Di Giovanni Bertacchi Un’Arte italica – Il truciolo Salici e macchine Una domenica mattina della scorsa primavera mi avvolgevo tra la folla che si rimescola a quell’ora lungo lo spazioso porticato cinquecentesco ond’è fiancheggiata la piazza monumentale di Carpi, e, avendo ammirate molte giovani popolane dai capelli corvini e dalla carnagione pallido-bruna, eleganti e semplici nel loro scialle nero, rilassato sulle spalle in seducente noncuranza, pensai d’un subito a Venezia: - Con tutte queste veneziane, ci vorrebbe in Carpi qualche industria gentile e geniale come quelle che fioriscono sulla Laguna.- C’è! – esclamò tosto l’amico , raggiante negli occhi. - Si?! Quale? Dove? - Per ora non ti dico di più. Sappi solo che s’era già disposto perché domani tu veda. Altri, di me più degno , ti sarà guida alla scoperta. Per ora, silenzio!Mi rassegnai. Poco dopo, però, passando col mio compagno per un piazzale che mette alla stazione, vidi un gran caseggiato color mattone, di sobrio disegno, con sul frontone, in azzurro , due sole parole: Il truciolo. L’amico sorrise: io credetti indovinare: - La dentro?- E nella fantasia rividi cose ben note: uno scorrere di pialle su dolci legni levigati; uno sgorgar di strisce bianche , a riccioli , raccoglienti al suolo in soffici cumuli : e mi chiesi meravigliato come mai il truciolo, così tenue e vano, potesse dare il proprio nome a un edificio tanto grande. - La mattina seguente , ansioso di curiosità, fui ricevuto dall’Uomo che con industre intelletto e con poetico cuore governa il ritmo alla vasta opera multiforme. Introdottomi nell’anima sua con parole di spirituale riconoscimento, avendo sull’aperta faccia la gioia di far rivivere ad altri le creazioni proprie, l’Onorevole Alfredo Bertesi, sbrigate alcune cure al tavolino, mosse con me dalle linde e fresche sale degli uffici verso là donde la visita doveva cominciare. Ci rifaremo dal principio – mi disse . E prese , lungo il tragitto, a espormi alcuni chiarimenti che mi potessero meglio iniziare. Nelle plaghe attigue al corso del Po , per le isole e le golene che l’acqua del fiume compenetra lentamente di umori , alligna un salice- salice alba- , il quale , fratello alla pianta di babilonica memoria e all’altra di cui il vignaiuolo ritaglia i vimini, fu eletto dagli abitatori a fini più preziosi. L’esperienza ha mostrato come il truciolo che si leva dal legno del salice bianco, possa dare una treccia flessibilissima, leggera, resistente; e gli uomini se ne valsero. I tronchi e, meglio, i rami di questo salice, scelti fra i più adatti, sani, scevri di nodi – son risegati in pezzi di un paio di palmi, scortecciati, torniti, assettati sulla macchina Bellodi, che, a ogni colpo del truciolaio, abbassa il filo di una - - - - pialla sul legno, lo intacca lievissimamente per il lungo e ne leva un nostro flessuoso e sottile. Il tronco di salice gira insensibilmente; abilmente e così nuove strisce si staccano, che l’operaio raccoglie nella mano sinistra , facendone via via tanti minuscoli covoni. Lavorando con tale ordigno, inventato nel 1817 , il truciolaio o pagliaro – i trucioli son detti anche paglie – può fare da trenta a quaranta mazzetti il giorno . Prima di questa macchina, l’operaio si aiutava con un sostegno chiamato alpa, rigirare il legno appoggiato al petto da un capo, con la sinistra, e con la destra si passava una sorta di rasoio ritagliandone le strisce che però riuscivano spesso ineguali di lunghezza e spessore. Il Truciolo ricavato così viene dato alle trecciaie che lo dice il nome, ne compongono trecce. Come i truciolai sono, per la più parte , contadini che occupano in tale lavoro i mesi dell’inverno, così le trecciaie sono, per lo più, donne della campagna, che si spendono i mesi freddi, raccogliendosi nelle cucine anguste o nelle stalle, al lume fumoso delle vecchie lampade, accompagnando il moto delle dita col chiacchierio vario di argomenti e di toni, con le facezie rusticane, coi colloqui amorosi, quando, com’è quasi sempre, lavorano con esse anche uomini: Virgilio e Pascoli, dunque! Georgiche e Poemetti! – Precisamente! Del resto non solo in luoghi chiusi si esercita l’umile industria, ma anche all’aperto. Sulle soglie delle case, nei campi, a crocchi o solitarie, le donne della nostra terra ingannano le ore così, in un lavoro fatto intuitivo dall’abitudine e dall’eredità. Come in Toscana a ogni passo si vedono donne, fanciulle, bambine a cui fiorisce tra le dita il nostro biondo intessuto di pagliette sottili. – Sì. E molti ignorano come i cappelli così detti di paglia siano invece assai spesso contesti di truciolo, creati in questa piccola città emiliana che rivaleggia perciò con Firenze, e dove una volta si chiamavano addirittura “cappelli di legno” Davvero?! – La storia dice proprio così – Il truciolo ha dunque una storia? Sicuro! Storia tecnica ed economica, artistica e patriottica. – Sentiamo. – La conoscerete più tardi: ora è tempo di vedere all’opera l’arte carpigiana , di sorprenderla nel suo vivo presente. – In quella l’onorevole Bertesi sospinse un cancello, e mi introdusse in un giardino: Questa villa Aurora noi la comprammo per raccogliervi le nostre macchine. Questa e le altre sedi: riunite misurano ventitremila metri quadrati, ove lavorano mille e settecento fra operai e operaie. Un tanto esercito basta appena a un’industria che è, insieme, una grande raccoglitrice e una grande creatrice: che attrae a sé quasi tutta la treccia che vien fatta nei paesi della riviera padana e portata al mercato di Carpi da incettatori privati o associati; che si lavora - - - questa merce , quando non la produce essa stessa, a cominciare dalla stessa cultura del salice. Per tutta questa sua opera la società si avvale della mano dell’uomo, ma anche delle più ingegnose macchine odierne. Qui siamo appunto in cospetto delle grandi macchine madri; da cui si ingenera, tramutandosi in moto, luce e calore, la forza animatrice dei nostri stabilimenti. Ho l’ordine di presentarvi le nostre caldaie e prima di queste, le pompe che mantengono loro l’acqua. Per aver quest’acqua, essendo tornati insufficienti altri mezzi, ricorremmo alla verga di un Mosè.. – Che dite, Onorevole? – .. Chiamammo il famoso Chiabrera … Il poeta morto tre secoli fa? No: un poeta di vena … più copiosa e sicura: il rabdomante Chiabrera. Se non erro, debbo ricordarmene anch’io. Mi sembra che la cosa abbia fatto un po’ di rumore. – Appunto. Parve a qualche giornale assai strano che un’industria moderna ricorresse a un …pregiudizio. Ora, sarà come si vuole, ma l’acqua fu trovata. Il Chiabrera venne, saggiò il terreno camminando a piccoli passi, coi piedi sempre a contatto, su e giù, piantando certi picchetti ove gli sembrava di avvertire qualcosa. Impugnò poi una sua verga di nocciolo, che piegò a V e tenne aderente al ginocchio destro. A un dato punto la bacchetta si volse nettamente all’insù. - Qui c’è acqua! – A quanti metri? – Fra ottantacinque e novanta. – Molta o poca? – Molta Si scavò sui suoi indizi. Dopo due mesi, a settantanove metri, zampillò un getto: venti, trenta, cinquanta, infine settanta litri al minuto. SIT poteva bere a varietà. Sit? … Bel motto! E’ l’essenza sillabica di … … Società del truciolo. – Ma ora – continuò il mio Duca seguiamo quest’acqua nelle sue vicende. – E, traverso le chiare parole di lui, mi si sciolse l’enigma di quella incombente meccanica. Vidi l’acqua aggirarsi, prima d’entrar nelle caldaie, in tubi tortuosi entro una green camera Green che la scatola a centoventi gradi ivi raccolto dà focolai delle caldaie; la vidi passare entro queste e divenirvi vapore, che, uscendo di là era ed essiccandosi per i surriscaldatori, giungeva, condotto da tubi, alla motrice Sulzer, bella co’ i suoi cilindri e stantuffi, con le sue cinghie e col suo volante. Qui avviene il miracolo per il quale il vapore si fa forza meccanica e questa trascende in elettrica. Ne Sit di appaga di ciò. Mentre altri lasciano disperdersi il vapore dopo questa sua genesi, noi lo tratteniamo ancora, disciplinandolo, incalzandolo ad altri compiti. Per altri tubi il vapore sarà mandato a riscaldare i bagni in cui si imbiancano e tingono le trecce, poi ad asciugarle, poi a temprare di dolce primavera il clima invernale degli uffici e degli opifici: tutto ciò non senza che prima il chioliatore lo abbia purificato degli atomi d’olio rimastogli dal contatto delle macchine. Così parlando, l’onorevole Bertesi mi anticipava con rincrescimento la rivelazione di quanto mi attendeva; e , impaziente di affrettarmene la conoscenza, si tacque, precedendomi quasi di corsa. I tronchi da truciolo Giungemmo a un cinto dov’era un terreno smosso, occupato da ceste cataste - Questo è il cimitero dei salici? - Come mai? - Qui si seppelliscono i tronchi, ma solo perché vi attendano la propria trasfigurazione. Coperti di uno strato di creta, i tronchi o pali da truciolo qui si mantengono freschi, senza butti, prima di essere lavorati. Sit li ricava da una sua tenuta boschiva di Corte Torriana, che si stende per circa due chilometri lungo il Po, nutrita dagli umori del terreno alluvionale che il fiume inonda a ogni piena. L’antica selva fu ripulita d’ogni erba o pianta superflua, perché la buona terra fosse tutta per lei. Vi si lasciò tuttavia allignare la patata selvatica, utile ai contadini, e qualche tratto a campo e a vigna. Fu regolato il corso delle acque: sui salici, che buttano folti due volte l’anno, si esercitò la legge della selezione, estirpando la specie inferiore, diradando pure i salici da truciolo, conservando solo i più forti e diritti. Questi son privati delle gemme dalla mano dell’uomo che vi scorre sopra con un guanto d’acciaio; così la linfa va tutta a incremento del palo futuro, che giunto a un’altezza da tre a cinque metri viene tagliato rasente terra. E’ la salicina del piede. Più spesso, però, si trattano i salici a capitozza, troncando il fusto a un metro dal suolo e dei molti rami che esso getta tagliando al quart’anno i meglio riusciti. Questi sono i pali da truciolo Nasce il truciolo - Entrammo, dopo questo, in una lunga officina, dove i poli sono tagliati in pezzi da seghe circolari, e dove, un’altra macchina da “lana di legno”, ottima per imballaggio. E’ questo il luogo più rumoroso di tutti, per quel continuo stridore delle seghe che fendono il legno. Più mite si fa l’opera della macchina nella officina delle “trucciolatrici”. E’ una gioia, una ingenua gioia degli occhi vedere staccarsi dai pali, come per incanto lembi e lembi di legno bianchi, tenui, e pur di varia larghezza, da uno a dodici millimetri, che danno un senso di petali staccati dai fiori nativi. “Bianchi”, ho detto: ma la mia guida corregge il troppo facile giudizio dei miei occhi. Come la neve guardata a un dipresso sembra bianca senz’altro, ma, meglio osservata, rigrada in semitinte indefinite, secondo la luce, così Sit sorprende i difetti meno percettibili nel candire del truciolo. - Le trecciaie di campagna – mi spiega il mio interprete – non lavorano le paglie fornite dagli incettatori, ma anche quelle che qui escono dalle trucciolatrici. Le une e le altre sono lavate da Sit quando questa le riceve dalla mano casalinga; e lavata ben quattro volte. Si lava - Eccoci nelle sale da bagno. Vedetele: sono quelle vasche di cemento foderate di piombo, e quelle altre, di un forte legno americano. Il primo bagno rimuove d’entro le fibre della treccia tutte le sostanze ond’essa è penetrata, che, portate alla superficie, saranno più facilmente deterse dai bagni ulteriori. Il secondo bagno, di acqua ossigenata e il terzo, infuso di sostanze chimiche, ci darà la treccia bianca: il quarto aggiungerà una gradazione tenuissima di violaceo e di azzurro, creando all’occhio una sensazione di candore perfetto. Si colora - Ma Sit , quantunque contenta di aver conseguito alle sue trecce il bianco assoluto, sa che l’occhio e la fantasia dei sui innumerevoli clienti aspettano da lei altre sorprese; sa che la moda persegue con insanabile desiderio tutte le tinte in cui si moltiplica l’iride, come la bimba tende le manine cupide a ogni volo di farfalla che folleggi nel sole - Venite meco, dice continuando la mia guida, nella tintoria, dove si tinge oltre al truciolo, ogni sorte di paglia. Eccoci entrati. Ecco i tubi di rame che, lungo le pareti, portano ai vasi allineati sul pavimento l’acqua fredda e i vapori ad alto grado. Le apriamo questo rubinetto, vediamo il vapore irrompere nell’acqua e scaldarla. Vetturine cariche di treccia recano la bianca bagnante ai lavacri onde uscirà trasfigurata. E badate che la treccia viene imbiancata o colorata senza che si disfaccia la matassa, ma solo allentandola: e badate ancora che il truciolo è la paglia più difficile a tingersi perché non è di sostanza uniforme come le provenienti da piante che vivono una sola stagione, bensì deriva da un tronco formato a strati diversi. Sit trionfò di tutto e anche onorò il nome italiano riscattandosi dalle tintorie d’Inghilterra e di Germania. I colori, tuttavia, vengono ancora di là. In questa stanzetta sono raccolti i campioni di tutti questi colori, che saranno assaggiati in uno speciale laboratorio. Centinaia sono le varietà delle tinte, pronte agli ordini della Dea capricciosa che due volte l’anno, di sulla Senna, proclama al mondo i colori favoriti. Ammirate questo Bruno Burut e questo biondo – dorato champagne; fate onore a questo rosso cardinale e questo lilla ametista; sognate le erbe delle praterie in quanto verde aeroplano; salutate in questa tinta vivace la bella rosa delle alpi; smarritevi nell’azzurro dietro l’invito di questo bleu cielo. Non è forse il cappello, di tutti gli indumenti umani, il più vicino alla sede del sogno? Si colori dunque esso di tutte le tempere del sogno! E se un colore solo non basta, ecco una treccia a due tinte parallele, e un’altra a una sola tinta digradante e un’altra cangiante di rossa in verde e un’altra dai riflessi metallici.. – Prosciuga - Mentre i miei occhi inseguivano via via quella mutevole sequela, mi trovai nella stanza ove si essicca la treccia. Ridotta bianca o colorata, questa esce grondante dai vasi ed è inghiottita dagli idro - estrattori che girando vertiginosamente fino a raggiungere il proprio moto (settecento circonferenze al minuto!) spremono dalle trecce l’acqua che esce per un cannello, e le restituiscono quasi asciutte. - Il prosciugamento si compie altrove – E la mia guida mi conduce in un ampio stanzone. Qui non più meno rumorio di macchine, non più fermenti di essenze chimiche: ma un senso di materia in riposo, un’aura di pace silenziosa. Matasse e matasse di trecce pendono, intorno, da regoli: e, bianche, ti danno una sensazione serena di giornate solatie, puri e quella che spira dai frumenti ammucchiati ne’granai. Si direbbe che la stessa luce si sia materiata là dentro e compia non so che maturanze. Invece è l’aria che si lavora, come un’operaia invisibile. Entrata per una portella nel camerone, tocca certi tubi pieni del vapore che già diremmo, a ben cento trenta gradi; scaldata e fatta più leggera sale a lambire le trecce, si impregna della loro umidità, ridiscende fatta pesante e richiamata da un possente aspiratore esce per certe finestruole. Altre volte le trecce sono chiuse entro armadi in muratura, per cui passa una corrente d’aria scaldata da tubi e attratta da un aspiratore che compie milletrecento giri al minuto. Ove sono le “ venezianine”? - Intanto, pure ammirando i meravigliosi processi di un’industria fatta intelligente come la stessa intelligenza dell’uomo, il mio pensiero correva involontario alle venezianine vedute il dì innanzi tra la folla nella grande piazza e che, a quanto il mio amico m’aveva fatto capire, dovevano avere una loro parte manuale nella trasfigurazione del truciolo. Cominciavo a esserne un po’ impaziente: ma Alfredo Bertesi non poteva cagionarmi il minimo disinganno. - E ora – mi disse all’uscire dall’essiccatoio – andiamo a vedere l’opera più veramente umana o muliebre del truciolo. – - Passammo alla sede centrale, ove sono gli uffici, e dov’è pure la sezione Benzi, che rimonta alla casa Benzi, fondata nel 1835. Qui le donne di campagna vengono con la loro “pezza” sotto il braccio. Selettrici e le treccie - Acquistata da Sit, questa treccia è corretta de’ difetti originari, cilindrata, annaspata in matasse regolari. In quest’altra sala vedete ben sessanta donne intente solo a trascegliere le trecce. I tipi “uniti” che hai profani parrebbero l’uno all’altro gemelli, appaiono dissimili all’occhio di queste selettrici, educato da anni di esperienza. Esse distinguono le trecce in quattro qualità riguardo la bellezza, cioè alla bianchezza e all’intreccio più o meno regolare e serrato; poi la dividono in nove classi a seconda della larghezza, giungendo fino al quarto di millimetro; poi ripartiscono le trecce ormai identiche per bellezza e larghezza, secondo la robustezza e lo spessore. Come si vede, queste donne possono dirsi emule della stessa natura, nel creare le varietà innumerevoli entro le unità fondamentali. La treccia classica di Carpi è il tipo “unito” e soprattutto il “tre fili”, insieme col “sette” e col “nove fili”. Questa treccia, così sapientemente trascelta e distribuita, viene composta in pacchi da cento matasse, che, passati sotto uno strettoio, guarniti con fettucce colorate, ravvolti in carta velina, accuratamente imballati, sono deposti nei magazzini in attesa d’essere spediti. Se ne vendono otto milioni di pezzi l’anno… M’era rimasta un’incertezza e la esposi alla mia guida, - Che cosa s’intende per tipo “unito”? - S’intende la treccia di disegno molto semplice, senza vani fra mezzo. La più comune è quella a tre fili, ma, come ho detto, se n’ha di sette e di nove: si giunge fino ai tredici e più su. Fu vista a Carpi una treccia di ben ottantotto fili. Le donne di campagna intrecciano per lo più tre fili. Le più esperte riescono anche a lavori più complessi. Pochissime, e solo copiando i modelli forniti da noi, san fare la “fantasia” - C’è anche una treccia fantasia? - Sicuro. Ed è in questa che più specialmente l’industria del truciolo partecipa dell’arte. Se il fare un “unito” è sempre opera gentile, è però anche un portato dell’abitudine, mentre la fantasia richiede facoltà originali non comuni. Carpi o Venezia? - Eravamo giunti nella sala che chiamerei delle “fantasie” Il mio interprete mi mostrò una lunga tavola coperta da centinaia di “cartoni”, profferiti all’esame del cliente. Ognuno sei campioni di treccia, bianca e colorata, di truciolo e d’ogni altra paglia; vi attende una “collezionista”. Siamo veramente nel regno della fantasia: i nomi più svariati vi sfilano innanzi illustrando i più svariati disegni della treccia rustica allo zig zag al puntino alla frangia al gnocchetto all’occhiello alla scala alla lima alla striscia. - - - Ecco il dentino, il priletto, il Loulet, il cucù, l’orologio, la ferrovia, il telegrafo, la spiga, la ruga: vedete la treccia rosa i cui fili vincono la seta; vedete la treccia a’jour, la treccia amour… Ma questi non sono lavori in truciolo! – Esclamai io come difendendomi da uno scherzo. – Questi son trine, pizzi, merletti, lavorati con l’ago, col fusello, sul tombolo… Alfredo Bertesi, ridendo di quelle proteste, si allontanò un attimo e tornò con un quadro ov’erano raccolti parecchi modelli di treccia meravigliosi per fattura e finezza. L’illusione si confermava. Noi non siamo a Carpi! – seguitati – Siamo a Venezia, a Burano, a Torcello, dove prima si imparò a ricamare rabeschi di sogno intessuti nell’aria e nella luce – corolle, viticci, rosoni, reti a giorno, fregi di merli e di punte, come nella Cà d’oro, come nel Palazzo ducale… Siamo a Carpi, semplicemente! – corresse Alfredo Bertesi, felice, tuttavia, di quel mio rapimento. – A Carpi, nelle sale del truciolo. E questi cartoni che vedete son come le pagine di poema che si venga perennemente compiendo, formano un codice perpetuo della bellezza, svariata, dal 1901 a oggi, in più di diciottomila varietà. Volete conoscere quelle che sono oggi legislatrici di questo codice, le creatrici di questo poema, eredi di quelle che precedettero eppur nuove nella propria concezione?… Eccole! – Creatrici! - E mi trasse al cospetto di due gentili fanciulle, il cui compito di creare i motivi nuovi, chiamate appunto le creatrici. Esse si affidano per questo alla virtù inconscia e spontanea dell’ispirazione. Tengono fra le dita alcune paglie, le movono senza un disegno prefisso, così, aspettando che d’un tratto, dal loro istinto artistico, balzi e alla mano si comunichi quel giro, quel gioco di intrecci che dia la trovata nuova, la frase della nuova composizione. Questo motivo, svariato in molteplici svolgimenti e ritoccato dal buon gusto, sarà poi riprodotto in centinaia di copie, e sarà il favorito sui mercati. – Io ascoltavo con devozione. Pensavo a un altro tormento creatore, al provarsi e riprovarsi della fantasia sulle tracce dell’immagine fuggente, verso quegli svolti che, interrompendo il processo meditato dall’arte, lo investono della sorpresa novella, la aprono alla visione lirica inaspettata. - Come mi piacerebbe – dicevo fra me – lavorar qui, presso di voi, o umili poetesse del truciolo, ringiovanendo sul vostro esempio la mia poca virtù trovatrice! Ma l’ora incalza: c’è altro da vedere…addio, e buon estro, o sorelle! – Nasce il cappello - Ora, - mi disse a questo punto il mio interprete – è tempo di vedere ciò che Sit fa della treccia che essa produce e lavora e che viene spedita alle sue numerose clientele. E’ tempo, cioè, di vedere come il truciolo diventa cappello. La novità così promessa mi interruppe in cuore ogni tenera allocazione.. - Vediamo! – - - - Fui condotto in una sala popolata d’un doppio ordine di macchine da cucire, riunite fra loro da una asse di acciaio che, mosso da forze misteriose, comunica loro il movimento onde gli aghi possono lavorare. Davanti a ciascun ordigno siede un operaia: sono, fra tutte, duecento. Bertesi, percorrendo con me un buon tratto d’una delle due file, mi spiega il quanto. Finalmente si arresta presso una di quelle operaie e le dice qualcosa. La giovine assente col capo e la guida cortese mi dice: Ora sta per nascere un cappello. – Io guardo attentissimo. L’operaia adatta con una mano l’estremità d’una treccia – estraendola da una cesta – a una forma di legno applicata alla macchina e, premendo col piede un pedale, mette in moto l’ago che vien trafiggendo la paglia. Questa, abilmente guidata dalla mano, gira sovrapponendo un orlo all’altro, così che il filo scorrente dal rocchetto, li va cucendo insieme. Io guardo, come rapito. La voce dell’interprete tace, per lasciar parlare solo le cose: intorno è il fragore di duecento macchine in moto. Ma i sensi astraggono anche da questi: l’attenzione dello spettatore è tutta e solo negli occhi, sedotti dal giro ondulato della falda che cresce, cresce sotto l’ago rapidissimo…Sit! Sit! Sia! Sia! Il bel monosillabo di creazione che è pure la divisa del truciolo, appare qui veramente in tutto il suo significato operoso. Sit! Sit! E la creatura sembra nascere da sé, alimentata, ingrandita…chi sa? Dallo sguardo e dal respiro della giovine donna che appena regge il lembo con le dita, quasi per guidare alla vita quel delicato essere bianco. Ogni possente e complesso lavorio di caldaie e di macchine è ora dimenticato, come chi vede una nuvola bionda dilatarsi nell’alto non pensa più alla solida terra ond’essa si esala; come chi ode una melodia dell’organo nel tempio e la immagina vivente per se stessa, scaturiente dall’aria all’infuori d’ogni processo di mantici, di canne, di tastiere. In meno che io finissi le mie stupide meditazioni, il cappello fu bell’e compiuto. Questo – mi spiega la mia guida – che vedeste nascere è un cappello soprammesso, cioè cucito per sovrapposizione. Trattandosi d’ un copricapo a larga tesa e di treccia sottile, novantasei metri di questa dovettero sfilar sotto i vostri occhi perché il cappello fosse! Per cappelli più piccoli a trecce larghe bastano dieci o quindici metri. Viceversa certi cappelli da signora ne vogliono centoventidue e più…Oltre la cucitura sovrapposta c’è poi la cucitura manuale a punto o accostata. Mentre la prima può dare fino a duecento cappelli il giorno, questa non ne dà più di otto o dieci. La sede che state visitando è chiamata Tirelli, dall’antica ditta a cui rimonta; la dirige ora il signor Alfredo Saetti. Froebel e il truciolo - Né Sit provvede solo a coprire il capo degli uomini, ma anche a formar loro il cervello… - Che intendete dire, Onorevole? L’Onorevole mi accompagnò in un’altra sala. - Sapete che cosa siano tutti questi oggettini da bambola? Sono campioni di lavori froebeliani, coi i quali i piccoli scolari, baloccandosi, imparano per la via de’ sensi ciò che sarebbe difficile insegnar loro a parole. Ai bambini si dà del nostro truciolo, ed essi, copiando i modelli pure formati da noi, si tramutano in piccoli operai. Lavorano divertendosi, conoscono per tempo la gioia di vedere dalle proprie mani uscire un oggetto qualsiasi – una scatoletta, un sottocoppa, in canestro, un cappello minuscolo, un portaritratti…Il Cappello guarnito - Ma, ritornando al cappello – proseguì il mio interprete – non basta averlo messo insieme come vedrete. Seguitemi in quello stanzone laggiù…Ecco! Vedete questi ordigni che paiono bocche di foche, e hanno una mandibola di zinco e l’alta di gomma? Attento! L’operaio introduce un cappello in quella bocca, che si chiude come per masticarlo e invece…guardate! Ve lo rende subito più bello di prima, lucido, a forme precise. Lo strettoio idraulico lo ha così reso perfetto. I cappelli di lusso, invece, sono affogati in una sostanza gommosa e poi stirati col fumo caldo su una forma. Ciò si dice dar loro l’aspetto. Infine Sit, che vuol bene alle sue creature, pensa anche a rivestirle e guarnirle, quando i clienti non intendano provvedere essi a questa faccenda…Eccoci nella sala dove il cappello è dotato di fodera e di marocchino, si cinge il nastro elastico e la cordoniera. Intanto una dozzina di falegnami lavora con macchine elettriche ad allestire le casse per i cappelli comuni, mentre un laboratorio di cartonaggi prepara le scatole per i cappelli più fini, valendosi anch’esso di macchine sapientissime. Così allestito e imballato, il cappello di Sit abbandonerà il nativo opificio avviandosi al suo destino per ogni parte del mondo incivilito, dove i nostri viaggiatori, fra i quali mi onoro di ricordare il signor Alcibiade Casoli, gli procurano una clientela sempre più vasta e numerosa. Verso la sezione Menotti - Avevo dunque, mercè la sapiente cortesia della mia Guida, seguite le vicende del truciolo dal suo stato di salice all’indumento fine e leggero che l’arte umana sa creare di lui. Credevo ormai finito il mio piacevole pellegrinaggio; ma l’onorevole fu pronto a una nuova… seduzione. - Ora - mi disse dopo un po’- passiamo a visitare la sezione Menotti. – Questo nome mi richiamò alla mente il martire modenese. - Un discendente di Ciro? – domandai - Precisamente!Ci avviammo. E durante il tragitto Bertesi mi venne enumerando i molti tipi di cappelli che Sit raccoglie ne’ sui magazzini. - Come il proverbio latino ci avverte che quanti sono i capi tanti sono i pareri, così Sit ci afferma con l’esempio che quanti sono i capi tanti sono i cappelli. – - Naturalmente ogni testa ha la sua misura …- 24000 fogge di cappelli - Ma non è questo, soltanto. Quasi interpretando tutte le bizzarre fantasie che possono folleggiare nel cervello de’ vari clienti. Sit moltiplica e svaria all’infinito le fogge de’ vari capi dei cappelli di truciolo, dal lobbia al pallone alla campana al Banana al Montecarlo: fra loro l’ala piana e rialzata, stretta, larga, rotonda o a punta, uguale o scaglionata. Essa produce il canotto, che è la paglietta ordinaria; produce il bolero, il bolerino per fanciulli, il cappellino alla marinara, il cappello a sporta per ragazze, la monachina, il cappello a onde, a cannoni, a frappe, colle le ali a cloche, a testa di fungo, il panama, il tipo a piffero…insomma, non meno di novecento forme diverse… - Scusate se è poco! - Ma non basta. Poiché, oltre la foggia generale del cappello c’è, in ogni foggia la varietà della treccia: vi ho detto che questa può essere o unita o di fantasia: ma queste due varietà fondamentali si moltiplicano poi in un gran numero di disegni; sommando i campioni delle due sezioni Benzi e Menotti e di quella delle Querce in Toscana ben ventiquattromila differenti disegni… aggiungete che oltre il truciolo di salice noi trattiamo il gattice di Toscana, il truciolo di Boemia tratto dal pioppo tremulo e ogni sorta di paglie estere, circa una cinquantina. Le figlie di Sit - Aggiungete ancora che Sit, come nacque in Carpi dall’unione delle ditte Benzi e Tirelli, accresciuta l’anno seguente della sezione Menotti e poi dalla casa Rebuttini florida fin dal 1868 e dalla casa Bulgarelli, celebrata per i vari cappelli di truciolo e di tagal, così novera, fuori di Carpi, la sezione di Villa Bartolomea, in provincia di Verona, e quella di Suzzara, che già fu la ditta Nestore Bacchi, oggi diretta da Lauro Rossi, soprannominata la Borsalino del truciolo. Infine Sit ha germogliato anche in Toscana, a Querce, in quel di Prato, fondatovi nel 1909 un opificio che impiega già cencinquanta operai, lavora il truciolo di Carpi e di Boemia, le lame di seta, il ramé di fili di cotone, ma più specialmente il genere di Firenze, cioè la treccia e il cappello di vera paglia toscana, ricavata, come sapete dal frumento invernizzo e marzuolo e suddivisa poi nel triplice tipo: la “punta” scura; il pedale più chiaro e la “garbiggia” ordinaria. Il nostro campionario toscano conta già duemila duemilacinquecento disegni e si arricchisce altresì dell’articolo di Fiesole, una treccia di fantasia lavorata a uno speciale telaio. A Firenze, poi, abbiamo un banco di vendita e di rappresentanza, con un ricco deposito dei prodotti carpigiani e toscani e con la sede di varie rappresentanze per il truciolo di Boemia e lo spartamè, per il cotone di Lilla, il più ricercato di tutti e per la paglia e la treccia giapponese che con il nome di rustic serve specialmente per i “canotti” da uomo. - All’estero pure si estendono le propaggini di Sit: l’ufficio di vendita di Parigi, diretto da Luigi Benzi è il più bel magazzino del genere: in Alt Echreniburg di Boemia. Sit è cointeressata con la casa Paulick Lindner e C. fondata nel 1910, che lavora il Cast o pioppo tremulo russo o truciolo di Boemia e produce le sperlerie in fogli e in fantasie; i primi per cappelli da signora, le seconde per cartonaggi, scatole, piccoli tappeti…Cosi peregrinando per il mondo dietro le parole dell’Onorevole Bertesi, mi trovai giunto lui alla sezione Menotti. Qui non si producono cappelli, ma trecce a mano ed a macchina, plateaux, e applicazioni, per case di primo ordine: qui non il truciolo di prezzo corrente ma le paglie estere finissime, la chiffon, la moirèe, la lulù, la chou – chou … Qui spira l’aura dei climi esotici, dei paesi lontani e favolosi: c’è la gedda, foglia di un popone della Rèunion – c’è la Cuba americana, larga sessanta centimetri; la fibra di Aloè, il Manilla delle Isole Filippine, la paglia giapponese in bacchette, la pià del Tonchino, larga un palmo, di cui solo ogni tanto giunge in Europa qualche carico di tre o quattro quintali che poi per anni scompaiono dai nostri mercati, misteriosamente rinchiusa ne’ vari remotissimi confini. Fra tutte le trecce, però, primeggia il tagal, che proviene dalla canapa di Manilla e giunge a noi in matasse biancastre, simili a code di cavallo. Se ne ricava un filo che poi s’annaspa in gomitoli da cui cento ragazze lo passano ai rocchetti. Si assestano sui telai da tagal. Nella sezione Menotti – danze lillipuziane - Eccoci nel salone delle macchine; son più di ottocento telai. Io vedo, fra rumori assordanti, una fantastica danza di rocchetti che girano vorticosi gli uni intorno e frammezzo agli altri senza mai incontrarsi né frammischiare i loro fili che, convergendo al di sopra nell’arcolaio, formano la treccia. E’ uno spettacolo vertiginoso come di una giostra lillipuziana. Quei telai furono studiati dal signor Menotti: il tagal è così intrecciato in due tempi. Nel primo si prepara con tre fili, nel secondo si uniscono tredici di questi tre fili che danno una trentina di fili. Lo stesso signor Menotti trovò modo di ridurre la gedda – una paglia di primo ordine – di piatta in cilindrica, come la paglia toscana; trovò modo di imitare la ciniglia, che è un velluto, col crine di manilla; fece delle piume di truciolo boemo e pizzi, trini, merletti con fondo di vaio o di crine e ricami di seghe rare; fece anche una tela, la tela togo, per cappelli da uomo e scarpe di uso estivo: tutto mise alla prova il Signor Menotti: le foglie del granoturco, le penne del pavone, il bozzolo del filugello, il crine animale e vegetale, il cotone, la seta, il velluto…riuscendo a ben seimila tipi di treccia, con cui egli risponde a tutti i volubili capricci della moda che in Parigi non disdegna di ricevere le visite di lui e si dichiara soddisfatta di tanta novità, di tanta varietà, di tanta ricchezza quanta egli dalla sua Carpi e dal suo opificio gliene reca co’ suoi campioni geniali, ispirati, seducenti. Il Truciolo in guerra - E ora – esclamai io dopo aver vedute e imparate anche queste ultime cose – e ora posso veramente dire di conoscere per filo e per seno tutta quanta l’industria di Sit! L’Onorevole Bertesi sorrise - non ancora! Fin qui abbiamo visitato il truciolo di pace… e che?! Ci sarebbe anche un truciolo… di guerra? Sì: il truciolo è un buon patriota, e vuol rendere anche alla fronte degli utili servigi al suo paese Spiegatevi meglio, Onorevole! Per ovviare ai mezzi efficacissimi di esplorazione onde dispongono gli eserciti belligeranti, specialmente osservatori aerostati e velivoli, si è pensato di creare delle illusioni ottiche per le quali siano dissimulati all’occhio del nemico i luoghi fortificati, gli accampamenti, i ricoveri, i movimenti delle milizie, i lavori d’ogni genere: si è pensato, in altre parole, di creare dei veri paesaggi che continuassero il paesaggio naturale là dove esso è interrotto appunto dai profili, dagli spigoli, dalle ombre, dai raggruppamenti diversi delle opere degli uomini di guerra. Ne venne una scenografia bellica formata di schermi leggeri, pieghevoli, non troppo vasti di colori ben combinati, che riproduce e meraviglia il prato verde e la terra smossa, il prato ingiallito e il prato con cespugli o con macigni, la roccia bianca, la roccia macchiata, il ghiaieto. Al contrario, si possono fingere, là dove non sono trincere. Sterri, indizii vari di opere guerresche, strade che deviano la vigilanza del nemico dai luoghi dove essere veramente si trovano. A tale scopo si ordiscono reti di spago o di cordicelle a maglie di tre o quattro centimetri che si immergono in un bagno di tannino per preservarli a lungo e dar loro un vago color violaceo: nelle maglie si legano mazzetti d’erica o di rusco o ciuffi di truciolo di Carpi opportunamente colorati: laddove, a fingere rocce o ghiaia o chiazze di neve si adattano alle reti toppe di tele da sacchi pure dipinte a seconda della finzione cui dovranno servire. – Con queste parole l’Onorevole Bertesi mi presentò anticipatamente il nuovissimo compito assunto da Sit nelle presenti necessità della patria; e intanto, attraversando mezza Carpi, mi condusse alla sede di quello che con unica parola si chiama il mimetismo; un bel chiostro antico in parte rinnovato, ne’ cui grandi cameroni e nel cui cortile lavora una folla di operaie, di operai, di soldati sotto la guida di chimici valenti e di artisti abilissimi, allestendo, colorando, componendo nei vari disegni le reti, i ciuffi d’erba, i cespugli, i tratti di terreno smosso, i lembi di roccia e di neve, tutta, insomma la creazione scenica che, lungo la multiforme zona combattuta, sarà di salvezza ai nostri e di inganno al nemico. Qui non la lindura dell’altra industria, ma vesti e mani e facce impolverate, ritinte; e, tuttavia, una certa gaiezza nei movimenti e negli aspetti, forse per l’inconscio compiacimento di cooperare da lontano a salvar tante vite fraterne, di correggere, per così dire, lo spettacolo atroce della guerra con parvenze di natura inviolata, con pittoreschi paesaggi di pace. Non erano forse quelle lavoratrici, le interpreti della perenne utopia che sui campi delle battaglie e delle stragi sempre a diffondere le sue grandi speranze umane che rimanessero tradotte in serene realtà di campagne luminare e fiorenti, di opere rimunerate e concordi? - Con queste immagini buone, con questo senso di riconfortata umanità, io finivo il mio viaggio attraverso il regno del truciolo, augurando brevissima vita alla parte bellica di tale industria e floridezze secolari a quell’altra. Era giunto il momento di separarmi dal cortese Compagno di pellegrinaggio, che tanto mi aveva fatto vivere nel volgere d’una mezza giornata. all’albergo – mi disse – vi ho fatto portare un’opera veramente preziosa: - Le memorie sull’arte del truciolo in Carpi – del modenese A. G. Spinelli. Scorrendola, voi potrete seguire il truciolo nelle sue vicende lungo i tempi, come ora l’avete seguito nello spazio, e imparerete ad amarlo ancora più. – La storia del truciolo - Alle ore del pomeriggio, sollecitato dal desiderio di continuare dentro me le impressioni della mattinata, scorsi intero il bel libro dello Spinelli. Ricavai da esso che, secondo la storia di Carpi del francescano Luca Tornini, l’inventore dell’arte sarebbe stato, intorno al 1554, un Giovanni Biondo, mentre altri facevano il nome di un Nicolò Biondo. Ma due sono i Nicolò di questo casato: l’uno vissuto intorno al 1574, l’altro morto nel 1514. A quale dei due attenersi? Se non che, da certi capitoli delle gabelle di Carpi del Duca di Ferrara appaiano assegnato un balzello di sei denari su ogni peso “de treze de legno o de paia da far cappelli” e ciò nel 1534: di più una lettera d’Alfonso d’Este, datata da Cremona il primo agosto 1492, descrivendo con ingenua evidenza alla madre del Duca un viaggio di piacere nei pressi di Cremona, interrotto da un grande fortunale che scompigliò la comitiva, comicamente accenna agli abiti estivi inzuppati da quel diluvio e dice: “chi era in zornia de terzanello, chi in mantelli galanti semplici, chi con cappello di ligno”, dunque a quel tempo nel ferrarese già usavano i cappelli di truciolo: finalmente, tra il 1443 e il ’47, in Ferrara, Vittore Pisani, detto il Pisanello, dipingeva in un quadro, che oggi è nella Pinacoteca di Londra, la Vergine in gloria e i Santi Giorgio ed Antonio, vestendoli seconda la moda del tempo, e mettendo in capo a San Giorgio un cappello di paglia tanto enorme che solo se contesto di truciolo poteva essere tollerato sulla testa. - Antica, pertanto, si dimostra l’arte del truciolo, e il non poterne precisare la data non fa che permetterci di credere che essa risalga a tempi ancora più lontani. E di fatto come meravigliarsi che ciò sia d’un industria originariamente campestre, che dovette quindi sorgere per anonima creazione tra le cento altre opere della gente villereccia e svolgersi per tradizione e per eredità collettiva? Se la indagine storica non riesce, per esempio, a stabilire chi mai, emigrando per il primo dei laghi lombardi abbia iniziato nei secoli quel peregrinare dei maestri comacini onde si nutrì tanto retaggio di arte per tutta quanta l’Europa, nulla di strano che medesime tenebre avvolgano le origini d’un industria casalinga, campagnola, modesta, e anche geniale, né suoi portati e nelle sue fortune. Si può credere quindi che lo Spinelli abbia subodorata la varietà, ricordando il verso virgiliano con cui Mopse nell’egloga ottava, è invitato a fendere in trucioli i tronchi per cavarne le faci: “Mospe novas incide faces, tibi ducitur uxor”, nonché il verso della prima georgica in cui l’incidere faces riappare, e avanzando il dubbio che non solo per le faci si incidessero i tronchi degli alberi. Tornando alle date certe della storia del truciolo è a rilevare una grida del Governatore di Modena che, nel 1565 “a istanza et requisitione dei magnifici signori conservatori, fa esplicito divieto di et proibitione ad ogni et qualunque persona di poter fare per vendere né vendere cappelli di fruscola di legno né di paglia, nella città di Modena, suoi Borghi et distretto, fuorchè i conduttori della fattura et vendita di detti cappelli”. Si istituiva un vero monopolio il quale, abusando, elevò i prezzi a tanta che i magnifici conservatori obbligarono il conduttore de’ cappelli a tassarli onestamente. Nel 1594, essendo stata la città invitata a provvedere al mantenimento d’una squadra di dieci celate per guardia del Principato, una grida ordinava che “i cappellari da cappelli di legno pagassero un bolognino per ogni dozzina”. Nel 1631, andata Maria Farnese sposa a Francesco I, i cappellari furono tassati di lire cento, che salirono a quattrocentocinquanta nel 1635 e tante rimasero finchè fu estinto i debito contratto per il regalo di nozze. In tanto i cappellari si sono uniti in corporazione, di cui i capitoli vengono sottoposti alle autorità, nel 1636, da Pietro Pederzoli , “massaro dell’arte de’ copie di legno”. Stabilivano, fra l’altro, i capitoli che nessun forestiere fosse accettato nell’arte se non domiciliato in Carpi da dieci anni, e vietavano che qualsiasi estraneo commerciasse in trecce e in cappelli. E’ un vero e proprio “protezionismo” che estende i suoi divieti poco dopo, nel giugno del 1638, quando essendosi diffusa la fama della nuova industria ed essendo di varie parti invitati operai di Carpi per crearla pure altrove, un Bando del Duca di Modena proibì che “nessuna persona di che stato, grado, sesso, condizione o qualità che fosse, ardisse dipartirsi per andare in altra città, castello, terra o villa, fuori dal domicilio di S. A. Serenissima, ad esercitare l’arte dei cappelli di legno… sotto pena della vita e della confiscatione de’ beni”. Entrata una volta nel commercio in grande, l’arte del truciolo diffuse sempre più i suoi prodotti: essa giunse perfino ai mercati d’Inghilterra, probabilmente da che, andata sposa nel 1673 Maria Beatrice D’Este a Giacomo duca di York, che fu poi re, condusse al suo seguito personaggi delle terre emiliane. Nel 1750 si forma una società che acquista il privilegio di esportare i cappelli in Inghilterra, e si rimuove il bando di divieto di portare all’estero il mestiere. Così imprenditori e operai sono difesi dal pericolo delle competizioni e salgono a priorità fin che la Rivoluzione Francese, abolendo le corporazioni e troncando gli scambi commerciali, porta alla miseria l’intera cittadinanza di Carpi. Le condizioni migliorano più tardi, nel secolo decimo/nono, in cui la storia dell’arte si ingemma di tre fulgidi nomi. La coltivò e migliorò ne’ disegni e col rendere impermeabili i cappelli il carpigiano Ciro Menotti, che de’ suoi ritrovati ebbe il privilegio per dieci anni, nel giugno del ’30 da quello stesso duca Francesco IV che a’ 26 maggio del ’31 doveva aggiungerlo alla schiera dei martiri, partecipe della tradizione che da Legnano a Firenze animò gli artieri e i mercatanti contro i baroni e i sovrani stranieri, fratello ideale del Ferruccio e del Nullo, balzanti, duci di uomini, dai fondachi familiari alle belle battaglie e alla libera morte. Fu pure dell’arte quel Giuseppe Menotti che nel ’59, il 24 luglio, si trovò a capo della deputazione recante a Modena il plebiscito carpense dell’annessione al Regno. Ma spiriti di più delicata poesia vengono alla industria gentile della figura di Adelaide Menotti, soave creatura e creatrice, che nel ’72, non ancora trentenne, ebbe irrigidite dalla morte le mani donde il fiore del truciolo fiore di insuperata bellezza … Così vagamente lambita, verso le sue origini ignote, da un aura del canto virgiliano, benedetta nel quattrocento, per la…mano del Pisanello, da un tocco magico di arte, arte essa stessa fra le pallide dita di Adelaide e delle discese da lei, nobilitata di sensi patrii nel cuore dei due Menotti, si svolge la storia del truciolo che, pur dopo secoli, è ora nel pieno di una sua nuova giovinezza. Arte italica - Non chiameremo noi italica una simile industria? Non la saluteremo italicamente complessa e compiuta nell’armonia delle case e delle opere di che si crea? Come i suoi salici originarii, essa è radicata nella propria terra, lungo le acque del gran fiume padre; essa è protetta dalla sua gente da vigilanze gelose di legislatori, si compenetra con gli usi e con le giornate della vita campagnola; è affidata al lavoro delle mani, lavoro di imitazione insieme di libera ispirazione; si scinde in mille opere individue a ciascuna delle quali corrisponde una vita umilmente intera, nella povera casa, con interessi e speranze e ricordi intimamente vissuti. Ma poi quest’arte così antica, senza nulla perdere delle sua indole natia, accetta le novità degli strumenti prestatile dalla meccanica inesausta; conosce, oltre le dimore villerecce, i vasti opifici, si avventura per vie inusitate verso climi e popoli sconosciuti, ingenera, di là dai singoli, le vaste corporazioni. Io oserei dire che il truciolo è una piccola Italia, aderente al suo suolo e aperta alla aure del mondo, geniale per istinto e disciplinata per robusta conoscenza della necessità, desiderosa del perenne contatto della terra, felice di trarre dal proprio lavoro la ragione pur del suo sogno e il ritmo del suo canto quotidiano. Il truciolo è una piccola Italia e carpi la inquadra mirabilmente in sé. Vero gioiello del Rinascimento, come la chiamò un tedesco di buon gusto, ossa del multiforme Castello dei Po dà convegno ai secoli, al mille che foscheggia nella Rocca vecchia, al ‘300 leggiadro della roca nuova dell’Uccelliere, al ‘400 del torrione di Galeazzo, al primissimo ‘500 che si rincorre sulla grande facciata in fughe di finestre e di nicchie, al ‘600 della Torre dell’orologio: essa, dentro il castello contempla il vasto armonioso cortile bramantesco e la cappella dei Pio adorna di affreschi e la gran sala dei Mori e la camera di Principi, sol soffitto di legno intagliato, mentre gli archivi e la ricca biblioteca l’invitano a meditar le memorie. Ma fuori, dall’altro lato della piazza, Carpi si svaga nel porticato costrutto per ordine di Alberto sui primi del cinquecento, sormontato da belle case variate a fregi di gotico e di rinascimento; essa cerca, per le sue preghiere, il vasto Duomo in fondo alla Piazza o, forse meglio, si raccoglie nella piccola Sagra, a piè della Torre maggiore, una chiesetta dell’ottavo secolo più grande in origine e ridotta di poi, ove indugiarono il Petrarca e l’Ariosto, ove dorme, fin dal 1351, in uno strano sarcofago un Maurizio Pio guerriero, ove affreschi primitivi si svolgono dagli intonachi e l’età longobarda si riaffaccia in informi bassorilievi e i resti d’un pulpito in marmo greco bisbigliano un nome di donatrice, Ansa, ultima regina longobarda. Questi sono, e altri ancora, i monumenti perenni del passato di Carpi, di questa cittadina pur così giovine e viva, che si inebria di rose ne’ suoi maggi, che dischiude le vie rettilinee sulle promesse sempre nuove della terra, che si avvolge dei festoni di cento vigneti, intrecciantisi come cori in danza, che insegna ai suoi figli l’ospitalità calda e aperta, alle sue figlie la grazia e che… ama il suo truciolo come una creatura, ne parla con tenerezza, è orgogliosa di lui perché, altre tante memorie vi sente tante speranze, vi riconosce il meglio de’ propri alacri spiriti, vi ravvisa il compito tutto suo proprio con cui pur essa concorre a creare questo prodigio di operosa genialità che, nella sua molteplice stirpe, fu sempre, nei secoli, questa bellissima Italia. Giovanni Bertacchi