IL FUTURO DEL TERZO SETTORE NEI SERVIZI ALLE PERSONE Seminario di Malosco (TN) 28 giugno-1 luglio 2009 EVOLUZIONE DEL TERZO SETTORE E VALORE AGGIUNTO SPECIFICO DELLE ORGANIZZAZIONI CHE REALIZZANO SERVIZI ALLA PERSONA a cura di Renato Frisanco - Fondazione Roma Terzo Settore I. L’EVOLUZIONE DEL TERZO SETTORE IN ITALIA E IL CONTESTO NORMATIVO 1.1) Il Terzo settore - denominato anche „terzo sistema‟, „economia civile‟, „terza dimensione‟ „privato sociale‟ o genericamente „nonprofit‟ - costituisce una galassia quantitativamente rilevante e piuttosto differenziata al suo interno per tipi e forme giuridiche diverse1. Esse hanno in comune il fatto di essere organizzazioni private che operano senza scopo di lucro per realizzare una finalità di utilità sociale o prettamente solidaristica, in vari settori di intervento. Esse concorrono a promuovere la partecipazione diretta dei cittadini, ad ampliarne le specifiche attività, a produrre servizi e a redistribuire risorse. 1.2) Negli ultimi 30 anni si è assistito nel nostro Paese alla crescita di diverse organizzazioni della società civile, talvolta tumultuosa e connessa ad un cambiamento significativo nel rapporto tra Stato e cittadini, questi ultimi sempre più in grado di partecipare, di organizzarsi per rispondere ai bisogni e occuparsi dell‟«interesse generale»2. Soprattutto a partire dagli anni ‟80, i cittadini sono stati parte attiva delle politiche sociali e sanitarie, sempre più in grado di porsi i problemi della salute, della prevenzione e del benessere psico-fisico, ma anche di tutelare i bisogni che nel nostro sistema di Welfare, fortemente sbilanciato sui trasferimenti monetari e povero di servizi, non venivano sufficientemente considerati e soddisfatti. In pratica lo sviluppo della società civile fa seguito al superamento del sistema diadico, costituito dal Mercato e dallo Stato e alla crisi di legittimità del Welfare State, non in grado di soddisfare tutti i bisogni e le istanze emergenti di una società più articolata e moderna. In questo nuovo scenario si è assistito ad un processo - presente in tutti i sistemi europei - di emersione o riproposizione di forme organizzative e giuridiche promosse dalla società civile. Alcune di esse esistevano già nel nostro Paese, ma con una diversa consapevolezza circa il proprio ruolo politico e culturale, come il volontariato e l‟associazionismo. I processi di innovazione sociale che si sono determinati sulla base della 1Tale galassia non è stata ancora inquadrata da un punto di vista giuridico se non nelle sue singole componenti. La nostra legislazione è infatti a “canne d‟organo” avendo disciplinato le singole forme organizzative: le ONG (L. 49/1987), le cooperative sociali (L. 381/1991), le OdV (L. 266/1991), le fondazioni ex-bancarie (L. 461/1998), le associazioni di promozione sociale (L. 383/2000), le IPAB (Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza), con la legge 328/2000, che ha ridotto significativamente il numero di unità che mantengono la natura giuridica privata. Anche i patronati, che possono essere assimilabili al Terzo settore, sono stati recentemente rivisitati dalla L. 152/2001. Infine, due forme giuridiche come i Comitati e le Fondazioni di origine non bancaria, sono regolate dal codice civile. 2 Una società civile più ricca e differenziata, e quindi complessa, in ragione della crescita dei ceti medi con forte spinta partecipativa che ha prodotto l‟emersione o riproposizione di forme organizzative e giuridiche finalizzate a produrre beni e servizi di utilità sociale. 1 spinta partecipativa dei cittadini si sono tradotti in alcuni casi in innovazione organizzativa, come attesta la nascita della forma giuridica di cooperativa di solidarietà sociale, poi definita cooperativa sociale. 1.3) In parallelo allo sviluppo del terzo settore si è assistito ad una progressiva trasformazione/rifondazione del sistema di Welfare. Dal Welfare State ad un sistema a responsabilità plurima - cosiddetto Welfare mix solidaristico - che trova a livello locale la sua legittimazione e il suo sviluppo, con il contributo delle formazioni dei cittadini non solo in qualità di gestori di servizi e di promotori della domanda sociale ma anche partner delle istituzioni locali nella elaborazione delle politiche sociali. Il nuovo sistema di Welfare permette di passare dalla separatezza delle risposte fornite dai vari attori ad un unico sistema di protezione sociale con la collaborazione di tutti. Nessun soggetto o servizio può esaurire da solo le risposte ai bisogni dei cittadini, che non solo tecniche ma anche di senso, relazionali, a valore aggiunto di integrazione. Nell‟ottica del welfare mix, “per il quale esiste una pluralità di attori sociali, legittimati a creare beni relazionali, servizi, ambienti”3 si va sempre più verso una gestione indiretta dei servizi, affidati a terzi (processo di depubblicizzazione e non solo di esternalizzazione). 1.4) Questo processo di trasformazione è irreversibile, sia per i limiti dell’intervento pubblico che per i meriti del privato sociale. Guardando infatti all‟evoluzione del terzo settore, soprattutto negli anni „80, si può dire che il principale contributo che esso ha dato all‟evoluzione del nostro sistema di welfare è stato quello di aver fatto emergere i bisogni diffusi (soprattutto delle categorie più svantaggiate), cioè di aver reso visibile la domanda latente di servizi e di aver dimostrato che a questa domanda si può far fronte attraverso servizi meglio che non attraverso incrementi di trasferimenti, e che in questa produzione possono essere coinvolte anche risorse umane e finanziarie private. Le ragioni del successo del Terzo settore non sono solo contingenti e legate alla necessità di far fronte alle carenze del sistema pubblico, ma sono anche strutturali e culturali e rispondono ad un‟assunzione di responsabilità delle comunità locali in ordine alla creazione di beni e servizi di utilità sociale. Oggi si può affermare che il nonprofit si configura un settore “altro”, soprattutto perché è un modo di organizzare relazioni fiduciarie, tra cui anche relazioni economicamente rilevanti con la produzione di servizi4. Le OTS inoltre giocano un ruolo centrale in virtù di alcune loro caratteristiche: - l‟impegno e la dedizione alla comunità di cui esprimo i valori e definiscono i problemi a cui vogliono trovare soluzione; - la capacità di mobilitare le risorse presenti nella comunità lavorando con essa piuttosto che per conto di essa; - la conoscenza dei bisogni locali e la capacità di risposta che viene dal radicamento e dalla flessibilità organizzativa e gestionale tipica di gruppi mediamente piccoli e coesi; - la forte potenzialità nella creazione di reti e di connessioni con gli altri soggetti attivi del territorio. Cfr. di M.Ingrosso, Le comunità locali come promotori di benessere, in Il lavoro di comunità, 1996, Edizioni Gruppo Abele, Quaderni di animazione e formazione, p. 61. 4 Cfr., al riguardo, Donati P. 1996 (vedi bibliografia) che individua la specificità del terzo settore nella produzione di “beni relazionali” e nella capacità di promuovere un orientamento culturale volto al miglioramento delle relazioni umane e della convivenza sociale improntata alla solidarietà. 3 2 1.5) Lo sviluppo impetuoso del nonprofit, si accompagna infatti gradualmente in Italia ad un orientamento che attribuisce al Terzo settore, nelle sue varie componenti, un ruolo decisivo nella realizzazione del sistema di Welfare5. Gli anni ‟90 presentano grandi novità legislative finalizzate a regolamentare il rapporto delle istituzioni pubbliche con le organizzazioni di volontariato, le cooperative sociali e le associazioni di promozione sociale riconoscendo pertanto ad organizzazioni con statuto giuridico non pubblico la possibilità di gestire i servizi sociali. Importanti sono poi le leggi che determinano profondi cambiamenti nel rapporto tra Stato e autonomie locali e tra autonomie locali e cittadini con le loro organizzazioni.6 Si configura un nuovo sistema politico-organizzativo (dalla eleggibilità diretta dei sindaci alla riforma della Costituzione) e di Welfare, del quale i principi cardine sono la dislocazione delle competenze e delle decisioni di spesa verso il territorio e la concezione di un sistema integrato di servizi e interventi a cui concorrono tutti gli attori di un territorio. Sono le leggi che riformano le competenze istituzionali sulla base del principio della sussidiarietà verticale e orizzontale. Nella sanità l‟orientamento a considerare le organizzazioni dei cittadini e degli utenti una risorsa - dopo la L. 833/1978 - è stato ribadito e legittimato con il Decreto L.vo 502/92 che prevede forme di partecipazione nella tutela del diritto alla salute alla programmazione, al controllo e alla valutazione dei servizi sanitari a livello regionale, aziendale e distrettuale. Tale impostazione è stata confermata con il D.Lgs n. 229/‟99 (“Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale”) laddove promuove con l‟integrazione socio-sanitaria, la qualificazione del sistema dei produttori, coinvolgendo anche i cittadini e le associazioni di utenti nei processi di valutazione. Quindi si riconosce l‟importanza della partecipazione dei cittadini alla definizione delle scelte e alla verifica dei risultati della sanità pubblica. Nel sociale la L. 285/‟977 per prima ha aperto la possibilità alle forze del terzo settore di partecipare alla progettazione integrata aprendo laboratori di coprogettazione con gli Enti locali in modo diffuso nel Paese. Di grande potenzialità nello sviluppo di rapporti sinergici tra i due soggetti - ente pubblico e terzo settore - è la L. 328 che riforma il sistema di sicurezza sociale nel segno della sussidiarietà e dell‟integrazione dei servizi sociali legittimando i bisogni sociali e rendendoli esigibili. Essa va nella direzione della corresponsabilizzazione delle forze del volontariato e del terzo settore in tutti i momenti decisionali, soprattutto locali, inerenti le politiche sociali. E‟ questa l‟affermazione indiscutibile della pari dignità delle organizzazioni della società civile chiamate ad essere partner degli enti pubblici. La sua rilevanza attuativa risiede negli adempimenti regionali (nella prospettiva dello Stato Federale) e La copiosa legislazione di cui si è dato conto nella nota n. 1 rappresenta un processo di regolazione istituzionale finalizzato a conferire i riconoscimenti giuridici necessari alle organizzazioni nonprofit per poter svolgere attività di servizio, per attribuire loro alcuni benefici fiscali, per individuare con maggior precisione le forme e i canali del sostegno finanziario (dello Stato e non solo). 6 Il processo di riforma avviato nel 1990 con la legge 142 (ordinamento delle autonomie locali) e la L. 241/90 (meglio conosciuta come legge sulla trasparenza) ha trovato compimento, prima, con il “pacchetto” di leggi Bassanini (L. 59/1997, legge delega per il conferimento di funzioni alle Regioni e agli Enti locali, L. 127/‟97 che traduce i principi della legge n. 59 e li articola nel comparto Regioni-EE.LL.; D.Lgs 112/‟98 con il quale vengono trasferite le funzioni dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali) poi, con la riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3/2001). 7 Legge 28 agosto 1997, n. 285, "Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza". 5 3 nell‟importanza accordata alla programmazione locale per cui il Piano di Zona diviene lo strumento di programmazione che si realizza con la collaborazione concertata di tutti i soggetti attivi del territorio. Una sfida epocale per entrambi i soggetti, per il pubblico, che deve valorizzare l‟apporto specifico del volontariato nella sua capacità di leggere i bisogni del territorio e dei cittadini e nell‟interpretare la domanda e per il terzo settore che, oltre ad essere ispirato dai suoi tradizionali valori, è chiamato ad essere partner competente in grado di svolgere una funzione pubblica diretta, di esercitare un „ruolo politico‟. Ciò richiede competenze e strumenti di governo oltre che di gestione (dalla capacità di analizzare i bisogni e di indicare soluzioni, alla programmazione e progettazione dei servizi, al monitoraggio e valutazione degli esiti, ai controlli della spesa..). Infine, l‟art. 118, ultimo comma della riforma del Titolo V della Costituzione8, rinforza e ribadisce ulteriormente, dopo la L. 266, l‟importanza dell‟azione dei cittadini singoli e organizzati. Esso afferma sostanzialmente che il perseguimento dell‟«interesse generale» non è di esclusiva competenza delle istituzioni pubbliche, ma riguarda anche l‟azione dei cittadini. Lo Stato, nelle sue articolazioni, non solo riconosce questa sfera di autonomia e le realtà organizzative che nascono dall‟iniziativa dei cittadini, ma le aiuta ad esprimersi, potendo così realizzare meglio le proprie finalità pubbliche. È questa la legittimazione assoluta e definitiva dell‟apporto originale e autonomo dei cittadini alla costruzione di un Welfare mix vicino alla vita e al destino delle persone. E‟ evidente che la sussidiarietà viene esaltata dalla profonda ridefinizione dello Stato sociale in atto in cui l‟ente pubblico è titolare di una funzione eminentemente programmatoria, propulsiva dell‟iniziativa e della responsabilità dei cittadini, delle forze sociali ed economiche, nonché una funzione di verifica dei risultati. 1.6) Con la gestione indiretta dei servizi, affidati a terzi (processo di depubblicizzazione) e la definizione di nuove regole di rapporto e contrattazione per l‟affidamento dei servizi di interesse pubblico vi sono le premesse per una più chiara distinzione tra i diversi attori di terzo settore e quindi per una attribuzione di ruoli e funzioni più congeniale alla specifica vocazione di ciascuna realtà di terzo settore: tra chi rileva i problemi, denuncia, propone, organizza i cittadini, sperimenta in proprio e valuta gli esiti dei servizi e delle politiche sociali (volontariato), chi promuove la partecipazione a cominciare dai soggetti “deboli” (associazionismo di promozione sociale), chi gestisce i servizi più strutturati (cooperative sociali e le imprese sociali di fatto), chi finanzia esperienze innovative ed emulative e redistribuisce le risorse (fondazioni). Dal punto di vista delle istituzioni vi è il problema di valorizzare il contributo di tutte le forze del terzo settore per le loro specificità e di garantirne la reale rappresentatività dentro gli organismi decisionali sollecitandone al massimo la funzione critica e costruttiva. 1.7) La disamina delle funzioni del Terzo settore mette in evidenza l‟evoluzione del fenomeno dalla tradizione alla modernità. All‟origine vi è la necessità espressa dal volontariato di fare tutela e promozione dei diritti e tale esercizio ha aperto la strada all‟innovazione operativa e dei modelli organizzativi; così il consolidamento dei nuovi “Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà”. 8 4 servizi ha richiesto entità con una strutturata capacità gestionale, mentre il sostegno ai laboratori del sociale ha esaltato la diffusione di agenzie distributive di risorse. Alle più tipiche funzioni del Terzo settore si affiancano oggi altre più moderne, come la consapevolezza di costituire un attore partecipe della governance nel nuovo assetto di Welfare plurale, la valenza economica ed occupazionale per l‟accresciuto ruolo gestionale, nonché la diffusione di una cultura della cittadinanza attiva a partire dalla valorizzazione del capitale sociale e del valore della solidarietà9. Si nota altresì una dinamica di trasformazione interna al fenomeno per cui le realtà tendono a “cambiare passo” o “pelle organizzativa” con la crescita della propria capacità operativa e del ruolo assunto nella gestione di servizi di rilevanza pubblica, come nel caso del passaggio da organizzazione di volontariato10 a impresa sociale, oggi agevolata dai decreti attuativi della L. 118/2005. La qualificazione in senso aziendale e quindi il passaggio da OdV a impresa sociale non è né l‟evoluzione naturale del volontariato né un male per il terzo settore, anzi essa si muove nella direzione del suo complessivo sviluppo11. Nei casi delle organizzazioni nonprofit più meritorie si evidenzia nel corso della loro storia un‟evoluzione “obbligata” verso il doppio ruolo nel sistema di welfare. Infatti molte organizzazioni nascono e si affermano negli anni ‟70 e ‟80 perché affrontano un‟area di bisogno o di disagio “scoperta” nella programmazione pubblica dei servizi. E quindi all‟inizio la loro funzione è necessariamente “sostitutiva” di una competenza pubblica non ancora esercitata. Ciò anche in relazione all‟emergere virulento di fenomeni nuovi di disagio come è stata, la tossicodipendenza negli anni ‟70, l‟AIDS e l‟Alzheimer negli anni ‟80, l‟immigrazione e i fenomeni di abuso su donne e minori (di cui si ha consapevolezza) negli anni ‟90. Queste organizzazioni hanno fin dall‟inizio consapevolezza di svolgere una funzione di anticipazione in termini di proposta e di sperimentazione di soluzioni e di servizi necessari, ma non ancora esistenti, che sulla base del buon esito vengono poi prospettati alle istituzioni pubbliche affinché siano messi a sistema. Successivamente alla sperimentata validità dei servizi attuati vi è per lo più l‟assunzione degli stessi nella programmazione pubblica attraverso l‟istituto della convenzione, per cui vengono a far parte del sistema dell‟offerta disponibile per la popolazione. Tale processo però è avvenuto parallelamente alla dismissione della funzione gestionale da parte degli enti pubblici locali che hanno fatto proprie le politiche di esternalizzazione dei servizi, pur dovendo garantire la capacità complessiva di risposta ai bisogni, come previsto nel nuovo assetto di welfare. Ciò ha comportato la necessità da parte delle organizzazioni del privato-sociale di rafforzare la parte gestionale, diventando di fatto delle imprese sociali e non più solo dei laboratori sperimentali di innovazione di processo (nuove modalità operative) e di prodotto (nuovi Per il volontariato è questa una funzione tipica e connaturata con la propria testimonianza di valore. Pur senza perdere la strutturazione di base volontaristica. 11 Il volontariato ha assunto storicamente il ruolo di generatore di non poche organizzazioni del terzo settore (ad esempio, le prime cooperative sociali così come parte delle attuali associazioni di promozione sociale) per cui nel DNA di molte di esse vi è la filosofia, l'ispirazione e la tensione del volontariato, soprattutto se si avvalgono del contributo valoriale e fattivo di una quota di volontari. Vi è però oggi la necessità per il volontariato di riconoscersi e di distinguersi nella ricchezza, articolazione ed eterogeneità del Terzo settore di cui è oggi solo una delle componenti. Contrastando un duplice rischio che è, da una parte, quello della sua banalizzazione e generalizzazione (“tutto è volontariato”), in quanto confuso con qualsiasi soggetto che produce utilità sociale o filantropia, e dall‟altra, quello di una visione minimalista della sua attuale funzione e presenza, considerato il massimo risalto attribuito all‟economia civile e all‟impresa sociale 11 nel mercato sociale dei beni e servizi. 9 10 5 servizi), basandosi solo o prevalentemente sul volontariato. In alcuni casi esse hanno cercato di alleggerire tale funzione gestionale, sempre più complessa in relazione alla capacità di differenziare le risposte e di intervenire su nuovi bisogni o su portatori di bisogni affini a quelli di origine, promuovendo appositi “bracci operativi” o unità collaterali che prendessero in carico il servizio dopo la necessaria sperimentazione. L‟originaria funzione di tutela dei bisogni di assistenza e di promozione sociale di queste organizzazioni si associa, dopo qualche anno, ad una funzione che diventa anche necessariamente gestionale e, una volta riconosciuta e apprezzata dal Pubblico, sia pure con delle difficoltà e delle inerzie, viene loro delegata12. Pertanto a partire da un ruolo anticipatore e sostitutivo pro-tempore le organizzazioni del sociale si sono orientate o sono state sempre più spinte ad aggiungere una capacità operativa permanente, ampliando i loro organici e cambiando veste organizzativa: da piccolo gruppo di volontariato nella fase di start up a “impresa sociale” di fatto nella fase matura di oggi. Se questo non è avvenuto è stato per la scelta di esternalizzare la funzione gestionale, rimanendo una realtà agile per numero di associati e collaboratori. In altri casi l‟organizzazione che si è complessificata al suo interno ha sentito il bisogno di differenziarsi in più componenti, quella del Volontariato, quella di ONLUS gestionale e/o di cooperativa sociale, assumendo una fisionomia configurabile nella figura “okapi”, con sembianze diverse: tanto che alcuni responsabili dichiarano “anomale” le loro organizzazioni e testimoniano del ripensamento in atto nella loro compagine circa la veste organizzativa-giuridica, pur nella difficoltà ad orientarsi nell‟attuale legislazione italiana a “canne d‟organo”. Ipotesi diverse vengono ventilate da alcune organizzazioni, come quella di assumere la veste di fondazione o quella di comprendere le diverse anime nell‟“impresa sociale”, con riferimento alla L. 118/2005. 1.8) Se all‟origine della crescita esponenziale del terzo settore vi è una società civile protagonista di nuovi processi di partecipazione in concomitanza con quelli di modernizzazione delle politiche sociali negli ultimi anni il quadro presenta aspetti di criticità evidenti. Il terzo settore nella sua prima fase è fondamentalmente espressione di esperienze di tipo partecipativo in una società segnata da una ventata di cambiamento come lo è stata dalla seconda metà degli anni ‟70 alla fine degli anni ‟80. Tali esperienze si sono concretizzate in apposite organizzazioni che hanno ricevuto un riconoscimento con specifiche leggi per la gestione di servizi sociali inseriti nella programmazione pubblica, anche con funzioni di innovazione e di progettualità autonoma, nonché per la partecipazione alle decisioni di politica sociale (L. 328/00). Tuttavia con il nuovo secolo cambia lo scenario politico e culturale, meno favorevole per il riflusso delle culture dell‟inclusione sociale, la tendenziale privatizzazione e marginalizzazione dell‟impegno pubblico nelle politiche sociali il relativo ridimensionamento delle risorse ad esse finalizzate dallo Stato13. La partecipazione si 12 In ogni caso appare evidente la funzione di “apripista” rispetto a servizi che poi sono divenuti prototipi e quindi assunti anche nominalmente dentro la programmazione pubblica. Si pensi alle comunità per minori sperimentate da Comunità Nuova intorno alla metà degli anni ‟70, ai centri antiviolenza e alle case rifugio per donne abusate (l‟esperienza bolognese della Casa delle Donne) così come lo è stato per le comunità terapeutiche (La Strada di Bolzano), per citare solo le unità esaminate ma altre hanno fatto scuola al riguardo, come il Gruppo Abele di Torino o la Comunità di S. Egidio a Roma. Ciò ha avuto effetti importanti sul terzo settore nel frattempo cresciuto quantitativamente. Si pensi ad una competizione più forte tra i diversi soggetti erogatori e ai ritardi cronici nel pagamento dei corrispettivi 13 6 esprime più sul piano organizzativo che su quello politico. La crescita del nonprofit continua attratta dagli incentivi della esternalizzazione dei servizi pubblici, dalle agevolazioni fiscali così come dalle politiche attive del lavoro (nel caso delle cooperative). Il Terzo settore diviene un giacimento occupazionale non tanto per le categorie svantaggiate quanto per le fasce di lavoratori che non riescono più ad accedere al settore pubblico. Le culture della solidarietà tendono a ridimensionarsi e a frantumarsi, mentre aumenta la competizione tra i soggetti gestori del terzo settore per assicurarsi le risorse economiche disponibili per lo sviluppo dei processi di privatizzazione. Il terzo settore, sempre più dipendente dalle politiche e dalle risorse pubbliche, tende così a istituzionalizzarsi, a perdere forza di negoziazione a tutti i livelli di rappresentanza e quindi di incisività e capacità di produrre cambiamento. Le difficoltà di attuazione della L. 328 dopo la riforma del titolo V della costituzione prefigura la realizzazione di diversi sistemi di welfare regionali e una scarsa incisività di ruolo politico-decisionale delle forze frantumate del terzo settore. La scarsità di finanziamenti e la maggiore competizione per questi tra le diverse organizzazioni del terzo settore presenti su uno stesso territorio determina spesso un investimento di tempo e di energie per la ricerca di finanziamenti al fine di garantire la sopravvivenza organizzativa sottraendo in tal modo energie, tempo ed attenzione alla mission e alla ricerca di strategie e approcci per conseguire i propri obiettivi operativi e rispondere ai bisogni dell‟utenza. In tal modo il rischio che il terzo settore perda la sua specificità esiste nella misura in cui più che soggetto prevalentemente portatore di innovazione o di partecipazione sociale finisce per essere un “sostituto funzionale dell’ente pubblico” per i più bassi costi e la maggiore flessibilità d’uso”14. per le attività prestate su base convenzionale che permette solo alle organizzazioni più grandi e con servizi differenziati e buona reputazione sociale di mantenere le proprie performance. 14 Cfr., di Borzaga C. e Fazzi L., Introduzione, in „Impresa Sociale‟ nuova serie n° 1 anno 2004. 7 2. “VALORE AGGIUNTO” SPECIFICO DEL TERZO SETTORE NELLA REALIZZAZIONE DEI SERVIZI ALLA PERSONA Quale è la specificità del terzo settore che opera nell‟ambito dei servizi alla persona? Alcuni studi condotti nel nostro Paese segnalano in modo emblematico il “dover essere e il dover fare” delle organizzazioni del terzo settore che vogliono operare in funzione dell‟«interesse generale», con una visione precisa dei problemi e del ruolo da assumere nel sistema di welfare e con una missione specifica che, a partire da un‟analisi dei bisogni, propone, sperimenta e realizza dei servizi. 2.1) Tensione ad un sociale etico, sulla base di alcuni comportamenti fondanti: a) il mantenimento nel tempo di un’esplicita funzione di advocacy: l‟aspetto della tutela dei diritti è inscindibile dall‟operatività e testimonia l‟originaria ragione di nascita di queste organizzazioni. Sono prassi comuni le azioni di lobbyng, di tutoring, di denuncia attraverso i mass media o di negoziazione ai Tavoli decisionali, ad esempio, sul diritto alla cura e sui livelli essenziali di trattamento delle persone in stato di sofferenza o di bisogno; b) l’affermazione di un vincolo etico rispetto alle opportunità del “mercato sociale” operando in funzione dei bisogni dei destinatari prima che dello sviluppo dell‟organizzazione o del dare lavoro a qualcuno, distinguendo quello che si può fare da quello che è giusto fare; se l‟organizzazione cresce non è perché rincorre il “business del sociale”, bensì i bisogni concreti degli utenti e le finalità statutarie. c) la presenza di una carta dei valori e/o dei servizi quali linee guida o di riferimento di tipo etico e operativo – quindi anche identitario – per i volontari e per gli operatori e, nei casi che implicano una specializzazione tecnica, anche un Comitato Scientifico. La condivisione di un riferimento valoriale e di una filosofia di azione orientata a terzi fa sì che il personale remunerato sia anch‟esso molto motivato e operi con spirito di volontariato; d) la tensione a lavorare sull’innovazione e a sperimentare risposte e servizi da realizzare poi in via permanente o da proporre alle istituzioni per la messa a sistema. Lavorare sull‟innovazione richiede attività di ricerca, aderenza ai bisogni e capacità di proposizione di progetti e iniziative nonché di connettersi con altre risorse, di fare rete o di lavorare in partnership; e) la valutazione sull’efficienza e sull’efficacia del servizio e dei progetti coinvolgendo tutto il personale e gli stessi fruitori dei servizi comunicando i risultati della propria azione mettendo in evidenza anche i fallimenti, gli obiettivi mancati15. Si tratta di sviluppare una cultura dell‟accontability che legittima realmente l‟organizzazione anche all‟esterno, per caratteristiche di trasparenza nell‟uso delle risorse e di rendicontazione dei risultati e delle modalità con cui essi vengono conseguiti; f) la valutazione dell‟impatto del proprio operato sulla cultura dell‟intervento e sulla comunità sulla base del principio che se si opera con la preoccupazione dell‟«interesse generale» non è sufficiente che un progetto o un‟attività sia efficiente ed efficace. Vi sono altri due aspetti degni di valutazione, in riferimento soprattutto all‟impatto esterno La sperimentazione sul campo di nuovi interventi o servizi, il rischiare in proprio per conto della comunità, significa provare delle strade che possono rivelarsi fallimentari e quindi verificare degli insuccessi. «Nel nostro mondo facciamo un lavoro difficile e registriamo anche dei fallimenti attraverso i quali cresciamo». La questione culturale risiede nella accettazione delle criticità, della loro non rimozione per riorientare l‟intervento in positivo. Quindi è importante che in fase di valutazione e di bilancio sociale l‟organizzazione sia in grado di confrontarsi con ciò che non funziona, in relazione alla mission di servizio agli altri e alle esigenze della comunità. 15 8 della propria attività e cioè che: - ciò che si fa produca anche un cambiamento nella cultura operativa, perché senza questo approccio culturale vi è il rischio di diventare semplici erogatori di servizi, soggetti delegati. Ad esempio, se per gli enti pubblici nella valutazione di un servizio per tossicodipendenti contano di più i numeri, i casi trattati e il loro contenimento farmacologico che non la cultura di intervento e le scelte etiche che legittimano le priorità di spesa16, per un‟organizzazione impegnata nel sociale, rispondere ai bisogni concreti dei propri utenti significa investire sulla riabilitazione piuttosto che sul mantenimento e quindi fare in modo che ciascuna persona torni ad avere un proprio progetto di vita da non dipendente. In un altro caso l‟associazione afferma che si può operare nei confronti dei rifugiati senza medicalizzarli e che si può rinunciare a convenzionarsi con il Pubblico - con la rinuncia a vantaggi quali la stabilità del servizio e la garanzia del finanziamento - pur di sottrarsi ad una logica di risposta separata e ghettizzante per gli immigrati clandestini. In tal modo l‟organizzazione nonprofit produce un cambiamento nella cultura operativa. . si sia in grado di sollecitare la comunità civile intorno al problema, in coerenza con la “pedagogia dei fatti”. In tal modo é chiara l‟intenzionalità di far convergere il fare con una funzione di animazione socio-culturale nei confronti delle comunità. Ciò può significare una consapevole azione di sensibilizzazione per rimuovere stereotipi e pregiudizi discriminatori nei confronti delle popolazioni più vulnerabili (immigrati, detenuti, tossicodipendenti). E‟ innovazione sociale anche riuscire a coinvolgere la comunità e in tal senso l‟animazione non può essere una quota residuale dell‟attività. 2.2) Mission e Identità: la continuità nel cambiamento. La mission è la ragione d‟essere dell‟organizzazione e ne esplicita lo scopo. È connotata perché è anche una scelta di campo. L‟organizzazione dice cosa vuole fare per chi e come, identificando un oggetto sociale per essa rilevante. La mission non è però statica e tiene conto dell‟evoluzione della società, del sistema di welfare e dei bisogni. Deve essere condivisa all‟interno e riconosciuta all‟esterno. Soprattutto le unità esaminate, nate nel “campo aperto” e largamente inesplorato del sociale in un‟epoca (anni ‟70 e ‟80) in cui il sociale era considerato marginale rispetto alle politiche di sviluppo di un territorio, rivelano una mission ampia nei contenuti, come appare dagli statuti. Tale mission viene in genere rivisitata nel corso del tempo, non tanto sui contenuti in relazione ai fenomeni nuovi, quanto piuttosto sugli aspetti di tipo tecnico-normativo che si rendono via via indispensabili per entrare nella nuova legislazione o per adattarsi a fenomeni nuovi. L‟identificazione con lo statuto è quasi sempre positiva da parte di chi opera nell‟Associazione e ne determina l‟identità specifica, soprattutto se è accompagnata da una tavola dei valori che dichiarano anche il senso e la direzione dell‟operare. Si nota solo qualche fatica in più da parte del personale che non è a contatto con l‟utenza a identificarvisi pienamente, soprattutto se l‟organizzazione affronta fenomeni nuovi o rivela cambiamenti a livello organizzativo. 2.3) Modello organizzativo agile e a responsabilità decentrata. Nel tempo il modello organizzativo è stato rivisto e si è modificato con il crescere dell‟organizzazione, Per un ente pubblico, può essere sufficiente operare sui tossicodipendenti con terapie di mantenimento, per stabilizzarli, mentre per una organizzazione eticamente orientata è importante soprattutto la promozione sociale di ogni persona con problemi di dipendenza. 16 9 articolandosi per settori e specializzazioni. Dalle fasi iniziali in cui «tutti fanno tutto» si passa ad un modello a responsabilità settoriale, ma auspicabilmente con molti gradi di libertà per i coordinatori sia nella proposta che nell‟attuazione degli interventi. Tale libertà è contemperata da verifiche puntuali, supervisioni, confronti periodici tra i responsabili. I leader di tali organizzazioni non tendono tanto a garantirsi un controllo centralistico quanto a delegare, a responsabilizzare e a far crescere i propri collaboratori di staff. In ogni caso gli organi di governo sono molto attivi e in grado di monitorare l‟andamento dei progetti e dei servizi. 2.4) Capacità di intercettare nuovi bisogni e di rispondere con interventi originali. La costante rilevazione dei bisogni attraverso la capacità di osservazione - che produce in alcuni casi una funzione specifica di “osservatorio” interno - l‟immersione nella realtà, il lavoro di strada, gli strumenti di rilevazione puntuali permettono alle organizzazioni di cogliere i bisogno allo stato nascente, di differenziare gli interventi per categorie di bisogni e per le nuove utenze. Ciò determina anche una pluralità di offerta di servizi: dal Poliambulatorio al camper per l‟intervento di medicina di strada, dall‟intervento domiciliare all‟Hospice, dalla comunità per minori al centro diurno e al centro di aggregazione, dalla realizzazione del bene casa e dell‟alfabetizzazione per gli immigrati agli inserimenti scolastici e lavorativi, anche in sintonia con la crescita delle esigenze dei gruppi di utenti in relazione al soddisfacimento dei bisogni più impellenti o materiali. 2.5) Riflessione sul proprio operato e la valutazione costante del raggiungimento degli obiettivi. Tale propensione si esplica con una dinamica fitta di riunioni, incontri dove si programma e si valuta. Vi sono anche strumenti programmati di valutazione. Talvolta viene inserito un esperto della qualità o insediato un gruppo specifico che vi lavora. Oppure vengono prodotti studi mirati sulla qualità o dei follow-up per riscontrare gli esiti dell‟attività condotta. La valutazione è altresì favorita dalla discreta programmazione per obiettivi e dalla generalizzata partecipazione ai bandi per progetto. Non sempre gli indicatori sono esplicitati e sistematizzati o in grado di fare un bilancio di missione, strumento-prodotto di gestione che deve essere considerata importante da tutti gli operatori come esercizio di riflessione su quello che si fa (e come lo si fa). L‟importanza di dotarsi di una funzione di studio, ricerca e/o formazione integrata permette a queste organizzazioni di situarsi nel processo circolare virtuoso di “azione, riflessione (e ricerca) e formazione”. L‟azione è quindi frutto di un agire consapevole (di chi stabilisce una meta dopo averne verificato opportunità e fattibilità) e non di un “fare” dettato invece da altri soggetti o dalle circostanze. 2.6) Formazione come leva strategica di sviluppo dell’organizzazione (e non solo). Le organizzazioni virtuose risultano attrezzate al riguardo con gruppi interni di addetti o con un‟apposita agenzia accreditata. La formazione, oltre a permettere di preparare i nuovi volontari da inserire nell‟organizzazione, è connessa con l‟aggiornamento continuo di tutti gli operatori, ma anche con una mission esterna: quella di formare personale esterno, volontario e non, capace di affrontare sul piano operativo le tematiche specifiche. La formazione può investire utilmente anche gli utenti e i loro familiari, i giovani del servizio civile e i tirocinanti, che operano nelle organizzazioni nonprofit considerate sedi formative per l‟apprendimento alla vita professionale. 2.7) Impegno nella promozione dell’azione solidale dei cittadini. Il lavoro delle organizzazioni al riguardo si basa su progetti - collaterali e integrativi rispetto alle attività 10 istituzionali - che reclutano la disponibilità alla donazione di tempo e su competenze che siano possibilmente alla portata di tutti, soprattutto dei giovani. Negli ultimi 10-15 anni si notano dei cambiamenti nelle caratteristiche socio-anagrafiche e motivazionali dei volontari. Se un tempo contava di più l‟adesione alla matrice culturale dell‟organizzazione, ai valori di appartenenza di tipo “totalizzante” o vincolante la propria identità (condivisione di “beni simbolici”), oggi vi è una più spiccata adesione agli obiettivi operativi, a quello cioè che l‟organizzazione fa in concreto (condivisione sulla realizzazione dei “beni reali”). A fronte del venir meno di un‟idea di “militanza” del volontariato che è molto più occasionale, limitata a fasi della vita o a periodi o a modalità più fluide di presenza, queste organizzazioni tendono a valorizzare, per taluni progetti, anche le forme episodiche e meno strutturate di volontariato. I volontari di oggi sono mediamente più giovani e quindi più istruiti e di genere prevalentemente femminile. La formazione all‟ingresso è più accurata ed esigente e funge da prima selezione. Operando nei campi del socio-sanitario le organizzazioni in questione, oltre alla motivazione, valutano la competenza e, soprattutto, la maturità delle persone che si candidano a fare volontariato. 2.8) Mix vincente tra volontari e professionisti del sociale. L‟esperienza di molte organizzazioni nonprofit impegnate nei servizi alla persona e più consolidate è caratterizzata dal passaggio dal volontariato del primo ciclo di vita all‟attuale “impresa sociale” di fatto, in ragione della necessità di operare con professionalità e continuità efficiente ed efficace e non più solo di fare advocacy e testimonianza. Tuttavia uno dei fattori vincenti nella capacità di sviluppo di tali organizzazioni è proprio la presenza di una quota importante di operatori volontari. E i passaggi critici risiedono proprio nel diverso peso che le due componenti, quella gratuita e quella remunerata hanno nel corso del tempo. Si tratta di un mix necessario per la garantire fedeltà alla mission originale e quindi promuovere l‟identità condivisa. È interessante che le due componenti insieme garantiscono la qualità superiore dell‟intervento e la relativa umanizzazione, evitando riduzionismi al tecnicismo professionale. I volontari possono assicurare all‟organizzazione alcuni aspetti valoriali (fedeltà ai valori fondativi, centratura sulla persona-utente, enfasi sulla relazione, aderenza ai bisogni, attenzione alla “prognosi sociale” dell‟utente e non solo alla semplice prestazione) oltre a fornire un contributo complementare a quello degli operatori remunerati. Entrambi beneficiano del mix in quanto i volontari possono meglio svolgere il loro contributo dentro un progetto scientificamente o metodologicamente impostato e gli operatori retribuiti possono apprezzare maggiormente il senso del loro agire ed essere “contaminati” dallo spirito del volontariato. In tutti i casi gli operatori remunerati, oltre alla competenza e alla maturità, dimostrano di avere una forte motivazione, tanto da rivendicare anche esplicitamente al riguardo un‟omologa identificazione all‟organizzazione rispetto ai volontari. Ciò attesta l‟assunto che il personale retribuito sceglie l‟organizzazione anche per una convinta adesione alla sua mission. 2.9) Centralità della persona come valore e come approccio operativo. Centralità della persona significa sostanzialmente, a seconda del campo di intervento dell‟organizzazione, avere una presa in carico globale e personalizzata o un progetto operativo da realizzare a partire dalla situazione e dalle potenzialità del soggetto. Significa, ad esempio, l‟adozione di un “piano assistenziale individuale” nei confronti del malato terminale o del tossicodipendente, con una risposta differenziata a seconda dei profili etnici dei giovani in carico o un approccio personalizzato rispetto ai detenuti i cui 11 bisogni generalmente complessi sono lo specchio dei «tanti disagi che si intrecciano». Anche l‟intervento deve quindi essere “olistico”, a 360° e qualificare il progetto di vita di una specifica persona. Nel modus operandi di queste associazioni l‟approccio alla persona si nutre anche dei valori a cui esse si ispirano come la “fratellanza”, la “prossimità” e la “condivisione” e quindi il rispetto della persona e della sua condizione senza pre-giudizi e atteggiamenti compassionevoli, lavorando “con” essa e non “per” essa e aiutandola nel conseguire una qualità della vita residua (se malato terminale) o un percorso verso la fuoriuscita dai bisogni conclamati o il recupero ad una vita sociale da protagonista della propria vita e di piena cittadinanza (“empowerment”). 2.10) Evoluzione della visione del sociale. Una prima visione del sociale riguarda il focus specifico dell‟intervento. Per una organizzazione che opera nel nonprofit lavorare nel sociale non significa solo lavorare sulla persona portatore del problema ma anche sul suo contesto. Ciò comporta un‟idea più organica e complessa delle politiche di Welfare17. Altro aspetto è una chiara intenzionalità promozionale dell‟intervento sociale, che significa avere una visione del sociale collegata al riconoscimento dei diritti delle persone-utenti e alla necessità di definire il livello essenziale di assistenza o di cura. L‟intento del servizio si coniuga pertanto con l‟attività di advocacy, come già richiamato. Il sociale è poi inteso non solo come intervento di recupero rispetto alle situazioni di disagio più o meno conclamato e spesso emergenziale, ma anche come profilassi del disagio e come promozione dell’agio. E‟ importante che vi sia un orientamento ad operare non solo nei luoghi “riservati” dell‟assistenza, ma soprattutto nelle strutture della normalità (famiglia, scuola, oratorio), aiutando gli adulti e i responsabili di tali luoghi ad avere competenze educative e di animazione. E quindi è evidente il tendenziale spostamento del baricentro dell‟operatività dalle strutture residenziali a quelle territoriali (centro diurno, assistenza domiciliare) e al lavoro di strada. Per lavorare sul contesto occorre connettersi con gli altri soggetti, stare in rete, in collegamento con le altre risorse del territorio. Ciò significa anche non duplicare servizi, evitare di fare ciò che altri già realizzano, ma semmai integrare l‟azione di altri soggetti. Le organizzazioni oggi virtuose mutuano una visione moderna delle politiche sociali, basata su di un welfare plurale e solidaristico piuttosto in linea con i principi di sussidiarietà e di integrazione delle risposte. Per cui non si considerano risorse sostitutive di un Pubblico delegante, bensì partner effettive. Corollario di tale visione integrata e concertata delle politiche sociali locali è la tendenza a pensare il welfare in termini sistemici, legando tutte le risposte (l'assistenza sociale, quella sanitaria, la formazione, il lavoro, la casa, lo sviluppo di capitale sociale) e tutti i soggetti (pubblico, privato sociale e non). 2.11) Spinta a generare nuove esperienze. Le organizzazioni più efficienti e virtuose hanno in comune una capacità generativa in quanto favoriscono la nascita di altre organizzazioni al loro interno e che divengono poi autonome. Oppure forniscono sostegno Se in passato, ad esempio, venivano fatti dei tentativi di collocare al lavoro i detenuti limitandosi a trovare l‟azienda disponibile, ora ogni inserimento lavorativo richiede un accompagnamento e un supporto complessivo. Se prima l‟intervento poteva essere limitato al carcere, ora assumono molta importanza i progetti predisposti all‟esterno con l‟obiettivo di raccordare carcere e territorio. 17 12 nei confronti di organizzazioni che sperimentano ed emulano in altri territori quanto da esse realizzato, senza un intento di “colonizzazione”, ma mettendosi al loro servizio e quindi trasferendo know-how. Sono in un certo senso degli incubatori di nuove compagini sociali. 3. ALCUNE PRIME PARZIALI IPOTESI DI MODIFICA DELLA NORMATIVA 1. Pensare ad un testo unico di legge sul terzo settore per definire bene le caratteristiche di appartenenza a questo universo e i requisiti di valore. Nel testo unico vi devono essere considerati anche i singoli profili organizzativi e giuridici delle OdV. 2. Occorre provvedere ad un testo normativo non solo regolamentare ma soprattutto promozionale nei confronti delle organizzazioni di terzo settore (OTS) per favorirne la capacità operativa, le iniziative autonome, la progettualità specifica. In pratica per facilitarne l‟azione sussidiaria fornendo incentivi economici, occasioni formative, bandi di progetti connessi con l‟elaborazione dei Piani di Zona, sedi e locali, specifici osservatori sui bisogni del territorio e di specifici gruppi di cittadini etc.. Altro capitolo spinoso è quello degli sgravi fiscali graduati a seconda della consistenza associativa e patrimoniale delle OTS e dell‟armonizzazione della pletorica, farraginosa e sovrapposizione di norme fiscali-tributarie per renderle eque e commisurate con la natura giuridica delle diverse OTS. 3. Si potrebbero abolire i registri regionali o provinciali così come sono congegnati ora e obbligare le OTS a dotarsi di strumenti di garanzia per i donatori privati (es. prescrivere la redazione di un bilancio di missione e a pubblicizzarlo) da incentivare con ulteriori riduzioni di aliquote fiscali o, come nel caso delle famiglie degli utenti non autosufficienti o cronici, prevedendo una totale deduzione delle spese per prestazioni di assistenza fornite dalle OTS. 4. Puntare sull‟accreditamento reale delle OTS come garanzia di idoneità operativa più che sull‟iscrizione in appositi registri (di fatto l‟idoneità da questi richiesta riguarda più i requisiti di appartenenza alla specifica figura giuridica). I proventi pubblici anziché finanziare l‟offerta finanziano la domanda, ovvero il portatore di bisogno attraverso un titolo di servizio o voucher. In tal modo la domanda potenziale diventa domanda effettiva. Ciò significa che gli Enti pubblici provvedono all‟accreditamento dei soggetti erogatori generando una competizione tra di essi che ha effetto sull‟abbattimento dei costi e sull‟aumento della qualità dei servizi. La competizione avviene sulla qualità e non sul prezzo per cui un erogatore avrà una quota di mercato superiore se la qualità dei suoi servizi è superiore. Tale meccanismo non dovrà valere per le organizzazioni di volontariato le quali potranno gestire servizi in convenzione, su rimborso o su specifico finanziamento di progetto, perché altrimenti si mettono in competizione con le altre OTS, più attrezzate per la realizzazione di servizi, per ridurre i costi di questi. 13