DALL’AUTRICE DI NON VOLARE VIA
IL RACCONTO INEDITO DELL’ESTATE
SARA RATTARO
L’AMORE ALL’IMPROVVISO
IN ESCLUSIVA
PER I LETTORI DI
.it
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© Sara Rattaro, 2014
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Il suono più assordante che puoi incontrare è quello della solitudine. Il rumore della porta che si chiude alle tue
spalle lasciando fuori una lunga giornata di lavoro e non
avere nessuno da salutare, i tuoi vestiti sistemati per occupare lo spazio doppio che hai a disposizione e quella parte di
letto che sembra improvvisamente enorme e fredda.
Il tuo amore per me è finito in un giorno d’autunno.
Tutti si ostinano a dire che questo è un sentimento testardo che ti spinge a fare cose folli e mette radici così profonde che per essere rimosso ha bisogno di tempo e impegno.
Non è vero. A te è bastato un attimo. Una sera di fine estate e una cena di lavoro.
Eravamo insieme da quasi vent’anni. Io sempre a rincorrerti, con il cervello davanti e il cuore dietro, in affanno. Tu
sempre seduto comodo. Ti ho amato dal primo momento o
almeno così mi piace ripetere a tutti quelli che mi chiedono
spiegazioni, sempre più di rado per fortuna, per giustificare
due interventi chirurgici e la rinuncia a diventare madre
perché me l’hai chiesto tu.
Se dici che l’hai fatto per amore tutti diventano più indulgenti.
Ma non è stato sempre così difficile. C’è stato un momento in cui ti piacevo tantissimo. I primi anni, quando io ero
ancora giovane e bella e tu l’uomo più romantico che avessi mai incontrato. Te lo ricordi? Mi sentivo così fortunata ad
averti accanto. Credo che sia questo ad avermi ingannata,
sentirmi migliore delle altre perché ti avevo vicino.
Non avevamo molti soldi ma quei pochi che c’erano ve3
nivano spesi per divertirci insieme. Mi portavi nei ristoranti
migliori perché volevi che tutti vedessero quanto fossi splendida. Parole tue. A volte mi sembra di sentirti ancora. Mi viene da sorridere, poi un pugno sotto lo sterno mi obbliga ad
abbassare lo sguardo.
Abbiamo messo su casa, l’abbiamo scelta e arredata. Ci sono voluti anni per farla assomigliare a quella che volevamo,
così tanto tempo che a volte sembrava fuori moda. Un po’
come me che, mentre ti seguivo ovunque, ripetevo che eri il
migliore e brindavo ai tuoi successi lavorativi, sfiorivo lentamente.
Ero esattamente come il nostro amore. Iniziavo a non andare più bene. E quando le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto e i soldi non erano più un problema,
tu li hai spesi soprattutto per me. Mi regalavi vestiti bellissimi che raramente mi entravano. Avevo preso qualche chilo. Non molti, perché nessuno sembrava accorgersene. Forse una taglia.
«Dovresti metterti a dieta, tesoro. Non riesco a chiuderti
la cerniera...»
Me l’hai detto guardandomi allo specchio mentre cercavi
di costringermi dentro un lungo abito scollato sul seno.
Io ho abbozzato un sorriso amaro.
Poi mi hai girato intorno al collo un filo di perle luminose e preziose. Ho spalancato la bocca dallo stupore. Le desideravo da sempre.
«E queste sarebbero state perfette sul décolleté che avevi
una volta.»
Sono rimasta di sale, te ne sei accorto.
Mi hai abbracciata. Mi volevi consolare come se il mio
aspetto giovane l’avessi smarrito di proposito. Poi mi hai lanciato il salvagente, a modo tuo.
«Dovresti rifarti il seno. Saresti perfetta!» hai esclamato
con la stessa semplicità con la quale, qualche anno prima,
mi avevi chiesto di rifarmi il naso, l’unica imperfezione del
mio viso. Secondo te.
Va bene. Andava bene. Sarebbe andata bene.
Ho accettato. Non era un grande sacrificio. Qualche gior4
no in clinica, un dipinto di lividi che si sarebbero asciugati
prima di andare al mare e una cicatrice invisibile agli occhi
degli altri.
Quando dicono che per essere felici basta poco, di solito,
mentono.
Con l’intervento ero anche dimagrita e finalmente mi potevi portare fuori con le perle al collo. Me le hai chiuse tu,
fissandomi sorridente attraverso lo stesso specchio.
Siamo andati avanti. Tu eri di nuovo contento e io lo ero
con te. Poi ancora quell’assenza, i tuoi occhi che stazionavano sempre meno spesso sul mio corpo. Mi sono guardata e
ho cercato la soluzione da sola. Ti avrei anticipato. Mi dedicavo un pomeriggio alla settimana e quei pochi soldi che
avevo da parte. Ero sicura che saresti stato orgoglioso del
mio spirito di iniziativa.
La mano del dottore era lieve e rassicurante. A ogni incontro si portava via qualche mese della mia vita. La pelle
del viso riluceva sempre più liscia. Poi il collo e le mani.
Non ti avevo detto nulla e speravo che tu non te ne accorgessi, che pensassi semplicemente che diventavo ogni giorno più splendida. Vivevo così. Lontana dai raggi del sole,
dal fumo, dai cibi grassi e dal riscaldamento troppo alto.
Strizzata in abiti da ragazzina con il mio seno a prova di gravità.
Andavo a correre tutti i giorni prima del lavoro e mi nutrivo di pasti sostitutivi. Allontanavo l’idea della maternità
perché avrebbe distrutto il mio corpo e perché a te i bambini non sono mai piaciuti.
Se ci ripenso ora, mi domando dove pensassi di arrivare e
soprattutto cosa sperassi di ottenere. Sfidare il tempo che
passa è da insicuri, ma quando ci sei dentro non te ne puoi
accorgere.
E poi, se ti senti insicura, spesso non è nemmeno colpa
tua. Non tutta almeno.
Quella sera d’autunno te ne sei andato. L’hai fatto. Il nostro amore è finito quel giorno. Che ipocrisia chiamarlo
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amore. Che ipocrisia pensare che qualcosa che non esisteva
potesse terminare.
Eravamo andati a una cena organizzata dalla tua azienda.
Avevo saltato il pranzo per una settimana per infilarmi nel
tuo abito preferito. Era lungo, scollato sulla schiena e con
un lungo spacco fino alla coscia. Con i tacchi così alti riuscivo a fissarti negli occhi. Tu mi hai abbracciata in ascensore
facendo attenzione a non rovinarmi la piega. Non sapevo
che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui ti avrei avuto così vicino.
«Sei bellissima», mi hai sussurrato. Ero felice.
Quando siamo entrati nella sala del ristorante c’era qualcosa che non andava, una stonatura evidente come una pellicina che non riesci a smettere di torturare.
Io.
Tutti gli occhi sobri e scuri degli invitati si sono concentrati su di me. Sul mio volto poco espressivo e la mia pelle troppo scoperta.
Tu hai lasciato la mia mano e ti sei allontanato lasciandomi da sola al centro del mirino. Un cameriere si è avvicinato e mi ha offerto dello champagne. Ho sistemato la borsa
sotto il braccio e l’ho afferrato sperando così di salvarmi.
Quando mi sono voltata, mi sono finalmente vista. Un
grande specchio posizionato accanto all’entrata per dare
profondità alla stanza mi stava restituendo tutte le mie risposte.
Ero una donna di quasi quarantacinque anni, priva di
espressione e rughe, avvolta in un abito di seta leggero color carne che si appoggiava a un seno ostinato mentre tutto
il resto cercava di raggiungere il pavimento. Compresa la
mia dignità. Poco più in là, alle mie spalle, c’eri tu. Stavi parlando con una donna molto giovane. Non l’avevo mai vista,
forse era una nuova assunta. Portava una lunga gonna nera
e una camicia che le fasciava il seno giovane. Ti sorrideva
muovendo ogni singolo muscolo del viso, cosa che io non
riuscivo più a fare. La fissavi in quel tuo modo unico, quello
che mi aveva fatto perdere la testa per te.
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Poche settimane dopo hai fatto le valigie.
«Non ti amo più», hai avuto il coraggio di dire. Era il tuo
alibi perfetto esattamente come per tanti anni era stato il
mio. Io che per amore avevo sopportato, tu che per amore
te ne andavi.
In nome dell’amore si possono fare le cose più stupide e
crudeli. È per questo che l’amore spesso è solo una bella
trappola.
Ora sono qui. Sono passati sei mesi e di te non ho quasi
notizie. So solo che sei andato a vivere con quella donna,
quella della festa. Quella ancora giovane. Me l’ha fatto sapere una collega, con la scusa che era meglio saperlo da lei che
incontrarvi per caso. A volte scopri delle amiche che non
pensavi di avere.
Vorrei avvertire la tua giovane amante e dirle chi sei tu
realmente, ma passerei per una vecchia patetica che non sa
accettare l’idea di essere stata scaricata.
I primi giorni ho fatto finta di nulla. Era tutto come sempre. La sveglia, la corsa, il lavoro e la cena leggera. Poi sono
crollata. Ho smesso di dormire e l’unica cosa che sembrava
darmi sollievo era urlare. Aprivo la doccia e mi ci buttavo
dentro. La mia voce acuta veniva spinta a terra dal getto
d’acqua bollente. Riuscivo a dormire solo grazie alla chimica, e mangiavo solo porcherie che puntualmente poi vomitavo. Finché un giorno ho avuto un’idea. Sono andata in camera. Ho aperto l’armadio e ho afferrato tutti gli abiti scollati, le sottovesti, le minigonne, le scarpe con tacchi troppo
pericolosi per essere legali, la biancheria che mi obbligavi a
indossare per le notti di fuoco e la mia vestaglia trasparente.
Li ho portati in giardino. Li ho cosparsi di alcol e ho dato
fuoco. Sono rimasta lì a fissare le fiamme che gridavano al
cielo la mia storia.
Il giorno dopo, in un negozio del centro che non avevo
mai degnato di attenzione, mi sono comprata una tuta da
ginnastica e delle scarpe comode.
«Posso metterli subito?» ho chiesto.
«Certo, signora. Le do un sacchetto per i suoi vestiti.»
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«Non importa. Li butti.»
«Ma è sicura?»
«Mai stata più sicura...»
Ho pagato, ho sorriso come ho potuto e sono uscita.
In lontananza ho visto qualcosa di nero tra il marciapiede
e la ruota della mia auto. L’ho raccolto. Era un portafoglio
da uomo. Mi sono guardata intorno sperando di individuare il proprietario, così che la mia nuova vita iniziasse con
una buona azione. Nessuno mi stava guardando. Era forse la
prima volta che non mi sentivo osservata in mezzo alla gente. Potevo farcela. Sono salita in auto e ho aperto il portafoglio alla ricerca di un documento d’identità.
Lo sfortunato si chiamava Giovanni e abitava nel quartiere vicino al mio. Presto avrebbe riavuto le sue cose. Mentre
riponevo il suo documento nello scomparto da cui l’avevo
sfilato, ho visto una fotografia. Era una donna con due bambine, probabilmente due gemelle. Lei poteva avere qualche
anno meno di me ma sicuramente non era diventata madre
da giovane. Ho provato simpatia e rabbia come se le avessi
riconosciuto addosso qualcosa di molto mio. Ho aperto un
foglio di carta che era insieme alla foto e ho letto.
Mi dispiace. Mi dispiace di averti fatto tanto male, mi dispiace
di non essermi accorta prima di essere malata, mi dispiace di andare via così, so che non è molto elegante e mi dispiace di non aver più
fatto l’amore con te, anche se stare abbracciata a voi sul letto è stato
addirittura meglio.
Non dire mai alle bambine che ho scelto i loro nomi dopo aver
visto una stupida commedia in TV. Racconta di un sogno fantastico o di un libro letto mentre le aspettavo, fai che riescano a perdonarmi.
Riavvicinati ai tuoi genitori. Ora che io non ci sono più, tu e le
bambine avrete bisogno di loro, del loro aiuto e dei loro soldi.
Frequenta mia sorella, lo so che ti sembra qualcosa di assurdo, ma
provaci. Invitala a cena, lei è divertente e bellissima e ama le nostre
figlie. Lei è incredibile. Sareste perfetti insieme e le bambine avrebbero una mamma, la migliore disponibile. Ma non fare paragoni con
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me, non sarebbe giusto. L’avrei vinta io solo perché sarò morta. Fregatene dei commenti della gente, hanno sopportato la nostra unione, si abitueranno anche al resto.
Non farmi seppellire con l’abito delle nozze e nemmeno con quello da clown. Prendi qualcosa che usavo spesso, qualcosa con cui sto
comoda, e non conservare tutte le mie cose. Regalale ai più bisognosi, è la cosa che preferisco. Tieni un paio di felpe, tu sai quali, falle
impacchettare per bene e dalle a Ella e Mia quando saranno abbastanza grandi da capire. Fai che studino, non lasciare che si perdano come abbiamo fatto noi, insisti più che puoi, lo so che questo ti
farà arrabbiare ma ora non potrai certo sgridarmi. Voglio che le mie
figlie abbiano una vita e un’istruzione dignitose. Tu seguile finché
non avranno trovato la loro strada e poi rassegnati se non dovesse
piacerti, ma non perderle di vista. Mai. Saranno sempre piccole.
Resta in salute, ti prego, non farti prendere per il culo dalla vita
come ho fatto io, non lo sopporterei.
Non dimenticarmi ma non parlare sempre di me. Lasciami andare.
Ti ho amato così tanto che faccio fatica a scriverlo.
Giulia
Ho chiuso la lettera prima che le mie lacrime la bagnassero. Piangevo per quelle parole, per quella donna che non
conoscevo e per quel fortissimo desiderio che provavo di essere lei. Quella sconosciuta che aveva sentito il bisogno di
ringraziare la sua vita e il suo amore prima di dire addio.
Ho buttato il portafoglio e la lettera sul sedile accanto come se avessero preso fuoco. Perché proprio io? Non ero già
abbastanza vuota? Se fossi stata in punto di morte, non avrei
avuto altro da fare che due misere telefonate, una delle quali al mio datore di lavoro.
Avevo barattato tutto per un paio di tette nuove che mi
impedivano di chiudere le camicie. Se avessi potuto me le sarei strappate.
Ho appoggiato la testa allo schienale e ho guardato in alto. Avevo bisogno di piangere per quella donna come se
avessi perso un’amica. Poi ho guardato il portafoglio di suo
marito e ho messo in moto.
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Pochi minuti dopo ho parcheggiato davanti all’indirizzo
che avevo trovato. Era una zona residenziale, simile alla mia.
Una schiera di piccole palazzine con ampi giardini. Perfette per le famiglie borghesi con tanti figli.
Ho visto un uomo dai capelli brizzolati che assomigliava
molto alla fotografia del documento che avevo trovato, gli
uomini non barano quasi mai in queste cose. Stava facendo
salire in auto due bambine bionde mentre parlava al telefono. Sembrava agitato. Ho immaginato che stesse andando a
fare la denuncia di smarrimento di documenti e che stesse
parlando con la banca per bloccare le carte di credito.
Sono scesa.
«Giovanni!» ho urlato correndo verso di lui come se lo conoscessi. Ero agile con la mia tuta e le scarpe comode.
Lui si è girato e mi ha guardata con aria interrogativa.
«Sta cercando questo?»
«Oh mio Dio!» ha esclamato, poi continuando la conversazione al telefono ha detto: «Aspetti l’ho ritrovato. Non
blocchi nulla! Un angelo è venuto a riportarmi il portafoglio!».
Si stava riferendo a me? L’angelo ero io?
«Grazie mille. Lei mi ha salvato!»
«L’ho trovato per terra in centro e mi sono permessa di
guardare l’indirizzo...»
«Ha fatto benissimo», ha detto mentre guardava se c’era
tutto. La foto e la lettera.
Mi ha sorriso. «Posso offrirle qualcosa? Un caffè?»
«Non è il caso...»
«La prego. Lei mi ha appena riportato la cosa più preziosa che ho. Non può immaginare il regalo che mi ha fatto. Vero ragazze? Venite a presentarvi alla signora tanto gentile
che ha riportato il portafoglio a papà.»
Le due bambine si sono avvicinate e mi hanno sorriso.
«Queste sono Ella e Mia!»
«Che bei nomi. Li devo aver letti in un romanzo...»
I loro sguardi si sono illuminati e sono corse in casa.
«La prego, si accomodi. Fa piacere fare due chiacchiere
con qualcuno ogni tanto...»
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La casa era luminosa e vivace. Giovanni ha preparato il
caffè e ha messo in tavola una torta.
«L’ho fatta io, l’assaggi o mi offendo.»
Andava contro ogni regola ma dire di sì mi ha fatto molto bene.
«È buonissima», ho esclamato, perché era vero.
«Ho imparato quando mia moglie è morta. Mi ha lasciato
la ricetta per le bambine...»
«Deve essere stata una donna straordinaria...» ho detto
mentre pensavo alle sue parole scritte.
Lui mi ha guardata come se l’avesse capito e cogliendo
l’imbarazzo nei miei occhi ha continuato: «Era testarda come un mulo, di quelle donne che sanno fare tutto e che lasciano un vuoto incolmabile per uno normale come me...».
«Le sue bambine sono bellissime.»
«Anche questo l’ha voluto lei...»
«Be’, i figli si fanno in due...»
Lui si è messo a ridere e si è seduto di fronte a me. «Lei è
sposata?»
«Separata da poco. Ha incontrato una più giovane e se
n’è andato. Un cliché.»
«Deve essere dura...»
«A volte sembra impossibile, altre incredibile...»
«Avete figli?»
«No, altra cosa in cui ho fallito. A differenza di sua moglie
io non sono brava a fare quasi nulla...»
«Non lo dica. Sono sicuro che non è vero.»
Ci siamo guardati. E allora mi sono fatta coraggio.
«Mentre cercavo il suo documento mi è capitata tra le mani la lettera di sua moglie e non ho potuto evitare di...»
«Lo capisco.»
«Mi dispiace non avrei dovuto...»
«Non si scusi. Giulia con le parole era imbattibile e se sapesse che quello che ha scritto le è piaciuto, o magari l’ha
anche commossa, la inviterebbe a cena stasera!»
«Com’è successo?»
«Leucemia acuta. Era incinta delle bambine. Un giorno
stava bene, quello dopo era piena di lividi e sdraiata in un
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letto di ospedale. Ha rifiutato le cure per portare avanti la
gravidanza e quando ha partorito era ormai tardi. Ha iniziato la chemioterapia ma quando si è accorta che le stavano solo allungando la malattia, e non la vita, ha chiesto di sospendere tutto. Voleva essere lucida per noi, per poco però.»
Guardavo quell’uomo come se improvvisamente avessi
scoperto l’arte. Era delicato e lieve.
«Ci siamo conosciuti tardi. Lei era già sposata e ha mollato tutto per me. I miei genitori non la volevano nemmeno
vedere. Una separata avrebbe rovinato la mia immagine. Poi
io ho lasciato gli studi di medicina e la carriera che mio padre sognava per me da quando era diventato primario del
suo reparto, per mettermi a scrivere sceneggiature teatrali.
C’è stato un momento in cui eravamo solo io e Giulia. Se l’avessi persa non so cosa avrei fatto della mia vita. Gli anni passavano e i figli non arrivavano, così abbiamo chiesto aiuto alla scienza. Siamo andati all’estero e sono arrivate loro.»
«Giulia aveva una sorella?»
Mi ha guardato stupito.
«L’ho letto nella lettera e mi è sembrata una cosa straordinaria chiedervi di...»
«La definirei folle. Negli ultimi mesi di vita era ossessionata. Faceva di tutto perché io e mia cognata passassimo del
tempo insieme. Pensi che voleva addirittura che andassimo
in viaggio di nozze insieme.»
«Cosa?»
«Io e Giulia ci siamo sposati poche settimane prima che
lei morisse. Avevo comprato due biglietti per andare a Parigi. Una parte di me sapeva che non ne avremmo mai avuto
il tempo, ma l’altra mi impediva di ammetterlo. Così quando lei l’ha saputo, ha iniziato a tempestarci perché il suo nome sul biglietto fosse sostituito da quello della sorella.»
«Sembra un romanzo...»
«La realtà supera la fantasia. Vuole un’altra fetta di torta?»
«Volentieri. È buonissima.»
«Avanti, me lo chieda...»
«Cosa?» ho chiesto arrossendo.
«Se tra me e mia cognata è mai successo qualcosa. Non è
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curiosa? Non racconto mai molto della mia storia, ma quando capita, difficilmente mi lasciano andare senza risolvere
questa curiosità...»
«Ebbene sì, anche se mi sarei accontentata della risposta
che avevo in testa...»
«E qual è?»
«No, la prego. Così non sembro solo curiosa ma rischio di
essere scambiata per fanatica...»
«Ilaria, mia cognata, mi è stata vicina. Si occupava delle
bambine nella cosa per me più difficile. Mantenere la normalità. Farle alzare la mattina, mandarle all’asilo, farle giocare, variare la loro alimentazione. Il tutto mentre io vagavo
per casa come un fantasma. No, non ci siamo mai avvicinati. Non in quel senso. Nonostante fossero sorelle non si assomigliavano molto, e io ho amato troppo Giulia per poterle ubbidire, ma credo che questo mia moglie lo sapesse.
Questo spiega anche perché la ricetta della torta l’abbia lasciata a me e non a sua sorella. Voleva che imparassi a vivere senza di lei.»
Ho abbassato lo sguardo. C’era qualcosa in quell’uomo
che mi affascinava al punto che mi sarei alzata e l’avrei baciato. Così ho messo in bocca l’ultimo pezzo della seconda
fetta di torta come se fossi una abituata a mangiare dolci.
«Mi dispiace. La sto annoiando con le mie avventure familiari mentre lei avrà sicuramente molte cose da fare. Ma a
volte parlare con uno sconosciuto fa bene.»
«Ha ragione. Io non ho nemmeno quello. Tutte le persone con cui potrei sfogarmi non vedono l’ora di sputarmi in
faccia un bel “te l’avevo detto” o “te la sei cercata” che non
sono ancora pronta ad ascoltare.»
«Che sbadato, non le ho nemmeno chiesto come si chiama.»
«Gloria.»
«È un bel nome.»
«Un tormento... Ha presente la canzone? Ecco, io la odio!»
«Sarà, ma io trovo che le stia molto bene. È un nome che
promette molte cose...»
L’ho guardato negli occhi. Erano grandi e verde chiaro,
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contornati da piccole rughe che parlavano apertamente di
tutte le sue cicatrici.
Ho scostato la sedia e mi sono alzata.
«Ora devo andare», ho detto a malincuore perché sarei rimasta lì a lungo, ma tutte le mie insicurezze stavano tornando a chiamarmi e presto mi sarei trasformata di nuovo in me
stessa. In una vecchia patetica, superficiale e buona a nulla.
«Grazie di avermi riportato il portafoglio, mi ha salvato...»
«Sono io che la devo ringraziare.»
«Perché?»
«Perché questa chiacchierata è stata una delle cose migliori che abbia fatto negli ultimi mesi, forse anni...»
Mi sono diretta verso l’uscita. Giovanni ha chiamato le
bambine a rapporto.
«Salutate Gloria!» ha ordinato.
«Ciao Gloria!» hanno detto quasi in coro e io sono esplosa in un grande sorriso. Uno di quelli veri, che non facevo
da tanto tempo.
«Arrivederci, bambine, è stato un piacere fare la vostra conoscenza», ho risposto.
«Può tornare a trovarci quando vuole, signora gentile»,
ha esclamato una delle due, quella meno timida, mentre la
sorella si avvicinava alla gamba del padre.
Le ho accarezzate sulla testa e sono uscita da quella casa
che mi sembrava di conoscere da sempre, inorgoglita dal
complimento disinteressato che avevo appena ricevuto.
Sono uscita dal loro giardino e ho aspettato che una macchina passasse per attraversare.
«Gloria...»
La voce di Giovanni mi ha colpita alle spalle facendomi
voltare. Si stava avvicinando a me come se si fosse dimenticato di dirmi qualcosa di importante.
«Aspetta. Posso darti del tu?»
Ho annuito.
«Mi chiedevo se una di queste sere ti farebbe piacere venire a cena qui da noi. Io non posso uscire spesso, con le
bambine, ma in questi anni ho imparato a cucinare qualco14
sa di decente e pensavo che così potresti raccontarmi la tua
di storia. Almeno io non posso dire “te l’avevo detto”!»
Ho spalancato le labbra e le ho richiuse. L’emozione mi
stava impedendo di rispondere.
«Sono stato precipitoso. Mi dispiace», ha continuato lui in
preda all’imbarazzo, facendo un passo indietro.
«No, no», ho cercato di fermarlo. «Volevo dire che sarebbe bellissimo cenare insieme, solo che credo di non avere
nulla da mettermi.»
«Quella tuta è perfetta!»
Non importa come ci sei arrivato, quale percorso hai compiuto o
se ne sei soddisfatto. Quando la vita ti lancia una palla buona,
puoi solo cercare di buttarla dentro.
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SARA RATTARO
TORNA CON UN NUOVO ROMANZO
NIENTE È COME TE
DAL 4 SETTEMBRE IN LIBRERIA
Nessuno fa solo cose giuste o sbagliate. Siamo luce e
ombra insieme. Due scatole colme di libri, pupazzi
e tante fotografie. Tutto il mondo di Margherita
è racchiuso in quelle poche cose. In spalla il suo
adorato violino e tra le mani un biglietto aereo
per una terra lontana: l’Italia. La terra dove è
nata e che non rivede da quando è piccola. Ma
ora è lì che deve tornare. Perché a quasi quindici
anni Margherita ha scoperto che a volte è la
vita a decidere per noi. Perché c’è qualcuno
che non aspetta altro che poterle stare accanto:
Francesco, suo padre. Il suono assordante
dell’assenza di Margherita ha riempito i suoi
giorni per dieci anni. Da quando sua moglie è
scappata in Danimarca con la loro figlia senza
permettergli di vederla mai più.
Francesco credeva fosse solo un viaggio. Non avrebbe mai pensato di vivere
l’incubo peggiore della sua vita. Eppure, ora che Margherita è di nuovo con
lui, è difficile ricucire quello che tanto tempo prima si è spezzato. Francesco
ha davanti a sé un’adolescente che si sente sbagliata. Perché a scuola è isolata
dai suoi compagni e a casa passa le giornate chiusa nella sua stanza. Ma
Francesco giorno dopo giorno cerca la strada per il suo cuore. Una strada
fatta di piccoli ricordi comuni che riaffiorano. Perché le cose più preziose,
come l’abbraccio di un padre, si possiedono senza doverle cercare. E quando
Margherita ha bisogno di lui come non mai, Francesco le sussurra all’orecchio
poche semplici parole per farle capire quanto sia speciale: «Niente, ma
proprio niente, è come te, Margherita».
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Sara Rattaro nasce e cresce a Genova, dove si laurea con lode
in Biologia e Scienze della comunicazione. Nel 2013 esce
Non volare via il suo primo romanzo pubblicato con Garzanti,
con cui riscuote grande successo di pubblico. La scrittura
di Sara e la sua voce unica hanno già conquistato anche i
più importanti editori di tutta Europa, che hanno deciso di
scommettere su di lei e di pubblicarla. Niente è come te è il suo
secondo romanzo con Garzanti e uscirà a settembre 2014.
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1SARA RATTARO
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