Federici-Olivetti Belardinelli (2006).
Psicologia Clinica Dello Sviluppo,
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Un difficile accordo tra prevenzione e promozione
secondo il modello biopsicosociale della disabilità1
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Stefano FEDERICI
Marta OLIVETTI BELARDINELLI
Dipartimento di Scienze Umane e della
Formazione – Università degli Studi di Perugia
Email: [email protected]
Dipartimento di Psicologia – Università degli
Studi di Roma “La Sapienza”
Email: [email protected]
Il modello di disabilità proposto alla comunità internazionale
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS] e diffuso attraverso la
Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute [ICF]
(WHO, 2001), apre nuove prospettive sulla ridefinizione dell’intervento
preventivo. Definito come modello di tipo biopsicosociale, in quanto integra
le varie dimensioni del funzionamento umano proposte da due modelli
dicotomici che per anni hanno caratterizzato opposte fazioni all’interno del
dibattito internazionale sulla disabilità (il modello medico e il modello
sociale), il modello biopsicosociale risulta dirompente per il concetto di
“prevenzione terziaria che ha come scopo limitare le disabilità connesse al
disturbo”, come ricorda Ammaniti nell’intervento che inaugura questo
dibattito, ed apre una serie di problemi e di prospettive che vorremmo tentare
qui di richiamare.
Come l’evoluzione storica dei modelli di classificazione e degli strumenti di
misurazione della disabilità mette in evidenza, proprio sul terreno della
prevenzione terziaria si evidenziano le difficoltà di integrazione del modello
medico e del modello sociale. Infatti, sebbene già nel 1976 l’OMS avesse
approvato l’introduzione del modello sociale nella classificazione delle
disabilità, il primo tentativo di una classificazione internazionale della
disabilità (WHO, 1980, [ICIDH]) non riuscì a superare il modello medico,
sequenziale e causale (cfr. Bickenbach, Chatterji, Badley, e Üstün, 1999), che
faceva della disabilità (e/o handicap) l’esito diretto di una menomazione
dell’individuo che «limita o impedisce il compimento di una funzione che è
normale (rispetto all’età, al sesso e ai fattori sociali e culturali) per
quell’individuo» (ICIDH, p. 29).
Già un anno dopo la pubblicazione dell’ICIDH, la connessione causale tra
menomazione e handicap veniva messa in crisi da Disabled People’s
International, sulla base della distinzione avanzata dall’Union of the Physically
Impaired Against Segregation [UPIAS] tra: menomazione come limitazione
funzionale in un individuo causata da una particolare condizione fisica,
mentale e/o sensoriale, e disabilità come perdita o limitazione di opportunità
alla partecipazione di una vita normale della comunità al pari livello degli
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altri, dovuta alle barriere fisiche e sociali. Veniva così affermato un principio
fondamentale del modello sociale, ovverosia che «è la società che rende
disabili le persone con menomazione fisica. La disabilità è qualcosa di
imposto sopra le nostre menomazioni, ovverosia [i menomati vengono] isolati
ed esclusi come inutili dalla piena partecipazione alla vita della società».
Solo nel 2001 la nuova classificazione delle disabilità promossa dall’OMS,
l’ICF, è riuscita ad integrare questi principi con le condizioni di salute di un
individuo, cioè la dimensione “corporea” e “individuale” legata al concetto di
disabilità. La disabilità dunque non è più intesa come una conseguenza
manifesta di una condizione di salute patologica, ma come una specifica,
momentanea o permanente, modalità di “funzionamento” di un individuo in
un determinato contesto. Per questo si può sostenere che l’ICF «non classifica
le persone, ma descrive le situazioni di ciascuna persona nella forma dei
domini della Salute e ad essa connessi» (ICF, 3.3).
Il passaggio dal modello dell’ICIDH al modello dell’ICF ha conseguenze non
piccole sul concetto stesso di prevenzione. Infatti, la successione lineare che
ancora caratterizza il modello dell’ICIDH comporta un intervento di
prevenzione di tipo medico-psichiatrico come quello di G. Caplan (1964)
secondo il quale la prevenzione è rivolta e graduata rispetto al
disturbo/sintomo e quindi principalmente definita e misurata sull’individuo
portatore del disturbo (v. fig. 1).
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malattia
menomazione
disabilità
handicap
Prevenz.
Prevenz.
Prevenz.
PRIMARIA
PECONDARIA
TERZIARIA
Figura 1: Integrazione del modello di disabilità dell’ICIDH (WHO, 1981) e del modello
preventivo di Caplan (1964). Nella prima riga è riportato il diagramma dell’ICIDH mentre nella seconda riga
la successione dei livelli preventivi secondo il modello di Caplan.
Tutti i livelli di prevenzione, la primaria che tende a contenere la
menomazione, e la secondaria che mira a limitare le disabilità connesse al
disturbo, nonché la terziaria che agisce prima che una limitazione
nell’esecuzione di una attività, nel modo o nella misura considerato normale
per un essere umano, comprometta il compimento di quelle funzioni
considerate rilevanti per la sopravvivenza di un individuo in un determinato
contesto socioculturale (orientamento, indipendenza fisica, mobilità,
occupazione, integrazione sociale, autonomia economica [cfr. ICIDH, sez.
4]), sono comunque graduati, nel modello medico, rispetto all’individuo e al
“suo” sintomo.
Diversamente il modello biopsicosociale promosso dall’ICF considera la
disabilità come l’esito complesso e multiderminato di tre principali fattori: le
condizioni di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali.
La reciproca triadica causazione dei fattori supera la prospettiva eziologica a
sviluppo lineare che da alterate condizioni di salute conduce alla disabilità.
Nel nuovo modello biopsicosociale la disabilità, intesa sia come limitazione
delle abilità individuali, sia come restrizione nella partecipazione sociale, è
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certamente connessa ad uno stato di salute, considerato convenzionalmente
patologico, ma non per questo si considera causata necessariamente dallo
stesso stato di salute come nel modello lineare dell’ICIDH (v. fig: 2).
Condizioni di salute
Fattori ambientali
Fattori personali
Figura 2: Adattamento delle interazioni tra le componenti dell’ICF (cfr. ICF, p. 23).
La triadica circolarità dei fattori che influenzano la disabilità nel modello
biopsicosociale mette in questione gli attuali modelli di prevenzione alla
salute in quanto non permette di predire l’effetto causativo, proprio perché il
tempo stesso è una variabile del modificarsi delle relazioni causative.
Pertanto, è possibile stabilire solo ciò che in questo momento e in queste
condizioni ambientali determina una condizione di disabilità; viceversa, la
restrizione alla partecipazione ad attività considerate normali per
quell’individuo, limita o compromette l’esercizio di tali attività, determinando
un malfunzionamento dell’individuo e lasciando emergere la disabilità solo
nel qui e nell’ora del contesto in cui le barriere si manifestano.
Ne consegue che, poiché ogni modello preventivo che si fondi su una
concezione eziopatologica di disturbo deve descrivere aprioristicamente, in
un qui e in un’ora pre-visti, ogni condizione di disabilità, intesa come
manifestazione del malfunzionamento di un individuo, secondo il modello
biopsicosociale, la prevenzione, quale riduzione delle cause che determinano
l’insorgere di un sintomo e della sua morbosità, non può essere applicata alla
disabilità, non essendo possibile prevedere quali restrizioni emergeranno in
un determinato momento ed in un determinato contesto socioculturale.
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Quando N. Groce si recò nell’Isola di Vineyard, di fronte alle coste del
Massachusetts, per svolgere un’indagine sulla popolazione udente, abituata al
bilinguismo (Inglese e la Lingua dei Segni), essendo stata l’isola popolata da
un maggioranza di sordi, trovò che nessuno degli anziani udenti intervistati
identificava i sordi come un gruppo a sé, come “i sordi”. L’integrazione tra gli
udenti e i sordi era stata così perfetta che con difficoltà riuscivano ad elencare
più di uno o due loro conoscenti come sordi.
Ora, supponiamo che la Groce fosse stata inviata come responsabile di un
progetto governativo di prevenzione della sordità, e che avesse previsto un
piano generale di informazione sulle malattie geneticamente trasmissibili e
sui vantaggi che si sarebbero ottenuti nella salute degli isolani se i giovani si
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fossero accoppiati con altri provenienti dal continente. Immaginiamo ancora
che la Studiosa, sempre in qualità di rappresentate governativo, avesse
garantito a tutti i genitori con bambini sordi di poter ricevere finanziamenti
per il trapianto cocleare dei loro figli.
Ebbene, potremmo chiamare certamente questo un piano preventivo a favore
della salute generale della popolazione, ma certo non lo avremmo potuto
chiamare preventivo di una disabilità sensoriale. Infatti, pur non essendoci
dubbi che i sordi dell’Isola di Vineyard, come i sordi in ogni altra parte del
globo, soffrano di una disfunzione sensoriale, secondo uno standard medico,
pur tuttavia non possiamo dire che si sarebbe fatta una prevenzione alla
disabilità. Nell’Isola di Vineyard, infatti, nessun individuo sordo era un
disabile perché sordo. Quel tipo di prevenzione socio-sanitaria non avrebbe
rappresentato di certo un piano preventivo alla disabilità secondo il modello
biopsicosociale.
Questo non vuol dire che non si dovrebbe affrontare e prevenire il rischio che
correrebbe uno di quegli isolani sordi se, per esempio, già solo a poche miglia
di distanza dall’Isola Vineyard, si trovasse a transitare in una stazione
ferroviaria o in un aeroporto del Massachusetts, dove non solo la lingua dei
segni non è parlata dalla maggioranza delle persone, ma la gran parte delle
informazioni necessarie al funzionamento dei servizi è affidata alla lingua
parlata o a segnali acustici.
Quello che vogliamo affermare è che, se il modello medico di prevenzione
fosse applicato alla disabilità, esso non garantirebbe necessariamente un
miglioramento delle condizioni di integrazione individuale e sociale.
Alcune comunità di sordi, soprattutto francesi, stanno oggi combattendo
affinché non vengano stanziati fondi per la ricerca e la diffusione
dell’impianto cocleare (considerando anche, non solo la sua invasività in età
precoce ma anche i danni permanenti che provoca ai residui uditivi nella
percentuale di casi di insuccesso), quanto piuttosto vengano impiegati per
l’utilizzo sempre più diffuso nella comunicazione sociale, della lingua dei
segni, non invasiva per gli udenti, e con percentuali di insuccesso pari a
quelle dell’apprendimento di una qualsiasi seconda lingua. Un intervento
preventivo che tenesse conto di queste richieste non modificherebbe in alcun
modo le cause prossime o remote del sintomo sordità, ma la modalità di
comunicazione all’interno della comunità, tra udenti e sordi, non più
considerati questi ultimi come “malati”, “insani”, “non udenti”, venendo in
linea di principio considerato “normale” o “sano” ciascun individuo
appartenente alla popolazione o al gruppo di riferimento.
Il modello biopsicosociale ci offre anche una prospettiva sul concetto di salute
che non sempre collima con quella medica. Come detto sopra, l’ICF definisce
la disabilità come l’esito complesso e multideterminato della relazione tra la
condizione di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali
che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo (ICF, 4.4) e, stabilita la
circolarità causativa tra queste tre determinanti, anche il concetto di salute
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proposto dal modello biopsicosociale viene ad essere modificato, non
collimando più con quello improntato al modello medico. Dal momento che
ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso
individuo con una certa condizione di salute, come fa notare l’ICF «due
persone con la stessa malattia possono avere diversi livelli di funzionamento e
due persone con lo stesso livello di funzionamento non hanno
necessariamente la stessa condizione di salute» (ICF, p. 12). Ma non è tutto:
sulla base dell’interazione biunivoca e circolare tra le componenti, «la
presenza di una disabilità può anche modificare la stessa condizione di
salute» (ICF, p. 22). Le interconnessioni tra fattori di tipo biologico,
strutturale, funzionale, delle abilità, della partecipazione sociale, dei vari
contesti e delle varie dimensioni psicologiche e personali non concedono
eziologie semplici, centrate solo sui livelli fisiopatologico, neurologico ed
anatomico.
La salute resta un concetto discusso ed ampio resta il dibattito sollevato da
quanti hanno dimostrato quanto spesso le decisioni pubbliche riguardanti la
salute offrono risposte assai poco adeguate alla comprensione della propria
malattia e della sofferenza dei singoli pazienti (Kleinman, 1988; 1995). In un
ben noto studio riportato da A. Sen (2002) sulle differenze di autopercezione
della propria condizione patologica (morbilità) risulta, ad esempio, che gli
statunitensi hanno un punteggio di morbilità circa 10 volte maggiore di quello
percepito dagli abitanti di uno dei più poveri stati dell’India.
Figura 2: Incidenza della morbidità dichiarata in India, nella metà degli anni ‘70,
comparata con gli Stati Uniti, nella metà degli anni ‘80 (Murray & Chen, 1992; Drèze & Sen
2001).
Secondo i risultati di questa indagine dovremmo concludere
che le condizioni di salute della popolazione dello stato
indiano del Bihar sono migliori di quelle della popolazione
degli Stati Uniti d’America. In base a questi risultati ogni
progetto mondiale di intervento a favore della salute e della
qualità della vita delle popolazioni in via di sviluppo sembra
difficile da giustificare.
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Ma se si considera il fatto, difficile da contestare, che la salute di una persona
è qualcosa che sopravanza di molto la sua condizione medico-sanitaria,
comprendiamo anche l’importante contributo che il modello biopsicosociale
di disabilità può offrire sul piano della prevenzione: integrare la prevenzione
della salute con la promozione del benessere.
Quel che ci ha insegnato questa nuova prospettiva sulla disabilità è che la
salute e gli stati ad essa correlati non sono circoscrivibili ai soli indici che la
medicina può offrire. Dato il suo carattere difficilmente pre-vedibile, la salute
non può essere semplicemente programmata anticipatamente e garantita
preventivamente. Il funzionamento e la salute di un individuo possono
certamente giovarsi della prevenzione mirante a garantire standard di
vivibilità e prevenire condizioni di malessere. Ma non basta. La salute ha
bisogno di essere promossa. A differenza della prevenzione la promozione
non pre-vede uno standard di normalità a cui tendere, né una sindrome da
circoscrivere o eliminare. La promozione fa sue le condizioni ritenute
favorevoli nel qui e nell’ora e le diffonde attivamente.
Promuovere la disabilità non significa eliminare la disabilità, quanto piuttosto
abbattere le condizioni disabilitanti un individuo. Eliminare la disabilità può
spettare alla prevenzione, con tutti i rischi che ciò può comportare, mentre
abbattere le barriere sociali spetta alla promozione della disabilità, intenta a
promuovere la diversità.
Sul terreno della Psicologia cognitiva l’adozione del modello biopsicosociale
offre nuove prospettive, disancorando i paradigmi sperimentali dal
pregiudizio della “normalità” del funzionamento della mente umana.
I diversi e molteplici funzionamenti, anche quelli che una psicofisiologia
classificherebbe come anomali e menomati, possono essere considerati come
modi diversi di costruzione della realtà. Questa diversità di prospettive sul
mondo, quale risultato di processi diversi di elaborazione dell’informazione
da parte di ogni singolo individuo non più di per sé indicativa di deficit o
carenze, può rivelarsi foriera di inaspettati sviluppi.
L’originalità della costruzione individuale del rapporto circolare tra salute,
ambiente ed individuo svuota di significato l’uso corrente del termine
disabilità, mettendo piuttosto in evidenza la novità del risultato prodotto da
tale agire diversamente umano.
La promozione più che la prevenzione della disabilità anche nel campo della
ricerca scientifica è una sfida, che spesso sconvolge alcuni assunti
correntemente accettati, alla ricerca di mondi possibili.
Riferimenti bibliografici
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disablement, universalism and the international classification of impairments,
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Caplan, G. (1964). Principles of Preventive Psychiatry. Oxford, England: Basic
Book.
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Drèze, J., & Sen, A. (2001). India: development and participation. Oxford: Oxford
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Haward University Press.
Kleinman, A. (1988). The illness narrative: suffering, healing and the human
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Kleinman, A. (1995). Writing at the margin: discourse between anthropology and
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Murray, C. J. L., & Chen, L. C. (1992). Understanding morbidity change.
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