Federici-Olivetti Belardinelli (2006). Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 Un difficile accordo tra prevenzione e promozione secondo il modello biopsicosociale della disabilità1 330 Stefano FEDERICI Marta OLIVETTI BELARDINELLI Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione – Università degli Studi di Perugia Email: [email protected] Dipartimento di Psicologia – Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Email: [email protected] Il modello di disabilità proposto alla comunità internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS] e diffuso attraverso la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute [ICF] (WHO, 2001), apre nuove prospettive sulla ridefinizione dell’intervento preventivo. Definito come modello di tipo biopsicosociale, in quanto integra le varie dimensioni del funzionamento umano proposte da due modelli dicotomici che per anni hanno caratterizzato opposte fazioni all’interno del dibattito internazionale sulla disabilità (il modello medico e il modello sociale), il modello biopsicosociale risulta dirompente per il concetto di “prevenzione terziaria che ha come scopo limitare le disabilità connesse al disturbo”, come ricorda Ammaniti nell’intervento che inaugura questo dibattito, ed apre una serie di problemi e di prospettive che vorremmo tentare qui di richiamare. Come l’evoluzione storica dei modelli di classificazione e degli strumenti di misurazione della disabilità mette in evidenza, proprio sul terreno della prevenzione terziaria si evidenziano le difficoltà di integrazione del modello medico e del modello sociale. Infatti, sebbene già nel 1976 l’OMS avesse approvato l’introduzione del modello sociale nella classificazione delle disabilità, il primo tentativo di una classificazione internazionale della disabilità (WHO, 1980, [ICIDH]) non riuscì a superare il modello medico, sequenziale e causale (cfr. Bickenbach, Chatterji, Badley, e Üstün, 1999), che faceva della disabilità (e/o handicap) l’esito diretto di una menomazione dell’individuo che «limita o impedisce il compimento di una funzione che è normale (rispetto all’età, al sesso e ai fattori sociali e culturali) per quell’individuo» (ICIDH, p. 29). Già un anno dopo la pubblicazione dell’ICIDH, la connessione causale tra menomazione e handicap veniva messa in crisi da Disabled People’s International, sulla base della distinzione avanzata dall’Union of the Physically Impaired Against Segregation [UPIAS] tra: menomazione come limitazione funzionale in un individuo causata da una particolare condizione fisica, mentale e/o sensoriale, e disabilità come perdita o limitazione di opportunità alla partecipazione di una vita normale della comunità al pari livello degli In corso di pubblicazione su Psicologia clinica dello sviluppo. Non è autorizzata dagli autori la riproduzione. 1 1 Federici-Olivetti Belardinelli (2006). Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 altri, dovuta alle barriere fisiche e sociali. Veniva così affermato un principio fondamentale del modello sociale, ovverosia che «è la società che rende disabili le persone con menomazione fisica. La disabilità è qualcosa di imposto sopra le nostre menomazioni, ovverosia [i menomati vengono] isolati ed esclusi come inutili dalla piena partecipazione alla vita della società». Solo nel 2001 la nuova classificazione delle disabilità promossa dall’OMS, l’ICF, è riuscita ad integrare questi principi con le condizioni di salute di un individuo, cioè la dimensione “corporea” e “individuale” legata al concetto di disabilità. La disabilità dunque non è più intesa come una conseguenza manifesta di una condizione di salute patologica, ma come una specifica, momentanea o permanente, modalità di “funzionamento” di un individuo in un determinato contesto. Per questo si può sostenere che l’ICF «non classifica le persone, ma descrive le situazioni di ciascuna persona nella forma dei domini della Salute e ad essa connessi» (ICF, 3.3). Il passaggio dal modello dell’ICIDH al modello dell’ICF ha conseguenze non piccole sul concetto stesso di prevenzione. Infatti, la successione lineare che ancora caratterizza il modello dell’ICIDH comporta un intervento di prevenzione di tipo medico-psichiatrico come quello di G. Caplan (1964) secondo il quale la prevenzione è rivolta e graduata rispetto al disturbo/sintomo e quindi principalmente definita e misurata sull’individuo portatore del disturbo (v. fig. 1). 331 malattia menomazione disabilità handicap Prevenz. Prevenz. Prevenz. PRIMARIA PECONDARIA TERZIARIA Figura 1: Integrazione del modello di disabilità dell’ICIDH (WHO, 1981) e del modello preventivo di Caplan (1964). Nella prima riga è riportato il diagramma dell’ICIDH mentre nella seconda riga la successione dei livelli preventivi secondo il modello di Caplan. Tutti i livelli di prevenzione, la primaria che tende a contenere la menomazione, e la secondaria che mira a limitare le disabilità connesse al disturbo, nonché la terziaria che agisce prima che una limitazione nell’esecuzione di una attività, nel modo o nella misura considerato normale per un essere umano, comprometta il compimento di quelle funzioni considerate rilevanti per la sopravvivenza di un individuo in un determinato contesto socioculturale (orientamento, indipendenza fisica, mobilità, occupazione, integrazione sociale, autonomia economica [cfr. ICIDH, sez. 4]), sono comunque graduati, nel modello medico, rispetto all’individuo e al “suo” sintomo. Diversamente il modello biopsicosociale promosso dall’ICF considera la disabilità come l’esito complesso e multiderminato di tre principali fattori: le condizioni di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali. La reciproca triadica causazione dei fattori supera la prospettiva eziologica a sviluppo lineare che da alterate condizioni di salute conduce alla disabilità. Nel nuovo modello biopsicosociale la disabilità, intesa sia come limitazione delle abilità individuali, sia come restrizione nella partecipazione sociale, è 2 Federici-Olivetti Belardinelli (2006). Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 certamente connessa ad uno stato di salute, considerato convenzionalmente patologico, ma non per questo si considera causata necessariamente dallo stesso stato di salute come nel modello lineare dell’ICIDH (v. fig: 2). Condizioni di salute Fattori ambientali Fattori personali Figura 2: Adattamento delle interazioni tra le componenti dell’ICF (cfr. ICF, p. 23). La triadica circolarità dei fattori che influenzano la disabilità nel modello biopsicosociale mette in questione gli attuali modelli di prevenzione alla salute in quanto non permette di predire l’effetto causativo, proprio perché il tempo stesso è una variabile del modificarsi delle relazioni causative. Pertanto, è possibile stabilire solo ciò che in questo momento e in queste condizioni ambientali determina una condizione di disabilità; viceversa, la restrizione alla partecipazione ad attività considerate normali per quell’individuo, limita o compromette l’esercizio di tali attività, determinando un malfunzionamento dell’individuo e lasciando emergere la disabilità solo nel qui e nell’ora del contesto in cui le barriere si manifestano. Ne consegue che, poiché ogni modello preventivo che si fondi su una concezione eziopatologica di disturbo deve descrivere aprioristicamente, in un qui e in un’ora pre-visti, ogni condizione di disabilità, intesa come manifestazione del malfunzionamento di un individuo, secondo il modello biopsicosociale, la prevenzione, quale riduzione delle cause che determinano l’insorgere di un sintomo e della sua morbosità, non può essere applicata alla disabilità, non essendo possibile prevedere quali restrizioni emergeranno in un determinato momento ed in un determinato contesto socioculturale. 332 Quando N. Groce si recò nell’Isola di Vineyard, di fronte alle coste del Massachusetts, per svolgere un’indagine sulla popolazione udente, abituata al bilinguismo (Inglese e la Lingua dei Segni), essendo stata l’isola popolata da un maggioranza di sordi, trovò che nessuno degli anziani udenti intervistati identificava i sordi come un gruppo a sé, come “i sordi”. L’integrazione tra gli udenti e i sordi era stata così perfetta che con difficoltà riuscivano ad elencare più di uno o due loro conoscenti come sordi. Ora, supponiamo che la Groce fosse stata inviata come responsabile di un progetto governativo di prevenzione della sordità, e che avesse previsto un piano generale di informazione sulle malattie geneticamente trasmissibili e sui vantaggi che si sarebbero ottenuti nella salute degli isolani se i giovani si 3 Federici-Olivetti Belardinelli (2006). Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 fossero accoppiati con altri provenienti dal continente. Immaginiamo ancora che la Studiosa, sempre in qualità di rappresentate governativo, avesse garantito a tutti i genitori con bambini sordi di poter ricevere finanziamenti per il trapianto cocleare dei loro figli. Ebbene, potremmo chiamare certamente questo un piano preventivo a favore della salute generale della popolazione, ma certo non lo avremmo potuto chiamare preventivo di una disabilità sensoriale. Infatti, pur non essendoci dubbi che i sordi dell’Isola di Vineyard, come i sordi in ogni altra parte del globo, soffrano di una disfunzione sensoriale, secondo uno standard medico, pur tuttavia non possiamo dire che si sarebbe fatta una prevenzione alla disabilità. Nell’Isola di Vineyard, infatti, nessun individuo sordo era un disabile perché sordo. Quel tipo di prevenzione socio-sanitaria non avrebbe rappresentato di certo un piano preventivo alla disabilità secondo il modello biopsicosociale. Questo non vuol dire che non si dovrebbe affrontare e prevenire il rischio che correrebbe uno di quegli isolani sordi se, per esempio, già solo a poche miglia di distanza dall’Isola Vineyard, si trovasse a transitare in una stazione ferroviaria o in un aeroporto del Massachusetts, dove non solo la lingua dei segni non è parlata dalla maggioranza delle persone, ma la gran parte delle informazioni necessarie al funzionamento dei servizi è affidata alla lingua parlata o a segnali acustici. Quello che vogliamo affermare è che, se il modello medico di prevenzione fosse applicato alla disabilità, esso non garantirebbe necessariamente un miglioramento delle condizioni di integrazione individuale e sociale. Alcune comunità di sordi, soprattutto francesi, stanno oggi combattendo affinché non vengano stanziati fondi per la ricerca e la diffusione dell’impianto cocleare (considerando anche, non solo la sua invasività in età precoce ma anche i danni permanenti che provoca ai residui uditivi nella percentuale di casi di insuccesso), quanto piuttosto vengano impiegati per l’utilizzo sempre più diffuso nella comunicazione sociale, della lingua dei segni, non invasiva per gli udenti, e con percentuali di insuccesso pari a quelle dell’apprendimento di una qualsiasi seconda lingua. Un intervento preventivo che tenesse conto di queste richieste non modificherebbe in alcun modo le cause prossime o remote del sintomo sordità, ma la modalità di comunicazione all’interno della comunità, tra udenti e sordi, non più considerati questi ultimi come “malati”, “insani”, “non udenti”, venendo in linea di principio considerato “normale” o “sano” ciascun individuo appartenente alla popolazione o al gruppo di riferimento. Il modello biopsicosociale ci offre anche una prospettiva sul concetto di salute che non sempre collima con quella medica. Come detto sopra, l’ICF definisce la disabilità come l’esito complesso e multideterminato della relazione tra la condizione di salute di un individuo, i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo (ICF, 4.4) e, stabilita la circolarità causativa tra queste tre determinanti, anche il concetto di salute 4 Federici-Olivetti Belardinelli (2006). 333 Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 proposto dal modello biopsicosociale viene ad essere modificato, non collimando più con quello improntato al modello medico. Dal momento che ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso individuo con una certa condizione di salute, come fa notare l’ICF «due persone con la stessa malattia possono avere diversi livelli di funzionamento e due persone con lo stesso livello di funzionamento non hanno necessariamente la stessa condizione di salute» (ICF, p. 12). Ma non è tutto: sulla base dell’interazione biunivoca e circolare tra le componenti, «la presenza di una disabilità può anche modificare la stessa condizione di salute» (ICF, p. 22). Le interconnessioni tra fattori di tipo biologico, strutturale, funzionale, delle abilità, della partecipazione sociale, dei vari contesti e delle varie dimensioni psicologiche e personali non concedono eziologie semplici, centrate solo sui livelli fisiopatologico, neurologico ed anatomico. La salute resta un concetto discusso ed ampio resta il dibattito sollevato da quanti hanno dimostrato quanto spesso le decisioni pubbliche riguardanti la salute offrono risposte assai poco adeguate alla comprensione della propria malattia e della sofferenza dei singoli pazienti (Kleinman, 1988; 1995). In un ben noto studio riportato da A. Sen (2002) sulle differenze di autopercezione della propria condizione patologica (morbilità) risulta, ad esempio, che gli statunitensi hanno un punteggio di morbilità circa 10 volte maggiore di quello percepito dagli abitanti di uno dei più poveri stati dell’India. Figura 2: Incidenza della morbidità dichiarata in India, nella metà degli anni ‘70, comparata con gli Stati Uniti, nella metà degli anni ‘80 (Murray & Chen, 1992; Drèze & Sen 2001). Secondo i risultati di questa indagine dovremmo concludere che le condizioni di salute della popolazione dello stato indiano del Bihar sono migliori di quelle della popolazione degli Stati Uniti d’America. In base a questi risultati ogni progetto mondiale di intervento a favore della salute e della qualità della vita delle popolazioni in via di sviluppo sembra difficile da giustificare. 5 Federici-Olivetti Belardinelli (2006). 334 Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 Ma se si considera il fatto, difficile da contestare, che la salute di una persona è qualcosa che sopravanza di molto la sua condizione medico-sanitaria, comprendiamo anche l’importante contributo che il modello biopsicosociale di disabilità può offrire sul piano della prevenzione: integrare la prevenzione della salute con la promozione del benessere. Quel che ci ha insegnato questa nuova prospettiva sulla disabilità è che la salute e gli stati ad essa correlati non sono circoscrivibili ai soli indici che la medicina può offrire. Dato il suo carattere difficilmente pre-vedibile, la salute non può essere semplicemente programmata anticipatamente e garantita preventivamente. Il funzionamento e la salute di un individuo possono certamente giovarsi della prevenzione mirante a garantire standard di vivibilità e prevenire condizioni di malessere. Ma non basta. La salute ha bisogno di essere promossa. A differenza della prevenzione la promozione non pre-vede uno standard di normalità a cui tendere, né una sindrome da circoscrivere o eliminare. La promozione fa sue le condizioni ritenute favorevoli nel qui e nell’ora e le diffonde attivamente. Promuovere la disabilità non significa eliminare la disabilità, quanto piuttosto abbattere le condizioni disabilitanti un individuo. Eliminare la disabilità può spettare alla prevenzione, con tutti i rischi che ciò può comportare, mentre abbattere le barriere sociali spetta alla promozione della disabilità, intenta a promuovere la diversità. Sul terreno della Psicologia cognitiva l’adozione del modello biopsicosociale offre nuove prospettive, disancorando i paradigmi sperimentali dal pregiudizio della “normalità” del funzionamento della mente umana. I diversi e molteplici funzionamenti, anche quelli che una psicofisiologia classificherebbe come anomali e menomati, possono essere considerati come modi diversi di costruzione della realtà. Questa diversità di prospettive sul mondo, quale risultato di processi diversi di elaborazione dell’informazione da parte di ogni singolo individuo non più di per sé indicativa di deficit o carenze, può rivelarsi foriera di inaspettati sviluppi. L’originalità della costruzione individuale del rapporto circolare tra salute, ambiente ed individuo svuota di significato l’uso corrente del termine disabilità, mettendo piuttosto in evidenza la novità del risultato prodotto da tale agire diversamente umano. La promozione più che la prevenzione della disabilità anche nel campo della ricerca scientifica è una sfida, che spesso sconvolge alcuni assunti correntemente accettati, alla ricerca di mondi possibili. Riferimenti bibliografici Bickenbach, J. E., Chatterji, S., Badley, E. M., & Üstün, T. B. (1999). Models of disablement, universalism and the international classification of impairments, disabilities and handicaps. Social Science and Medicine, 48(9), 1173-1187. Caplan, G. (1964). Principles of Preventive Psychiatry. Oxford, England: Basic Book. 6 Federici-Olivetti Belardinelli (2006). Psicologia Clinica Dello Sviluppo, 10(2), 330-334 Drèze, J., & Sen, A. (2001). India: development and participation. Oxford: Oxford University Press. Groce, N. E. (1985). Everyone Here Spoke Sign Language. Cambridge, MA: Haward University Press. Kleinman, A. (1988). The illness narrative: suffering, healing and the human condition. New York: Basic Books. Kleinman, A. (1995). Writing at the margin: discourse between anthropology and medicine. Berkeley: University of California Press. Murray, C. J. L., & Chen, L. C. (1992). Understanding morbidity change. Population and Development Review, 18(3), 481-503. Sen, A. (1998). Mortality as an Indicator of Economic Success and Failure. Economic Journal, 108(446), 1-25. World Health Organization. (1980). International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps. A Manual of classification relating to the consequences of disease. Geneva: World Health Organization. World Health Organization. (2001). International Classification of Functioning, Disability and Health: ICF . Geneva: World Health Organization. 7