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Noemi e le sue scritture: frammenti di riflessioni di Emma
Baeri
Catania 22 ottobre 2013, Libreria Prampolini
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Ho letto più volte questo libro, e ogni volta ho sentito un suono
diverso.
Questo libro sembra piccolino ma non lo è: è il riassunto
ambizioso, e sottilmente divertito, di un grande libro; ha la pretesa
di durare a lungo, di generare pensieri imprevisti, e ha un respiro
che a volte mi ha lasciata senza fiato, la bocca piena del succo
dolce della poesia.
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Esso sprigiona – letteralmente “libera” – una voce, molte voci: la
voce della nostra Noemi nelle sue metamorfosi, di corpi, di toni,
di ritmo, di musica.
Perché qui Noemi è, al contempo, narratrice e personaggia (questo
neologismo è stato inventato dalla Società Italiana delle Letterate,
di cui Pina Mandolfo è appassionata e infaticabile socia:
dobbiamo abituarci a questi stridori linguistici, che accompagnano
inevitabilmente la critica femminista dei modelli ereditati), una
personaggia che si nasconde – ma neanche tanto – dietro tutte le
personagge e i personaggi della storia.
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Noemi scrive di teatro, fa teatro.
Teatro, suo primo amore, e uno degli amori di Noemi, come
questo libro racconta.
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A questo punto una parentesi. Quando conosco Noemi?
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E’ il 1978, anno cruciale nella storia politica italiana ( legge 194,
assassinio di Aldo Moro…): dal Collettivo di autocoscienza
“Differenza Donna”, nell’incontro con alcune altre, nasce il
Gruppo Teatro Immagine (Rosalba Piazza, Anna Vio, Sara
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Cabibbo, Zina Bianca, del Collettivo; Noemi Saggioli, Rita Gari,
Marilena Modica, le altre).
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Nel 1979 questo gruppo eterogeneo mette in scena Aporie, una
prima, importante, sperimentazione di contaminazione culturale,
espressiva, politica nell’accezione che noi davamo a questa parola
( il personale è politico)
Erano quegli gli anni in cui il passaggio dalla etero
rappresentazione del femminile – la tradizione culturale ereditata
– all’autorappresentazione delle donne è un passaggio necessario,
urgente.
In Aporie la contaminazione muove dalla Preistoria ( la nascita
dell’agricoltura), attraversa il mito ( Medea), le fiabe (la Sirenetta)
e approda al femminismo utilizzando un testo difficile, Speculum
di Luce Irigaray, la prima voce del futuro Pensiero della
Differenza.
Quelle scene – a volte parlate, a volte mute, a volte quasi danzate
– rappresentavano la diacronia della forza delle donne, che
attraversa la storia e si misura con i modelli di genere imposti dal
patriarcato, fino alla liberazione.
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Nei testi di Noemi di cui oggi discutiamo molte assonanze ho
trovato con questa radice: sarà Noemi a dirci se ho sentito bene.
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Passano gli anni: novembre 1986, studio di Noemi in via Asmara,
riunione del Gruppo del Venerdì:
“Canto l’incanto del disincanto…”: una risata di Noemi manda in
briciole i miei giochi di parole da intellettuale un po’ decadente, a
dispetto del femminismo ( e quella risata mi risuona ancora in
mente quando esagero col gioco di parole…).
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Questo episodio mi è venuto alla mente leggendo Mare di marea.
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In questo libro quella frase finisce prima, qui c’è solo il canto e
l’incanto, non c’è disincanto, e se giochi di parole ci sono essi
appartengono non al registro decadente ma a quello classico,
epico, appartengono al pathos, alla passione.
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Come non pensare alla formazione classica della nostra Noemi,
alla sua lunga dimestichezza – come insegnante e come studiosa –
dei grandi testi dei Grandi Padri?
Questa formazione parla nelle parole, nel lessico, ricco di
risonanze epiche, e nella cercata, voluta, modernità di queste
risonanze, nella musica delle frasi infine, che a volte sembrano
provenire da un teatro greco . Una lingua fuori dal tempo, fuori da
un tempo, fuori tempo, forse: “Dio mi ha colma di amarezza…mi
avesse colma di allegrezza” …”tornava dal borro…Cantavi con
gli accordi di una fisarmonica…
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Parole che raccontano una vita sospesa, mobile tra poesia e storia,
tra ieri e oggi, una vita come brezza di mare che gonfia le vele e
come “mare di marea”, che testardamente la nostra Noemi, esperta
marinaia e brava insegnante, sfrutta per spingere la grande storia
nelle storie delle donne, e viceversa, le storie di donne, grandi in
modo differente, normalmente esemplari, nella grande storia.
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Noemi, la nostra Noemi , è una donna coraggiosa, colta, ma
fortemente sospetta di femminismo; quindi entra in quella
tradizione, ne gode, l’attraversa, ma la disordina anche, come
vedremo.
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Noemi racconta, si racconta, ci racconta, con un sentimento del
tempo che tutto disordina e ricompone in nuova forma ( nuova
forma, non nuovo ordine).
Esprime, senza dirlo a voce alta, quella singolare esperienza di un
soggetto imprevisto, che è stata la grande rivoluzione del XX
secolo, il femminismo.
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L’esperienza, in breve, è questa: una donna avvia un corpo a
corpo con se stessa e con l’eredità culturale per sgusciare il suo
desiderio di esistenza, e si trova in questa ricerca anche trovando
antenate che la rendono orgogliosa di essere donna e sente
gratitudine verso di loro, pur consapevole che l’intervallo di
tempo tra loro e noi fa una parte della differenza, ma non tutta.
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Già, il tempo…Il tempo è il primo attore in questo libro.
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L’intreccio tra ieri e oggi, le schegge di una storia del tempo
presente che trafiggono una storia arcaica, è qui raccontato
attraverso la relazione tra due donne di cui l’autobiografia e
l’autocoscienza della nostra Noemi definiscono il percorso,
mentre altre donne le stanno accanto, a variabile distanza: un
imprevisto, nella storia cosiddetta generale.
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Il tempo della storia, così come alcuni illustri storici lo hanno
definito, viene qui scompaginato: tempo breve dell’avvenimento,
tempo medio, lunga durata si mescolano in un passato solo
apparentemente arcaico, che continua nel presente, che a sua volta
se ne avvale per disegnare un’utopia nuova, oggi, qui.
Per quel tanto o per quel poco che ho frequentato la storia, grazie
Noemi, sorella di trasgressione.
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Qual è dunque questo singolare sentimento del tempo e cosa lega
le donne attraverso il tempo? Forse tutte lo sentiamo prima ancora
di saperlo.
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Nella vicenda di Rut e Noemi e nello sguardo della narratrice,
questa signoria del tempo, questa diacronia di una relazione tra
donne è fortemente segnata dalla maternità e da un materno
“sorgivo”, non ancora “di genere”, che attraversa la storia:
l’incontro tra Rut e Noemi avviene non a caso sulla scena del
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parto di Rut e il “gioco a mamma e figlia” continuerà per tutto il
racconto: chi è madre di chi, chi è figlia di chi?
Il continuum materno, la rilettura femminista dell’eredità
patriarcale, comincia mille e mille anni addietro: “ Mi sgravai del
peso e ci sorridemmo in volto, entrambe sgravate” (p. 16).
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L’incontro tra Noemi e Rut avviene quindi attorno alla nascita, su
quel confine dell’esperienza umana/animale che guarda i crateri
gemelli della vita e della morte.
Un confine che le donne presidiano, che gli uomini hanno
progressivamente cercato di occupare, ma resistere su questo
confine è gesto creativo, politico.
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Tuttavia, non è solo la maternità carnale a fare questa storia
differente. E’ quello che da questa realtà o potenzialità scaturisce
in tutte le donne, in quasi tutte almeno: lo sguardo attento
sull’altra, sull’altro, un’attitudine a stabilire relazioni vitali, la
tessitura di una trama che sorregge la storia: una questione
squisitamente culturale, civile, politica.
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Procedo e non è semplice.
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Qui non c’è memoria di un passato finito, c’è un presente continuo
in cui la relazione madre-figlia è sistematicamente ridefinita come
desiderio tra due donne, entrambe madri, entrambe figlie,
entrambe sorelle.
Nessun ordine patriarcale può fissarle in un ruolo rassicurante:
esse incarnano il libero gioco del desiderio, sono quello che di
volta in volta esse scelgono di essere, anche nell’apparente
rispetto della tradizione.
Vivono sempre sul crinale di una esperienza estrema, trasgressiva,
mossa da una passione di sé inesausta: sono donne autentiche, nel
senso che intendeva Carla Lonzi, sono in continua ricerca del
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proprio desiderio e in sua prossimità, sempre pronte a fare un
passo oltre l’ordine simbolico del padre, come vedremo.
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Solo attraverso questo continuo apprendistato di sé l’attrito tra
arcaico e contemporaneo, che è spesso dolore del tempo trascorso,
e ansia del tempo a venire, diventa energia, la risorsa vitale di una
sensibilità intelligente, per sé e per le altre, gli altri: di questo sono
grata a Noemi.
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Torno al racconto, che non percorre le strade del canone letterario,
ma lo disordina di continuo, lo attraversa, lo acciuffa e lo molla.
E ciò avviene perché la scelta espressiva di Noemi è in fondo la
poesia, e la poesia – sappiamo – prevede licenze, disordina e
ricompone la grammatica, intreccia tempo storico e tempo
interiore, va a vele spiegate.
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(Vela, mare, orizzonte: altre parole chiave della poetica di Noemi,
così aderente alla sua vita da non poterle distinguere: torneranno).
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Noemi è una migrante, fugge dalla Palestina per la carestia, e
subito la storia è storia del presente.
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L’incontro tra Noemi e Rut non avviene quindi in un passato
remoto, compiuto, è in continuo transito verso il presente,
incorporato letteralmente nella relazione tra l’Amabile Maestra e
Veronica.
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Il libro è fatto di continue irruzioni: a pagina 16 il presente
irrompe con una forza arcaica, quasi esemplare: nascita e morte
insieme, il continuum di cui dicevo (20 agosto-6 settembre 1965.
Ospedale di maternità).
E subito dopo, a pagina 17, il passato irrompe sul presente
attraverso un repentino mutamento dello sguardo: dallo sguardo
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fuori di sé allo sguardo dentro di sé, dall’oggetto al soggetto:
Noemi piange la morte del marito e del primogenito.
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Poi una frase d’intermezzo sembra espandere alla natura quel
continuum (“la campagna, costellata di aride stoppie, aveva finito
di partorire tutti i frutti del suo ventre ed aspettava immota la
vecchiaia dell’autunno”: come le donne, una volta, ora non più,
ora non aspettiamo, viviamo)
E’ un’immagine mesta, in cui il lutto della campagna anticipa un
lutto civile, la retata nazista a Castelnovo de’ Sabbioni, il 4 luglio
1944.
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Come stupirci se una pagina dopo, Noemi irrompe dal tempo
biblico, con un urlo che è quasi una bestemmia?
L’attrito è potente.
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La crasi del tempo storico rimbomba – questo sento.
Noemi dice, pensando alla morte ingiusta di un uomo giusto, il
proprio marito “ Le pareti di un tempio sono sempre state per me
argini all’infinita presenza di Dio. Dio era oltre, nel mare immenso
del mio desiderio di Lui” (p.19): oltre, oltrepassamento, già
promessa di una trasgressione che non prevede ritorno…..
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Desiderio deluso perchè Noemi così continua:
“Nulla più chiesi a quel Dio cieco e sordo, padre senza amore di
figli orfani, sempre da Lui illusi di un premio vago e lontano dopo
la morte, mentre quaggiù distribuisce dolore a piene mani,
genitore crudele di figli impastati nel fango”: dolore per il marito
morto e/o furia civile per i massacri nazisti?
Qual è il tempo di questo dolore, di questa furia?...”Eppure
continuavo a cercarlo…”
Noemi lo cerca ovunque e non lo vede questo Dio, non lo sente
non lo trova….
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”E lo trovai, finalmente, Rut amica mia, nella tenerezza del tuo
amore…: la trasgressione è compiuta, in un amore puro, assoluto,
quasi blasfemo: Dio è umanissima incarnazione nell’amore tra due
donne ( e lo sguardo di Noemi su Rut che dorme ha le luci e le
ombre – e la purezza laica, mi vien da dire – di una Natività
notturna, rinascimentale).
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Poi, Noemi dice: “Bisognava che accadesse qualcosa”…. e Rut, di
rimando: “Difatti qualcosa accadde”
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Tra queste due frasi il mare prima, poi il paesaggio etneo
irrompono.
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Una tregua che consente alla memoria dell’infanzia di depositarsi
con tenerezza nelle lettere dell’Amabile Maestra a Veronica: la
Stazione ferroviaria, il padre ferroviere, la leva dello scambio da
cui tutto dipendeva, il piacere e gli incubi dei treni perduti, delle
direzioni sbagliate ( “sempre mi sveglio con la consapevolezza
che così possa avvenire la morte”…e più avanti l’aforismo
folgorante “non si muore del tutto finché qualcuno si ricorda del
nostro odore!”); ma prima, Anna Karenina e la divagazione sulla
differenza tra “amato” – compiuto, fisso nell’eternità del tempo –
e “amante”, che vive nella precarietà del tempo; ma dopo, “le
nuvole nelle giornate ventose”, le loro metamorfosi
nell’immaginario infantile: “Da grande avrei scoperto di essere un
tipo aereo”, immaginare sempre tra le nuvole “la libertà
dall’immensa paura nera”
Paura nera che la poesia, la poesia sola sa scacciare
Poi, la svolta.
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La scelta di Noemi di far sposare Rut a un parente del marito, Boz,
è una scelta eroica, è l’obbedienza alla legge dei padri.
Ma questo sacrificio è anticipato e seguito dall’incalzare della
poesia, poesia amorosa, spudorata, come se il pagamento
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dell’obolo patriarcale avesse esaurito il tempo del dovere e aperto
il tempo del desiderio.
C’è qui un andirivieni emotivo, il tormento e la speranza di
Noemi…l’utopia di un mondo comune delle donne…
l’ineluttabilità della resa alla legge dei padri.
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Ma, subito, il controcanto del presente: Veronica sceglierà di
vivere lontana dall’Amabile Maestra, ma la passione di Rut e
Noemi non si è persa nei meandri della storia: l’ordine patriarcale
è infranto per sempre.
Veronica costruirà una famiglia diversa, felice, una famiglia fatta
da due donne con due figli, e da due padri affettuosi e civili in
un’altra casa.
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Siamo alla fine, e diverse saranno le conclusioni delle due storie:
La Noemi biblica si allontana su un veliero, e scompare
all’orizzonte.
L’Amabile Maestra, dopo una delle sue navigazioni solitarie – che
avrebbe potuto essere l’ultima – torna, ma umanamente dubbiosa
di questa scelta.
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Il mare, immensa parola chiave di questo libro, seduzione e
rischio, apre e chiude diversamente le storie.
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Alla necessità biblica si oppone la possibilità della storia…al
destino la scelta…per fortuna…
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Il monologo di Ismene , scritto prima della Mirabile storia, chiude
il volume non a caso, con la felicità di Demetra e Kore ritrovate,
finalmente e per sempre insieme:
MADRE-MARE, è il grido finale, che chiude e apre un nuovo
mondo.
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Riconciliatasi con l’origine, ristabilito il legame vitale tra madre e
figlia, avviene l’ultima metamorfosi: la solitudine di Ismene, sola
pur nella folla della sua rovinosa famiglia,
si muta nella
singolitudine di Kore, nel suo essere per sé, singola ma mai più
sola, una condizione finalmente civile ( una questione di
cittadinanza, direi):
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“Io nasco in questo momento, non ho passato in cui riconoscermi:
sono Ismene la solitaria, senza madre e senza sorella; sono Kore,
la figlia che si ricongiunge alla madre.
Ho trovato la mia parola.
Da questo momento ha inizio la mia storia”
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