3 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI (Prof. Sido Bonfatti) Parte Prima 1. Premessa. Effetti diretti ed indiretti della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare sul soddisfacimento dei creditori del fallito e sulle soluzioni delle crisi d’impresa. Gli articoli da 64 a 71 della legge fallimentare disciplinano una serie di fattispecie, intervenendo le quali determinati atti posti in essere dal fallito (o anche da terzi, ma con effetti sul patrimonio del fallito) possono essere dichiarati, o resi, inefficaci nei confronti della generalità dei creditori concorrenti nel fallimento, con la duplice conseguenza di porre nel nulla l’attribuzione patrimoniale conseguita dal soggetto convenuto in revocatoria; e di produrre per questa via una serie di corrispondenti “implementazioni” del patrimonio del fallito, e per esso della percentuale di recuperabilità dei crediti ammessi al passivo. Queste fattispecie non hanno identica natura, e tanto meno identica disciplina: ma sono riassunte (con particolare riguardo a quelle, largamente più importanti, previste dagli articoli da 64 a 67, alle quali si applica anche l’art. 71) nella espressione sintetica azione revocatoria fallimentare. E di tale convenzione terminologica sarà opportuno prendere atto, considerata la unanimità dei consensi che tale semplificazione espressiva riceve. E’ importante considerare sin d’ora come la disciplina della “azione revocatoria fallimentare” rivesta carattere centrale non solamente per la rilevanza degli interessi economici che possono investire le fattispecie dalle quali può derivare, a determinate condizioni, la ricordata inefficacia di atti di disposizione del fallito (o su beni rientranti nel patrimonio del fallito). Essa ha carattere centrale anche indirettamente, per come la sua considerazione è in grado di condizionare i comportamenti dei soggetti (le banche; i fornitori; i clienti; i potenziali partners industriali o finanziari), con i quali l’imprenditore allaccia quotidianamente rapporti inerenti l’esercizio dell’impresa. Una disciplina più o meno severa dell’azione revocatoria fallimentare condiziona fortemente la propensione degli interlocutori dell’imprenditore ad intraprendere, o mantenere, rapporti commerciali con lo stesso, ed a sostenere oppure a prendere le distanze dalle iniziative rivolte a su- 4 perare od a comporre le situazioni di “crisi” nelle quali l’imprenditore si trovi a versare. Il “condizionamento” al quale alludiamo può manifestarsi in una pluralità di situazioni e determinare risultati pratici che possono ricevere valutazioni positive o negative, in base alla importanza attribuita ai diversi e divergenti interessi in gioco. Così, se prendiamo in esame l’ipotesi nella quale l’imprenditore in stato di insolvenza proponga ai creditori una procedura di concordato preventivo con cessione dei beni (art. 160 l.f.), anche la valutazione più pessimistica sugli effettivi risultati della liquidazione potrà indurre determinati creditori (per esempio, e principalmente: le banche) a preferire questa pur deludente soluzione, che esclude comunque il pericolo di potere subire azioni revocatorie fallimentari (giacchè le stesse non sono proponibili se non nell’ambito del fallimento); piuttosto che rischiare la dichiarazione di fallimento, che a prescindere da ogni altro profilo apre la via alle “azioni di recupero” del curatore fallimentare sorrette dall’esercitabilità dell’azione revocatoria fallimentare. E ben si comprende: a) come tale propensione a sostenere la prima soluzione sia tanto più elevata, quanto più ampia sia la portata delle azioni revocatorie fallimentari che risulterebbero proponibili nell’ambito del fallimento; b) come lo “spauracchio” delle azioni revocatorie fallimentari possa essere agitato con eguale efficacia (come è quotidianamente nelle situazioni di “crisi d’impresa”) anche al fine di imporre ai creditori delle soluzioni concordatizie stragiudiziali, che per quanto poco brillanti evidenziano tuttavia il pregio di evitare (o di ritardare) il fallimento, in tal modo escludendo (o limitando) i costi aggiuntivi che potrebbero derivare ai creditori interessati dalla dichiarazione di inefficacia revocatoria di atti posti in essere precedentemente con l’imprenditore “in crisi”. Nello stesso modo, anche l’imprenditore che affermi di versare in una situazione di difficoltà di adempiere soltanto “temporanea”, avrà buon gioco a proporre ai creditori una procedura di amministrazione controllata (art. 187 l.f.), che per quanto illusoria possa essere, comunque non consente (per intanto) l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari nei confronti degli atti compiuti in precedenza: perchè ciò che i singoli creditori possono rischiare di dovere restituire all’eventuale fallimento a seguito di azioni revocatorie fallimentari, può largamente superare l’entità dei crediti attualmente vantati nei confronti dell’imprenditore, la rinuncia (formale o sostanziale) ai quali può rivelarsi come il minore dei possibili mali. L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 5 A tale proposito si deve anche considerare come il “condizionamento” di cui abbiamo discorso può produrre effetti “perversi” – e pure tale fenomeno è largamente ricorrente - anche in direzione opposta, e cioè in senso sfavorevole per l’imprenditore: ed è questa la manifestazione del fenomeno sulla quale è necessario soffermare maggiormente l’attenzione. A maggiore severità ed a maggiore ambito di applicazione dell’azione revocatoria fallimentare corrisponde un proporzionale maggior timore della sopravvenienza del fallimento del proprio interlocutore. Bene si comprende, pertanto, come nelle situazioni di “crisi”, anche apparentemente soltanto contingenti, superabili, reversibili, un formidabile deterrente a sostenere i progetti di ripresa dell’impresa possa essere costituito, per i terzi interessati, dalla gravosità delle conseguenze revocatorie di un eventuale fallimento sugli atti posti in essere dall’imprenditore e con l’imprenditore nel perseguire tale tentativo. L’importanza dell’istituto spiega la grande quantità e l’elevato livello degli studi ad esso dedicati nel corso del tempo; la vivacità del dibattito che ancora oggi anima le sedi scientifiche nelle quali si discute di problemi attuali della legge fallimentare; l’interesse con il quale sono stati seguiti i Progetti di riforma, che si sono succeduti l’uno all’altro, con specifico riguardo agli interventi sulle disposizioni concernenti l’azione revocatoria fallimentare; e, infine, la circostanza che l’unica significativa riforma del diritto fallimentare positivo (d.-l. n. 35/2005, convertito nella legge n. 80/2005) riguardi per larga parte proprio il ridimensionamento, quantitativo e qualitativo, della portata dell’azione revocatoria fallimentare – come vedremo in dettaglio -. Gli studiosi hanno proposto una certa varietà di teorie generali, tese ad individuare la ratio, la “filosofia” della disciplina dell’azione revocatoria contenuta nella legge fallimentare del 1942, al fine sia di offrire i criteri interpretativi atti ad individuare le corrette soluzioni alle questioni che non trovino nel diritto positivo una immediata risposta; sia al fine di comprendere se la “filosofia” dell’istituto fosse ancora attuale, così da fare meritare alla sua disciplina una sostanziale conferma; oppure se sessant’anni di evoluzione della società e dell’economia del nostro Paese avessero reso inattuale quel modo di regolare i rapporti tra l’imprenditore ed i suoi principali interlocutori, nell’occasione della “crisi” dell’impresa, ed imponessero conseguentemente l’introduzione di nuove “regole del gioco” - sotto il profilo della possibile soggezione o meno degli atti posti 6 in essere da o con un imprenditore alla “rivisitazione” dell’azione revocatoria fallimentare, che elimina, per così dire, gli effetti giuridici che quegli atti si erano ripromessi di produrre -. De jure condendo, un approccio all’istituto che privilegi la considerazione di quale debba essere la funzione dell’azione revocatoria fallimentare, e da ciò prenda le mosse per costruirne la disciplina di diritto positivo, sarebbe stato, ed è tuttora, certamente corretto. De jure condito, prendere le mosse dalla affermazione della funzione dell’azione revocatoria fallimentare avrebbe il significato, qui più che in altri luoghi, di una petizione di principio, tante e tanto autorevoli essendo le ricostruzioni che la dottrina ha proposto dell’istituto. Per tale ragione, pare preferibile privilegiare la considerazione dei risultati ricavabili, anzitutto, da un esame per quanto possibile oggettivo e “logico” delle determinazioni di diritto positivo: valutando solo successivamente se e quali indicazioni sistematiche esse consentano di proporre. In questa prospettiva, le mosse devono essere prese dalla considerazione della disciplina di diritto positivo riservata all’azione revocatoria ordinaria: sia perché secondo autorevoli opinioni l’azione revocatoria fallimentare e l’azione revocatoria ordinaria avrebbero essenzialmente una identica natura; sia perché l’azione revocatoria ordinaria è ricompresa nella disciplina riassuntivamente denominata della revocatoria fallimentare, laddove si afferma (art 66) che “il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile” (relative all’azione revocatoria ordinaria); sia, infine, perché a sua volta la disciplina dell’azione revocatoria ordinaria fa salve (art 2904 c.c.) “le disposizioni sull’azione revocatoria in materia fallimentare”, creando un indiscutibile collegamento tra i due istituti. Ciò che vale per la individuazione della ratio della disciplina dell’azione revocatoria secondo le norme previgenti, vale anche per la soluzione del corrispondente problema interpretativo sulla “natura” dell’azione revocatoria come ricavabile dalle disposizioni introdotte dalla “Riforma” di cui al d.-l. n. 35/2005. Né si tratta solamente di un problema di metodo, quanto piuttosto anche del prodotto della constatazione che - come vedremo – la nuova disciplina non detta principi generali capaci di gettare luce di per sé sulla funzione che essa intenda attribuire alla “nuova” revocatoria L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 7 2. Segue. Il ruolo della disciplina dell’azione revocatoria alla luce della riforma conseguente all’approvazione del decreto-legge 15 marzo 2005, n. 35. Il d.-l. 15 marzo 2005, n. 35 – poi convertito nella legge n. 80/2005 – ha mirato principalmente a dettare una nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, sia incidendo profondamente sulla portata del mezzo, quando venga rivolgo nei confronti degli atti a titolo oneroso (“anomali” oppure normali) posti in essere dal debitore (o sul suo patrimonio); sia introducendo nuove ed importantissime fattispecie di “esenzione” dall’applicabilità dell’azione revocatoria. Si è peraltro già ricordato come la legge di riforma non autorizzi a sovvertire l’importanza tradizionalmente riservata allo studio dell’istituto, per due principali ragioni: a) la nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare non è applicabile né alle cause in corso; nè alle cause che saranno radicate anche nel futuro, ma nell’ambito di procedure concorsuali “iniziate” prima dell’entrata in vigore del decreto-legge poi convertito (quindi prima del 17 marzo 2005) – supra, Introduzione -; b) la nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare non altera la struttura della disciplina originaria, dal momento che: i) lascia totalmente immutati gli artt. 64, 65 e 66 l.f.; ii) lascia sostanzialmente immutata anche l’impostazione ed il contenuto dell’art. 67 l.f., salvo il dimezzamento dei “periodi sospetti” variamente previsti per le tipologie di atti presi in considerazione – ed una precisazione in materia di revocatoria delle garanzie sulle quali si avrà modo di ritornare -; iii) introduce soltanto – in aggiunta al ricordato dimezzamento dei “periodi sospetti” – nuove fattispecie di “esenzione” dalla revocatoria, legate o alla volontà di ridimensionarne la portata assunta in taluni orientamenti giurisprudenziali; o alla volontà di favorire l’accesso e la esecuzione delle procedure di composizione negoziale delle “crisi” d’impresa; o alla volontà di riservare un trattamento di favore a talune categorie di creditori considerate particolarmente meritevoli di tutela (i dipendenti; i “collaboratori” dell’imprenditore; gli acquirenti di immobili ad uso abitativo da destinarsi ad abitazione principale propria o di stretti parenti). 8 Il “ridimensionamento” dell’istituto dell’azione revocatoria, che viene naturale ricavare dalle ricordate caratteristiche delle nuove disposizioni in materia, potrà non presentare, di fatto, le dimensioni economiche e per così dire giudiziarie che si potrebbe essere portati ad attendersi, alla luce delle considerazioni che: a) l’impatto del dimezzamento dei “periodi sospetti” potrà in parte essere ridotto da una accelerazione delle istruttorie prefallimentari: in tal modo infatti un certo numero di atti che hanno prodotto effetti pregiudizievoli sul patrimonio del debitore potrà comunque rimanere soggetto all’azione revocatoria; b) la disciplina delle nuove fattispecie di “esenzione” risulta a tal punto costellata di imprecisioni, lacune, contraddizioni, da fare ipotizzare un inevitabile incremento, piuttosto che un ridimensionamento, del “contenzioso” giudiziale in materia. 3. Segue. Prescrizione e decadenza dalla proposizione dell’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) nelle prospettive di riforma. Come si è detto, per gli atti posti in essere anteriormente al sorgere del credito che ne risulterà pregiudicato, la prescrizione dell’azione revocatoria ordinaria inizia a decorrere – essendo ancorata al compimento dell’atto revocando - addirittura prima che venga ad esistenza colui (il futuro creditore) che può (rectius: potrà) esercitare il diritto soggetto a prescrizione – in quanto l’atto di disposizione fosse preordinato a pregiudicarne le ragioni recuperatorie originate dalla successiva concessione di credito al debitore -. In qualche modo, la prescrizione comincia a decorrere quando l’azione revocatoria, sul cui esercizio è destinata ad incidere, non è ancora nata. Un fenomeno non dissimile è destinato a prodursi con la prevedibile riforma dei presupposti di esercitabilità dell’azione revocatoria fallimentare. Lo “Schema di decreto legislativo recante “la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”, approvato dal Governo in esecuzione della delega allo stesso conferita dal Parlamento con la legge 14 maggio 2005, n. 80, nel testo trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari – per il rilascio del previsto “parere” - nel mese di ottobre 2005, registra l’introduzione [art. 55 dello schema di decreto legislativo] di un nuovo articolo 69-bis della (nuova) legge fallimentare, la cui Ru- L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 9 brica è intitolata “ Decadenza dall’azione”, e secondo il quale “Le azioni revocatorie disciplinate nella presente Sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell’atto”. La nuova disposizione apporterebbe pertanto alla disciplina dell’azione revocatoria fallimentare le seguenti modificazioni: a) il termine di proponibilità sarebbe espressamente qualificato come termie di decadenza, quindi insuscettibile di qualsivoglia interruzione o sospensione; b) il termine decadenziale avrebbe durata triennale rispetto alla data del fallimento – dunque rispetto alla data di esercitabilità dell’azione da parte del curatore fallimentare - ; c) il termine decadenziale avrebbe (per di più) durata quinquennale rispetto alla data di compimento dell’atto revocando – dunque rispetto ad una data alla quale l’azione revocatoria fallimentare “non è ancora nata”, non essendo ancora intervenuto l’indispensabile presupposto del fallimento dell’autore dell’atto di disposizione (o del titolare del patrimonio interessato dall’atto di disposizione) 1. Stante la dizione della (ipotizzata) disposizione, che allude alle azioni revocatorie “disciplinate nella presente Sezione”, la nuova disciplina non sarebbe applicabile all’azione revocatoria ordinaria (esercitata fuori dal fallimento): il chè non potrà non alimentare le discussioni sulla individuazione della effettiva natura del regime dettato dall’art. 2903 cod. civ, per la proponibilità di tale azione, che pur facendo esplicito riferimento alla prescrizione di essa, sarebbe già a sua volta espressivo – piuttosto - di un regime di decadenza 2 4. La revocatoria fallimentare degli atti a titolo gratuito alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005). La revocatoria degli atti costitutivi di garanzia. 1 Per una prima critica a tale prospettiva v. M. MONTANARI, La riduzione del termine di decadenza per l’esercizio della revocatoria, in Fallimento, 2005, 1029 2 V. in argomento C. CONSOLO – M. MONTANARI, La revocatoria ordinaria nel fallimento e le questioni di prescrizione (recte decadenza), in Corr. giur., 2005, 404. 10 Il decreto legge 15 marzo 2005, n. 35 ha modificato il testo del secondo comma dell’art. 67 l. fall., non solo – come si vedrà – riducendo da un anno a sei mesi il c.d. “periodo sospetto”: ma anche precisando che la disciplina revocatoria ivi disposta concerne (tra gli altri) “gli atti .. costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati..”: e l’innovazione è rappresentata dalla precisazione – prima assente - che la disposizione si applica anche agli atti costitutivi di diritti di prelazione posti in essere anche ai fini di garantire l’adempimento di debiti altrui. Per le azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure concorsuali “iniziate” successivamente al 17 marzo 2005, pertanto, si dovrà escludere l’assoggettabilità delle garanzie (reali) prestate per debiti altrui alla disciplina (degli atti a titolo gratuito, ergo) dell’art. 64 l.f. La nuova norma, come detto, disciplina, insieme agli “atti a titolo oneroso”, quelli “costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati …”. A rigore, pertanto, la innovazione, che sottrae le garanzie contestuali alla possibile applicazione dell’art. 64 l.fall. anche se prestate nell’interesse di terzi, concerne le sole garanzie reali (“atti costitutivi di un diritto di prelazione…”): e non riguarderebbe – invece – le garanzie personali (tipicamente, la fideiussione, nell’ipotesi – dunque – di fallimento del fideiussore). Tale conclusione è tuttavia del tutto irrazionale, e non merita di essere condivisa. Il nuovo art. 67, co. 2 l.f. deve considerarsi applicabile, a nostro avviso, a tutti gli atti costitutivi di garanzie, anche non “reali”, ivi comprendendosi sia le figure di “garanzia” più affini alle garanzie reali (come la cessione del credito, quando posta in essere con funzione di garanzia – e cfr. in argomento, in particolare, la nuova disciplina delle cc.dd. garanzie finanziarie, che equipara la cessione del credito al pegno di credito); sia le figure di garanzia più strettamente personali, quali la fideiussione. 5. Segue. La revocatoria dei pagamenti di debiti altrui. Alla stessa stregua di quel che si è già visto per gli atti costitutivi di garanzia nell’interesse di terzi, anche i pagamenti di debiti altrui sono normalmente assoggettati a revocatoria biennale ai sensi dell’art. 64 l.f. Sono questi degli atti che, ancora una volta, se considerati dal punto di vista dello accipiens (di norma, ancora: la banca) L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 11 sono caratterizzati da elementi di onerosità (il pagamento estingue il credito vantato verso il debitore); mentre se vengono considerati dal punto di vista del solvens, poi fallito, rappresentano una disposizione patrimoniale senza corrispettivo diretto (giacchè l’effetto positivo connesso all’estinzione dell’obbligazione soddisfatta si riflette sul patrimonio di chi era l’effettivo debitore del debito pagato dal fallito). Anche in questa situazione si ripropone la contrapposizione incontrata in materia di prestazione di garanzie per debiti altrui: ed anche in questa ipotesi sarebbe preferibile considerare il fenomeno dal punto di vista dell’accipiens, che ricevendo il pagamento di un debito potrà essere assoggettato alla sola disciplina della revocatoria degli atti estintivi di una obbligazione, come qualsiasi creditore soddisfatto direttamente dal debitore (se mai venendo in considerazione la possibile proposizione dell’azione revocatoria ex art. 64 l.f. nei confronti del debitore liberato dal pagamento effettuato dal fallito). Non è peraltro suscettibile di essere ricompreso nella categoria di coloro che pagano “debiti altrui” chi adempia una obbligazione che è anche propria, come il coobbligato solidale o il fideiussore. In tal caso il pagamento rimarrà bensì un atto revocabile, ma sui presupposti ed alle condizioni previsti dalla disciplina della revocatoria dei pagamenti di debiti propri (secondo i casi, art. 67, co. 1, n. 2 l.f., oppure art. 67, co. 2). La riforma della legge fallimentare di cui al d.l. n. 35/2005 non incide, come detto, sulla disciplina dell’art. 64 l.f.: né introduce disposizioni idonee ad aggiungere elementi di riflessione a proposito del dibattito sul regime revocatorio da riservarsi al pagamento dei debiti altrui, che dovrebbe dunque rimanere ancorato agli orientamenti giurisprudenziali già ricordati. In fatto non sarà agevole spiegare, in ipotesi, perché l’atto costitutivo di garanzia per debiti altrui (contestuale alla concessione del credito) sia oggi normativamente definito atto a titolo oneroso anche ai fini dell’assoggettamento a revocatoria fallimentare; mentre il pagamento del debito altrui dovrebbe ancora potere essere qualificabile come atto a titolo gratuito. 6. Segue. La disciplina revocatoria dei pagamenti anticipati alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005). 12 La riforma della legge fallimentare di cui al d.l. n. 35/2005 non incide sulla disciplina dettata dall’art. 65 l.f. Essa continuerà pertanto ad essere interessata dal dibattito sviluppatosi a proposito della disciplina previgente. Una questione interpretativa di particolare rilievo è quella costituita dal dubbio se l’art. 65 l.f. si applichi sempre e comunque, quando la scadenza originaria del credito soddisfatto si sarebbe collocata dopo il fallimento (o avrebbe coinciso con la data della sentenza dichiarativa), anche se al momento del pagamento il credito era venuto a scadenza per fatto indipendente dalla volontà del debitore – a causa della decadenza dal beneficio del termine, invocata dal creditore ricorrendo i presupposti previsti dall’art. 1186 c.c.; oppure a causa della risoluzione del contratto (per esempio, di finanziamento bancario), provocata dal creditore per inadempimento del debitore (per esempio per mancato pagamento di una o più rate del finanziamento) -; oppure se nelle ipotesi nelle quali il debito, pur originariamente caratterizzato da una scadenza protratta, sia legittimamente divenuto esigibile prima della scadenza prevista, la disciplina applicabile al pagamento del debitore debba essere quella prevista per l’adempimento di obbligazioni liquide ed esigibili (quindi, secondo il carattere normale o anormale del mezzo di pagamento, l’art. 67, co. 2, l.f., oppure l’art. 67, co. 1, n. 2). La giurisprudenza mostra di preferire la prima soluzione: ma un parallelo con la disciplina dell’art. 64 l.f. – giustificato dalla identicità del “regime revocatorio” delle due fattispecie – induce a preferire la seconda. Mentre la condizione di chi benefici, per pura sorte, del pagamento anticipato di un credito che altrimenti lo avrebbe sottoposto al concorso fallimentare (perché scadente dopo il fallimento o il giorno del fallimento), può essere assimilata alla condizione di chi benefici di un atto gratuito; la condizione invece del creditore che tutelando legittimamente le sue ragioni provochi la scadenza del credito e ne consegua il pagamento, dovrebbe essere assimilata a quella di ogni altro creditore soddisfatto di una obbligazione liquida ed esigibile, e quindi essere interessato, nei termini descritti, dalla disciplina dell’art. 67, co. 2, l.f. oppure a quella dell’art. 67, co. 1, n. 2, secondo il carattere normale od anormale dei mezzi di pagamenti utilizzati. L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 13 7. La revocatoria fallimentare degli “atti anormali” alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005). La nuova legge fallimentare (d.l. n. 35/2005) ha apportato alla disciplina degli atti “anomali” le seguenti modificazioni: a) il dimezzamento dei “periodi sospetti” (divenuti 12 mesi per i nn. 1, 2 e 3 dell’art. 67, co. 1; e 6 mesi per il n. 4); b) la precisazione, a proposito degli “atti sproporzionati”, che l’atto caratterizzato da una “eccessiva onerosità” a danno del fallito sarà assoggettabile alla revocatoria prevista dalla norma in commento in tanto in quanto la sproporzione denunciata oltrepassi di un quarto ciò che è stato dato o promesso al fallito stesso. La norma recepisce, in sostanza, quello che si era andato formando come un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato in materia di individuazione dei criteri atti a qualificare come “notevole” la sproporzione dell’atto in danno del fallito. 8. La disciplina dell’azione revocatoria degli atti “normali” alla luce della riforma della legge fallimentare (d.-l. n. 35/2005). Per ciò che concerne gli atti che abbiamo definito “normali”, il d.-l. n. 35/2005 ha apportato alla loro disciplina revocatoria le seguenti modificazioni (applicabili, come più volte ricordato, alle sole controversie originate da procedure concorsuali “iniziate” dopo il 17 marzo 2005): a) il dimezzamento del “periodo sospetto” (da un anno a 6 mesi); b) la sottoposizione alla disciplina della revocatoria degli atti “normali” anche delle garanzie costituite per debiti di terzi, se contestuali al credito agli stessi concesso (supra, Sezione I, n. 5). Con tale previsione si conferisce rilievo normativo all’orientamento giurisprudenziale già favorevole a considerare applicabile anche all’azione revocatoria fallimentare la corrispondente regola dettata, per l’azione revocatoria ordinaria, dall’art. 2901, co. 2, c.c. Ciò indurrà a riconsiderare, come detto, anche la sorte che deve attribuirsi ai cc.dd. “pagamenti dei debiti altrui”, anch’essi suscettibili di essere considerati come 14 atti “normali” – e quindi assoggettabili alla sola azione revocatoria di cui all’art. 67, co. 2, l.fall. -, se considerati dal punto di vista degli effetti sul patrimonio dello accipiens (che si arricchisce del pagamento ricevuto, ma si impoverisce del credito estinto con il pagamento), piuttosto che dal punto di vista degli effetti sul patrimonio del solvens fallito – per il quale all’impoverimento provocato dal pagamento non corrisponde, in linea di principio, alcun arricchimento (che se mai si verifica nel patrimonio del debitore, in conseguenza dell’estinzione del credito soddisfatto dal solvens) -. 9. Segue. Revocatoria fallimentare e “patrimoni destinati” nella prospettiva della riforma della legge fallimentare. La recente riforma del diritto societario come è noto, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dei “patrimoni destinati”, prevedendo (artt. 2447-bis ss. Cod. civ.) che la società per azioni, con deliberazione presa (salvo diversa disposizione dello statuto) dal consiglio di amministrazione o di gestione, possa costituire “uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico affare”, per un valore complessivamente non superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società. Tale istituto ha posto sin dalla sua introduzione una serie di interrogativi concernenti la disciplina fallimentare da riservargli, ivi compresa la stessa configurabilità dell’assoggettabilità a fallimento del patrimonio destinato (incapiente) in quanto tale, a prescindere cioè dall’assoggettamento a fallimento della società che l’avesse costituito3. Per ciò che concerne la disciplina dell’azione revocatoIn argomento v. S. BONFATTI – P.F. CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, II^ ristampa (con Appendice di aggiornamento), Padova, 2005. Per ciò che concerne questo profilo , lo “Schema di decreto legislativo recante “la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”, approvato dal Governo in esecuzione della delega allo stesso conferita dal Parlamento con la legge 14 maggio 2005, n. 80, nel testo trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari – per il rilascio del previsto “parere” - nel mese di ottobre 2005, registra l’introduzione [artt. 136, 137 e 138 dello schema di decreto legislativo] di 3 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 15 ria fallimentare, in particolare, si è posto il problema della revocabilità degli atti compiuti nell’esercizio dell’affare per il cui compimento fosse stato costituito un “patrimonio destinato”, e dei presupposti relativi. Il d-l. di riforma n. 35/2005 nulla dispone in argomento. Al contrario, lo “Schema di decreto legislativo recante “la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”, approvato dal Governo in esecuzione della delega allo stesso conferita dal Parlamento con la legge 14 maggio 2005, n. 80, nel testo trasmesso alle competenti Commissioni parlamentari – per il rilascio del previsto “parere” - nel mese di ottobre 2005, registra l’introduzione [art. 53 dello schema di decreto legislativo] di un nuovo articolo 67-bis della (nuova) legge fallimentare, secondo il quale “Gli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall’articolo 2447-bis, primo comma, lettera a) del codice civile, sono revocabili quando pregiudicano il patrimonio della società. Il presupposto soggettivo dell’azione è costituito dalla conoscenza dello stato di insolvenza della società”. La bozza di Relazione allo schema di decreto legislativo in commento è meramente descrittiva, e non coglie nepdue nuovi articoli 137 e 138 della (nuova) legge fallimentare, secondo i quali : a) in caso di dichiarazione di fallimento della società, l’amministrazione del patrimonio destinato è attribuita al curatore fallimentare; b) il curatore provvede alla liquidazione del patrimonio destinato, ove possibile, nel suo complesso: in caso contrario provvede alla sua liquidazione secondo le regole della liquidazione della società, in quanto compatibili; c) il corrispettivo della cessione del patrimonio destinato (al netto dei debiti dello stessi), oppure il residuo netto attivo della sua liquidazione, sono acquisiti all’attivo fallimentare; d) se a seguito del fallimento della società o nel corso della gestione il curatore rileva che il patrimonio destinato è incapiente, provvede alla sua liquidazione secondo le regole della liquidazione della società, in quanto compatibili; e) i creditori particolari del patrimonio destinato possono insinuarsi al passivo fallimentare della società [solo] nelle ipotesi di responsabilità sussidiaria o illimitata di questa previste dal codice civile; f) se risultano violate le regole della “separatezza” tra il patrimonio destinato ed il restante patrimonio sociale, la conseguenza è costituita [solo] dalla promuovibilità di azioni di responsabilità da parte del curatore fallimentare nei confronti dei membri degli organi di amministrazione e controllo della società 16 pure i più vistosi effetti che l’introduzione di tale disposizione provocherebbe sul regime dell’azione revocatoria fallimentare nel suo complesso. Innanzitutto risulterebbero non assoggettabili ad azione revocatoria fallimentare gli atti posti in essere con la piena consapevolezza della incapienza del patrimonio destinato – sul quale in prima battuta, e tendenzialmente in via esclusiva, sono destinati ad incidere -, tutte le volte nelle quali il curatore fallimentare non riuscisse a dimostrare che il soggetto convenuto in revocatoria fosse a conoscenza dello stato di insolvenza della società in quanto tale – con la cui restante attività imprenditoriale il terzo può non avere alcun rapporto -. In secondo luogo – e soprattutto - risulterebbero non assoggettabili ad azione revocatoria fallimentare gli atti posti in essere con la piena consapevolezza sia della incapienza del patrimonio destinato, sia dello stato di insolvenza della società in quanto tale, tutte le volte in cui l’atto di disposizione su beni facenti parte del patrimonio destinato non avesse pregiudicato il patrimonio della società: con un chiaro “recupero” della concezione indennitaria della funzione dell’azione revocatoria fallimentare, la cui adozione per la sola fattispecie degli atti compiuti su beni del “patrimonio destinato” risulta di difficile comprensione. 10. La disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario nella nuova legge fallimentare. La nuova legge fallimentare incide profondamente sulle conclusioni alle quali aveva portato, in materia di revocatoria delle rimesse bancarie, l’orientamento affermatosi in giurisprudenza. Tale conclusione è ricavabile dalla nuova disciplina delle fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria: dalla quale si desume – come si vedrà – che in linea di principio le “rimesse” su conto corrente bancario non sono più revocabili, salvo che esse assumano la connotazione di atti solutori sulla base di criteri che pure sono precisati nella legge di riforma. E’ pertanto necessario inquadrare l’esame della nuova disciplina della revocatoria delle “rimesse” bancarie nell’ambito della valutazione delle innovazioni introdotte in materia di fattispecie di “esenzione” dall’azione stessa.. L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 17 Parte Seconda 1. Premessa. La convivenza tra la nuova legge fallimentare e le norme previgenti in materia di “esenzione” dalla revocatoria. Anche in materia di disposizioni che riguardano le fattispecie di “esenzione” dall’applicazione dell’azione revocatoria si pone il problema della convivenza delle norme previgenti, destinate a trovare applicazione nelle azioni revocatorie già pendenti, nonché in quelle proposte nell’ambito di procedure concorsuali già iniziate (art. 2, co. 2, d.-l. n. 35/2005); con le norme introdotte dalla legge di riforma, applicabili alle sole azioni revocatorie “nuove” originate da procedure concorsuali “nuove” (cioè iniziate dopo il 17 marzo 2005). Il rapporto tra le due categorie di norme origina peraltro una situazione particolare. Le nuove norme in primo luogo confermano l’applicabilità delle disposizioni previgenti in materia di “esenzione”, tanto per quelle già contemplate nell’art. 67, co. 3, l.f. (Istituto di emissione; credito su pegno; credito fondiario) – ora riprodotto nell’art. 67, co. 4: infra; quanto per quelle contenute nelle leggi speciali - prima fatte salve dal terzo comma della norma in esame, e oggi fatte salve dal quarto comma: infra -. Le nuove norme, in secondo luogo, introducono diverse ed ulteriori fattispecie di “esenzione”, prima sconosciute. La nuova disciplina, pertanto, si sovrappone ed assorbe quella precedente: onde potrebbe essere giustificato un approccio che rispetti l’ordine nel quale le norme sulle “esenzioni” dall’azione revocatoria sono oggi poste dalla legge fallimentare – così anteponendo l’esame delle nuove fattispecie introdotte con il rinnovato terzo comma dell’art. 67 l.f. a quello delle fattispecie già vigenti, oggi ridisciplinate nel quarto comma della stessa norma, per poi concludere con le ulteriori fattispecie innovative introdotte nel rinnovato articolo 70 -. E’ tuttavia apparso preferibile rispettare la stessa impostazione che si è ritenuto di adottare per le precedenti Sezioni del presente lavoro, anteponendo in linea di principio l’esposizione della disciplina e delle problematiche suscitate dalle norme di “esenzione” previgenti 18 a quella che riguarda le norme di “esenzione” introdotte dalla “Riforma”. 2. La esenzione da revocatoria dello “Istituto di emissione” (art. 67, co. 3, l.f. previgente). La prima fattispecie che viene indicata quale esempio di “ esenzione” dall’azione revocatoria nell’art. 67, co. 3, f.l. previgente è costituita dall’Istituto di emissione: cioè dalla Banca d’Italia. Nell’attuale contesto normativo, la Banca d’Italia non esercita (più) attività creditizia nei confronti del pubblico: onde non sono configurabili situazioni nelle quali l’assoggettamento a fallimento di un imprenditore commerciale (“di diritto comune”) possa costituire l’occasione di una valutazione di revocabilità in relazione ad operazioni poste in essere dalla Banca d’Italia nell’esercizio della sua propria attività istituzionale. Diversamente è a dirsi per i rapporti che la Banca d’Italia intrattiene con le aziende di credito. Tali rapporti, infatti, possono avere natura squisitamente creditizia, ed anzi è individuata come una funzione tipica istituzionale della Banca Centrale quella di esercitare una attività di “credito di ultima istanza” nei confronti delle imprese bancarie, con particolare riguardo alle fattispecie nelle quali queste versino in situazioni di difficoltà. Nelle ipotesi descritte, non può escludersi che la banca in difficoltà venga assoggettata a liquidazione coatta amministrativa, e che a seguito della dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza anche gli atti posti in essere dalla banca possano essere assoggettati ad azione revocatoria fallimentare. In questa prospettiva, la “esenzione” dalla revocatoria disposta per la Banca d’Italia sembra dovere essere spiegata con la indicata funzione di “prestatore di ultima istanza” delle banche (in difficoltà) attribuita istituzionalmente alla stessa, ed in ultima analisi come contributo alla salvaguardia del valore della stabilità del sistema creditizio. 3. Segue. La “esenzione” dello “Istituto di emissione” nella nuova legge fallimentare. L’art. 67, co. 4, l.f., come introdotto dal d.-l. n. 35/2005, ribadisce che “le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto di emissione L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 19 …”. Le parole utilizzate per esprimere il concetto sono identiche a quelle già contenute nel previgente terzo comma della norma: onde è facile concludere che “nulla cambia”. Occorre se mai avvertire – ma lo si è già fatto nella sede opportuna – che la lettera della legge tradisce, all’evidenza, il pensiero del legislatore, il quale affermando che “questo articolo” (l’art. 67 l.f.) non si applica all’Istituto di emissione, non vuole certamente intendere – come pur dice! – di escludere la Banca d’Italia dall’applicabilità delle esenzioni contemplate nel terzo comma della norma in commento (a prescindere dalla circostanza che la portata generale del principio di esenzione dettato per l’Istituto di emissione varrebbe comunque a preservarne l’operato da conseguenze revocatorie). Se mai si può aggiungere che la conferma del carattere squisitamente soggettivo della “esenzione” disposta per la Banca d’Italia – a differenza di quelle originariamente previste per altri soggetti, come gli Istituti di credito fondiario – accredita l’interpretazione, dalle conseguenze irrazionali, di una sottrazione dell’Istituto a qualsiasi ipotesi di assoggettabilità all’azione revocatoria, ivi comprese quelle concernenti atti di gestione non tipicamente inerenti l’esercizio dell’attività di vigilanza sul settore creditizio, ma più genericamente connessi con la vita dell’Istituto – come sarebbe per es. l’acquisto di un immobile come sede di una propria Filiale, o la vendita di un cespite; o ancora la effettuazione di operazioni di investimento/disinvestimento delle disponibilità finanziarie dell’Istituto -. Una lettura più corretta della norma di “esenzione” induce invece a considerare applicabile tale beneficio alle sole operazioni poste in essere dalla Banca d’Italia nell’ambito della sua attività istituzionale: attività che non prevede più la possibilità di allacciare rapporti creditizi con imprenditori privati, ma prevede ancora la possibilità di effettuare interventi di sostegno finanziario in favore delle aziende di credito, particolarmente nelle situazioni di “crisi”. Sono pertanto le operazioni creditizie poste in essere dalla Banca d’Italia quale “prestatore di ultima istanza” (delle banche) a potere essere correttamente considerate esonerate dal pericolo di assoggettamento ad azione revocatoria, nell’ambito dell’eventuale procedura di liquidazione coatta amministrativa disposta nei confronti di una azienda di credito già 20 sovvenuta (evidentemente senza successo) dalla Banca d’Italia. 4. La esenzione da revocatoria degli Istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno. L'art. 67, u. co., l. f. previgente, afferma che le disposizioni "di questo articolo" non si applicano, tra gli altri, agli Istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno, limitatamente a dette operazioni. Tale norma e' stata intesa, nel passato, da taluni interpreti, come suscettibile di applicazione a qualsiasi Istituto od Azienda di credito (in quanto abilitati ad esercitare il credito su pegno nell'ambito della generale autorizzazione ad esercitare l’attività creditizia), e per qualsiasi operazione assistita da garanzia pignoratizia, financo quelle assistite da garanzie soltanto assimilabili al pegno, come la cessione di credito con funzione di garanzia. Più recentemente, peraltro, si e' affermata la tesi contraria, secondo la quale la norma di favore in commento si applicherebbe solamente a quegli Istituti od a quelle Aziende di credito, specificamente autorizzati all'esercizio dell’attività di piccolo prestito pignoratizio: e comunque esclusivamente alle operazioni di piccolo prestito pignoratizio stesse. Questa seconda tesi e' quella che si fa preferire, per molte ragioni: quella che pare più convincente e' la ragione fondata sulla considerazione che non si può fare applicazione di una disciplina (come e' quella della revocatoria fallimentare), che si incentra sulla conoscenza delle caratteristiche soggettive (imprenditore) ed oggettive (situazione di stato di insolvenza) della controparte, ad operazioni caratterizzate invece essenzialmente dall'anonimato del prenditore di credito, come sono le operazioni di piccolo credito pignoratizio Occorre poi ricordare che le operazioni di credito su pegno sono oggi disciplinate (per profili diversi dall’esenzione dalla revocatoria) dall’art. 48 t.u.l.b. Tale norma in origine (d.lgs. n. 385/1993) limitava l’esercizio del credito su pegno (da intendersi come operazioni di piccolo credito pignoratizio) a quelle sole banche che avessero ottenuto o che ottenessero uno specifico “nulla osta” della Banca d’Italia, nonché l’ulteriore “licenza” del Questore. A seguito di una serie di modificazioni, culminate con quella disposta dall’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 342/1999, l’attuale art. 48 t.u.l.b. prevede ora che “[tutte] le banche possono intraprendere l’esercizio del credito su pegno … dotandosi delle necessarie strutture e dandone comunicazione [successiva] alla L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 21 Banca d’Italia”, così “liberalizzando” anche questa categoria di operazioni. 5. Segue. La esenzione delle operazioni di credito su pegno nella nuova legge fallimentare. L’art. 67, co. 4, l.f. introdotto dal d.-l. n. 35/2005 afferma che: “Le disposizioni di questo articolo non si applicano … alle operazioni di credito su pegno”. La norma previgente che corrisponde a tale previsione escludeva dall’applicabilità dell’art. 67 l.f. gli “istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno”. La norma di “esenzione” è quindi passata da un approccio soggettivo (“ gli Istituti autorizzati …”) ad un approccio oggettivo (“le operazioni di credito su pegno ….”): e se la ragione della innovazione è difficilmente discutibile, gli effetti della modificazione si prestano invece ad interpretazioni divergenti. La ragione dell’innovazione sta nelle definitiva “abolizione” della categoria degli “Istituti autorizzati …” ad esercitare il credito pignoratizio: alla fine di un articolato iter (di cui supra, n. 4) si è giunti all’affermazione del principio che le banche non possono distinguersi secondo che siano o non siano autorizzate ad esercitare il credito pignoratizio, perché tutte lo sono per definizione, in conseguenza dell’ottenimento dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività creditizia. Gli effetti della innovazione si prestano ad interpretazioni divergenti per il carattere ambiguo della espressione “operazioni di credito su pegno”. Secondo alcuni dei primi commentatori, la norma sarebbe tale da autorizzare l’estensione della “esenzione” da revocatoria a qualsiasi operazione di credito su pegno: dall’anticipazione bancaria (con pegno su merci) all’apertura di credito in conto corrente garantita da pegno su titoli. La conclusione peraltro non è condividibile, perché farebbe assumere alla norma un carattere del tutto irrazionale, nonchè contrario al principio costituzionale di eguaglianza. Non sarebbe in alcun modo giustificabile l’attribuzione di una disciplina di favore per le operazioni di credito su pe- 22 gno in generale, rispetto alle operazioni creditizie assistite da altro genere di garanzia, od addirittura prive di garanzie. E’ giustificabile, invece, che siano esonerate dalla disciplina dell’azione revocatoria le operazioni di piccolo prestito pignoratizio, che hanno natura di vendita del bene (alla banca) con patto di riacquisto (previa restituzione del prestito), e che prescindono da una valutazione dell’affidabilità del soggetto “finanziato”- e dunque della sua condizione o meno di insolvenza -, dal momento che in caso di mancata restituzione del prestito non consentono di richiederne la restituzione al cliente, ma consentono esclusivamente la vendita del bene oppegnorato. 6. La esenzione da revocatoria degli Istituti di credito fondiario. La seconda fattispecie che a mente del previgente art. 67, u. co., l.f., è “esonerata” dalla disciplina dell’azione revocatoria fallimentare (secondo “le disposizioni di questo articolo”) è rappresentato dagli “istituti di credito fondiario”. La norma non appare oggi espressamente abrogata: ma la sua portata deve essere misurata in base alla considerazione della disciplina sopravvenuta delle operazioni di credito fondiario (supra, Cap., n. 2), nell’ambito della quale disposizioni specifiche sono propriamente dedicate alla “esenzione” dalla azione revocatoria (cfr. art. 39 d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, “Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” – T.U.L.B. -). E’ pertanto necessario accertare in via preliminare quale sia l’ambito di applicazione dell’attuale disciplina di “esenzione” da revocatoria delle operazioni di credito fondiario, per potere poi stabilire se essa debba essere considerata assorbente, oppure solamente integrativa, della pregressa disciplina della “esenzione” degli istituti di credito fondiario. L’art. 39 T.U.L.B. afferma che le ipoteche a garanzia “dei finanziamenti” non sono assoggettate a revocatoria fallimentare, quando siano iscritte dieci giorni prima della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento; e che l’art. 67 della legge fallimentare non si applica ai pagamenti effettuati dal debitore a fronte di “crediti fondiari”. La disposizione è inequivocabilmente rivolta (e circoscritta) alle operazioni di credito fondiario: la descrizione delle quali è oggi rinvenibile nell’art. 38 T.U.L.B., che pone oggi esclusivamente requisiti connessi: 1) alla L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 23 durata delle operazioni ("a medio e lungo termine", cioe' con durata superiore a 18 mesi); 2) alla presenza di garanzie ipotecarie su immobili (di determinate caratteristiche rispetto al grado di iscrizione, ed all'ammontare del credito garantito in rapporto al valore dei beni ipotecati od al costo delle opere da eseguire su di essi). Risulta dunque definitivamente ed integralmente abbandonata ogni prospettiva di concepire le operazioni della specie come mutui di scopo. Ogni accenno alla necessità di rispettare specifiche destinazioni per l'utilizzo dei finanziamenti della specie e' venuto meno: e nemmeno per il credito rivolto al comparto dell’attività' edilizia si prevede più il necessario collegamento dell'operazione creditizia con iniziative di "costruzione, ricostruzione, riparazione, trasformazione, sopraelevazione e recupero di immobili", alle quali ancora la legge 6 giugno 1991, n. 175, condizionava invece la effettuabilità di operazioni di credito edilizio. La mancanza di qualsiasi vincolo di destinazione deve fare considerare come una conclusione obbligata quella che porta a definire come operazione di credito fondiario qualsiasi operazione di credito ipotecario oltre il breve termine, purché l'importo del credito concesso e il grado dell'ipoteca iscritta siano rispettosi dei limiti previsti dalle disposizioni emanate dalla Banca d'Italia. Secondo la lettera della legge, costituiscono dunque operazioni di credito fondiario i “finanziamenti” (a medio/lungo termine; con garanzia ipotecaria di determinate caratteristiche) concessi da banche: ma non è precisato a quali forme tecniche di credito bancario ci si intenda riferire con il termine generico “finanziamenti”. Nel passato, tali forme tecniche erano positivamente precisate, salva la difficoltà di individuare i caratteri distintivi delle "anticipazioni" - art. 4, co. 1, lett. b); art. 9, co. 2, l. n. 175/1991 - rispetto ai "mutui" - art. 4, co. 1, lett. a); art. 9, co. 2, l. n. 175/1991-. Oggi pare di potere affermare che tali vincoli non sussistono piu': e che in generale può rientrare nella nozione di "finanziamento" ogni operazione di credito, concessa da banche, caratterizzata della durata superiore al c.d. "breve termine". 24 L’art. 38, co. 2, t.u.l.b. affida alle delibere del C.I.C.R. ed alle disposizioni della Banca d’Italia (diramate in esecuzione delle direttive stesse) i compiti di determinare l’ammontare massimo dei “finanziamenti”, in rapporto al valore dei beni ipotecati o al costo delle opere da eseguire sugli stessi determinare le ipotesi in cui la presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie non impedisce la concessione dei “finanziamenti”. La disciplina regolamentare attualmente in vigore (cfr. Banca d’Italia, Istruzioni di Vigilanza alle banche, Titolo V, Cap. 1, Sez. II – provvedimento 26 giugno 1995, in G.U., 5 luglio 1995, n. 155, e successive modificazioni e integrazioni -) delinea: a) i "limiti di finanziabilita”; b) le "garanzie integrative" per l'innalzamento del limite di finanziabilità; c) i "finanziamenti integrativi"; Relativamente ai “limiti di finanziabilità” è fissato un unico limite individuato nella percentuale dell'80% (con possibilità di elevarlo sino al 100% in presenza di determinate garanzie integrative: profilo sul quale si ritornerà di seguito), rispetto al "valore dei beni immobili ipotecati", o, in alternativa - e segnatamente per le operazioni di credito fondiario rivolte a finanziare una attività di carattere edilizio - rispetto al "costo delle opere da eseguire" sugli immobili stessi. Quanto alle “garanzie integrative”, la delibera del C.I.C.R. del 22 aprile 1995 prevede che il "limite di finanziabilità" possa essere esteso dall'80% fino al 100%, "qualora vengano prestate, per l’appunto, “garanzie integrative". Tali garanzie dovrebbero essere rappresentate da alcune possibili figure, che vengono espressamente menzionate, oppure da "altre idonee garanzie", "secondo i criteri previsti dalla Banca d'Italia" – che in effetti nelle “Istruzioni di Vigilanza per le Banche” precisa quali garanzie siano considerate idonee allo scopo, aggiornandone periodicamente l’elenco -, Quanto ai “finanziamenti integrativi”, si intendono per tali, secondo quanto prescrive la Banca d'Italia nelle "Istruzioni di Vigilanza", i “finanziamenti con garanzia ipotecaria su beni gravati da precedenti iscrizioni ipotecarie". Tali "finanziamenti integrativi" non sarebbero L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 25 pertanto rispondenti al requisito di essere assistiti da una ipoteca di primo grado: e come tali non potrebbero essere qualificati operazioni di credito fondiario. La normativa di settore prevede che in presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie il "limite di finanziabilità" sia determinato sommando all'importo del finanziamento da erogare "il capitale residuo del finanziamento pregresso" (o dei finanziamenti pregressi, si deve ritenere), a prescindere dalla identità o della alterità delle banche finanziatrici interessate. Come già anticipato, l’ambito di applicazione dell’art. 39, co. 4, T.U.L.B., non coincide con l’ambito di applicazione attribuibile all’art. 67, co. 3 (previgente), l.f. La prima norma esenta dalla revocatoria fallimentare tutte le banche, ma limitatamente alle “operazioni di credito fondiario”. La seconda norma esenta dalla revocatoria solamente gli “istituti di credito fondiario”, ma relativamente a tutte le operazioni dagli stessi poste in essere: ed anche a volere circoscrivere la portata della norma, come appare preferibile, alle sole operazioni di natura creditizia, vi rimarrebbero pur sempre compresi i finanziamenti assistiti – ad esempio – da pegno; da cessione di credito; da fideiussione; eccetera. Ciò tuttavia non può portare a concludere che l’art. 67, co. 3 (previgente), l.f. mantenga un proprio ambito di applicazione, relativamente ai finanziamenti fondiari, sia pure con esclusivo riguardo agli “istituti di credito fondiario”: giacchè la ormai completata opera di “despecializzazione” istituzionale impedisce di distinguere più tra “banca” e “banca”; le imprese esercenti l’attività creditizia sono poste su un identico piano dal punto di vista della “capacità” di porre in essere questa o quella operazione bancaria; e le uniche distinzioni concepibili sono quelle che, abbandonati criteri di natura soggettiva, siano basate sull’eventuale difformità oggettiva delle attività poste in essere. 7. Segue. La esenzione da revocatoria delle operazioni di credito fondiario nella nuova legge fallimentare. Anche per ciò che riguarda la fattispecie di “esenzione” concernente il credito fondiario si assiste al passaggio da un approccio soggettivo (che esonerava dalla revocatoria “gli Istituti”) ad un approccio oggettivo (che esonera da revocatoria “le operazioni ..”). 26 Ciò tuttavia recepisce semplicemente quel che – nella sostanza – era già stato originato dalla rivisitazione della disciplina delle operazioni di credito fondiario da parte del “Testo Unico” bancario, che già (ri)disegnava i confini della “esenzione” ritagliandoli sui finanziamenti fondiari, anziché sugli Istituti di tale natura – nel frattempo assorbiti dal generale fenomeno della “despecializzazione operativa”, che aveva esteso a tutte le aziende di credito la abilitazione a concedere mutui fondiari -. L’adozione di un approccio di carattere oggettivo, per il riconoscimento della esenzione dall’azione revocatoria per le operazioni di credito fondiario, anche da parte del nuovo art. 67 l.f., ripropone il tema del necessario coordinamento tra la norma di esenzione dettata in sede fallimentare e quella prevista nell’ambito della disciplina del credito fondiario nel “Testo Unico” bancario. E’ evidente, anzitutto, che le fattispecie interessate dalla “esenzione” prevista dall’art. 39 T.U.L.B. (le ipoteche iscritte oltre dieci giorni prima del deposito della sentenza di fallimento, e i pagamenti di debiti fondiari) sono ricomprese ed assorbite dalla più ampia esenzione disposta dal nuovo art. 67, co. 4, l.f., che come tale avrebbe l’attitudine a sottrarre all’azione revocatoria – ad esempio – anche le ipoteche iscritte entro il termine di dieci giorni anteriori al fallimento. Stante il carattere puntuale della nuova norma – che disciplina precisamente (anche) le operazioni di credito fondiario propriamente detto -, è difficile attribuire all’art. 39, co. 4, T.U.L.B. un carattere di specialità tale da sottrarlo alla conseguenza della abrogazione implicita, per “assorbimento” in altra disposizione normativa successiva (cfr. art. 15, ultima parte, disp.prel. al codice civile): onde d’ora innanzi la disposizione del “Testo Unico” bancario dovrà considerarsi come non scritta, e sostituita dal nuovo principio fissato dall’art. 67, co. 4, l.f. Oltre a ciò, va anche osservato che la più ampia portata della “esenzione” sembra oggi investire, con il riferimento fatto alle “operazioni” di credito fondiario ed alle “disposizioni di questo articolo”: [a) le ipoteche contestuali iscritte entro il termine dei dieci giorni anteriori al fallimento;] b) la costituzione di garanzie in favore della banca concedente il credito fondiario anche diverse dalla ipoteca (e la previsione si rivela particolarmente appropriata con riguardo alla costituzione di quelle “garanzie integrative” che, come si è L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 27 visto – supra -, possono estendere l’ambito di operatività dell’istituto); c) la costituzione di garanzie anche non contestuali – che come tali sarebbero ricadute sotto la disciplina revocatoria dell’art. 67, co. 1, n. 3) e n. 4), oggi invece dichiarato inapplicabile -; d) la riduzione o l’estinzione del finanziamento effettuato con “mezzi anormali” – che come tali sarebbero ricaduti sotto la disciplina revocatoria dell’art. 67, co. 1, n. 2 l.f., che oggi viene invece dichiarato inapplicabile -. La più ampia portata della nuova fattispecie di “esenzione” pare destinata ad arricchire di elementi di valutazione lo spinoso problema costituito dalla sorte revocatoria dei finanziamenti fondiari erogati per la “ristrutturazione” di esposizioni pregresse. L’operazione in forza della quale una banca concede credito all’impresa, nella forma del finanziamento fondiario, perché questa estingua i debiti già in essere verso la stessa banca (o, più raramente, verso terzi), è oggi intesa dalla giurisprudenza come il risultato di una attività complessa, tesa a conseguire la estinzione di passività pregresse, e come tale – stante il carattere non ricorrente, o comunque non quotidiano, dell’operazione – suscettibile di essere assoggettata alla disciplina revocatoria dettata per gli atti di carattere solutorio posti in essere con mezzi anormali: dunque alla disciplina dettata dall’art. 67, co. 1, n. 2, l.f., che oggi rappresenta “questo articolo”, alla cui applicazione le operazioni di credito fondiario sono sottratte. 8. Segue. La esenzione da revocatoria delle operazioni di credito fondiario a seguito dell’approvazione della disciplina dei “fallimenti immobiliari” (d.lgs. n. 122/2005). La nuova disciplina dei “fallimenti immobiliari” (d.lgs. n. 122/2005) si propone di apportare una speciale tutela ai crediti che gli acquirenti degli “immobili da costruire” vantano nei confronti dei “costruttori”, fino alla esecuzione del contratto definitivo di vendita. 28 Sono questi, per lo più, i crediti derivanti da anticipazioni sul prezzo (“acconti”), che l’acquirente eroga al costruttore, e che rappresentano per costui la fonte alternativa di finanziamento rispetto all’accesso al credito bancario. Tali operazioni devono oggi essere obbligatoriamente accompagnate dalla prestazione di una fideiussione bancaria (o equivalente) in favore dell’acquirente, a garanzia dell’eventuale obbligo di rimborso degli acconti versati al costruttore (particolarmente nell’ipotesi di assoggettamento dello stesso al fallimento): e questa nuova forma di coinvolgimento delle imprese bancarie nelle operazioni di acquisto immobiliare induce a prestare nuova attenzione al tema della esenzione da revocatoria delle “operazioni di credito fondiario”, alias ai “finanziamenti” fondiari. E’ evidente che in ipotesi di intervento finanziario diretto della banca (con la erogazione di un finanziamento al costruttore) sarà naturale ipotizzare la costituzione in favore dell’istituto di credito di una ipoteca – né è di ostacolo la circostanza che si tratti di “immobili (ancora) da costruire”, sia per la iscrivibilità dell’ipoteca sul terreno edificabile, sia per la specifica previsione dell’art. 38, co. 2, T.U.L.B., che allude espressamente ad “opere (ancora) da eseguire” -: con la conseguenza che qualora il finanziamento ipotecario sia rispettoso dei requisiti previsti dalle disposizioni di settore, risulterà applicabile alla operazione creditizia il beneficio della esenzione dall’azione revocatoria, come previsto oggi dall’art. 67, co. 4, l.f. E’ peraltro possibile che la banca ponga in essere un intervento finanziario indiretto, prestando su richiesta del costruttore la fideiussione bancaria in favore dell’acquirente, che rende possibile l’ottenimento da parte dell’impresa edile degli acconti destinati a finanziarne la attività: ed in tal caso non si comprende come la banca, che avrebbe posto come condizione del finanziamento fondiario diretto la costituzione di una garanzia ipotecaria, possa rinunciare a ciò per la sola circostanza che il suo intervento assume la forma di un finanziamento indiretto. Non è di ostacolo a soddisfare tale esigenza la costituibilità di una garanzia reale per l’adempimento di un credito eventuale conseguente alla possibile escussione di una fideiussione prestata in favore di terzi, che è perfettamente concepibile (cfr. art. 2852 c.c.): costituisce (o costituirebbe) un ostacolo, invece, l’esclusione del contratto di fideiussione (bancaria) da quella nozione di “finanziamento” bancario, che sta alla base della disciplina di favore dettata in materia di esercizio del credito fondiario. Dalla nuova disciplina dei “fallimenti immobiliari” viene dunque un nuovo stimolo a valutare con favore l’ipotesi di con- L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 29 siderare estendibile la nozione di “finanziamento” (bancario) a qualsiasi operazione creditizia (bancaria), indipendentemente dalla forma tecnica adottata nel singolo caso di specie, purchè rispettoso delle condizioni poste dalla disciplina di settore (prima tra le quali la previsione di una scadenza eccedente il breve termine). 9. La nuova disciplina delle “esenzioni” dalle azioni revocatorie nella riforma della legge fallimentare. Uno sguardo d’insieme. Una volta prese in esame le fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria già disciplinate dalle norme previgenti; ed una volta constatato quali siano le modificazioni che per esse sono state introdotte dalla legge di riforma, è ora necessario affrontare il problema delle nuove fattispecie di esenzione che si aggiungono a quelle già note. Come già detto, la riforma della legge fallimentare ha notevolmente ampliato il numero delle fattispecie nelle quali si esclude l’applicabilità (della disciplina) delle azioni revocatorie fallimentari. La nuova disciplina dell’istituto della “esenzione” risponde ad una pluralità di esigenze aventi natura composita, e principalmente riconducibile a: a) volontà di ridimensionare la portata economica di talune applicazioni della precedente disciplina della revocatoria fallimentare: è il caso della tendenziale sottrazione a revocatoria delle “rimesse” su conto corrente bancario, e degli atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati; b) volontà di evitare l’isolamento dell’imprenditore economico in difficoltà da parte degli altri operatori, preoccupati della soggezione a revocatoria degli atti compiuti con lo stesso: è il caso della “esenzione” da revocatoria dei “pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”; c) volontà di favorire l’accesso e l’esecuzione delle procedure di “composizione negoziale delle crisi d’impresa”: è il caso della “esenzione” dei pagamenti dei servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali minori; oppure della “esenzione” degli atti di esecuzione degli accordi o dei “piani” di ristrutturazione o di risanamento dell’impresa (oltre che di esecuzione 30 dell’amministrazione controllata e del concordato preventivo); d) volontà di favorire determinate categorie di creditori in considerazione di una ritenuta particolare meritevolezza, o in considerazione della funzione assolta nel mercato (è il caso della “esenzione” delle “vendite a giusto presso d’immobili ad uso abitativo”; dei pagamenti per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti od altri collaboratori del fallito; dei pagamenti effettuati tramite intermediari specializzati); e) volontà di mantenere applicabili le disposizioni di “esenzione” dalla revocatoria previste dalle leggi speciali, salva l’introduzione di talune precisazioni a titolo di necessario aggiornamento. 10. Segue. La portata delle norme di esonero dall’azione revocatoria introdotte dalla riforma della legge fallimentare. L’art. 67, co. 3, l.fall. (nella versione oggi proposta dal d.-l. n. 35/2005) dichiara che “non sono soggetti all’azione revocatoria” una serie di atti, che elenca dalla lettera a) alla lettera g). Aggiunge poi che “le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto di emissione, alle operazioni di credito su pegno e di credito fondiario” (ed aggiunge: “sono salve le disposizioni delle leggi speciali”). Per la seconda delle categorie di atti “esentati” la esenzione concerne dunque, in modo esplicito, solamente l’azione revocatoria (fallimentare) prevista da “questo articolo” (l’art. 67). Per la prima categoria, invece, la esenzione riguarda “l’azione revocatoria”. Nonostante l’individuazione della ratio della nuova disposizione dell’art. 67, co. 3., l. fall. nell’intenzione di sottrarre alla azione revocatoria fallimentare - nella sostanza – (tutti, ma solo) gli atti “normali” di gestione, da un punto di vista testuale si può avere ragione di ritenere che gli atti contemplati nella norma in esame siano sottratti ad ogni azione revocatoria fallimentare, ivi comprese quelle previste dall’art. 64 e dall’art. 65 l.fall.; nonché - è da ritenere – all’azione revocatoria prevista dall’art. 66 l.fall. – azione revocatoria ordinaria proseguita o proposta dal curatore fallimentare -. Come detto, la conclusione di cui sopra è indotta dalla constatazione che per le fattispecie di “esenzione” successive, disciplinate cioè dal quarto comma, la legge ne circoscrive espressamente la rilevanza con riguardo alle sole disposizioni contenute “in questo articolo” (cioè l’articolo 67): L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 31 mentre tale precisazione è assente nella disciplina della “esenzione” delle fattispecie elencate nel comma 3). Tale considerazione postula peraltro una precisazione ed una consapevolezza del legislatore, che è da dubitare ne abbiano davvero caratterizzato l’operato. Da un canto si consideri come questo stesso legislatore, a distanza di pochi giorni, abbia disciplinato (d.lgs. n. 122/2005 sugli acquisti di immobili ancora da costruire) una ulteriore fattispecie di “esenzione” simile in tutto e per tutto a quella prevista dall’art. 67, co. 3, lett. c) – acquisti di immobili ad uso abitativo -, e tuttavia sottraendola alla sola revocatoria “di questo articolo” (l’articolo 67), in palese contraddizione con la portata (apparentemente) generale della “esenzione” disposta per tutti gli atti previsti nel terzo comma dell’articolo 67, comprendenti anche gli acquisti di immobili ad uso abitativo. Da un altro canto si consideri come nell’art. 67, co. 4, l.fall., il legislatore detti a ben vedere una norma, che se dovesse essere intesa nella sua portata testuale dovrebbe sottrarre una serie di fattispecie, tradizionalmente “esentate”, proprio a quelle “esenzioni”oggi introdotte in via generale (l’art. 67, co. 4, l.fall., infatti, affermando che “quello articolo” non si applica – poniamo – all’Istituto di emissione, da un punto di vista testuale, esclude l’applicabilità anche del terzo comma della norma, che oggi contiene tutte le “esenzioni” – che certamente è impensabile non applicare anche all’Istituto di Emissione, o nelle altre situazioni contemplate dal quarto comma -). Tutto ciò per porre in guardia l’interprete dall’attribuire importanza eccessiva al dato testuale delle disposizioni introdotte dalla riforma della legge fallimentare, che presentato così tante e così tanto vistose imperfezioni tecniche, da imporre, in molti casi, di prescindere da una stretta aderenza al testo normativo, propendendo per l’utilizzo di un criterio logico-sistematico. Induce a propendere per la tesi secondo la quale alla “esenzione” dall’azione revocatoria prevista dall’art. 67, co. 3., l.f. deve essere attribuita portata generale, inoltre, la circostanza che in diverse delle fattispecie interessate – come vedremo -, la aspirazione a sottrarre all’azione revocatoria fallimentare determinate categorie di atti ri- 32 guarda anche situazioni nelle quali si presenterebbero – altrimenti – i presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista dal primo comma dell’art. 67 l. f. – come sarebbe, per esempio, per le garanzie costituite in favore di crediti pregressi, che rappresentassero atti di esecuzione di uno dei piani o degli accordi previsti dall’art. 67. co.3, lett. d) oppure lett. e) l.f. (infra) -; oppure i presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista dall’art. 65 l. f. – come sarebbe, per esempio, per il rimborso anticipato di debiti aventi scadenza molto differita nel tempo (potrebbe trattarsi di un prestito obbligazionario particolarmente oneroso), anch’esso in ipotesi rappresentante un atto di esecuzione di uno dei menzionati piani o accordi previsti dall’art. 67. co.3, lett. d) oppure lett. e) l.f. Occorre infine domandarsi se gli atti in questione debbano considerarsi sottratti altresì all’azione revocatoria ordinaria proposta anche al di fuori del fallimento. Militano in questo senso la considerazione che ove sopravvenisse il fallimento l’azione revocatoria ordinaria diverrebbe improcedibile, ove si ritenesse inapplicabile agli atti “esentati” l’art. 66 l.fall.; e la considerazione che risulterebbe irrazionale una disciplina che assoggettasse gli atti de quibus ad una disciplina più severa al di fuori del fallimento, che a seguito della pronuncia della sentenza dichiarativa. 11. Segue. La abrogazione della “presunzione muciana” e gli effetti della revocazione. Il nuovo art. 70 l.fall. non contiene più neppure la traccia della corrispondente norma previgente, che disciplinava gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici aventi ad oggetto i “beni acquistati dal coniuge del fallito”, e che si incentrava sulla presunzione (un tempo definita “muciana”) che gli acquisti effettuati dal coniuge del fallito in epoca (relativamente) prossima al fallimento – il quinquennio anteriore – fossero stati effettuati con risorse provenienti dal fallito stesso, e risultassero pertanto meritevoli di essere acquisiti alla massa attiva fallimentare. La disciplina in questione, del resto, era divenuta sostanzialmente inapplicabile, in conseguenza della riforma del regime patrimoniale dei coniugi, e della giurisprudenza formatasi in materia – infra -. Per converso il nuovo art. 70 l. fall. ripete due volte – la prima in termini generali (secondo comma), e la seconda riferita alla fattispecie della revocatoria promossa nei confronti (del “rientro” complessivamente conseguito attraverso) degli “atti estintivi di L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 33 rapporti continuativi o reiterati” (terzo comma) – che colui che per effetto della revocatoria fallimentare ha restituito quanto aveva conseguito dal fallito, è ammesso al passivo per il suo eventuale credito. E se si considera che questa regola, che rappresenta l’equivalente del principio già dettato dall’art. 71 l. fall., continua ad essere enunciata nella previsione legislativa originaria, perché l’art. 71 non è stato modificato, si deve concludere che l’insinuabilità al passivo fallimentare della somma restituita al fallimento in conseguenza di una azione revocatoria fallimentare è oggi disposta tre volte. Nonostante l’apparente ricchezza di “fonti”, peraltro, continua a mancare la precisazione della natura del credito reso insinuabile in conseguenza della revoca dell’atto che ne aveva prodotto, in tutto od in parte, l’estinzione: ed in particolare manca qualsiasi precisazione sul punto della permanenza o meno a favore del credito “risorto”, delle garanzie – legali e/o convenzionali - che assistevano la pretesa originaria 4. 12. La esenzione da revocatoria dei “pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso” (art. 67, co. 3, lett. a). La prima delle nuove fattispecie di esenzione da revocatoria introdotte dalla riforma della legge fallimentare riguarda i “pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio della attività d’impresa nei termini d’uso”. Sulla portata della norma i primi commentati hanno espresso opinioni in parte convergenti, in parte divergenti. In linea di principio vi è accordo nell’escludere dalla “esenzione” i pagamenti estranei all’attività d’impresa (come sarebbero quelli che l’imprenditore individuale avesse fatto per soddisfare esigenze personali), oppure successivi alla cessazione della stessa (come sarebbero i pagamenti effettuati nel corso della liquidazione volontaria della società). Gli interpreti si dividono, invece, sul significato e la portata da attribuire alla espressione “nei termini d’uso”: opinando taluno che essa abbia riguardo a profili per così dire cronologici (la puntualità o meno del pagamento), altri invece sostenendo che la norma fac4 Per lo sviluppo del tema v. infra. 34 cia riferimento a profili per così dire operativi (le modalità usuali o meno dell’estinzione del debito per la prestazione di beni o servizi conseguita nell’esercizio dell’impresa). La discussione poi si arricchisce di ulteriori “distinguo”, secondo che la “usualità” del pagamento sia riferita all’andamento dei rapporti tra l’imprenditore fallito ed il creditore soddisfatto, oppure al settore commerciale di appartenenza. I molti lavori preparatori e i Progetti di riforma che hanno preceduto l’introduzione dell’art. 67, co. 3, lett. a), inducono a ritenere in realtà che con la non felice formula utilizzata si siano voluti sottrarre a revocatoria gli atti di ordinaria gestione dell’impresa (ma limitatamente ai “pagamenti”!), allo scopo di scongiurare il pericolo che l’imprenditore, già in condizione di “crisi”, veda ulteriormente aggravata la sua situazione dalla interruzione dei rapporti commerciali da parte degli abituali fornitori, preoccupati della possibile soggezione a revocatoria dei pagamenti conseguiti. Ciò fa ritenere che non siano effettivamente esonerati da revocatoria i pagamenti di debiti estranei all’esercizio dell’impresa (nell’ipotesi di fallimento dell’imprenditore individuale); né i pagamenti effettuati quando l’esercizio dell’impresa è cessato (per esempio in sede di liquidazione volontaria). Per converso, l’espressione ”nei termini d’uso” dovrebbe alludere al carattere “normale” delle modalità di effettuazione del pagamento più che alla sua puntualità cronologica. I dubbi interpretativi di maggior rilievo riguardano peraltro due diversi problemi di carattere generale: a) la estendibilità della “esenzione” dagli atti rappresentati da “pagamenti” agli atti di ordinaria gestione più in generale; b) la ricomprensione nella categoria “beni e servizi”, i cui pagamenti vengano sottratti all’azione revocatoria fallimentare, dei finanziamenti bancari ed operazioni creditizie assimilate. Per ciò che concerne il primo quesito, benchè sembrerebbe naturale e razionale che, una volta sposata l’idea di favorire la gestione ordinaria dell’impresa nonostante la sua situazione di “crisi”, l’obiettivo venisse perseguito sottraendo alla “sanzione” della revocatoria tutti gli atti normali di gestione. Tuttavia il tenore letterale della norma sembra consentire esclusivamente una interpretazione restrittiva – limitata cioè alla esenzione dei veri e propri “pagamenti”, e null’altro -, anche alla luce della considerazione che il legislatore era stato adeguatamente sensibilizzato a propendere per una soluzione più liberale, dai molti Progetti di riforma L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 35 che per l’appunto prevedevano una esenzione estesa a tutti gli atti ordinari di gestione. Per ciò che concerne il secondo quesito, una prima risposta di carattere positivo può riguardare i pagamenti di canoni di leasing operativo e di leasing finanziario, in quanto funzionali a consentire all’imprenditore di continuare ad avvalersi dei beni acquisiti tramite la stipulazione dei contratti menzionati. Meno immediata è la risposta che riguarda i pagamenti di debiti bancari (o finanziari) derivanti da contratti di credito di diversa natura. L’argomento addotto da taluni interpreti, i quali sottolineano che anche la concessione del credito è al postutto qualificabile come la prestazione di un “servizio” (creditizio), appare alquanto debole. Più convincente è la considerazione incentrata sulla totale irrazionalità della (pretesa) distinzione tra “pagamenti” (di forniture di beni e servizi) e “pagamenti” (di debiti creditizi o finanziari): una volta stabilito che per favorire (o quanto meno consentire) la continuazione della gestione ordinaria dell’impresa è opportuno esonerare dalla sanzione (e quindi dal timore) della revocatoria i pagamenti che essa effettua per sostenere l’attività corrente, non vi è ragione di distinguere quale sia l’apporto che i terzi abbiano fornito all’impresa stessa (se costituito da beni, piuttosto che da servizi, piuttosto che da finanziamenti). Si rivela del resto coerente con tale impostazione (anche se prevalentemente rispondente ad una diversa ratio) la recente disposizione dettata in materia di “fallimenti immobiliari”, secondo la quale “non sono … soggetti alla medesima azione revocatoria i pagamenti dei premi e commissioni relativi ai contratti di fideiussione e di assicurazione … qualora effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso” (art. 10, co. 2, d.lgs. n. 122/2005). In questa prospettiva, la condizione posta dalla lettera della legge, che favorisce i soli pagamenti effettuati “nei termini d’uso”, potrà considerarsi soddisfatta con riguardo a quei pagamenti di finanziamenti bancari che siano coerenti con lo sviluppo fisiologico del rapporto, quali i pagamenti degli interessi periodicamente contabilizzati; i pagamenti delle ra- 36 te alle rispettive scadenze; finanche i pagamenti estintivi dell’intero finanziamento, se effettuati al termine della durata contrattualmente prevista. Non potranno comunque mai considerarsi sottratti alla azione revocatoria, a nostro avviso – ma non mancano le opinioni in senso contrario -, i pagamenti di debiti bancari conseguiti a recesso della banca; a risoluzione del contratto di finanziamento; a decadenza dal beneficio del termine provocata dalla banca. Trattasi infatti di pagamenti che pur essendo giuridicamente ineccepibili, non potrebbero definirsi “usuali” (nel senso di essere fisiologici nell’ambito del rapporto banca-impresa). Neppure dovrebbero venire in considerazione, ai fini della valutazione dell’applicabilità della disposizione di esenzione prevista dall’art. 67, co. 3, lett. a) l.f., i pagamenti di debiti bancari che avessero assunto la forma di “rimessa” su conto corrente bancario, essendo prevista per tale fattispecie la disciplina speciale contenuta nella lettera b) della stessa norma. 13. La esenzione da revocatoria delle rimesse effettuate su un conto corrente bancario (art. 67, co. 3, lett. b). Si è già detto ( supra. Parte Prima) che nell’ambito della revocatoria fallimentare dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili (art. 67, co. 2, l.f.) il tema che ha maggiormente occupato la riflessione della dottrina e l’attività della giurisprudenza è forse quello rappresentato dall’individuazione delle condizioni e dei limiti di assoggettabilità a revocatoria, con effetti restitutori in favore della procedura fallimentare, delle “rimesse” (cioè accreditamenti) effettuate dal fallito (o da terzi per lui) sui conti correnti intrattenuti con le banche. Si è anche già riferito come la giurisprudenza fosse pervenuta ad esiti ormai consolidati (la esclusione della revocabilità delle rimesse accreditate su “conto passivo”, e la revocabilità, per contro, di tutte le rimesse accreditate su “conto scoperto”): risultati che pur essendo stati salutati, nel momento della loro prima apparizione 5, come un “ragionevole compromesso”, avevano in realtà rapidamente condotto ad applicazioni pratiche tutt’altro che ragionevoli, in quanto comportanti l’assoggettamento delle imprese bancarie a revocatorie fallimentari del tutto sproporzionate rispetto alle dimen5 Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413, in Fallimento, 1983, 428. L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 37 sioni dei rapporti intrattenuti con l’impresa fallita 6. Tale fenomeno ha prodotto effetti pregiudizievoli in numerose direzioni: da quella – per la verità considerata meritevole di nessuna attenzione – di erosione dei profitti delle banche, a quella – valutata invece con molta maggiore preoccupazione – della forte disincentivazione a prestare adesione alle richieste di sostegno finanziario da parte delle imprese in difficoltà economica, per il timore delle azioni revocatorie suscettibili di essere promosse nell’eventuale fallimento successivo. Al cospetto di una giurisprudenza sostanzialmente insensibile ai richiami ad una applicazione più equilibrata degli orientamenti interpretativi assunti, in materia, nel corso del tempo; ed in costanza di una congiuntura economica sfavorevole, che conduceva alla moltiplicazione delle situazioni di “crisi” di impresa, la cui soluzione avrebbe richiesto un atteggiamento di disponibilità del ceto bancario a (continuare ad) assistere l’impresa piuttosto che prenderne le distanze; praticamente tutti i Progetti di riforma della legge fallimentare che si sono succeduti (per lo meno) nelle ultime due legislature hanno registrato interventi volti a ridimensionare la portata dell’azione revocatoria fallimentare, quanto meno per quel che concerne gli atti posti in essere dall’imprenditore (o con l’imprenditore) nella gestione ordinaria dell’impresa. Lo “anticipo di riforma” approvato con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80) è fortemente caratterizzato proprio dalla volontà del legislatore di rendere meno incisivi gli effetti dell’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari anche 6 Sono innumerevoli gli esempi nei quali le somme revocate in danno della banca, in quanto costituenti “rimesse” assimilate ai pagamenti di cui all’art. 67, co. 2, l.fall., superano di decine di volte l’entità del credito mai concesso dalla banca all’impresa fallita (e che come tale aveva costituito il rischio massimo assunto dalla prima nei confronti della seconda). Emblematica è anche la fattispecie che ha rappresentato una sorta di “colpo di coda” della vecchia disciplina, rappresentata dalle azioni revocatorie fallimentari promosse nell’ambito dell’Amministrazione Straordinaria “Parmalat”. Le sole azioni revocatorie fallimentari proposte nei confronti delle banche che intrattenevano “normali” rapporti creditizi con Parmalat – escludendo pertanto le cause revocatorie radicate nei confronti delle banche che avevano curato il collocamento di bond emessi dalle società del “Gruppo”; che avevano svolto attività di advisoring nelle operazioni di acquisizione e di dismissione di società; eccetera – equivalgono, ad una prima e parziale rilevazione, ad una piccola “legge finanziaria”! 38 e soprattutto nei confronti degli “atti normali” di gestione; per essi dei pagamenti dei debiti (scaduti) dell’imprenditore; e per questi ultimi delle “rimesse” in conto corrente, mantenute all’interno dell’ambito di applicazione dell’azione revocatoria fallimentare nei soli limiti – in sostanza – nei quali risultino ragionevolmente assimilabili al pagamenti di debiti dell’imprenditore in favore di terzi. La tecnica con la quale è stato perseguito questo obiettivo è rappresentata – come vedremo – dalla introduzione di due principi: il primo, specifico della disciplina delle “rimesse”, costituito dall’affermazione secondo la quale “non sono soggette all’azione revocatoria … le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione …” – art. 67, co. 3, lett. b), l.fall. -; il secondo, di carattere generale, e come tale applicabile – per le ragioni che si specificheranno – anche ai rapporti di conto corrente bancario, secondo il quale “qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di rapporti continuativi e reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese … e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso” (art. 70, co. 3 l.fall.) 7. La nuova disciplina appare semplice, ad una prima impressione, ma in realtà è destinata ad originare un rilevante numero di problemi interpretativi ed applicativi. Per apprezzarne la portata pare indispensabile riprendere taluni dei temi sui quali il dibattito in dottrina ed in giurisprudenza era risultato più vivace, e gli esiti interpretativi più incerti, giacchè la riforma pare dovere molto agli approfondimenti cui gli studiosi ed i giudici erano pervenuti in tale contesto. 14. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente in materia di rimesse su “saldo passivo” di conto corrente bancario “congelato” (o “bloccato”). La sottrazione al possibile esercizio dell’azione revocatoria fallimentare delle rimesse incidenti su un saldo-debitore ricompreso nell’ammontare dell’apertura di credito concessa dalla banca al correntista si giustifica dunque, secondo la giurisprudenza, con il carattere “ripristinatorio” della rimessa, nel senso che quanto versato Secondo taluno – L. . PANZANI – U. DE CRESCIENZO, Il nuovo diritto fallimentare, n. 5.3.4., Milano, Ipsoa (in corso di pubblicazione) - l’affermazione di uno dei due principi sarebbe stata sufficiente a raggiungere lo scopo. 7 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 39 dal correntista (diminuisce l’utilizzo dell’apertura di credito sino ad allora registrato, sicchè) può essere immediatamente prelevato, per pari ammontare, con l’effetto di riportare il saldo-debitore al livello originario (se non altro). La attitudine potenziale della rimessa a rigenerare disponibilità per il correntista rappresenta pertanto la condizione necessaria alla sottrazione di essa all’azione revocatoria: ma non costituisce sempre la ragione anche sufficiente a produrre tale effetto. La rimessa dotata di carattere ripristinatorio potrebbe poi, in fatto, comportare o non comportare un riutilizzo della disponibilità, così rigenerata, per pari importo o per un importo inferiore: e la circostanza che ciò sia o non sia poi accaduto, nel singolo caso di specie – perché il fallimento potrebbe essere sopraggiunto prima che il correntista avesse anche l’opportunità di riutilizzare la “provvista” generata dalla rimessa -, non dovrebbe mutare la natura (ripristinatoria) della rimessa, e con essa la sua sorte (sottratta a revocatoria). Non, peraltro, quando l’effetto astrattamente idoneo a ripristinare la provvista in favore del correntista sia stato escluso per un accordo sopravvenuto tra le parti (anche tacitamente; ed anche implicitamente) volto a consentire la movimentazione del conto corrente esclusivamente “a rientro”: cioè mirata ad ospitare versamenti per ridurre l’esposizione della banca, senza consentire corrispondenti prelievi a favore del correntista. In queste ipotesi – nelle quali i pratici parlano di “conto congelato” (spesso connotato dal ritiro da parte della banca degli assegni ancora in possesso del correntista) – la rimessa formalmente effettuata su conto “passivo” svolge in concreto una funzione solutoria, come se fosse stata effettuata su un conto “scoperto” – ed infatti tale è divenuto, nella sostanza, il conto orientato al “rientro” -, con la conseguenza di divenire soggetta, in presenza dei presupposti di cui all’art. 67, co. 2, l.fall., ad azione revocatoria. 15. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente in materia di rimesse originate da “giriconto”. La giurisprudenza è pervenuta talora a conclusioni contrastanti in materia di assoggettabilità a revocatoria fallimentare delle rimesse originate da “giriconto”, ovverosia da accrediti corrispondenti a contestuali addebiti su altro conto (corrente) bancario (dello stesso correntista). 40 In linea di principio sono considerati revocabili i “giriconto” conseguiti in contropartita di un addebito effettuato su altro conto bancario del correntista che presentasse un saldo creditore. Il “giroconto”, infatti, in tal modo, si è tradotto nell’utilizzo di disponibilità che l’imprenditore deteneva su un rapporto bancario, al fine di decurtare l’esposizione (beninteso, nei limiti in cui essa avesse generato un saldo debitore “scoperto”) formatasi su un altro conto corrente presso la stessa banca. Più discussa è l’ipotesi nella quale l’accreditamento su un determinato conto costituisca la contropartita di un addebito consentito su altro conto bancario della stessa banca, a valere su una provvista messa a disposizione della banca stessa (o in conseguenza dell’utilizzo di un affidamento concesso a valere sul secondo conto; o in conseguenza dell’autorizzazione di un addebito “allo scoperto”). In tale fattispecie – si fa notare – l’imprenditore non ha utilizzato disponibilità proprie per ridurre (con la rimessa) il saldo-debitore del primo conto, avendo fatto ricorso – al contrario – a disponibilità fornitagli dalla stessa banca grazie alla facilitazione creditizia concessa con l’autorizzazione all’effettuazione del corrispondente addebito, in contropartita della rimessa, su un (secondo) conto privo di sufficiente capienza. 16. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente in materia di rimesse effettuate da terzi. In materia di “rimesse” effettuate sul conto corrente bancario dell’imprenditore, poi fallito, da un soggetto-terzo, si assiste ad un orientamento giurisprudenziale che appare poco coerente con gli esiti, sempre giudiziali, della equivalente discussione circa la revocabilità delle garanzie dei terzi. Mentre per ciò che concerne la revocatoria delle garanzie, la garanzia costituita da un terzo non è revocabile, anche secondo i giudici, nel fallimento del debitore principale (potrà esserlo, eventualmente, ove fallisca il terzo garante, nell’ambito del fallimento di questi); per ciò che concerne invece la revocatoria dei pagamenti, è revocabile anche il pagamento del terzo, secondo la giurisprudenza, con la sola eccezione del pagamento effettuato da un “terzo” che sia anch’esso debitore del creditore soddisfatto, quindi autore del pagamento di un debito anche proprio (ipotesi del pagamento da parte del coobbligato solidale e da parte del fideiussore del fallito). L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 41 A tale proposito va osservato, in via preliminare, che il pagamento “del terzo” non è sempre, in realtà, un pagamento effettuato a scapito di un patrimonio estraneo al concorso fallimentare. Nel caso, assai frequente, del pagamento ricevuto dalla banca da un soggetto “terzo”, diverso dal cliente poi fallito, il pagamento produce in realtà effetti diretti sul patrimonio di quest’ultimo, tutte le volte nelle quali il solvens fosse suo debitore (ad es., i clienti, debitori dei prezzi degli acquisti effettuati o dei servizi ottenuti). In tali fattispecie, infatti, il solvens, pagando alla banca (rectius: pagando all’imprenditore presso la banca da questi indicata), estingue una propria obbligazione, che il curatore fallimentare non avrà più titolo ad esigere. Nei limiti in cui il pagamento di questo genere di “terzi” abbia estinto o ridotto un credito della banca verso l’imprenditore poi fallito – come nelle ipotesi nelle quali abbia estinto o ridotto l’esposizione presentata dal conto corrente del fallito sul quale è stato accreditato il pagamento del “terzo” -, tale versamento è revocabile alla stregua di quello che fosse stato effettuato direttamente dal correntista con il denaro che gli fosse pervenuto dal solvens. Ma la giurisprudenza assoggetta a revocatoria fallimentare i pagamenti ricevuti dall’accipiens (di norma, la banca) anche da “terzi”, quantunque si tratti di esborsi che non hanno in alcun modo inciso sul patrimonio dell’imprenditore fallito. E’ il caso del terzo, che avesse indirizzato al fallito un pagamento non dovuto; od ancora del terzo, che abbia voluto alleggerire l’indebitamento del fallito per migliorarne la situazione economica (come può accadere a seguito dello “intervento” di un familiare, o – all’interno dei “gruppi” societari – a seguito dell’intervento della “capogruppo” in favore di una società controllata). In questi casi, talora la giurisprudenza subordina la revocabilità del pagamento del “terzo”, ricevuto dall’accipiens, alla circostanza che il terzo abbia già recuperato quanto pagato nell’interesse del fallito, a scapito del patrimonio di questi: ma anche in questa ipotesi la soluzione non è condividibile, perché la revocatoria andrebbe piuttosto orientata nei confronti del solvens, per il rimborso ottenuto dal fallito. Infine occorre segnalare quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale non si sarebbe mai in presenza di un pagamento “del terzo”, in realtà, tutte le volte nelle quali il versamento di questi fosse comunque affluito sul conto corrente bancario del fallito, 42 a titolo (per l’appunto) di “rimessa”. L’accreditamento sul conto, infatti, si sarebbe comunque tradotto nella entrata delle somme nelle disponibilità del correntista – quale che ne fosse l’origine -, con la conseguenza che la sua eventuale incidenza sul conto “scoperto” la renderebbe assoggettabile a revocatoria fallimentare alla stregua di qualsiasi altra rimessa diretta effettuata dal correntista. 17. Segue. L’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla legge previgente in materia di rimesse “bilanciate” da corrispondenti utilizzi del conto corrente bancario. Il carattere tecnicamente “solutorio” di una rimessa accreditata su un conto corrente bancario (in quanto incidente su un saldodebitore registrato su un conto “scoperto”) potrebbe essere messo in discussione dalla constatazione in fatto, nel singolo caso di specie, che nessuna effettiva riduzione dell’esposizione della banca si è in realtà prodotta, nonostante l’effetto algebrico. Sono questi i casi, nei quali la rimessa incide bensì su un saldodebitore “scoperto” – riducendone momentaneamente l’ammontare, e così l’esposizione della banca -, per poi essere – peraltro – immediatamente seguita da un corrispondente addebitamento, che ripristina il livello originario dell’esposizione, per l’effettuazione di un pagamento, da parte della banca, in favore di un terzo (attraverso le varie forme tecniche possibili: “giroconto” ad altro conto corrente, acceso a nome del terzo, presso la stessa banca; bonifico indirizzato al conto corrente intrattenuto dal terzo presso altra banca; addebito sul conto corrente del cliente della banca di un assegno emesso a favore del terzo, ed originariamente non addebitato per mancanza di sufficiente provvista; eccetera). In queste ipotesi, le due operazioni di accredito e di successivo addebito sono collegate tra di loro, e costituiscono l’esecuzione di un mandato di pagamento – dove il correntista mandante dapprima fornisce alla banca mandataria la provvista per l’esecuzione dell’incarico, e poi la banca mandataria vi dà esecuzione utilizzando la provvista per effettuare il trasferimento di denaro in favore del terzo -, che i giudici ritengono astraibile, e quindi isolabile, dalla movimentazione - e quindi dalle sorti - del conto corrente utilizzato per la contabilizzazione dell’operazione. La stessa cosa accade quando la banca effettua nell’interesse del correntista un pagamento a favore di un terzo, “allo scoperto” – cioè senza che il correntista abbia costituito, in una delle forme possibili, la necessaria provvista sul conto -, ed in un momento L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 43 immediatamente successivo perviene la rimessa che pareggia il conto: si assisterebbe qui all’esecuzione di un mandato di pagamento, conferito dal correntista alla banca, nel quale il mandatario ha anticipato le somme necessarie a dare esecuzione al mandato conferitogli. In queste fattispecie la giurisprudenza parla di “partite bilanciate”: e se anche la rimessa accreditata sul conto incide su un saldodebitore “scoperto”, si è inclini a mandarla esente da revocatoria, considerando l’operazione come intervenuta direttamente tra il correntista ed il terzo beneficiario finale del pagamento, ed orientando la revocatoria, se del caso, nei confronti di questi, e non già della banca – considerata qui in semplice intermediario del correntista -, e comunque escludendo il carattere solutorio dell’accreditamento pur incidente su saldo-debitore “scoperto” 8. 18. Segue. La rilevanza del confronto tra l’entità del “massimo scoperto” registrato dal conto corrente bancario nel c.d. “periodo scoperto” ed il saldo finale del conto alla data del fallimento del correntista. Una considerazione di carattere unitario del rapporto di conto corrente bancario aveva indotto taluni tribunali e Corti d’Appello9 , nel passato, ad adottare un orientamento interpretativo che perveniva a risultati economicamente equilibrati, ma che è rimasto isolato e 8 In realtà, fermo restando il carattere “bilanciato” delle due operazioni di accredito e di addebito, sta di fatto che nel primo caso il mandato di pagamento conferito dal correntista potrebbe essere autonomamente assoggettato a revocatoria come “atto a titolo oneroso”, e con esso la provvista versata alla banca; e nel secondo caso il rimborso di quanto anticipato dalla banca per l’esecuzione del mandato potrebbe essere autonomamente assoggettato a revocatorio come “pagamento” di un debito scaduto. 9 Trib. Milano, 24 gennaio 1974, fall.to Sircoa c. Banca Popolare di Milano, inedita; Trib. Milano, 8 gennaio 1976, in Banca, borsa e tit. credito, 1976, II, 104; Trib. Milano, 11 settembre 1978, in Giur. Comm., 1979, II, 622; App. Bologna, 10 febbraio 1981, in Giur. Comm., 1981, II, 605; App. Milano, 25 gennaio 1985, in Fallimento, 1985, 572; Trib. Roma, 9 luglio 1982, in Foro it., 1982, I, 2327; e in Fallimento, 1983, 186 ss., con nota di R. SELLI, Revocatoria dei versamenti in conto corrente con apertura di credito; Trib. Milano,. 6 maggio 1985, in Fallimento, 1985, 888; App. Milano, 21 giugno 1985, in Fallimento, 1985, 1207. In dottrina v. anche V: DOTTI, Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario con saldo debitore, in Giur. Comm., 1975, I, 516 ss. 44 lungamente disatteso dalla giurisprudenza, per poi riemergere solo di recente, ma ancora con carattere episodico10 . Tale proposta interpretativa muove dalla considerazione che le rimesse e gli utilizzi del conto corrente bancario (ed in genere le partite contabilizzate in “dare” ed in “avere”) rappresentano momenti e modalità di esecuzione di un rapporto giuridico unitario, nell’ambito del quale si producono fenomeni caratterizzati da una natura lato sensu compensativa. L’afflusso, talora torrentizio, di “rimesse” in accredito, è controbilanciato da un afflusso, di norma di corrispondente intensità, di utilizzi in addebito, sicchè ciò che misura l’effettivo risultato economico dell’operatività del rapporto è il saldo che esso presenta di volta in volta. In questo contesto, la giurisprudenza citata considera suscettibile di essere assoggettate a revocatoria solamente quelle rimesse (rectius: quelle “porzioni” di rimesse) che non siano poi, in fatto, con un accertamento effettuato a posteriori, risultate utilizzate dal correntista per pagamenti in favore di terzi, bonifici, eccetera: perché in questa sola misura (la differenza tra tutti gli accrediti conseguiti e tutti gli addebiti consentiti) le rimesse effettuate sul conto corrente avrebbero prodotto una riduzione definitiva dell’esposizione della banca. La differenza in questione è facilmente determinabile sottraendo all’ammontare della esposizione massima raggiunta dal conto corrente (c.d. “massimo scoperto”) nel corso del “periodo sospetto” (riferibile al momento in cui si provi che la banca aveva acquisito consapevolezza dello stato di insolvenza del correntista, all’interno del periodo massimo di un anno – per ciò che concerne il passato reso rilevante dall’art. 67, co. 2, l.fall.), l’importo del debito residuo (eventuale) registrato dal conto corrente alla data del fallimento. Qualora tale saldo risulti inferiore al “massimo scoperto”, ciò significa che dal momento in cui la banca ha percepito la condizione di insolvenza del correntista, l’entità complessiva degli utilizzi (in addebito) è stata inferiore all’entità complessiva delle rimesse (in accredito), che non sono state utilizzate integralmente: la differenza tra le due somme (che corrisponde alla differenza tra il “massimo scoperto” ed il saldo finale)11 rappresenterebbe la porzione di 10 Trib. Pavia, 13 ottobre 1989, in Foro it., 1990, 407; App. Firenze, 28 gennaio 2004, in Dir. Fall., 2004, II, 469 11 Se si detrae dall’ammontare complessivo dei versamenti (od operazioni equivalenti) l’ammontare complessivo dei prelievi (od operazioni equivalenti) si ottiene la somma delle porzioni di versamenti di volta in volta non utilizzate per la effettuazione di prelevamenti, e che quindi sono rimaste nella disponibilità della banca: la L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 45 rimesse che ha comportato una riduzione definitiva dell’esposizione della banca, e che costituirebbe la somma assoggettabile a revocatoria. Qualora invece risultasse che il saldo-debitore finale del conto è superiore all’entità del “massimo scoperto”, ciò starebbe a significare che dalla data nella quale si ritiene di dovere fare decorrere il “periodo sospetto” alla data del fallimento, gli utilizzi consentiti dalla banca sono stati complessivamente superiori all’entità delle rimesse affluite sul conto; che nessun “rientro” è stato conseguito con la prosecuzione del rapporto; che nessuna riduzione definitiva della esposizione della banca si è effettivamente prodotta; e che – pertanto – non si registrano somme suscettibili di assoggettamento a revocatoria. 19. La ratio ispiratrice della nuova disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario introdotta dalla riforma della legge fallimentare. In linea di principio la individuazione della ratio sottesa ad una disciplina legislativa dovrebbe essere ricavata, come conclusione del suo esame, dalle considerazioni formulabili dopo averne approfondito gli effettivi contenuti e gli effettivi risultati: non già – invece – come premessa all’esame della disciplina interessata, rispetto alla quale la (supposta) ratio ispiratrice costituirebbe in realtà una apodittica chiave di lettura di natura inevitabilmente arbitraria. Anche a proposito della rinnovata disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, pertanto, sarà consigliabile formulare le conclusioni atte a fornire una sintetica valutazione del grado di attitudine della riforma a rimuovere gli inconvenienti e le ragioni di insoddisfazione della disciplina precedente, solo dopo avere esaminato da vicino, ed approfondito per quanto possibile, le nuove disposizioni in materia. sottrazione del saldo finale residuo al saldo debitore più elevato registrato nel corso del “periodo sospetto” dà lo stesso risultato algebrico. Tale risultato potrebbe poi dovere essere integrato (in danno della banca) aggiungendo ad esso gli eventuali “prelevamenti” che fossero stati rivolti a soddisfare delle pretese (non di terzi estranei o del correntista personalmente, bensì) della banca stessa, come accade per le operazioni di addebitamento disposte per il pagamento, in favore dell’azienda di credito, di interessi passivi, di commissioni, eccetera. 46 Nel caso di specie, tuttavia (quella che avrebbe voluta essere) la ratio ispiratrice della riforma è espressamente stata enunciata, in modo inusualmente articolato e circostanziato, dallo stesso legislatore, nella Relazione accompagnatrice del provvedimento di riforma: di tal chè pare conveniente darne sia pur sinteticamente atto già in apertura del commento alla nuova disciplina dell’istituto. La menzionata Relazione avverte che “l’istituto della revocatoria fallimentare viene rimodulato” attraverso un intervento caratterizzato da due principali obiettivi: a) la volontà di “precisa(re) meglio i presupposti per l’esercizio dell’azione (oggi sovente fonte di incertezze applicative e di contrasti giurisprudenziali)”; b) la volontà di introdurre nell’ordinamento “una completa disciplina di esenzione dalla revocatoria, al fine di evitare che situazioni che appaiano meritevoli di tutela siano invece travolte dall’esercizio, sovente strumentale, delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza del destinatario dei pagamenti”. Ne deriva, conseguentemente, che per la individuazione dei contenuti della riforma, e per la soluzione delle possibili incertezze interpretative sulla loro reale portata, potranno essere considerati come utili criteri ermeneutici – tra i possibili altri -: a) la dichiarata aspirazione del legislatore a semplificare “i presupposti per l’esercizio dell’azione”; b) la dichiarata aspirazione del legislatore a prevenire “l’esercizio … strumentale delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza” del debitore, nei confronti di atti posti in essere nell’ambito di “situazioni che appaiono meritevoli di tutela” – e che pure non abbiano consentito di conseguire la sottrazione dell’impresa interessata alla sentenza di fallimento -. 20. L’ambito di applicazione della nuova disciplina della revocatoria delle “rimesse”. La nozione di conto corrente bancario. Come già ricordato, la nuova disciplina della revocatoria delle rimesse in conto corrente afferma il principio secondo il quale “non sono soggette all’azione revocatoria … le rimesse effettuate su un conto corrente bancario …”: ma contemporaneamente precisa “purchè non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito …”. La nuova disciplina introdotta con l’art. 67, co. 3 l.fall. riguarda specificamente le “rimesse” effettuate “su un conto corrente bancario”: ed in via preliminare è necessario intendersi su quale sia il rapporto giuridico evocato. Pare indubbio che esso debba essere individuato in quel rapporto di cui è parte necessaria una impresa bancaria – donde la qualificazione di “contratto bancario” -, nel quale le disponibilità finanzia- L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 47 rie di cui gode la controparte dell’azienda di credito – che possano derivare o dalla precedente effettuazione di depositi di danaro (art. 1834 c.c.), o dalla precedente concessione di una apertura di credito da parte della banca (art. 1842 c.c.) – sono suscettibili di un utilizzo discrezionale (“in qualsiasi momento” : art. 1852 c..c), e ripetuto (“in più volte”: art. 1843 c.c.). Il conto, oltre che “bancario”, deve essere “corrente”: nel senso di essere interessato da una disciplina contrattuale che consente, e regola, l’effettuazione di operazioni in un numero imprecisato, e di segno contrapposto. In tale prospettiva, se non v’è difficoltà a riconoscere ricompreso nell’ambito di applicazione della norma in commento ogni rapporto bancario che va sotto il nome di “conto corrente ordinario”, come la prassi lo ha caratterizzato nel corso del tempo (prevedendone l’utilizzabilità mediante emissione di assegni bancari “tratti” sulla banca; e/o mediante il conferimento di disposizioni – “incarichi”: art. 2856 c.c. -): diverso è a dirsi per i rapporti che pur facendo utilizzo della tecnica contabile del “conto” bancario sono disciplinati da norme (per lo più di carattere contrattuale), e sono diretti a soddisfare delle esigenze, alle quali il fenomeno del conferimento alla banca dell’esecuzione di incarichi da parte del correntista o da parte di “altro cliente” (art. 1856 c.c.), è totalmente estraneo. Sono questi, ad esempio, i conti bancari su cui sono talora contabilizzate – ciò che dipende dalle procedure informatiche adottate dalla singola banca caso per caso – le operazioni costitutive di “provvista” originata da anticipazioni di crediti (commerciali) verso terzi (i cosiddetti “castelletti”: per anticipo di fatture; per anticipo di ricevute bancarie; per anticipo su ordini: eccetera), oppure le operazioni con le quali tale “provvista” viene utilizzata. Lo stesso accade per i conti bancari costituiti ai fini di consentire la contabilizzazione della erogazione (“accensione”) di finanziamenti concessi dalla banca al cliente per un periodo determinato e del loro successivo rimborso alla scadenza pattuita (“estinzione”), talora attuato tramite il semplice trasferimento del debito (con una operazione di “giroconto”) sul conto corrente “ordinario”, comunque in funzione della contabilizzazione, sul primo conto, di altra e successiva erogazione di un eventuale ulteriore finanziamento (come accade per i cc.dd. “conti anticipi/import” – nei quali la banca contabilizza i finanziamenti erogati al cliente in conseguenza della effettuazione, nel suo interesse, di pagamenti a favore del fornitore stranie- 48 ro di beni o servizi -; e per i cc.dd. “conti anticipi/export” – sui quali la banca contabilizza i finanziamenti erogati al cliente in conseguenza delle effettuazione, in suo favore, di anticipazioni di crediti derivanti dalla fornitura di beni o servizi all’estero, caratterizzati (di norma) da una durata corrispondente alla dilazione di pagamento consentita all’acquirente straniero, e da una valuta di finanziamento corrispondente a quella nella quale è espresso il credito anticipato -). Sono tutti, questi, “conti bancari”, che ovviamente non sono accompagnati dalla consegna di libretti di assegni; non registrano la contabilizzazione delle operazioni effettuate dalla banca per il conferimento dell’incarico di eseguire “servizi vari” – come il pagamento periodico delle utenze; la riscossione periodica di canoni d’affitto; eccetera -, e che non devono essere annoverati nella nozione di “conto corrente bancario” alla quale fa riferimento la nuova disposizione di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare, prevista dall’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall.12. 21. La nozione di “rimessa” (su conto corrente bancario). L’atto interessato dalla ipotesi di “esenzione” di cui all’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. è qualificato dalla norma “rimessa”: e benchè la nozione di essa sia quasi intuibile, non è detto che con riguardo a singoli casi di specie si registri un consenso generale a qualificare come tale - per lo meno agli effetti della disposizione in commento – qualsiasi annotazione in conto. Pare fuori di discussione che debba trattarsi, innanzitutto, di annotazioni costituite da accreditamenti, e non da annotazioni rappresentanti degli addebitamenti: e ciò non tanto perché l’atto che si concretizza in una annotazione nella colonna “dare” del conto corrente bancario non sia suscettibile di per sé di costituire, in singoli casi di specie, oggetto di una possibile azione revocatoria (chè anzi gli studi svolti in materia pervengono alla conclusione contraria)13 ; quanto piuttosto, per un verso in virtù della circostanza che la nozione di “rimessa” è inscindibilmente connessa, nella terminologia 12 Altra e diversa questione è quella rappresentata dalla domanda se i conti bancari in questione possano costituire “rapporti continuativi o reiterati”, ed essere interessati per tal via dalla diversa ipotesi di “esenzione” ora introdotta dal nuovo art. 70, co. 3, l.fall. (infra, Sezione III ). 13 QUATRARO-FUMAGALLI, Revocatoria ordinaria e fallimentare, Milano, 2002, I, 909 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 49 delle operazioni bancarie, all’idea dell’accreditamento in conto; e per un altro verso, in virtù della circostanza che la disposizione in commento mostra di concepire la “rimessa” come quell’atto suscettibile di attuare una riduzione della “esposizione debitoria” (che se “consistente e durevole” acquista rilievo revocatorio), che come tale non potrebbe essere rappresentata da una annotazione contabile a debito del correntista (che la “esposizione debitoria” potrebbe solamente aggravare, anziché ridurre, o provocare, ove già non sussistente). Posto dunque che di “accreditamento” si debba trattare, occorrerà verificare se rilevi o non rilevi la natura, o l’origine, della operazione annotata a credito del conto corrente, ai fini di vedere confermata, oppure esclusa, la sua attitudine a costituire un atto suscettibile di revocatoria, ogniqualvolta abbia prodotto una riduzione consistente e durevole della esposizione debitoria (in presenza, beninteso, degli altri presupposti di proponibilità del mezzo). Mentre per un rilevante numero di fattispecie pare non possa esservi discussione di sorta (così sarà particolarmente per i versamenti in conto effettuati direttamente dal correntista), per altre, invece, sono destinate a riproporsi le discussioni già sorte a proposito dell’applicabilità della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare previgente a certe tipologie di “rimesse” – sempre in presenza dei presupposti di proponibilità dell’azione, che nel passato erano individuati dalla giurisprudenza, tra l’altro e soprattutto, nell’incidenza della rimessa sul saldo-debitore di un “conto scoperto” -. Come si è avuto modo di ricordare, le discussioni investivano la rilevanza revocatoria delle rimesse originate dalla anticipazione, da parte della banca, di crediti (commerciali) dell’imprenditore verso terzi, di norma “smobilizzati” nell’ambito di specifici contratti di finanziamenti denominati “castelletti”; la rilevanza revocatoria delle rimesse prodotte da “giriconto”; e la rilevanza revocatoria delle rimesse funzionali a consentire l’effettuazione di corrispondenti (e perciò “bilanciati”) pagamenti in favore di terzi14 . Con la nuova disciplina dettata dall’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall., tuttavia, pare che il legislatore abbia voluto ricercare un compromesso, che oltre a rendere meno esagerate le possibili conseguenze e- 14 Supra, Sezione I, rispettivamente nei capitoli n. 7 e n. 10). 50 conomiche del fenomeno della revocatoria delle rimesse in conto corrente, riduca altresì il tasso di litigiosità generato dalla materia, a costo di qualche approssimazione definitoria che non mancherà di essere stigmatizzata da questo o quell’interprete. In linea di principio – e salve le eventuali precisazioni di dettaglio -, sembra di dovere concludere che qualsiasi annotazione a credito sul conto corrente abbia l’attitudine ad essere qualificata una “rimessa” ai sensi e per gli effetti del nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall., e come tale essere soggetta a revocatoria fallimentare, in presenza dei presupposti specifici (la produzione di una riduzione consistente e durevole dell’esposizione debitoria) e generali (l’appartenenza al “periodo sospetto” e la conoscenza dello stato di insolvenza del correntista da parte della banca)15 che ne condizionano l’esercizio. 22. La rilevanza della esistenza o della mancanza di una apertura di credito bancario in favore del correntista. Occorre ora affrontare il problema della perdurante rilevanza della distinzione tra le fattispecie nelle quali la rimessa abbia inciso sulla esposizione di un conto corrente bancario solamente “passivo” – cioè presentante un saldo debitore, ma espressivo dell’utilizzo di una apertura di credito bancaria concessa dall’azienda di credito al correntista -; oppure abbia inciso sulla esposizione di un conto corrente bancario “scoperto” – cioè presentante un saldo debitore formatosi nonostante la mancata concessione al correntista di una apertura di credito bancario, oppure oltre i limiti quantitativi dell’apertura di credito eventualmente concessa -. Secondo taluno, infatti16 , le “rimesse” dovrebbero considerarsi astrattamente revocabili – in presenza dei presupposti richiesti dal nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. – solamente in quanto equivalenti, o comunque assimilabili, ai pagamenti: fuori di questa ipotesi, non potrebbero essere considerate revocabili mai. Conseguentemente manterrebbe rilievo la distinzione tra rimesse incidenti su conto “passivo” e rimesse incidenti su conto “scoperto”, perchè solamente a proposito delle seconde sarebbe pertinente l’indagine, in chiave revocatoria, sui caratteri della “consistenza” e della “dure- 15 Ma su questo profilo v. infra, n. 10 In questo senso, a quel che pare di potere intendere, S. FORTUNATO, L’incerta riforma della legge fallimentare, in Corriere giuridico, 2005 (5), 97 16 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 51 volezza”, che rappresentano i nuovi presupposti di rilevanza a fini revocatori. Tale conclusione non pare peraltro condividibile. Occorre innanzitutto ricordare che la distinzione tra rimesse incidenti su conto “passivo” e rimesse incidenti su conto “scoperto” non era il frutto di una opzione legislativa, ma (solamente) il risultato di un orientamento interpretativo; ed a ciò si dovrebbe aggiungere la considerazione che le nuove disposizioni in materia di revocatoria fallimentare sembrano avere voluto introdurre una disciplina speciale della revocabilità delle “rimesse” che prescinde dalla indagine sulla assimilabilità a questa od a quest’altra categoria di atti revocabili, attribuendo piuttosto rilievo esclusivo alla produzione o meno di una riduzione consistente e durevole della “esposizione debitoria” del fallito. Sempre in questa direzione si dovrebbe richiamare l’attenzione sul carattere volutamente atecnico – a quel che pare – dell’espressione utilizzata (“esposizione debitoria”, in luogo, e ad esempio, del più preciso termine “saldo”) per individuare la situazione rilevante ai fini revocatori (espressione compatibile tanto con la situazione di saldo debitore di conto “passivo”, quanto con la situazione di saldo debitore di conto “scoperto”), nonché la dichiarata aspirazione del legislatore (espressa nella Relazione accompagnatoria del provvedimento di riforma) a pervenire ad una semplificazione della disciplina dell’istituto. Oltre a ciò, peraltro – e soprattutto -, sembra di potere osservare che la reclamata attualità della distinzione tra rimesse incidenti su saldo “passivo” e rimesse incidenti su saldo ”scoperto” non conseguirebbe probabilmente lo scopo (o non conseguirebbe comunque gli effetti) ricollegabile alla opzione interpretativa preferita, alla luce dei nuovi presupposti di revocabilità delle rimesse. L’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. attribuisce rilievo revocatoria alle sole rimesse su conto corrente bancario che ne abbiano ridotto il saldodebitore in maniera (consistente e) “durevole”: cioè, in buona sostanza, che non siano state seguite (in un periodo ragionevole) da un riutilizzo da parte del correntista. In questa situazione, è dubbio che la eventuale condizione di saldo (solo) “passivo” del conto, anziché di saldo “scoperto”, avrebbe comunque l’attitudine a sottrarre la rimessa all’azione revocatoria fallimentare: e ciò per la ragione che verrebbe in discussione il dubbio che la rimessa non sia stata effettuata su un conto [qualificabile bensì, da un punto di vista formale, (solo) “passivo”, ma divenuto, da un punto di vista so- 52 stanziale] “congelato”, con ciò che ne potrebbe conseguire in termini di revocabilità della rimessa stessa (supra, n. 14). Acquista pertanto credito l’idea che i nuovi criteri di individuazione dei presupposti di revocabilità delle rimesse su conto corrente bancario prescindano ormai dalla risalente distinzione tra saldo debitore inerente un conto bancario (solo) “passivo” e saldo debitore inerente un conto bancario “scoperto”. 23. La rilevanza della provenienza della rimessa da un terzo. Anche a proposito dell’origine della “rimessa” ritornerà di attualità il problema se rilevi o non rilevi, ed eventualmente quando rilevi – al fine di escluderne la revocabilià, pur sussistendone i presupposti in astratto – la circostanza che la rimessa sul conto dell’imprenditore fallito sia stata effettuata da un terzo. Le considerazioni già sviluppate a proposito della attualità o meno della distinzione tra rimesse incidenti su saldo debitore (solo) “passivo” e rimesse incidenti su saldo debitore “scoperto”, inducono a propendere per la irrilevanza della provenienza (se dallo stesso correntista o da un terzo) della rimessa, e più precisamente per la irrilevanza della effettiva incidenza della rimessa sul patrimonio del fallito (nel senso della sua attitudine a comportare una effettiva riduzione dell’attivo patrimoniale altrimenti disponibile per il soddisfacimento delle obbligazioni del correntista), piuttosto che della incidenza della rimessa sul patrimonio del terzo che l’abbia disposta. A questa stregua, pertanto, assumerebbero rilievo revocatorio, ove produttive di una riduzione “consistente” e “durevole” dell’esposizione debitoria, anche le rimesse del terzo; ed a prescindere dalla circostanza se si tratti di un terzo “benefattore” – cioè non obbligato ad effettuare la rimessa, pur disposta in favore del correntista (ed in ultima analisi della banca) -; oppure di un terzo garante (o coobbligato). D’altro canto anche questa opzione interpretativa non si discosta necessariamente, nonostante le apparenze, dall’esito che conseguirebbe a fare applicazione al caso di specie degli orientamenti interpretativi affermatisi, in materia, sotto il vigore della precedente disciplina. Pure riconoscendo, in linea di principio, la non revocabilità del pagamento effettuato dal terzo-garante (o coobbligato), era peraltro dubbia l’applicabilità di tale principio al versamento fatto (dal terzo-garante) direttamente sul conto corrente del fallito (garantito) – cioè alla “rimessa” del terzo -, tendendosi a considerare L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 53 questo accreditamento, in quanto confluito nella diretta disponibilità del correntista, alla stregua di qualsiasi altro versamento, revocabile – in quanto tale – sul solo presupposto della incidenza su un saldo “scoperto”17 . La considerazione di quest’ultimo profilo induce se mai a precisare che anche nella prospettiva di non ritenere più rilevante, in sede di applicazione del nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall., la provenienza della “rimessa” da un terzo, piuttosto che dal correntista; né la circostanza che il terzo rappresentasse un “estraneo”, piuttosto che un garante ( o coobbligato); tuttavia occorrerà pur sempre che si tratti di rimessa “su conto corrente” bancario, cioè su un conto corrente ancora sussistente come tale – in altri termini: ancora “operativo”, in quanto espressivo di un rapporto giuridico ancora disciplinato dalle norme dettate in materia di contratto di conto corrente bancario -. Diversamente sarebbe a dirsi nelle ipotesi di contratto di conto corrente bancario risolto, o (più prevedibilmente) sciolto per recesso della banca. In queste situazioni, infatti, il saldo debitore del (ex) conto corrente bancario costituirebbe ormai solo più un credito della banca verso il suo (ex) correntista; e la rimessa che ne comportasse la riduzione, o finanche l’estinzione, costituirebbe più precisamente un pagamento, la cui provenienza da un terzo ne comporterebbe la revocabilità o meno alla stregua della individuazione dei presupposti di revocabilità dei pagamenti dei terzi in via generale18 . Per tale ragione la banca dovrà prestare particolarmente attenzione a formalizzare, in occasione della escussione dei garanti (o dei coobbligati) del fallito, la preventiva estinzione (per risoluzione o per 17 Cass., 16 novembre 1998, n. 11520, in Fallimento, 1999, 650; Trib. Milano, 28 febbraio 2000, in Fallimento, 2000, 812 18 Problema che, come noto, accanto alla soluzione interpretativa unanimemente condivisa circa la non revocabilità del pagamento effettuato dal terzo garante (o coobbligato), genera, per i pagamenti dei terzi “estranei”, le divergenti opinioni di chi li considera revocabili sempre; chi li considera revocabili solo nell’ipotesi nella quale il terzo si sia insinuato al passivo per rivalersi nei confronti del correntista “favorito”; e chi – infine – considera revocabile solo il pagamento del terzo che abbia già esercitato (fruttuosamente) il conseguente “regresso” in danno dell’imprenditore, poi fallito – dove non si comprende bene perché l’azione revocatoria fallimentare sia rivolta nei confronti della banca, piuttosto che nei confronti del terzo soddisfatto -. 54 recesso) del rapporto di conto corrente bancario intrattenuto con l’imprenditore garantito (o coobbligato). 24. I criteri di determinazione della esistenza e della consistenza della “esposizione debitoria” del correntista. L’accreditamento di una “rimessa” su un conto corrente bancario costituisce dunque un atto revocabile – in presenza dei presupposti di carattere generale – solo qualora comporti la riduzione (consistente e durevole) della “esposizione debitoria” del fallito. Una volta espressa l’opinione secondo la quale la “esposizione debitoria” rilevante, ai fini revocatori, prescinderà – con l’applicazione del nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. - dalla considerazione della condizione del conto corrente – se (solo) “passivo, piuttosto che “scoperto” -, non ogni problema è peraltro risolto ai fini di pervenire ad una corretta applicazione della norma. Già in via preliminare occorre stabilire cosa si debba intendere per “esposizione debitoria”: e se trattandosi di conto corrente bancario è naturale fare riferimento al saldo debitore del conto, non altrettanto banale è la risposta alla domanda su quale saldo (debitore) sia necessario prendere in considerazione. Si ripropongono pertanto le distinzioni che nel passato hanno condotto ad individuare il c.d. “saldo disponibile” come la rappresentazione più correttamente espressiva della situazione (eventualmente) debitoria del correntista nei confronti della banca 19 : ed è da ritenere che i risultati interpretativi ai quali sono pervenuti gli approfondimenti effettuati nel vigore della disciplina previgente continuino a dovere essere tenuti presenti ai fini della individuazione della “esposizione debitoria” rilevante per l’applicazione del nuovo art. 67, co. 3, lett. b), l.fall. 25. I criteri di determinazione della “consistenza” della riduzione dell’esposizione debitoria. Come già segnalato, il nuovo art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. afferma la revocabilità delle rimesse su conto corrente bancario nelle ipotesi nelle quali esse abbiano comportato una riduzione dell’esposizione debitoria del fallito (durevole e) “consistente”. 19 Supra, Sezione I, n. 3 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 55 Non sono precisati i criteri in base ai quali verificare il presupposto dalla “consistenza” della rimessa: ed i primi interpreti si vanno orientando verso la soluzione che attribuisce rilievo al criterio percentuale, piuttosto che a quello attento alla considerazione del valore assoluto della rimessa20 . In termini concettuali la soluzione interpretativa proposta è corretta: ma nella pratica v’è da dubitare che essa sarà seguita sempre (o anche soltanto sovente). In via generale, appare poco probabile che un Tribunale, una volta accertati i restanti presupposti di revocabilità della rimessa, respinga la domanda revocatoria (solo) per il fatto che la riduzione dell’esposizione (effettivamente conseguita dalla banca) risulti “poco consistente”. In particolare, poi, appare ancora meno probabile che nella descritta fattispecie il Tribunale respinga la domanda revocatoria (altrimenti fondata) proposta nei confronti di una rimessa di valore assoluto ragguardevole, solo perché essa costituisce una percentuale marginale dell’affidamento, in ipotesi di entità straordinaria, concesso dalla banca. E’ allora più probabile che il presupposto della “consistenza” venga in considerazione (solo) nel momento della concessione o della negazione della autorizzazione al curatore fallimentare alla proposizione dell’azione revocatoria fallimentare nei confronti di una rimessa bancaria, senza poi mettere seriamente in discussione l’accoglibilità della domanda altrimenti fondata. 26. I criteri di determinazione della “durevolezza” della riduzione dell’esposizione debitoria. Quanto al presupposto della “durevolezza” della riduzione dell’esposizione debitoria del fallito, che pure condiziona la revocabilità della rimessa, pare certa la sussistenza del presupposto ogniqualvolta la riduzione in questione perduri fino alla chiusura del rapporto (o fino alla dichiarazione di fallimento)21 : e ciò – si deve precisare - anche se la data di effettuazione della rimessa non risulti in realtà molto risalente rispetto alla estinzione del rapporto (od alla dichiarazione di fallimento). 20 GIORGIO TARZIA, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005, 835, ss. spec. 841; A. SILVESTRINI, La nuova disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario, ibidem, 844 ss., spec. 847. 21 In questo senso GIORGIO TARZIA, op.loc.ultt.citt. 56 Non può neppure essere escluso, peraltro, che sia giudicabile (od in concreto giudicata) “durevole” la riduzione dell’operazione debitoria prodotta da una rimessa, che dopo qualche tempo sia seguita da un nuovo prelievo (od in generale da un nuovo utilizzo della “provvista” generata dalla rimessa). In termini generali, l’effetto solutorio di un atto (e la conseguente rilevanza revocatoria) non è escluso dalla concessione da parte del creditore soddisfatto di un nuovo credito allo stesso debitore. E’ pertanto da ritenere che il carattere “durevole” della riduzione dell’esposizione debitoria del correntista non verrà solamente attribuito alle rimesse che hanno comportato un “rientro” definitivo della banca, ma anche a quelle rimesse rispetto alle quali le successive operazioni di prelevamento, o di utilizzo nelle altre forme consentite dal contratto di conto corrente, siano intervenute dopo un intervallo di tempo anomalo rispetto alla precedente intensità di movimentazione del conto corrente. Certamente revocabili risulteranno comunque le rimesse che hanno prodotto un “rientro programmato” – di norma, rateale – da una determinata esposizione debitoria del correntista nei confronti della banca. 27. La rilevanza del principio di limitazione della somma revocabile alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle pretese della banca nel “periodo sospetto” e l’ammontare residuo finale. Come abbiamo già avuto modo di considerare, il nuovo art. 70, co. 3, l.fall. afferma che “qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo nel quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperto il concorso”. Sulla astratta appartenenza del contratto di conto corrente bancario alla categoria dei “rapporti continuativi o reiterati”, evocata dalla norma, non si registrano soverchie discussioni22 . Sul coordinamento, invece, tra la disposizione contenuta nell’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. e quella prevista dal citato art. 70, co. 3, l.fall., in materia di revocatoria delle rimesse in conto corrente, vi è discussione: sembrando per un verso due disposizioni che miravano a conseguire un iden22 GIORGIO TARZIA, op.loc.ultt.citt.; A. SILVESTRINI, op.loc.ultt.citt.; L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 57 tico obiettivo (il ridimensionamento della portata dell’azione revocatoria fallimentare nei confronti delle rimesse bancarie), onde poteva bastarne una sola 23; e risultando per un altro verso difficile ipotizzarne la simultanea applicazione all’atto rappresentato dalla rimessa in conto corrente. La possibile produzione di esiti contraddittori in conseguenza dell’applicazione delle due regole (nel senso che rimesse comportanti riduzioni non consistenti e non durevoli dell’esposizione del correntista risulterebbero sottratte all’azione revocatoria fallimentare ai sensi dell’art. 67, co. 3, lett. b), ed alla stessa assoggettabili – invece – ai sensi dell’art. 70, co. 3), ha indotto taluni a considerare l’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. norma speciale per (le rimesse su) i conti correnti bancari, con conseguente applicazione in via esclusiva agli atti rappresentati da “rimesse” bancarie 24 . Secondo altri studiosi, invece, si produrrebbe un fenomeno contrario: nel senso che la regola dettata dall’art. 70, co. 3, l.fall. rappresenterebbe per gli atti costituiti da rimesse su conto corrente bancario, la precisazione delle modalità applicative della regola per esse dettata dall’art. 67, co. 3, lett. b) – nel senso che l’azione revocatoria potrà sempre avere come oggetto solamente la somma corrispondente alla differenza tra il “massimo scoperto” raggiunto dal conto corrente bancario nel corso del “periodo sospetto” e il saldo finale residuo 25 . In realtà non pare preclusa una applicazione di entrambe le norme, che giunga a pervenire alla conclusione secondo la quale la disciplina della revocabilità delle rimesse in conto corrente bancario sarebbe così riassumibile: a) le rimesse in conto corrente bancario non sono revocabili, in linea di principio – art. 67, co. 3, lett. b), prima parte -; b) [in presenza dei presupposti generali di revocabilità] sono revocabili solamente quelle rimesse in conto corrente bancario che abbiano prodotto una riduzione consistente e durevole della esposizione debitoria del correntista (art. 67, co. 3, lett. b), seconda parte l.fall.); c) in presenza di più rimesse revocabili perché presentanti le caratteristiche indicate dall’art. 67, co. 3, lett. b), seconda parte l.fall., la somma che la banca è tenuta a restituire L. PANZANI – U. DE CRESCIENZO, Il nuovo diritto fallimentare, n. 5.3.4., Milano, Ipsoa (in corso di pubblicazione) 24 GIORGIO TARZIA, op.ult.cit., 841. 25 A. SILVESTRINI, op.ult.cit., 847. 23 58 non può complessivamente superare la differenza tra l’esposizione massima registrata dal conto nel “periodo sospetto” e l’esposizione residua finale (art. 70, co. 3). Si deve peraltro precisare, che la (eventuale) modesta entità del “periodo sospetto” – in ipotesi, sei mesi 26 - renderà improbabile la produzione di una pluralità di rimesse comportanti una riduzione consistente e durevole dell’esposizione, la cui somma superi l’entità del “rientro” complessivo conseguito dalla banca. Ma ciò rappresenta una considerazione di mero fatto, e poggia forse su un presupposto discutibile. 28. Le condizioni generali di revocabilità delle rimesse su conto corrente bancario. Entità del “periodo sospetto” e presupposti di accoglibilità della domanda. La considerazione formulata da ultimo induce ad alcune precisazioni relative a quei profili dell’azione revocatoria fallimentare delle rimesse su conto corrente bancario rappresentati dalla individuazione della entità del “periodo sospetto” e dalla precisazione di quali siano le condizioni di accoglibilità della domanda. L’art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. non precisa quali rimesse eventualmente produttive di una riduzione consistente e durevole dell’esposizione debitoria del fallito siano revocabili, sotto il profilo della maggiore o minore prossimità alla data del fallimento (“periodo sospetto”); né precisa a quali condizioni tali rimesse siano revocabili (se sul presupposto della dimostrazione da parte del curatore fallimentare della conoscenza dello stato di insolvenza del fallito da parte della banca; se sulla base di una presunzione legale di scientia decoctionis, superabile dalla banca attraverso la prova contraria della inscientia decoctionis; se “di diritto”, a prescindere da ogni altro possibile presupposto). Per dare una risposta a queste domande pare necessario individuare a quale categoria generale di atti riferire le operazioni di “rimessa” in conto corrente, per ricercare i presupposti generali di revocabilità stabiliti per la categoria di riferimento. In caso di rimesse effettuate a riduzione di esposizioni bancarie registrate su conti correnti accesi a nome del correntista, sembra utilmente richiamabile la disciplina generale della revocabilità degli “atti a titolo onero- 26 In questo senso A. SILVESTRINI, op.loc.ultt.citt. L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 59 so”27 : ed in tale prospettiva saranno revocabili le rimesse produttive di riduzioni consistenti e durevoli dell’esposizione bancaria effettuate nei sei mesi precedenti la dichiarazione di fallimento, e alla condizione che il curatore dimostri la conoscenza dello stato di insolvenza del correntista da parte della banca. In caso di rimesse effettuate a riduzione di esposizioni bancarie registrate su conti correnti altrui – senza che il solvens ne sia né garante, né coobbligato -, sembra utilmente richiamabile la disciplina generale della revocabilità degli “atti a titolo gratuito”: ed in tale prospettiva saranno revocabili (nell’ambito beninteso del fallimento del solvens) le rimesse produttive di riduzione consistenti e durevoli dell’esposizione bancaria effettuate nei due anni anteriori al fallimento, senza la necessità della ricorrenza di altri presupposti (art. 64 l.fall.), ma con il limite dell’importo massimo complessivo costituito dal “rientro” della banca rispetto al “massimo scoperto” (art. 70, co. 3, l.fall.). 29. La esenzione da revocatoria delle vendite d’immobili ad uso abitativo. I cosiddetti “fallimenti immobiliari”. Secondo la nuova disposizione dell’at. 67, co. 3, lett. c) l.f. le vendite di immobili non sono soggette a revocatoria ove ricorrano le seguenti condizioni: a) che la vendita risulti effettuata “a giusto prezzo”; b) che si tratti di immobile “ad uso abitativo”; c) che l’immobile sia “destinato” a costituire l’abitazione “principale” dell’acquirente o dei suoi parenti e affini entro il terzo grado. Tale disciplina suscita di per sé una serie di interrogativi interpretativi, sui quali la dottrina ha già incominciato ad impegnarsi. Il compito è reso più arduo dalla quasi contemporanea approvazione di un’altra disciplina mirante a tutelare gli “acquisti immobiliari”, rappresentata dal decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122; 27 Non sembrerebbe giustificato invece il richiamo alla disciplina dei “pagamenti”, in conseguenza dell’affermazione della opinione secondo la quale il regime revocatorio delle “rimesse” prescinderà, per il futuro, dal carattere “solutorio”, piuttosto che “ripristinatorio”, del singolo accreditamento. In particolare, la rimessa effettuata su conto corrente “passivo” non potrebbe essere ritenuta revocabile alla stregua di un pagamento anticipato (e dunque secondo il regime previsto dall’art. 65 l.fall.), perché qualora venisse valutata in termini di “pagamento” rivelerebbe la mancanza di attitudine a produrre effetti estintivi di una obbligazione. 60 e dalla necessità di coordinamento dei due nuovi testi normativi con la risalente disciplina – anch’essa rivolta ad apprestate una particolare tutela nei confronti delle conseguenze delle “crisi” delle imprese operanti nel settore edilizio o immobiliare – del contratto preliminare di compravendita immobiliare (d.-l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in l. 28 febbraio 1997, n. 30). 30. Segue. La esenzione da revocatoria per le vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo (art. 67, co. 3, lett. c), l.f.). La nuova ipotesi di “esenzione” dalla revocatoria introdotta con l’art. 67, co. 3, lett. c) l.f. sottrae all’esercizio di tale azione “le vendite a giusto prezzo d’immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado”. La ratio della norma dovrebbe essere rappresentata dalla volontà di tutelare quella particolare forma di risparmio privato che è costituita dall’investimento nella casa di abitazione, e che si iscrive nel principio costituzionale (art. 47 Cost.) di sostegno dell’accesso del “risparmio popolare” alla proprietà dell’abitazione. Occorre peraltro subito mettere sull’avviso il lettore circa l’approssimazione con la quale questo (supposto) obbiettivo viene perseguito, se si tiene conto di come, alla luce della formulazione della disciplina in commento, risultino ugualmente tutelati: a) anche gli acquisti di immobili di ingente od ingentissimo valore; b) anche gli acquisti di immobili che non costituiscano la “prima casa” (né la seconda, o la terza …) dell’acquirente; c) anche gli acquisti caratterizzati da una componente speculativa; d) anche gli acquisti non effettuati da un imprenditore edile o comunque operante nel settore immobiliare, ma da qualsiasi soggetto, comunque sottoposto, in concreto, a fallimento. Sotto il profilo considerato, le limitazioni poste all’ambito di applicazione della “esenzione” sembrano concentrarsi nella circostanza che l’acquisto debba necessariamente essere effettuato da una persona fisica (stante la destinazione ad uso abitativo dell’immobile e la tipologia dei possibili beneficiari della sua utilizzazione); e, per l’appunto, che debba trattarsi di immobile “destinato” a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti od affini entro il terzo grado (con la conseguente, incomprensibile esclusione del coniuge). La sufficienza della “destinazione” dell’immobile ad abitazione di taluno dei soggetti rilevanti consente sia la programmazione di un acquisto che nell’immediato non si L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 61 possa (o non si voglia) adibire a tale funzione; sia l’acquisto di un immobile ancora da costruire (dove più evidente sarà la sovrapposizione della disciplina in commento con quella apprestata dal coevo d.lgs. n. 122/2005 – infra -). Quanto alla nozione di “abitazione principale”, è da ritenere che si debba fare riferimento (come suggeriscono le disposizioni tributarie di settore) a quella nella quale l’acquirente (o chi per lui) “dimora abitualmente”, pervenendo per questa via ad individuare una situazione sostanzialmente coincidente, in fatto, con la residenza del soggetto (intesa come “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”: art. 43, co. 2, c.c.), anche se non risulta necessaria la contestuale assunzione della residenza anagrafica. Sotto il profilo che potremmo definire “economico”, la esenzione da revocatoria è attribuita ai soli acquisti immobiliari effettuati “a giusto prezzo”: dove la mancanza di listini ed in generale la eterogenità della caratteristiche tipologiche delle singole abitazioni comporteranno sovente la necessità di disporre consulenze tecniche d’ufficio – salvo che l’acquisto sia stato accompagnato dalla redazione della stima di un esperto, e questa venga considerata sufficientemente attendibile -. Non pare poi che la “esenzione” in commento possa essere invocata per il solo fatto che il prezzo corrisposto al venditore risulti rispettoso del limite (non inferiore di un quarto rispetto al valore della controprestazione) oggi individuato nel nuovo art. 67, co. 1, n. 1, l.f.: dovendosi ritenere che mentre agli acquisti effettuati ad un prezzo “sproporzionato” perchè inferiore di oltre un quarto al prezzo corretto (o “giusto”) risulterà applicabile la revocatoria (oggi annuale) comportante la presunzione di “mala fede” dell’acquirente, per gli acquisti ugualmente non rispettosi del “giusto” prezzo, ma in proporzione meno vistosa, si potrà far luogo alla revocatoria (oggi semestrale) che postula la prova da parte del curatore fallimentare che l’acquirente conosceva lo stato di insolvenza del venditore; laddove – infine – l’acquisto effettuato per un prezzo “giusto” sarà per definizione sottratto a revocatoria, quale che fosse la condizione psicologica dell’acquirente. Deve infatti essere sottolineato che l’acquisto dell’immobile ad uso abitativo a “giusto” prezzo si sottrae a revocatoria fallimentare anche nell’ipotesi nella quale la situazione di insolvenza del venditore sia perfettamente nota 62 all’acquirente – e, conseguentemente, anche quando il fallimento venga dichiarato dopo pochi giorni, e quando nell’attivo non si riscontri (più) traccia del prezzo corrisposto dall’acquirente -. La totale irrilevanza dello stato psicologico, e conseguentemente dell’animus, dell’acquirente dovrebbe costituire un elemento da prendere in considerazione anche al fine di stabilire quale sia l’effettivo ambito di applicazione della “esenzione”, sotto il profilo delle tipologie di azioni revocatorie rese improponibili. E’ da ritenere che alludendosi a contratti di “vendita”, o comunque a negozi caratterizzati dalla corresponsione di un prezzo (oltretutto “giusto”, quindi non simbolico), non si intenda sottrarre alla revocatoria fallimentare (prevista dall’art. 64 l.f.) l’atto a titolo gratuito con il quale il fallito avesse disposto di un immobile, sia pure ad uso abitativo e sia pure adibito ad abitazione personale del nuovo proprietario (o di chi per lui alla luce dei rapporti di parentela o di affinità “rilevanti”). Meno immediata è invece la soluzione da riservarsi alla applicabilità o meno dell’azione revocatoria ordinaria che il curatore intendesse proporre ai sensi dell’art. 66 l.f. La risposta che sembrerebbe farsi preferire è quella negativa, perché ove si consentisse al curatore fallimentare di proporre – ai sensi del richiamato art. 66 l.f. – l’azione revocatoria ordinaria nei confronti dell’acquisto dell’immobile (ad uso abitativo e da destinarsi ad abitazione principale) “a giusto prezzo”, ciò non consentirebbe soltanto di privare di efficacia gli acquisti effettuati in data risalente oltre ai sei mesi anteriori al fallimento (attuale consistenza del “periodo sospetto” per gli atti a titolo oneroso); ma consentirebbe altresì, per questa via, di privare di efficacia gli acquisti effettuati nel “periodo sospetto”, privando di contenuto la previsione della “esenzione”. In altri termini, il curatore fallimentare che fosse in condizione di dimostrare che l’acquirente (a “giusto prezzo”) era a conoscenza dello stato di insolvenza del venditore, non dovrebbe essere messo in condizione di esercitare nei suoi confronti l’azione revocatoria ordinaria ex art. 66 l.f. (prevedibilmente fondata, sia per il ritenuto carattere pregiudizievole degli atti di disposizione con i quali si sottraggono alla garanzia dei creditori beni facilmente aggredibili sostituendoli con denaro meno facilmente apprendibile; sia per L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 63 la sostanziale equivalenza, nel caso di specie, tra consapevolezza dell’insolvenza e consapevolezza del “pregiudizio (arrecato alle ragioni de(i) creditor(i)” – art. 2901 c.c. -), in una situazione nella quale è invece espressamente escluso l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare. In questa direzione, anche l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria fuori del fallimento dovrebbe prevedibilmente essere escluso. Si deve pertanto segnalare la vistosa contraddizione nella quale è caduto (anche in questa circostanza) il legislatore, allorchè mentre ha inserito la fattispecie degli acquisti di immobili ad uso abitativo effettuati a “giusto prezzo” nel novero delle “esenzioni” che paiono avere un ambito di applicazione più vasto della sola sottrazione all’art. 67 l.f. – per quanto detto appena sopra e per quanto più in generale considerato supra, Sezione IV, n. 10 -; contemporaneamente ha circoscritto alle sole disposizioni “di questo articolo” (articolo 67) l’area della esenzione prevista per gli acquisti di immobili da costruire, nell’ambito della coeva disciplina introdotta con l’approvazione del d.lgs. n. 122/2005 (infra). Sotto il profilo che potremmo definire “tipologico”, infine, è da segnalare che benchè la norma faccia riferimento alle sole “vendite”, pare naturale estenderne l’applicabilità a tutti gli atti a titolo oneroso che abbiano l’attitudine a trasferire la proprietà (dell’immobile ad uso abitativo): con l’avvertenza che dovrà trattarsi di atti comunque opponibili al fallimento, e quindi integrati dalle formalità necessarie a renderli opponibili ai terzi – come preteso dall’art. 45 l.f. -, che nel caso di specie sono rappresentata dalla trascrizione. Il tema della opponibilità evoca il problema interpretativo della opponibilità al curatore fallimentare della simulazione del prezzo, che riveste un ruolo tanto più importante, quanto proprio la entità del prezzo acquista rilievo decisivo nel sottrarre o meno l’atto a revocatoria fallimentare. Premesso che nella fattispecie in esame il prezzo corrisposto deve presumibilmente confrontarsi con il valore dell’immobile al momento del trasferimento della proprietà – e non al momento della stipulazione del contratto preliminare, come previsto per gli acquisti di immobili ancora da costruire (infra) -, si deve ritenere che risultino applicabili an- 64 che al caso di specie gli orientamenti interpretativi formatisi in materia di condizioni di opponibilità al curatore fallimentare della simulazione posta in essere con il fallito. 31. Segue. La disciplina dei “fallimenti immobiliari” (d.lgs. n. 122/2005). Il recente decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 122 dà attuazione alla legge delega 2 agosto 2004, n. 210, la quale mirava espressamente a tutelare “i diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire”, nei confronti delle situazioni di “crisi” delle imprese di costruzione (o degli imprenditori che professionalmente vendano immobili da costruire). Tra gli strumenti utilizzati per conseguire questo obiettivo vi è anche la previsione di nuove fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare. In particolare, sono dichiarati sottratti all’azione revocatoria “prevista dall’art. 67” l.f. “gli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento di immobili da costruire, nei quali l’acquirente si impegni a stabilire, entro dodici mesi dalla data di acquisto o di ultimazione degli stessi, la residenza propria o di suoi parenti o affini entro il terzo grado, se posti in essere al giusto prezzo, da valutarsi alla data della stipula del preliminare”. Come si può facilmente notare, la norma in commento si avvicina molto a quella, praticamente coeva, dettata nell’ambito della riforma del diritto fallimentare, e oggi contenuta nel nuovo art. 67, co. 3, lett. c) l.f. Si tratta sempre di attribuire “stabilità” ad acquisti immobiliari effettuati da una persona fisica; destinati a soddisfare esigenze abitative proprie o del proprio nucleo familiare (che ha una composizione identica nelle due previsioni normative, entrambe disinteressate agli eventuali interessi del, o per il, coniuge); posto in essere “al giusto prezzo”. La differenza di rilievo che caratterizza le due previsioni consiste nella circostanza che il d.lgs. n. 112/2005 ha specifico riguardo ai soli acquisti di “immobili da costruire”: per i quali talune precisazioni rispetto agli acquisti immobiliari in generale sono effettivamente opportune (come è quella concernente la previsione di un termine precisato per l’utilizzazione dell’immobile all’uso abitativo dell’acquirente o di un famigliare, essendo escluso per definizione che ciò possa avvenire immediatamente). L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 65 L’identità del fenomeno che si è inteso disciplinare imporrà, per il resto, di interpretare le due discipline considerandole in stretta correlazione: e, in particolare, di utilizzare le previsioni più circostanziate dell’una per integrare le disposizioni che risultassero più generiche nell’altra – onde per esempio si deve ricavare dalla “omnicomprensibità” della tipologia di acquisti menzionata nel d.lgs. n. 122/2005 un criterio interpretativo volto ad attribuire analoga portata alla “esenzione” prevista dall’art. 67, co. 3, lett. c), l.f., che pure suona limitata, sotto un profilo letterale, alle “vendite” -. Occorre se mai osservare che l’ambito volutamente circoscritto (la sola revocatoria fallimentare prevista dall’art. 67 l.f.) della “esenzione” in commento, che sostanzialmente riguarda i soli atti posti in essere nei sei mesi precedenti il fallimento – trattandosi di atti necessariamente “normali”, in relazione alla condizione del “giusto prezzo” -, rischia di rendere il beneficio più apparente che reale. Nella maggior parte dei casi, infatti, il fallimento dell’imprenditore edile che sopravvenga entro i sei mesi dalla stipulazione di un contratto – quale che ne sia la tipologia – avente ad oggetto “un immobile (ancora) da costruire”, comporterà l’applicabilità al negozio de quo, in quanto “non ancora eseguito da entrambi i contraenti”, dell’art. 72 l.f., con conseguente facoltà del curatore fallimentare di provocare lo scioglimento del contratto, così conseguendo l’obiettivo (in ipotesi ritenuto più conveniente per la procedura) di non dovere trasferire al contraente in bonis la proprietà dell’immobile oggetto del contratto pendente. In questa prospettiva, pertanto, l’aspettativa del promissario acquirente (o dell’acquirente non ancora titolare del diritto di proprietà dell’immobile) è tutelata nei confronti del rischio rappresentato dalla eventuale revocabilità del contratto stipulato con l’imprenditore edile poi fallito: ma non è tutelata nei confronti del diritto del curatore fallimentare di propendere per lo scioglimento del contratto (per il più delle volte) ancora “pendente”, piuttosto che per il subentro nello stesso – tenuto anche conto dell’oggettiva difficoltà, per un curatore fallimentare, di subingredire in contratti aventi ad oggetto “immobili da costruire”, prevedibilmente non ancora ultimati -). 66 Tali considerazioni evidenziano quale sia l’importanza del recente pronunciamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione28, secondo la quale il curatore non può più esercitare la facoltà di scegliere tra lo scioglimento e l’esecuzione del contratto preliminare di vendita immobiliare, se il promissario acquirente abbia trascritto prima del fallimento la domanda giudiziale diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre (cfr. art. 2932 c.c.). Si deve allora concludere che nella maggior parte dei casi il fallimento del costruttore edile, o dell’impresa di intermediazione immobiliare, vanifichi l’aspettativa del promissario acquirente di divenire proprietario dell’immobile agognato, ponendo il problema della tutela dei suoi crediti verso l’imprenditore fallito, particolarmente con riguardo agli acconti versati. Interviene in questa ipotesi, come abbiamo visto, se il contratto preliminare è stato trascritto, la norma di favore che attribuisce al promissario acquirente un privilegio speciale immobiliare collocato al grado 5bis dell’art. 2780 c.c. nella graduazione sul ricavato dall’immobile (d.-l. 31 dicembre 1996, n. 699: supra, n. 30). Se si tratta peraltro di promissari acquirenti di “immobili da costruire”, in futuro interverranno le ulteriori norme di favore introdotte con il d.lgs. n. 122/2005, che apprestano per i crediti conseguenti allo scioglimento del contratto provocato da una situazione di “crisi” del “costruttore”, una tutela particolarmente efficace, che passa attraverso la prestazione obbligatoria in favore degli “acquirenti” di una fideiussione prestata da una impresa bancaria, da una impresa assicurativa o da un intermediario finanziario iscritto nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del “Testo Unico” bancario. L’art. 2 d.lgs. n. 122/2005 prevede che all’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, il costruttore è obbligato a procurare il rilascio di una fideiussione bancaria (o equivalente) all’acquirente, per un importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro corrispettivo riscosso dal costruttore o ancora da riscuotere prima del trasferimento della pro- 28 Cass., SS.UU., 7 luglio 2004, n. 12505, in Foro it., 2004, I, 3038 L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 67 prietà (o di altro diritto reale di godimento) all’acquirente stesso. Potranno pertanto aversi situazioni nelle quali i crediti del promissario acquirente di un bene immobile nei confronti del promittente venditore “in crisi”, originati dall’intervenuto scioglimento del contratto, saranno tutelati sia in via reale (per la produzione del privilegio speciale immobiliare di cui all’art. 2775-bis c.c. in conseguenza della trascrizione del contratto preliminare), sia in via personale (per l’obbligo dei “costruttori” di procurare agli “acquirenti” di immobili da costruire una fideiussione bancaria – o equivalente – a garanzia della restituzione degli acconti e di ogni altro valore percepito come corrispettivo della progettata vendita). In questi casi è prevedibile che il promissario acquirente preferisca ricorrere alla più rapida tutela rappresentata dalla escussione della fideiussione bancaria – o equivalente -, e l’intermediario escusso avrà diritto a surrogarsi al promissario soddisfatto anche nel privilegio immobiliare conseguito alla trascrizione del preliminare. In conseguenza di quanto sopra, da un canto potrà prodursi un fenomeno di nuova valorizzazione dell’istituto della trascrizione del contratto preliminare di acquisto immobiliare, che le banche potranno porre come condizione per la prestazione della fideiussione richiesta dal costruttore in favore del promissario acquirente. Per un altro verso, poi, si creeranno i presupposti della prestazione da parte del promissario acquirente della necessaria attenzione alla conservazione delle aspettative della banca al subingresso nel privilegio speciale immobiliare conseguente alla trascrizione del contratto preliminare, così da imporgli – per esempio – di non lasciare decorrere invano il termine (di un anno dalla data prevista per la conclusione del contratto definitivo) imposto dall’art. 2645, co. 3, c.c. per la trascrizione della domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto (definitivo), pena la perdita di efficacia della trascrizione del preliminare (e l’impossibilità per la banca successivamente escussa di subentrare nelle garanzie già possedute dal creditore garantito). Prevedibilmente proprio in conseguenza della obbligazione dell’ottenimento di una fideiussione bancaria – o equivalente – in favore degli acquirenti di immobili da costruire, il d.lgs. n. 68 122/2005 introduce una ulteriore fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria, che ha per oggetto “i pagamenti dei premi e commissioni relativi ai contratti di fideiussione e di assicurazione [concernenti le “vendite” di immobili da costruire] … qualora effettuati nell’esercizio dell’attivitàd’impresa nei termini d’uso” (art. 10, co. 2, d.lgs. n. 122/2005). Anche in questo caso è evidentissima l’analogia della disposizione in esame con quella che ha introdotto , pressocchè contemporaneamente, la nuova fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria ora disciplinata dall’art. 67, co. 3, lett. a) l.f., che sottrae a revocatoria “i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”. Si è portati a pensare che la duplice previsione sia principalmente l’effetto di un mancato coordinamento (e non è certo l’unico!) tra il d.lgs. n. 122/2005 ed il d.-l. n. 35/2005. Indubbiamente, in ogni caso, la previsione in materia di “vendite immobiliari” dimostra che tra i “beni e servizi” i cui pagamenti (se effettuati nell’esercizio dell’impresa e nei termini d’uso – qualsiasi cosa ciò voglia dire -) non sono revocabili, si annoverano anche “servizi” di carattere squisitamente finanziario (addirittura relativi ad un sostengo finanziario “indiretto”che prescinde da erogazioni di somme sotto qualsiasi forma all’impresa): il chè contribuisce a privilegiare una interpretazione estensiva della formula utilizzata dall’art. 67, co. 3, lett. a), l.f., confermando l’influenza che un testo normativo ha nei confronti dell’altro, quando (inopinatamente) disciplinano la stessa materia o materie fortemente affini. 32. La esenzione da revocatoria dei pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro (art. 67, co. 3, lett. f). Sono esonerati dall’azione revocatoria anche i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da “dipendenti” e da “altri collaboratori, anche non subordinati”, del fallito. La norma si presta a letture divergenti. Pare chiaro che una delle sue funzioni sia comune a quella, già riscontrata, di assicurare all’imprenditore la stabilità di rapporti funzionali all’esercizio dell’impresa anche in situazioni di “crisi” della stessa: tanto che i pagamenti interessati dal “beneficio” della esenzione da revocatoria sono (soltanto) quelli che costituiscono tecnicamente il “corrispettivo” della prestazione lavorativa (e non L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 69 altri, ai quali è estranea tale funzione, pur rientrando nel trattamento economico dovuto al lavoratore – non saranno “protetti”, sotto questo profilo, i pagamenti quali l’indennità di mancato preavviso, che nulla hanno a che fare con la “prestazione” del lavoratore a favore dell’impresa -). Non è chiaro – invece - se la nuova disciplina aspiri altresì ad attribuire una speciale (e ulteriore) tutela ai dipendenti ed ai collaboratori del fallito. Per chi ritiene che la revocatoria dei crediti assistiti dal privilegio generale mobiliare previsto per tali soggetti sia inammissibile (se non altro per carenza di interesse, attesa la conseguenza dell’insinuazione al passivo da parte dei convenuti in revocatoria – in base al disposto dell’art. 71 l.f. – di somme equivalenti a quelle restituite, da collocarsi nello stesso grado assicurato dal privilegio originario) la “esenzione” da revocatoria non presenta un grande significato. Tutto il contrario, invece, per chi ritenga che il carattere privilegiato del credito soddisfatto non sia di ostacolo alla revoca del pagamento che ne sia stato fatto (in omaggio alla ritenuta teoria antindennitaria della revocatoria); e che l’insinuazione consentita al revocato ai sensi dell’art. 71 l.f. non comporti la “reviviscenza” dei privilegi e delle garanzie che assistevano il credito originario, ma riguardi il nuovo credito prodotto dalla restituzione alla procedura delle somme revocate, da collocarsi al chirografo e reso insinuabile, nonostante la nascita postfallimentare, proprio dalla previsione speciale dell’art. 71. Non è neppure chiaro se l’area dei rapporti di “collaborazione”, protetti dalla norma in commento, coincida con quella dei rapporti di subordinazione o para-subordinazione ai quali fa riferimento la disciplina dell’art. 409 c.p.c; oppure si estenda a ricomprendere i rapporti di collaborazione professionale, comunque nei limiti (tipologici e cronologici) nei quali i crediti originati da essi sono (anche) assistiti da privilegi di varia natura; od ancora – infine -, possa estendersi a rapporti di “collaborazione” dai quali originano pretese creditorie che neppure sono considerate assistite da prelazione legale (come sarebbe il caso del compenso degli amministratori – mentre per il compenso dei liquidatori vi osterebbe comunque l’estraneità alla ratio della norma, come rivolta a favorire la continuazione dell’esercizio dell’impresa, nonostante la situazione di “crisi” -). 70 Ad avviso di chi scrive la norma potrebbe rivelarsi portatrice di una carica innovativa tutt’altro che trascuratabile . La spiegazione che i primi commentatori propongono per questa nuova fattispecie di “esenzione” dall’azione revocatoria non è soddisfacente. Anzitutto è necessario segnalare come la disciplina previgente della revocatoria fallimentare, e la stessa disciplina ricavabile dall’intervento della riforma di cui al d.-l. n. 35/2005, escludano che un presupposto necessario di proponibilità (e di accoglibilità) dell’azione sia costituito dall’effetto pregiudizievole (cioè dal danno) dell’atto di disposizione impugnato. E’ infatti pacifico che vuoi con riguardo alla disciplina della revocatoria degli atti a titolo gratuito (art. 64 l.f.), vuoi con riguardo alla disciplina degli atti a titolo oneroso (art. 67 l.f. “vecchio” e “nuovo”), in presenza dei presupposti rispettivamente indicati dalle norme che costituiscono la disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, l’eventuale assenza di effetti pregiudizievoli sul patrimonio del fallito e sulla stessa salvaguardia del principio di trattamento paritario dei creditori, non rappresenterebbe di per sé un argomento per escludere la proponibilità (né l’accoglibilità) del mezzo. Ciò è tanto vero, che previsioni normative specifiche in materia di revocatoria fallimentare postulano espressamente la proponibilità dell’azione nei confronti di atti di disposizione improduttivi di pregiudizio economico al patrimonio del fallito (come accade per l’art. 38, co. 4, d.lgs. n. 385/1993 – “Testo Unico” bancario -. Sottraendo a revocatoria i “pagamenti … di crediti fondiari”, da una parte dimostra di postulare che in mancanza di una disposizione di “esenzione” – che provvede a dettare – sarebbero assoggettati a revocatoria anche pagamenti di crediti che hanno comportato un corrispondente aumento dell’attivo patrimoniale del debitore (conseguente alla corrispondente estinzione del peso ipotecario) di equivalente importo; e dall’altra crea i presupposti per la concreta assoggettabilità a revocatoria fallimentare di pagamenti altrettanto improduttivi di pregiudizio patrimoniale per il fallito, come sarebbero quelli estintivi di crediti ugualmente assistiti da garanzia ipotecaria capiente sui suoi beni (ma in ipotesi derivanti da operazioni non rientranti nella nozione di “credito fondiario”), oppure quelli estintivi di crediti garantiti da pegno (capiente) su beni del fallito. Non è quindi corretto spiegare la introduzione di una “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare in favore dei “crediti di lavoro” con il carattere privilegiato che essi presenterebbero, e con la conseguente mancanza di effetti pregiudi- L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 71 zievoli sul patrimonio del fallito e sulla par condicio creditorum degli atti estintivi di tali pretese creditorie, perché l’argomento non ha rilievo. In secondo luogo occorre altresì precisare che non appare neppure condividibile il diverso argomento, al quale pure hanno fatto cenno taluni dei primi commentatori della riforma introdotta (in parte qua) dal d.-l. n. 35/2005, che facendo leva sul principio dettato dall’art. 71 l.f. (ed ora ribadito – anzi, ripetuto – dal nuovo art. 70, co. 2 l.f. – e “reiterato” dall’art. 70, co. 3, seconda parte - ), spiega la introdotta esenzione da revocatoria per i pagamenti di “crediti di lavoro” con l’asserita mancanza di interesse della procedura fallimentare a proporre la relativa azione, stante la successiva insinuabilità nello stato passivo del fallimento del credito estinto con i pagamenti revocati, e conseguente collocazione sul ricavato dalla liquidazione fallimentare (mobiliare) in via preferenziale ad ogni altro credito (“immediatamente dopo le spese di giustizia”). E’ fortemente dubbio, infatti, che alla previsione della insinuabilità al passivo fallimentare di una pretesa corrispondente alle somme restituite al fallimento in conseguenza dell’esercizio vittorioso di una azione revocatoria fallimentare, possa attribuirsi il significato di una “reviviscenza” del credito estinto dai pagamenti poi assoggettati a revocatoria; ed è ancora più dubbio (e forse da doversi escludere tout court) che la supposta “reviviscenza” del credito estinto da pagamenti assoggettati a revocatoria fallimentare produca una corrispondente “reviviscenza” anche delle garanzie convenzionali o legali dalle quali esso fosse originariamente assistito. La previsione dell’art. 71 l.f. sembra piuttosto spiegarsi con la volontà di consentire l’insinuazione al passivo del fallimento, in via eccezionale, ad una pretesa che non ne presenterebbe i requisiti, per essere sorta in epoca successiva alla sentenza dichiarativa – in conseguenza cioè del pagamento effettuato in favore della procedura a seguito dell’accoglimento della domanda revocatoria -, e risultare quindi priva del necessario carattere della “concorsualità”: e la ratio della previsione parrebbe dovere essere rintracciata nella volontà di consentire la partecipazione anche del creditore convenuto in revocatoria alla ripartizione fra tutto il ceto creditorio del risultato utile conseguito con la dichiarazione di inefficacia dell’atto revocato. In questa prospettiva, l’idea che per il credito sorto per effetto del pagamento alla procedura fallimentare delle somme dovute in conseguenza dell’accoglimento della domanda revocatoria, si possa invocare il riconoscimento delle garanzie (legali o volontarie) che as- 72 sistevano la pretesa estinta con i pagamenti poi revocati, pare difficilmente sostenibile. Non è quindi corretto spiegare la introduzione di una nuova “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare in favore dei “crediti di lavoro” con la mancanza di interesse a conseguire la revocatoria di pagamenti che comporterebbe l’insinuabilità al passivo fallimentare di pretese destinate ad essere integralmente soddisfatte per effetto del “superprivilegio” generale mobiliare spettante ai “crediti di lavoro” estinti. Una volta precisate le ragioni per le quali le spiegazioni addotte sino ad ora della innovazione apportata dall’art. 67, co. 3, lett. f) l.f. non sono soddisfacenti, occorre individuare quale sia la ratio che prevedibilmente sta alla base del trattamento di favore attribuiti ai “crediti di lavoro” (e pretese assimilate). Considerazioni di carattere generale, legate alla constatazione che la maggior parte delle nuove fattispecie di esenzione dall’azione revocatoria mira a favorire la continuazione dell’esercizio dell’attività d’impresa nonostante la sopravvenienza di una situazione di “crisi”; e considerazioni di carattere particolare, riferibili alla circostanza che non tutti i “crediti di lavoro” (e assimilati) risultano favoriti, bensì solamente quelli legati alle “prestazioni di lavoro” effettuate in favore dell’impresa; inducono a ritenere che la ragione della esenzione sia da individuare nella volontà di favorire i tentativi di prevenzione, superamento o sistemazione delle situazioni di “crisi” d’impresa, garantendo all’imprenditore la possibilità di continuare ad avvalersi dell’apporto dei propri collaboratori – lavorati subordinati e non solo -, sottraendoli alla preoccupazione ricollegabile alla possibile soggezione a revocatoria dei corrispettivi erogati dall’impresa e ciò anche oltre i limiti – quali essi siano – della protezione più generalmente accordata ai fornitori di “beni e [altri] servizi” (soddisfatti “nei termini d’uso”) dalla nuova disposizione di cui all’art. 67, co. 1, lett. a) l.f. In conseguenza della individuata ratio della fattispecie di “esenzione” concernente i “crediti di lavoro”, si potrà ritenere che l’ambito di applicazione della norma debba articolarsi sulla base delle seguenti coordinate: a) esclusione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei crediti dei dipendenti e dei collaboratori dell’imprenditore che non abbiano carattere strettamente retributivo (come i crediti per indennità di mancato preavviso; per il risarcimento dei danni conseguenti ad un licenziamento inefficace, nullo od annullabile, oppure inerenti ad un “demansionamento” ingiustificato); L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 73 b) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti di “crediti di lavoro”, o assimilati, anche eccedenti i limiti quantitativi e/o cronologici nei quali dette pretese risulterebbero assistite da privilegio (come accadrebbe per i professionisti ed i prestatori d’opera – cfr. art. 2751 bis, n. 2, c.c -; e per gli agenti – cfr. art. 2791-bis, n. 3 c.c. -); c) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni di ogni genere di “lavoratore subordinato”, ivi comprese le figure introdotte dalla “legge Biagi” (contratto di lavoro intermittente; contratto di lavoro ripartito; contratto di somministrazione lavoro; contratto di inserimento); d) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni dei lavoratori cc.dd. “parasubordinati”, intendendo per quali quelli riconducibili alla previsione di cui all’art. 409 c.p.c. (cioè i rapporti caratterizzati dai requisiti della coordinazione, della continuità, e della prevalente personalità); e) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni degli agenti e dei collaboratori a progetto; f) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni dei “collaboratori” dell’imprenditore anche diversi dai cc.dd. “parasubordinati”, quali i collaboratori per prestazioni occasionali; i prestatori d’opera di cui all’art. 2222 c.c.; i prestatori d’opera intellettuale di cui agli artt. 2229 ss. c.c. (e ciò indipendentemente dalla circostanza che i “servizi” resi siano o non siano stati funzionali all’accesso dell’imprenditore ad una procedura concorsuale minore – nel qual caso concorrerebbe la ipotesi di “esenzione” disposta dall’art. 67, co. 3, lett. g) l.f. -); g) estensione del beneficio della “esenzione” per i pagamenti dei corrispettivi inerenti alle prestazioni lavorative del socio di società con soci a responsabilità illimitata (ove le modalità di esercizio della prestazione comportino il superamento del semplice esercizio collettivo dell’impresa sociale) e dell’amministratore di società, quan- 74 tunque si tratti di pretese alle quali viene normalmente negato qualsiasi carattere privilegiato. 33. La revocatoria del pagamento di cambiale scaduta (art. 68 l.f.). L’art. 68 l.f. esclude l’applicabilità dell’art. 63, co. 2, l.f. al pagamento di una cambiale (scaduta), “se il possessore di questa doveva accettarlo per non perdere l’azione cambiaria di regresso”. In tal caso l’azione revocatoria è proponibile nei confronti “dell’ultimo obbligato in via di regresso, in confronto del quale il curatore provi che conosceva lo stato d’insolvenza del debitore obbligato, quando ha tratto o girato la cambiale”. Secondo la dottrina la norma in commento mira a realizzare un contemperamento tra la disciplina cambiaria e la disciplina fallimentare, confermando per un verso l’applicabilità dei principi generali inerenti la circolazione dei titoli di credito, e conseguendo per un altro la revocatoria anche del pagamento effettuato dal debitore cambiario fallito. Il destinatario dell’azione revocatoria viene poi individuato, in questa fattispecie, nel traente, per il caso di emissione di una cambiale–tratta; oppure nel primo girante, per il caso di emissione di vaglia cambiario, in quanto costituenti i soggetti che hanno intrattenuto il rapporto di carattere sostanziale – che ha dato luogo all’emissione del titolo – con il fallito. La riforma della legge fallimentare non ha toccato né direttamente né indirettamente la disciplina in esame. 34. Revocatoria dei pagamenti effettuati tramite intermediari bancari. Venendo ora a considerare la esenzione introdotta dall’art. 70. co. 1, l. f. con riguardo alle attività di intermediazione dei pagamenti poste in essere dalle banche, occorre partire dalla considerazione preliminare – per vero alquanto banale – che se gli atti interessati da una disciplina speciale dell’azione revocatoria sono costituiti, nella fattispecie in questione, da pagamenti, ciò significherà che la prestazione “contestata” dal curatore fallimentare sarà costituita dalla estinzione di un debito. L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 75 Tutte le volte nelle quali l’imprenditore fornisca all’intermediario (bancario) la provvista per l’effettuazione di pagamenti in favore di terzi, in situazioni nelle quali non sussistano esposizioni del primo verso il secondo - per esempio perché la provvista viene costituita con un versamento su un conto bancario presentante un saldo creditore -, è probabilmente fuori di luogo parlare di “esenzione” da revocatoria dell’atto di disposizione dell’imprenditore verso la banca, grazie al coinvolgimento del “destinatario della prestazione”: giacchè anche a prescindere dalla innovazione apportata dall’art. 70, co. 1, l. f. nessuna revocatoria sarebbe comunque (stata) concepibile nei confronti della banca (depositaria); ed anche a prescindere dalla indicata innovazione il creditore soddisfatto dal pagamento (pur effettuato tramite banca) sarebbe stato soggetto a revocatoria fallimentare per quanto così ricevuti dal fallito44. Se la norma deve avere un senso – come è necessario, alla luce dei più elementari principi interpretativi -, si deve supporre che essa sia destinata ad operare anzitutto nelle situazioni nelle quali l’intermediario (bancario) abbia prevenuto l’intenzione dell’ordinante, eseguendo senz’altro il pagamento in favore del terzo beneficiario di un atto di disposizione programmato dal solvens, e poi trattenendo – l’intermediario - quanto versato dall’ordinante per consentire l’esecuzione della “rimessa”; nonché nelle situazioni 44 Rimarrebbe forse da considerare l’ipotesi della proposizione di azione revocatoria nei confronti del mandato di pagamento conferito dall’imprenditore alla banca – quale atto a titolo oneroso - , e con essa la richiesta di restituzione della provvista poi utilizzata per il pagamento in favore del terzo beneficiario del mandato. .In questa prospettiva si dovrebbe sottolineare che la previsione secondo la quale la azione revocatoria deve essere rivolta nei confronti del “destinatario della prestazione”, implica che non siano soggetti a revocatoria,gli atti in essere dall’autore della disposizione di pagamento in favore dell’intermediario, con i quali il primo abbia fornito la “provvista” al secondo perché venga dato corso al disposto trasferimento – ai sensi dell’art. 1719 c.c. in materia di mandato -, laddove tali atti avrebbero potuto essere revocati in quanto “atti a titolo oneroso” posti in essere dal fallito durante (in ipotesi) il “periodo sospetto”. 76 nelle quali l’esposizione soddisfatta [in prima battuta] dal pagamento effettato tramite l’intermediario (bancario) si fosse formata proprio nei rapporti tra intermediario e solvens (per precedenti utilizzi di facilitazioni creditizie): dove la esenzione da revocatoria del primo grazie al coinvolgimento del “destinatario della prestazione” si spiegherebbe (e si spiega) con il carattere effimero e per ciò apparente dell’effetto solutorio del pagamento nei confronti dell’intermediario, stante l’obbligo di questi (se ovviamente adempiuto) di trasferire un corrispondente importo al beneficiario finale. 35. Segue. Revocatoria dei pagamenti effettuati tramite intermediari bancari e disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario. Le considerazioni formulate da ultimo evidenziano come la disciplina della fattispecie di “esenzione“ in commento presenti (almeno apparentemente) delle possibili aree di sovrapposizione con la disciplina della “esenzione” delle rimesse su conto corrente bancario: se non altro perché le disposizioni di pagamenti in favore di terzi effettuate tramite intermediari (specializzati) bancari si attuano per l’appunto attraverso operazioni contabili (per lo più) registrate nel rapporto di conto corrente. Sotto questo profilo la previsione della sottrazione all’azione revocatoria dei pagamenti ricevuti dalla banca, in quanto aventi ad oggetto somme destinate ad essere trasferite a favore di terzi nell’ambito della attività di intermediazione dei pagamenti posta istituzionalmente in essere dall’azienda di credito, corre il rischio di risultare – al postutto - di scarsa utilità. In entrambi i generi di situazioni sopra delineati, infatti, la rapidità della successione dell’accredito della rimessa sul conto (in funzione di “provvista”) e dell’addebito per l’effettuazione del pagamento al terzo beneficiario; o della successione tra la “scopertura” prodotta dall’anticipazione del pagamento effettuata dalla banca e la successiva reintegrazione ad opera del solvens, fanno sì che le rimesse pur L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 77 produttive di una riduzione dell’esposizione bancaria sarebbero sottratte a revocatoria già solo per il carattere non durevole dell’effetto solutorio. La previsione dell’art. 70, co. 1, l. f., allora, può mantenere un significato – per gli intermediari bancari – laddove se ne consideri la possibile applicazione all’ipotesi della effettuazione di una rimessa su conto corrente bancario, presentante – la rimessa – le caratteristiche per essere assoggettata, di per sé, a revocatoria (per la durevolezza della riduzione dell’esposizione, prodotta dall’accredito)45 , ma collegata all’esecuzione di una disposizione di pagamento a favore di un terzo, capace di deviare l’iniziativa di recpero revocatorio dal soggetto intermediario al soggetto beneficiario finale della prestazione. 36. Segue. Considerazioni conclusive in materia di esenzione dalla revocatoria dei pagamenti effettuati tramite intermediari specializzati. La disciplina della “esenzione” da revocatoria dei pagamenti conseguiti nell’ambito di operazioni funzionali ad indirizzare la prestazione del solvens in favore di terzi beneficiari non si applica dunque a tutti; né riguarda ogni operazione di “interposizione” finanziaria. Essa si applica solo ad una serie di soggetti, per i quali l’interposizione nei pagamenti rappresenta l’esercizio di una attività economica (insieme ad altre) organizzata in forma di impresa . Non si applicherebbe – invece – all’operazione di intermediazione finanziaria posta in essere da un soggetto che non svolgesse professionalmente tale attività (come potrebbe essere l’ipotesi di pagamenti effettuati tramite una Agenzia Immobiliare nel contesto dell’attività tipica di tale genere di impresa). Per converso la disciplina in discussione si applica, anche con riguardo ai soggetti da essa contemplati”, alle sole operazioni rien- 45 Si pensi all’ipotesi della rimessa effettuata nell’imminenza del fallimento, e quindi definitivamente inutilizzata dal correntista fallito 78 tranti nell’attività “tipica” per la quale ciascuno di essi viene in rilievo, in relazione alla ratio che si è ritenuta sottesa alla corrispondente disciplina di favore. 37. La revocatoria degli atti estintiti di rapporti continuativi o reiterati (art. 70, co. 3, l.f.). L’art. 70, co. 3, l.fall. novellato afferma che qualora l’azione revocatoria abbia ad oggetto ”atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati”, la somma che il convenuto può essere condannato a pagare è rappresentata dalla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese nel corso del “periodo sospetto” e l’ammontare finale delle stesse alla data della sentenza dichiarativa di fallimento. La norma sembra recepire l’orientamento dottrinale, talora seguito anche in giurisprudenza, secondo il quale, in materia di revocatoria delle rimesse in conto corrente, le rimesse aventi carattere solutorio (in quanto comportanti la riduzione o l’estinzione di un credito liquido od esigibile della banca verso il correntista – quindi tipicamente quando incidenti su un saldo debitore “scoperto” o “sconfinato” -) non avrebbero dovuto essere revocate – in presenza del necessario presupposto soggettivo, tutte quante, facendone una sommatoria indiscriminata. Tali rimesse avrebbero dovuto essere revocate, invece, solo se, e nei limiti in cui, nell’ambito del periodo anteriore al fallimento per il quale fosse stata provata la conoscenza dello stato di insolvenza del correntista da parte dell’azienda di credito, l’ammontare massimo della esposizione registrata dal conto corrente si fosse azzerato o ridotto prima della sentenza dichiarativa di fallimento (producendo così il “rientro” totale o parziale della banca, in favore della quale sarebbero stati complessivamente effettuati, nel corso del “periodo sospetto”, più versamenti che prelevamenti, in quanto non l’intero importo complessivo delle rimesse effettuate dal correntista sarebbe stato utilizzato dalla banca per effettuare pagamenti od altre operazioni in favore di terzi, ma in parte sarebbe stato complessivamente trattenuto a riduzione dell’esposizione raggiunta dal conto). La disposizione che recepisce la teoria c.d. della revocabilità del (pagamento nei limiti del rientro dal) “massimo scoperto”, pare inevitabilmente applicabile proprio e per l’appunto anche all’azione revocatoria rivolta nei confronti delle rimesse sul conto corrente bancario, nonostante la concomitante introduzione di una disposizione di “esenzione” concernente esattamente le operazioni della L’ AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI NUOVI FALLIMENTI 79 specie (art. 67, co. 3, lett. b) l.fall. novellato), con la quale deve essere coordinata (supra). 38. Segue. “Esenzione” da revocatoria degli atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati e forme tecniche di affidamento bancario diverse dall’apertura di credito in conto corrente. Mentre nel passato la teoria c.d. della revocabilità del (pagamento nei limiti del rientro dal) “massimo scoperto” era stata enunciata dalla dottrina e dalla giurisprudenza con esclusivo riferimento all’attività delle banche, e con riguardo – quanto a queste ultime – alle sole operazioni di rimesse effettuate sul conto corrente bancario intrattenuto dall’imprenditore poi fallito; la norma che recepisce tale elaborazione interpretativa è espressa in termini generali, così da potere trovare applicazione sia nei confronti di soggetti diversi dalle banche; sia, quanto alle banche, con riguardo ad operazioni bancarie anche diverse dalle rimesse su conto corrente. Sotto il primo profilo la disposizione che circoscrive la revocabilità degli atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati ad una somma non superiore alla differenza tra l’ammontare massimo delle pretese del creditore ed il credito residuo finale dello stesso, pare dovere trovare applicazione a tutti i rapporti di fornitura nei quali si succedano una pluralità di vendite o di prestazione di servizi regolati da una pluralità di pagamenti, che in tal modo non rischiano di essere revocati cumulativamente, ma nei limiti dell’eventuale riduzione del credito commerciale concesso dal fornitore al cliente fallito nel “periodo sospetto”. Sotto il secondo profilo l’art. 70, co. 3, l.fall. novellato può trovare applicazione nelle ipotesi di concessione da parte della banca di linee di credito ad utilizzo ripetuto (quali le aperture di credito per anticipazioni in valuta; le aperture di credito per la prestazione di crediti di firma; gli stessi “castelletti” – aperture di credito per anticipo s.b.f. di crediti commerciali -), nelle quali ad una pluralità di “finanziamenti” succedano una pluralità di estinzioni, senza che la banca assuma una posizione di rischio complessivo pari alla somma di tutti i “finanziamenti” concessi nel corso del “periodo sospetto”, rimanendo se mai esposta al rischio della mancata restituzione del finanziamento di ammontare più elevato – verificandosi la quale l’apertura di credito non sarebbe stata utilizzabile per la erogazione di altri “finanziamenti” -: rischio che rappresenta l’importo massi- 80 mo assoggettabile a revocatoria, nell’ipotesi in cui la banca risulti “rientrata” delle proprie esposizioni nei confronti dell’imprenditore affidato, quando questi viene assoggettato al fallimento.