Grandi speranze, incipit My father's family name being Pirrip, and my Christian name Philip, my infant tongue could make of both names nothing longer or more explicit than Pip. So, I called myself Pip, and came to be called Pip. Grandi speranze, incipit Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972) “Il narratore, all’interno del suo racconto, può esistere solo (come qualunque soggetto dell’enunciazione in un enunciato) in “prima persona” […] La scelta del romanziere non si verifica fra due forme grammaticali, ma fra due atteggiamenti narrativi […]: far raccontare la storia a uno dei “personaggi” o da un narratore estraneo alla storia stessa. La presenza di verbi in prima persona in un testo narrativo può quindi rinviare a due situazioni diversissime, confuse dalla grammatica ma necessariamente distinguibili da parte dell’analisi narrativa: la designazione del narratore in quanto tale da parte di se stesso, come quando Virgilio scrive “Arma virumque cano…”, e l’identità di persona tra il narratore e uno dei personaggi della storia, come quando Crusoe scrive: “Io nacqui nel 1632 a York…”. Grandi speranze, incipit Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972) Il termine “racconto in prima persona” si riferisce, è scontato, solo alla seconda situazione […]. Dato che il narratore può, in ogni momento, intervenire come tale nel racconto, qualunque narrazione è, per definizione, virtualmente fatta in prima persona […]. Il vero problema è sapere se il narratore ha o no l’occasione di usare la prima persona per designare uno dei suoi personaggi. Distingueremo perciò ora due tipi di racconto: il primo con narratore assente dalla storia raccontata (esempio: Flaubert nell’Educazione sentimentale), e il secondo con narratore presente come personaggio nella storia raccontata [esempio: Pip in Grandi speranze]. Chiamo il primo tipo eterodiegetico, e il secondo omodiegetico” (29293). Grandi speranze, incipit Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972) “L’assenza è assoluta, ma la presenza ha le sue gradazioni. Sarà dunque necessario distinguere due varietà all’interno del tipo omodiegetico: una, dove il narratore è protagonista del suo racconto, l’altra, dove si limita a sotenere un ruolo secondario, coincidente con un ruolo d’osservatore e di testimone […] Alla prima varietà riserviamo il termine di autodiegetico: rappresenta, in un certo senso, il grado forte dell’omodiegetico” (293). Grandi speranze, incipit Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972) • Narratore eterodiegetico, assente dalla storia: NP (Il rosso e il nero) • Narratore omodiegetico, presente come personaggio nella storia: N=P • Narratore autodiegetico, protagonista della storia (Grandi speranze) Grandi speranze, incipit Livelli della narrazione autobiografica retrospettiva Livello Storia Narrazione Soggetto Io narrato (Pip personaggio) Io narrante (Pip narratore) Tempo X1X2X3… (momenti successivi della storia) Y (momento indeterminato della narrazione) Grandi speranze, incipit Brooks, Trame: “Come accade in molti romanzi dell’Ottocento, l’eroe è orfano, non determinato dunque da eredità o condizionamenti visibili, apparentemente privo d’autore: questo elimina subito, ad esempio, i problemi che Julien Sorel avverte nei confronti della paternità. Possono essevi ragioni sociologiche e ragioni sentimentali per l’alta incidenza di orfani nel romanzo dell’Ottocento, ma è chiaro ad ogni modo che un protagonista privo di genitori libera l’autore da ogni conflitto con autorità preesistenti, consentendogli di partire da zero per creare tutti i motivi determinanti della trama all’interno del suo testo. […] Quanto lo vediamo per la prima volta, Pip è in cerca di un’’autorità’ (questa parola figura nel secondo paragrafo del romanzo) che possa definire, giustificare, ‘autorizzare’ l’intreccio successivo della sua vita” (125). Il romanzo vittoriano Walter Allen, The English Novel (1954): “[I vittoriani] accettavano senza problemi la società in cui vivevano; o piuttosto, quando la criticavano, la criticavano nel modo in cui lo stavano facendo molti dei loro lettori. Davano voce ai loro dubbi e paure; condividevano pienamente gli assunti della loro epoca. […] Certo, erano consapevoli quanto noi, se guardiamo indietro, delle tensioni e delle contraddizioni dei loro tempi, il caos causato dalla rivoluzione industriale, la presenza della povertà di massa […] Erano, dunque, attentamente consapevoli dei mali della loro epoca; eppure non potevano non credere che questi mali […] avrebbero finito per essere puramente temporanei, perché su tutti i fronti affiorava la più palese evidenza dell’enorme incremento della ricchezza materiale e delle comodità fisiche arrecate dalla civiltà. Sembravano non esserci buone ragioni perché questo progresso non dovesse continuare indefinitamente”. Il romanzo vittoriano Walter Allen, The English Novel (1954): “C’erano, ovviamente, voci dissonanti […]. Ma in complesso, i primi vittoriani accettavano l’idea del progresso senza troppi problemi. L’epoca mostra il trionfo del protestantesimo, e forse il suo grande compimento fu l’accettazione universale dell’idea di rispettabilità”. “Questo senso di identità con i loro tempi è fondamentale importanza in ogni considerazione dei primi romanzieri vittoriani. È la fonte sia della loro forza che della loro debolezza, e li distingue sia dai loro successori che dai loro grandi contemporanei europei”. Il romanzo vittoriano Walter Allen, The English Novel (1954): “Ciò non significa che i vittoriani fossero acritici rispetto al loro paese e alla loro epoca, ma le loro critiche sono molto meno radicali di quelle, mettiamo, di Balzac, Stendhal, Turgenev, Flaubert e Dostoevskij, e sono di tipo diverso. Per una buona ragione: la condizione dell’Inghilterra in in confronto con quella della Francia e della Russia. [...] La Francia ha subito un rapido declino rispetto all’epoca eroica della Rivoluzione e di Napoleone. La gloria è svanita, e il declino è consistito in una discesa nella volgarità, in tutto ciò che può essere condensato nella parola bourgeois. Balzac, Stendhal e Flaubert sono stati grandi romantici che, invece di voltare le spalle al mondo con disgusto, si sono rivolti verso di esso con disgusto e lo hanno combattuto con le sue stesse armi. In loro il realismo è nato come un credo estetico”. Charles Dickens (1812-1870) • Nasce il 7 febbraio 1812 a Landport, presso Portsmouth, secondo di otto figli; • Padre: John Dickens; Madre: Elisabeth Barrow • 1815: Trasferimento a Londra • 1817: Trasferimento a Chatham (Kent) • 1823: Nuovo trasferimento a Londra Arresto del padre • Feb. 1824: Il padre viene arrestato per debiti. Charles inizia a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe • Mag. 1824: Il padre viene rilasciato • 1824-27: Studi scolastici Charles Dickens (1812-1870) • 1927: Assunto come aiutante in un ufficio legale • 1929: Assunto come stenografo parlamentare • 1834: Assunto come cronista dal “Morning Chronicle” Prime opere • Set. 1834: Primo bozzetto pubblicato sul “Morning Chronicle”, firmato con lo pseudonimo “Boz” • 1836: Raccolta e pubblicazione degli Sketches by Boz • 1836-37 (puntate mensili): The Pickwick Papers (Il circolo Pickwick) • 1836: Matrimonio con Catherine Hogarth Romanzi • 1837-38: Oliver Twist • 1840-41: The Old Curiosity Shop (La bottega dell’antiquario) • 1843-48: Racconti di Natale • 1846-48: Dombey and Son (Dombey e figlio) • 1849-50: David Copperfield • 1852-53: Bleak House (Casa desolata) • 1854: Hard Times (Tempi difficili) • 1859: A Tale of Two Cities (Racconto tra due città) Great Expectations (Grandi speranze) • Maggio 1859: Fonda e dirige la rivista “All the Year Round”, su cui escono A Tale of Two Cities e Wilkie Collins, The Woman in White (La donna in bianco, 1860) • Autunno 1860: Vendite in forte calo • 1 dic. 1860-3 ago. 1861: Pubblicazione del romanzo a puntate settimanali • 1864-65: Our Mutual Friend (Il nostro comune amico) • 1870: The Mystery of Edwin Drood (Il mistero di Edwin Drood, incompiuto) Peter Brooks, Trame •Trama ufficiale: Il sogno della Satis House / Storia di fate “my fairy godmother” (p. 170) • Trama repressa: L’incubo della Satis House / Storia di streghe “the witch of the place” (p. 92) Peter Brooks, Trame “Il sogno della Satis House è un sogno ad occhi aperti, dove ‘Sua Maestà l’Io’ si compiace di accarezzare fantasie di ascesa sociale e di raffinatezza. A Miss Havisham viene assegnato il ruolo della buona fata madrina: la sua stampella è una bacchetta magica, esplicitamente evocata per ben due volte verso la fine della prima parte. Questa trama ha del resto una sua sanzione da parte degli adulti: viene formulata la prima volta da Pumblechook e dalla moglie di Joe quando avanzano l’ipotesi che l’anziana signorina intenda ‘fare qualcosa’ per Pip; e Pip naturalmente ci crede, in modo che quando le ‘speranze’ si materializzano egli le accetta come naturale realizzazione del suo sogno, delle sue ‘aspirazioni’. Peter Brooks, Trame Eppure, identificare Satis House con il sogno significa cancellare a viva forza tutte le altre cose che quella casa suggerisce e rappresenta, tutto ciò che si raggruma intorno al simbolo centrale della torta nuziale ormai guasta e maleodorante e delle cose che vi strisciano sopra. […] Ogni tentativo di leggere la Satis House come un messaggio di raffinatezza e di scalata sociale può essere sovvertito fin dall’inizio” (129-30) Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica (1970) • Strano: Avvenimenti insoliti, in un contesto normale e razionale • Meraviglioso: Avvenimenti impossibili, soprannaturali • Fantastico: Incertezza, esitazione tra una spiegazione razionale e una spiegazione soprannaturale Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica (1970) “Così penetriamo nel cuore del fantastico. In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da regole a noi ignote. […]” Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica (1970) “Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale”. Peter Brooks, Trame “È importante notare come questo incipit caratterizzi Pip come un’esistenza priva di trama, al momento esatto in cui si verifica l’evento che risulterà decisivo per l’intreccio futuro della sua vita, come egli stesso scoprirà a due terzi almeno del romanzo. È un essere alieno, non garantito da autorità paterne, autonominatosi; e sul punto di entrare a far parte del codice linguistico e del sistema sociale che sottintende, Pip sarà per tutta la prima parte del romanzo in cerca di una trama, mentre il romanzo racconterà la graduale precipitazione di un senso della trama, il delinearsi inatteso di direzioni e intenzioni insospettate intorno a lui” (127). Distizione tra io narrante e io narrato a) Riferimenti espliciti all’atto della scrittura: “mi sembra di vederlo [un personaggio], mentre scrivo” (281) “mentre scrivo queste parole” (487) b) Contrapposizioni esplicite tra il presente e il passato “Adesso lo racconto celiando, ma allora non fu affatto uno scherzo, per me” (331) c) Enfasi sul processo del ricordo: “L’intera scena mi si staglia dinanzi vividamente, rivedo perfino le gocce di pioggia d’aprile sulle finestre del Tribunale...” (487) d) Anticipazioni, allusioni a quello che succederà più avanti: “io solo so quanto Estella mi fece soffrire in seguito” (90) “In seguito, nella mia esistenza...” (115) “vedremo fra poco che...” (435) “vi era qualcosa di vago che indugiava nei miei pensieri, e che si rivelerà alla fine di questo povero racconto” (480) Distizione tra io narrante e io narrato e) Giudizi retrospettivi sul proprio comportamento passato: “Ero troppo vigliacco per fare ciò che sapevo essere il bene, così come ero stato troppo vigliacco per evitare di fare ciò che sapevo essere il male” (45) f) Constatazioni della propria ignoranza passata: “A quel tempo, non avevo nessuna esperienza del mondo…” (45-46) “A quel tempo non sapevo nulla...” (66) g) Constatazioni della differenza tra la prospettiva del passato e quella del futuro: “Allora vedevo le cose ben diversamente da come le vidi poi nella vita...” (49) Jean Rousset, Forma e significato (1962) • “Struttura del doppio registro”, fondata sulla distinzione tra io narrante e io narrato e sulla distanza (temporale, conoscitiva, esistenziale) tra i due soggetti • Ne parla a proposito di un romanzo di Marivaux, La Vie de Marianne (1731-41) “Marianne è al tempo stesso colei che vive le sue avventure e colei che le racconta [...]. Tuttavia, i due registri non si confondono [...], restano distinti e disgiunti: la Marianne matura che racconta non è la giovane Marianne che viveva il suo isolamento e il suo amore; ella la considera da lontano; la Marianne del presente ha per la Marianne del passato lo sguardo di un autore per un personaggio di cui conosce il destino e che gli è per metà estraneo; narratrice di se stessa, ma di una se stessa lontana, ella interviene costantemente nel suo racconto” Great Expectations, cap. XXIX: “Betimes in the morning I was up and out. It was too early yet to go to Miss Havisham's, so I loitered into the country on Miss Havisham's side of town - which was not Joe's side; I could go there to-morrow - thinking about my patroness, and painting brilliant pictures of her plans for me. She had adopted Estella, she had as good as adopted me, and it could not fail to be her intention to bring us together. She reserved it for me to restore the desolate house, admit the sunshine into the dark rooms, set the clocks a–going and the cold hearths a–blazing, tear down the cobwebs, destroy the vermin,—in short, do all the shining deeds of the young Knight of romance, and marry the Princess. I had stopped to look at the house as I passed; and its seared red brick walls, blocked windows, and strong green ivy clasping even the stacks of chimneys with its twigs and tendons, as if with sinewy old arms, had made up a rich attractive mystery, of which I was the hero. Estella was the inspiration of it, and the heart of it, of course. But, though she had taken such strong possession of me, though my fancy and my hope were so set upon her, though her influence on my boyish life and character had been all–powerful, I did not, even that romantic morning, invest her with any attributes save those she possessed. I mention this in this place, of a fixed purpose, because it is the clue by which I am to be followed into my poor labyrinth. According to my experience, the conventional notion of a lover cannot be always true. The unqualified truth is, that when I loved Estella with the love of a man, I loved her simply because I found her irresistible. Once for all; I knew to my sorrow, often and often, if not always, that I loved her against reason, against promise, against peace, against hope, against happiness, against all discouragement that could be. Once for all; I loved her none the less because I knew it, and it had no more influence in restraining me, than if I had devoutly believed her to be human perfection. Franco Moretti, Il romanzo di formazione “Common è un termine dalla storia lunga e complicata, [che] vive della sovrapposizione tra l’ambito semantico del “diffuso”, “comune”, “ordinario”, “normale”, e quello chel “non degno di nota”, “banale”, “volgare”, e financo “spregevole”. Sensibile com’è alle distinzioni di classe, e desideroso di farvi la sua figura, Pip coglie automaticamente l’accezione spregiativa del termine, e cerca di sottrarvisi” (210-211). Franco Moretti, Il romanzo di formazione “Nel romanzo inglese le esperienze più significative non sono quelle che alterano, ma quelle che confermano le scelte compiute dall’”innocenza” infantile. Più che romanzo di formazione, vien voglia di chiamarlo romanzo di conservazione” Peter Brooks, Trame “La parte centrale del romanzo […] appare caratterizzata dal tema del ritorno. Sul piano letterale: proprio i vari ritorni di Pip da Londra alla sua città natale costituiscono il Leitmotiv dell’intera sezione londinese, la fase delle speranze e il loro epilogo. Apparentemente, i ritorni di Pip sono dovuti al desiderio di riparare al male fatto al povero e trascurato Joe, un’intenzione che peraltro non viene mai realizzata; implicitamente, c’è sempre il desiderio di scoprire le intenzioni della presunta benefattrice della Satis House, e di portare a compimento le trame da lei ordite. Ma in realtò ad ogni ritorno corrisponde una regressione, nella Satis House, alla condizione del ‘ragazzotto rozzo e volgare’ (cap. XXIX) che invano sogna la sua scalata sociale, in un incubo di ripetizioni frustranti e senza esito alcuno; al tempo stesso, rivive l’altro incubo infantile, quello rimosso, del legame con il galeotto”. Peter Brooks, Trame Entrambi i ritorni ribadiscono come le trame ‘ufficiali’ di Pip, apparentemente improntate al progresso, all’ascesa e alla soddisfazione del desiderio, siano in effetti soggette a un processo di ripetizione di un passato non ancora dominato, vera forza determinante della sua vita e della sua carriera” (p. 136). Peter Brooks, Trame “Se il modello del Bildungsroman sembra sottintendere una tensione progressiva, verso uno sviluppo e un mutamento, la storia di Pip – e questo può valere anche per vari altri romanzi di educazione nell’Ottocento – man mano che procede appare sempre più chiaramente frutto delle vicende passate, un tentativo di ritorno alle origini per ritrovarvi le motivazioni e la chiave di quanto altrimenti non può non risultare, come Pip stesso dice a Miss Havisham, una vita ‘cieca e senza gioia’ (cap. XLIX). Il passato esige di essere incorporato come passato all’interno del presente, dominato attraverso il gioco delle ripetizioni perché ci possa essere una salvezza dalle ripetizioni stesse, e si possa arrivare a una realizzazione del cambiamento, della differenza, del progresso” (144). Il suspense Emile Zola, Il Naturalismo nel teatro (1881): “Il romanzo naturalista è semplicemente una ricerca sulla natura, gli uomini e le cose. Esso non ha più alcun interesse per l’ingegnosità di un racconto bene inventato e svolto secondo certe regole. L’immaginazione non ha più spazio, l’intreccio importa poco al romanziere, il quale non si preoccupa né dell’esposizione, né della trama, né della conclusione; egli cioè non interviene per togliere o aggiungere nulla alla realtà, non costruisce di sana pianta una impalcatura secondo le esigenze di un’idea concepita prima. Si parte dal presupposto che la natura è sufficiente; bisogna accettarla quale è senza modificarla o rifinirla in niente [...]. Il suspense Emile Zola, Il Naturalismo nel teatro (1881): Invece di immaginare un’avventura, di complicarla, distribuendo colpi di scena che la conducano via via ad una conclusione finale, si prende semplicemente nella vita la storia di un uomo o di un gruppo di uomini, di cui si registrano fedelmente le azioni. L’opera diventa un processo verbale e niente altro; non ha che il pregio dell’osservazione esatta, della penetrazione più o meno profonda, dell’analisi, del collegamento logico dei fatti”. Il suspense Zola, Il senso del reale (1878): “Certo il romanziere [naturalista] ricorre ancora all’invenzione; inventa una trama, un dramma; ma si tratta di un pezzetto di dramma, la prima storia che gli capita e che la vita quotidiana gli offre continuamente. Poi nell’economia dell’opera, ciò ha un’importanza assai esigua. I fatti vi compaiono solo come sviluppo logico dei personaggi. Il problema consiste nel costruire creature vive che rappresentano davanti ai lettori la commedia umana con più naturalezza possibile. Tutti gli sforzi dello scrittore tendono a nascondere l’immaginario sotto il reale” (214). Il suspense R.L. Stevenson, A Gossip on Romance (A proposito del romance, 1882): “Oggigiorno gli inglesi hanno la tendenza, e non ne so il perché, a guardare dall’alto in basso le trame dense d’incidenti e a riservare la loro estatica ammirazione per il tintinnio dei cucchiaini da tè e i sommessi accenti del curato. Si considera “intelligente” un romanzo purché non abbia alcuna trama, o se proprio deve concedersela ne offra una noiosissima”. Il suspense S. Chatman, Storia e discorso: La struttura narrativa nel romanzo e nel film (1978): Distingue tra sorpresa e suspense Sorpresa: Avvenimento improvviso, inaspettato, che però ha un carattere effimero; è un effetto che si consuma rapidamente; • Suspense: Fenomeno più complesso, basato su uno stato di apprensione e di tensione del lettore che viene mantenuto, che viene alimentato, a prescindere dall’esito previsto o prevedibile dell’avvenimento. Il suspense S. Chatman, Storia e discorso: La struttura narrativa nel romanzo e nel film (1978): “Suspense e sorpresa sono termini complementari, non contraddittori. Entrambi possono funzionare insieme nelle narrazioni in modi complessi: una concatenazione di eventi può avere inizio con una sorpresa, trasformarsi in un intreccio di suspense e poi terminare con un capovolgimento, vale a dire eludendo le attese – un’altra sorpresa. Grandi speranze ne fornisce esempi classici; il suo intreccio è una vera e propria associazione suspensesorpresa. [...] Seguiamone un poco il filo”. Il suspense “La sorpresa iniziale è lo shock che Pip ha quando Magwitch lo agguanta all’improvviso nel cimitero; l’episodio conduce a un crescendo di suspense provocato dal furto del cibo e della lima [...]. Il suspense è in parte alleviato dalla consegna a Magwitch. Pip non deve più temere per la sua pelle. Ma il lettore avverte un doppio suspense, la paura di Pip stesso, e la previsione di guai di cui Pip non è ancora a conoscenza. Pip prende quello che gli viene a mano [...]. Un pasticcio di maiale desta particolarmente l’attenzione: il pasticcio è destinato al pranzo di Natale e noi temiamo per Pip una nuova ondata di avvenimenti”. Il suspense “Il sospetto si rivela esatto: dopo il budino [...], la sorella annuncia il pasticcio di maiale. Il suspense che abbiamo provato è ora giustificato, ma per Pip l’effetto è di sorpresa [...]. La sorpresa di Pip si muta in un suspense insopportabile: “Abbandonai la gamba del tavolo e fuggi con quanta forza avevo”. Solo per essere fermato da una nuova sopresa: i soldati alla porta. A questo punto il capitolo finisce. [...]” (59-60). Il suspense Roland Barthes, Maschile, femminile, neutro (1970): Mette l’accento sulla struttura fondamentalmente “interrogativa” della narrazione, che si basa su una domanda (o su una serie di domande) a cui la storia – con il suo sviluppo – deve fornire una risposta; E su questa base, propone una distinzione tra quattro tipologie di domande: Il suspense Roland Barthes, Maschile, femminile, neutro (1970): “Il “suspense” [...] si lega in modo evidente alla domanda: una domanda vitale la cui risposta, incerta, tarda in maniera particolare. Ogni racconto, a quanto pare, comporta fondamentalmente una domanda. Si possono ricondurre i racconti classici della letteratura occidentale, per quanto semplificate siano le sue strutture, a quattro domande principali, a quattro tipi di “suspense”: due suspense d’essere e due suspense di fare. Secondo il primo tipo di suspense, il racconto assolve la funzione di ritardare e di rispondere alla domanda Chi? (Chi ha fatto questo? Chi è in realtà questo personaggio? ecc.) [...]” Il suspense “Il secondo tipo di suspense è più raro: il problema non è quello di identificare il nome proprio dello sconosciuto, ma – se così possiamo dire – il suo nome di specie, il suo nome comune: Chi diviene Che cosa? Che cos’è? [...] Il terzo tipo è il più banale e fornisce il modello di tutti i racconti “drammatici”: la domanda riguarda l’esito dell’azione intrapresa: andrà a finire bene o male? Chi vincerà? [...] Per finire ci sono dei racconti la cui conclusione è conosciuta dal lettore fin dall’inizio e la cui struttura è non di meno sospensiva: la domanda verte allora sul modo in cui l’esito sarà raggiunto. A quest’ultimo suspense appartengono tanto la tragedia, fondata sulla molla dell’ineluttabilità, quanto quel tipo di racconto di cui si sa in anticipo il risultato, per poi risalire alle origini, secondo il procedimento del flash-back” (21-22). Il suspense Roland Barthes, S/Z (1970): “La dinamica del testo [...] è paradossale: è una dinamica statica: il problema è quello di mantenere l’enigma nel vuoto iniziale della sua risposta; laddove le frasi fingono lo “svolgimento” della storia e non possono impedirsi di portare, spostare questa storia, il codice ermeneutico esercita un’azione contraria: deve disporre nel flusso del discorso dei ritardi (zig-zag, fermate, deviazioni); la sua struttura è essenzialmente reattiva gaicché oppone all’avanzata ineluttabile del linguaggio un gioco scaglionato di fermate: costituisce, tra la domanda e la risposta, tutto uno spazio dilatorio, il cui emblema potrebbe essere la “reticenza”, quella figura retorica che interrompe la frase, la sospende e la devia [...]”. Il suspense “Donde, nel codice ermeneutico, comparativamente ai suoi termini estremi (la domanda e la risposta) l’abbondanza dei morfemi dilatori: l’inganno, o esca (sorta di deviazione deliberata della verità), l’equivoco (misto di verità e d’inganno che, molto spesso, delimitando l’enigma, contribuisce a infittirlo), la risposta parziale (che non fa altro che acuire l’attesa della verità), la risposta sospesa (arresto afasico dello svelamento), e il blocco (constatazione di insolubilità)” (72).