dalla concessione da parte del creditore soddisfatto di un
nuovo credito allo stesso debitore.
E’ pertanto da ritenere che il carattere “durevole” della riduzione
dell’esposizione debitoria del correntista non verrà solamente attribuito alle rimesse che hanno comportato un “rientro” definitivo
della banca, ma anche a quelle rimesse rispetto alle quali le successive operazioni di prelevamento, o di utilizzo nelle altre forme
consentite dal contratto di conto corrente, siano intervenute dopo
un intervallo di tempo anomalo rispetto alla precedente intensità di
movimentazione del conto corrente.
Certamente revocabili risulteranno comunque le rimesse che hanno prodotto un “rientro programmato” – di norma, rateale – da
una determinata esposizione debitoria del correntista nei confronti
della banca.
27. La rilevanza del principio di limitazione della somma revocabile alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle pretese della banca nel “periodo sospetto” e l’ammontare residuo finale.
Come abbiamo già avuto modo di considerare, il nuovo art. 70, co.
3, l.fall. afferma che “qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una
somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo nel quale è provata la conoscenza dello
stato di insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse alla data in
cui si è aperto il concorso”.
Sulla astratta appartenenza del contratto di conto corrente bancario alla categoria dei “rapporti continuativi o reiterati”, evocata dalla norma, non si registrano soverchie discussioni22 . Sul coordinamento, invece, tra la disposizione contenuta nell’art. 67, co. 3, lett.
b) l.fall. e quella prevista dal citato art. 70, co. 3, l.fall., in materia di
revocatoria delle rimesse in conto corrente, vi è discussione: sembrando
per un verso due disposizioni che miravano a conseguire un iden22
GIORGIO TARZIA, op.loc.ultt.citt.; A. SILVESTRINI, op.loc.ultt.citt.;
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
57
tico obiettivo (il ridimensionamento della portata dell’azione revocatoria fallimentare nei confronti delle rimesse bancarie), onde poteva bastarne una sola 23; e risultando per un altro verso difficile
ipotizzarne la simultanea applicazione all’atto rappresentato dalla
rimessa in conto corrente.
La possibile produzione di esiti contraddittori in conseguenza
dell’applicazione delle due regole (nel senso che rimesse comportanti riduzioni non consistenti e non durevoli dell’esposizione del
correntista risulterebbero sottratte all’azione revocatoria fallimentare ai sensi dell’art. 67, co. 3, lett. b), ed alla stessa assoggettabili –
invece – ai sensi dell’art. 70, co. 3), ha indotto taluni a considerare
l’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. norma speciale per (le rimesse su) i conti
correnti bancari, con conseguente applicazione in via esclusiva agli
atti rappresentati da “rimesse” bancarie 24 .
Secondo altri studiosi, invece, si produrrebbe un fenomeno contrario: nel senso che la regola dettata dall’art. 70, co. 3, l.fall. rappresenterebbe per gli atti costituiti da rimesse su conto corrente bancario, la
precisazione delle modalità applicative della regola per esse dettata
dall’art. 67, co. 3, lett. b) – nel senso che l’azione revocatoria potrà
sempre avere come oggetto solamente la somma corrispondente alla
differenza tra il “massimo scoperto” raggiunto dal conto corrente
bancario nel corso del “periodo sospetto” e il saldo finale residuo 25
.
In realtà non pare preclusa una applicazione di entrambe le norme,
che giunga a pervenire alla conclusione secondo la quale la disciplina della revocabilità delle rimesse in conto corrente bancario sarebbe così riassumibile: a) le rimesse in conto corrente bancario
non sono revocabili, in linea di principio – art. 67, co. 3, lett. b),
prima parte -; b) [in presenza dei presupposti generali di revocabilità] sono revocabili solamente quelle rimesse in conto corrente
bancario che abbiano prodotto una riduzione consistente e durevole della esposizione debitoria del correntista (art. 67, co. 3, lett.
b), seconda parte l.fall.); c) in presenza di più rimesse revocabili
perché presentanti le caratteristiche indicate dall’art. 67, co. 3, lett.
b), seconda parte l.fall., la somma che la banca è tenuta a restituire
L. PANZANI – U. DE CRESCIENZO, Il nuovo diritto fallimentare, n. 5.3.4.,
Milano, Ipsoa (in corso di pubblicazione)
24 GIORGIO TARZIA, op.ult.cit., 841.
25 A. SILVESTRINI, op.ult.cit., 847.
23
58
non può complessivamente superare la differenza tra l’esposizione
massima registrata dal conto nel “periodo sospetto” e l’esposizione
residua finale (art. 70, co. 3).
Si deve peraltro precisare, che la (eventuale) modesta entità del
“periodo sospetto” – in ipotesi, sei mesi 26 - renderà improbabile la
produzione di una pluralità di rimesse comportanti una riduzione
consistente e durevole dell’esposizione, la cui somma superi l’entità
del “rientro” complessivo conseguito dalla banca. Ma ciò rappresenta una considerazione di mero fatto, e poggia forse su un presupposto discutibile.
28. Le condizioni generali di revocabilità delle rimesse su conto corrente bancario. Entità del “periodo sospetto” e presupposti di accoglibilità della domanda.
La considerazione formulata da ultimo induce ad alcune precisazioni relative a quei profili dell’azione revocatoria fallimentare delle
rimesse su conto corrente bancario rappresentati dalla individuazione della entità del “periodo sospetto” e dalla precisazione di
quali siano le condizioni di accoglibilità della domanda.
L’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. non precisa quali rimesse eventualmente produttive di una riduzione consistente e durevole
dell’esposizione debitoria del fallito siano revocabili, sotto il profilo
della maggiore o minore prossimità alla data del fallimento (“periodo sospetto”); né precisa a quali condizioni tali rimesse siano revocabili (se sul presupposto della dimostrazione da parte del curatore fallimentare della conoscenza dello stato di insolvenza del fallito da parte della banca; se sulla base di una presunzione legale di
scientia decoctionis, superabile dalla banca attraverso la prova contraria della inscientia decoctionis; se “di diritto”, a prescindere da ogni altro possibile presupposto).
Per dare una risposta a queste domande pare necessario individuare a quale categoria generale di atti riferire le operazioni di “rimessa” in conto corrente, per ricercare i presupposti generali di revocabilità stabiliti per la categoria di riferimento.
In caso di rimesse effettuate a riduzione di esposizioni bancarie registrate su
conti correnti accesi a nome del correntista, sembra utilmente richiamabile
la disciplina generale della revocabilità degli “atti a titolo onero-
26
In questo senso A. SILVESTRINI, op.loc.ultt.citt.
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
59
so”27 : ed in tale prospettiva saranno revocabili le rimesse produttive di riduzioni consistenti e durevoli dell’esposizione bancaria effettuate nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento, e alla condizione che il curatore dimostri la conoscenza dello stato di insolvenza del correntista
da parte della banca.
In caso di rimesse effettuate a riduzione di esposizioni bancarie registrate su conti correnti altrui – senza che il solvens ne sia né garante, né
coobbligato -, sembra utilmente richiamabile la disciplina generale
della revocabilità degli “atti a titolo gratuito”: ed in tale prospettiva
saranno revocabili (nell’ambito beninteso del fallimento del solvens)
le rimesse produttive di riduzione consistenti e durevoli
dell’esposizione bancaria effettuate nei due anni anteriori al fallimento, senza la necessità della ricorrenza di altri presupposti (art. 64
l.fall.), ma con il limite dell’importo massimo complessivo costituito dal “rientro” della banca rispetto al “massimo scoperto” (art. 70, co. 3, l.fall.).
29. La esenzione da revocatoria delle vendite d’immobili ad uso abitativo. I cosiddetti “fallimenti immobiliari”.
Secondo la nuova disposizione dell’at. 67, co. 3, lett. c) l.f. le vendite di immobili non sono soggette a revocatoria ove ricorrano le seguenti condizioni:
a) che la vendita risulti effettuata “a giusto prezzo”;
b) che si tratti di immobile “ad uso abitativo”;
c) che l’immobile sia “destinato” a costituire l’abitazione “principale” dell’acquirente o dei suoi parenti e affini entro il terzo grado.
Tale disciplina suscita di per sé una serie di interrogativi interpretativi, sui quali la dottrina ha già incominciato ad impegnarsi.
Il compito è reso più arduo dalla quasi contemporanea approvazione di un’altra disciplina mirante a tutelare gli “acquisti immobiliari”, rappresentata dal decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122;
27 Non sembrerebbe giustificato invece il richiamo alla disciplina dei “pagamenti”, in conseguenza dell’affermazione della opinione secondo la quale il regime revocatorio delle “rimesse” prescinderà, per il futuro, dal carattere “solutorio”, piuttosto
che “ripristinatorio”, del singolo accreditamento. In particolare, la rimessa effettuata su conto corrente “passivo” non potrebbe essere ritenuta revocabile alla stregua
di un pagamento anticipato (e dunque secondo il regime previsto dall’art. 65 l.fall.), perché qualora venisse valutata in termini di “pagamento” rivelerebbe la mancanza di
attitudine a produrre effetti estintivi di una obbligazione.
60
e dalla necessità di coordinamento dei due nuovi testi normativi
con la risalente disciplina – anch’essa rivolta ad apprestate una particolare tutela nei confronti delle conseguenze delle “crisi” delle
imprese operanti nel settore edilizio o immobiliare – del contratto
preliminare di compravendita immobiliare (d.-l. 31 dicembre 1996, n.
669, convertito in l. 28 febbraio 1997, n. 30).
30. Segue. La esenzione da revocatoria per le vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo (art. 67, co. 3, lett. c), l.f.).
La nuova ipotesi di “esenzione” dalla revocatoria introdotta con
l’art. 67, co. 3, lett. c) l.f. sottrae all’esercizio di tale azione “le vendite
a giusto prezzo d’immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione
principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado”.
La ratio della norma dovrebbe essere rappresentata dalla volontà di
tutelare quella particolare forma di risparmio privato che è costituita dall’investimento nella casa di abitazione, e che si iscrive nel
principio costituzionale (art. 47 Cost.) di sostegno dell’accesso del
“risparmio popolare” alla proprietà dell’abitazione.
Occorre peraltro subito mettere sull’avviso il lettore circa
l’approssimazione con la quale questo (supposto) obbiettivo viene
perseguito, se si tiene conto di come, alla luce della formulazione
della disciplina in commento, risultino ugualmente tutelati: a) anche gli acquisti di immobili di ingente od ingentissimo valore; b)
anche gli acquisti di immobili che non costituiscano la “prima casa” (né la seconda, o la terza …) dell’acquirente; c) anche gli acquisti caratterizzati da una componente speculativa; d) anche gli acquisti non effettuati da un imprenditore edile o comunque operante nel settore immobiliare, ma da qualsiasi soggetto, comunque sottoposto, in concreto, a fallimento.
Sotto il profilo considerato, le limitazioni poste all’ambito
di applicazione della “esenzione” sembrano concentrarsi
nella circostanza che l’acquisto debba necessariamente essere effettuato da una persona fisica (stante la destinazione ad
uso abitativo dell’immobile e la tipologia dei possibili beneficiari della sua utilizzazione); e, per l’appunto, che debba
trattarsi di immobile “destinato” a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti od affini entro il terzo
grado (con la conseguente, incomprensibile esclusione del
coniuge). La sufficienza della “destinazione” dell’immobile
ad abitazione di taluno dei soggetti rilevanti consente sia la
programmazione di un acquisto che nell’immediato non si
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
61
possa (o non si voglia) adibire a tale funzione; sia l’acquisto
di un immobile ancora da costruire (dove più evidente sarà
la sovrapposizione della disciplina in commento con quella
apprestata dal coevo d.lgs. n. 122/2005 – infra -). Quanto
alla nozione di “abitazione principale”, è da ritenere che si
debba fare riferimento (come suggeriscono le disposizioni
tributarie di settore) a quella nella quale l’acquirente (o chi
per lui) “dimora abitualmente”, pervenendo per questa via
ad individuare una situazione sostanzialmente coincidente,
in fatto, con la residenza del soggetto (intesa come “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”: art. 43, co. 2,
c.c.), anche se non risulta necessaria la contestuale assunzione della residenza anagrafica.
Sotto il profilo che potremmo definire “economico”, la esenzione
da revocatoria è attribuita ai soli acquisti immobiliari effettuati “a
giusto prezzo”: dove la mancanza di listini ed in generale la eterogenità della caratteristiche tipologiche delle singole abitazioni comporteranno sovente la necessità di disporre consulenze tecniche
d’ufficio – salvo che l’acquisto sia stato accompagnato dalla redazione della stima di un esperto, e questa venga considerata sufficientemente attendibile -. Non pare poi che la “esenzione” in
commento possa essere invocata per il solo fatto che il prezzo corrisposto al venditore risulti rispettoso del limite (non inferiore di
un quarto rispetto al valore della controprestazione) oggi individuato nel nuovo art. 67, co. 1, n. 1, l.f.: dovendosi ritenere che
mentre agli acquisti effettuati ad un prezzo “sproporzionato” perchè inferiore di oltre un quarto al prezzo corretto (o “giusto”) risulterà applicabile la revocatoria (oggi annuale) comportante la
presunzione di “mala fede” dell’acquirente, per gli acquisti ugualmente non rispettosi del “giusto” prezzo, ma in proporzione meno
vistosa, si potrà far luogo alla revocatoria (oggi semestrale) che postula la prova da parte del curatore fallimentare che l’acquirente
conosceva lo stato di insolvenza del venditore; laddove – infine –
l’acquisto effettuato per un prezzo “giusto” sarà per definizione
sottratto a revocatoria, quale che fosse la condizione psicologica
dell’acquirente.
Deve infatti essere sottolineato che l’acquisto dell’immobile
ad uso abitativo a “giusto” prezzo si sottrae a revocatoria
fallimentare anche nell’ipotesi nella quale la situazione di
insolvenza del venditore sia perfettamente nota
62
all’acquirente – e, conseguentemente, anche quando il fallimento
venga dichiarato dopo pochi giorni, e quando nell’attivo non si riscontri (più) traccia del prezzo corrisposto dall’acquirente -.
La totale irrilevanza dello stato psicologico, e conseguentemente dell’animus, dell’acquirente dovrebbe costituire un
elemento da prendere in considerazione anche al fine di
stabilire quale sia l’effettivo ambito di applicazione della “esenzione”, sotto il profilo delle tipologie di azioni revocatorie rese improponibili.
E’ da ritenere che alludendosi a contratti di “vendita”, o
comunque a negozi caratterizzati dalla corresponsione di
un prezzo (oltretutto “giusto”, quindi non simbolico), non
si intenda sottrarre alla revocatoria fallimentare (prevista
dall’art. 64 l.f.) l’atto a titolo gratuito con il quale il fallito
avesse disposto di un immobile, sia pure ad uso abitativo e
sia pure adibito ad abitazione personale del nuovo proprietario (o di chi per lui alla luce dei rapporti di parentela o di
affinità “rilevanti”).
Meno immediata è invece la soluzione da riservarsi alla applicabilità o meno dell’azione revocatoria ordinaria che il curatore intendesse proporre ai sensi dell’art. 66 l.f.
La risposta che sembrerebbe farsi preferire è quella negativa, perché ove si consentisse al curatore fallimentare di
proporre – ai sensi del richiamato art. 66 l.f. – l’azione revocatoria
ordinaria
nei
confronti
dell’acquisto
dell’immobile (ad uso abitativo e da destinarsi ad abitazione
principale) “a giusto prezzo”, ciò non consentirebbe soltanto di privare di efficacia gli acquisti effettuati in data risalente oltre ai sei mesi anteriori al fallimento (attuale consistenza del “periodo sospetto” per gli atti a titolo oneroso); ma consentirebbe altresì, per questa via, di privare di
efficacia gli acquisti effettuati nel “periodo sospetto”, privando di
contenuto la previsione della “esenzione”.
In altri termini, il curatore fallimentare che fosse in condizione di dimostrare che l’acquirente (a “giusto prezzo”) era
a conoscenza dello stato di insolvenza del venditore, non
dovrebbe essere messo in condizione di esercitare nei suoi
confronti l’azione revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f. (prevedibilmente fondata, sia per il ritenuto carattere pregiudizievole degli atti di disposizione con i quali si sottraggono
alla garanzia dei creditori beni facilmente aggredibili sostituendoli con denaro meno facilmente apprendibile; sia per
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
63
la sostanziale equivalenza, nel caso di specie, tra consapevolezza dell’insolvenza e consapevolezza del “pregiudizio
(arrecato alle ragioni de(i) creditor(i)” – art. 2901 c.c. -), in
una situazione nella quale è invece espressamente escluso
l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare.
In questa direzione, anche l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria fuori del fallimento dovrebbe prevedibilmente
essere escluso.
Si deve pertanto segnalare la vistosa contraddizione nella
quale è caduto (anche in questa circostanza) il legislatore,
allorchè mentre ha inserito la fattispecie degli acquisti di
immobili ad uso abitativo effettuati a “giusto prezzo” nel
novero delle “esenzioni” che paiono avere un ambito di
applicazione più vasto della sola sottrazione all’art. 67 l.f. –
per quanto detto appena sopra e per quanto più in generale
considerato supra, Sezione IV, n. 10 -; contemporaneamente
ha circoscritto alle sole disposizioni “di questo articolo”
(articolo 67) l’area della esenzione prevista per gli acquisti di
immobili da costruire, nell’ambito della coeva disciplina introdotta con l’approvazione del d.lgs. n. 122/2005 (infra).
Sotto il profilo che potremmo definire “tipologico”, infine, è da
segnalare che benchè la norma faccia riferimento alle sole “vendite”, pare naturale estenderne l’applicabilità a tutti gli atti a titolo
oneroso che abbiano l’attitudine a trasferire la proprietà
(dell’immobile ad uso abitativo): con l’avvertenza che dovrà trattarsi di atti comunque opponibili al fallimento, e quindi integrati dalle
formalità necessarie a renderli opponibili ai terzi – come preteso
dall’art. 45 l.f. -, che nel caso di specie sono rappresentata dalla trascrizione.
Il tema della opponibilità evoca il problema interpretativo
della opponibilità al curatore fallimentare della simulazione del prezzo, che riveste un ruolo tanto più importante,
quanto proprio la entità del prezzo acquista rilievo decisivo
nel sottrarre o meno l’atto a revocatoria fallimentare.
Premesso che nella fattispecie in esame il prezzo corrisposto deve presumibilmente confrontarsi con il valore
dell’immobile al momento del trasferimento della proprietà – e
non al momento della stipulazione del contratto preliminare, come previsto per gli acquisti di immobili ancora da costruire (infra) -, si deve ritenere che risultino applicabili an-
64
che al caso di specie gli orientamenti interpretativi formatisi
in materia di condizioni di opponibilità al curatore fallimentare della simulazione posta in essere con il fallito.
31. Segue. La disciplina dei “fallimenti immobiliari” (d.lgs. n.
122/2005).
Il recente decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122 dà attuazione
alla legge delega 2 agosto 2004, n. 210, la quale mirava espressamente a tutelare “i diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili
da costruire”, nei confronti delle situazioni di “crisi” delle imprese
di costruzione (o degli imprenditori che professionalmente vendano immobili da costruire).
Tra gli strumenti utilizzati per conseguire questo obiettivo vi è anche la previsione di nuove fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare. In particolare, sono dichiarati sottratti
all’azione revocatoria “prevista dall’art. 67” l.f. “gli atti a titolo oneroso
che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di
godimento di immobili da costruire, nei quali l’acquirente si impegni a stabilire, entro dodici mesi dalla data di acquisto o di ultimazione degli stessi, la residenza propria o di suoi parenti o affini entro il terzo grado, se posti in essere
al giusto prezzo, da valutarsi alla data della stipula del preliminare”.
Come si può facilmente notare, la norma in commento si
avvicina molto a quella, praticamente coeva, dettata
nell’ambito della riforma del diritto fallimentare, e oggi
contenuta nel nuovo art. 67, co. 3, lett. c) l.f.
Si tratta sempre di attribuire “stabilità” ad acquisti immobiliari effettuati da una persona fisica; destinati a soddisfare esigenze
abitative proprie o del proprio nucleo familiare (che ha una composizione identica nelle due previsioni normative, entrambe
disinteressate agli eventuali interessi del, o per il, coniuge);
posto in essere “al giusto prezzo”.
La differenza di rilievo che caratterizza le due previsioni
consiste nella circostanza che il d.lgs. n. 112/2005 ha specifico riguardo ai soli acquisti di “immobili da costruire”:
per i quali talune precisazioni rispetto agli acquisti immobiliari in generale sono effettivamente opportune (come è
quella concernente la previsione di un termine precisato
per l’utilizzazione dell’immobile all’uso abitativo
dell’acquirente o di un famigliare, essendo escluso per definizione che ciò possa avvenire immediatamente).
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
65
L’identità del fenomeno che si è inteso disciplinare imporrà, per il resto, di interpretare le due discipline considerandole in stretta correlazione: e, in particolare, di utilizzare le
previsioni più circostanziate dell’una per integrare le disposizioni che risultassero più generiche nell’altra – onde per
esempio si deve ricavare dalla “omnicomprensibità” della
tipologia di acquisti menzionata nel d.lgs. n. 122/2005 un
criterio interpretativo volto ad attribuire analoga portata alla “esenzione” prevista dall’art. 67, co. 3, lett. c), l.f., che
pure suona limitata, sotto un profilo letterale, alle “vendite”
-.
Occorre se mai osservare che l’ambito volutamente circoscritto (la
sola revocatoria fallimentare prevista dall’art. 67 l.f.) della “esenzione” in commento, che sostanzialmente riguarda i soli atti posti
in essere nei sei mesi precedenti il fallimento – trattandosi di atti
necessariamente “normali”, in relazione alla condizione del “giusto
prezzo” -, rischia di rendere il beneficio più apparente che reale.
Nella maggior parte dei casi, infatti, il fallimento dell’imprenditore
edile che sopravvenga entro i sei mesi dalla stipulazione di un contratto – quale che ne sia la tipologia – avente ad oggetto “un immobile (ancora) da costruire”, comporterà l’applicabilità al negozio de
quo, in quanto “non ancora eseguito da entrambi i contraenti”, dell’art. 72
l.f., con conseguente facoltà del curatore fallimentare di provocare lo
scioglimento del contratto, così conseguendo l’obiettivo (in ipotesi ritenuto più conveniente per la procedura) di non dovere trasferire al
contraente in bonis la proprietà dell’immobile oggetto del contratto
pendente. In questa prospettiva, pertanto, l’aspettativa del promissario acquirente (o dell’acquirente non ancora titolare del diritto
di proprietà dell’immobile) è tutelata nei confronti del rischio rappresentato dalla eventuale revocabilità del contratto stipulato con
l’imprenditore edile poi fallito: ma non è tutelata nei confronti del
diritto del curatore fallimentare di propendere per lo scioglimento
del contratto (per il più delle volte) ancora “pendente”, piuttosto
che per il subentro nello stesso – tenuto anche conto dell’oggettiva
difficoltà, per un curatore fallimentare, di subingredire in contratti
aventi ad oggetto “immobili da costruire”, prevedibilmente non
ancora ultimati -).
66
Tali considerazioni evidenziano quale sia l’importanza del
recente pronunciamento delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione28, secondo la quale il curatore non può più esercitare la facoltà di scegliere tra lo scioglimento e
l’esecuzione del contratto preliminare di vendita immobiliare, se il promissario acquirente abbia trascritto prima del
fallimento la domanda giudiziale diretta ad ottenere
l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre (cfr.
art. 2932 c.c.).
Si deve allora concludere che nella maggior parte dei casi il fallimento del costruttore edile, o dell’impresa di intermediazione immobiliare, vanifichi l’aspettativa del promissario acquirente di divenire proprietario dell’immobile agognato, ponendo il problema
della tutela dei suoi crediti verso l’imprenditore fallito, particolarmente con riguardo agli acconti versati.
Interviene in questa ipotesi, come abbiamo visto, se il contratto preliminare è stato trascritto, la norma di favore che attribuisce al promissario acquirente un privilegio speciale immobiliare collocato al grado 5bis dell’art. 2780 c.c. nella graduazione sul ricavato dall’immobile
(d.-l. 31 dicembre 1996, n. 699: supra, n. 30).
Se si tratta peraltro di promissari acquirenti di “immobili da costruire”, in futuro interverranno le ulteriori norme di favore introdotte con il d.lgs. n. 122/2005, che apprestano per i crediti conseguenti allo scioglimento del contratto provocato da una situazione
di “crisi” del “costruttore”, una tutela particolarmente efficace, che
passa attraverso la prestazione obbligatoria in favore degli “acquirenti” di
una fideiussione prestata da una impresa bancaria, da una impresa assicurativa o da un intermediario finanziario iscritto nell’elenco speciale di cui all’art.
107 del “Testo Unico” bancario.
L’art. 2 d.lgs. n. 122/2005 prevede che all’atto della stipula
di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non
immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le
medesime finalità, il costruttore è obbligato a procurare il
rilascio di una fideiussione bancaria (o equivalente)
all’acquirente, per un importo corrispondente alle somme e
al valore di ogni altro corrispettivo riscosso dal costruttore
o ancora da riscuotere prima del trasferimento della pro-
28
Cass., SS.UU., 7 luglio 2004, n. 12505, in Foro it., 2004, I, 3038
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
67
prietà (o di altro diritto reale di godimento) all’acquirente
stesso.
Potranno pertanto aversi situazioni nelle quali i crediti del promissario acquirente di un bene immobile nei confronti del promittente
venditore “in crisi”, originati dall’intervenuto scioglimento del contratto, saranno tutelati sia in via reale (per la produzione del privilegio speciale immobiliare di cui all’art. 2775-bis c.c. in conseguenza
della trascrizione del contratto preliminare), sia in via personale
(per l’obbligo dei “costruttori” di procurare agli “acquirenti” di
immobili da costruire una fideiussione bancaria – o equivalente – a
garanzia della restituzione degli acconti e di ogni altro valore percepito come corrispettivo della progettata vendita). In questi casi
è prevedibile che il promissario acquirente preferisca ricorrere alla
più rapida tutela rappresentata dalla escussione della fideiussione
bancaria – o equivalente -, e l’intermediario escusso avrà diritto a
surrogarsi al promissario soddisfatto anche nel privilegio immobiliare
conseguito alla trascrizione del preliminare.
In conseguenza di quanto sopra, da un canto potrà prodursi un fenomeno di nuova valorizzazione dell’istituto della
trascrizione del contratto preliminare di acquisto immobiliare, che le banche potranno porre come condizione per la
prestazione della fideiussione richiesta dal costruttore in
favore del promissario acquirente. Per un altro verso, poi,
si creeranno i presupposti della prestazione da parte del
promissario acquirente della necessaria attenzione alla conservazione delle aspettative della banca al subingresso nel
privilegio speciale immobiliare conseguente alla trascrizione
del contratto preliminare, così da imporgli – per esempio –
di non lasciare decorrere invano il termine (di un anno dalla
data prevista per la conclusione del contratto definitivo)
imposto dall’art. 2645, co. 3, c.c. per la trascrizione della
domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica
dell’obbligo di concludere il contratto (definitivo), pena la
perdita di efficacia della trascrizione del preliminare (e
l’impossibilità per la banca successivamente escussa di subentrare nelle garanzie già possedute dal creditore garantito).
Prevedibilmente proprio in conseguenza della obbligazione
dell’ottenimento di una fideiussione bancaria – o equivalente – in
favore degli acquirenti di immobili da costruire, il d.lgs. n.
68
122/2005 introduce una ulteriore fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria, che ha per oggetto “i pagamenti dei premi e commissioni relativi
ai contratti di fideiussione e di assicurazione [concernenti le “vendite” di
immobili da costruire] … qualora effettuati nell’esercizio
dell’attivitàd’impresa nei termini d’uso” (art. 10, co. 2, d.lgs. n.
122/2005).
Anche in questo caso è evidentissima l’analogia della disposizione in esame con quella che ha introdotto , pressocchè
contemporaneamente, la nuova fattispecie di “esenzione”
dall’azione revocatoria ora disciplinata dall’art. 67, co. 3,
lett. a) l.f., che sottrae a revocatoria “i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”.
Si è portati a pensare che la duplice previsione sia principalmente l’effetto di un mancato coordinamento (e non è
certo l’unico!) tra il d.lgs. n. 122/2005 ed il d.-l. n. 35/2005.
Indubbiamente, in ogni caso, la previsione in materia di
“vendite immobiliari” dimostra che tra i “beni e servizi” i
cui pagamenti (se effettuati nell’esercizio dell’impresa e nei
termini d’uso – qualsiasi cosa ciò voglia dire -) non sono
revocabili, si annoverano anche “servizi” di carattere squisitamente finanziario (addirittura relativi ad un sostengo finanziario “indiretto”che prescinde da erogazioni di somme
sotto qualsiasi forma all’impresa): il chè contribuisce a privilegiare una interpretazione estensiva della formula utilizzata dall’art. 67, co. 3, lett. a), l.f., confermando l’influenza
che un testo normativo ha nei confronti dell’altro, quando
(inopinatamente) disciplinano la stessa materia o materie
fortemente affini.
32. La esenzione da revocatoria dei pagamenti dei corrispettivi per prestazioni
di lavoro (art. 67, co. 3, lett. f).
Sono esonerati dall’azione revocatoria anche i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da “dipendenti” e da
“altri collaboratori, anche non subordinati”, del fallito.
La norma si presta a letture divergenti.
Pare chiaro che una delle sue funzioni sia comune a quella, già riscontrata, di assicurare all’imprenditore la stabilità di rapporti funzionali all’esercizio dell’impresa anche in situazioni di “crisi” della
stessa: tanto che i pagamenti interessati dal “beneficio” della esenzione da revocatoria sono (soltanto) quelli che costituiscono tecnicamente il “corrispettivo” della prestazione lavorativa (e non
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
69
altri, ai quali è estranea tale funzione, pur rientrando nel trattamento economico dovuto al lavoratore – non saranno “protetti”, sotto
questo profilo, i pagamenti quali l’indennità di mancato preavviso,
che nulla hanno a che fare con la “prestazione” del lavoratore a favore dell’impresa -).
Non è chiaro – invece - se la nuova disciplina aspiri altresì ad attribuire una speciale (e ulteriore) tutela ai dipendenti ed ai collaboratori del fallito.
Per chi ritiene che la revocatoria dei crediti assistiti dal privilegio
generale mobiliare previsto per tali soggetti sia inammissibile (se
non altro per carenza di interesse, attesa la conseguenza
dell’insinuazione al passivo da parte dei convenuti in revocatoria –
in base al disposto dell’art. 71 l.f. – di somme equivalenti a quelle
restituite, da collocarsi nello stesso grado assicurato dal privilegio
originario) la “esenzione” da revocatoria non presenta un grande
significato. Tutto il contrario, invece, per chi ritenga che il carattere privilegiato del credito soddisfatto non sia di ostacolo alla revoca del pagamento che ne sia stato fatto (in omaggio alla ritenuta
teoria antindennitaria della revocatoria); e che l’insinuazione consentita al revocato ai sensi dell’art. 71 l.f. non comporti la “reviviscenza” dei privilegi e delle garanzie che assistevano il credito originario, ma riguardi il nuovo credito prodotto dalla restituzione alla
procedura delle somme revocate, da collocarsi al chirografo e reso
insinuabile, nonostante la nascita postfallimentare, proprio dalla
previsione speciale dell’art. 71.
Non è neppure chiaro se l’area dei rapporti di “collaborazione”,
protetti dalla norma in commento, coincida con quella dei rapporti
di subordinazione o para-subordinazione ai quali fa riferimento la
disciplina dell’art. 409 c.p.c; oppure si estenda a ricomprendere i
rapporti di collaborazione professionale, comunque nei limiti
(tipologici e cronologici) nei quali i crediti originati da essi sono
(anche) assistiti da privilegi di varia natura; od ancora – infine -,
possa estendersi a rapporti di “collaborazione” dai quali originano
pretese creditorie che neppure sono considerate assistite da prelazione legale (come sarebbe il caso del compenso degli amministratori – mentre per il compenso dei liquidatori vi osterebbe
comunque l’estraneità alla ratio della norma, come rivolta a favorire
la continuazione dell’esercizio dell’impresa, nonostante la situazione di “crisi” -).
70
Ad avviso di chi scrive la norma potrebbe rivelarsi portatrice di
una carica innovativa tutt’altro che trascuratabile .
La spiegazione che i primi commentatori propongono per questa
nuova fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria non è soddisfacente.
Anzitutto è necessario segnalare come la disciplina previgente della
revocatoria fallimentare, e la stessa disciplina ricavabile
dall’intervento della riforma di cui al d.-l. n. 35/2005, escludano
che un presupposto necessario di proponibilità (e di accoglibilità)
dell’azione sia costituito dall’effetto pregiudizievole (cioè dal
danno) dell’atto di disposizione impugnato. E’ infatti pacifico
che vuoi con riguardo alla disciplina della revocatoria degli atti a titolo gratuito (art. 64 l.f.), vuoi con riguardo alla disciplina degli atti
a titolo oneroso (art. 67 l.f. “vecchio” e “nuovo”), in presenza dei
presupposti rispettivamente indicati dalle norme che costituiscono
la disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, l’eventuale assenza
di effetti pregiudizievoli sul patrimonio del fallito e sulla stessa salvaguardia del principio di trattamento paritario dei creditori, non
rappresenterebbe di per sé un argomento per escludere la proponibilità (né l’accoglibilità) del mezzo. Ciò è tanto vero, che previsioni normative specifiche in materia di revocatoria fallimentare
postulano espressamente la proponibilità dell’azione nei confronti
di atti di disposizione improduttivi di pregiudizio economico al patrimonio del fallito (come accade per l’art. 38, co. 4, d.lgs. n.
385/1993 – “Testo Unico” bancario -. Sottraendo a revocatoria i
“pagamenti … di crediti fondiari”, da una parte dimostra di postulare che in mancanza di una disposizione di “esenzione” – che
provvede a dettare – sarebbero assoggettati a revocatoria anche
pagamenti di crediti che hanno comportato un corrispondente
aumento dell’attivo patrimoniale del debitore (conseguente alla
corrispondente estinzione del peso ipotecario) di equivalente importo; e dall’altra crea i presupposti per la concreta assoggettabilità
a revocatoria fallimentare di pagamenti altrettanto improduttivi di
pregiudizio patrimoniale per il fallito, come sarebbero quelli estintivi di crediti ugualmente assistiti da garanzia ipotecaria capiente sui
suoi beni (ma in ipotesi derivanti da operazioni non rientranti nella
nozione di “credito fondiario”), oppure quelli estintivi di crediti garantiti da pegno (capiente) su beni del fallito.
Non è quindi corretto spiegare la introduzione di una “esenzione” dall’azione
revocatoria fallimentare in favore dei “crediti di lavoro” con il carattere privilegiato che essi presenterebbero, e con la conseguente mancanza di effetti pregiudi-
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
71
zievoli sul patrimonio del fallito e sulla par condicio creditorum degli atti
estintivi di tali pretese creditorie, perché l’argomento non ha rilievo.
In secondo luogo occorre altresì precisare che non appare neppure
condividibile il diverso argomento, al quale pure hanno fatto cenno
taluni dei primi commentatori della riforma introdotta (in parte qua)
dal d.-l. n. 35/2005, che facendo leva sul principio dettato dall’art.
71 l.f. (ed ora ribadito – anzi, ripetuto – dal nuovo art. 70, co. 2 l.f.
– e “reiterato” dall’art. 70, co. 3, seconda parte - ), spiega la introdotta esenzione da revocatoria per i pagamenti di “crediti di lavoro” con l’asserita mancanza di interesse della procedura fallimentare a
proporre la relativa azione, stante la successiva insinuabilità nello stato
passivo del fallimento del credito estinto con i pagamenti revocati, e conseguente
collocazione sul ricavato dalla liquidazione fallimentare (mobiliare) in via
preferenziale ad ogni altro credito (“immediatamente dopo le spese di
giustizia”). E’ fortemente dubbio, infatti, che alla previsione della
insinuabilità al passivo fallimentare di una pretesa corrispondente
alle somme restituite al fallimento in conseguenza dell’esercizio vittorioso di una azione revocatoria fallimentare, possa attribuirsi il
significato di una “reviviscenza” del credito estinto dai pagamenti
poi assoggettati a revocatoria; ed è ancora più dubbio (e forse da
doversi escludere tout court) che la supposta “reviviscenza” del credito estinto da pagamenti assoggettati a revocatoria fallimentare
produca una corrispondente “reviviscenza” anche delle garanzie
convenzionali o legali dalle quali esso fosse originariamente assistito.
La previsione dell’art. 71 l.f. sembra piuttosto spiegarsi con la volontà di consentire l’insinuazione al passivo del fallimento, in via
eccezionale, ad una pretesa che non ne presenterebbe i requisiti, per
essere sorta in epoca successiva alla sentenza dichiarativa – in conseguenza
cioè del pagamento effettuato in favore della procedura a seguito
dell’accoglimento della domanda revocatoria -, e risultare quindi
priva del necessario carattere della “concorsualità”: e la ratio della
previsione parrebbe dovere essere rintracciata nella volontà di consentire la partecipazione anche del creditore convenuto in revocatoria alla ripartizione fra tutto il ceto creditorio del risultato utile
conseguito con la dichiarazione di inefficacia dell’atto revocato.
In questa prospettiva, l’idea che per il credito sorto per effetto del
pagamento alla procedura fallimentare delle somme dovute in conseguenza dell’accoglimento della domanda revocatoria, si possa invocare il riconoscimento delle garanzie (legali o volontarie) che as-
72
sistevano la pretesa estinta con i pagamenti poi revocati, pare difficilmente sostenibile.
Non è quindi corretto spiegare la introduzione di una nuova “esenzione”
dall’azione revocatoria fallimentare in favore dei “crediti di lavoro” con la
mancanza di interesse a conseguire la revocatoria di pagamenti che comporterebbe l’insinuabilità al passivo fallimentare di pretese destinate ad essere integralmente soddisfatte per effetto del “superprivilegio” generale mobiliare spettante ai “crediti di lavoro” estinti.
Una volta precisate le ragioni per le quali le spiegazioni addotte sino ad ora della innovazione apportata dall’art. 67, co. 3, lett. f) l.f.
non sono soddisfacenti, occorre individuare quale sia la ratio che
prevedibilmente sta alla base del trattamento di favore attribuiti ai
“crediti di lavoro” (e pretese assimilate). Considerazioni di carattere generale, legate alla constatazione che la maggior parte delle
nuove fattispecie di esenzione dall’azione revocatoria mira a favorire la continuazione dell’esercizio dell’attività d’impresa nonostante
la sopravvenienza di una situazione di “crisi”; e considerazioni di
carattere particolare, riferibili alla circostanza che non tutti i “crediti di
lavoro” (e assimilati) risultano favoriti, bensì solamente quelli legati
alle “prestazioni di lavoro” effettuate in favore dell’impresa; inducono
a ritenere che la ragione della esenzione sia da individuare nella volontà di favorire i tentativi di prevenzione, superamento o sistemazione delle situazioni di “crisi” d’impresa, garantendo
all’imprenditore la possibilità di continuare ad avvalersi
dell’apporto dei propri collaboratori – lavorati subordinati e non
solo -, sottraendoli alla preoccupazione ricollegabile alla possibile
soggezione a revocatoria dei corrispettivi erogati dall’impresa e ciò
anche oltre i limiti – quali essi siano – della protezione più generalmente accordata ai fornitori di “beni e [altri] servizi” (soddisfatti “nei termini
d’uso”) dalla nuova disposizione di cui all’art. 67, co. 1, lett. a) l.f.
In conseguenza della individuata ratio della fattispecie di “esenzione” concernente i “crediti di lavoro”, si potrà ritenere che l’ambito di applicazione della norma debba articolarsi sulla base delle seguenti coordinate:
a) esclusione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei crediti dei dipendenti e dei collaboratori
dell’imprenditore che non abbiano carattere strettamente retributivo (come i crediti per indennità di mancato preavviso; per il risarcimento dei danni conseguenti ad un licenziamento inefficace, nullo od annullabile, oppure
inerenti ad un “demansionamento” ingiustificato);
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
73
b) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti di “crediti di lavoro”, o assimilati, anche eccedenti i
limiti quantitativi e/o cronologici nei quali dette pretese risulterebbero assistite da privilegio (come accadrebbe per i professionisti ed i prestatori d’opera – cfr. art. 2751 bis, n.
2, c.c -; e per gli agenti – cfr. art. 2791-bis, n. 3 c.c. -);
c) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni di ogni
genere di “lavoratore subordinato”, ivi comprese le figure introdotte dalla “legge Biagi” (contratto di lavoro
intermittente; contratto di lavoro ripartito; contratto di
somministrazione lavoro; contratto di inserimento);
d) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni dei lavoratori cc.dd. “parasubordinati”, intendendo per quali
quelli riconducibili alla previsione di cui all’art. 409
c.p.c. (cioè i rapporti caratterizzati dai requisiti della
coordinazione, della continuità, e della prevalente personalità);
e) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni degli agenti e dei collaboratori a progetto;
f) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni dei “collaboratori” dell’imprenditore anche diversi dai cc.dd.
“parasubordinati”, quali i collaboratori per prestazioni
occasionali; i prestatori d’opera di cui all’art. 2222 c.c.; i
prestatori d’opera intellettuale di cui agli artt. 2229 ss.
c.c. (e ciò indipendentemente dalla circostanza che i
“servizi” resi siano o non siano stati funzionali
all’accesso dell’imprenditore ad una procedura concorsuale minore – nel qual caso concorrerebbe la ipotesi di
“esenzione” disposta dall’art. 67, co. 3, lett. g) l.f. -);
g) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni lavorative del socio di società con soci a responsabilità illimitata (ove le
modalità di esercizio della prestazione comportino il
superamento del semplice esercizio collettivo
dell’impresa sociale) e dell’amministratore di società, quan-
74
tunque si tratti di pretese alle quali viene normalmente
negato qualsiasi carattere privilegiato.
33. La revocatoria del pagamento di cambiale scaduta (art. 68 l.f.).
L’art. 68 l.f. esclude l’applicabilità dell’art. 63, co. 2, l.f. al pagamento di una cambiale (scaduta), “se il possessore di questa doveva accettarlo per non perdere l’azione cambiaria di regresso”. In tal caso l’azione revocatoria è proponibile nei confronti “dell’ultimo obbligato in via di regresso, in confronto del quale il curatore provi
che conosceva lo stato d’insolvenza del debitore obbligato, quando
ha tratto o girato la cambiale”.
Secondo la dottrina la norma in commento mira a realizzare un contemperamento tra la disciplina cambiaria
e la disciplina fallimentare, confermando per un verso
l’applicabilità dei principi generali inerenti la circolazione dei titoli di credito, e conseguendo per un altro la
revocatoria anche del pagamento effettuato dal debitore cambiario fallito.
Il destinatario dell’azione revocatoria viene poi individuato, in questa fattispecie, nel traente, per il caso di emissione di una cambiale–tratta; oppure nel primo girante, per il caso di emissione di vaglia cambiario, in quanto costituenti i soggetti che hanno intrattenuto il rapporto di carattere sostanziale – che ha dato luogo
all’emissione del titolo – con il fallito.
La riforma della legge fallimentare non ha toccato né direttamente né indirettamente la disciplina in esame.
34. Revocatoria dei pagamenti effettuati tramite intermediari bancari.
Venendo ora a considerare la esenzione introdotta dall’art. 70. co.
1, l. f. con riguardo alle attività di intermediazione dei pagamenti
poste in essere dalle banche, occorre partire dalla considerazione
preliminare – per vero alquanto banale – che se gli atti interessati
da una disciplina speciale dell’azione revocatoria sono costituiti,
nella fattispecie in questione, da pagamenti, ciò significherà che la
prestazione “contestata” dal curatore fallimentare sarà costituita
dalla estinzione di un debito.
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
75
Tutte le volte nelle quali l’imprenditore fornisca all’intermediario
(bancario) la provvista per l’effettuazione di pagamenti in favore di
terzi, in situazioni nelle quali non sussistano esposizioni del primo
verso il secondo - per esempio perché la provvista viene costituita
con un versamento su un conto bancario presentante un saldo creditore -, è probabilmente fuori di luogo parlare di “esenzione” da revocatoria dell’atto di disposizione dell’imprenditore verso la banca,
grazie al coinvolgimento del “destinatario della prestazione”: giacchè
anche a prescindere dalla innovazione apportata dall’art. 70, co. 1,
l. f. nessuna revocatoria sarebbe comunque (stata) concepibile nei
confronti della banca (depositaria); ed anche a prescindere dalla indicata innovazione il creditore soddisfatto dal pagamento (pur effettuato tramite banca) sarebbe stato soggetto a revocatoria fallimentare per quanto così ricevuti dal fallito44.
Se la norma deve avere un senso – come è necessario, alla luce dei
più elementari principi interpretativi -, si deve supporre che essa sia
destinata ad operare anzitutto nelle situazioni nelle quali
l’intermediario (bancario) abbia prevenuto l’intenzione
dell’ordinante, eseguendo senz’altro il pagamento in favore del terzo beneficiario di un atto di disposizione programmato dal solvens,
e poi trattenendo – l’intermediario - quanto versato dall’ordinante
per consentire l’esecuzione della “rimessa”; nonché nelle situazioni
44
Rimarrebbe forse da considerare l’ipotesi della proposizione di azione revocatoria nei confronti del mandato di pagamento conferito
dall’imprenditore alla banca – quale atto a titolo oneroso - , e con essa la richiesta di restituzione della provvista poi utilizzata per il pagamento in favore del terzo beneficiario del mandato. .In questa prospettiva si dovrebbe sottolineare che la previsione secondo la quale
la azione revocatoria deve essere rivolta nei confronti del “destinatario della prestazione”, implica che non siano soggetti a revocatoria,gli atti in essere dall’autore della disposizione di pagamento in
favore dell’intermediario, con i quali il primo abbia fornito la “provvista” al secondo perché venga dato corso al disposto trasferimento
– ai sensi dell’art. 1719 c.c. in materia di mandato -, laddove tali atti
avrebbero potuto essere revocati in quanto “atti a titolo oneroso”
posti in essere dal fallito durante (in ipotesi) il “periodo sospetto”.
76
nelle quali l’esposizione soddisfatta [in prima battuta] dal pagamento effettato tramite l’intermediario (bancario) si fosse formata
proprio nei rapporti tra intermediario e solvens (per precedenti utilizzi
di facilitazioni creditizie): dove la esenzione da revocatoria del
primo grazie al coinvolgimento del “destinatario della prestazione” si
spiegherebbe (e si spiega) con il carattere effimero e per ciò apparente dell’effetto solutorio del pagamento nei confronti
dell’intermediario, stante l’obbligo di questi (se ovviamente adempiuto) di trasferire un corrispondente importo al beneficiario finale.
35. Segue. Revocatoria dei pagamenti effettuati tramite intermediari bancari
e disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario.
Le considerazioni formulate da ultimo evidenziano come la disciplina della fattispecie di “esenzione“ in commento presenti (almeno apparentemente) delle possibili aree di sovrapposizione con la
disciplina della “esenzione” delle rimesse su conto corrente bancario: se non altro perché le disposizioni di pagamenti in favore di
terzi effettuate tramite intermediari (specializzati) bancari si attuano per l’appunto attraverso operazioni contabili (per lo più) registrate nel rapporto di conto corrente.
Sotto questo profilo la previsione della sottrazione all’azione revocatoria dei pagamenti ricevuti dalla banca, in quanto aventi ad oggetto somme destinate ad essere trasferite a favore di terzi
nell’ambito della attività di intermediazione dei pagamenti posta istituzionalmente in essere dall’azienda di credito, corre il rischio di
risultare – al postutto - di scarsa utilità. In entrambi i generi di situazioni sopra delineati, infatti, la rapidità della successione
dell’accredito della rimessa sul conto (in funzione di “provvista”) e
dell’addebito per l’effettuazione del pagamento al terzo beneficiario; o della successione tra la “scopertura” prodotta
dall’anticipazione del pagamento effettuata dalla banca e la successiva reintegrazione ad opera del solvens, fanno sì che le rimesse pur
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
77
produttive di una riduzione dell’esposizione bancaria sarebbero sottratte a revocatoria già solo per il carattere non durevole dell’effetto solutorio.
La previsione dell’art. 70, co. 1, l. f., allora, può mantenere un significato – per gli intermediari bancari – laddove se ne consideri la
possibile applicazione all’ipotesi della effettuazione di una rimessa
su conto corrente bancario, presentante – la rimessa – le caratteristiche per essere assoggettata, di per sé, a revocatoria (per la durevolezza della riduzione dell’esposizione, prodotta dall’accredito)45 ,
ma collegata all’esecuzione di una disposizione di pagamento a favore di un terzo, capace di deviare l’iniziativa di recpero revocatorio dal soggetto intermediario al soggetto beneficiario finale della
prestazione.
36. Segue. Considerazioni conclusive in materia di esenzione dalla revocatoria
dei pagamenti effettuati tramite intermediari specializzati.
La disciplina della “esenzione” da revocatoria dei pagamenti conseguiti nell’ambito di operazioni funzionali ad indirizzare la prestazione del solvens in favore di terzi beneficiari non si applica dunque
a tutti; né riguarda ogni operazione di “interposizione” finanziaria.
Essa si applica solo ad una serie di soggetti, per i quali
l’interposizione nei pagamenti rappresenta l’esercizio di una attività
economica (insieme ad altre) organizzata in forma di impresa .
Non si applicherebbe – invece – all’operazione di intermediazione
finanziaria posta in essere da un soggetto che non svolgesse professionalmente tale attività (come potrebbe essere l’ipotesi di pagamenti effettuati tramite una Agenzia Immobiliare nel contesto
dell’attività tipica di tale genere di impresa).
Per converso la disciplina in discussione si applica, anche con riguardo ai soggetti da essa contemplati”, alle sole operazioni rien-
45
Si pensi all’ipotesi della rimessa effettuata nell’imminenza del fallimento, e quindi definitivamente inutilizzata dal correntista fallito
78
tranti nell’attività “tipica” per la quale ciascuno di essi viene in rilievo, in relazione alla ratio che si è ritenuta sottesa alla corrispondente disciplina di favore.
37. La revocatoria degli atti estintiti di rapporti continuativi o reiterati (art.
70, co. 3, l.f.).
L’art. 70, co. 3, l.fall. novellato afferma che qualora l’azione revocatoria abbia ad oggetto ”atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati”, la somma che il convenuto può essere condannato a pagare è
rappresentata dalla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto
dalle sue pretese nel corso del “periodo sospetto” e l’ammontare
finale delle stesse alla data della sentenza dichiarativa di fallimento.
La norma sembra recepire l’orientamento dottrinale, talora seguito
anche in giurisprudenza, secondo il quale, in materia di revocatoria
delle rimesse in conto corrente, le rimesse aventi carattere solutorio (in
quanto comportanti la riduzione o l’estinzione di un credito liquido
od esigibile della banca verso il correntista – quindi tipicamente
quando incidenti su un saldo debitore “scoperto” o “sconfinato” -)
non avrebbero dovuto essere revocate – in presenza del necessario
presupposto soggettivo, tutte quante, facendone una sommatoria
indiscriminata. Tali rimesse avrebbero dovuto essere revocate, invece, solo se, e nei limiti in cui, nell’ambito del periodo anteriore al
fallimento per il quale fosse stata provata la conoscenza dello stato
di insolvenza del correntista da parte dell’azienda di credito,
l’ammontare massimo della esposizione registrata dal conto corrente si fosse azzerato o ridotto prima della sentenza dichiarativa di
fallimento (producendo così il “rientro” totale o parziale della banca, in favore della quale sarebbero stati complessivamente effettuati, nel corso del “periodo sospetto”, più versamenti che prelevamenti, in quanto non l’intero importo complessivo delle rimesse effettuate dal correntista sarebbe stato utilizzato dalla banca per effettuare
pagamenti od altre operazioni in favore di terzi, ma in parte sarebbe stato complessivamente trattenuto a riduzione dell’esposizione
raggiunta dal conto).
La disposizione che recepisce la teoria c.d. della revocabilità del
(pagamento nei limiti del rientro dal) “massimo scoperto”, pare inevitabilmente applicabile proprio e per l’appunto anche all’azione
revocatoria rivolta nei confronti delle rimesse sul conto corrente
bancario, nonostante la concomitante introduzione di una disposizione di “esenzione” concernente esattamente le operazioni della
L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI
79
specie (art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. novellato), con la quale deve essere coordinata (supra).
38. Segue. “Esenzione” da revocatoria degli atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati e forme tecniche di affidamento bancario diverse
dall’apertura di credito in conto corrente.
Mentre nel passato la teoria c.d. della revocabilità del (pagamento
nei limiti del rientro dal) “massimo scoperto” era stata enunciata
dalla dottrina e dalla giurisprudenza con esclusivo riferimento
all’attività delle banche, e con riguardo – quanto a queste ultime –
alle sole operazioni di rimesse effettuate sul conto corrente bancario intrattenuto dall’imprenditore poi fallito; la norma che recepisce tale elaborazione interpretativa è espressa in termini generali,
così da potere trovare applicazione sia nei confronti di soggetti diversi dalle banche; sia, quanto alle banche, con riguardo ad operazioni bancarie anche diverse dalle rimesse su conto corrente.
Sotto il primo profilo la disposizione che circoscrive la revocabilità
degli atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati ad una somma
non superiore alla differenza tra l’ammontare massimo delle pretese del creditore ed il credito residuo finale dello stesso, pare dovere
trovare applicazione a tutti i rapporti di fornitura nei quali si succedano una pluralità di vendite o di prestazione di servizi regolati
da una pluralità di pagamenti, che in tal modo non rischiano di essere revocati cumulativamente, ma nei limiti dell’eventuale riduzione del credito commerciale concesso dal fornitore al cliente fallito nel “periodo sospetto”.
Sotto il secondo profilo l’art. 70, co. 3, l.fall. novellato può trovare
applicazione nelle ipotesi di concessione da parte della banca di linee di credito ad utilizzo ripetuto (quali le aperture di credito per anticipazioni in valuta; le aperture di credito per la prestazione di crediti
di firma; gli stessi “castelletti” – aperture di credito per anticipo
s.b.f. di crediti commerciali -), nelle quali ad una pluralità di “finanziamenti” succedano una pluralità di estinzioni, senza che la banca
assuma una posizione di rischio complessivo pari alla somma di
tutti i “finanziamenti” concessi nel corso del “periodo sospetto”,
rimanendo se mai esposta al rischio della mancata restituzione del
finanziamento di ammontare più elevato – verificandosi la quale
l’apertura di credito non sarebbe stata utilizzabile per la erogazione
di altri “finanziamenti” -: rischio che rappresenta l’importo massi-
80
mo assoggettabile a revocatoria, nell’ipotesi in cui la banca risulti
“rientrata”
delle
proprie
esposizioni
nei
confronti
dell’imprenditore affidato, quando questi viene assoggettato al fallimento.
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