PERCHE’ ORTOEPIA A tutti capita, prima o poi, di essere colpiti dalla bellezza della voce e dal modo di parlare di alcuni. Ascoltando gli attori a teatro e al cinema, qualche cronista, i doppiatori e, perché no, anche persone della vita di tutti i giorni, è facile accorgersi che essi si esprimono in maniera diversa, migliore della nostra. Lʼammirazione è seguita, a volte, da osservazioni del tipo: “che bella dizione…”, “come parla bene…”, “ha una voce meravigliosa…”, “possiede una pronunzia perfetta…” eccetera. Con queste frasi si vuole mettere in evidenza la chiarezza dellʼesposizione, la bellezza e lʼimpostazione della voce, la correttezza degli accenti nelle parole. Ma accade, qualche volta, che usando o ascoltando la frase “che bella dizione” non sia ben chiaro se ci si riferisce ad una qualità piuttosto che ad unʼaltra. Questo perché la parola “dizione”, che deriva dal latino “dictio-dictionis”, ha una gamma di significati molto ampia: detto, parola, discorso, parte di un discorso, orazione, eccetera. Anche lʼespressione “come parla bene” è ambigua poiché può essere rivolta sia a chi esprime concetti validi in una forma letteraria povera, sia a chi fa discorsi privi di contenuti importanti ma sa parlare in modo originale e corretto. Le frasi “che bella voce”, “che pronunzia perfetta” non suscitano invece alcun dubbio. La bellezza della voce è semplicemente un dono della natura e, a volte, il risultato dellʼimpegno e dello studio. La correttezza della pronunzia, in modo analogo, può essere raggiunta con lʼesercizio e lʼapplicazione od ottenuta con “la fortuna di essere fiorentini”. Ed eccoci arrivati al punto. Lʼortoepia, che dal greco significa letteralmente “dritta parola”, cioè parola corretta, è il termine appropriato per indicare ciò che concerne la qualità della pronunzia. I vocabolari della lingua italiana si avvalgono dei cosiddetti “segni ortoepici” per indicare come devono essere pronunziate le parole. Tali segni, che poi vedremo, sono gli accenti sulle vocali, uguali per tutti 1 i vocabolari ed un segno, che può variare da dizionario a dizionario, riguardante le consonanti “s” e “z”. Dicevamo della “fortuna” di essere fiorentini. A Firenze nasce infatti la lingua italiana e lʼAccademia della Crusca, fondata nel 1583 da Leonardo Salviati, aveva lo scopo, separando il buono dal mediocre, di redigere un vocabolario seguendo il canone illustre del fiorentino del Trecento. Il “Vocabolario degli Accademici della Crusca” aveva la sua prima edizione a Venezia nel 1612 ed è da considerarsi il più antico “vocabolario moderno” delle letterature europee. Eʼ comprensibile allora come a Firenze, in Toscana e in gran parte dellʼItalia centrale, dallʼUmbria al Lazio e alle Marche, si parli un italiano ortoepicamente migliore. In questi ultimi 50 anni ci sono stati grandi mutamenti sociali. La televisione e il trasferimento in massa dalle campagne alle città e da regione a regione hanno causato un sempre più ridotto uso dei dialetti. Siamo tutti dʼaccordo che si deve evitare la perdita di un patrimonio culturale così importante, ma se deve essere mantenuta e difesa la tradizione dialettale a maggior ragione è necessario tutelare la nostra lingua nazionale, lʼitaliano, che è il “primo” dei dialetti e il più nobile. I nostri antenati sono i Liguri, i Sardi, i Sicani, i Veneti, gli Umbri, i Sanniti, i Piceni, i Bruzii, i Lucani, gli Apuli, i Siculi, gli Iapigi, i Latini, i Sabini, gli Equi, i Volsci ed anche i Fenici, i Cartaginesi ed i Greci. LʼItalia è proprio al centro di quel Mediterraneo che ha visto sorgere e svilupparsi lo splendore del mondo greco e romano. Nessun altro popolo è stato a contatto, come noi, con le civiltà più elevate. Non a caso, forse, a partire dal tredicesimo secolo, parallelamente alla nascita della lingua e della letteratura italiana, cʼè stato un fiorire delle opere dʼarte che è culminato nellʼincredibile produzione del nostro Rinascimento. A noi piace credere che nella nostra lingua ci sia tutto questo e che la struttura del periodo, la rigorosità, lʼestrema logica e tutta la bellezza del pensiero greco e latino siano felicemente tradotte e rese in italiano. Nelle più famose università degli Stati Uniti si dà molta importanza, in questo periodo, allo studio del greco e del latino perché queste lingue avrebbero, secondo gli esperti americani, un grande potere formativo. Eʼ divertente sapere che vi sono studiosi stranieri che sostengono, ora, quello che anche noi abbiamo sempre pensato. Eʼ un 2 poʼ meno divertente constatare che purtroppo ci sia, se non a parole certamente di fatto, una tendenza di pensiero contraria proprio in Italia e che poco alla volta ci accingiamo ad abbandonare lo studio di quelle meravigliose lingue. Unʼaltra stranezza, e questa è strettamente ortoepica, ci pare la seguente. Nello studio delle lingue straniere diamo molta importanza alla pronunzia. Facciamo un esempio. In francese la parola “padre” è “père” e si legge con la “e larga” come indica lʼaccento ortoepico grave (\) od ottuso. Qualsiasi insegnante considera giustamente un grave errore il dire “pére” con la “e stretta”. In italiano invece, che è la nostra lingua, non si dà importanza ad errori del genere. E questo accade non soltanto a scuola. Sui manifesti della pubblicità, nei giornali, alla TV capita sempre più spesso di osservare errori del tipo: “é bello”, “perchè”, “cʼé”, eccetera. Ora, se lungo la strada o presso un negozio leggiamo “Natale é bello”, possiamo non accorgercene o dare al fatto lʼimportanza che merita. Ma se, durante trasmissioni di natura politicoculturale, tra le più seguite ed interessanti, si notano frasi del tipo: “Ma questa é…” o “PERCHÈ” (a caratteri cubitali ed in rosso), si può rimanere veramente perplessi! Poiché tutto quello che è in movimento attira maggiormente lʼattenzione di ciò che è fermo, ci siamo accorti, allʼennesima ricomparsa della scritta, di quanto avveniva. I personaggi presenti, giornalisti, intellettuali ed esponenti del mondo della cultura e della politica, fra i più cari al pubblico, discutevano sullʼargomento con eleganza, intelligenza e, perché non dirlo, anche con un bellʼitaliano ed una piacevole ortoepia. E dietro di loro quel piccolo, insignificante ma fastidiosissimo errore… Eʼ sempre accaduto che nella lingua parlata si prendessero licenze “ortoepiche” del genere; è del tutto naturale e comprensibile, ma nel passato era molto raro “leggere” errori così. Anche le altre lingue nazionali hanno, nelle varie zone, inflessioni e cadenze diverse e, proprio come in Italia, si parla in maniera più o meno ortoepicamente corretta. Noi sappiamo capire facilmente se una persona è veneta o siciliana, se unʼaltra è ligure o pugliese dallʼinflessione che, nel loro italiano, deriva dal corrispondente dialetto. Se queste stesse persone potessero esprimersi senza quelle cadenze rivelatrici, ci sarebbe molto difficile individuarne la provenienza perché le differenze che le caratterizzano si ridurrebbero solo a quelle ortoepiche. A parte qualche caso noto a tutti come certe “e aperte” (barchètta…) dei milanesi o certe “o chiuse” 3 (uóvo…) dei napoletani che possono rivelarcene lʼorigine, per riuscire nellʼintento è necessario non solo conoscere lʼortoepia ma anche le caratteristiche ortoepiche buone e meno buone delle varie regioni. Unʼultima osservazione. Teniamo a ribadire che noi consideriamo estremamente importanti i dialetti, sia dal punto di vista culturale che espressivo, e riteniamo che la tradizione dialettale non debba morire; lʼinflessione e la cadenza di una parlata però (non il dialetto!), per quanto “simpatiche” possano essere, non sono certamente una caratteristica positiva in relazione alla lingua italiana. E questo vale anche per il fiorentino. Quando diciamo che a Firenze è nata la nostra lingua e che vi si parla il miglior italiano ci riferiamo unicamente alla esattezza degli accenti ortoepici che, sulle sponde dellʼArno, sono esattamente quelli indicati dal vocabolario. Si potrebbe, in sintesi, dire che la lingua italiana è il fiorentino privo di ogni cadenza e della sua più caratteristica inflessione: la nota aspirazione della “c” che la rende praticamente muta. Questo libro non vuole essere un manuale con lo scopo di insegnare a parlare un italiano ortoepicamente corretto, ma nasce con lʼintento, molto meno ambizioso, di far parlare un italiano migliore. Non daremo pertanto consigli metafisici su come esercitarsi per ottenere le “e” e le “o” aperte o chiuse; né inviteremo alcuno a mettere una matita, ad esempio, fra i denti per ottenere suoni stretti o più acuti. Siamo sicuri che “giocando” con le labbra, aprendole e socchiudendole di più o di meno, si possa riuscire con un poco dʼesercizio e pazienza ad ottenere soddisfacenti risultati. Alcune delle regole che riporteremo si possono trovare sparse qua e là in quasi tutti i testi di italiano e nei vocabolari; noi le abbiamo raccolte, ampliate e corredate delle relative eccezioni. Le altre, la maggior parte, sono il risultato del nostro lavoro di ricerca, analisi e comparazione. Sarà necessario applicarsi un poco per memorizzarle il più possibile ma, anche non facendolo, si può passare direttamente alla lettura delle “poesie e dei brani ortoepici”. Nella seconda parte del libro sono riportate alcune poesie e brani, fra i più noti della nostra letteratura, e alcune fra le più famose romanze liriche, con lʼindicazione degli accenti ortoepici (che di norma non vengono messi) in modo da poterli leggere o … cantare, senza la fatica di cercare le varie parole sul vocabolario, proprio con i suoni corretti, secondo le regole dellʼitaliano. 4 Presentiamo anche la poesia e la romanza nella sua forma originale, in modo che ci si possa rendere conto di come le leggeremmo senza lʼaiuto di cui sopra. Questo può anche servire da esercizio per scoprire se commettiamo errori, in quale misura, e se facciamo dei progressi. Noi abbiamo provato, leggendo non come avremmo fatto solitamente, ma secondo lʼindicazione degli accenti ortoepici, la sensazione di trovarci di fronte ad una poesia, ad un brano più belli. E la lingua stessa appare migliore. Indubbiamente le poesie lette dai grandi attori hanno un fascino del tutto particolare. La bellezza naturale della loro voce, lʼimpostazione della stessa ottenuta con lo studio e lʼesercizio, unite alla correttezza dellʼortoepia, sono per la poesia quello che per la musica sono unʼorchestra, un direttore e dei solisti eccezionali. Ma è altrettanto vero che oltre al piacere di ascoltare le poesie cʼè anche quello di leggerle e tutto ciò che facciamo per rendere la nostra lettura migliore, e rispettosa di quanto la poesia stessa richiede, è bello. 5 6 PARTE PRIMA ORTOEPIA 7 8 GLI ACCENTI E I SEGNI ORTOEPICI ACCENTO FONICO Le vocali del nostro alfabeto sono cinque per quanto riguarda la scrittura (grafemi vocalici) e sette in relazione al suono (fonemi vocalici). Mentre “a”, “i” ed “u” si pronunziano in un sol modo e non vi è regione o zona dʼItalia ove questo non accada, le vocali “e” ed “o” possono essere dette in due maniere diverse e ce ne accorgiamo facilmente ascoltando parlare delle persone provenienti dalle varie parti del nostro Paese. La “e” e la “o” chiuse (strette), come in “tela ed in onda” rispettivamente, sono caratterizzate da un accento posto sopra di esse, detto “acuto” e ascendente da sinistra a destra ( / ). La “e” e la “o” aperte (larghe), come in “tema” ed in “pioggia”, si indicano con lʼaccento “grave” e discendente da sinistra a destra ( \ ). Eʼ opportuno dire che questi accenti, come quelli tonici non obbligatori dei quali parleremo più avanti, non devono essere scritti ma, consultando il dizionario, li troviamo messi sulle vocali per indicarci lʼesatta pronunzia. Ad esempio scriviamo “tema” e “tela” e sul vocabolario troviamo scritto: “tema-tèma” e “tela-téla”. A semplice titolo di curiosità, ma anche allo scopo di memorizzare i due tipi di accenti, possiamo dire che quello acuto corrisponde ad una inclinazione inferiore ai 90° e lʼaltro, che pertanto potremmo chiamare 9 “ottuso”, ad una superiore agli stessi. Ma le definizioni “acuto e grave” hanno la loro spiegazione nella Fisica e precisamente in quella sua parte che studia il suono: lʼAcustica. Se vogliamo pronunziare una “e” od una “o” chiuse (strette) dobbiamo stringere leggermente le labbra e questo produce automaticamente un aumento della frequenza del suono emesso, e quindi della sua altezza (suono più acuto). Allargando invece la bocca otterremo dei suoni di minor frequenza, più bassi e, per quanto ci interessa, delle “e” e delle “o” più aperte (suono più grave). Restando nella Fisica possiamo ricorrere ad unʼanalogia, nel campo dei fluidi, che può essere interessante. Quando si innaffia un orto o si lava una macchina il getto è più o meno stretto (acuto-chiuso) o più o meno largo (grave-aperto) a secondo che stringiamo o allarghiamo lʼorifizio della lancia. Lʼacqua è la voce proprio come lʼorifizio del tubo è la bocca. Ogni zona, che corrisponde molto approssimativamente alla regione di appartenenza, si differenzia dalle altre anche per come vengono pronunziate le “e” e le “o”. Ed è necessario dire che, fatta eccezione per la Toscana e parte delle zone ad essa più prossime, i pregi ed i difetti si compensano su tutto il territorio nazionale. Così ad esempio in certi luoghi si usa dire “tempo” con la “e chiusa” (errato) e “merito” con la “e aperta”(corretto), in altri si pronunzia esattamente la prima parola e si commette lʼerrore nella seconda. In alcuni posti si dice giustamente “buon giorno” con la prima “o” aperta, la seconda chiusa e la terza ancora chiusa. Ma se si potesse fare unʼindagine su come gli italiani si scambiano a vicenda il classico augurio mattutino si vedrebbe come, a parte lʼordine degli errori, ci si sbaglia quasi ovunque, da Milano a Napoli, da Venezia a Palermo, con una percentuale intorno al 50%. La spiegazione di questo fatto, che cioè lʼitaliano parlato sia così pesantemente soggetto ad errori fonetici, è che le regole della grammatica italiana non impongono, se non in casi particolari (come vedremo a proposito dellʼaccento tonico), lʼuso obbligatorio degli accenti grafici (fonici e tonici) nella lingua scritta. E allora, se leggendo un libro volessimo sapere la pronunzia di alcune parole, come ad esempio quelle che abbiamo appena incontrato (tempo, credito…), noi dovremmo consultare il vocabolario. La nostra curiosità verrebbe subito appagata perché troveremmo scritto “tempo (pron. tèmpo)”, “credito (pron. crédito)” e saremmo in grado di pronunziarle correttamente. Ma quanta fatica e soprattutto quanto tempo impiegheremmo per leggere un libro! 10 Sarebbe una gran bella cosa - e di grande utilità - se fosse consuetudine, per i canali di informazione e di cultura, indicare gli accenti fonici, o perlomeno quelli tonici. Ci rendiamo conto dellʼimpossibilità di realizzare unʼidea del genere, ma non passerebbero due generazioni che tutti, per quanto concerne lʼortoepia, sarebbero in grado di parlare un soddisfacente italiano. Si potrebbe ottenere questo senza compiere il minimo sforzo mentre oggi, come da sempre, le varie grammatiche della scuola media dedicano poche pagine allo studio dellʼortoepia che solitamente, forse anche per mancanza di tempo, vengono ignorate. È difficile incontrare insegnanti che trattino questo argomento, che dicano agli allievi: “Ragazzi, si pronunzia tèma e non téma. Non dite parlamènto, ma parlaménto. Non stória, ma stòria.”. I programmi sono lunghi, impegnativi e il tempo sempre più limitato. Ci sono cose che vengono prima delle sfumature, dei particolari della nostra lingua… In fin dei conti lʼortoepia può interessare soltanto gli attori. Si può essere dʼaccordo. Ma cʼè una domanda alla quale noi non troviamo una risposta: “A cosa serve la perfetta dizione a teatro se noi spettatori non siamo in grado di apprezzarla?”. Sono molti anni che seguiamo le rappresentazioni teatrali e soltanto da quando abbiamo iniziato ad occuparci di ortoepia gli spettacoli ci appaiono diversi, con qualcosa in più. Prima, quando lʼopera proposta era di qualità scadente, se non addirittura un “fiasco”, ciò che a noi rimaneva non poteva che essere un ricordo di assoluta negatività. Ora è diverso. Può essere un fallimento la regia, la stessa recitazione, ma cʼè sempre almeno un attore che, ascoltandolo, riesce a rendere, in qualche modo, vivo e interessante lo spettacolo. 11 ACCENTO TONICO Il suono che noi emettiamo nel pronunziare una qualsiasi parola non è mai distribuito uniformemente sulla stessa, ma risulta più intenso, più lungo su una delle sue sillabe, detta tonica, ed in particolare la voce appoggia su una vocale della sillaba tonica, chiamata “vocale tonica”. Lʼaccento tonico viene messo sulla vocale omonima ed è graficamente uguale a quello fonico; acuto o grave per le “e” e le “o”, sempre grave(convenzionalmente) per le altre tre vocali in quanto esse non hanno suono doppio. Anche per lʼaccento tonico vale quanto detto per quello fonico: le regole della grammatica cʼimpongono di scrivere ad esempio “uomo”, ma sul vocabolario troviamo scritto “uomo-uòmo”. In questo caso il dizionario ci insegna che la parola in questione si scrive senza accento, che il suono insiste sulla prima “o” (vocale tonica con sopra lʼaccento tonico) e che essa è aperta (accento grave fonico). Nella maggior parte delle parole non è obbligatorio indicare lʼaccento tonico (anzi, in alcuni casi si commette errore nel metterlo), e dʼaltra parte non troviamo alcuna difficoltà nel leggerle e nel pronunziarle. Se leggiamo la parola “amore” facciamo pesare il suono sulla “o” con estrema naturalezza, come leggendo “rugiada” la voce insiste sulla “a” della seconda sillaba senza che alcun accento su queste parole ci dia delle indicazioni. Vi sono però delle situazioni nelle quali viene meno la nostra sicurezza. Chi non si trova in difficoltà di fronte a parole come “rubrica, zaffiro…”? Dobbiamo appoggiare la voce sulla “u” o la “i” nella prima, e sulla “a” o la “i” nella seconda? Eʼ il momento di consultare 12 il vocabolario. Se questo è di modesta qualità riporta semplicemente la parola con il suo accento. Nel nostro caso troviamo “rubrica” e “zaffìro” con lʼaccento grave sulla “i”. Un vocabolario più importante, completo, fornisce anche lʼetimo, lʼorigine della parola e, ad esempio, per la parola “rubrica” ci dice che questa deriva dal latino e che significa letteralmente “terra rossa”. I titoli, le regole, gli elenchi che si trovano in alcuni codici antichi e nelle leggi erano scritti in rosso. Ci viene data così la spiegazione del significato della parola “rubrica”. Le pochissime parole sulle quali vediamo messo lʼaccento tonico (che nel caso di “e” ed “o” è anche fonico), o per le quali consultiamo il vocabolario allo scopo di sapere se dobbiamo indicare lʼaccento oppure no, sono quelle che, secondo le regole della grammatica, devono essere scritte con lʼaccento. Lʼuso dellʼaccento è obbligatorio nei seguenti casi: 1) Nelle parole tronche (hanno lʼaccento sullʼultima sillaba). Ad es: perché, caffè, carità, inciampò, divertì, ecc. 2) Nei monosillabi che terminano con due vocali. Ad es: più, già, scià, ecc. 3) In alcuni monosillabi per distinguerli dagli stessi con altro significato. Ad esempio: da giovane. ti dà il pane. la luna. andiamo là. di giorno. il dì di festa. io li conosco. sei lì? si dice che… dimmi di sì! 13 Consideriamo ora il seguente esempio: egli pensa a sé. imparo se (sé) studio. Nel primo caso lʼaccento acuto sul sé-pronome ci insegna a pronunziarlo chiuso. Nel caso del se-congiunzione, non essendoci alcuna indicazione grafica, siamo in difficoltà se ci poniamo il problema della pronunzia corretta. Il vocabolario indica “se (sé)” e risolve lʼeventuale dubbio. Altri esempi analoghi sono: 14 domani è domenica. lavoro e (é) studio. né oggi né mai. non ne (né) posso più. mi piace il tè. ci andrò con te (té). OMONIMI OMOFONI ED OMONIMI OMOGRAFI Le parole dellʼitaliano, come in genere accade in tutte le lingue, hanno molti significati che rientrano tuttavia in una gamma di affinità. Così se diciamo “casa” non vi è alcun dubbio, a prescindere dal contesto del discorso, su che cosa intendiamo. Può essere un edificio, lʼabitazione, anche la famiglia, unʼazienda… ma non certamente un elefante. Esistono però delle parole, come ad esempio “fiera” e “colto”, che hanno due significati del tutto diversi e dobbiamo capire, dal discorso, quale va loro attribuito. Gli esempi portati sono due, come i gruppi di parole che presentano la caratteristica del doppio significato e che formano lʼinsieme degli omonimi (stesso nome). Distinguiamo questi in omofoni ed in omografi. Omonimi-omofoni (stesso nome-stesso suono). Sono le parole che, identiche nella scrittura e nel suono, posseggono due (o più) significati diversi. Per maggior precisione e completezza andrebbero chiamati omonimi-omofoni-omografi. Per semplicità li chiamiamo omofoni. Omofoni come ad esempio “lira” (moneta, strumento musicale) non hanno alcun interesse per quanto riguarda lʼortoepia. Riportiamo alcuni omofoni con lʼindicazione della corretta dizione anche se, rispettando le regole grammaticali, non dobbiamo mettere lʼaccento su queste parole. cera (céra) la céra delle api hai una brutta céra 15 chiese (chièse) visitare delle chièse lui le chièse di… fiera (fièra) andare alla fièra tu sei fièra di me la tigre è una fièra conti (cónti) tu cónti male i cónti tornano sono arrivati i duchi, i cónti… fondo (fóndo) toccare il fóndo fóndo un partito io fóndo il metallo letto (lètto) andare a lètto ho lètto un libro verso (vèrso) vado vèrso la piazza il vèrso del passero io vèrso del vino Omonimi-omografi (stesso nome-stessa grafia). Sono le parole che, uguali nella scrittura ma non nel suono, posseggono due (o più) significati. Gli omografi, a differenza degli omofoni, si differenziano per la pronunzia delle “e” o delle “o”, oppure per la diversa posizione dellʼaccento tonico. La grammatica consiglia, poiché vi è la possibilità di distinguere le due parole omografe, lʼuso dellʼaccento che le caratterizza. Presentiamo una parte degli omografi di uso più frequente (con e). omografo é chiusa è aperta accetta lʼaccétta (lʼascia) egli accètta affetto io affétto (io taglio) lʼaffètto (sentimento) 16 collega ti colléga a Roma è un mio collèga corresse se lui corrésse (da correre) lui corrèsse (da correggere) dei lʼaria dei (déi) boschi gli dei (dèi) esca lʼésca (del pescatore) lei èsca! legge la légge lei lègge mento si è rotto il ménto io mènto messe le rose sono mésse sono andato a due mésse è stata una buona mèsse (raccolto) messi i méssi (uscieri, commessi) mèssi abbondanti pesca la pésca (il pescare) la pèsca (il frutto) peste seguire le péste (impronte) cʼè la pèste tema “niun mi téma…” è un bel tèma venti vénti uomini i vènti del Nord Eʼ opportuno osservare che gli omografi (identica scrittura) sono tali, in realtà, se non hanno lʼaccento che li esplicita. Ad esempio “tema” è un omografo. Il “tèma” non è più omografo poiché 17 è stato eliminato il dubbio sul suo significato e soprattutto perché non è graficamente uguale a “tema”. Le regole della grammatica consigliano (!) lʼuso dellʼaccento negli omografi; ma che cosa accade se chi scrive non sa di trovarsi di fronte ad uno di questi? Semplicemente che il significato si dedurrà dal contesto, che lʼautore ha scritto un omografo e che la parola sarà pronunziata correttamente o no in modo del tutto casuale. Vediamo ora un elenco di omografi con la vocale “o”. omografo ó chiusa ò aperta botte la bótte piena ha preso delle bòtte colta (o) una persona cólta la frutta còlta corso io ho córso Napoleone era còrso foro fóro (buco) fòro (piazza-principe del fòro) fosse se lei fósse… ho scavato delle fòsse importi vorrei impórti di.. non è che mi impòrti indotto ti ha indótto a… indòtto (non dotto-idiota) mozzo 1) il mózzo delle navi 2) un dito mózzo il mòzzo della ruota porci vuoi pórci il pane? i pòrci nel cortile porsi pórsi allʼopera io ti pòrsi il pane pose póse le fondamenta assumere delle pòse 18 posta pósta in salvo cʼè pòsta per te rocca la rócca per filare una ròcca medioevale rosa rósa di rabbia ti dono una ròsa scopo io scópo il pavimento avere uno scòpo scorsi scórsi ( feci scorrere) le pagine io scòrsi il mare sorta è sórta la luna una sòrta (specie) di… torta la tórta è buona con la bocca tòrta volgo si rivolse al vólgo io vòlgo lo sguardo al… volto ha un bel vólto con lo sguardo vòlto a… Omografi con diversa posizione dellʼaccento tonico. Ne esistono molti del tipo: àmbito-ambìto / càpitano-capitàno / circùito-circuìto rùbino-rubìno / sùbito-subìto Questi omografi non hanno lʼaccento sulle vocali “e” ed “o” e pertanto lʼinteresse per quanto riguarda la fonetica è minore dei seguenti: altero io àltero i dati tu sei altèro 19 ancora dimmelo ancóra gettare lʼàncora benefici ho tratto benefìci siate benèfici compito è cómpito tuo è molto compìto desideri tu desìderi… i tuoi desidèri leggere imparo a lèggere nuvole leggère malefici i malefìci del reo i rei sono malèfici predico io predìco la fine io prèdico al vento regia la regìa del film la potenza règia retina uso una retìna la rètina dellʼocchio seguito io sono seguìto tu sei al séguito 20 ORTOEPIA DI “E” Ogni parola della nostra lingua ha il suo etimo, la sua storia e, pertanto, le regole dellʼortoepia non hanno pretese di rigorosità, non sono dei teoremi di matematica né delle leggi fisiche; alcune non presentano eccezioni, altre ne hanno poche ed altre ancora molte. La parola “eccezione”, in questo lavoro come nelle grammatiche e nei dizionari che riportano regole ortoepiche, deve essere interpretata con una certa elasticità. Trovare affinità nelle parole allo scopo di dare loro un certo ordine e di classificarle, in relazione al suono, non è stato facile. Più ci si addentra in questa materia, più si costruiscono regole e si amplia la classificazione, maggiore diventa la probabilità che le “eccezioni” ad una regola siano “non eccezioni” per unʼaltra. Ricordiamo inoltre che abbiamo deciso di presentare le parole proprio come avviene nei vocabolari: “prima la parola come deve essere scritta, poi la scrittura ortoepica”. Molte volte ci siamo chiesti se non fosse un lavoro inutile, ma la scelta è stata determinata dai vantaggi che si possono ottenere con questo metodo anche se è un poco pesante. Se noi leggiamo “amóre” capiamo che dobbiamo pronunziare la “o” chiusa; ma ci potrebbe venire il dubbio sulla obbligatorietà o meno di scrivere lʼaccento. Se invece leggiamo: amore (amóre) oppure “amore-amóre”, la nostra mente è indubbiamente più libera nellʼapprendere e nel memorizzare. “e” chiuso Il grafema “e” si pronunzia chiuso in tutte le parole nelle quali lʼaccento tonico non cade sulla sua sillaba, cioè quando non è vocale tonica. 21 Ad esempio: in “sempre” la prima “e” è tonica ed il vocabolario insegna che è aperta; la seconda non è tonica e pertanto deve avere suono chiuso. La pronunzia è: “sèmpré”. In “verde” è ancora tonica la prima ma ora il dizionario dice che è chiusa; la seconda è chiusa perché non tonica. La pronunzia è “vérdé”. Ricordiamo che il suono delle vocali non toniche è meno intenso, la voce vi scorre sopra più velocemente, e lʼeventuale errore ed imperfezione di pronunzia risulta meno evidente. Casi nei quali il grafema “e” si pronunzia chiuso 1) quando rappresenta semplicemente la vocale e (é) 2) quando è congiunzione: oggi e (é) domani… tu ed ( éd ) io 3) in “eh” interiezione: con suono chiuso e di breve durata per esprimere esortazione o rimprovero: “eh (éh ) dai, un pò di impegno!” … “eh (éh ), che stai facendo?” 4) in “ehi” interiezione per esprimere stupore e per richiamare lʼattenzione: “ehi (éhi ), che errore”… 22 “ehi (éhi ), cʼè qualcuno?” 5) in “ei” termine poetico in luogo di “egli, essi”: ei (éi ) disse… ei (éi) andarono 6) in tutti i pronomi personali : egli, ella, esso, essa, essi, esse: egli (égli ) disse… esse (ésse ) vennero, ecc. 7) nel pronome “ce”: ce (cé) lo disse… ce (cé) ne vuole….. 8) in “ne” pronome, preposizione, avverbio ed in “né” congiunzione: ne (né) voglio ancora… è riportato ne (né) “ La Divina Comedia” me ne (né) allontanai… né a Roma né a Milano…. 9) in “se” congiunzione e pronome: se (sé) tu mi aiuti…se (sé) li vide davanti… lo fece per sé 23 Vocabolarietto Presentiamo un elenco di pronomi, preposizioni, congiunzioni, avverbi, numeri, nomi propri di persona, nomi di città e termini matematici e scientifici per una pronta consultazione. Ovviamente ritroveremo le parole di questo elenco laddove dovranno essere inserite per le loro caratteristiche ortoepiche. Ad esempio, troveremo la parola “segmento” fra quelle che terminano in “mento” e che richiedono la “e” chiusa. Pronomi, preposizioni, congiunzioni e avverbi codesto-a-i-e (codésto-a-i-e ) questo-a-i-e (quésto-a-i-e ) quello-a-i-e ( quéllo-a-i-e ) quegli (quégli) del (dél) dello-a-gli-e ( déllo, délla, dégli, délle ) dentro (déntro ) spesso (spésso) dei (déi ) entro (éntro) per (pér) seguito (séguito) Numeri tre (tré) tredici (trédici) venti (vénti) ventitre (ventitré) 24 sedici (sédici) Nomi propri Antonietta (Antoniétta) Benedetto (Benedétto) Elisabetta (Elisabétta) Francesco (Francésco) Simonetta (Simonétta) Stella (Stélla) Vera (Véra) e pochi altri. La maggior parte dei nomi ha, come vedremo, la “e” aperta. Nomi di città Albenga (Albénga) Arezzo (Arézzo) Barletta (Barlétta) Brescia (Bréscia) Caltanissetta (Caltanissétta) Empoli (Émpoli) Gaeta (Gaéta) Grosseto (Grosséto) Pesaro (Pésaro) Ravenna (Ravénna) Spoleto (Spoléto) Varese (Varése) Termini matematici e scientifici altezza (altézza) ampiezza (ampiézza) argomento (argoménto) cerchio (cérchio) coseno (coséno) larghezza (larghézza) lunghezza (lunghézza) meno (méno) 25 segmento (segménto) segno (ségno) seno (séno) antenna (anténna) assorbimento (assorbiménto) battimenti (battiménti) candela (candéla) catena (caténa) credito (crédito) decadimento (decadiménto) debito (débito) elemento (eleménto) esperimento (esperiménto) grandezza (grandézza) innesco (innésco) irraggiamento (irraggiaménto) legge (légge) movimento (moviménto) orientamento (orientaménto) peso (péso) pianeta (pianéta) potere (potére) rocchetto (rocchétto) rotolamento (rotolaménto) spostamento (spostaménto) strumento (struménto) stella (stélla) vetro (vétro) Terminazioni verbali notevoli 1) “é-ei” del passato remoto. egli credé, perdé, pendé… Eʼ eccezione “ pendei-pendèi”. 26 io perdei (perdéi), credei (credéi) 2) “emo” del futuro. noi correremo (correrémo ), giocheremo (giocherémo ), ecc. 3) “emmo-erono” del passato remoto. noi perdemmo ( perdémmo), loro crederono (credérono)… 4) “enni-enne-ennero”, “evvi-evve-evvero”, “eci-ece-ecero” del passato remoto. io ritenni (riténni )… avvenné (avvénne) che… loro ténnero (ténnero) … io tenni (ténni)... egli venne (vénne)… essi sostennero (sosténnero)… io bevvi ( bévvi )… egli bevve (bévve)… essi bevvero (bévvero)… io feci (féci)… egli fece (féce )… essi fecero (fécero)… 5) “erci-ergli-erlo-erla-erli-erle-erne-ervi” dopo lʼinfinito. goderci (godérci)… avergli (avérgli)… averlo (avérlo)… poterla (potérla)… saperli (sapérli )… volerle (volérle)… doverne (dovérne)… piacervi (piacérvi)… 27 6) “ere” dellʼinfinito. appartenere (appartenére), sapere (sapére), volere (volére)… 7) “esa- eso-esi-ese” del participio passato. lei (lui) è stata contesa (contésa-contéso)… essi (esse) furono presi (prési-prése), ecc. 8) “esi-ese-esero” del passato remoto. io resi (rési)… lui tese (tése)… essi presero (présero), ecc. Esiste qualche eccezione come “io chiesi” (chièsi) poiché, lo vedremo, la “e” preceduta dalla “i” si pronunzia aperta. 9) “essi-esse-essimo-essero” del congiuntivo imperfetto. se io (tu) dicessi (dicéssi )… se lei leggesse (leggésse)… se noi corressimo (corréssimo)… se loro dicessero (dicéssero)… 10) “esti-este” del passato remoto e del condizionale presente. 28 tu avesti (avésti )… voi prendéste… tu saresti (sarésti )… voi avreste (avréste)… 11) “ete” del presente indicativo, dellʼimperativo e del futuro. voi conoscete (conoscéte)… correte (corréte)… leggete! (leggéte)… spingete! (spingéte)… voi direte (diréte)… studierete (studieréte)… Eʼ eccezione “siete (siète)”, come tutti i casi simili, poiché (lo vedremo) la “ e preceduta dalla i ha pronunzia aperta”. 12) “evo-evi-eva-evano ” dellʼimperfetto indicativo. io avevo (avévo)… egli vinceva (vincéva)… tu perdevi (perdévi)… essi correvano (corrévano)… Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali “ebbia-ebbio-ebbi-ebbe-ebbero” nebbia (nébbia) trebbia (trébbia) io trebbio (trébbio) il trebbio (trébbio) rebbio (rébbio) N.B. io crebbi (crébbi), egli crebbe (crébbe), essi crébbero. Ma si dice: io ebbi (èbbi), egli ebbe (èbbe), essi ebbero (èbbero). 29 “ebbra-ebbro” lebbra (lébbra), ebbro (ébbro). Ebbro ammette anche la forma aperta “èbbro”. “eccio-eccia-ecci” leccio (léccio) libeccio (libéccio) mangereccio (mangeréccio) breccia (bréccia) freccia (fréccia) leccia (léccia) io cicaleccio (cicaléccio), tu cicalecci (cicalécci), ecc. io intreccio (intréccio) , tu intrecci (intrécci), ecc. Sono “eccezioni”: feccio (fèccio-tipo di botte) e feccia (fèccia). “ecco-ecca-ecchi” becco (bécco), io becco (bécco), secco (sécco), stambecco (stambécco), lui becca (bécca), bistecca (bistécca), cilecca (cilécca), lei stecca (stécca), tu lecchi (lécchi), ecc. Un omonimo-omofono è “zecca-zécca” che significa “aracnideparassita” ed anche “luogo, officina di conio”. Rare le “eccezioni”: ecco (ècco) e Mecca (Mècca). 30 “efice” artefice (artéfice), pontefice (pontéfice), ecc. “eggio” albeggio (albéggio) alpeggio (alpéggio) armeggio (arméggio) brandeggio (brandéggio) carteggio (cartéggio) conteggio (contéggio) corteggio (cortéggio) parcheggio (parchéggio) posteggio (postéggio) punteggio (puntéggio) solfeggio (solféggio) sorteggio (sortéggio)… Rare le“eccezioni”: peggio (pèggio) e seggio (sèggio). Per “seggio” è ammessa anche la forma “séggio”. “eglio-eglia” risveglio (risvéglio), la sveglia (svéglia), sei sveglio (svéglio)… Ma, ricordiamolo, si dice “meglio-mèglio”. “egna-egno” contegno (contégno) degna (dégna) impegno (impégno) 31 ingegno (ingégno) legno (légno) pegno (pégno) regno (régno) sostegno (sostégno) lei insegna (inségna) segna (ségna) il limite, ecc. “elva” belva (bélva), selva (sélva), ecc. “embo” grembo (grémbo), sghembo (sghémbo), ecc. Ma si dice “zembo-zèmbo”. Omografo: lembo (lémbo) per indicare “orlo-zona”. lembo (lèmbo) è una nave leggera. “emmia-emmio-emmi” bestemmia (bestémmia) vendemmia (vendémmia) io bestemmio (bestémmio) tu vendemmi (vendémmi) “enno” cenno (cénno), senno (sénno), io accenno (accénno), ecc. 32 “eno-ena” alleno (alléno) ceno (céno) freno (fréno) meno (méno) seno (séno) sereno (seréno) terreno (terréno) veleno (veléno) appena (appéna) balena (baléna) lena (léna) pena (péna)… cena (céna) “Eccezioni”: ameno (amèno), novena (novèna), osceno (oscèno), scena (scèna), sirena (sirèna), treno (trèno). Omografi: arena (aréna) se rappresenta la sabbia. arena (arèna) per rappresentare un luogo di spettacoli come un anfiteatro, uno stadio, ecc. “eppo-eppa” ceppo (céppo), zeppo (zéppo), teppa (téppa), ecc. “ermo-erma” fermo (férmo), schermo (schérmo), scherma (schérma)… È eccezione “ermo-èrmo”. 33 “esco-esca” io cresco (crésco) io innesco (innésco) io tresco (trésco) lʼinnesco (innésco) fantesca (fantésca) tresca (trésca) Francesco (Francésco), ecc. E poi tutti gli aggettivi: fresco (frésco) grottesco (grottésco) pazzesco (pazzésco) studentesco (studentésco), ecc. Ricordiamo gli omografi “pesca” e “esca”: pesca (pésca) è lʼazione, il risultato, del pescare. pesca (pèsca) è il frutto. esca (ésca) è tutto ciò che serve ad adescare. esca (èsca) è congiuntivo e imperativo dal verbo uscire. Eʼ “eccezione”: io esco (èsco). “eso-esa-esi-ese” degli aggettivi (e, come abbiamo visto, dei participi passati): illeso (illéso), sospesa (sospésa), stesi (stési), tese (tése)… 34 ed anche nei sostantivi: attesa (attésa)… contesa (contésa)… intesa (intésa)… ripresa (riprésa)… resa (résa)… spesa (spésa)… mese (mése)… paese (paése), ecc. Ma si dice Teresa (Terèsa). “espo-espa” cespo (céspo), crespo (créspo), la crespa (créspa-piega, ruga). “ete” abete (abéte), parete (paréte), rete (réte), sete (séte), ecc. Sono eccezioni “magnete-magnète” e “prete-prète”. “etto-etta-ette-etti” in tutti i diminutivi poveretto (poverétto), amichetta (amichétta), casette (casétte), animaletti (animalétti), ecc. “evole-ebole” gradevole (gradévole) piacevole (piacévole) 35 debole ( débole ), ecc. “ezza” bellezza (bellézza) brezza (brézza) carezza (carézza) delicatezza (delicatézza) destrezza (destrézza) finezza (finézza) giovinezza (giovinézza) prelibatezza (prelibatézza)… Eʼ eccezione “pezza-pèzza”. “ezzo” lezzo (lézzo) malvezzo (malvézzo) vezzo (vézzo) grezzo (grézzo) olezzo (olézzo) io accarezzo (accarézzo)… Eʼ “eccezione” (pezzo-pèzzo). Un omografo è “mezzo”: mezzo (mézzo) significa “bagnato, fradicio”. mezzo (mèzzo) vuol dire “metà, medio” ed anche “espediente”. 36 “mente-o-a” in tutti gli avverbi: facilmente (facilménte)… ingiustamente (ingiustaménte)… realmente (realménte)… spiritualmente (spiritualménte)… e nelle parole: mente (ménte) argomento (argoménto) monumento (monuménto) parlamento (parlaménto) segmento (segménto) menta (ménta)… Ricordiamo lʼomografo “mento”: Il “mento-ménto”. Io “mento-mènto”. 37 “e” aperto Casi nei quali il grafema “e” ha suono aperto “è”, voce del verbo essere, ha pronunzia aperta, come indica lo stesso, obbligatorio, accento tonico-fonico. è buono, è piccolo, ecc. “eh” (èh) interiezione. Ha pronunzia aperta e prolungata per esprimere dolore, ansia, stupore ed in forma interrogativa: eh (èh), che disgrazia! eh (èh) che spettacolo! eh (èh), cosa dici? “deh” (dèh) interiezione, per esprimere esortazione, desiderio: deh (dèh), non fare così! ecc. “ex” (èx) preposizione latina. ex (èx) allievo, ex (èx) giocatore, ecc. 38 Preposizioni ed avverbi adesso (adèsso) dietro (diètro) eccetto (eccètto) eccetera (eccètera) ecco (ècco) meglio (mèglio) sempre (sèmpre) senza (sènza) sovente (sovènte) Numeri sei (sèi) sette (sètte) ventisei (ventisèi) dieci (dièci) ventisette (ventisètte) diciassette (diciassètte) cento (cènto) Trenta ammette le due forme (trénta e trènta). Nomi di mesi settembre (settèmbre) novembre (novèmbre) dicembre (dicèmbre). Nomi propri di persona Adelio (Adèlio) Adele (Adèle) Alberto (Albèrto) Alessio (Alèssio) Amelia (Amèlia) Amedeo (Amedèo) Amerio (Amèrio) Andrea (Andrèa) Angelica (Angèlica) Antenore (Antènore) Aurelio (Aurèlio) Azeglio (Azèglio) Berta (Bèrta) Elena (Èlena) Emanuele (Emanuèle) 39 Emma (Èmma) Ennio (Ènnio) Ercole (Èrcole) Ezio (Èzio) Gabriele (Gabrièle) Giuseppe (Giusèppe) Lorenzo (Lorènzo) Lucrezia (Lucrèzia) Manuela (Manuèla) Michele (Michèle) Piero (Pièro) Pietro (Piètro) Remo (Rèmo) Renzo (Rènzo) Roberto (Robèrto) Teresa (Terèsa)… Nomi mitologici Acheo (Achèo) Agamennone (Agamènnone) Agenore (Agènore) Alceo (Alcèo) Alfeo (Alfèo) Antenore (Antènore) Anteo (Antèo) Artemide (Artèmide) Astreo (Astrèo) Atena (Atèna) Cassiopea (Cassiopèa) Cefalo (Cèfalo) Ceice (Cèice) Cerbero (Cèrbero) Cerere (Cèrere) Citerea (Citerèa) Clitennestra (Clitennèstra) Dedalo (Dèdalo) Demetra (Dèmetra) Diomede (Diomède) Ecuba (Ècuba) Egida (Ègida) Egeo (Egèo) Elena (Èlena) Elettra (Elèttra) Ellade (Èllade) Elio (Èlio) Enea (Enèa) Eolo (Èolo) Eracle (Èracle) Erato (Èrato) Ercole (Èrcole) Ermes (Èrmes) Eros (Èros) Eteocle (Etèocle) Etere (Ètere) Ettore (Èttore) Euterpe (Eutèrpe) Febo (Fèbo) 40 Fedra (Fèdra) Ganimede (Ganimède) Gea (Gèa) Ismene (Ismène) Leda (Lèda) Medea (Medèa) Megera (Megèra) Mentore (Mèntore) Minerva (Minèrva) Morfeo (Morfèo) Nemesi (Nèmesi) Nereo (Nerèo) Nestore (Nèstore) Oceano (Ocèano) Odissea (Odissèa) Oreste (Orèste) Orfeo (Orfèo) Panacea (Panacèa) Pegaso (Pègaso) Peleo (Pelèo) Penelope (Penèlope) Persefone (Persèfone) Pleiadi (Plèiadi) Polifemo (Polifèmo) Prometeo (Promèteo) Proserpina (Prosèrpina) Rea (Rèa) Remo (Rèmo) Selene (Selène) Sirene ( Sirène) Stentore (Stèntore) Tea (Tèa) Telefo (Tèlefo) Telegono (Telègono) Telesforo (Telèsforo) Telemaco (Telèmaco) Tellure (Tèllure) Temi (Tèmi) Teseo (Tèseo o Tesèo) Teti (Tèti) Tevere (Tèvere) Tiresia (Tirèsia) Tirreno (Tirrèno) Venere (Vènere) Vesta (Vèsta) Zefiro (Zèfiro) Zeus (Zèus) Nomi di città Agrigento (Agrigènto) Benevento (Benevènto) Bergamo (Bèrgamo) Cosenza (Cosènza) Enna (Ènna) Firenze (Firènze) Genova (Gènova) Iglesias (Iglèsias) Imperia (Impèria) 41 Isernia (Isèrnia) Ivrea (Ivrèa) La Spezia (La Spèzia) Matera (Matèra) Orvieto (Orvièto) Palermo (Palèrmo) Piacenza (Piacènza) Potenza (Potènza) Salerno (Salèrno) Siena (Sièna) Teramo (Tèramo) Venezia (Venèzia) Vicenza (Vicènza) Voghera (Voghèra) Termini matematici e scientifici algebrico (algèbrico) anello (anèllo) apotema (apotèma) aritmetica (aritmètica) baricentro (baricèntro) cateto (catèto) centro (cèntro) circocentro (circocèntro) circonferenza (circonferènza) coefficiente (coefficiènte) convergenza (convergènza) convesso (convèsso) corrispondenza (corrispondènza) divergenza (divergènza) ennesimo (ennèsimo) equivalenza (equivalènza) esponente (esponènte) incentro (incèntro) insieme (insième) intero (intèro) inverso (invèrso) iperbole (ipèrbole) lemma (lèmma) media (mèdia) metodo (mètodo) metrica (mètrica) poliedro (polièdro) quoziente (quoziènte) parametro (paramètro) potenza (potènza) problema (problèma) prostaferesi (prostafèresi) 42 resto (rèsto) scaleno (scalèno) sfera (sfèra) sistema (sistèma) teorema (teorèma) tesi (tèsi) trapezio (trapèzio) afelio (afèlio) apogeo (apogèo) cella (cèlla) cibernetica (cibernètica) corrente (corrènte) atmosfera (atmosfèra) cinetica (cinètica) dielettrico (dielèttrico) eco (èco) effetto (effètto) elettromagnetico (elettromagnètico) energetico (energètico) etere (ètere) evento (evènto) isotermo (isotèrmo) lente (lènte) leva (lèva) materia (matèria) mezzo (mèzzo) molecola (molècola) particella (particèlla) pendolo (pèndolo) perielio (perièlio) perigeo (perigèo) tempo (tèmpo) Terra (Tèrra) Venere (Vènere) treno (trèno) universo (univèrso) valenza (valènza) “e” preceduta dalla i, nel dittongo “ie” dieci (dièci), ieri (ièri), fiera (fièra), chiedere (chièdere), ecc. Piero (Pièro), Pietro (Piètro), ecc. Sono eccezioni “chierico” (che ammette le due pronunzie: chièrico e chiérico), “ampiezza-ampiézza” e “gaiezza-gaiézza”. 43 Unʼaltra eccezione un poco particolare è biglietto: non è un diminutivo ma una parola di origine francese (billet-con la e chiusa): biglietto (bigliétto). È interessante osservare che la regola sulle “e chiuse” dei diminutivi è più vincolante di quella sul dittongo “ie”. Pertanto avremo: arietta (ariétta), vizietto (viziétto), Orietta (Oriétta), ecc. “e” seguita da una vocale apnea (apnèa) assemblea (assemblèa) epopea (epopèa) idea (idèa) livrea (livrèa) marea (marèa) meteora (metèora) piorrea (piorrèa) rea (rèa) colei (colèi) gli dei (dèi) corteo (cortèo) giubileo (giubilèo) ipogeo (ipogèo) museo (musèo) neo (nèo) oceano (ocèano) perigeo (perigèo) trofeo (trofèo) euro (èuro) Sono “eccezione” o seguono la regola contraria, come abbiamo visto, i passati remoti: credei (credéi), perdei (perdéi), ecc. ed anche la preposizione “dei”: dei (déi) miei pensieri. 44 “e” seguita da una consonante (ad eccezione della g gutturale) e poi da due vocali “edio-edia” medio (mèdio) rimedio (rimèdio) commedia (commèdia) inedia (inèdia) tragedia (tragèdia)... “egio-egia” “eguo-egua” collegio (collègio) fregio (frègio) sortilegio (sortilègio) lui si pregia (prègia) di… Come detto, fa eccezione la “g-gutturale”: io inseguo (inséguo), tregua (trégua), ecc. “elio-elia” afelio (afèlio), cimelio (cimèlio), perielio (perièlio), camelia (camèlia), celia (cèlia), ecc. Adelio (Adèlio), Amelia (Amèlia), Aurelio (Aurèlio), ecc. “emio-emia” premio (prèmio), astemio (astèmio), egli premia (prèmia), ecc. 45 “erio-eria-erie” desiderio (desidèrio) deuterio (deutèrio) serio (sèrio) materia (matèria) miseria (misèria) imperio (impèrio) ferie (fèrie) serie (sèrie) Amerio (Amèrio) Tiberio (Tibèrio)… “ezio-ezia” screzio (scrèzio) trapezio (trapèzio) Ezio (Èzio) Lucrezia (Lucrèzia)… La Spezia (Spèzia) Altre parole che rientrano nello schema sono: aereo (aèreo) ardesia (ardèsia) ceduo (cèduo) etereo (etèreo) meteo (mèteo) ossequio (ossèquio) perpetuo (perpètuo) spezie (spèzie)… Terminazioni verbali notevoli “ei-ebbe-ebbero” del condizionale presente amerei (amerèi)… 46 giocherebbe (giocherèbbe)… studierebbero (studierèbbero)… “endo” del gerundio essendo (essèndo), avendo (avèndo), leggendo (leggèndo), ecc. “ente” del participio presente avente (avènte), discente (discènte), fremente (fremènte), ecc. È interessante osservare che questa regola è più vincolante di quella relativa alle “e chiuse” delle finali in “mente”. “essi-esse-essero” del passato remoto io lessi (lèssi), egli diresse (dirèsse), essi corressero (corrèssero), ecc. N.B. “corressero” è un omografo: “corressero” (corrèssero) è passato remoto da “correggere”, mentre “corressero” (corréssero) è congiuntivo imperfetto dal verbo “correre”. “etti-ette-ettero” del passato remoto io (credètti), lui stette (stètte), essi bevettero (bevèttero), ecc. 47 Terminazioni di parola ed eventuali femminili e plurali “eca-eco” bacheca (bachèca) biblioteca (bibliotèca) cineteca (cinetèca) discoteca (discotèca) enoteca (enotèca) eco (èco) spreco (sprèco) io acceco (accèco) arreco (arrèco) impreco (imprèco) spreco (sprèco) egli acceca (accèca) arreca (arrèca) impreca (imprèca) spreca (sprèca)… “edine-enide” redine (rèdine) salsedine (salsèdine) eumenide (eumènide) teredine (terèdine) sirenide (sirènide)… “effa-effo” beffa (bèffa), ceffo (cèffo), ecc. “egnere-enero-enere” spegnere (spègnere) genero (gènero) tenero (tènero) genere (gènere) io rigenero (rigènero) 48 degenere (degènere) io venero (vènero) Venere (Vènere)… Eʼ eccezione “cenere-cénere”. “ele” stele (stèle) Babele (Babèle) Michele (Michèle) Gabriele (Gabrièle) Raffaele (Raffaèle)… Gabriele (dallʼebraico Gabriel) ammette anche la forma (Gabriéle). “ella-ello-elle” caramella (caramèlla) cella (cèlla) anello (anèllo) cappello (cappèllo) imbelle (imbèlle) pelle (pèlle)… particella (particèlla) lavello (lavèllo) La regola non è seguita da capello (capéllo), stella (stélla) e, come visto, dai pronomi e dalle preposizioni: quello (quéllo), dello (déllo). Non vi sono eccezioni per i diminutivi: stupidello (stupidèllo), vinello (vinèllo), ecc. “ema-eme-emo” apotema (apotèma) fonema (fonèma) grafema (grafèma) 49 poema (poèma) problema (problèma) tema (tèma) teorema (teorèma)… lui preme (prème)… io tremo (trèmo)… Remo (Rèmo) remo (rèmo)… Sanremo (Sanrèmo)… Fanno “eccezione”: 1) io temo (témo), egli teme (téme), ecc. Il “ tema (timore)” dantesco: “sì che la tema (téma) si volge in desio” (Dante-Inferno-3-126). 2) il dolore scema (scéma-diminuisce), ecc. “La sesta compagnia in due si scema (scéma)” (Dante-Inferno-4148). “monte scemo (scémo)”, un monte con una cavità. “arco scemo (scémo)”, un arco la cui corrispondente corda è minore del diametro, cioè un arco minore della semicirconferenza. “cervello scemo (scémo)”, un cervello non completo, dimezzato, ed è questa lʼorigine dellʼaggettivo “scemo” come sinonimo di “sciocco, imbecille”, ecc. 3) 50 seme (séme). “embra-embre-embro” membra (mèmbra), settembre (settèmbre), novembre (novèmbre), dicembre (dicèmbre), grembo (grèmbo), membro (mèmbro), smembro (smèmbro), ecc. Eʼ eccezione “sembro-sémbro”. “emma” dilemma (dilèmma) gemma (gèmma) stemma (stèmma) Emma (Èmma) lemma (lèmma) Da notare che è “maremma-marémma”. “emore” femore (fèmore) memore (mèmore) remore (rèmore) “empero-emplo-empo” contempero (contèmpero) tempero-a (tèmpero-a) contemplo (contèmplo) tempo (tèmpo) 51 “enda” agenda (agènda) leggenda (leggènda) merenda (merènda) tenda (tènda) “endio” vilipendio (vilipèndio) incendio (incèndio) “endo” apprendo (apprèndo) attendo (attèndo) comprendo (comprèndo) intendo (intèndo)… Sono “eccezioni”: scendo (scéndo) e vendo (véndo). “ene” il benzene (benzène) il gene (gène) il pene (pène) il rene (rène) Invece, ricordiamolo, si dice: le cene (céne), le pene (péne), le vene (véne), ecc. “engo” convengo (convèngo) 52 spengo (spèngo) ritengo (ritèngo) vengo (vèngo)... “enna” Enna (Ènna) renna (rènna) strenna (strènna) Ma si dice “antenna-anténna”, “penna-pénna” e “Ravenna-Ravénna”. “enne” Tutti gli aggettivi in “enne”: ventenne (ventènne), perenne (perènne), solenne (solènne), ecc. “ennio” Ennio (Ènnio) biennio (biènnio) triennio (triènnio)… “ense-enso-ensa” amanuense (amanuènse) censo (cènso) denso (dènso) immenso (immènso) incenso (incènso) intenso (intènso) melenso (melènso) propenso (propènso) senso (sènso) mensa (mènsa) egli pensa (pènsa)… 53 “ente” ente (ènte), gente (gènte), incidente (incidènte), lente (lènte), niente (niènte), ecc. Nella terminazione “ente”, è utile rivederlo, si hanno tre regole che, dalla meno alla più vincolante, sono: 1) le parole in “ente” vogliono la “e-aperta”. 2) quelle in “mente” richiedono la “e-chiusa”. 3) i participi presenti hanno la “e-aperta”. Possiamo unificarle in una sola regola: le terminazioni in “ente” vogliono la “e - aperta” ad eccezione di quelle che hanno la“mdavanti alla e” con esclusione dei participi presenti. Pertanto si dice: il dente (dènte), la mente (ménte), sono fremente (fremènte), amorevolmente (amorevolménte), ecc. “ento-enta” accento (accènto) argento (argènto) cento (cènto) attento (attènto) intento (intènto) portento (portènto) lenta (lènta) polenta (polènta) io sento (sènto) 54 Trento (Trènto)… Nelle finali in “ento-enta”, ricordiamolo, abbiamo due regole: 1. le parole in “ento-enta” hanno la “e-aperta”. 2. quelle in “mento-menta” richiedono la “e-chiusa” ed è più vincolante. Si potrebbe sintetizzarle in unʼunica regola: le finali in “ento-enta” vogliono la “e-aperta”, ad eccezione di quelle che hanno la “mdavanti alla e”. Pertanto diremo: il vento (vènto) sei contenta (contènta) il mento (ménto) la giumenta (giuménta)… “enza-enzo” eminenza (eminènza) emittenza (emittènza) essenza (essènza) esperienza (esperiènza) frequenza (frequènza) pazienza (paziènza) Renzo (Rènzo)… “erbero-enzero” berbero (bèrbero) cerbero (cèrbero) zenzero (zènzero) 55 “erbo-erba” acerbo (acèrbo) io serbo (sèrbo) serbo (sèrbo) riserbo (risèrbo) superbo (supèrbo) verbo (vèrbo) egli serba (sèrba) erba (èrba)... “ergo-erge-erga” albergo (albèrgo) io ergo (èrgo) ergo (èrgo-deduco che…) gergo (gèrgo) tergo (tèrgo) si immerge (immèrge) stamberga (stambèrga)… Ma si dice: la verga (vérga), il Verga (Vérga). “erlo-erla” merlo (mèrlo) perla (pèrla ) sberla (sbèrla) Invece, lo ricordiamo: averlo (avérlo), poterlo (potérlo), ecc. “erme” inerme (inèrme) terme (tèrme) verme (vèrme) “erno-erna” eterno (etèrno) 56 governo (govèrno) interno (intèrno) inverno (invèrno) lanterna (lantèrna) perno (pèrno) terno (tèrno) moderno (modèrno) Ma si dice “scherno-schérno”. “ero-era-eri-ere” altero (altèro) bufera (bufèra) chimera (chimèra) cimitero (cimitèro) colera (colèra) cratere (cratère) era (èra) galera (galèra) io ero (èro) tu eri (èri) lui cʼera (cʼèra) impero (impèro) leggero (leggèro) menzognero (menzognèro) mero (mèro) messaggero (messaggèro) ministero (ministèro) severo (sevèro) sincero (sincèro) io spero (spèro) sfera (sfèra) zero (zèro)… Esistono poche eccezioni: la cera (céra) nero (néro) parere (parére) sedere (sedére) sera (séra) vero (véro) 57 Ma nei verbi, lo ricordiamo, la terminazione in “ere” è chiusa: avere (avére) bere (bére) godere (godére) sapere (sapére) sedere (sedére) vedere (vedére)... Omografo: pera (péra-il frutto) pera (pèra-tipo di borsa, tasca) “erro-erra” erro (èrro) ferro (fèrro) io ferro (fèrro) serro (sèrro) guerra (guèrra) serra (sèrra) terra (tèrra) “erto-erta” concerto (concèrto) inserto (insèrto) Alberto (Albèrto) Roberto (Robèrto) Berta (Bèrta) incerto (incèrto) esperto (espèrto) io accerto (accèrto)… Da notare che: allʼerta ed erto ammettono sia la forma “aperta” che quella “chiusa”. Lʼaggettivo “certo” ha la “e-aperta” quando significa “sicuro” come in“stai certo (cèrto)”. 58 Se “certo” ha significato di “indefinito-approssimativo” si pronuncia con la “e- chiusa” come in: “un certo (cérto) ingegno - una certa (cérta) età”. “ervo-erva-erve” cervo (cèrvo) nervo (nèrvo) protervo (protèrvo) servo (sèrvo) conserva (consèrva) riserva (risèrva) io conservo (consèrvo) osservo (ossèrvo) egli conserva (consèrva) osserva (ossèrva) servo (sèrvo) serve (sèrve)… “erza-erzo” ferza (fèrza), sferza (sfèrza), sterzo (stèrzo), terzo (tèrzo), ecc. Invece si dice “scherzo-schérzo”. “estia” modestia (modèstia) molestia (molèstia)... Bestia ammette entrambe le forme bèstia e béstia. “esto-esta-este” il contesto (contèsto) io contesto (contèsto) gesto (gèsto) 59 io infesto (infèsto) incesto (incèsto) lʼ innesto (innèsto) io innesto (innèsto) lesto (lèsto) mesto (mèsto) molesto (molèsto) onesto (onèsto) il resto (rèsto) io resto (rèsto) io vesto (vèsto) festa (fèsta) foresta (forèsta) gesta (gèsta) protesta (protèsta) siesta (sièsta) egli resta (rèsta) la peste (pèste) lei veste (vèste) tempesta (tempèsta) celeste (celèste) la veste (vèste)… Vi sono alcune eccezioni: cesto (césto), desto (désto), io pesto (pésto), il pesto (pésto), è buio pesto (pésto), questo (quésto), cesta (césta), cresta (crésta). “estro-estra” canestro (canèstro) capestro (capèstro) destro (dèstro) estro (èstro) finestra (finèstra) ginestra (ginèstra) maestro (maèstro) minestra (minèstra)… 60 La parola “maestro” ammette anche la pronunzia “maéstro”. “etra-etro” cetra (cètra) pietra (piètra) arretro (arrètro) metro (mètro) Pietro (Piètro) retro (rètro)… Ma si dice “vetro-vétro”. Omografo: metro (mètro) è unità di misura dello spazio lineare. metro (métro-dal francese métro che vuole la “e”chiusa) per indicare la metropolitana. “ettro” scettro (scèttro), spettro (spèttro), ecc. “eva-evo-eve” Eva (Èva) leva (lèva) evo (èvo) allevo (allèvo) coevo (coèvo) devo (dèvo) levo (lèvo) breve (brève) deve (dève) Sono eccezioni: “bevo-bévo” , “beve-béve” e “neve-néve”. 61 Ricordiamo che la prima persona dellʼimperfetto ha sempre la “echiusa”: avevo (avévo), dicevo (dicévo), ecc. “e-consonanti-ico-ica” è una sequenza che, negli aggettivi, presenta la “e-aperta”: accademico (accadèmico) allergico (allèrgico) benefico (benèfico) cinetico (cinètico) concentrico (concèntrico) diuretico (diurètico) egocentrico (egocèntrico) eliocentrico (eliocèntrico) endemico (endèmico) ermetico (ermètico) etico (ètico) famelico (famèlico) identico (idèntico) maledico (malèdico) metrico (mètrico) periferico (perifèrico) tecnico (tècnico)… Fra i sostantivi abbiamo: lessico (lèssico), dedica (dèdica). solletico (sollètico) ammette anche la forma (sollético). 62 Nei verbi si ha solitamente la “e-chiusa”: dimentico (diméntico) mendico (méndico) nevica (névica) vendico (véndico)… È “eccezione”: dedico (dèdico). “e-consonanti-ito-ita” anelito (anèlito) gemito (gèmito) medito (mèdito) merito (mèrito) recito (rècito) reddito (rèddito) tremito (trèmito) cernita (cèrnita) recita (rècita)… Sono eccezioni: “crescita-créscita”, “debito-débito”, “creditocrédito”, illecito (illécito) e lecito (lécito). “e-consonante-ora” pecora (pècora), remora (rèmora), ecc. 63 Terminazioni che presentano difficoltà di classificazione Ogni parola con queste finali è un caso a sé e soltanto lʼesercizio, la memoria e, perché no, lʼorecchio ci possono aiutare. Il “grafema e” si trova, nei seguenti elenchi, distribuito con una frequenza non molto disuguale sia nella forma “aperta” sia in quella “chiusa”. “ecchio” orecchio (orécchio) specchio (spècchio) parecchio (parécchio) vecchio (vècchio) secchio (sécchio) “eda-ede-edo” Leda (Léda) preda (prèda) - scheda (schèda) fede (féde) cede (cède) - erede (erède) vede (véde) lede (lède) - sede (sède) credo (crédo) accedo (accèdo) - arredo (arrèdo) auledo (aulèdo) - corredo (corrèdo) N.B. È accettabile anche la forma “credo-crèdo”. 64 “ega-ego” bottega (bottéga) - lega (léga) bega (bèga) sega (séga) - strega (stréga) collega (collèga) lego (légo) - frego (frégo) nego (nègo) sego (ségo) - strego (strégo) prego (prègo) Sono accettabili anche “bega-béga” e “nego-négo” “egola - egolo” fregola (frégola) regola (règola) tegola (tégola) regolo (règolo) “ela-elo” candela (candéla) cautela (cautèla) mela (méla) parentela (parentèla) tela (téla) sequela (sequèla) vela (véla) tutela (tutèla) melo (mélo) gelo (gèlo) pelo (pélo) stelo (stèlo) 65 velo (vélo) zelo (zèlo) io pelo (pélo) io anelo (anèlo) io velo (vélo) io belo (bèlo)-io celo (cèlo) parallelo (parallèlo) “empio” empio (émpio) esempio (esèmpio) scempio (scémpio) tempio (tèmpio) le tempia (témpia) “entro” dentro (déntro) il centro (cèntro) io entro (éntro) io centro (cèntro-faccio cèntro) non cʼentro (cʼéntro) “e-consonanti-imo-ima” battesimo (battésimo) tutti i numeri ordinali come: cattolicesimo (cattolicésimo) decimo ( dècimo)… cristianesimo (cristianésimo) sedicesimo (sedicèsimo)… 66 protestantesimo (protestantésimo) estimo (èstimo) quaresima (quarésima) etimo (ètimo) cresima (crèsima) celeberrimo (celebèrrimo) pessimo (pèssimo) “e-due consonanti-ola” bettola (béttola) mensola (mènsola) pentola (péntola) sventola (svèntola) “essa” commessa (comméssa) compressa (comprèssa) contessa (contéssa) pressa (prèssa) duchessa (duchéssa) ressa (rèssa) messa (méssa) - rimessa (riméssa) - scommessa (scomméssa) “esso” commesso (commésso) esso (ésso) accesso (accèsso) cesso (cèsso) - consesso (consèsso) 67 fesso (fésso) flesso (flèsso) - gesso (gèsso) lesso (lésso) possesso (possèsso) - processo (procèsso) stesso (stésso) nesso (nèsso) - sesso (sèsso) Eʼ accettabile anche la forma “gesso-gésso”. Omografo: fesso (fésso) significa “spaccato, sciocco, ecc”. fesso (fèsso) per indicare, è una forma arcaica, “stanco-lasso”. “eto-eta” discreto (discréto) completo (complèto) - consueto (consuèto) segreto (segréto) desueto (desuèto) - mansueto (mansuèto) obsoleto (obsolèto) amuleto (amuléto) alfabeto (alfabèto) - cateto (catèto) uliveto (ulivéto) decreto (decrèto) vigneto (vignéto) feto (fèto) - veto (vèto) cometa (cométa) analfabeta (analfabèta) pianeta (pianéta) beta (bèta) 68 pineta (pinéta) meta (mèta) seta (séta) poeta (poèta) N.B. È accettabile anche la forma “cometa-comèta”. “Omonimo-omofono” io vieto (vièto) è vieto (vièto-antico,vecchio) Terminazioni in “etta-etto” A causa dellʼabbondanza delle parole con tali desinenze e della complessità delle possibili regole, abbiamo ritenuto opportuno inserirle in questa parte. “etta” accetta (accétta) retta (rètta) fetta (fétta) setta (sètta) fretta (frétta) ricetta (ricètta) racchetta (racchétta) - saetta (saétta) - tetta (tétta) vendetta (vendétta) - vetta (vétta) 69 Ricordiamo lʼomografo: accetta (accétta) è un tipo di scure. accetta (accètta) è voce del verbo accettare. Sono con la “e-chiusa” tutte le terminazioni dei diminutivi: casetta (casétta), pievetta (pievétta), Rosetta (Rosétta), ecc. “etto” architetto (architétto) affetto (affètto) berretto (berrétto) aspetto (aspètto) biglietto (bigliétto) concetto (concètto) detto (détto) merletto (merlétto) confetto (confètto) netto (nétto) etto (ètto) scudetto (scudétto) getto (gètto) stretto (strétto) letto (lètto) - oggetto (oggètto) petto (pètto) - perfetto (perfètto) prefetto (prèfetto) - rigetto (rigètto) 70 rispetto (rispètto) - sospetto (sospètto) Tutti i diminutivi hanno la “e-chiusa”: carretto (carrétto), goccetto (goccétto), ecc. “etto” negli aggettivi e nelle voci verbali benedetto (benedétto) abbietto (abbiètto) detto (détto) accetto (accètto) maledetto (maledétto) annetto (annètto) corretto (corrètto) - eccetto (eccètto) getto (gètto) - inetto (inètto) infetto (infètto) - letto (lètto) perfetto (perfètto) - proietto (proiètto) retto (rètto) reietto (reiètto) - rifletto (riflètto) Tutti i diminutivi si pronunciano con la “e-chiusa”: furbetto (furbétto), moretto (morétto), ecc. 71 Terminazioni con frequenza piccola allegro (allégro) accelero (accèlero) becero (bécero) aneddoto (anèddoto) cece (céce) berbero (bèrbero) cembalo ( cémbalo) celebre (cèlebre)-celere (cèlere) cencio (céncio) cellula (cèllula) cerchio (cérchio) celibe (cèlibe) elmo (élmo) cespite (cèspite) felpa (félpa) crepa (crèpa) feltro (féltro) decade (dècade) parere (parére) dedalo (dèdalo) parete (paréte) delta (dèlta) peltro (péltro) deroga (dèroga) pepe (pépe) despota (dèspota) prezzemolo (prezzémolo) ebete (èbete) scevro (scévro) epoca (època) selce (sélce) egro (ègro) semplice (sémplice) ergere (èrgere) semola (sémola) inerzia (inèrzia) separi (sépari) leggere (lèggere) 72 seppia (séppia) merce (mèrce) trespolo (tréspolo) pendolo (pèndolo) vedovo (védovo) petalo (pètalo) vergine (vérgine) vescovo (véscovo) pettine (pèttine)-questua (quèstua)-record (rècord) reduce (rèduce)-retore (rètore)-scheletro (schèletro) sebo (sèbo)-secolo (sècolo)-sedano (sèdano) sempre (sèmpre)-svelto (svèlto)-telefono (telèfono) tesi (tèsi)-tremulo (trèmulo)-trepido (trèpido) veneto (vèneto)-vertice (vèrtice)-vespro (vèspro) zebra (zèbra)-zenit (zènit) 73 ORTOEPIA DI “O” “o” chiuso Il grafema “o” si pronunzia chiuso in tutte le parole nelle quali lʼaccento tonico non cade sulla sua sillaba, cioè quando non è vocale tonica. Ad esempio nella parola “uomo” la prima “o” è tonica ed il dizionario ci indica che è aperta ( uòmo). La seconda “o” è atona e pertanto la sua pronunzia sarà chiusa con il seguente risultato finale : “uòmó”. Nel caso della parola “colpo” il vocabolario ci dice che la prima “o” (tonica) è chiusa (cólpo); la seconda è atona e la pronunzia risulta essere “cólpó”. Ricordiamo ancora che il suono, nelle vocali atone, è meno intenso, meno prolungato e pertanto lʼeventuale errore di pronunzia viene percepito più difficilmente. 74 Casi nei quali il grafema “o” ha suono chiuso o (ó) con valore disgiuntivo, esplicativo ed enfatico Esempi: - Essere o (ó) non essere. - La cinematica, o (ó) scienza del moto a prescindere dalle cause dello stesso, ha in Galilei uno dei fondatori più insigni. - O (Ó) Dio, che paura! Avverbi, preposizioni e pronomi allora (allóra) altrove (altróve) ancora (ancóra) cogli (cógli) coi (cói) colle (cólle) come (cóme) con (cón) contro (cóntro) dopo (dópo) dove (dóve) eccome (eccóme) molto (mólto) noi (nói) oltre (óltre) ogni (ógni) non (nón) onde (ónde) or (ór) ora (óra) ove (óve) sopra (sópra) sotto (sótto) voi (vói) N.B. La negazione “non” ha suono chiuso. Esempio: non (nón) esco. La negazione “no” si pronunzia aperta. Esempio: no (nò), non (nón) voglio. 75 Omografo: colle (cólle- con le) ha suono chiuso. il colle (còlle) vuole la “o” aperta. Numeri dodici (dódici) quattordici (quattórdici) centododici (centodódici)… Nomi di mesi Agosto (Agósto) Ottobre (Ottóbre) Nomi propri di persona Sono rari i nomi con la “o” chiusa. Ricordiamone alcuni: Giorgio (Giórgio) Ottone (Ottóne) Salvatore (Salvatóre) Nomi mitologici Acheronte (Acherónte) Adone (Adóne) Anfione (Anfióne) Anfitrione (Anfitrióne) Chirone (Chiróne) Creonte (Creónte) Didone (Didóne) Dione (Dióne) Emone (Emóne) Ermione (Ermióne) Fetonte (Fetónte) Flegetonte (Flegetónte) 76 Giasone (Giasóne) Giunone (Giunóne) Iperione (Iperióne) Laocoonte (Laocoónte) Latona (Latóna) Orione (Orióne) Partenone (Partenóne) Pigmalione (Pigmalióne) Plutone (Plutóne) Posidone (Posidóne) Tifone (Tifóne) Titone (Titóne) Tritone (Tritóne) Nomi di città Ancona (Ancóna) Bologna (Bológna) Cremona (Cremóna) Crotone (Crotóne) Frosinone (Frosinóne) Livorno (Livórno) Pordenone (Pordenóne) Roma (Róma) Savona (Savóna) Sondrio (Sóndrio) Verona (Veróna) Termini matematici e scientifici addizione (addizióne) bisezione (bisezióne) circuitazione (circuitazióne) conto (cónto) contorno (contórno) definizione (definizióne) dimensione (dimensióne) divisione (divisióne) 77 duplicazione (duplicazióne) equazione (equazióne) errore (erróre) espressione (espressióne) funzione (funzióne) interpolazione (interpolazióne) intorno (intórno) moltiplicazione (moltiplicazióne) prodotto (prodótto) rombo (rómbo) somma (sómma) sottrazione (sottrazióne) tensore (tensóre) versore (versóre) vettore (vettóre) aberrazione (aberrazióne) abrasione (abrasióne) accelerazione (accelerazióne) adesione (adesióne) adrone (adróne) aeriforme (aerifórme) alternatore (alternatóre) anione (anióne) azione (azióne) barione (barióne) bomba (bómba) bosone (bosóne) calore (calóre) coesione (coesióne) colore (colóre) composizione (composizióne) compressione (compressióne) concentrazione (concentrazióne) condensatore (condensatóre) condensazione (condensazióne) conduttore (conduttóre) conduzione (conduzióne) conservazione (conservazióne) contrazione (contrazióne) 78 convezione (convezióne) declinazione (declinazióne) deutone (deutóne) deviazione (deviazióne) diffrazione (diffrazióne) dilatazione (dilatazióne) disordine (disórdine) dispersione (dispersióne) ebollizione (ebollizióne) elettrizzazione (elettrizzazióne) elettrone (elettróne) equipartizione (equipartizióne) espansione (espansióne) esplosione (esplosióne) evaporazione (evaporazióne) fermione (fermióne) fissione (fissióne) fusione (fusióne) generatore (generatóre) giunzione (giunzióne) gravitazione (gravitazióne) gravitone (gravitóne) implosione (implosióne) inclinazione (inclinazióne) induzione (induzióne) infrarosso (infrarósso) ionizzazione (ionizzazióne) lavoro (lavóro) leptone (leptóne) liquefazione (liquefazióne) mesone (mesóne) motore (motóre) neutrone (neutróne) nucleone (nucleóne) onda (ónda) ordine (órdine) oscillazione (oscillazióne) ossidazione (ossidazióne) polarizzazione (polarizzazióne) precessione (precessióne) 79 pressione (pressióne) protone (protóne) radiazione (radiazióne) reazione (reazióne) riflessione (riflessióne) rifrazione (rifrazióne) rotazione (rotazióne) rotore (rotóre) scissione (scissióne) statore (statóre) sublimazione (sublimazióne) torsione (torsióne) trasformazione (trasformazióne) Voci del verbo essere (èssere) io (essi) sono (sóno) tu fosti (fósti) che io fossi (fóssi) che tu fossi (fóssi) che egli fosse (fósse) che noi fossimo (fóssimo) voi foste (fóste) che voi foste (fóste) che essi fossero (fóssero) Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali “oce” croce (cróce), foce (fóce), noce (nóce), veloce (velóce), ecc. Una eccezione è “precoce-precòce”. 80 N.B. Se davanti alla “o” cʼè la “u” dobbiamo pronunciare aperta la “o” poiché, come vedremo, la regola sul “dittongo-uo” è più vincolante. E si ha, ad esempio, “cuoce-cuòce” e “nuoce-nuòce”, ecc. “ogna-ogno” Bologna (Bológna) fogna (fógna) gogna (gógna) menzogna (menzógna) rogna (rógna) vergogna (vergógna) agogno (agógno) bisogno (bisógno) sogno (sógno) Omografo: cogno (cógno) è una sorta di cuneo di legno. cogno (cògno) un tipo di barile, ed anche antica misura del vino e del volume in genere. “ognolo” giallognolo (giallógnolo) verdognolo (verdógnolo)... “oio” accappatoio (accappatóio) avvoltoio (avvoltóio) 81 corridoio (corridóio) levatoio (levatóio) rasoio (rasóio) N.B. Se davanti ad “oio” cʼè la “u” bisogna pronunciare la “o” aperta, come vuole una regola più vincolante sul dittongo “uo”. Esempi: cuoio (cuòio), muoio (muòio), ecc. “olco-oldo-olfo-olmo-olpo-olpa-olso” solco (sólco) manigoldo (manigóldo) golfo (gólfo) zolfo (zólfo) colmo (cólmo) io colmo (cólmo) olmo (ólmo) colpo (cólpo) polpo (pólpo) colpa (cólpa) bolso (bólso) polso (pólso) “omba-ombra-ombro-ombo-ombola” bomba (bómba) tomba (tómba) tromba (trómba) ombra (ómbra) ingombro (ingómbro) colombo (colómbo) incombo (incómbo) piombo (piómbo) rimbombo (rimbómbo) rombo (rómbo) 82 tombola (tómbola) “omma-ommo” gomma (gómma) somma (sómma) io sgommo (sgómmo) io sommo (sómmo) mommo (mómmo) il sommo (sómmo) Ma si dice “comma-còmma”. “ona” negli accrescitivi barcona (barcóna) casona (casóna) macchinona (macchinóna) melona (melóna) zuccona (zuccóna) “onca-onco-oncia-oncio” conca (cónca) spelonca (spelónca) bronco (brónco) stronco (strónco) tronco (trónco) concia (cóncia) concio (cóncio) sconcio (scóncio) 83 “onda-ondo-ondio-ondolo-ondola” fionda (fiónda) sonda (sónda) onda (ónda) ronda (rónda) abbondo (abbóndo) biondo (bióndo) immondo (immóndo) mondo (móndo) nascondo (nascóndo) rotondo (rotóndo) secondo (secóndo) sfondo (sfóndo) io sfondo (sfóndo) tondo (tóndo) don (dòn) Abbondio (Abbóndio) ciondolo (cióndolo) dondolo (dóndolo) gondola (góndola) “one-ome” canzone (canzóne) equazione (equazióne) elettrone (elettróne) fotone (fotóne) furgone (furgóne) fusione (fusióne) leone (leóne) passione (passióne) polmone (polmóne) poltrone (poltróne) proporzione (proporzióne) come (cóme) nome (nóme)… 84 Tutti gli “accrescitivi” come ad esempio : ditone (ditóne) piedone (piedóne) testone (testóne)... Esistono rare eccezioni come “lacone-lacòne” e “gnome-gnòme”, parole di origine greca, che significano rispettivamente “spartano” e “motto, proverbio”. “onfio-onfo” gonfio (gónfio) tronfio (trónfio) tonfo (tónfo) trionfo (triónfo)… “onta-onte-onto” conta (cónta) impronta (imprónta) monta (mónta) onta (ónta) rimonta (rimónta) bisonte (bisónte) conte (cónte) fonte (fónte) monte (mónte) conto (cónto) pronto (prónto) sconto (scónto) tonto (tónto)… 85 “ontro-ontra” contro (cóntro) incontro (incóntro) scontro (scóntro) lontra (lóntra)… “onzo-onza” abbronzo (abbrónzo) bonzo (bónzo) bronzo (brónzo) gonzo (gónzo) lonza (lónza)… ronzo (rónzo) “onzolo” lattonzolo (lattónzolo) mediconzolo (medicónzolo) pretonzolo (pretónzolo)… “ordo-orda” abbordo (abbórdo) balordo (balórdo) bordo (bórdo) ingordo (ingórdo) lordo (lórdo) sordo (sórdo) tordo (tórdo) abborda (abbórda) balorda (balórda)… Hanno la “o”aperta: accòrdo (accordo), corda (còrda), orda (òrda), io mordo (mòrdo). 86 “orgo” borgo (bórgo) gorgo (górgo) ingorgo (ingórgo)... Le voci del verbo “sorgere-sórgere”: io sorgo (sórgo), tu sorgi (sórgi), ecc. e del verbo “sgorgare”come: lʼacqua sgorga (sgórga), le parole sgorgano (sgórgano), ecc. N.B. Le voci del verbo “porgere-pòrgere”, “scorgere-scòrgere” e “accorgere-accòrgere” hanno la “o” aperta: porgo (pòrgo) porgi (pòrgi) porge (pòrge) scorgo (scòrgo) mi accorgo (accòrgo)… “ore” amore (amóre) ardore (ardóre) candore ( candóre) fiore (fióre) furore ( furóre) malore ( malóre) tenore (tenóre) sapore (sapóre) timore ( timóre)… 87 Ma, attenzione, si dice “cuore-cuòre” poiché il dittongo “uo” richiede la “o-aperta”. “orma-e-o” forma (fórma) orma (órma) conforme (confórme) deforme (defórme) formo (fórmo) informo (infórmo)… Hanno la “o-aperta”: dormo (dòrmo), norma (nòrma) e le parole che ne derivano: tu dormi (dòrmi), abnorme (abnòrme), ecc. “orno-ornio” contorno (contórno) forno (fórno) giorno (giórno) intorno (intórno) ritorno (ritórno) storno (stórno) tornio (tórnio)… Unʼeccezione è “corno-còrno”. “orre” comporre (compórre) 88 deporre (depórre) disporre (dispórre) porre (pórre) lui corre (córre) lui scorre (scórre) torre (tórre) … “orso-orsa-orse-orsi” orso (órso) sorso (sórso) ho corso (córso) borsa (bórsa) corsa (córsa) risorsa (risórsa) lui sorse (sórse) io corsi (córsi)… Sono eccezioni “dorso-dòrso, morso-mòrso, morsa-mòrsa” e le voci del verbo mordere ( mòrdere): morsi (mòrsi), morse (mòrse), morso ( mòrso). Ricordiamo, è un buon esercizio, gli omografi “scorsi”, “corso” e “porsi”: - io scorsi (scórsi), dal verbo “scorrere-scórrere”. - io scorsi (scòrsi), dal verbo” scorgere-scòrgere”. ∗ io sono corso (córso), dal verbo “correre-córrere”. ∗ io sono corso (còrso), cioè abitante della Corsica. 89 o porsi (pórsi) in salvo, dal verbo “porre-pórre”. o io porsi (pòrsi) la mano, dal verbo “porgere-pòrgere”. “osco-osca” fosco (fósco) losco (lósco) mosca (mósca)… Ma si ha : “bosco-bòsco” e “cosca-còsca”. Un omografo è “tosco”. tosco (tósco) per indicare la persona toscana. tosco (tòsco) significa il veleno, il velenoso. “oso” negli aggettivi e participi passati amoroso ( amoróso) bellicoso (bellicóso) corroso (corróso) grandioso (grandióso) lussuoso (lussuóso) luttuoso (luttuóso) permaloso (permalóso)… Sono eccezioni “esploso-esplòso” ed “imploso-implòso”. N.B. Lussuoso (lussuóso) e luttuoso (luttuóso) sono eccezioni alla regola sul dittongo “uo” che vuole la “o” aperta. 90 “ovo” covo (cóvo) rovo (róvo)… N.B. Se prima della “o” cʼè la “u” bisogna pronunciarla aperta poiché lo esige la regola sul dittongo “uo”. Pertanto si ha: “nuovo-nuòvo”, “uovo-uòvo”, ecc. “o” aperto Casi nei quali il grafema “o” ha suono aperto 1) quando rappresenta semplicemente la tredicesima lettera del nostro alfabeto tradizionale: “o-ò”. 2) in “oh” ed in “ohi” per esprimere gioia, stupore, dolore come in: oh (ò), che bello! ohi (òi), che disgrazia! Avverbi, preposizioni, pronomi ciò (ciò) fuori (fuòri) nostro (nòstro) vostro (vòstro) oggi (òggi) poi (pòi) ovest (òvest) volta (vòlta) Numeri otto (òtto ) nove (nòve) diciotto (diciòtto) diciannove (diciannòve)… 91 Nomi propri di persona Adolfo (Adòlfo) Alfonso (Alfònso) Ambrogio (Ambrògio) Antonio (Antònio) Arnolfo (Arnòlfo) Aroldo (Aròldo) Ausonio (Ausònio) Eleonora (Eleonòra) Leopoldo (Leopòldo) Vittorio (Vittòrio)… Nomi mitologici Acropoli (Acròpoli) Ambrosia (Ambròsia) Andromaca (Andròmaca) Andromeda (Andròmeda) Apollo (Apòllo) Borea (Bòrea) Ciclopi (Ciclòpi) Coclite (Còclite) Colchide (Còlchide) Crono (Cròno) Dioniso (Diòniso) Dioscuri (Diòscuri) Discordia (Discòrdia) Enotrope (Enòtrope) Gorgone (Gòrgone) Minosse (Minòsse) Moire (Mòire) Noto (Nòto) Pandora (Pandòra) Polidoro (Polidòro) Proteo (Pròteo) Troia (Tròia) Troilo (Tròilo)… 92 Nomi di città Aosta (Aòsta) Como (Còmo) Domodossola (Domodòssola) Foggia (Fòggia) Modena (Mòdena) Olbia (Òlbia)… Termini matematici e scientifici assioma (assiòma) binomio (binòmio) cicloide (ciclòide) concoide (concòide) conica (cònica) cono (còno) corda (còrda) corpo (còrpo) epicicloide (epiciclòide) formula (fòrmula) fuoco (fuòco) polinomio (polinòmio) rapporto (rappòrto) amperometro (amperòmetro) armonico (armònico) atomico (atòmico) barometro (baròmetro) baroscopio (baroscòpio) binocolo (binòcolo) cosmo (còsmo) cronometro (cronòmetro) dinamometro (dinamòmetro) equinozio (equinòzio) forza (fòrza) idrogeno (idrògeno) isobara (isòbara) isocora (isòcora) isotropo (isòtropo) manometro (manòmetro) 93 moto (mòto) occhio (òcchio) ondoscopio (ondoscòpio) orbita (òrbita) orologio (orològio) osmosi (osmòsi) ottica (òttica) paradosso (paradòsso) reostato (reòstato) suono (suòno) tempo (tèmpo) tempo-proprio (tèmpo-pròprio) traiettoria (traiettòria)… Dittongo “uo” aiuola (aiuòla) buono (buòno) cuocio (cuòcio) cuoco (cuòco) cuore (cuòre) mariuolo (mariuòlo) ruolo (ruòlo) ruota (ruòta) uomo (uòmo) uopo (uòpo) uovo (uòvo)… N.B. Ricordando che la terminazione in “ore” richiede la “o-chiusa”, osserviamo, dalla parola “cuòre”, che la regola sul dittongo “uo” è più vincolante. Sono eccezioni “delittuóso, lussuóso e luttuóso”( uno di quei casi di intreccio di regole nei quali lʼeccezione diventa norma) che seguono la regola, anchʼessa molto forte, sulla terminazione in “oso” degli aggettivi e participi passati. 94 “o” seguita da una consonante scempia ( semplice ) e da due vocali odio (òdio) podio (pòdio) elogio (elògio) orologio (orològio) mogio (mògio) olio (òlio) binomio (binòmio) ammonio (ammònio) nonio (nònio) copia (còpia) caleidoscopio (caleidoscòpio) giroscopio (giroscòpio) accessorio (accesssòrio) boria (bòria) cicoria (cicòria ) illusorio (illusòrio) memoria (memòria) storia (stòria) ambrosia (ambròsia) sosia (sòsia) negozio (negòzio) ozio (òzio) sacerdozio (sacerdòzio)… Sono eccezioni “sfocio-sfócio” e “incrocio-incrócio”. “o” seguita da due consonanti non uguali (eccetto “mp-nc-nd-nf”) e da due vocali. bolgia (bòlgia ) Borgia (Bòrgia) discordia (discòrdia) foglio (fòglio) foglia (fòglia) improprio (impròprio) orgia (òrgia) ostia (òstia) scoglio (scòglio) sfoglio (sfòglio) smorfia (smòrfia ) sobrio (sòbrio) 95 spoglio (spòglio) storpio (stòrpio) voglia (vòglia ) io voglio (vòglio)… torcia (tòrcia) E diremo: compio (cómpio), broncio (bróncio), Abbondio (Abbóndio), tronfio (trónfio), ecc. Ricordiamo lʼomonimo-omofono “voglia”: voglia (vòglia ) il cielo…. cong. pres. da “volere-volére”. ho voglia (vòglia) di suonare. N.B. “Cordoglio-cordòglio” e “orgoglio-orgóglio”. Sequenza “io-consonante- vocale” ciotola (ciòtola) figliola (figliòla) fiocina (fiòcina) fioco (fiòco) gioco (giòco) Giove (Giòve) giovine (giòvine) iodio (iòdio) ionico (iònico) iosa (iòsa) paiolo (paiòlo) piolo (piòlo) viole (viòle) yoga (yòga) yogurt (yògurt)… Alcune eccezioni sono: giogo (giógo), giovane (gióvane), io giovo (gióvo), io sfioro (sfióro)... 96 N.B. Le terminazioni “ore-one-oso” seguono, come abbiamo visto, delle regole più vincolanti e pertanto si ha: fióre (fiore) rione (rióne) gioioso (gioióso)… Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali “iolo-iola” paiolo (paiòlo) piolo (piòlo) figliola (figliòla) viola (viòla)… “occhio-occio-occia” cocchio (còcchio) crocchio (cròcchio) finocchio (finòcchio) ginocchio (ginòcchio) occhio (òcchio) approccio (appròccio) bamboccio (bambòccio) cartoccio (cartòccio) coccio (còccio) figlioccio (figliòccio) scoccio (scòccio) boccia (bòccia) roccia (ròccia ) saccoccia (saccòccia)… 97 Sono eccezioni: “doccia-dóccia”, “goccia-góccia”. “occiolo-occiola-occolo-ocolo-ossolo-ottolo-ottola” bernoccolo (bernòccolo) moccolo (mòccolo) binocolo (binòcolo) monocolo (monòcolo) bossolo (bòssolo) bottolo (bòttolo) pianerottolo (pianeròttolo) viottolo (viòttolo) collottola (collòttola) pallottola (pallòttola)… Hanno la “o-chiusa”: gocciolo (gócciolo), gocciola (gócciola) e boccolo (bóccolo). N.B. “Nocciolo”, parola sdrucciola, ammette entrambe le forme “nócciolo e nòcciolo”. “nocciola (nocciòla)”, il frutto del “nocciolo (nocciòlo)”, è stata inserita nella terminazione “olo-ola-ole” di parole piane. “odo-oda-ode” brodo (bròdo) frodo (fròdo) io frodo (fròdo) sodo (sòdo) moda (mòda) frode (fròde) 98 lode (lòde) ode (òde) Le voci dei verbi “udire”, “godere-godére” e “lodare”: io odo (òdo) tu odi (òdi) egli ode (òde)…. io godo (gòdo) tu godi (gòdi) egli gode (gòde)… io lodo (lòdo)… che io loda (lòda)… “nodo” ammette entrambe le forme : “nódo” e “nòdo”. Hanno la “o” chiusa : 1. coda (códa). 2. le voci del verbo “accodarsi”: io mi accodo (accódo), tu ti accodi (accódi), egli si accoda (accóda)… 3. le voci di “rodere-ródere”: io rodo (ródo), tu rodi (ródi), egli rode (róde) … “oggia-oggio” foggia (fòggia) Foggia (Fòggia) pioggia (piòggia) appoggio (appòggio) poggio (pòggio) sfoggio (sfòggio) loggia (lòggia) sloggio (slòggio)… 99 “oide” discoide (discòide) tiroide (tiròide)… “olgo-olga” io accolgo (accòlgo)… io colgo (còlgo)… io svolgo (svòlgo)… io tòlgo (tòlgo)… che io accolga (accòlga)… che io svolga (svòlga)… Un omografo è “volgo”: il volgo (vólgo), dal latino “vulgus”, cioè “ popolino”. io volgo (vòlgo), dal latino “volvo-volvere” che ha originato il nostro “girare-volgere”. “olo-ola” dolo (dòlo) mola (mòla) nolo (nòlo) polo (pòlo)… molo (mòlo) Anche le parole che presentano la “i” o la “u” davanti alla “o”, come abbiamo visto, vogliono la “o” aperta: piolo (piòlo), ruolo (ruòlo)… 100 Hanno la “o” chiusa: gola (góla) volo (vólo) io volo (vólo)... “ologo-ogico-ogolo” apologo (apòlogo) biologo (biòlogo) ginecologo (ginecòlogo) meteorologo (meteoròlogo) prologo (pròlogo) ginecologico (ginecològico) logico (lògico) merceologico (merceològico) meteorologico (meteorològico) trogolo (trògolo)… “omo-oma” cromo (cròmo) domo (dòmo) gnomo (gnòmo) tomo (tòmo) aroma (aròma) boma (bòma) coma (còma) croma (cròma) idioma (idiòma) soma (sòma)… N.B. Roma (Róma) e pomo (pómo) hanno la “o”chiusa. “onaco-onaca” intonaco (intònaco) monaco (mònaco) 101 cronaca (crònaca) tònaca (tonaca)… “onimo-onomo-olico-omico-onico-opico-otico” anonimo (anònimo) omonimo (omònimo) astronomo (astrònomo) gastronomo (gastrònomo) apostolico (apostòlico) eolico (eòlico) astronomico (astronòmico) comico (còmico) gastronomico (gastronòmico) gnomonico (gnomònico) ionico (iònico) mnemonico (mnemònico) platonico (platònico) antropico (antròpico) entropico (entròpico) topico (tòpico) gotico (gòtico) zotico (zòtico)… “onna-onno” donna (dònna) nonna (nònna) nonno ( nònno)… Gonna ammette sia la forma “gònna” che la forma “gónna”. Ma si dice “sonno-sónno” e “tonno-tónno”. 102 “ono-ona” abbono (abbòno) cono (còno) nono (nòno) ozono (ozòno) stono (stòno) tono (tòno) trono (tròno) zona (zòna)… e tutte le parole, lo ricordiamo, con il “dittongo-uo”: buono (buòno) suono (suòno) tuono (tuòno)… Hanno la “o” chiusa: abbottono (abbottóno) corona (coróna) io corono (coróno) dono (dóno) io dono (dóno) condono (condóno) perdono (perdóno) maratona (maratóna) persona (persóna) io sono (sóno) Cremona (Cremóna) Savona (Savóna) Verona (Veróna)… “oppio-oppia-oppo-oppa” oppio (òppio) coppia (còppia) accoppo (accòppo) 103 galoppo (galòppo) pioppo (piòppo) sciroppo (sciròppo) troppo (tròppo) zoppo (zòppo) coppa (còppa)… Sono eccezioni: “doppio-dóppio” e “poppa-póppa”. “orchio-orco-orca-orcia-orcio” rimorchio (rimòrchio) torchio (tòrchio) orco (òrco) porco (pòrco) torcia (tòrcia)… sporco (spòrco) Ma si dice: “inforco-infórco”, “forca-fórca”, “scorcio-scórcio” e “sorcio-sórcio”. “oro-ora” boro (bòro) coro (còro) decoro (decòro) ignoro (ignòro) moro (mòro) oro (òro) poro (pòro) toro (tòro) aurora (auròra) bora (bòra) flora (flòra) Il pronome “loro-lóro”, lo ricordiamo, vuole la “o” chiusa, come le voci dei verbi “adorare , assaporare, infervorare”: 104 io adoro (adóro)… tu adori (adóri)… io assaporo (assapóro)… mi infervoro (infervóro)… Ed anche gli avverbi “ora (óra)”, “allora (allóra)”, “ancora (ancóra)”. Ricordiamo lʼomografo “foro”: foro (fóro) indica un buco, unʼapertura. foro (fòro) è la piazza degli antichi romani ed il luogo sede del tribunale. Omonimo-omofono: “toro (tòro)” rappresenta sia il maschio della vacca (e la Costellazione), sia una figura geometrica (e il relativo dispositivo fisico). “orto-orta-orte” aborto (abòrto) conforto (confòrto) morto (mòrto) orto (òrto) porto (pòrto) rapporto (rappòrto) ritorto (ritòrto) torto (tòrto) porta (pòrta) scorta (scòrta) sorta (sòrta) storta (stòrta) forte (fòrte) morte (mòrte) sorte (sòrte)… 105 Sono eccezioni: “corte (córte)”, “torta (tórta)”, il participio passato “sorto (sórto)” (dal verbo sorgere-sórgere) e lʼaggettivo “corto (córto)”. Eʼ utile esercizio ricordare gli omografi “ sorta (sórta)” e “sorta (sòrta)” già presentati e lʼomonimo-omofono “porto”: Genova ha un porto (pòrto) importante. Mario mi ha porto (pòrto, da porgere-pòrgere) il pane. “orza-orzo” forza (fòrza) scamorza (scamòrza) scorza (scòrza) forzo (fòrzo) orzo (òrzo) rinforzo (rinfòrzo) cosa (còsa) posa (pòsa) prosa (pròsa) rosa (ròsa) io poso (pòso) riposo (ripòso) sforzo (sfòrzo) “osa-oso-ose” dose (dòse) Ma si dice “io toso-tóso”. Ricordiamo che i participi passati e gli aggettivi hanno la “o” chiusa: amoroso (amoróso), gioioso (gioióso), roso (róso), ecc. 106 “ossa-osso-osse” fossa (fòssa) mossa (mòssa) ossa (òssa) bosso (bòsso) dosso (dòsso) fosso (fòsso) grosso (gròsso) ingrosso (ingròsso) osso (òsso) ridosso (ridòsso) la tosse (tòsse) le fosse (fòsse) Le voci del verbo “potere-potére”: io posso (pòsso)… che io possa (pòssa)… I participi passati: percosso (percòsso-percuòtere) promosso (promòsso-promuòvere) scosso (scòsso-scuòtere) Ricordiamo lʼomografo “fossi”: se io fossi (fóssi), con “fossi” congiuntivo di “essere”. i fossi (fòssi), con “fossi” plurale di “fosso-fòsso”. Analogo è il caso dellʼomografo “fosse”. N.B. Una eccezione è “rosso-rósso”. 107 “ostato-ostata” reostato (reòstato) termostato (termòstato) apostata (apòstata) prostata (pròstata) “oto-ota-ote” azoto (azòto) moto (mòto) noto (nòto) gota (gòta) pilota (pilòta) trota (tròta) dote (dòte) litote (litòte) sacerdote (sacerdòte) Sono eccezioni : “ il voto-vóto” e “io voto-vóto” con le relative voci. “otto-otta-otte” botto (bòtto) cotto (còtto) dotto (dòtto) fagotto (fagòtto) fiotto (fiòtto) lotto (lòtto) motto (mòtto) troppo (tròppo) trotto (tròtto) zoppo (zòppo) botta (bòtta) flotta (flòtta) marmotta (marmòtta) Hanno la “o-chiusa”: 108 notte (nòtte) 1) prodotto (prodótto), gotta (gótta), io sfotto (sfótto). 2) condotto (condótto), oleodotto (oleodótto) e ridotto (ridótto), derivanti dal “duco-is-duxi-ductum-ducere” latino. 3) rotto (rótto), participio passato di rompere (rómpere) e avente origine dal latino “rumpo-is-rupi-ruptum-rumpere”. N.B: I participi “ductum e ruptum” hanno generato la “o” chiusa di “condótto e rótto”, come il participio “doctum” del latino “doceo-esdocui- doctum- docere” (insegnare) ha reso aperta la “o” dellʼitaliano “dòtto”. Eʼ utile ricordare gli omografi “botte” e “botti”: le botte (bòtte), plurale di “botta-bòtta”. la botte (botte-bótte), nome del recipiente. i botti (bòtti), plurale di “botto-bòtto”. le botti (bótti), plurale di “botte-bótte”. 109 Frequenze quasi uguali Il grafema “o” si trova, nelle seguenti terminazioni, nella forma “chiusa” ed in quella “aperta” con frequenze non molto diverse. “occo-occa” abbocco (abbócco) balocco (balòcco) - blocco (blòcco) ciocca (ciòcca) - cocca (còcca) bocca (bócca) cocco (còcco) - fiocco (fiòcco) rimbocco (rimbócco) nocca (nòcca) - scocca (scòcca) io tocco (tócco) Rocco (Ròcco) scirocco (sciròcco) - scrocco (scròcco) Ricordiamo gli omografi “tocco” e “rocca”: Il tocco (tócco) è lʼatto del toccare. Il tocco (tòcco) è il berretto dei giudici e degli avvocati. La rocca (rócca) è lʼ attrezzo per filare. La rocca (ròcca) è la rupe, la fortezza. “oga-ogo-oge” doga (dóga)-foga (fóga) toga (tòga) rogo (rógo)-sfogo (sfógo) doge (dòge) 110 “oia” feritoia (feritóia) boia (bòia)-gioia (giòia) ingoia (ingóia) noia (nòia) mangiatoia (mangiatóia) soia (sòia) Pistoia (Pistóia) Troia (Tròia) Ricordiamo, “repetita iuvant”, che il “dittongo-uo” richiede la “oaperta” e pertanto si ha: cuoia (cuòia), muoia (muòia), ecc. “oldo” manigoldo (manigóldo) soldo (sòldo) Aroldo (Aròldo) Leopoldo (Leopòldo) “olo-ola-ole” solo (sólo) nocciolo (nocciòlo) volo (vólo) nocciola (nocciòla) molo (mòlo)-nolo (nòlo) io volo (vólo) polo (pòlo)-fola (fòla) 111 gola (góla) parola (paròla)-Pola (Pòla) sole (sóle) prole (pròle) “ollo-olla” pollo (póllo) crollo (cròllo)-sfollo (sfòllo) ampolla (ampólla) colla (còlla)-collo (còllo) bolla (bólla) bricolla (bricòlla) cipolla (cipólla) corolla (coròlla) midollo (midóllo) molla (mòlla ) midolla (midólla) zolla (zòlla) “olto-olta” colto (cólto), aggettivo : uomo colto (cólto) terreno colto (cólto) colto (còlto), participio passato da “cogliere-cògliere”: il frutto è stato colto (còlto) folto (fólto): un bosco (bòsco) folto (fólto) molto (mólto): molto (mólto) folto (fólto) sepolto (sepólto), aggettivo e participio passato da “seppellire” 112 il volto (vólto): col (cól) volto (vólto) rivolto (rivòlto) assolto (assòlto), participio passato da “assolvere-assòlvere” risolto (risòlto), participio passato da “risolvere-risòlvere” rivolto (rivòlto), participio passato da “rivolgere-rivòlgere” tolto (tòlto), participio passato da “togliere-tògliere” volto (vòlto), participio passato da “volgere-vòlgere” la volta (vòlta), una volta (vòlta). Ricordiamo che “colto e volto” sono “omografi”. “opo-opa” io scopo (scópo) lo scopo (scòpo) la scopa (scópa) topo (tòpo) “scopo” è un omografo. “orro” corro (córro)… borro (bòrro) scorro (scórro) porro (pòrro) 113 “orvo” torvo (tórvo) corvo (còrvo) “osto-osta-oste-ostro-ostra ” mosto (mósto) accosto (accòsto) il posto (pósto) arrosto (arròsto) opposto (oppósto) costo (còsto) nascosto (nascósto) la posta (pòsta) voi foste (fóste) oste (òste) mostro (móstro) costa (còsta)-crosta (cròsta) io mostro (móstro) nostro (nòstro)-rostro (ròstro) Sono omografi “imposto” e “imposta”: 1) imposto (impósto) è part.pass. da “imporre-impórre”: “mi è stato imposto (impósto) di studiare”. Imposto (impòsto) è ind. pres. da “impostare”: io imposto (impòsto) un calcolo. 2) imposta (impósta): unʼimposta, una tassa. imposta (impòsta): la persiana. 114 “ozzo-ozza-ozze” gozzo (gózzo) abbozzo (abbòzzo) ingozzo (ingózzo) bozzo (bòzzo)-bozza (bòzza) pozzo (pózzo) cozzo (còzzo)-cozza (còzza) rozzo (rózzo) tinozza (tinòzza)-tozzo (tòzzo) sozzo (sózzo) nozze (nòzze) Ricordiamo lʼomografo “mozzo”: 1) mozzo (mózzo) è lʼ aiutante-marinaio. 2) mozzo (mòzzo) per indicare lʼasse della ruota ed anche, come aggettivo, un qualcosa di “tronco-tagliato”. “ove” altrove (altróve) bove (bòve) ove (óve) nove (nòve) ovest (òvest) Ripassiamo: 1) Se cʼè il dittongo “uo” la “o” si pronuncia aperta: buone (buòne) nuove (nuòve). 115 2) Se cʼè la sequenza “io-consonante-vocale” vale la stessa regola con esclusione delle terminazioni in “ore-one-oso”: Giove (Giòve), piolo (piòlo), piove (piòve), … ma fiore (fióre), fusione (fusióne), ione (ióne), ionizzazione (ionizzazióne), gioioso (gioióso), mafioso (mafióso), ecc. Frequenze piccole Presentiamo un elenco di parole che hanno caratteristiche fonetiche e terminazioni con una frequenza piccola da poter essere inserite in nuovi gruppi o in quelli già considerati. agrodolce (agrodólce) accomodo (accòmodo) acropoli (acròpoli) io assolsi (assòlsi) io annovero (annòvero) brontolo (bróntolo) apostrofo (apòstrofo) compero (cómpero) briozoi (briozòi) compiere (cómpiere) codice (còdice) compito (cómpito) cogliere (cògliere) correre (córrere) congruo (còngruo) disordine (disórdine) console (cònsole) dodici (dódici) corpo (còrpo)-cross (cròss) 116 dolce (dólce) dogma (dògma) forbice (fórbice) floscio (flòscio) golpe (gólpe) gobbo (gòbbo) gomena (gómena) goffo (gòffo) gomito (gómito) golgota (gòlgota) gongolo (góngolo) ippodromo (ippòdromo) interrompo (interrómpo) insonne (insònne) insomma (insómma) ipotesi (ipòtesi) insorgere (insórgere) isobara (isòbara) Labrador (Labradór) lobo (lòbo) logoro (lógoro) loculo (lòculo) io logoro (lógoro) manovra (manòvra) io mormoro (mórmoro) misogino (misògino) egli mormora (mórmora) la mormora (mòrmora) noi (nói) mobile (mòbile) non (nón) nomina (nòmina) onde (ónde) oasi (òasi)-onere (ònere) ordine (órdine) opera (òpera) orlo (órlo) organo (òrgano) otre (ótre) ospite (òspite) ottobre (ottóbre) polca (pòlca) 117 polvere (pólvere) pollice (pòllice)-polline (pòlline) pomice (pómice) popolo (pòpolo) porpora (pórpora) porgere (pòrgere) precorrere (precórrere) povero (pòvero) quattordici (quattórdici) profugo (pròfugo) rondine (róndine) proposito (propòsito) rodere (ródere) rospo (ròspo) rovere (róvere) rorido (ròrido)-solido (sòlido) sordido (sòrdido) sepolcro (sepólcro) togliere (tògliere) soffio (sóffio) vomere (vòmere) vongola (vóngola) vomito (vòmito) 118 ORTOEPIA DI “S” Il grafema “s” presenta, come la “e” e la “o”, due differenti pronunce. I due diversi suoni vengono di solito chiamati “sonoro o dolce” e “sordo o aspro”. Nella frase “una rosa senza spine” si riconoscono facilmente queste sonorità: la prima “s” è “sonora”, le altre due sono “sorde”. A noi personalmente sembra che la “s” detta “sorda” sia come “soffiata”, pronunziata con la bocca più aperta rispetto a quella “sonora” che, a sua volta, ci appare come “vibrata”. Abbiamo cioè la sensazione che la “s-sonora” sorga più nel profondo, con un maggior coinvolgimento delle “corde vocali”( in realtà sono come dei dischi che vibrano in un tubo); la “s-sorda” ci sembra, a sua volta, formarsi più in alto, quasi nella bocca, con forte spinta dellʼaria fra i denti che sarebbe la causa di quel certo “soffio”. Queste considerazioni, che possono aiutarci nella ricerca di una “dizione” corretta o per lo meno migliore, sono basate sulle sensazioni del nostro orecchio che non è uno strumento fisico artificiale e oggettivo, ma un organo naturale e soggettivo. Non a caso si dice: “avere orecchio”! Pertanto le osservazioni che noi abbiamo fatto, che altri fanno o faranno, e le stesse definizioni riportate (sordo e sonoro), non hanno alcunché di 119 assoluto nel senso che ciascuno in realtà sente alla sua maniera. Ad esempio Marisa ed io non “sentiamo” nello stesso modo: a me viene da associare alla denominazione “sordo” lʼalternativa “dolce” ed alla “sonoro” la “aspro”. Evidentemente sono io che ho un modo di sentire “strano” se è vero che tutte le grammatiche dicono lʼinverso. Anche i più o meno “daltonici dellʼudito” sono coscienti della loro “stranezza” e, pur non sentendo il “sonoro” o il “sordo” come la maggioranza degli altri, possono comunque trarre utilità dal sapere che spingendo maggiormente lʼaria fra i denti si ottiene la “s-sorda”. Ricordiamo che a proposito dellʼortoepia della “e” e della “o” abbiamo parlato molto sulla obbligatorietà o meno di porre gli accenti nella lingua scritta. Per quanto riguarda la “s” (ed anche la “z”) le cose sono più semplici. La “s-sorda” si scrive “s” ( anche nel vocabolario); la “s-sonora” viene indicata dal dizionario con un piccolo segno postole sopra o sotto, ma nella lingua scritta non vi è alcun obbligo di metterlo (lʼitaliano diverrebbe ancora più difficile!). Scrivendo pertanto una parola con la “s-sorda” non ricorreremo più alla doppia scrittura ( come per la “e” e la “o”) riportando in parentesi quella del dizionario, poiché le due coincidono. “s” sordo “s”allʼinizio di parola e seguito da vocale sabato salto sapiente sazio sella seme senza sette sicuro silenzio simile siluro 120 sodo solo sonda sublimato sublime subordinare… sotto subito “s” preceduto da una qualsiasi consonante arso borsa corsa immergersi impulso insaziabile insulso percorso transalpino transatlantico transenna transetto transigere transito transoceanico transumanza… “s” doppio assalto assegno asso basso bassofondo bassorilievo cassa cassiere cessare cessione dessert dosso dissesto dissidente essenza essere esso essoterico fessura fissione fisso fosso gassato gassista gassosa gassoso issare lassismo lasso lassù lossodromia masseria masso messere messo nassa nesso nessuno nossignore ossatura osservatorio ossequio ossigeno pessimo 121 plesso possesso prossimo ressa rissa rissoso rosso salasso sasso sessione sesso tassa tassello tasso tessere vassallo vassoio vessare vessillo… È interessante ricordare, al di là dellʼaspetto ortoepico, la differenza fra “esoterico ed essoterico” (parole di origine greca): “ešotèrico” significa “interno” e viene (veniva) usato per indicare un insegnamento per pochi (i discepoli dei filosofi greci), una dottrina con caratteristiche di segretezza e di mistero per coloro che non vi partecipano. “Essotèrico” è il contrario di “ešotèrico”; ha il significato di “esterno” e si usa (si usava) nel caso di un insegnamento aperto a tutti (e non ai soli allievi dei maestri), una dottrina semplice ed accessibile senza limitazione alcuna. “s” seguito da una delle consonanti (sorde) “c, f, p, q, t” ascolto asfalto aspetto astronomo basco basta bisticcio casco cosca cospetto costo disco disfare dispetto distorto esca estrapolare fresco festa guascone 122 guasto ischemia ispirazione istanza lisca lustro miscela misfatto mestolo nascere nastro oscenità ospite osteria pesca pestare raschiare raspare resto scelta sferzare spettro squame stranezza tasca tasto usciere ustione vasca vastità… Terminazioni in “eso-esa-esi-ese” dei participi passati e degli aggettivi appeso (esa, esi, ese) conteso (esa, esi, ese) difeso (esa, esi, ese) inatteso (esa, esi, ese) preso (esa, esi, ese) sospeso (esa, esi, ese) trasceso (esa, esi, ese) vilipeso (esa, esi, ese) Terminazioni in “oso-osa-osi-ose” dei participi passati e degli aggettivi amoroso (osa, osi, ose) bellicoso (osa, osi, ose) corroso (osa, osi,ose) costoso (osa, osi, ose) delizioso (osa, osi, ose) esploso (osa, osi, ose) estroso (osa, osi, ose) goloso (osa, osi, ose) 123 imploso (osa, osi, ose) maestoso (osa, osi, ose) odioso (osa, osi, ose) permaloso ( osa, osi, ose) roso (osa, osi, ose) vanitoso (osa, osi, ose) Da osservare che “esploso” ed “imploso” ammettono anche la forma “esplošo” ed “ implošo” con la “s” sonora e che, contrariamente a tutti gli altri, hanno la “o” aperta (come si era già visto). Terminazioni in “esi-ese-esero” dei passati remoti attesi (ese-esero) compresi (ese-esero) difesi (ese-esero) estesi (ese-esero) presi (ese-esero) sospesi (ese-esero) tesi (ese-esero)… Terminazioni in “ese-esi” negli aggettivi albanese (esi) barese (esi) borghese (esi) danese (esi) genovese (esi) inglese (esi) milanese (esi) norvegese (esi) scozzese (esi)… Sono eccezioni “francese-franceše” e “cortese-corteše”. N.B. Eʼ utile, per memorizzare le numerose “regole” che stiamo incontrando, ricordare che per i participi passati, gli aggettivi ed i passati remoti, a parte alcune rarissime eccezioni, le “e” e le “o” sono chiuse ( come visto a suo tempo) e le “s” sorde. 124 E diremo: atteso (attéso-attésa-attési-attése) vilipeso (vilipéso-vilipésa-vilipési-vilipése) odoroso (odoróso-odorósa-odorósi-odoróse) oneroso (oneróso-onerósa-onerósi-oneróse) bolognese (bolognése-bolognési) presi (prési-prése-présero) scesi (scési-scése-scésero) posi (pósi-póse-pósero) nascosi (nascósi-nascóse-nascósero) Parole che presentano la “s” fra due vocali Vi sono moltissime parole che presentano la “s” sorda fra due vocali ed altrettante, come vedremo, che hanno la “s” sonora. Purtroppo queste parole non rientrano nei casi appena esaminati (participi passati, aggettivi, passati remoti), non si possono assegnare delle regole ed ogni parola ha, nellʼetimo, la ragione della sua pronunzia. Diamo ora un elenco delle prime e, scorrendolo, ognuno di noi troverà senzʼaltro motivi di curiosità e di stupore: asino bisezione bramosia casa casale casalinga casato casella casello casino 125 casotto chiusa chiusura cinese cinepresa cosa così cosiddetto cosiffatto difesa disegno disopra disotto fuso gas gassato gassista gazzosa gelosia generosità manganese mese naso offesa pesato pesante peso posa posata presa preside presidente pretesa raso rasoio resa resistenza risacca risaia risalto riserbo riserva riso risolutezza risorsa sorriso susina turchese... Voci verbali con la “s” fra due vocali Valgono le stesse considerazioni fatte poco sopra a proposito delle parole con la “s” fra due vocali: annusare (annuso, annusai, annusato) desumere (desumo, desunsi, desunto) incasellare (incasello, incasellai, incasellato) chiudere (chiusi, chiuso) pesare (peso, pesai, pesato) posare (poso, posai, posato) presupporre (presuppongo, presupposi, presupposto) 126 pretendere (pretesi, preteso) radere ( rasi, raso) rasare (raso, rasai, rasato) resistere (resisto, resistei, resistito) risalire ( risali, risalii, risalito) risaltare (risalto, risaltai, risaltato) risanare (risano, risanai, risanato) risapere ( risò, riseppi, risaputo) risarcire (risarcisco, risarcii, risarcito) risentire (risento, risentii, risentito) riservare (riservo, riservai, riservato) ridere (risi, riso) risolvere (risolvo, risolsi, risolto) risorgere (risorgo, risorsi, risorto) rosicare (rosico, rosicai, rosicato) rosicchiare (rosicchio, rosicchiai, rosicchiato) rodere (rosi, roso) sorridere (sorrisi-sorriso) trasecolare ( trasecolo, trasecolai, trasecolato) trasudare (trasudai, trasudato) 127 “s” sonoro “s” seguito da “b-d-g-l-m-n-r-v” (consonanti sonore) sbalzo ( šbalzo) sdegno (šdegno) sguardo (šguardo) sloggio (šloggio) smercio (šmercio) šnello (snello) sragiono (šragiono) sveglio (šveglio) bisbiglio (bišbiglio) disdegno (dišdegno) disguido (dišguido) dislivello (dišlivello) legislatore (legišlatore) risveglio (rišveglio) altruismo (altruišmo) dismisura (dišmišura) egocentrismo (egocentrišmo) egoismo (egoišmo) razzismo (razzišmo) sisma (sišma) “s” fra due vocali e la parola termina in “sione” abrasione (abrašione) adesione (adešione) corrosione (corrošione) diffusione (diffušione) erosione (erošione) evasione (evašione) fusione (fušione) occasione (occašione) “s”fra due vocali e la parola termina in “esimo-esima” battesimo (battešimo) cattolicesimo (cattolicešimo) protestantesimo (protestantešimo) medesimo (medešimo) 128 ennesimo (ennešimo) centesimo (centešimo) millesimo (millešimo) milionesima (milionešima) cresima (crešima)… “s” fra due vocali e la parola ( sostantivo al singolare e non aggettivo o voce verbale) termina in “asi-esi-isi-osi” stasi (staši) estasi (estaši) cosmesi (cošmeši) dieresi (diereši) diocesi (dioceši) genesi (geneši) ipotesi (ipoteši) parentesi (parenteši) protesi (proteši) tesi (teši) brindisi (brindiši) crisi (criši) ipofisi (ipofiši) tisi (tiši) artrosi (artroši) ipnosi (ipnoši) narcosi (narcoši) nevrosi (nevroši) psicosi (psicoši) prognosi (prognoši) scoliosi (scolioši) trombosi (tromboši) tubercolosi (tubercološi)… “s” fra due vocali e la parola inizia con “disa-disi-diso-disu” disagio (dišagio) disamina (dišamina) disarmo (dišarmo) disastro (dišastro)… disidratazione (dišidratazione) disimpegno (dišimpegno) disobbedienza (dišobbedienza) disoccupato (dišoccupato) disordine (dišordine)… 129 disuguale (dišuguale) disumano (dišumano) disunione (dišunione)… N.B.: uniche eccezioni sono: disopra (disopra) e disotto (disotto). “s” fra due vocali e la parola inizia con “esa-ese-esi-eso-esu” esame (ešame) esatto (ešatto) esempio (ešempio) esercito (ešercito) esilio (ešilio) esistenza (ešistenza) esordio (ešordio) esoterico (ešoterico) esule (ešule)… “s” fra due vocali e la parola inizia con “fisi” fisiatra (fišiatra) fisica (fišica) fisima (fišima) fisiognomia (fišiognomia) fisiologia (fišiologia) fisionomia (fišionomia) fisioterapia (fišioterapia)… “s” fra due vocali e la parola inizia con “frase-fresa” frase (fraše) fraseggio (frašeggio) fresa (freša) fresatrice (frešatrice)… 130 fraseologia (frašeologia) “s” fra due vocali e la parola inizia con “inesa-inesi-ineso” inesattezza (inešattezza) inesauribile (inešauribile) inesigibile (inešigibile) inesistente (inešistente) inesorabile (inešorabile) inesorabilmente (inešorabilmente)… “s” fra due vocali e la parola inizia con “iso” isobara (išobara) isobata (išobata) isoclina (išoclina) isocora (išocora) isocronismo (išocronišmo) isoipsa (išoipsa) isola (išola) isosismica (išosišmica) isoscele (išoscele) isoterma (išoterma) isotopo (išotopo)… “s” fra due vocali e la parola inizia con “misa-mise-miso-misu” misantropia (mišantropia) miseria (mišeria) misericordia (mišericordia) misoginia (mišoginia) misoneismo (mišoneišmo) misura (mišura)… “s” fra due vocali e la parola inizia con “musa-muse-musi-muso” musa (muša) museo (mušeo) musica (mušica) muso (mušo)… 131 “s” fra due vocali e la parola inizia con “usa-use-usi-uso-usu” usanza (ušanza) usevole (uševole) usignolo (ušignolo) uso (ušo) usucapione (ušucapione) usura (ušura)… “s”fra due vocali e la parola inizia con “visa-vise-visi-viso-visu” visagista (višagista) visita (višita) visetto (višetto) viso (višo) visuale (višuale) … Voci verbali con la“s” fra due vocali e che iniziano con “disa-disidiso-disu” disabituare (dišabituare-dišabituo-dišabituai-dišabituato) disaminare (dišaminare-dišamino-dišaminai-dišaminato) disamorare (dišamorare-dišamoro-dišamorai-dišamorato) disarmare (dišarmare-dišarmo-dišarmai-dišarmato) disidratare (dišidratare-dišidrato-dišidratai-dišidratato) disilludere (dišilludere-dišilludo-dišilluši-dišillušo) disingannare (dišingannare-dišinganno-dišingannai-dišingannato) disobbedire (dišobbedire-dišobbedisco-dišobbedii-dišobbedito) disonorare (dišonorare-dišonoro-dišonorai-dišonorato) disunire (dišunire-dišunisco-dišunii-dišunito) 132 Parole con la “s” fra due vocali Come per la “s” sorda diamo un elenco delle numerose parole che hanno la “s” fra due vocali ma che non possono venir raccolte in gruppi mediante regole e analogie: abrasivo (abrašivo) alesaggio (alešaggio) ambrosia (ambrošia) amnesia (amnešia) applauso (applaušo) apposito (appošito) ardesia (ardešia) asilo (ašilo) asola (ašola) assise (assiše) ausiliario (aušiliario) avviso (avvišo) basalto (bašalto) basamento (bašamento) base (baše) basico (bašico) basilare (bašilare) basilica (bašilica) basilico (bašilico) basilisco (bašilisco) basista (bašista) basito (bašito) bifase (bifaše) bisaccia (bišaccia) bisestile (bišestile) bisettrice (bišettrice) bisogno (bišogno) bisonte (bišonte) blasone (blašone) blusa (bluša) bradisismo (bradišišmo) brusio (brušio) 133 casacca (cašacca) casaccio (cašaccio) caseificio (cašeificio) caso (cašo) causa (cauša) certosa (certoša) cesareo (cešareo) cesello (cešello) cesoia (cešoia) cesura (cešura) chiesa (chieša) chiosa (chioša) clausola (claušola) clausura (claušura) compositore (compošitore) composito (compošito) composizione (compošizione) conclusivo (conclušivo) contuso (contušo) cornamusa (cornamuša) cortese (corteše) cortesia (cortešia) cortisone (cortišone) crisantemo (crišantemo) deserto (dešerto) desolato (dešolato) diapason (diapašon) diapositiva (diapošitiva) diesis (diešis) diseguale (dišeguale) disertore (dišertore) diserzione (dišerzione) disposizione (dispošizione) divisa (diviša) divisore (divišore) dose (doše) ecclesiastico (ecclešiastico) elemosina (elemošina) elettrolisi (elettroliši) elisir (elišir) 134 entusiasmo (entušiašmo) episodio (epišodio) eresia (erešia) esposizione (espošizione) eutanasia (eutanašia) evasore (evašore) fase (faše) fasullo (fašullo) fusoliera (fušoliera) gasolio (gašolio) gasista (gašista) indeciso (indecišo) inquisitore (inquišitore ) inquisizione (inquišizione) intriso (intrišo) intruso (intrušo) ipocrisia (ipocrišia) irrisorio (irrišorio) lasagna (lašagna) lesena (lešena) lesione (lešione) lesivo (lešivo) losanga (lošanga) lusinga ( lušinga) marchese (marcheše) mausoleo (maušoleo) medusa (meduša) nausea (naušea) nosocomio (nošocomio) osanna (ošanna) ottuso (ottušo) paese (paeše) pausa (pauša) penisola (penišola) pisolino (pišolino) plausibile (plaušibile) positivo (pošitivo) 135 posologia (pošologia) presagio (prešagio) presepio (prešepio) presule (prešule) prosa (proša) proselito (prošelito) prosodia (prošodia) prosopopea (prošopopea) pusillanime (pušillanime) quasi (quaši) requisito (requišito) resina (rešina) revisore (revišore) rinfusa (rinfuša) risico (rišico) rosa (roša) rosario (rošario) rosolia (rošolia ) rosolio (rošolio) scusa (scuša) sintesi (sinteši) sosia (sošia) sposo (spošo) sproposito (spropošito) suasivo (suašivo) tesoro (tešoro) vanesio (vanešio) vaselina (vašelina) vaso (vašo) visiera (višiera)… 136 Voci verbali con la “s” fra due vocali Anche le voci verbali che hanno la “s” fra due vocali e che non sono riducibili in schemi e classificazioni sono numerose. Eccone un elenco: alesare (alešare-alešo-alešai-alešato) basare (bašare-bašo-bašai-bašato) biasimare (biašimare-biašimo-biašimai-biašimato) concludere (concluši-conclušo) confondere (confuši-confušo) diffondere (diffuši-diffušo) diseredare (dišeredare-dišeredo-dišeredai-dišeredato) disertare (dišertare-dišerto-dišertai-dišertato) disquisire (disquišisco- disquišii- disquišito) elemosinare (elemošinare-elemošino-elemošinai-elemošinato) eludere (eluši- elušo) entusiasmare (entušiasmare-entušiašmo-entušiašmai-entušiašmato) esaminare (ešaminare-ešamino-ešaminai-ešaminato) esplodere (esploši- esplošo) esultare (ešultare-ešulto-ešultai-ešultato) 137 evadere (evaši-evašo) fondere (fuši-fušo) improvvisare (improvvišare-improvvišo-improvvišai-improvvišato) includere (incluši-inclušo) infondere (infuši-infušo) inquisire (inquišire-inquišisco-inquišii-inquišito) invadere (invaši-invašo) ledere (leši-lešo) lusingare ( lušingare-lušingai-lušingato) mettere (miši-miše-mišero) occludere (occluši-occlušo) osannare (ošannare-ošanno-ošannai-ošannato) osare (ošare-ošo-ošai-ošato) palesare (palešare-palešo-palešai-palešato) perquisire (perquišire-perquišisco-perquišii-perquišito) persuadere (persuaši-persuašo) pervadere (pervaši-pervašo) precisare (precišare-precišo- precišai-precišato) presagire (prešagire-prešagisco-prešagii-prešagito) presentare (prešentare-prešento-prešentai-prešentato) presenziare (prešenziare- prešenzio-prešenziai-prešenziato) 138 presumere (prešumo-prešunsi-prešunto) profondere (profuši-profušo) rappresentare (rapprešentare-rapprešento-rapprešentai-rapprešentato) ravvisare (ravvišare-ravvišo-ravvišai-ravvišato) recidere (reciši-recišo) recludere (recluši-reclušo) ricusare (ricušare-ricušo-ricušai-ricušato) rimanere (rimaši) rosolare (rošolare-rošolo-rošolai-rošolato) scommettere (scommiši) scusare (scušare-scušo-scušai-scušato) sfasare (sfašare-sfašo-sfašai-sfašato) sottomettere (sottomiši) spasimare (spašimare-spašimo-spašimai-spašimato) sposare (spošare-spošo-spošai-spošato) tosare (tošare-tošo-tošai-tošato) travasare (travašare-travašo-travašai-travašato) travisare (travišare-travišo-travišai-travišato) uccidere (ucciši-uccišo) visitare (višitare-višito-višitai-višitato) 139 ORTOEPIA DI “Z” Per il grafema “z” valgono le stesse considerazioni fatte per il grafema “s”. I due suoni si chiamano ancora “sordo o aspro” e “sonoro o dolce” e si ottengono nello stesso modo indicato per la “s”. Le differenze viste fra la “s” sorda e quella sonora, di “senza-spine” e di “rosa” rispettivamente, sono come quelle che possiamo trovare fra la “z” sorda di “zucchero” e quella sonora di “zanzara”. La “z” sorda (come la “s”sorda) si scrive semplicemente “z”. Ricorreremo pertanto alla scrittura “ortoepica” soltanto per la “z” sonora. Il simbolo che abbiamo scelto è la “z” greca ( ζ ) che si pronunzia esattamente come la “z” di “zanzara” e di “brezza”. “z” sordo “z” seguito da “ia-ie-io” furbizia liquirizia zia balbuzie calvizie consenziente convocazione equazione funzione servizio spazio zio… 140 Eʼ eccezione “ azienda-aζienda”. “z” nelle parole che terminano in “anza-enza” abbondanza baldanza costanza distanza quietanza risonanza sostanza essenza frequenza impedenza incompetenza lenza potenza resistenza sonnolenza supplenza tendenza turbolenza veemenza… “z”nelle parole che terminano in “ezzo-ezza” disprezzo pezzo bellezza carezza dolcezza ebbrezza finezza morbidezza pezza scaltrezza… Sono eccezioni lʼomografo“mezzo” (incontrato nellʼortoepia di “e”): “mezzo-mézzo” significa “bagnato, fradicio” “mezzo-mèζζo” per indicare “ metà, modo, veicolo” “brezza-bréζζa” e “olezzo-oléζζo” “z” nelle parole che terminano in “ozzo-ozza” mozzo pozzo sozzo tozzo carrozza tinozza… 141 Ricordiamo lʼomonimo-omofono “gozzo” (già visto nellʼortoepia di “o” ): “gozzo-gózzo” (parte dellʼesofago) “gozzo-gózzo” (piccola imbarcazione) Esistono alcune “eccezioni”: 1) lʼomografo “mozzo” (ortoepia di “o”) mozzo (mózzo) significa “garzone, aiutante” ed anche “tagliato” mozzo (mòζζo) è il centro della ruota 2) “rozzo-róζζo” “z” preceduta da “l-n-r” Tutte le parole prima viste come “…arroganza, scienza..” (terminazioni“anza-enza”) e come “…funzione,…” (“z” seguito da “ia-ie-io-ii”), e inoltre: anzi balza balzano calza calzone canzone lattonzolo marzo mediconzolo pretonzolo rincalzo scalzo scorza sterzo striminzito terzo…. 142 Tutte le voci verbali di: alzare balzare calzare danzare infilzare innalzare inzuppare rimpinzare rincalzare scalzare scherzare sferzare sterzare “z” nelle terminazioni “azzo-azza” arazzo intrallazzo mazzo palazzo mazza piazza stazza tazza… ragazzo Sono eccezioni: “lazzo-laζζo”, “razzo-raζζo”e “gazza-gaζζa”. Ricordiamo lʼomografo “razza”: 1. “razza” è la specie, la qualità. 2. “razza-raζζa” è un pesce. “z” a inizio di parola, con la seconda sillaba che inizia con “c-f-p-t” nelle parole: zappa zattera zecca zeppa zeppo zitella zitto zoccolo zoppo zucca zucchero zuffa zufolo zuppa zuppo 143 e nelle voci verbali di: zappare (zappo, zappai, zappato) zufolare (zufolo, zufolai, zufolato) zittire (zittisco, zittii, zittito) Esistono alcune “eccezioni”: zafferano (ζafferano) zaffiro (ζaffiro) zeta (ζeta) zotico (ζotico) zeffiro (ζeffiro) “z”nelle voci dei verbi il cui infinito termina in “azzare” ammazzare intrallazzare rimpiazzare spazzare starnazzare stazzare stramazzare strapazzare “z”nelle voci di alcuni verbi il cui infinito termina in “izzare” aizzare drizzare indirizzare raddrizzare rizzare strizzare Voci verbali con la “z” sorda abbozzare aguzzare azzeccare azzittire azzoppare azzuffare bazzicare razzolare ruzzolare stuzzicare Parole con la “z” sorda altezzoso 144 azzeccagarbugli bizzarro brizzolato capezzale lazo lizza mazzata mazzetto mazziere merluzzo mozzicone nozze pagliuzza piccozza pizzico pizzo polizza pupazzo puzza razzismo scavezzacollo spazzaneve spazzola stizza struzzo zampa zampillo zampogna zampone zanna zappa zar zazzera zigano zimbello zinco zingaro zolfo 145 “z” sonoro “z” allʼinizio della parola e la seconda sillaba inizia con “b-d-g-l-m-nr-v-z” (consonanti sonore) zabaione (ζabaione) zagara (ζagara) zampirone(ζampirone) zanzara (ζanζara) zavorra (ζavorra) zebra (ζebra) zelo (ζelo) zenit (ζenit) zenzero (ζenζero) zero (ζero) zibaldone (ζibaldone) zibellino (ζibellino) zibibbo (ζibibbo) zigomo (ζigomo) zigrinare (ζigrinare) zigrìno (ζigrìno) zizzania (ζiζζania) zodiaco (ζodiaco) zolla ( ζolla) zona (ζona) zonzo (ζonζo) Sono “eccezioni”: zanna, zazzera, zimbello, zigano, zingaro. “z”allʼinizio di parola e seguita da due vocali che non siano”ia-ie-io-ii” zaino (ζaino), zoo(ζoo). “z” scempia (semplice-non doppia) e posta fra due vocali azalea (aζalea) azimut (aζimut) azoto (aζoto) ozono (oζono) 146 azotemia (aζotemia) Eʼ eccezione “nazismo-nazišmo”. Se la seconda vocale è lʼorigine della coppia “ia-ie-io” è più vincolante la regola vista per la “z-sorda” e si ha: arguzia calvizie azione con lʼeccezione di “azienda-aζienda”. “z” nelle voci verbali dei verbi il cui infinito termina in “izzare” acutizzare (acutiζζare-acutiζζo-acutiζζai-acutiζζato) agonizzare (agoniζζare-agoniζζo-agoniζζai-agoniζζato) armonizzare (armoniζζare-armoniζζo-armoniζζai-armoniζζato) aromatizzare (aromatiζζare-aromatiζζo-aromatiζζai-aromatiζζato) coalizzare (coaliζζare-coaliζζo-coaliζζai-coalizzato) drammatizzare (drammatiζζare-drammatiζζo-drammatiζζaidrammatiζζato) evangelizzare (evangiliζζare-evangeliζζo-evangeliζζai-evangeliζζato) fertilizzare (fertiliζζare-fertiliζζo-fertiliζζai-fertiliζζato) frizzare (friζζare-friζζo-friζζai-friζζato) focalizzare (focaliζζare-focaliζζo-focaliζζai-focaliζζato) immunizzare (immuniζζare-immuniζζo-immuniζζai-immuniζζato) indennizzare (indenniζζare-indenniζζo-indenniζζai-indenniζζato) ipotizzare (ipotiζζare-ipotiζζo-ipotiζζai-ipotiζζato) 147 nazionalizzare (nazionaliζζare-nazionaliζζo-nazionaliζζainazionaliζζato) localizzare (localiζζare-localiζζo-localiζζai-localiζζato) narcotizzare (narcotiζζare-narcotiζζo-narcotiζζai-narcotiζζato) omogeneizzare (omogeneiζζare-omogeneiζζo-omogeiζζaiomogeneiζζato) organizzare (organiζζare-organiζζo-organiζζai-organiζζato) pastorizzare (pastoriζζare-pastoriζζo-pastoriζζai-pastoriζζato) razionalizzare (razionaliζζare-razionaliζζo-razionaliζζairazionaliζζato) realizzare (realiζζare-realiζζo-realiζζai-realiζζato) Esistono alcune eccezioni: aizzare drizzare indirizzare raddrizzare rizzare “z-doppia” nella terminazione “izzazione” Nei sostantivi relativi ai verbi del punto precedente , come: evangelizzazione (evangeliζζazione) nazionalizzazione (nazionaliζζazione) organizzazione (organiζζazione) realizzazione (realiζζazione)… N.B. Si osserva facilmente che non esistono le parole corrispondenti alle eccezioni del punto precedente. 148 “z” preceduta da “l-n-r” a) nelle seguenti parole: arzillo (arζillo) barzelletta (barζelletta) benzina (benζina) bonzo (bonζo) bronzo (bronζo) donzella (donζella) elzeviro (elζeviro) enzima (enζima) garza (garζa) garzone (garζone) gonzo (gonζo) manzo (manζo) melanzana (melanζana) orzo (orζo) penzoloni (penζοloni) pranzo (pranζo) romanza (romanζa) romanzo (romanζo) ronzino (ronζino) zanzara (ζanζara) zenzero (ζenζero) zonzo (ζonζo) b) Nelle voci verbali di: abbronzare (abbronζare-abbronζo-abbronζai-abbronζato) gironzolare ( gironζolare-gironζolo-gironζolai-gironζolato) penzolare (penζolare-penζolo-penζolai-penζolato) pranzare (pranζare-pranζo-pranζai-pranζato) ronzare (ronζare-ronζo-ronζai-ronζato) “z” nelle parole che iniziano con “mezza-mezze-mezzo” mezzadria (meζζadria) mezzala (meζζala) mezzeria (meζζeria) mezzogiorno (meζζogiorno) mezzosoprano (meζζosoprano)… 149 Parole con la “z” sonora aguzzino (aguζζino) azzardo (aζζardo) azzurro (aζζurro) bazzecola (baζζecola) bazar (baζar) bizza (biζζa) bizzoso (biζζoso) dozzina (doζζina) gazzella (gaζζella) gazzosa (gaζζosa) lazzarone (laζζarone) magazzino (magaζζino) rozzezza (roζζezza) Può essere interessante osservare che lʼaggettivo aguzzo e il verbo aguzzare e le sue voci hanno la “z-sorda”: aguzzare (aguzzo-aguzzai-aguzzato), mentre è aguzzino (aguζζino). 150 PARTE SECONDA POEŠIE É BRANI ORTOÈPICI 151 Tanto gentile e… Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quandʼ ella altrui saluta, chʼ ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no lʼ ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente dʼumiltà vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi sì piacente a chi la mira, che dà pér li occhi una dolcezza al core cheʼ ntender no la può chi no la prova; e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien dʼ amore, che va dicendo a lʼ anima: Sospira. da la “Vita nuova” di Dante Alighieri Vede perfettamente onne salute Vede perfettamente onne salute chi la mia donna tra le donne vede; quelle che vanno con lei son tenute di bella grazia a Dio render merzede. E sua bieltate è di tanta vertute, che nulla invidia a lʼaltre ne procede, anzi le face andar seco vestute di gentilezza, dʼamore e di fede. La vista sua fa onne cosa umile; e non fa sola sé parer piacente, ma ciascuna per lei riceve onore. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente che non sospiri in dolcezza dʼamore. da la “Vita nuova” di Dante Alighieri 152 Tanto gentile é… Tanto gentile é tanto onèsta pare la dònna mia quandʼ élla altrui saluta, chʼ ógne lingua devèn tremando muta, é li òcchi nò lʼ ardiscon di guardare. Élla si va, sentèndosi laudare, benignaménte dʼumiltà vestuta; é par ché sia una còsa venuta da cièlo in tèrra a miracol mostrare. Móstrasi sì piacènte a chi la mira, ché dà pér li òcchi una dolcézza al còre chéʼ ntènder nò la può chi nò la pròva; é par ché dé la sua labbia si mòva un spirito soave pièn dʼ amóre, ché va dicèndo a lʼ anima: Sospira. da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri Véde perfettaménte ónne salute Véde perfettaménte ónne salute chi la mia dònna tra lé dònne véde; quélle ché vanno có lèi són tenute di bèlla grazia a Dio rènder merzéde. É sua bieltate è di tanta vertute, ché nulla invidia a lʼaltre né procède, anzi lé face andar séco vestute di gentilézza, dʼamóre é di féde. La vista sua fa ónne còsa umile; è nón fa sóla sé parér piacènte, ma ciascuna pér lèi ricéve onóre. Éd è né li atti suòi tanto gentile, ché nessun la si può recare a ménte ché nón sospiri in dolcézza dʼamóre. da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri 153 Guido, iʼ vorrei che tu e Lapo ed io… Guido, iʼ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel chʼad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ʻl disio. E monna Vanna e monna Lagia poi con quella chʼè sul numer delle trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre dʼamore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come iʼ credo che saremmo noi. da le “Rime” di Dante Alighieri Deh peregrini che pensosi andate Deh peregrini che pensosi andate, forse di cosa che non vʼè presente, venite voi da sì lontana gente, comʼ a la vista voi ne dimostrate, che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la città dolente, come quelle persone che neente par che ʻntendesser sua gravitate? Se voi restaste per volerlo audire, certo lo cor deʼ sospiri mi dice che lagrimando nʼuscireste pui. Ellʼha perduta la sua beatrice; e le parole chʼom di lei può dire hanno vertù di far piangere altrui. da la “Vita nuova” di Dante Alighieri 154 Guido, iʼ vorrèi ché tu é Lapo éd io… Guido, iʼ vorrèi ché tu é Lapo éd io fóssimo prési pér incantaménto é méssi in un vasèl chʼad ógni vènto pér mare andasse al volér vòstro é mio, sì ché fortuna ód altro tèmpo rio nón ci potésse dare impediménto, anzi, vivèndo sèmpre in un talènto, di stare insième crescésse ʻl dišio. É mònna Vanna é mònna Lagia pòi cón quélla chʼè sul numer délle trènta cón nói ponésse il buòno incantatóre: é quivi ragionar sèmpre dʼamóre, é ciascuna di lór fósse contènta, sì cóme iʼ crédo ché sarémmo nói. da lé “Rime” di Dante Alighièri Dèh peregrini ché pensósi andate Dèh peregrini ché pensósi andate, fórse di còsa ché nón vʼè prešènte, venite vói da sì lontana gènte, cómʼ a la vista vói né dimostrate, ché nón piangéte quando vói passate pér ló suo mèζζo la città dolènte, cóme quélle persóne ché neènte par ché ʻntendésser sua gravitate? Sé vói restaste pér volérlo audire, cèrto ló còr déʼ sospiri mi dice ché lagrimando nʼusciréste pui. Éllʼha perduta la sua beatrice; é lé paròle chʼòm di lèi può dire hanno vertù di far piangere altrui. da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri 155 Nel mezzo del cammin… Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Ah quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tantʼ è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben chʼio vi trovai, dirò dellʼaltre cose chʼiʼ vʼho scorte. Io non so ben ridir comʼ io vʼentrai, tantʼ era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi chʼiʼ fui al piè dʼun colle giunto, là dove terminava quella valle che mʼavea di paura il cor compunto, guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già deʼ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta che nel lago del cor mʼera durata la notte chʼiʼ passai con tanta pièta. Divina Commedia: Inferno. Canto I, v. 1-21. 156 Nél mèζζo dél cammin… Nél mèζζo dél cammin di nòstra vita mi ritrovai pér una sélva oscura, ché la diritta via èra smarrita. Ah quanto a dir qual èra è còsa dura ésta sélva selvaggia é aspra é fòrte ché nél pensièr rinòva la paura! Tantʼ è amara ché pòco è più mòrte; ma pér trattar dél bèn chʼio vi trovai, dirò dellʼaltre còse chʼiʼ vʼhò scòrte. Io nón sò bèn ridir cómʼ io vʼentrai, tantʼ èra pièn di sónno a quél punto ché la verace via abbandonai. Ma pòi chʼiʼ fui al piè dʼun còlle giunto, là dóve terminava quélla valle ché mʼavéa di paura il còr compunto, guardai in alto, é vidi lé sue spalle vestite già déʼ raggi dél pianéta ché ména dritto altrui pér ógne calle. Allór fu la paura un pòco quèta ché nél lago dél còr mʼèra durata la nòtte chʼiʼ passai cón tanta pièta. Divina Commèdia: Infèrno. Canto I, v. 1-21. 157 Quali colombe, dal disio chiamate… Quali colombe, dal disio chiamate, con lʼ ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per lʼaere dal voler portate; cotali uscir della schiera ovʼ è Dido, a noi venendo per lʼaere maligno, sì forte fu lʼaffettuoso grido. «O animaI grazioso e benigno che visitando vai per lʼaere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de lʼuniverso, noi pregheremmo lui della tua pace, poi cʼhai pietà dél nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che ʻl vento, come fa, si tace. Siede la terra dove nata fui sulla marina dove ʻl Po discende per aver pace coʼ seguaci sui. Amor, chʼal cor gentil ratto sʼapprende prese costui della bella persona che mi fu tolta; e ʻl modo ancor mʼoffende. Amor, chʼ a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non mʼabbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fur porte. Quandʼ io intesi quellʼ anime offense, chinaʼ il viso e tanto il tenni basso, fin che il poeta mi disse: «Che pense?». Quando rispuosi, cominciai: «Òh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo! ». Inferno. Canto V, v. 82-114. 158 Quali colómbe, dal dišio chiamate… Quali colómbe, dal dišio chiamate, cón lʼ ali alzate é férme al dólce nido vègnon pér lʼaere dal volér portate; cotali uscir délla schièra ovʼ è Dido, a nói venèndo pér lʼaere maligno, sì fòrte fu lʼaffettuóso grido. «Ó animal grazióso é benigno ché višitando vai pér lʼaere pèrso nói ché tignémmo il móndo di sanguigno, sé fósse amico il ré dé lʼunivèrso, nói pregherémmo lui délla tua pace, pòi cʼhai pietà dél nòstro mal pervèrso. Di qué1 ché udire é ché parlar vi piace, nói udirémo é parlerémo a vói, méntre ché ʻl vènto, cóme fa, si tace. Siède la tèrra dóve nata fui sulla marina dóve ʻl Pò discénde pér avér pace cóʼ seguaci sui. Amór, chʼal còr gentil ratto sʼapprènde prése costui délla bèlla persóna ché mi fu tòlta; é ʻl mòdo ancór mʼoffènde. Amór, chʼ a nullo amato amar perdóna, mi prése dél costui piacér sì fòrte, ché, cóme védi, ancór nón mʼabbandóna. Amór condusse nói ad una mòrte: Caina attènde chi a vita ci spènse». Quéste paròle da lór ci fur pòrte. Quandʼ io intési quéllʼ anime offènse, chinaʼ il višo é tanto il ténni basso, fin ché ʻl poèta mi disse: «Ché pènse?». Quando rispuòsi, cominciai: «Òh lasso, quanti dólci pensièr, quanto dišio menò costóro al doloróso passo! ». Infèrno. Canto V, v. 82-114. 159 La preghiera delle anime Era già lʼora che volge il disio ai navicanti e ʻntenerisce il core lo dì cʼhan detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin dʼamore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; quandʼio incominciai a render vano lʼudire e a mirare una de lʼalme surta, che lʼascoltar chiedea con mano. Ella giunse e levò ambo le palme, ficcando li occhi verso lʼoriente, come dicesse a Dio: «Dʼaltro non calme». “Te lucis ante” sì devotamente le uscìo di bocca e con sì dolci note, che fece me a me uscir di mente; e lʼaltre poi dolcemente e devote seguitar lei per tutto lʼinno intero, avendo li occhi a le superne rote. Divina Commedia: Purgatorio. CantoVIII, 1-18 160 La preghièra délle anime Èra già lʼóra ché vòlge il dišio ai navicanti é ʻntenerisce il còre ló dì cʼhan détto ai dólci amici addio; é ché ló nòvo peregrin dʼamóre punge, sé òde squilla di lontano ché paia il giórno pianger ché si mòre; quandʼio incominciai a rènder vano lʼudire é a mirare una dé lʼalme surta, ché lʼascoltar chiedéa cón mano. Élla giunse é levò ambo lé palme, ficcando li òcchi vèrso lʼoriènte, cóme dicésse a Dio: «Dʼaltro nón calme». “Té lucis ante” sì devotaménte lé uscìo di bócca è cón sì dólci nòte, ché féce mé a mé uscir di ménte; é lʼaltre pòi dolceménte é devòte seguitar lèi pér tutto lʼinno intèro, avèndo li òcchi a lé supèrne ròte. Divina Commèdia: Purgatòrio. Canto VIII, 1-18 161 Vergine madre “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso dʼetterno consiglio, tu seʼ colei che lʼumana natura nobilitasti sì, che ʼl suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese lʼamore per lo cui caldo nellʼetterna pace così è germinato questo fiore. Qui seʼ a noi meridiana face di caritate, e giuso, intra i mortali, seʼ di speranza fontana vivace. Donna, seʼ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disianza vuol volar sanzʼali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te sʼaduna quantunque in creatura è di bontate…” Divina Commedia: Paradiso. Canto XXXIII, vv.1-21 162 Vérgine madre “Vérgine madre, figlia dél tuo figlio, umile é alta più ché creatura, tèrmine fisso dʼettèrno consiglio, tu sèʼ colèi ché lʼumana natura nobilitasti sì, ché ʼl suo fattóre nón disdegnò di farsi sua fattura. Nél vèntre tuo si raccése lʼamóre per ló cui caldo néllʼettèrna pace così è germinato quésto fióre. Qui sèʼ a nói meridiana face di caritate, é giuso, intra i mortali, sèʼ di speranza fontana vivace. Dònna, sèʼ tanto grande é tanto vali, ché qual vuòl grazia éd a té nón ricórre, sua dišianza vuòl volar sanzʼali. La tua benignità nón pur soccórre a chi domanda, ma mólte fiate liberaménte al dimandar precórre. In té mišericòrdia, in té pietate, in té magnificènza, in té sʼaduna quantunque in creatura è di bontate…” Divina Commèdia: Paradišo. Canto XXXIII, vv.1-21 163 Solo e pensoso i più deserti campi Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti, e gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio uman lʼarena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché ne gli atti dʼalegrezza spenti di fuor si legge comʼio dentro avampi. Sì chʼio mi credo ormai che monti e piagge, e fiumi e selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch ʼè celata altrui. Ma pur sì aspre vie, né sì selvagge cercar non so, chʼAmor non venga sempre ragionando con meco; et io co llui. da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura ) di Francesco Petrarca Erano i capei dʼoro a Laura sparsi Erano i capei dʼoro a Laura sparsi, che ʼn mille dolci nodi gli avvolgea, e ʼl vago lume oltre misura ardea ei quei begli occhi, chʼor ne son sì scarsi, e ʼl viso di pietosi color farsi, non so se vero o falso, mi parea: iʼ che lʼésca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di subito arsi? Non era lʼandar suo cosa mortale, ma dʼangelica forma, e le parole sonavan altro che pur voce umana: uno spirto celeste, un vivo sole fu quel chʼiʼ vidi; e se non fosse or tale, piaga per allentar dʼarco non sana. da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura) di Francesco Petrarca 164 Sólo é pensóso i più dešèrti campi Sólo é pensóso i più dešèrti campi vò mesurando a passi tardi é lènti, é gli òcchi pòrto pér fuggire intènti óve vestigio uman lʼaréna stampi. Altro schérmo nón tròvo ché mi scampi dal manifèsto accòrger dé lé gènti, perché né gli atti dʼalegrézza spènti di fuòr si lègge cómʼio déntro avampi. Sì chʼio mi crédo ormai ché mónti é piagge, é fiumi é sélve sappian di ché tèmpre sia la mia vita, ch ʼè celata altrui. Ma pur sì aspre vie, né sì selvagge cercar nón sò, chʼAmór nón vènga sèmpre ragionando cón méco; ét io có llui. da Rime sparse ( Rime in vita di Madònna Laura ) di Francésco Petrarca Èrano i capéi dʼòro a Laura sparsi Èrano i capéi dʼòro a Laura sparsi, ché ʼn mille dólci nòdi gli avvolgéa, é ʼl vago lume óltre mišura ardéa éi quéi bègli òcchi, chʼór né són sì scarsi, é ʼl višo di pietósi colór farsi, nón sò sé véro ó falso, mi paréa: iʼ ché lʼésca amorósa al pètto avéa, qual meraviglia sé di subito arsi? Nón èra lʼandar suo còsa mortale, ma dʼangèlica fórma, é lé paròle sonavan altro ché pur vóce umana: uno spirto celèste, un vivo sóle fu quél chʼiʼ vidi; é sé nón fósse ór tale, piaga pér allentar dʼarco nón sana. da Rime sparse (Rime in vita di Madònna Laura) di Francésco Petrarca 165 Chiare, fresche, e dolci acque… Chiare, fresche, e dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo ove piacque (con sospir mi rimembra) a lei di fare al bel fianco colonna; erba e fior che la gonna leggiadra ricoverse co lʼangelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor coʼ begli occhi il cor mʼaperse; date udienza insieme a le dolenti mie parole estreme. Sʼegli è pur mio destino, e ʼl cielo in ciò sʼadopra, chʼAmor questʼocchi lagrimando chiuda, qualche grazia il meschino corpo fra voi ricopra, e torni lʼalma al proprio albergo ignuda. La morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo; ché lo spirito lasso non porìa mai in più riposato porto, né in più tranquilla fossa fuggir la carne travagliata e lʼossa. Tempo verrà ancor forse chʼa lʼusato soggiorno torni la fera bella e mansueta, e là ʼvʼella mi scòrse nel benedetto giorno, volga la vista disïosa e lieta cercandomi; et o pièta, già terra infra le pietre vedendo, Amor lʼinspiri 166 Chiare, frésche, é dólci acque… Chiare, frésche, é dólci acque, óve lé bèlle mèmbra póse colèi ché sóla a mé par dònna; gentil ramo óve piacque (cón sospir mi rimèmbra) a lèi di fare al bèl fianco colónna; èrba é fiór ché la gónna leggiadra ricovèrse có lʼangèlico séno; aere sacro, seréno, óve Amór cóʼ bègli òcchi il còr mʼapèrse; date udiènza insième a lé dolènti mie paròle estrème. Sʼégli è pur mio destino, é ʼl cièlo in ciò sʼadòpra, chʼAmór questʼòcchi lagrimando chiuda, qualche grazia il meschino còrpo fra vói ricòpra, é tórni lʼalma al pròprio albèrgo ignuda. La mòrte fia mén cruda sé quésta spène pòrto a quél dubbióso passo; ché ló spirito lasso nón porìa mai in più riposato pòrto, né in più tranquilla fòssa fuggir la carne travagliata é lʼòssa. Tèmpo verrà ancór fórse chʼa lʼušato soggiórno tórni la fèra bèlla é mansuèta, é là ʼvʼélla mi scòrse nél benedétto giórno, vòlga la vista disïósa é lièta cercandomi; ét ó pièta, già tèrra infra lé piètre vedèndo, Amór lʼinspiri 167 in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé mʼ impètre, e faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo. Daʼ beʼ rami scendea (dolce ne la memoria) una pioggia di fior sovra ʼl suo grembo; et ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de lʼamoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo, qual su le trecce bionde, chʼoro forbito e perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra e qual su lʼonde; qual con un vago errore girando parea dir:-Qui regna Amore-. Quante volte dissʼio allor pien di spavento: -Costei per fermo nacque in paradiso!Così carco dʼoblio il divin portamento, e ʼl volto, e le parole, e ʼl dolce riso mʼaveano, e sì diviso da lʼimagine vera, chʼiʼ dicea sospirando: -Qui come vennʼio, o quando?credendo esser in ciel, non là dovʼera. Da indi in qua mi piace questa erba sì, chʼaltrove non ho pace. Se tu avessi ornamenti, quantʼhai voglia, potresti arditamente uscir del bosco, e gir in fra la gente. da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura) di Francesco Petrarca 168 in guiša ché sospiri sì dolceménte ché mercé mʼ impètre, é faccia fòrza al cièlo, asciugandosi gli òcchi cól bèl vélo. Daʼ bèʼ rami scendéa (dólce né la memòria) una piòggia di fiór sóvra ʼl suo grèmbo; ét élla si sedéa umile in tanta glòria, covèrta già dé lʼamoróso némbo. Qual fiór cadéa sul lémbo, qual su lé trécce biónde, chʼòro forbito é pèrle èran quél dì a vedérle; qual si posava in tèrra é qual su lʼónde; qual cón un vago erróre girando paréa dir:-Qui régna Amóre-. Quante vòlte dissʼio allór pièn di spavènto: -Costèi pér férmo nacque in paradišo!Così carco dʼoblio il divin portaménto, é ʼl vólto, é lé paròle, é ʼl dólce riso mʼavéano, é sì divišo da lʼimagine véra, chʼiʼ dicéa sospirando: -Qui cóme vennʼio, ó quando?credèndo èsser in cièl, nón là dovʼèra. Da indi in qua mi piace quésta èrba sì, chʼaltróve nón hò pace. Sé tu avéssi ornaménti, quantʼhai voglia, potrésti arditaménte uscir dél bòsco, é gir in fra la gènte. da Rime sparse (Rime in vita di Madònna Laura) di Francésco Petrarca 169 Zefiro torna e ʼ l bel tempo rimena Zefiro torna e ʼl bel tempo rimena, e i fiori e lʼerbe, sua dolce famiglia, e garrir Progne, e pianger Filomena, e primavera candida e vermiglia. Ridono i prati, e ʼl ciel si rasserena; Giove sʼallegra di mirar sua figlia; lʼaria, e lʼacqua, e la terra è dʼamor piena; ogni animal dʼamar si riconsiglia. Ma per me, lasso! tornano i più gravi sospiri, che del cor profondo tragge quella chʼal ciel se ne portò le chiavi; e cantar augelletti, e fiorir piagge, e ʼn belle donne oneste atti soavi sono un deserto, e fere aspre e selvagge. da Rime sparse (Rime in morte di Madonna Laura) di Francesco Petrarca Quanto più mʼ avvicino al giorno estremo Quanto più mi avvicino al giorno estremo che lʼumana miseria vuol far breve, più veggio il tempo andar veloce e leve, e ʻl mio di lui sperar fallace e scemo. Iʼ dico aʼ miei pensier: “Non molto andremo dʼamor parlando omai, ché ʻl duro e greve terreno incarco come fresca neve si va struggendo; onde noi pace avremo: perché con lui cadrà quella speranza che ne feʼ vaneggiar sì lungamente, e ʻl riso e ʻl pianto, e la paura e lʼira. Sì vedrem chiaro poi come sovente per le cose dubbiose altri sʼavanza; e come spesso indarno si sospira.”. dal “Canzoniere” di Francesco Petrarca 170 Z(ζ)èfiro tórna é ʼ l bèl tèmpo riména Ζ(ζ)èfiro tórna é ʼl bèl tèmpo riména, é i fióri é lʼèrbe, sua dólce famiglia, é garrir Prògne, é pianger Filoména, é primavèra candida é vermiglia. Ridono i prati, é ʼl cièl si rasseréna; Giòve sʼallégra di mirar sua figlia; lʼaria, é lʼacqua, é la tèrra è dʼamór pièna; ógni animal dʼamar si riconsiglia. Ma pér mé, lasso! tórnano i più gravi sospiri, ché dél còr profóndo tragge quélla chʼal cièl sé né portò lé chiavi; é cantar augellétti, é fiorir piagge, é ʼn bèlle dònne onèste atti soavi sóno un dešèrto, é fère aspre é selvagge. da Rime sparse (Rime in mòrte di Madònna Laura) di Francésco Petrarca Quanto più mʼ avvicino al giórno estrèmo Quanto più mi avvicino al giórno estrèmo ché lʼumana mišéria vuòl far brève, più véggio il tèmpo andar velóce é lève, é ʻl mio di lui sperar fallace é scémo. Iʼ dico aʼ mièi pensièr: “Nón mólto andrémo dʼamór parlando omai, ché ʻl duro é grève terréno incarco cóme frésca néve si va struggèndo; ónde nói pace avrémo: perché cón lui cadrà quélla speranza ché né féʼ vaneggiar sì lungaménte, é ʻl riso é ʻl pianto, é la paura é lʼira. Sì vedrém chiaro pòi cóme sovènte pér lé còse dubbióse altri sʼavanza; é cóme spésso indarno si sospira.”. dal “Canzonière” di Francésco Petrarca 171 A Zacinto Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nellʼonde del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde lʼinclito verso di colui che lʼacque cantò fatali, ed il diverso esiglio, per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura. dai “ Sonetti” di Ugo Foscolo In morte del fratello Giovanni Un dì, sʼio non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto su la pietra, o fratel mio, gemendo il fior deʼ tuoi gentili anni caduto. La madre or sol, suo dì tardo traendo, parla di me col tuo cenere muto; ma io deluse a voi le palme tendo, e sol da lunge i miei tetti saluto. Sento gli avversi Numi, e le secrete cure ché al viver tuo furon tempesta, e prego anchʼio nel tuo porto quïete. Questo di tanta speme oggi mi resta! Straniere genti, lʼossa mie rendete allora al petto della madre mesta. dai “ Sonetti” di Ugo Foscolo 172 A Z(ζ)acinto Né più mai toccherò lé sacre spónde óve il mio còrpo fanciullétto giacque, Z(ζ)acinto mia, ché té spècchi néllʼónde dél grèco mar, da cui vérgine nacque Vènere, é féa quélle išole fecónde cól suo primo sorriso, ónde nón tacque lé tue limpide nubi é lé tue frónde lʼinclito vèrso di colui ché lʼacque cantò fatali, éd il divèrso ešiglio, pér cui bèllo di fama é di sventura baciò la sua petrósa Itaca Ulisse. Tu nón altro ché il canto avrai dél figlio, ó matèrna mia tèrra; a nói prescrisse il fato illacrimata sepoltura. dai “ Sonétti” di Ugo Fóscolo In mòrte dél fratèllo Giovanni Un dì, sʼio nón andrò sèmpre fuggèndo di gènte in gènte, mé vedrai seduto su la piètra, ó fratèl mio, gemèndo il fiór déʼ tuòi gentili anni caduto. La madre ór sól, suo dì tardo traèndo, parla di mé cól tuo cénere muto; ma io deluše a vói lé palme tèndo, é sól da lunge i mièi tétti saluto. Sènto gli avvèrsi Numi, é lé secrète cure ché al viver tuo furon tempèsta, é prègo anchʼio nél tuo pòrto quïète. Quésto di tanta spème òggi mi rèsta! Stranière gènti, lʼòssa mie rendéte allóra al pètto délla madre mèsta. dai “ Sonétti” di Ugo Fóscolo 173 Alla sera Forse perché della fatal quïete tu sei lʼimmago, a me sì cara vieni, o Sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni, e quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe allʼuniverso meni, sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai coʼ miei pensier su lʼorme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier chʼ entro mi rugge. dai “Sonetti” di Ugo Foscolo Alla musa Pur tu copia versavi alma di canto su le mie labbra un tempo, aonia Diva, quando deʼ miei fiorenti anni fuggiva la stagion prima, e dietro erale intanto questa, che meco per la via del pianto scende di Lete vèr la muta riva: non udito or tʼinvoco, oimé! soltanto una favilla del tuo spirto è viva. E tu fuggisti in compagnia dellʼore, o Dea! tu pur mi lasci alle pensose membranze, e del fururo al timor cieco: però mi accorgo, e mel ridice Amore che mal ponno sfogar rade, operose rime il dolor che deve albergar meco. dai “Sonetti” di Ugo Foscolo 174 Alla séra Fórse perché délla fatal quïète tu sèi lʼ immago, a mé sì cara vièni, ó Séra! É quando ti cortéggian liète lé nubi estive é i ζèffiri seréni, é quando dal nevóso aere inquïète tènebre é lunghe allʼunivèrso méni, sèmpre scéndi invocata, é le secrète vie dél mio còr soaveménte tièni. Vagar mi fai cóʼ mièi pensièr su lʼórme ché vanno al nulla etèrno; é intanto fugge quésto rèo tèmpo, é van cón lui lé tórme délle cure ónde méco égli si strugge; é méntre io guardo la tua pace, dòrme quéllo spirto guerrièr chʼ éntro mi rugge. dai “Sonétti” di Ugo Fóscolo Alla muša Pur tu còpia versavi alma di canto su lé mie labbra un tèmpo, aònia Diva, quando déʼ mièi fiorènti anni fuggiva la stagión prima, é diètro èrale intanto quésta, ché méco pér la via dél pianto scénde di Lète vèr la muta riva: nón udito ór tʼinvòco, oimé! soltanto una favilla dél tuo spirto è viva. É tu fuggisti in compagnia dellʼóre, ó Dèa! tu pur mi lasci alle pensóse membranze, é dél fururo al timór cièco: però mi accòrgo, é mél ridice Amóre ché mal pònno sfogar rade, operóse rime il dolór ché dève albergar méco. dai “Sonétti” di Ugo Fóscolo 175 La Pentecoste Madre dei Santi; immagine della città superna; del Sangue incorruttibile conservatrice eterna; tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi, che le tue tende spieghi dallʼuno allʼaltro mar; campo di quei che sperano, Chiesa del Dio vivente; dovʼeri mai? qual angolo ti raccogliea nascente, quando il tuo Re, dai perfidi tratto a morir sul colle, imporporò le zolle del suo sublime altar? E allor che dalle tenebre la diva spoglia uscita, mise il potente anelito della seconda vita; e quando, in man recandosi il prezzo del perdono, da questa polve al trono del Genitor salì: compagna del suo gemito, conscia deʼ suoi misteri, tu, della vittoria figlia immortal, dovʼeri? In tuo terror sol vigile, sol nellʼobblio secura, stavi in riposte mura, fino a quel sacro dì, quando su te lo Spirito rinnovator discese e lʼinconsunta fiaccola nella tua destra accese, quando, segnal deʼ popoli, ti collocò sul monte, e neʼ tuoi labbri il fonte della parola aprì. 176 La Pentecòste Madre déi Santi; immagine délla città supèrna; dél Sangue incorruttibile conservatrice etèrna; tu ché, da tanti sècoli, sòffri, combatti é prèghi, ché lé tue tènde spièghi dallʼuno allʼaltro mar; campo di quéi ché spèrano, Chièša dél Dio vivènte; dovʼèri mai? qual angolo ti raccogliéa nascènte, quando il tuo Ré, dai perfidi tratto a morir sul còlle, imporporò lé ζòlle dél suo sublime altar? É allór ché dalle tènebre la diva spòglia uscita, miše il potènte anèlito délla secónda vita; é quando, in man recandosi il prèzzo dél perdóno, da quésta pólve al tròno dél Genitór salì: compagna dél suo gèmito, cònscia déʼ suòi mistèri, tu, délla vittòria figlia immortal, dóvʼèri? In tuo terrór sól vigile, sól néllʼobblìo secura, stavi in ripóste mura, fino a quél sacro dì, quando su té ló Spirito rinnovatór discése é lʼinconsunta fiaccola nélla tua dèstra accése, quando, segnal déʼ pòpoli, ti collocò sul mónte, é néʼ tuòi labbri il fónte délla paròla aprì. 177 Come la luce rapida piove di cosa in cosa, e i color vari suscita, dovunque si riposa; tal risonò molteplice la voce dello Spiro: lʼArabo, il Parto, il Siro in suo sermon lʼudì. Adorator deglʼidoli, sparso per ogni lido, volgi lo sguardo a Solima, odi quel santo grido: stanca del vile ossequio, la terra a Lui ritorni: e voi che aprite i giorni di più felice età, spose che desta il sùbito balzar del pondo ascoso; voi già vicine a sciogliere il grembo doloroso; alla bugiarda pronuba non sollevate il canto: cresce serbato al Santo quel che nel sen vi sta. Perché, baciando i pargoli, la schiava ancor sospira? e il sen che nutre i liberi invidïando mira? Non sa che al regno i miseri seco il Signor solleva? che a tutti i figli dʼEva nel suo dolor pensò? Nova franchigia annunziano i cieli, e genti nove; nove conquiste, e gloria vinta in più belle prove; nova, ai terrori immobile e alle lusinghe infide, pace che il mondo irride, ma che rapir non può. O Spirto! supplichevoli aʼ tuoi solenni altari; soli per selve inospite; vaghi in deserti mari; 178 Cóme la luce rapida piòve di còsa in còsa, é i colór vari suscita, dovunque si ripòsa; tal risonò moltéplice la vóce déllo Spiro: lʼArabo, il Parto, il Siro in suo sermón lʼudì. Adoratór déglʼidoli, sparso pér ógni lido, vòlgi ló sguardo a Sòlima, òdi quél santo grido: stanca dél vile ossèquio, la tèrra a Lui ritórni: é vói ché aprite i giórni di più felice età, spòše ché désta il sùbito balzar dél pòndo ascóso; vói già vicine a sciògliere il grèmbo doloróso; alla bugiarda prònuba nón sollevate il canto: crésce serbato al Santo quél ché nél sén vi sta. Perché, baciando i pargoli, la schiava ancór sospira? é il sén ché nutre i liberi invidïando mira? Nón sa ché al régno i mišeri séco il Signór sollèva? ché a tutti i figli dʼÈva nél suo dolór pensò? Nòva franchigia annunziano i cièli, é gènti nòve; nòve conquiste, é glòria vinta in più bèlle pròve; nòva, ai terróri immòbile é alle lušinghe infide, pace ché il móndo irride, ma ché rapir nón può. Ó Spirto! supplichévoli aʼ tuòi solènni altari; sóli pér sélve inòspite; vaghi in dešèrti mari; 179 dallʼAnde algenti al Libano, dʼErina allʼirta Haiti, sparsi per tutti i liti, uni per te di cor, noi Tʼimploriam! Placabile Spirto discendi ancora, aʼ tuoi cultor propizio propizio a chi Tʼignora: scendi e ricrea; rianima i cor nel dubbio estinti; e sia divina ai vinti mercede il vincitor. Discendi Amor; negli animi lʼire superbe attuta; dona i pensier che il memore ultimo dì non muta: i doni tuoi benefica nutra la tua virtude; siccome il sol, che schiude dal pigro germe il fior; che lento poi sullʼumili erbe morrà non colto, né sorgerà coi fulgidi color del lembo sciolto, se fuso a lui nellʼetere non tornerà quel mite lume dator di vite e infaticato altor. Noi Tʼimploriam! Nei languidi pensier dellʼinfelice scendi piacevol alito, aura consolatrice: scendi bufera ai tumidi pensier del vïolento; vi spira uno sgomento, che insegni la pietà. Per Te sollevi il povero al ciel, chʼè suo, le ciglia, volga i lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia: cui fu donato in copia, doni con volto amico, con quel tacer pudico, che accetto il don ti fa. 180 dallʼAnde algènti al Libano, dʼErina allʼirta Haiti, sparsi pér tutti i liti, uni pér té di còr, nói Tʼimploriam! Placabile Spirto discéndi ancóra, aʼ tuòi cultór propizio, propizio a chi Tʼignóra: scéndi é ricrèa; rianima i còr nél dubbio estinti; é sia divina ai vinti mercéde il vincitór. Discéndi Amór; négli animi lʼire supèrbe attuta; dóna i pensièr ché il mèmore ultimo dì nón muta: i dóni tuòi benèfica nutra la tua virtude; siccóme il sól, ché schiude dal pigro gèrme il fiór; ché lènto pòi sullʼumili èrbe morrà nón còlto, né sorgerà cói fulgidi colór del lémbo sciòlto, sé fušo a lui néllʼètere nón tornerà quél mite lume datór di vite é infaticato altór. Nói Tʼimploriam! Néi languidi pensièr déllʼinfelice scéndi piacévol alito, aura consolatrice: scéndi bufèra ai tumidi pensièr dél vïolènto; vi spira uno sgoménto, ché inségni la pietà. Pér Té sollèvi il pòvero al cièl, chʼè suo, lé ciglia, vòlga i laménti in giubilo, pensando a cui somiglia: cui fu donato in còpia, dóni cón vólto amico, cón quél tacér pudico, ché accètto il dón ti fa. 181 Spira dei nostri bamboli nellʼineffabil riso: spargi la casta porpora alle donzelle in viso; manda alle ascose vergini le pure gioie ascose; consacra delle spose il verecondo amor. Tempra deʼ baldi giovani il confidente ingegno; reggi il viril proposito ad infallibil segno; adorna la canizie di liete voglie sante; brilla nel guardo errante di chi sperando muor. da “Inni Sacri” di Alessandro Manzoni 182 Spira déi nòstri bamboli nellʼineffabil riso: spargi la casta pórpora alle donζèlle in višo; manda alle ascóse vérgini le pure giòie ascóse; consacra délle spòše il verecóndo amór. Tèmpra déʼ baldi gióvani il confidènte ingégno; règgi il viril propòšito ad infallibil ségno; adórna la canizie di liète vòglie sante; brilla nél guardo errante di chi sperando muòr. da “Inni Sacri” di Alessandro Manzóni 183 Marzo 1821 Soffermàti sullʼ arida sponda, volti i guardi al varcato Ticino, tutti assorti nel nuovo destino, certi in cor dellʼ antica virtù, han giurato: non fia che questʼonda scorra più tra due rive straniere; non fia loco ove sorgan barriere tra lʼltalia e lʼltalia, mai più! Lʼhan giurato: altri forti a quel giuro rispondean da fraterne contrade, affilando nellʼombra le spade che or levate scintillano al sol. Già le destre hanno strette le destre; già le sacre parole son porte. O compagni sul letto di morte, o fratelli su libero suol. Chi potrà della gemina Dora, della Bormida al Tanaro sposa, del Ticino e dellʼOrba selvosa scerner lʼ onde confuse nel Po; chi stornargli del rapido Mella e dellʼ Oglio le miste correnti, chi ritorgliergli i mille torrenti, che la foce dellʼ Adda versò, quello ancora una gente risorta potrà scindere in volghi spregiati, e a ritroso degli anni e dei fati, risospingerla ai prischi dolor: una gente che libera tutta, o fia serva tra lʼ Alpe ed il mare; una dʼ arme, di lingua, dʼ altare, di memorie, di sangue e di cor. 184 Marzo 1821 Soffermàti sullʼ arida spónda, vòlti i guardi al varcato Ticino, tutti assòrti nél nuòvo destino, cèrti in còr déllʼ antica virtù, han giurato: nón fia ché quéstʼónda scórra più tra due rive stranière; nón fia lòco óve sórgan barrière tra lʼltalia é lʼltalia, mai più! Lʼhan giurato: altri fòrti a quél giuro rispondéan da fratèrne contrade, affilando néllʼómbra lé spade ché ór levate scintillano al sól. Già lé dèstre hanno strétte lé dèstre; già lé sacre paròle són pòrte. Ó compagni sul lètto di mòrte, ó fratèlli su libero suòl. Chi potrà délla gèmina Dòra, della Bórmida al Tanaro spòša, del Ticino é déllʼ Órba selvósa scèrner lʼ ónde confuše nél Pò; chi stornargli dél rapido Mèlla é déllʼ Òglio lé miste corrènti, chi ritòrgliergli i mille torrènti, ché la fóce déllʼ Adda versò, quéllo ancóra una gènte risórta potrà scindere in vólghi spregiati, é a ritróso dégli anni é déi fati, risospingerla ai prischi dolór: una gènte ché libera tutta, ó fia sèrva tra lʼ Alpe éd il mare; una dʼ arme, di lingua, dʼ altare, di memòrie, di sangue é di còr. 185 Con quel volto sfidato e dimesso, con quel guardo atterrato ed incerto, con che stassi un mendico sofferto per mercede nel suolo stranier, star doveva in sua terra il Lombardo; lʼ altrui voglia era legge per lui; il suo fato, un segreto dʼ altrui; la sua parte, servire e tacer. O stranieri, nel proprio retaggio torna Italia, e il suo suolo riprende; o stranieri, strappate le tende da una terra che madre non vʼ è. Non vedete che tutta si scuote, dal Cenisio alla balza di Scilla? Non sentite che infida vacilla sotto il peso deʼ barbari piè? O stranieri ! sui vostri stendardi sta lʼobbrobrio dʼun giuro tradito; un giudizio da voi proferito vʼaccompagna allʼ iniqua tenzon; voi che a stormo gridaste in quei giorni: Dio rigetta la forza straniera; ogni gente sia libera, e pera della spada lʼiniqua ragion. Se la terra ove oppressi gemeste, preme i corpi deʼ vostri oppressori, se la faccia dʼ estranei signori tanto amara vi parve in quei dì, chi vʼha detto che sterile, eterno saria il lutto dell ʻ itale genti ? chi vʼha detto che ai nostri lamenti saria sordo quel Dio che vʼudì? 186 Cón quél vólto sfidato é dimésso, cón quél guardo atterrato éd incèrto, cón ché stassi un mendìco soffèrto pér mercéde nél suòlo stranièr, star dovéva in sua tèrra il Lombardo; lʼ altrui vòglia èra légge pér lui; il suo fato, un segréto dʼ altrui; la sua parte, servire é tacér. Ó stranièri, nél pròprio retaggio tórna Italia, é il suo suòlo riprènde; ó stranièri, strappate lé tènde da una tèrra ché madre nón vʼ è. Nón vedéte ché tutta si scuòte, dal Cenišio alla balza di Scilla ? Nón sentite ché infida vacilla sótto il péso déʼ barbari piè? Ó stranièri ! sui vòstri stendardi sta lʼobbròbrio dʼun giuro tradito; un giudizio da vói proferito vʼaccompagna allʼ iniqua tenzón; vói ché a stórmo gridaste in quéi giorni: Dio rigètta la fòrza stranièra; ógni gènte sia libera, é pèra délla spada lʼiniqua ragión. Sé la tèrra óve opprèssi geméste, prème i còrpi déʼ vòstri oppressóri, sé la faccia dʼ estranei signóri tanto amara vi parve in quéi dì, chi vʼha détto ché stèrile, etèrno saria il lutto déllʼ itale gènti ? chi vʼha détto ché ai nòstri laménti saria sórdo quél Dio ché vʼudì? 187 Sì: quel Dio che nellʼ onda vermiglia chiuse il rio che inseguiva Israele, quel che in pugno alla maschia Giaele pose il maglio ed il colpo guidò: quel che è Padre di tutte le genti, che non disse al Germano giammai: vaʼ, raccogli ove arato non hai; spiega lʼugne, lʼItalia ti do. Cara Italia! dovunque il dolente grido uscì del tuo lungo servaggio; dove ancor dellʼumano lignaggio ogni speme deserta non è; dove già libertade è fiorita, dove ancor nel segreto matura, dove ha lacrime unʼ alta sventura, non cʼè cor che non batta per te. Quante volte sullʼAlpe spiasti lʼapparir dʼun amico stendardo! quante volte intendesti lo sguardo neʼ deserti del duplice mar! Ecco alfin dal tuo seno sbocciati, stretti intorno aʼ tuoi santi colori, forti, armati deʼ propri dolori, i tuoi figli son sorti a pugnar. Oggi, o forti, sui volti baleni il furor delle menti segrete: per lʼItalia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta. O risorta per voi la vedremo al convito deʼ popoli assisa, o più serva, più vil, più derisa sotto lʼ orrida verga starà. Oh giornate del nostro riscatto! Oh dolente per sempre colui che da lunge, dal labbro dʼ altrui, come un uomo straniero, le udrà! che aʼ suoi figli narrandole un giorno, dovrà dir sospirando: io non cʼera; che la santa vittrice bandiera salutata quel dì non avrà. dalle “Odi” di Alessandro Manzoni 188 Sì: quél Dio ché néllʼ ónda vermiglia chiuse il rio ché inseguiva Išraèle, quél ché in pugno alla maschia Giaèle póse il maglio ed il cólpo guidò; quél ché è Padre di tutte lé gènti, ché nón disse al Germano giammai: vaʼ, raccògli óve arato nón hai; spièga lʼugne, lʼItalia ti dò. Cara Italia! dovunque il dolènte grido uscì dél tuo lungo servaggio; dóve ancór déllʼumano lignaggio ógni spème dešèrta nón è; dóve già libertade è fiorita, dóve ancór nél segréto matura, dóve ha lacrime unʼ alta sventura, nón cʼè còr ché nón batta pér té. Quante vòlte sullʼAlpe spiasti lʼapparir dʼun amico stendardo! quante vòlte intendésti ló sguardo néʼ dešèrti dél duplice mar! Ècco alfin dal tuo séno sbocciati, strétti intórno aʼ tuòi santi colóri, fòrti, armati déʼ pròpri dolóri, i tuòi figli són sórti a pugnar. Òggi, ó fòrti, sui vólti baléni il furór délle ménti segréte: pér lʼItalia si pugna, vincéte! Il suo fato sui brandi vi sta. Ó risórta pér vói la vedrémo al convito déʼ pòpoli assiša, ó più sèrva, più vil, più derisa sótto lʼ òrrida vérga starà. Òh giornate dél nòstro riscatto! Òh dolènte pér sèmpre colui ché da lunge, dal labbro dʼ altrui, cóme un uòmo stranièro, lé udrà! ché aʼ suòi figli narrandole un giórno, dovrà dir sospirando: io nón cʼèra; ché la santa vittrice bandièra salutata quél dì nón avrà. dalle “Òdi” di Alessandro Manzóni 189 Lʼinfinito Sempre caro mi fu questʼermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dellʼultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir fra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien lʼeterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità sʼannega il pensier mio: e il naufragar mʼè dolce in questo mare. da gli “ Idilli” di Giacomo Leopardi Alla luna O graziosa luna, io mi rammento che, or volge lʼanno, sovra questo colle io venia pien dʼangoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, ché travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile, o mia diletta luna. E pur mi giova la ricordanza, e il noverar lʼetate del mio dolore. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, il rimembrar delle passate cose, ancora che triste, e che lʼaffanno duri! da gli “ Idilli” di Giacomo Leopardi 190 Lʼinfinito Sèmpre caro mi fu quéstʼèrmo còlle, é quésta sièpe, ché da tanta parte déllʼultimo oriζζónte il guardo esclude. Ma sedèndo é mirando, interminati spazi di là da quélla, é sovrumani silènzi, é profondissima quïète io nél pensièr mi fingo; óve pér pòco il còr nón si spaura. É cóme il vènto òdo stórmir fra quéste piante, io quéllo infinito silènzio a quésta vóce vò comparando: é mi sovvièn lʼetèrno, é lé mòrte stagióni, é la prešènte é viva, é il suòn di lèi. Così tra quésta immensità sʼannéga il pensièr mio: é il naufragar mʼè dólce in quésto mare. da gli “Idilli” di Giacomo Leopardi Alla luna Ó graziósa luna, io mi ramménto ché, ór vòlge lʼanno, sóvra quésto còlle io venìa pièn dʼangóscia a rimirarti: é tu pendévi allór su quélla sélva siccóme ór fai, ché tutta la rischiari. Ma nebulóso é trèmulo dal pianto ché mi sorgéa sul ciglio, alle mie luci il tuo vólto apparia, ché travagliósa èra mia vita: éd è, né cangia stile, ó mia dilètta luna. É pur mi gióva la ricordanza, é il noverar lʼetate dél mio dolóre. Òh cóme grato occórre nél tèmpo giovanil, quando ancór lungo la spème é brève ha la memòria il córso, il rimembrar délle passate còse, ancóra ché triste, é ché lʼaffanno duri! da gli “Idilli” di Giacomo Leopardi 191 A Silvia Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi? Sonavan le quïete stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto, allor che allʼopre femminili intenta sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno. Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, dʼin su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice quel chʼio sentiva in seno. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato, e tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? 192 A Silvia Silvia, rimèmbri ancóra quél tèmpo délla tua vita mortale, quando beltà splendéa négli òcchi tuòi ridènti é fuggitivi, é tu, lièta é pensósa, il limitare di gioventù salivi? Sonavan lé quïète stanze, é lé vie dintórno, al tuo perpètuo canto, allór ché allʼòpre femminili intènta sedévi, assai contènta di quél vago avvenir che in ménte avévi. Èra il maggio odoróso: é tu solévi còsì menare il giórno. Io gli studi leggiadri talór lasciando é lé sudate carte, óve il tèmpo mio primo é di mé si spendéa la migliór parte, dʼin su i veróni del patèrno ostèllo porgéa gli orécchi al suòn délla tua vóce, éd alla man velóce ché percorréa la faticósa téla. Mirava il cièl seréno, lé vie dorate é gli òrtì, é quinci il mar da lungi, é quindi il mónte. Lingua mortal nón dice quél chʼio sentiva in séno. Ché pensièri soavi, ché speranze, ché còri, ó Silvia mia! Quale allór ci apparia la vita umana é il fato! Quando sovvièmmi di cotanta spème, un affètto mi prème acèrbo é sconsolato, é tornami a dolér di mia sventura. Ó natura, ó natura, perché nón rèndi pòi quél ché prométti allór? perché di tanto inganni i figli tuòi? 193 Tu pria che lʼerbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle nere chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan dʼamore. Anche peria fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovinezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dellʼetà mia nova, mia lacrimata speme! Questo è quel mondo? questi i diletti, lʼamor, lʼopre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte delle umane genti? Allʼapparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano. da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi 194 Tu pria ché lʼèrbe inaridisse il vèrno, da chiuso mòrbo combattuta é vinta, perivi, ó tenerèlla. É nón vedévi il fiór dégli anni tuòi; nón ti molcéva il còre la dólce lòde ór délle nére chiòme, ór dégli sguardi innamorati é schivi; né téco lé compagne ai dì festivi ragionavan dʼamóre. Anche peria fra pòco la speranza mia dólce: agli anni mièi anche negaro i fati la giovinézza. Ahi cóme, cóme passata sèi, cara compagna dellʼetà mia nòva, mia lacrimata spème! Quésto è quél móndo? quésti i dilètti, lʼamór, lʼòpre, gli evènti ónde cotanto ragionammo insième? quésta la sòrte délle umane gènti? Allʼapparir dél véro tu, mišera, cadésti: é cón la mano la frédda mòrte éd una tómba ignuda mostravi di lontano. da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi 195 Il sabato del villaggio La donzelletta vien dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dellʼerba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine su la scala a filar la vecchierella, incontro là dove si perde il giorno; e novellando vien del suo buon tempo, quando ai dì della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella solea danzar la sera intra di quei chʼebbe compagni dellʼetà più bella. Già tutta lʼaria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan lʼombre giù daʼ colli e daʼ tetti, al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno della festa che viene ; ed a quel suon diresti che il cor si riconforta. I fanciulli gridando su la piazzola in frotta, e qua e là saltando fanno un lieto romore: e intanto riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore, e seco pensa al dì del suo riposo. Poi, quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto lʼaltro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e sʼaffretta, e sʼadopra di fornir lʼopra anzi il chiarir dellʼalba. 196 Il sabato dél villaggio La donζellétta vièn dalla campagna, in sul calar dél sóle, cól suo fascio déllʼèrba; é rèca in mano un mazzolin di ròše é di viòle, ónde, siccóme suòle, ornare élla si apprèsta dimani, al dì di fèsta, il pètto é il crine. Siède cón lé vicine su la scala a filar la vecchierèlla, incóntro là dóve si pèrde il giórno; é novellando vièn dél suo buòn tèmpo, quando ai dì délla fèsta élla si ornava, éd ancór sana é snèlla soléa danzar la séra intra di quéi chʼèbbe compagni dellʼetà più bèlla. Già tutta lʼaria imbruna, tórna aζζurro il seréno, é tórnan lʼómbre giù daʼ còlli é daʼ tétti, al biancheggiar délla recènte luna. Ór la squilla dà ségno délla fèsta ché viène; éd a quél suòn dirésti ché il còr si riconfòrta. I fanciulli gridando su la piazzòla in fròtta, é qua é là saltando fanno un lièto romóre: é intanto riède alla sua parca mènsa, fischiando, il zappatóre, é séco pènsa al dì dél suo ripòso. Pòi, quando intórno è spènta ógni altra face, é tutto lʼaltro tace, òdi il martèl picchiare, òdi la séga dél legnaiuòl, ché véglia nélla chiusa bottéga alla lucèrna, é sʼaffrétta, e sʼadòpra di fornir lʼòpra anzi il chiarir déllʼalba. 197 Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran lʼore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è come un giorno dʼ allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non voʼ; ma la tua festa chʼanco tardi a venir non ti sia grave. da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi A se stesso Or poserai per sempre, stanco mio cor. Perì lʼinganno estremo, chʼeterno io mi credei. Perì. Ben sento, in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai palpitasti. Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Tʼacqueta omai. Dispera lʼultima volta. Al gener nostro il fato non donò che il morire. Omai disprezza te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera, e lʼinfinita vanità del tutto. dai “Canti” di Giacomo Leopardi 198 Quésto di sètte è il più gradito giórno, pièn di spème é di giòia: diman tristézza é nòia recheran lʼóre, éd al travaglio usato ciascuno in suo pensièr farà ritórno. Garζoncèllo scherzóso, cotésta età fiorita è cóme un giórno dʼ allegrézza pièno, giórno chiaro, seréno, ché precórre alla fèsta di tua vita. Gòdi, fanciullo mio; stato soave, stagión lièta è cotésta. Altro dirti nón vò; ma la tua fèsta chʼanco tardi a venir nón ti sia grave. da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi A se stésso Ór poserai pér sèmpre, stanco mio còr. Perì lʼinganno estrèmo, chʼetèrno io mi credéi. Perì. Bèn sènto, in nói di cari inganni, nón ché la spème, il desidèrio è spènto. Pòsa pér sèmpre. Assai palpitasti. Nón val còsa nessuna i mòti tuòi, né di sospiri è dégna la tèrra. Amaro é nòia la vita, altro mai nulla; é fango è il móndo. Tʼacquèta omai. Dispèra lʼultima vòlta. Al gèner nòstro il fato nón donò ché il morire. Omai disprèzza té, la natura, il brutto potér ché, ascóso, a comun danno impèra, é lʼinfinita vanità dél tutto. dai “Canti” di Giacomo Leopardi di Giacomo Leopardi 199 Traversando la Maremma toscana Dolce paese, onde portai conforme lʼabito fiero e lo sdegnoso canto e il petto ovʼodio e amor mai non sʼaddorme, pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. Ben riconosco in te le usate forme con gli occhi incerti tra ʻl sorriso e il pianto, e in quelle seguo deʼ miei sogni lʼorme erranti dietro il giovanile incanto. Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano; e sempre corsi, e mai non giunsi il fine; e dimani cadrò. Ma di lontano pace dicono al cor le tue colline con le nebbie sfumanti e il verde piano ridente ne le piogge mattutine. da “Rime nuove” di Giosuè Carducci San Martino La nebbia a glʼ irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar; ma per le vie del borgo dal ribollir deʼ tini va lʼaspro odor de i vini lʼanime a rallegrar. Gira suʼ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su lʼuscio a rimirar tra le rossastre nubi stormi dʼuccelli neri, comʼesuli pensieri, nel vespero migrar. da “Rime nuove” di Giosuè Carducci 200 Traversando la Marémma toscana Dólce paéše, ónde portai confórme lʼabito fièro é ló sdegnóso canto é il pètto óvʼòdio é amór mai nón sʼaddòrme, pur ti rivéggo, é il cuòr mi balza in tanto. Bèn riconósco in té lé ušate fórme cón gli òcchi incèrti tra ʻl sorriso é il pianto, é in quélle séguo déʼ mièi sógni lʼórme erranti diètro il giovanile incanto. Òh, quél ché amai, quél ché sognai, fu invano; é sèmpre córsi, é mai nón giunsi il fine; é dimani cadrò. Ma di lontano pace dicono al còr lé tue colline cón lé nébbie sfumanti é il vérde piano ridènte né lé piògge mattutine. da “Rime nuòve” di Giosuè Carducci San Martino La nébbia a glʼ irti còlli piovigginando sale, é sótto il maestrale urla é bianchéggia il mar; ma pér lé vie dél bórgo dal ribollir déʼ tini va lʼaspro odór dé i vini lʼanime a rallegrar. Gira suʼ céppi accési ló spièdo scoppiettando: sta il cacciatór fischiando su lʼuscio a rimirar tra lé rossastre nubi stórmi dʼuccèlli néri, comʼèšuli pensièri, nél vèspero migrar. da “Rime nuòve” di Giosuè Carducci 201 Il comune rustico O che tra faggi e abeti erma sui campi smeraldini la fredda orma si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero che tace, o noci della Carnia, addio! Erra tra i vostri rami il pensier mio sognando lʼombre dʼun tempo che fu. Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe, ma del comun la rustica virtù accampata a lʼopaca ampia frescura veggo ne la stagion de la pastura dopo la messa il giorno de la festa. Il consol dice, e poste ha pria le mani sopra i santi segnacoli cristiani: “Ecco, io parto fra voi quella foresta dʼabeti e pin ove al confin nereggia. E voi trarrete la mugghiante greggia e la belante a quelle cime là. E voi, se lʼunno o se lo slavo invade eccovi, figli, lʼaste, ecco le spade, morrete per la nostra libertà”. Un fremito dʼorgoglio empieva i petti, ergea le bionde teste; e de gli eletti in su le fronti il sol grande feriva. Ma le donne piangenti sotto i veli invocavan la madre alma deʼ cieli. Con la man tesa il console seguiva: “Questo, al nome di Cristo e di Maria, ordino e voglio che nel popol sia”. A man levata il popolo dicea Sì. E le rosse giovenche di su ʻl prato vedean passare il piccolo senato, brillando su gli abeti il mezzodì. da “Rime Nuove” di Giosuè Carducci 202 Il comune rustico Ó ché tra faggi é abéti èrma sui campi smeraldini la frédda órma si stampi al sóle dél mattin puro é leggèro, ó ché foschéggi immobile nél giórno morènte su lé sparse ville intórno a la chiéša ché prèga ó al cimitèro ché tace, ó nóci délla Carnia, addio! Èrra tra i vòstri rami il pensièr mio sognando lʼómbre dʼun tèmpo ché fu. Nón paure di mòrti éd in congrèghe diavoli gòffi cón biζζarre stréghe, ma dél comun la rustica virtù accampata a lʼopaca ampia frescura véggo né la stagión dé la pastura dópo la méssa il giórno dé la fèsta. Il cònsol dice, é póste ha pria lé mani sópra i santi segnacoli cristiani: “Ècco, io parto fra vói quélla forèsta dʼabéti é pin óve al confin neréggia. É vói trarréte la mugghiante gréggia é la belante a quélle cime là. É vói, sé lʼunno ó sé ló šlavo invade èccovi, figli, lʼaste, ècco lé spade, morréte pér la nòstra libertà”. Un frèmito dʼorgóglio empièva i pètti, ergéa lé biónde tèste; é dé gli elètti in su lé frónti il sól grande feriva. Ma lé dònne piangènti sótto i véli invocavan la madre alma déʼ cièli. Cón la man tésa il cònsole seguiva: “Quésto, al nóme di Cristo é di Maria, órdino é vòglio ché nél pòpol sia”. A man levata il pòpolo dicéa Sì. É le rósse giovènche di su ʻl prato vedéan passare il piccolo senato, brillando su gli abéti il mezzodì. da “Rime Nuòve” di Giosuè Carducci 203 Il gelsomino notturno E sʼaprono i fiori notturni, nellʼora che penso aʼmiei cari. Sono apparse in mezzo aʼ viburni le farfalle crepuscolari. Da un pezzo si tacquero i gridi: là sola una casa bisbiglia. Sotto lʼali dormono i nidi, come gli occhi aperti sotto le ciglia. Dai calici aperti si esala lʼodore di fragole rosse. Splende un lume là nella sala. Nasce lʼerba sopra le fosse. Unʼape tardiva sussurra trovando già prese le celle. La Chioccetta per lʼaia azzurra va col suo pigolio di stelle. Per tutta la notte sʼesala lʼodore che passa col vento. Passa il lume su per la scala; brilla al primo piano: sʼè spento… Èʼ lʼalba: si chiudono i petali un poco gualciti; si cova, dentro lʼurna molle e segreta, non so che felicità nuova. da “I canti di Castelvecchio” di Giovanni Pascoli 204 Il gelsomino notturno É sʼaprono i fióri notturni, néllʼóra ché pènso aʼmièi cari. Sóno apparse in mèζζo aʼ viburni lé farfalle crepuscolari. Da un pèzzo si tacquero i gridi: là sóla una casa bišbiglia. Sótto lʼali dòrmono i nidi, cóme gli òcchi apèrti sótto le ciglia. Dai calici apèrti si ešala lʼodóre di fragole rósse. Splènde un lume là nélla sala. Nasce lʼèrba sópra lé fòsse. Unʼape tardiva sussurra trovando già prése lé cèlle. La Chioccétta pér lʼaia aζζurra va col suo pigolio di stélle. Pér tutta la nòtte sʼešala lʼodóre ché passa cól vènto. Passa il lume su pér la scala; brilla al primo piano: sʼè spènto… È lʼalba: si chiudono i pètali un pòco gualciti; si cóva, déntro lʼurna mòlle é segréta, nón sò ché felicità nuòva. da “I canti di Castelvècchio” di Giovanni Pascoli 205 Nella nebbia E guardai nella valle: era sparito tutto! sommerso! Era un gran mare piano, grigio, senzʼonde, senza lidi, unito. E cʼ era appena, qua e là, lo strano vocio di gridi piccoli e selvaggi: uccelli spersi per quel mondo vano. E alto, in cielo, scheletri di faggi, come sospesi, e sogni di rovine e di silenziosi eremitaggi. Ed un cane uggiolava senza fine, né seppi donde, forse a certe péste che sentii, né lontane né vicine; eco di péste né tarde né preste, alterne, eterne. E io laggiù guardai: nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste. Chiesero i sogni di rovine: -Mai non giungerà? -Gli scheletri di piante chiesero: -E tu chi sei, che sempre vai? Io, forse, unʼombra vidi, unʼombra errante con sopra il capo un largo fascio. Vidi, e più non vidi, nello stesso istante. Sentii soltanto glʼinquieti gridi dʼuccelli spersi, lʼuggiolar del cane, e, per il mar senzʼonde e senza lidi, le peste né vicine né lontane. da i “Primi poemetti” di Giovanni Pascoli 206 Nélla nébbia É guardai nélla valle: èra sparito tutto! sommèrso! Èra un gran mare piano, grigio, senzʼónde, sènza lidi, unito. É cʼèra appéna, qua é là, ló strano vocìo di gridi piccoli é selvaggi: uccèlli spèrsi pér quél móndo vano. É alto, in cièlo, schèletri di faggi, cóme sospési, é sógni di rovine é di silenzïósi eremitaggi. Éd un cane uggiolava sènza fine, né sèppi dónde, fórse a cèrte péste ché sentii, né lontane né vicine; èco di péste né tarde né prèste, altèrne, etèrne. É io laggiù guardai: nulla ancóra é nessuno, òcchi, vedéste. Chièsero i sógni di rovine: -Mai nón giungerà? -Gli schèletri di piante chièsero: -É tu chi sèi, ché sèmpre vai? Io, fórse, unʼómbra vidi, unʼómbra errante cón sópra il capo un largo fascio. Vidi, é più nón vidi, néllo stésso istante. Sentii soltanto glʼinquïèti gridi dʼuccèlli spèrsi, lʼuggiolar dél cane, é, pér il mar senzʼónde é sènza lidi, lé péste né vicine né lontane. da i “Primi poemétti” di Giovanni Pascoli 207 La pioggia nel pineto Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta.Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che lʼanima schiude novella, su la favola bella che ieri tʼilluse, che oggi mʼillude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitìo che dura e varia nellʼaria secondo le fronde più rade, men rade. 208 La piòggia nél pinéto Taci. Su lé sòglie dél bòsco nón òdo paròle ché dici umane; ma òdo paròle più nuòve ché parlano gócciole é fòglie lontane. Ascólta.Piòve dalle nuvole sparse. Piòve su lé tamerici salmastre éd arse, piòve su i pini scagliósi éd irti, piòve su i mirti divini, su lé ginèstre fulgènti di fióri accòlti, su i ginépri fólti di còccole aulènti, piòve su i nòstri vólti silvani, piòve su lé nòstre mani ignude, su i nòstri vestiménti leggièri, su i fréschi pensièri ché lʼanima schiude novèlla, su la favola bèlla ché ièri tʼilluše, ché òggi mʼillude, ó Ermióne. Òdi? La piòggia cade su la solitaria verdura cón un crepitìo ché dura é varia néllʼaria secóndo lé frónde più rade, mén rade. 209 Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, dʼarborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta.Lʼaccordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dallʼumida ombra remota. Più sordo e più fioco sʼallenta, si spegne. Solo una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non sʼode voce del mare. 210 Ascólta. Rispónde al pianto il canto délle cicale ché il pianto australe nón impaura, né il cièl cinerino. É il pino ha un suòno, é il mirto altro suòno, é il ginépro altro ancóra, stroménti divèrsi sótto innumerévoli dita. É immèrsi nói siam néllo spirto silvèstre, dʼarbòrea vita vivènti; é il tuo vólto èbro è mòlle di piòggia cóme una fòglia, é lé tue chiòme auliscono cóme lé chiare ginèstre, ó creatura terrèstre ché hai nóme Ermióne. Ascólta, ascólta. Lʼaccòrdo délle aèree cicale a pòco a pòco più sórdo si fa sótto il pianto ché crésce; ma un canto vi si mésce più ròco ché di laggiù sale, dallʼumida ómbra remòta. Più sórdo é più fiòco sʼallènta, si spègne. Sólo una nòta ancór trèma, si spègne, risórge, trèma, si spègne. Nón sʼòde vóce dél mare. 211 Or sʼode su tutta la fronda crosciare lʼargentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta. Ascolta. La figlia dellʼaria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nellʼombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le palpebre gli occhi son come polle tra lʼerbe, i denti negli alveoli son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli cʼintrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che lʼanima schiude novella, su la favola bella che ieri mʼilluse, che oggi tʼillude, o Ermione. da “Alcyone” di Gabriele DʼAnnunzio 212 Ór sʼòde su tutta la frónda crosciare lʼargèntea piòggia ché mónda, il cròscio ché varia secóndo la frónda più fólta, mén fólta. Ascólta. La figlia déllʼaria è muta; ma la figlia dél limo lontana, la rana, canta néllʼómbra più fónda, chi sa dóve, chi sa dóve! É piove su lé tue ciglia, Ermióne. Piòve su lé tue ciglia nére sì ché par tu pianga ma di piacére; nón bianca ma quaši fatta virènte, par da scòrza tu èsca. É tutta la vita è in nói frésca aulènte, il cuòr nél pètto è cóme pèsca intatta, tra lé palpebre gli òcchi són cóme pólle tra lʼ èrbe, i dènti négli alvèoli són cóme mandorle acèrbe. É andiam di fratta in fratta, ór congiunti ór disciòlti (é il vérde vigór rude ci allaccia i mallèoli cʼintrica i ginòcchi) chi sa dóve, chi sa dóve! É piòve su i nòstri vólti silvani, piòve su lé nòstre mani ignude, su i nòstri vestiménti leggièri, su i fréschi pensièri ché lʼanima schiude novèlla, su la favola bèlla ché ièri mʼilluše, ché òggi tʼillude, ó Ermióne. da “Alcyóne” di Gabriéle DʼAnnunzio 213 I pastori Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra dʼAbruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono allʼAdriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor dʼacqua natìa rimanga neʼcuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga dʼavellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lunghʼ esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è lʼaria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquìo, calpestìo, dolci romori. Ah perché non son io coʼ miei pastori? da “Alcyone” di Gabriele DʼAnnunzio 214 I pastóri Settèmbre, andiamo. È tèmpo di migrare. Óra in tèrra dʼAbruzzi i mièi pastóri lascian gli stazzi é vanno vèrso il mare: scéndono allʼAdriatico selvaggio ché vérde è cóme i pascoli déi mónti. Han bevuto profondaménte ai fónti alpèstri, ché sapór dʼacqua natìa rimanga néʼcuòri èšuli a confòrto, ché lungo illuda la lór séte in via. Rinnovato hanno vérga dʼavellano. É vanno pél tratturo antico al piano, quaši pér un erbal fiume silènte, su lé vestigia dégli antichi padri. Ó vóce di colui ché primaménte conósce il tremolar délla marina! Óra lunghʼ ésso il litoral cammina la gréggia. Sènza mutaménto è lʼaria. Il sóle imbiónda sì la viva lana ché quaši dalla sabbia nón divaria. Isciacquìo, calpestìo, dólci romóri. Ah perché nón són io cóʼ mièi pastóri? da “Alcyóne” di Gabriéle DʼAnnunzio 215 Sono una creatura Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata. Come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La morte si sconta vivendo. da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti San Martino del Carso Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro. Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca. Eʼ il mio cuore il paese più straziato. da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti 216 Sóno una creatura Cóme quésta piètra dél San Michèle così frédda così dura così prosciugata così refrattaria così totalménte dišanimata. Cóme quésta piètra è il mio pianto ché nón si véde. La mòrte si scónta vivèndo. da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti San Martino dél Carso Di quéste case nón è rimasto ché qualche brandèllo di muro. Di tanti ché mi corrispondévano nón è rimasto neppure tanto. Ma nél cuòre nessuna cróce manca. È il mio cuòre il paéše più straziato. da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti 217 Veglia Unʼintera nottata buttato vicino al compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene dʼamore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita. da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti Fratelli Di che reggimento siete fratelli? Parola tramante nella notte Foglia appena nata Nellʼaria spasimante involontaria rivolta dellʼuomo presente alla sua fragilità Fratelli da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti 218 Véglia Unʼintèra nottata buttato vicino al compagno massacrato cón la sua bócca digrignata vòlta al plenilunio cón la congestióne délle sue mani penetrata nél mio silènzio hò scritto lèttere piène dʼamóre. Nón sóno mai stato tanto attaccato alla vita. da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti Fratèlli Di ché reggiménto siète fratèlli? Paròla tramante nélla nòtte Fòglia appéna nata Néllʼaria spašimante involontaria rivòlta déllʼuòmo prešènte alla sua fragilità Fratèlli da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti 219 Soldati Si sta come dʼautunno sugli alberi le foglie da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti Natale Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti 220 Soldati Si sta cóme dʼautunno sugli alberi lé fòglie. da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti Natale Nón hò vòglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Hò tanta stanchézza sulle spalle Lasciatemi così cóme una còsa posata in un angolo é dimenticata Qui nón si sènte altro ché il caldo buòno Stò cón lé quattro capriòle di fumo dél focolare da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti 221 Vanità Dʼimprovviso è alto sulle macerie il limpido stupore dellʼimmensità E lʼuomo curvato sullʼacqua sorpresa dal sole si rinviene unʼombra Cullata e piano franta da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti Non gridate più Cessate dʼuccidere i morti, non gridate più, non gridate se li volete ancora udire, se sperate di non perire. Hanno lʼimpercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dellʼerba, lieta dove non passa lʼuomo. da “Il dolore” di Giuseppe Ungaretti 222 Vanità Dʼimprovviso è alto sulle macèrie il limpido stupóre dellʼimmensità É lʼuòmo curvato sullʼacqua sorprésa dal sóle si rinviène unʼómbra Cullata é piano franta da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti Nón gridate più Cessate dʼuccidere i mòrti, nón gridate più, nón gridate sé li voléte ancóra udire, sé sperate di nón perire. Hanno lʼimpercettibile sussurro, nón fanno più rumóre dél créscere déllʼèrba, lièta dóve nón passa lʼuòmo. da “Il dolóre” di Giusèppe Ungarétti 223 Padre, se anche tu non fossi… Padre, se anche tu non fossi il mio padre, per te stesso egualmente tʼamerei. Ché mi ricordo dʼun mattin dʼinverno che la prima viola sullʼopposto muro scopristi dalla tua finestra e ce ne desti la novella allegro. E subito la scala tolta in spalla di casa uscisti e lʼappoggiavi al muro. Noi piccoli dai vetri si guardava. E di quellʼaltra volta mi ricordo che la sorella, bambinetta ancora, per la casa inseguivi minacciando. Ma raggiuntala che strillava forte dalla paura, ti mancava il cuore: tʼeri visto rincorrere la tua piccola figlia e, tutta spaventata, tu vacillando lʼattiravi al petto e con carezze la ricoveravi tra le tue braccia come per difenderla da quel cattivo chʼeri tu prima. Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi a me un estraneo, fra tutti quanti gli uomini pel tuo cuore fanciullo tʼamerei. da “Poesie” di Camillo Sbarbaro 224 Padre, sé anche tu nón fossi… Padre, sé anche tu nón fóssi il mio padre, pér té stésso egualménte tʼamerèi. Ché mi ricòrdo dʼun mattin dʼinvèrno ché la prima viòla sullʼoppósto muro scopristi dalla tua finèstra é cé né désti la novèlla allégro. É subito la scala tòlta in spalla di casa uscisti é lʼappoggiavi al muro. Nói piccoli dai vétri si guardava. É di quéllʼaltra vòlta mi ricòrdo ché la sorèlla, bambinétta ancóra, pér la casa inseguivi minacciando. Ma raggiuntala ché strillava fòrte dalla paura, ti mancava il cuòre: tʼèri visto rincórrere la tua piccola figlia é, tutta spaventata, tu vacillando lʼattiravi al pètto é cón carézze la ricoveravi tra lé tue braccia cóme pér difènderla da quél cattivo chʼèri tu prima. Padre, sé anche tu nón fóssi il mio padre, sé anche fóssi a mé un estraneo, fra tutti quanti gli uòmini pél tuo cuòre fanciullo tʼamerèi. da “Poešie” di Camillo Sbarbaro 225 Taci, anima stanca di godere Taci, anima stanca di godere e di soffrire (allʼuno e allʼaltro vai rassegnata). Ascolto e non mi giunge una tua voce. Non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non dʼira e di speranza, e neppure di tedio. Ammutolita giaci col corpo in una disperata indifferenza. Noi ci stupiremmo non è vero, mia anima, se adesso il cuore sʼarrestasse, se sospeso ci fosse il fiato… Invece camminiamo. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne e tutto è quello che è – soltanto quello che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con occhi asciutti me stesso. da “Poesie” di Camillo Sbarbaro 226 Taci, anima stanca di godére Taci, anima stanca di godére é di soffrire (allʼuno é allʼaltro vai rassegnata). Ascólto é nón mi giunge una tua vóce. Nón di rimpianto pér la mišerabile giovinézza, nón dʼira é di speranza, é neppure di tèdio. Ammutolita giaci cól còrpo in una disperata indifferènza. Nói ci stupirémmo nón è véro, mia anima, sé adèsso il cuòre sʼarrestasse, sé sospéso ci fósse il fiato… Invéce camminiamo. É gli alberi són alberi, lé case sóno case, lé dònne ché passano són dònne é tutto è quéllo ché è – soltanto quéllo ché è. La vicènda di giòia é di dolóre nón ci tócca. Perduto ha la vóce la sirèna dél móndo é il móndo è un grande dešèrto. Nél dešèrto io guardo cón òcchi asciutti mé stésso. da “Poešie” di Camillo Sbarbaro 227 Ora che sei venuta Ora che sei venuta, che con passo di danza sei entrata nella mia vita quasi folata in una stanza chiusa a festeggiarti, bene tanto atteso, le parole mi mancano e la voce a tacerti vicino già mi basta. Il pigolìo così che assorda il bosco al nascere dellʼalba, ammutolisce quando sullʼorizzonte balza il sole. Ma te la mia inquietudine cercava quando ragazzo nella notte dʼestate mi facevo alla finestra come soffocato: che non sapevo, mʼaffannava il cuore. E tutte tue sono le parole che, come lʼacqua allʼorlo che trabocca, alla bocca venivano da sole, lʼore deserte, quando sʼavanzavan puerilmente le mie labbra dʼuomo da sé, per desiderio di baciare…. da “Versi a Dina”, in “Poesia e prosa” di Camillo Sbarbaro 228 Óra ché sèi venuta Óra ché sèi venuta, ché cón passo di danza sèi entrata nélla mia vita quaši folata in una stanza chiusa a festeggiarti, bène tanto attéso, lé paròle mi mancano é la vóce a tacérti vicino già mi basta. Il pigolìo così ché assórda il bòsco al nascere déllʼalba, ammutolisce quando sullʼoriζζónte balza il sóle. Ma té la mia inquietudine cercava quando ragazzo nélla nòtte dʼestate mi facévo alla finèstra cóme soffocato: ché nón sapévo, mʼaffannava il cuòre. É tutte tue sóno lé paròle ché, cóme lʼacqua allʼórlo ché trabócca, alla bócca venivano da sóle, lʼóre dešèrte, quando sʼavanzavan puerilménte lé mie labbra dʼuòmo da sé, pér desidèrio di baciare…. da “Vèrsi a Dina”, in “Poešia é pròša” di Camillo Sbarbaro 229 La bambina che va sotto gli alberi La bambina che va sotto gli alberi non ha che il peso della sua treccia, un fil di canto in gola. Canta sola e salta per la strada; ché non sa che mai bene più grande non avrà di quel poʼ dʼoro vivo per le spalle, di quella gioia in gola. A noi che non abbiamo altra felicità che di parole, e non lʼacceso fiocco e non la molta speranza che fa grosso a quella il cuore, se non è troppo chiedere, sia tolta prima la vita di quel solo bene. da “Poesie” di Camillo Sbarbaro Sonno, dolce fratello della Morte Sonno, dolce fratello della Morte, che dalla Vita per un poʼ ci affranchi ma ci rilasci tosto in sua balia come gatto che gioca col gomitolo; di te, finché la mia vita giustifichi la vita della mia sorella e un segno che son vissuto anchʼio finché non lasci, io mi contenterò e del tuo inganno. Vieni, consolatore degli afflitti. Abolisci per me lo spazio e il tempo e nel nulla dissolvi questo io. Nessun bambino mai così fidente sʼabbandonò sul seno della madre comʼio nelle tue mani mʼabbandono. Quando si dorme non si sa più nulla. da “Poesie” di Camillo Sbarbaro 230 La bambina ché va sótto gli alberi La bambina ché va sótto gli alberi nón ha ché il péso délla sua tréccia, un fil di canto in góla. Canta sóla é salta pér la strada; ché nón sa ché mai bène più grande nón avrà di quél pò dʼòro vivo pér lé spalle, di quélla giòia in góla. A nói ché nón abbiamo altra felicità ché di paròle, é nón lʼaccéso fiòcco é nón la mólta speranza ché fa gròsso a quélla il cuòre, sé nón è tròppo chièdere, sia tòlta prima la vita di quél sólo bène. da “Poešie” di Camillo Sbarbaro Sónno, dólce fratèllo délla Mòrte Sónno, dólce fratèllo délla Mòrte, ché dalla Vita pér un pòʼ ci affranchi ma ci rilasci tòsto in sua balia cóme gatto ché giòca cól gomitolo; di té, finché la mia vita giustifichi la vita délla mia sorèlla é un ségno ché són vissuto anchʼio finché nón lasci, io mi contenterò é dél tuo inganno. Vièni, consolatóre dégli afflitti. Abolisci pér mé ló spazio é il tèmpo é nél nulla dissòlvi quésto io. Nessun bambino mai così fidènte sʼabbandonò sul séno délla madre cómʼio nélle tue mani mʼabbandóno. Quando si dòrme nón si sa più nulla. da “Poešie” di Camillo Sbarbaro 231 Meriggio Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro dʼorto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche chʼora si rompono ed ora sʼintrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia comʼè tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale Non chiederci la parola Non chiederci la parola che squadri da ogni lato lʼanimo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah lʼuomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e lʼombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale 232 Meriggio Meriggiare pallido é assòrto prèsso un rovènte muro dʼòrto, ascoltare tra i pruni é gli stèrpi schiòcchi di mèrli, frusci di sèrpi. Nélle crèpe dél suòlo ó su la véccia spiar lé file di rósse formiche chʼ óra si rómpono éd óra sʼintrécciano a sómmo di minuscole biche. Osservare tra fróndi il palpitare lontano di scaglie di mare méntre si lèvano trèmuli scricchi di cicale dai calvi picchi. É andando nél sóle ché abbaglia sentire cón triste meraviglia comʼè tutta la vita é il suo travaglio in quésto seguitare una muraglia ché ha in cima còcci aguzzi di bottiglia. da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale Nón chièderci la paròla Nón chièderci la paròla ché squadri da ógni lato lʼanimo nòstro infórme, é a lèttere di fuòco ló dichiari é risplènda cóme un cròco perduto in mèzzo a un polveróso prato. Ah lʼuòmo ché sé né va sicuro, agli altri éd a sé stésso amico, é lʼómbra sua nón cura ché la canicola stampa sópra uno scalcinato muro! Nón domandarci la fòrmula ché móndi pòssa aprirti, sì qualche stòrta sillaba é sécca cóme un ramo. Codésto sólo òggi possiamo dirti, ciò ché nón siamo, ciò ché nón vogliamo. da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale 233 Ho sceso dandoti il braccio… Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattrʼocchi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. da “Satura” di Eugenio Montale Forse un mattino Forse un mattino andando in unʼaria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco. Poi come uno schermo, sʼaccamperanno di gitto alberi case colli per lʼinganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me nʼandrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale 234 Hò scéso dandoti il braccio… Hò scéso, dandoti il braccio, alméno un milióne di scale é óra ché nón ci sèi è il vuòto ad ógni gradino. Anche così è stato brève il nòstro lungo viaggio. Il mio dura tuttóra, né più mi occórrono lé coincidènze, lé prenotazióni, lé trappole, gli scòrni di chi créde ché la realtà sia quélla ché si véde. Hò scéso milióni di scale dandoti il braccio nón già perché cón quattrʼòcchi fórse si véde di più. Cón té lé hò scése perché sapévo ché di nói due lé sóle vére pupille, sebbène tanto offuscate, èrano lé tue. da “Satura” di Eugènio Montale Fórse un mattino Fórse un mattino andando in unʼaria di vétro, arida, rivolgèndomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuòto diètro di mé, cón un terróre di ubriaco. Pòi cóme uno schérmo, sʼaccamperanno di gitto alberi case còlli pér lʼinganno consuèto. Ma sarà tròppo tardi; éd io mé nʼandrò zitto tra gli uòmini ché nón si voltano, cól mio segréto. da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale 235 Ripenso il tuo sorriso Ripenso il tuo sorriso, ed è per me unʼacqua limpida scorta per avventura tra le pietraie dʼun greto, esiguo specchio in cui guardi unʼellera i suoi corimbi; e su tutto lʼabbraccio dʼun bianco cielo quieto. Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano, se dal tuo volto sʼesprime libera unʼanima ingenua, o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua e recano il loro soffrire con sé come un talismano. Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie sommerge i crucci estrosi in unʼondata di calma, e che il tuo aspetto sʼinsinua nella mia memoria grigia schietto come la cima dʼuna giovinetta palma… da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale Spesso il male di vivere Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era lʼincartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza : era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale 236 Ripènso il tuo sorriso Ripènso il tuo sorriso, éd è pér mé unʼacqua limpida scòrta pér avventura tra lé pietraie dʼun gréto, ešiguo spècchio in cui guardi unʼéllera i suòi corimbi; é su tutto lʼabbraccio dʼun bianco cièlo quièto. Codésto è il mio ricòrdo; nón saprèi dire, ó lontano, sé dal tuo vólto sʼesprime libera unʼanima ingènua, ó véro tu sèi déi raminghi ché il male dél móndo estènua é rècano il lóro soffrire cón sé cóme un tališmano. Ma quésto pòsso dirti, ché la tua pensata effigie sommèrge i crucci estrósi in unʼondata di calma, é ché il tuo aspètto sʼinsinua nélla mia memòria grigia schiètto cóme la cima dʼuna giovinétta palma… da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale Spésso il male di vivere Spésso il male di vivere hò incontrato: èra il rivo strozzato ché gorgóglia, èra lʼincartocciarsi délla fòglia riarsa, èra il cavallo stramazzato. Bène nón sèppi, fuòri dél prodigio ché schiude la divina Indifferènza: èra la statua nélla sonnolènza dél meriggio, é la nuvola, é il falco alto levato. da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale 237 Ed è subito sera Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. da “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo Alle fronde dei salici E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sullʼerba dura di ghiaccio, al lamento dʼagnello dei fanciulli, allʼurlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. da “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo 238 Éd è subito séra Ognuno sta sólo sul cuòr délla tèrra trafitto da un raggio di sóle: éd è subito séra. da “Éd è subito séra” di Salvatóre Quašimodo Alle frónde déi salici É cóme potevamo nói cantare cón il piède stranièro sópra il cuòre, fra i mòrti abbandonati nélle piazze sullʼèrba dura di ghiaccio, al laménto dʼagnèllo déi fanciulli, allʼurlo néro délla madre ché andava incóntro al figlio crocifisso sul palo dél telègrafo? Alle frónde déi salici, pér vóto, anche lé nòstre cétre èrano appése, oscillavano lièvi al triste vènto. da “Giórno dópo giórno” di Salvatóre Quašimodo Nota: cétra è lʼantico e noto strumento musicale. cètra è uno scudo piuttosto piccolo e rotondo in uso fin dalla antichità presso popolazioni africane ed ispaniche. 239 Uomo del mio tempo Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, -tʼho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura. Tʼho visto: eri tu con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta. E questo sangue odora come nel giorno quando il fratello disse allʼaltro fratello: “Andiamo ai campi”. E quellʼeco fredda, tenace, è giunta fino a te, dentro la tua giornata. Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue salite dalla terra, dimenticate i padri: le loro tombe affondano nella cenere, gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore. da “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo Milano, agosto 1943 Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta. È morta: sʼè udito lʼultimo rombo sul cuore del Naviglio. E lʼusignolo è caduto dallʼantenna, alta sul convento, dove cantava prima del tramonto. Non scavate pozzi dai cortili: i vivi non hanno più sete. Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: lasciateli nella terra delle loro case: la città è morta, è morta. da “Tutte le poesie” di Salvatore Quasimodo 240 Uòmo dél mio tèmpo Sèi ancóra quéllo délla piètra é délla fiónda, uòmo dél mio tèmpo. Èri nélla carlinga, cón lé ali maligne, lé meridiane di mòrte, -tʼhò visto- déntro il carro di fuòco, alle fórche, alle ruòte di tortura. Tʼhò visto: èri tu cón la tua sciènza ešatta persuaša allo sterminio, sènza amóre, sènza Cristo. Hai uccišo ancóra, cóme sèmpre, cóme uccišero i padri, cóme uccišero gli animali ché ti videro pér la prima vòlta. É quésto sangue odóra cóme nél giórno quando il fratèllo disse allʼaltro fratèllo: “Andiamo ai campi”. É quéllʼèco frédda, tenace, è giunta fino a té, déntro la tua giornata. Dimenticate, ó figli, lé nuvole di sangue salite dalla tèrra, dimenticate i padri: lé lóro tómbe affóndano nélla cénere, gli uccèlli néri, il vènto, còprono il lóro cuòre. da “Giórno dópo giórno” di Salvatóre Quašimodo Milano, agósto 1943 Invano cérchi tra la pólvere, pòvera mano, la città è mòrta. È mòrta: sʼè udito lʼultimo rómbo sul cuòre dél Naviglio. É lʼušignòlo è caduto dallʼanténna, alta sul convènto, dóve cantava prima dél tramónto. Nón scavate pózzi dai cortili: i vivi nón hanno più séte. Nón toccate i mòrti, così róssi, così gónfi: lasciateli nélla tèrra délle lóro case: la città è mòrta, è mòrta. da “Tutte lé poešie” di Salvatóre Quašimodo 241 242 ESERCIZI DI LETTURA ORTOEPICA 243 244 GALILÈO GALILÈI Galilèi enuncia il principio dʼinèrzia Rinserratevi cón qualche amico nélla maggióre stanza ché sia sótto covèrta di alcun gran navilio, é quivi fate dʼavér mósche, farfalle é simili animalétti volanti; siavi anco un gran vašo dʼacqua é déntrovi déʼ pescétti; sospèndasi anco in alto qualche secchièllo ché a góccia a góccia vadia versando déllʼacqua in un altro vašo di angusta bócca, ché sia pósto a basso é, stando férma la nave, osservate diligenteménte cóme quélli animalétti volanti cón pari velocità vanno vèrso tutte lé parti délla stanza; i pésci si vedranno andar notando indifferenteménte pér tutti i vèrsi, lé stille cadènti entreranno tutte nél vašo sottopósto; é vói, gettando allʼamico alcuna còsa, nón più gagliardaménte la dovréte gettare vèrso quélla parte ché vèrso quésta quando lé lontananze sièno eguali; é saltando vói, cóme si dice, a piè giunti, eguali spazii passeréte vèrso tutte lé parti. Osservate ché avréte diligenteménte tutte quéste còse, benché niun dubbio ci sia ché méntre il vascèllo stà férmo nón dèbbano succèder còsì, fate muòver la nave cón quanta si vòglia velocità; (purché il mòto sia unifórme é nón fluttuante in qua é in là) vói nón riconosceréte una minima mutazióne in tutti li nominati effètti, né da alcuno di quélli potréte comprènder sé la nave cammina ó pure sta férma: vói saltando passeréte nél tavolato i medéšimi spazii ché prima, né, perché la nave si muòva velocissimaménte, faréte maggióri salti vèrso la póppa ché vèrso la prua, benché, nél tèmpo ché vói state in aria, il tavolato sottopóstovi scórra vèrso la parte contraria al vòstro salto; é gettando alcuna còsa al compagno, nón cón più fòrza bišognerà tirarla, pér arrivarlo, sé égli sarà vèrso la prua é vói vèrso la póppa, che sé vói fuste situati pér lʼoppòšito; lé gócciole cadranno cóme prima nél vašo inferióre, sènza cadérne pur una vèrso póppa, benché, méntre la gócciola è pér aria, la nave scórra mólti palmi; i pésci nélla lóro acqua nón cón più fatica noteranno vèrso la precedènte ché vèrso la susseguènte parte dél vašo, ma cón pari agevolézza verranno al cibo pósto su qualsivòglia luògo déllʼórlo dél vašo; é finalménte lé farfalle é lé mósche continueranno i lóro vóli indifferenteménte vèrso tutte lé parti, né mai accadrà ché si riduchino vèrso la parte ché riguarda la póppa, quaši ché fussero stracche in tenér diètro al velóce córso délla 245 nave, dalla quale pér lungo tèmpo, trattenèndosi pér aria, saranno state separate; é sé abbruciando alcuna lagrima dʼincènso si farà un pòco di fumo, vedrassi ascénder in alto éd a guiša di nuvolétta trattenérvisi, é indifferenteménte muòversi nón più vèrso quésta ché vèrso quélla parte. É di tutta quésta corrispondènza dʼeffètti né è cagióne lʼèsser il mòto délla nave comune a tutte lé còse contenute in éssa éd allʼaria ancóra, ché pér ciò dissi io ché si stésse sótto covèrta ; ché quando si stésse di sópra é néllʼaria apèrta é nón seguace dél córso délla nave, differènze più é mén notabili si vedrèbbero in alcuni dégli effètti nominati: é nón è dubbio ché il fumo resterèbbe in diètro, quanto lʼaria stéssa; lé mósche pariménti é lé farfalle, impedite dallʼaria, nón potrèbber seguir il mòto délla nave, quando da éssa pér spazio assai notabile si separassero; ma trattenèndovisi vicine, perché la nave stéssa, cóme di fabbrica anfrattuósa, pòrta séco parte déllʼaria sua pròssima, sènza intòppo ó fatica seguirèbber la nave, é pér simil cagióne veggiamo tal vòlta, nél córrer la pòsta, lé mósche importune é i tafani seguir i cavalli, volandogli óra in quésta éd óra in quélla parte dél còrpo; ma nélle gócciole cadènti pochissima sarèbbe la differènza, é né i salti é né i proiètti gravi, dél tutto impercettibile. da “Dialogo sópra i due massimi sistèmi dél móndo” di Galilèo Galilèi 246 UGO FÓSCOLO Daʼ Còlli Euganei, 11 ottóbre 1797 Il sacrificio délla patria nòstra è consumato: tutto è perduto; é la vita, seppure né verrà concèssa, nón ci resterà ché pér piangere lé nòstre sciagure é la nòstra infamia. Il mio nóme è nélla lista di proscrizióne, ló sò: ma vuòi tu chʼio pér salvarmi da chi mʼopprime mi commétta a chi mi ha tradito? Consóla mia madre: vinto dalle sue lacrime lé hò ubbidito, é hò lasciato Venèzia pér evitare lé prime persecuzióni, é lé più feróci. Ór dovrò io abbandonare anche quésta mia solitudine antica, dóve, sènza pèrdere dagli òcchi il mio sventurato paéše, pòsso ancóra sperare qualche giórno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorènzo; quanti sóno dunque gli sventurati? É nói, purtròppo, nói stéssi Italiani ci laviamo lé mani nél sangue déglʼItaliani. Pér mé ségua ché può. Poiché hò disperato é délla mia patria é di mé, aspètto tranquillaménte la prigióne é la mòrte. Il mio cadavere alméno nón cadrà tra braccia stranière; il mio nóme sarà sommessaménte compianto daʼ pòchi uòmini buòni, compagni délle nòstre mišèrie; é lé mie òssa poseranno su la tèrra déʼ miéi padri. 26 ottóbre 1797 Lʼhò veduta, ó Lorènzo, la divina fanciulla; é té né ringrazio. La trovai seduta, miniando il pròprio ritratto. Si rizzò salutandomi cóme sʼélla mi conoscésse, é ordinò a un servitóre ché andasse a cercare di suo padre. Égli nón sperava, mi dissʼélla, ché vói saréste venuto; sarà pér la campagna; né starà mólto a tornare. Una ragazzina lé córse fra lé ginòcchia dicèndole nón sò ché allʼorécchio. È lʼamico di Lorènzo, lé rispóse Terèsa, è quéllo ché il babbo andò a trovare lʼaltrʼièri… Io tornava a casa cól cuòre in fèsta.- Ché? ló spettacolo délla bellézza basta fórse ad addormentare in nói tristi mortali tutti i dolóri? Védi pér mé una sorgènte di vita: unica cèrto, é chi sa! fatale. Ma sé io sóno predestinato ad avére lʼanima perpetuaménte in tempèsta, nón è tuttʼuno? 247 17 marzo 1798 Da due mési nón ti dò ségno di vita, é tu ti sèʼ sgomentato; é témi chʼio sia vinto oggimai dallʼamóre da dimenticarmi di té é délla patria. Fratèl mio Lorènzo, tu conòsci pur pòco mé é il cuòre umano éd il tuo, sé prešumi ché il desidèrio di patria pòssa temperarsi, mai , nón ché spègnersi; sé crédi ché cèda ad altre passióni — bèn irrita lé altre passióni, é nʼè più irritato; éd è pur véro, é in quésto hai détto pur bène! Lʼamóre in unʼanima ešulcerata, é dóve lé altre passióni sóno disperate, rièsce onnipotènte — é io ló pròvo; ma ché rièsca funèsto, tʼinganni: sènza Terèsa, io sarèi fórse òggi sottèrra. La Natura crèa di pròpria autorità tali ingégni da nón potér èssere sé nón generósi; vénti anni addiètro sì fatti ingégni si rimanévano inèrti éd assiderati nél sopóre universale dʼItalia: ma i tèmpi dʼòggi hanno ridestato in éssi lé virili é natìe lóro passióni: éd hanno acquistato tal tèmpra, ché spezzarli puòi, piegarli nón mai. É nón è sentènza metafišica quésta: la è verità ché splènde nélla vita di mólti antichi mortali gloriosaménte infelici; verità di cui mi sóno accertato convivèndo fra mólti nòstri concittadini; é li compiango insième é gli ammiro; da ché sé Dio nón ha pietà déllʼItalia, dovranno chiudere nél lóro secrèto il desidèrio di patria — funestissimo! perché ó strugge ó addolóra tutta la vita; é nondiméno anziché abbandonarlo, avranno cari i pericoli, é quéllʼangòscia, é la mòrte. Éd io mi sóno uno di quésti; é tu, mio Lorènzo. Ma sʼio scrivéssi intórno a quéllo chʼio vidi é sò délle còse nòstre, farèi còsa superflua é crudèle ridestando in vói tutti il furóre ché vorrèi pur sopire déntro di mé: piango, crédimi, la patria — la piango secretaménte, é desidero Ché lé lagrime mie si spargan sóle. Unʼaltra spècie di amatóri dʼItalia si querèli ad altissima vóce a sua pòsta. Esclamano dʼèsser stati venduti é traditi: ma sé si fóssero armati, sarèbbero stati vinti fórse, nón mai traditi, é sé si fóssero difési sino allʼultimo sangue, né i vincitóri avrèbbero potuto vénderli, né i vinti si sarèbbero attentati di comperarli. Sé nón ché moltissimi déʼ nòstri prešumono ché la libertà si pòssa comperare a danaro; prešumono ché lé nazióni stranière vèngano pér 248 amóre déllʼequità a trucidarsi scambievolménte suʼ nòstri campi ónde liberare lʼItalia! Ma i Francéši ché hanno fatto parére ešecrabile la divina teoria délla pubblica libertà, faranno da Timoleóni in prò nòstro? — Moltissimi intanto si fidano nél Giòvine Eròe nato di sangue italiano: nato dóve si parla il nòstro idiòma. Io da un animo basso é crudèle, nón mʼaspetterò mai còsa utile éd alta pér nói. Ché mʼimpòrta chʼabbia il vigóre é il frèmito dél leóne, sé ha la ménte volpina, é sé né compiace? Sì, basso é crudèle — né gli epiteti sóno ešagerati. A ché nón ha égli venduto Venèzia cón apèrta é generósa feròcia? Selim I ché féce scannare sul Nilo trènta mila guerrièri Circassi arrésisi alla sua féde, é Nadir Schah ché nél nòstro sècolo trucidò trecènto mila Indiani, sóno più atróci, bensì méno sgradévoli. Vidi cón gli òcchi mièi una costituzióne democratica postillata dal Giòvine Eròe, postillata di mano sua; é mandata da Passeriano a Venèzia perché sʼaccettasse: é il trattato di Campo Fòrmio èra già da più giórni firmato é Venèzia èra trafficata; é la fiducia ché lʼEròe nutriva in nói tutti ha riempito lʼItalia di proscrizióni, dʼemigrazióni, é dʼešilj.— Nón accušo la ragióne di stato ché vénde, cóme branchi di pècore, lé nazióni: così fu sèmpre, é così sarà: piango la patria mia, Ché mi fu tòlta, é il mòdo ancór mʼoffènde. Nasce Italiano, é soccorrerà un giórno alla patria: altri sél créda; io rispósi, é risponderò sèmpre: - La natura ló ha creato tiranno: é il tiranno nón guarda a patria; é nón lʼha. da “Ultime lèttere di Jacopo Òrtis” di Ugo Fóscolo 249 ALESSANDRO MANZÓNI Addio, mónti… Addio, mónti sorgènti dallʼacque, éd elevati al cièlo; cime inuguali, nòte a chi è cresciuto tra vói, é imprèsse nélla sua ménte, nón méno ché ló sia lʼaspètto déʼsuòi più familiari; torrènti, déʼ quali distingue ló scròscio, cóme il suòno délle vóci domèstiche; ville sparse é biancheggianti sul pendio, cóme branchi di pècore pascènti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra vói, sé né allontana! Alla fantašia di quéllo stésso ché sé né parte volontariaménte, tratto dalla speranza di fare altróve fortuna, si dišabbelliscono, in quel moménto, i sógni délla ricchézza; égli si maraviglia dʼèssersi potuto risòlvere, é tornerèbbe allóra indiètro, sé nón pensasse ché, un giórno, tornerà dovizióso.Quanto più sʼavanza nél piano, il suo òcchio si ritira, dišgustato é stanco, da quéllʼampiézza unifórme; lʼaria gli par gravósa é mòrta; sʼinóltra mèsto é dišattènto nélle città tumultuóse; lé case aggiunte a case, lé strade ché sbóccano nélle strade, pare ché gli lèvino il respiro; é davanti agli edifizi ammirati dallo stranièro, pènsa, cón desidèrio inquièto, al campicèllo dél suo paéše, alla casuccia a cui ha già mésso gli òcchi addòsso, da gran tèmpo, é ché comprerà, tornando ricco aʼ suòi mónti. Ma chi nón avéva mai spinto al di là di quélli neppure un desidèrio fuggitivo, chi avéva compósti in éssi tutti i disegni déllʼavvenire, é nʼè sbalzato lontano, da una fòrza pervèrsa! Chi, staccato a un tèmpo dalle più care abitudini, é disturbato nélle più care speranze, lascia quéi mónti, pér avviarsi in traccia di sconosciuti ché nón ha mai desiderato di conóscere, é nón può cón lʼimmaginazióne arrivare a un moménto stabilito pér il ritórno! Addio, casa natìa, dóve, sedèndo, cón un pensièro occulto, sʼimparò a distinguere dal rumóre déʼ passi comuni il rumóre dʼun passo aspettato cón un misterióso timóre. Addio, casa ancóra stranièra, casa sogguardata tante vòlte alla sfuggita, passando, é nón sènza rossóre; nélla quale la ménte si figurava un soggiórno tranquillo é perpètuo di spòša. Addio, chièša, dóve lʼanimo tornò tante vòlte seréno, cantando lé lòdi dél Signóre; dovʼèra promésso, preparato un rito; dóve il sospiro segréto dél cuòre dovéva èssere solenneménte benedétto, é lʼamóre venir comandato, é chiamarsi santo; addio! Chi dava a vói tanta giocondità è pér tutto; é nón turba mai la giòia déʼ suòi figli, sé nón pér prepararne lóro una più cèrta é più grande…. da “I Proméssi spòši” di A. Manζóni 250 IGNAZIO SILÓNE La scélta délla libertà La libertà nón è una còsa ché si pòssa ricévere in regalo…Si può vivere anche in paéše di dittatura éd èssere libero, a una sémplice condizióne, basta lottare cóntro la dittatura. Lʼuòmo ché pènsa cón la pròpria tèsta é consèrva il suo cuòre incorrótto, è libero.Lʼuòmo ché lòtta pér ciò ché égli ritiène giusto, è libero. Pér cóntro, si può vivere nél paéše più democratico délla tèrra, ma sé si è interiorménte pigri, ottuši, servili, nón si è liberi; malgrado lʼassènza di ógni coercizióne violènta, si è schiavi. Quésto è il male, nón bišógna implorare la pròpria libertà dagli altri. La libertà bišógna prèndersela, ognuno la porzióne ché può…. da “Vino é Pane” di I. Silóne 251 252 ARIE LIRICHE ORTOEPICHE 253 254 L’ORTOEPIA NELLA MUSICA Da quando ci occupiamo di ortoepia ci siamo accorti che anche nella musica lirica e nel canto in generale gli effetti di una buona dizione hanno un grande importanza. A prescindere dalle preferenze che ciascun melomane ha per questo o quel cantante, si possono infatti “osservare”, se ci si impegna a farlo come nel caso della poesia, delle differenze molto significative. Ad esempio noi abbiamo imparato ad apprezzare e a provare maggior gioia nellʼascoltare quei cantanti che, a parità (per quanto questo sia possibile) di qualità tecniche e interpretative, hanno una miglior ortoepia. Abbiamo anche notato che i cantanti stranieri, a parte gli immancabili “accenti” dovuti alle caratteristiche della loro lingua originaria, sono a volte in possesso di una dizione che fa intravvedere impegno e studio in senso ortoepico. La ragione di questo è che forse, proprio perché stranieri, hanno cercato o comunque ricevuto lʼaiuto di validi maestri di dizione: cosa della quale non si sono preoccupati in genere i cantanti italiani. Noi siamo convinti che sia una cosa totalmente diversa, tanto per fare un esempio, sentire Enzo iniziare la famosa romanza da “La Gioconda”, con “Cièlo é mar!- lʼetèreo vélo…” , oppure con “Ciélo è mar!-lʼetéreo vèlo…”. Ma forse siamo semplicemente suggestionati da questa nostra idea…, al punto che vi sono dei cantanti, da sempre amati e presenti nella nostra memoria, che ci diventano ogni giorno più cari poiché “rivisti” sotto questo aspetto. Possiamo proprio dire che per noi il parametro “dizione” riesce , ricorrendo a unʼespressione forse troppo usata, a “fare la differenza”. Un altro aspetto interessante è che, riascoltando ora le voci dei grandi cantanti lirici in riferimento a momenti diversi della loro carriera ( che in alcuni casi si è protratta per molti decenni ), si possono cogliere dei cambiamenti, dei miglioramenti legati alla pronuncia; pensiamo che alcuni di essi siano giunti a capire lʼimportanza di una buona dizione al fine di accrescere la qualità e la bellezza del loro canto. Le stesse considerazioni si possono fare anche nel campo della musica leggera, dove vi sono dei brani “immortali” che sono stati, e continuano a esserlo, interpretati da molti cantanti. Chi di noi, in alcuni 255 momenti della giornata, non ha intonato qualche volta “Tu che mi hai preso il cuor…” ? Ebbene, ci sono una sostanziale differenza e una diversa musicalità fra “Tu ché mi hai préso il cuòr…” e “Tu chè mi hai prèšo il cuór…”. Lʼascolto di certi cantanti, oltre che procurarci una gioia in sé, ci ha fatto nascere una speranza. Poiché i brani da loro interpretati sono delle vere e proprie lezioni di ortoepia e un potente mezzo di comunicazione, e poiché i giovani spesso imitano, copiano i loro miti con estrema facilità, forse un domani potremo sentire le nuove generazioni esprimersi con un migliore italiano. 256 257 Norma Qual cor tradisti, qual cor perdesti questʼora orrenda ti manifesti. Da me fuggire tentasti invano; crudel Romano, tu sei con me. Un nume, un fato di te più forte ci vuole uniti in vita e in morte. Sul rogo istesso che mi divora, sotterra ancora sarò con te. Pollione Ah! troppo tardi tʼho conosciuta… sublime donna, io tʼho perduta… Col mio rimorso è amor rinato, più disperato, furente egli è. Moriamo insieme, ah! si, moriamo: lʼestremo accento sarà chʼio tʼamo. Ma tu morendo non mʼaborrire, pria di morire perdona a me. Duetto Norma-Pollione dal 2° atto di “Norma” di V. Bellini. Libretto di Felice Romani. 258 Nòrma Qual còr tradisti, qual còr perdésti quéstʼóra orrènda ti manifèsti. Da mé fuggire tentasti invano; crudèl Romano, tu sèi cón mé. Un nume, un fato di té più fòrte ci vuòle uniti in vita é in mòrte. Sul rógo istésso ché mi divóra, sottèrra ancóra sarò cón té. Pollióne Ah! tròppo tardi tʼhò conosciuta… sublime dònna, io tʼhò perduta… Cól mio rimòrso è amór rinato, più disperato, furènte égli è. Moriamo insième, ah! sì, moriamo: lʼestrèmo accènto sarà chʼio tʼamo. Ma tu morèndo nón mʼaborrire, pria di morire perdóna a mé. Duétto Nòrma-Pollióne dal 2° atto di “Nòrma” di V. Bellini. Librétto di Felice Romani. 259 Arturo A te, o cara, amor talora mi guidò furtivo e in pianto; or mi guida a te dʼaccanto tra la gioia e lʼesultar. Al brillar di sì bellʼora, se rammento il mio tormento si raddoppia il mio contento, mʼè più caro il palpitar. Aria di Arturo dal 1° atto de “I Puritani” di V. Bellini. Libretto di Carlo Pepoli. Elvira Qual mai funerea voce funesta mi scuote e desta dal mio martir! Se fui sì barbara, nel trarlo a morte, mʼavrà consorte nel suo martir!! Arturo Credeasi, misera! da me tradita, traea sua vita in tal martir! Or sfido i fulmini, disprezzo il fato, se teco al lato potrò morir! Duetto Elvira-Arturo dal 3° atto de “I Puritani” di V. Bellini. 260 Arturo A té , ó cara, amór talóra mi guidò furtivo é in pianto; ór mi guida a té dʼaccanto tra la giòia é lʼešultar. Al brillar di sì bèllʼóra, sé ramménto il mio torménto si raddóppia il mio contènto, mʼè più caro il palpitar. Aria di Arturo dal 1° atto dé “I Puritani” di V. Bellini. Librétto di Carlo Pépoli. Elvira Qual mai funèrea vóce funèsta mi scuòte é désta dal mio martir! Sé fui sì barbara, nél trarlo a mòrte, mʼavrà consòrte nél suo martir!! Arturo Credéasi, mišera! da mé tradita, traéa sua vita in tal martir! Ór sfido i fulmini, disprèzzo il fato, sé téco al lato potrò morir! Duétto Elvira-Arturo dal 3° atto dé “I Puritani” di V. Bellini. 261 Edgardo Mʼodi e trema. Sulla tomba che rinserra il tradito genitore, al tuo sangue eterna guerra io giurai nel mio furore: Ma ti vidi…in cor mi nacque altro affetto, e lʼira tacque… Pur quel voto non è infranto… Io potrei compirlo ancor! Lucia Deh! ti placa…deh! ti frena… Può tradirne un solo accento! Non ti basta la mia pena? Vuoi chʼio mora di spavento? Cela, cela ognʼaltro affetto, solo amor tʼinfiammi il petto… Ah! il più nobile, il più santo deʼ tuoi voti è un puro amor! ………………………………… Lucia-Edgardo Verranno a te sullʼaura i miei sospiri ardenti, udrai nel mar che mormora lʼeco deʼ miei lamenti… Pensando chʼio di gemiti mi pasco e di dolor, spargi una mesta lagrima su questo pegno allor! Duetto Lucia-Edgardo dal 1° atto di “ Lucia di Lammermoor” di G. Donizetti. Libretto di Salvatore Cammarano. 262 Edgardo Mʼòdi é trèma. Sulla tómba ché rinsèrra il tradito genitóre, al tuo sangue etèrna guèrra io giurai nél mio furóre: Ma ti vidi…in còr mi nacque altro affètto, é lʼira tacque… Pur quél vóto nón è infranto… Io potrèi compirlo ancór! Lucia Dèh! ti placa…dèh! ti fréna… Può tradirne un sólo accènto! Nón ti basta la mia péna? Vuòi chʼio mòra di spavènto? Céla, céla ognʼaltro affètto, sólo amór tʼinfiammi il pètto… Ah! il più nòbile, il più santo déʼ tuòi vóti è un puro amór! ……………………. Lucia-Edgardo Verranno a té sullʼaura i mièi sospiri ardènti, udrai nél mar ché mórmora lʼèco déʼ mièi laménti… Pensando chʼio di gèmiti mi pasco é di dolór, spargi una mèsta lagrima su quésto pégno allór! Duétto Lucia-Edgardo dal 1° atto di “Lucia di Lammermoor” di G. Donizétti. Libretto di Salvatóre Cammarano. 263 Va pensiero… Va, pensiero, sullʼali dorate: va, ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano trepide e molli lʼaure dolci del suolo natal! Del Giordano le rive saluta, di Sïonne le torri atterrate… Oh, mia patria sì bella e perduta! Oh, membranza sì cara e fatal! Arpa dʼor dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi? Le memorie nel petto riaccendi, ci favella del tempo che fu! O simile di Solima ai fati traggi un suono di crudo lamento, o tʼispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù! Coro dal 3° atto del “Nabucco” di G. Verdi. Libretto di Temistocle Solera. 264 Va pensièro… Va, pensièro, sullʼali dorate: va, ti pòsa sui clivi, sui còlli, óve oléζζano trèpide é mòlli lʼaure dólci dél suòlo natal! Dél Giordano lé rive saluta, di Sïònne lé tórri atterrate… Òh, mia patria sì bèlla é perduta ! Òh, membranza sì cara é fatal ! Arpa dʼòr déi fatidici vati, perché muta dal salice pèndi? Lé memòrie nél pètto riaccèndi, ci favèlla dél tèmpo ché fu! Ó simile di Solima ai fati traggi un suòno di crudo laménto, ó tʼispiri il Signóre un concènto ché né infónda al patire virtù! Còro dal 3° atto dél “Nabucco” di G. Vérdi. Librétto di Temistocle Solèra. 265 Patria oppressa… Patria oppressa! Il dolce nome no, di madre aver non puoi, or che tutta ai figli tuoi sei conversa in un avel. Dʼorfanelli e di piangenti chi lo sposo e chi la prole al venir del nuovo Sole sʼalza un grido e fere il Ciel. A quel grido il Ciel risponde quasi voglia impietosito propagar per lʼinfinito, patria oppressa, il tuo dolor. Suona a morto ognor la squilla, ma nessuno audace è tanto che pur doni un vano pianto a chi soffre e a chi muor. Coro dal 4° atto del “Macbeth” di G. Verdi. Libretto di F.M. Piave. 266 Patria opprèssa… Patria opprèssa! Il dólce nóme nò, di madre avér nón puòi, ór ché tutta ai figli tuòi sèi convèrsa in un avèl. Dʼorfanèlli é di piangènti chi ló spòšo é chi la pròle al venir dél nuòvo Sóle sʼalza un grido é fére il Cièl. A quél grido il Cièl rispónde quaši vòglia impietosito propagar pér lʼinfinito, patria opprèssa, il tuo dolór. Suòna a mòrto ognór la squilla, ma nessuno audace è tanto ché pur dóni un vano pianto a chi sòffre é a chi muòr. Còro dal 4° atto dél “Macbeth” di G. Vérdi. Librétto di F.M. Piave. 267 Cortigiani, vil razza dannata Cortigiani, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il mio bene? A voi nulla per lʼoro sconviene, ma mia figlia è impagabil tesor. La rendete… o, se pur disarmata, questa man per voi fora cruenta; nulla in terra più lʼuomo paventa, se dei figli difende lʼonor. Quella porta, assassini, mʼaprite. Ah! Voi tutti a me contro venite! Ebben, piango, Marullo…signore, tu chʼhai lʼalma gentil come il core, dimmi tu dove lʼhanno nascosta? Eʼ là?…Eʼ vero?…tu taci!…perché?… Miei signori…perdono, pietate… Al vegliardo la figlia ridate… Ridonarla a voi nulla ora costa, tutto il mondo è tal figlia per me. dallʼaria di Rigoletto dal 2° atto di “Rigoletto” di G. Verdi. Libretto di F.M. Piave. 268 Cortigiani, vil razza dannata Cortigiani, vil razza dannata, pér qual prèzzo vendéste il mio bène? A vói nulla pér lʼòro sconviène, ma mia figlia è impagabil tešòr. La rendéte… ó, sé pur dišarmata, quésta man pér vói fòra cruènta; nulla in tèrra più lʼuòmo pavènta, sé déi figli difènde lʼonór. Quélla pòrta, assassini, mʼaprite. Ah! Vói tutti a mé cóntro venite! Ebbèn, piango, Marullo…signóre, tu chʼhai lʼalma gentil cóme il còre, dimmi tu dóve lʼhanno nascósta? È là?…È véro?…tu taci!…perché?… Mièi signóri…perdóno, pietate… Al vegliardo la figlia ridate… Ridonarla a vói nulla óra còsta, tutto il móndo è tal figlia pér mé. dallʼaria di Rigolétto dal 2° atto di “Rigolétto” di G. Vérdi. Librétto di F.M. Piave. 269 Tutte le feste al tempio Gilda ( Ciel! Dammi coraggio! ) Tutte le feste al tempio mentre pregava Iddio bello e fatale un giovane sʼofferse al guardo mio… Se i labbri nostri tacquero dagli occhi il cor parlò. Furtivo fra le tenebre solo ieri a me giungeva… Sono studente, povero, commosso, mi diceva, e con ardente palpito amor mi protestò. Partì…. il mio core aprivasi a speme più gradita, quando improvvisi apparvero color che mʼhan rapita, e a forza qui mʼaddussero nellʼansia più crudel. Rigoletto ( Solo per me lʼinfamia a te chiedeva, o Dio… Chʼella potesse ascendere quanto caduto erʼio…. Ah, presso del patibolo bisogna ben lʼaltare! Ma tutto ora scompare lʼaltar si rovesciò! ) Piangi, fanciulla, e scorrere fa il pianto sul mio cor. Scena sesta del 2° atto di “Rigoletto” di G. Verdi. Libretto di F.M. Piave. 270 Tutte lé fèste al tèmpio Gilda ( Cièl! Dammi coraggio! ) Tutte lé fèste al tèmpio méntre pregava Iddio bèllo é fatale un gióvane sʼoffèrse al guardo mio… Sé i labbri nòstri tacquero dagli òcchi il còr parlò. Furtivo fra lé tènebre sólo ièri a mé giungéva… Sóno studènte, pòvero, commòsso, mi dicéva, é cón ardènte palpito amór mi protestò. Partì…. il mio còre aprivasi a spème più gradita, quando improvviši apparvero colór ché mʼhan rapita, é a fòrza qui mʼaddussero nellʼansia più crudèl. Rigolétto ( Sólo pér mé lʼinfamia a té chiedéva, ó Dio… Chʼélla potésse ascéndere quanto caduto erʼio…. Ah, prèsso dél patibolo bišógna bèn lʼaltare! Ma tutto óra scompare lʼaltar si rovesciò! ) Piangi, fanciulla, é scórrere fa il pianto sul mio còr. Scèna sèsta dél 2° atto di “Rigolétto” di G. Vérdi. Librétto di F.M. Piave. 271 Tacea la notte placida… Tacea la notte placida e bella in ciel sereno la luna il viso argenteo mostrava lieto e pieno… Quando suonar per lʼaere, infino allor sì muto, dolci sʼudiro e flebili gli accordi dʼun lïuto, e versi melanconici un Trovator cantò. Versi di prece ed umile qual dʼuom che prega Iddio in quella ripeteasi un nome….il nome mio!… Corsi al veron sollecita…. Egli era! egli era desso!… Gioia provai che agli angeli solo è provar concesso!…. Al core, al guardo estatico la terra un ciel sembrò. Aria di Leonora dal 1° atto de “Il Trovatore” di G.Verdi. Librétto di Salvatore Cammarano. 272 Tacéa la nòtte placida… Tacéa la nòtte placida é bèlla in cièl seréno la luna il višo argènteo mostrava lièto é pièno… Quando suonar pér lʼaere, infino allór sì muto, dólci sʼudiro é flèbili gli accòrdi dʼun lïuto, é vèrsi melancònici un Trovatór cantò. Vèrsi di prèce éd umile qual dʼuòm ché prèga Iddio in quélla ripetéasi un nóme….il nóme mio!… Córsi al verón sollècita…. Égli èra! égli èra désso!… Giòia provai ché agli angeli sólo è provar concèsso!…. Al còre, al guardo estatico la tèrra un cièl sembrò. Aria di Leonòra dal 1° atto dé “ Il Trovatóre” di G.Vérdi. Librétto di Salvatóre Cammarano. 273 Libiam neʼ lieti calici… Alfredo Libiam neʼ lieti calici che la bellezza infiora, e la fuggevol ora sʼinebri a voluttà. Libiam nei dolci fremiti che suscita lʼamore, poiché quellʼocchio al core onnipotente va. Libiamo, amor fra i calici più caldi baci avrà. Violetta Tra voi saprò dividere il tempo mio giocondo; tutto è follia nel mondo ciò che non è piacer. Godiam, fugace e rapido è il gaudio dellʼamore. Eʼ un fior che nasce e muore, né più si può goder. Godiam….cʼinvita un fervido accento lusinghier. Duetto dal 1° atto di “La Traviata” di G. Verdi. Librétto di F. M. Piave. 274 Libiam néʼ lièti calici… Alfrédo Libiam néʼ lièti calici ché la bellézza infióra, é la fuggévol óra sʼinèbri a voluttà. Libiam néi dólci frèmiti ché suscita lʼamóre, poiché quéllʼòcchio al còre onnipotènte va. Libiamo, amór fra i calici più caldi baci avrà. Violétta Tra vói saprò dividere il tèmpo mio giocóndo; tutto è follia nél móndo ciò ché nón è piacér. Godiam, fugace é rapido è il gaudio déllʼamóre. È un fiór ché nasce é muòre, né più si può godér. Godiam….cʼinvita un fèrvido accènto lušinghièr. Duétto dal 1° atto di “La Traviata” di G. Vérdi. Librétto di F. M. Piave. 275 Celeste Aida Se quel guerrier io fossi! Se il mio sogno si avverasse!….Un esercito di prodi da me guidato… e la vittoria - e il plauso di Menfi tutta! – E a te, mia dolce Aida, tornar di lauri cinto…. Dirti: per te ho pugnato e per te ho vinto! Celeste Aida, forma divina, mistico serto di luce e fior; del mio pensiero tu sei regina, tu di mia vita sei lo splendor. Il tuo bel cielo vorrei ridarti, le dolci brezze del patrio suol, un regal serto sul crin posarti, ergerti un trono vicino al sol. Aria di Radames dal 1° atto di “Aida” di G.Verdi. Libretto di Antonio Ghislanzoni. 276 Celèste Aida Sé quél guerrièr io fóssi! Sé il mio sógno si avverasse!….Un ešercito di pròdi da mé guidato… é la vittòria - é il plaušo di Mènfi tutta! – É a té, mia dólce Aida, tornar di lauri cinto…. Dirti: pér té ho pugnato é pér té hò vinto! Celèste Aida, fórma divina, mistico sèrto di luce é fiór; dél mio pensièro tu sèi regina, tu di mia vita sèi ló splendór. Il tuo bèl cièlo vorrèi ridarti, lé dólci bréζζe dél patrio suòl, un regal sèrto sul crin posarti, èrgerti un tròno vicino al sól. Aria di Radames dal 1° atto di “Aida” di G.Vérdi. Librétto di Antònio Ghislanzóni. 277 Ella giammai mʼamò Ella giammai mʼamò!…No, quel cor chiuso è a me, amor per me non ha!… Io la rivedo ancor contemplar triste in volto il mio crin bianco il dì che qui di Francia venne. No, amor per me non ha!… Ove son?…Quei doppier presso a finir!…Lʼaurora imbianca il mio veron! Già spunta il dì! Passar veggo i miei giorni lenti! Il sonno, o Dio! sparì daʼ miei occhi languenti! Dormirò sol nel manto mio regal quando la mia giornata è giunta a sera; dormirò sol sotto la volta nera là, nellʼ avello dellʼEscurïal. Se il serto regal a me desse il potere di leggere nei cor, che Dio può sol veder!… Se dorme il prence, veglia il traditore; il serto perde il Re, il consorte lʼonore! Dormirò sol nel manto mio regal quando la mia giornata è giunta a sera, dormirò sol sotto la volta nera là nellʼavello dellʼEscurïal. Aria di Filippo dal 3° atto, scena prima, del “Don Carlo” di G. Verdi. Versione del 1884. Revisione del libretto di Angelo Zanardini. 278 Élla giammai mʼamò Élla giammai mʼamò!… Nò, quél còr chiuso è a mé, amór pér mé nón ha!… Io la rivédo ancór contemplar triste in vólto il mio crin bianco il dì ché qui di Francia vénne. Nò, amór pér mé nón ha!… Óve són?…Quéi doppièr prèsso a finir!…Lʼauròra imbianca il mio verón! Già spunta il dì! Passar véggo i mièi giórni lènti! Il sónno, ó Dio! sparì daʼ mièi òcchi languènti! Dormirò sól nél manto mio regal quando la mia giornata è giunta a séra; dormirò sól sótto la vòlta néra là, nellʼ avèllo déllʼEscurial. Sé il sèrto regal a mé désse il potére di lèggere néi còr, ché Dio può sól vedér!… Sé dòrme il prènce, véglia il traditóre; il sèrto pèrde il Ré, il consòrte lʼonóre! Dormirò sól nél manto mio regal quando la mia giornata è giunta a séra, dormirò sól sótto la vòlta néra là nellʼavèllo déllʼEscurïal. Aria di Filippo dal 3° atto, scèna prima, del “Dòn Carlo” di G. Vérdi. Versióne dél 1884. Revisióne dél librétto di Angelo Zanardini. 279 O don fatale, o don crudel O don fatale, o don crudel che in suo furor mi fece il cielo! Tu che ci fai sì vane, altere, ti maledico, o mia beltà. Versar, versar sol posso il pianto, speme non ha, soffrir dovrò; il mio delitto è orribil tanto che cancellar mai non potrò! O mia Regina, io tʼimmolai al folle error di questo cor. Solo in un chiostro al mondo ormai dovrò celar il mio dolor! Oh ciel! E Carlo! a morte domani andar vedrò!… Ah! un dì mi resta, la speme mʼarride. Sia benedetto il ciel! Lo salverò! Aria di Eboli dal 3° atto di “Don Carlo” di G. Verdi. 280 Ó dón fatale, ó dón crudèl Ó dón fatale, ó dón crudèl ché in suo furór mi féce il cièlo! Tu ché ci fai sì vane, altère, ti maledico, ó mia beltà. Versar, versar sól pòsso il pianto, spème nón ha, soffrir dovrò; il mio delitto è orribil tanto ché cancellar mai nón potrò! Ó mia Regina, io tʼimmolai al fòlle errór di quésto còr. Sólo in un chiòstro al móndo ormai dovrò celar il mio dolór! Òh cièl! É Carlo! a mòrte domani andar vedrò!… Ah! un dì mi rèsta, la spème mʼarride. Sia benedétto il cièl! Ló salverò! Aria di Èboli dal 3° atto di “Dòn Carlo” di G. Vérdi. 281 Cielo e mar Cielo e mar!-lʼetereo velo splende come un santo altare. Lʼangiol mio verrà dal cielo?! Lʼangiol mio verrà dal mare?! Qui lʼattendo, ardente spira oggi il vento dellʼamor. Quel mortal che vi sospira vi conquide, o sogni dʼor! Cielo e mar!-per lʼaura fonda non appar né suol, né monte, lʼorizzonte bacia lʼonda, lʼonda bacia lʼorizzonte! Qui nellʼombra ovʼio mi giacio collʼanelito del cor, vieni, o donna, vieni al bacio della vita incantator. dallʼaria di Enzo dal 2° atto di “La Gioconda” di A.Ponchielli. Libretto di Tobia Gorrio. 282 Cièlo é mar Cièlo é mar!-lʼetèreo vélo splènde cóme un santo altare. Lʼangiol mio verrà dal cièlo?! Lʼangiol mio verrà dal mare?! Qui lʼattèndo, ardènte spira òggi il vènto déllʼamór. Quél mortal ché vi sospira vi conquide, ó sógni dʼòr! Cièlo é mar!-pér lʼaura fónda nón appar né suòl, né mónte, lʼorizzónte bacia lʼónda, lʼónda bacia lʼoriζζónte! Qui néllʼómbra óvʼio mi giacio cóllʼanèlito dél còr, vièni, ó dònna, vièni al bacio délla vita incantatór. dallʼaria di Ènzo dal 2° atto di “La Giocónda” di A.Ponchièlli. Librétto di Tobia Gorrio. 283 Che gelida manina Che gelida manina! se la lasci riscaldar. Cercar che giova? Al buio non si trova. Ma per fortuna è una notte di luna, e qui la luna lʼabbiamo vicina. Aspetti, signorina, le dirò con due parole chi son, che faccio e come vivo. Vuole? Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo. In povertà mia lieta scialo da gran signore rime ed inni dʼamore. Per sogni, per chimere e per castelli in aria lʼanima ho milionaria. Talor dal mio forziere ruban tutti i gioielli due ladri: gli occhi belli. Vʼentrar con voi pur ora, ed i miei sogni usati tosto son dileguati. Ma il furto non mʼaccora, poiché vi ha preso stanza la dolce speranza! Or che mi conoscete, parlate voi. Chi siete? Vi piaccia dir? Aria di Rodolfo dal duetto del 1° atto de “La Bohème” di G. Puccini. Libretto di L. Illica e G. Giacosa. 284 Ché gèlida manina Ché gèlida manina! sé la lasci riscaldar. Cercar ché giòva? Al buio nón si tròva. Ma pér fortuna è una nòtte di luna, é qui la luna lʼabbiamo vicina. Aspètti, signorina, lé dirò cón due paròle chi són, che faccio é cóme vivo. Vuòle? Chi són? Sóno un poèta. Ché còsa faccio? Scrivo. É cóme vivo? Vivo. In povertà mia lièta scialo da gran signóre rime éd inni dʼamóre. Pér sógni, pér chimère é pér castèlli in aria lʼanima hò milionaria. Talór dal mio forzière ruban tutti i gioièlli due ladri: gli òcchi bèlli. Vʼentrar cón vói pur óra, éd i mièi sógni ušati tòsto són dileguati. Ma il furto nón mʼaccòra, poiché vi ha préso stanza la dólce speranza! Ór ché mi conoscéte, parlate vói. Chi siète? Vi piaccia dir? Aria di Rodòlfo dal duétto del 1° atto dé “La Bohème” di G. Puccini. Librétto di L. Illica é G. Giacòsa. 285 Sì. Mi chiamano Mimì Sì. Mi chiamano Mimì, ma il mio nome è Lucia. La storia mia è breve. A tela o a seta ricamo in casa e fuori… Son tranquilla e lieta ed è mio svago far gigli e rose. Mi piaccion quelle cose che han sì dolce malìa, che parlano dʼamor, di primavere, di sogni e di chimere, quelle cose che han nome poesia… lei mʼintende? … Mi chiamano Mimì, il perché non so. Sola, mi fo il pranzo da me stessa. Non vado sempre a Messa, ma prego assai il Signore. Vivo sola, soletta là in una bianca cameretta: guardo sui tetti e in cielo; ma quando vien lo sgelo il primo sole è mio il primo bacio dellʼaprile è mio! Germoglia in un vaso una rosa… foglia a foglia la spio! Così gentile il profumo dʼun fiore! Ma i fior chʼio faccio, ahimé! non hanno odore. Altro di me non le saprei narrare. Sono la sua vicina che la vien fuori dʼora a importunare. Aria di Mimì dal duetto del 1° atto de “ La Bohème” di G. Puccini. Libretto di L. Illica e G. Giacosa. 286 Sì. Mi chiamano Mimì Sì. Mi chiamano Mimì, ma il mio nóme è Lucia. La stòria mia è brève. A téla ó a séta ricamo in casa é fuòri… Són tranquilla é lièta éd è mio svago far gigli é ròše. Mi piaccion quélle còse ché han sì dólce malìa, ché parlano dʼamór, di primavère, di sógni é di chimère, quélle còse ché han nóme poešia… lèi mʼintènde? … Mi chiamano Mimì, il perché nón sò. Sóla, mi fò il pranζo da mé stéssa. Nón vado sèmpre a Méssa, ma prègo assai il Signóre. Vivo sóla, solétta là in una bianca camerétta: guardo sui tétti é in cièlo; ma quando vièn ló sgèlo il primo sóle è mio il primo bacio déllʼaprile è mio! Germóglia in un vašo una ròša… fòglia a fòglia la spio! Così gentile il profumo dʼun fióre! Ma i fiór chʼio faccio, ahimé! nón hanno odóre. Altro di mé nón lé saprèi narrare. Sóno la sua vicina ché la vièn fuòri dʼóra a importunare. Aria di Mimì dal duétto dél 1° atto dé “ La Bohème” di G. Puccini. Librétto di L. Illica é G. Giacòsa. 287 Recondita armonia Recondita armonia di bellezze diverse!…Eʼ bruna Floria, lʼardente amante mia, e te, beltade ignota, cinta di chiome bionde! Tu azzurro hai lʼocchio, Tosca ha lʼocchio nero! Lʼarte nel suo mistero le diverse bellezze insiem confonde: ma nel ritrar costei il mio solo pensiero, Tosca, tu sei! …………………………………… Qual occhio al mondo Qual occhio al mondo può star di paro allʼardente occhio tuo nero? Eʼ qui che lʼesser mio sʼaffisa intero. Occhio allʼamor soave, allʼira fiero, qual altro al mondo può star di paro, allʼocchio tuo nero? Arie di Cavaradossi dal 1° atto di “Tosca”di G. Puccini. Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa. 288 Recòndita armonia Recòndita armonia di bellézze divèrse!…È bruna Flòria, lʼardènte amante mia, é té, beltade ignòta, cinta di chiòme biónde! Tu aζζurro hai lʼòcchio, Tósca ha lʼòcchio néro! Lʼarte nél suo mistèro lé divèrse bellézze insièm confónde: ma nél ritrar costèi il mio sólo pensièro, Tósca, tu sèi! …………………………………… Qual òcchio al móndo Qual òcchio al móndo può star di paro allʼardènte òcchio tuo néro? È qui ché lʼèsser mio sʼaffiša intèro. Òcchio allʼamór soave, allʼira fièro, qual altro al móndo può star di paro, allʼòcchio tuo néro? Arie di Cavaradòssi dal 1° atto di “Tósca”di G. Puccini. Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa. 289 Vissi dʼarte Vissi dʼarte, vissi dʼamore, non feci mai male ad anima viva! Con man furtiva quante miserie conobbi, aiutai. Sempre con feʼ sincera la mia preghiera ai santi tabernacoli salì, sempre con feʼ sincera diedi fiori agli altar. Nellʼora del dolore perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così? Diedi gioielli della Madonna al manto, e diedi il canto agli astri, al ciel, che ne ridean più belli. Nellʼora del dolor perché, perché, Signor, perché me ne remuneri così? Aria di Tosca dal 2° atto di “Tosca” di G. Puccini. Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa. 290 Vissi dʼarte Vissi dʼarte, vissi dʼamóre, nón féci mai male ad anima viva! Cón man furtiva quante mišèrie conóbbi, aiutai. Sèmpre cón féʼ sincèra la mia preghièra ai santi tabernacoli salì, sèmpre cón féʼ sincèra dièdi fióri agli altar. Néllʼóra dél dolóre perché, perché Signóre, perché mé né rimuneri così? Dièdi gioièlli délla Madònna al manto, é dièdi il canto agli astri, al cièl, ché né ridéan più bèlli. Néllʼóra dél dolór perché, perché, Signór, perché mé né remuneri così? Aria di Tósca dal 2° atto di “Tósca” di G. Puccini. Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa. 291 E lucean le stelle E lucean le stelle…e olezzava la terra… stridea lʼuscio dellʼorto… e un passo sfiorava la rena. Entrava ella fragrante, mi cadea tra le braccia. Oh! dolci baci , o languide carezze, mentrʼio fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio dʼamore… Lʼora è fuggita e muoio disperato!… E non ho amato mai tanto la vita! Aria di Cavaradossi dal 3° atto di “Tosca” di G. Puccini. Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa. Nessun dorma Nessun dorma!…Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza guardi le stelle che tremano dʼamore e di speranza. Ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà! Solo quando la luce splenderà, su la tua bocca lo dirò, fremente!… Ed il mio bacio scioglierà il silenzio che ti fa mia!…………. Dilegua, o notte!… Tramontate, o stelle…! Allʼalba vincerò!….. dallʼaria di Calaf dal 3° atto di “Turandot” di G. Puccini. Libretto di G. Adami e R. Simoni. 292 É lucéan lé stélle É lucéan lé stélle…é oléζζava la tèrra… stridéa lʼuscio déllʼòrto… é un passo sfiorava la réna. Entrava élla fragrante, mi cadéa tra lé braccia. Òh! dólci baci , ó languide carézze, méntrʼio fremènte lé bèlle fórme disciogliéa dai véli! Svanì pér sèmpre il sógno mio dʼamóre… Lʼóra è fuggita é muòio disperato!… É nón hò amato mai tanto la vita! Aria di Cavaradòssi dal 3° atto di “Tósca” di G. Puccini. Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa. Nessun dòrma Nessun dòrma!…Tu pure, ó Principéssa, nélla tua frédda stanza guardi lé stélle ché trèmano dʼamóre é di speranza. Ma il mio mistèro è chiuso in mé, il nóme mio nessun saprà! Sólo quando la luce splenderà, su la tua bocca ló dirò, fremènte!… Éd il mio bacio scioglierà il silènzio ché ti fa mia!……….. Dilégua, ó nòtte!…. Tramontate, ó stélle!…. Allʼalba vincerò!…. dallʼaria di Calaf dal 3° atto di “Turandòt” di G. Puccini. Librétto di G. Adami é R. Simóni. 293 294 295 296 297 298 299 Finito di stampare nel mese di Novembre 2003 per conto della MAGEMA Edizioni Eventi Pubblicità Via Garibaldi, 99 – 17043 CARCARE (SV) tel. e fax 019.510032 e-mail: [email protected] Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con sistemi elettronici, meccanici o altri senza lʼautorizzazione scritta dellʼEditore. Impaginazione e grafica: Claudio Zaccagnino - Genova Stampa: Basegrafica snc - Peveragno (CN) 300